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Toghe rosse e camicie nere
Osservatorio Repressione - Friday, February 14, 2025Il Governo e la sua maggioranza accusano i magistrati di politicizzazione e proclamano la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. In realtà la separazione è già in atto e, con il termine politicizzazione, si indica, a ben guardare, l’indipendenza dei magistrati, mal tollerata dal potere. Il fatto più inquietante è che i discorsi sono molto simili a quelli di cent’anni fa. Mancano solo le camicie nere.
di Livio Pepino da Volere la Luna
I film Luce del Ventennio e dei primi anni Cinquanta – la voce del padrone mascherata da attualità politica in onda al cinema tra uno spettacolo e l’altro – erano un gioco da bambini. Oggi i video della presidente del Consiglio, trasmessi sostanzialmente a reti unificate, inondano i nostri pasti quotidiani di fake news, evocando complotti inenarrabili, affrontati – naturalmente – con schiena dritta in virile scontro con nemici da colpire inesorabilmente. Tra i nemici prediletti ci sono da tempo, in perfetta continuità con la stagione berlusconiana, i magistrati.
Lungi da me l’idea di una difesa acritica di questi ultimi, magari dettata da un’antica appartenenza alla corporazione (in verità cessata ormai da 15 anni). Al contrario sono assai critico nei confronti di molti orientamenti di una magistratura spesso forte solo con i deboli (i barbari, i marginali, i ribelli) e trovo stucchevoli, oltre che sbagliate, le affermazioni – in voga sino a qualche anno fa – tese a rivendicare una superiorità morale dei magistrati rispetto ai politici. Mi asterrei, dunque, dall’entrare in questa “singolar tenzone” se non fosse che, in essa, il conflitto tra magistratura e politica è, nonostante le apparenze, del tutto secondario. Ma quali sono, allora, le questioni sul tappeto? Conviene esaminarle a partire dalle affermazioni e dai progetti della maggioranza politica.
Il fulcro di tutto è il disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera lo sorso gennaio dedicato, a detta dei proponenti, alla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, cioè alla diversificazione dei percorsi professionali della magistratura giudicante e di quella requirente. Nulla da obiettare – almeno per me – su tale diversificazione, tesa ad evitare commistioni improprie e conseguenti lesioni dei diritti dell’imputato e, dunque, del tutto condivisibile e, almeno sul piano teorico, più corretta del modello organizzativo unitario. Ma – cosa non da poco – non è quello il contenuto del disegno di legge, nel quale nulla si dice sul collegamento tra giudici e pubblici ministeri. Né potrebbe essere altrimenti considerato che i due percorsi professionali sono già oggi nettamente separati, tanto che l’interscambio (possibile una sola volta nel corso della carriera, entro nove anni dalla prima assegnazione delle funzioni e con cambio di sede) è poco più di un caso di scuola che interessa, ogni anno, un’aliquota di magistrati inferiore all’uno per cento (https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri). A ben guardare, dunque, l’espressione “separazione delle carriere” si inserisce a pieno titolo nel vocabolario delle parole distorte usato dai regimi per rendere accettabile ciò che tale non è e la riforma costituzionale (che riguarda l’istituzione di due Consigli superiori, il sorteggio dei loro componenti magistrati e una inedita Corte di disciplina per i magistrati) rivela il suo ruolo di strumento per «creare un magistrato burocrate, di nuovo inserito in una gerarchia, intimorito dalla politica e dai superiori» (https://volerelaluna.it/commenti/2025/01/20/riformare-la-giustizia-o-scardinare-la-democrazia/) con una «regressione corporativa destinata a contraddire tutta la storia recente della magistratura, dalla seconda metà degli anni Sessanta sino ad oggi» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/03/separazione-delle-carriere-una-vecchia-etichetta-per-una-nuova-merce/). Non è un’illazione ma un fatto, risultante dalle stesse affermazioni dei suoi sostenitori, che invocano la riforma per evitare il ripetersi di alcuni casi definiti “scandalosi”, come le mancate convalide, da parte di tribunali e corti d’appello, dei trattenimenti di richiedenti asilo nei centri di detenzione albanesi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/11/15/migranti-paesi-sicuri-lo-scontro-e-tra-diritto-e-arbitrio/) e l’“incriminazione”, da parte del Procuratore della Repubblica di Roma, della presidente del Consiglio e di alcuni ministri per l’affare Almasri (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/02/03/il-caso-almasri-e-lidea-di-stato-della-destra/): casi che coinvolgono solo giudici, il primo, e solo pubblici ministeri, il secondo, e che non sarebbero in alcun modo toccati da una revisione dei rapporti tra le due categorie…
Analoghe considerazioni si impongono per il secondo leitmotiv della destra al governo: quello secondo cui “bisogna finirla con le toghe rosse politicizzate!”. Lo slogan è stato rispolverato con riferimento alla appena ricordata incriminazione della presidente del Consiglio da parte della Procura di Roma e alla parallela vicenda della presunta divulgazione di un documento destinato a restare segreto da parte dello stesso magistrato. Ma si tratta del più clamoroso degli autogol, posto che il procuratore di Roma è esattamente l’opposto di un barricadiero magistrato di sinistra e si riconosce nella corrente più conservatrice della magistratura (quella, per intenderci, di cui ha fatto parte fino a ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano) della quale è stato dirigente autorevole e nella cui lista è stato, in passato, eletto al Consiglio superiore. Dunque, se di scorrettezze si trattasse (ed è assai dubbio che sia così), esse dovrebbero essere riportate a categorie ben diverse dalla politicizzazione, come l’errore o a uno scontro tutto interno allo schieramento conservatore. Difficile, in ogni caso, non riandare con la memoria alla situazione, descritta da Piero Calamandrei, in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (risalente al 1935), del miliardario che, per sottrarre il figlio dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».
In realtà – non sembri un paradosso – la magistratura italiana di questo inizio di millennio è la meno politicizzata della storia nazionale: una storia che ha visto, nell’epoca liberale indicata come modello, una totale coincidenza tra classe politica di governo e magistratura, con continui passaggi dalle aule di giustizia a quelle parlamentari, e che si è sviluppata in perfetta coerenza fino agli anni Sessanta del secolo scorso (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/10/giudici-fascisti-cerchiobottisti/). A volte – con maggiore o minor frequenza – la magistratura sbaglia, ma quando lo fa, non è per una vocazione antigovernativa e quella che viene, impropriamente, chiamata “politicizzazione” è, a ben guardare, il suo opposto: l’indipendenza dalla politica, che può anche portare a momenti di collisione, come è fisiologico che sia nella vigenza del potere istituzionale diviso voluto dalla Costituzione (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/). Così il quadro si ribalta e diventa chiaro che – come ha scritto recentemente Sergio Labate – «la politicizzazione non è quel che il Governo teme ma quel che vuole» per liberarsi dai lacci delle regole e del controllo di legalità: sul piano interno e su quello internazionale, come le polemiche di questi giorni con la Corte penale internazionale dimostrano.
La storia si ripete. Il 10 giugno 1925, esattamente un secolo fa, il guardasigilli fascista Alfredo Rocco espose alla Camera il progetto del regime sulla giustizia affermando che «la magistratura non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista». Il seguito è noto. Nel dicembre dello stesso anno l’Associazione nazionale magistrati deliberò il proprio scioglimento per evitare di essere trasformata in un sindacato fascista. Quattro anni dopo, lo stesso Rocco affermò, con viva soddisfazione, che «lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Nel 1939, infine, i più alti magistrati del regno – come ricorda Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione».
Oggi manca la camicia nera, ma la sostanza non cambia. Il fascismo del nuovo millennio segue la stessa strada, talora addirittura con le stesse parole. Eppure c’è ancora qualcuno – molti – che contesta questa assimilazione e nega che sia in atto una torsione autoritaria dello Stato. Ma anche in questo la storia si ripete…
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