Per fortuna non so mai chi sono, ma per certo non godo quando gli anormali son
trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio
tutti gli zingari e gli intellettuali
di Marco Sommariva*
Giorni fa mi son trovato a disquisire con un amico su chi sono, oggi, i borghesi
e a chiedermi se facessi parte di questa schiera; lo spunto per la discussione
ci era stato dato da una scritta su un muro, tanto breve quanto solleticante, un
microscopico j’accuse: “Ti sei imborghesito!”
L’indomani, lo stesso amico mi ha segnalato un articolo pubblicato diversi anni
fa su Repubblica e, così, ripartendo da questo,ho provato a mettermi nuovamente
in discussione – questa volta da solo.
A inizio pezzo leggo: “Nel significato oggi più diffuso il borghese è un membro
di un ceto medio che va dai benestanti ai ceti impiegatizi e che comprende sia
gli industriali, i grandi professionisti, i livelli superiori del pubblico
impiego (la cosiddetta alta borghesia) sia una più vasta platea di persone che,
in condizioni più modeste, sono tuttavia fornite di qualche bene, di qualche
indipendenza, di qualche responsabilità anche se limitata, e di qualche
istruzione (la piccola borghesia)”.
Non so se il mio stipendio può essere considerato un bene e non so neppure se
l’indipendenza che questo stipendio mi garantisce si possa annoverare fra quelle
ipotizzate nell’articolo di Repubblica, ma di certo ho qualche responsabilità
“anche se limitata” – un ufficio in cui coordino, così dice l’organigramma
aziendale, due colleghi – e ho una “qualche istruzione”: sono uno di quei
tantissimi periti industriali che nei primi anni Ottanta sbandierava il “pezzo
di carta” che occorreva per provare a non replicare la vita di stenti dei
genitori che, “con tanti sacrifici”, ti avevano fatto studiare.
Possibile davvero io sia un piccolo borghese?
Proseguo la lettura: “Borghesi sono […] i ceti che si affermano nell’età moderna
come i più adatti a governare secondo ragione, scalzando – anche attraverso le
rivoluzioni – il potere tradizionale dei nobili e degli ecclesiastici […]”, e
qui non c’entro nulla: “scalzare chi governa” sì, “anche attraverso le
rivoluzioni” sì, ma non di certo per governare. Dài!, questa l’ho sfangata, ma
non so se riuscirò a passare l’esame dei miei libri, delle mie letture.
Per l’egoismo con cui custodisco i miei libri, e pure i miei dischi, mi sa che
Gustave Flaubert mi definirebbe borghese: “si divertiva a fabbricare
portasalviette: ne aveva riempito la casa, li conservava con la gelosia di un
artista e l’egoismo di un borghese” – Madame Bovary.
Ma André Malraux – sapendo di tutte le mie cause (perse) combattute fianco a
fianco coi più deboli, per i più deboli – mi difenderebbe: “La borghesia starà
col più forte. La conosco” – La condizione umana.
Non essendo spilorcio e arrogante, ed essendo spesso criticato per la troppa
sincerità, credo che anche Doris Lessing prenderebbe le mie parti: “Dio sa
quanto lei li odiava, i borghesi, così attaccati ai soldi, attenti a non
sprecare un centesimo, sempre con il pensiero fisso di mettere da parte, di
risparmiare […]”; e ancora “Alice sapeva che Muriel apparteneva all’alta
borghesia ed era per questo che non la poteva soffrire. Come in tutte le
rappresentanti della sua classe, ogni sua parola, ogni gesto, era implicitamente
arrogante”; e infine “non c’è mai una volta che manifestino quello che pensano
questi maledetti piccoli borghesi” – La brava terrorista.
E se fossi, invece, un borghese perché mangio troppo? “Come dicono i sandinisti,
era da tempo che avevo perso l’abitudine borghese di fare due pasti al giorno” –
Dead end blues di Hugues Pagan.
O forse lo sono perché, quando mi sposai, pensai anch’io – lo ammetto –
d’essermi sistemato e, per un po’, rinunciai alla vita reale? “noi due abbiamo
accettato quest’enorme illusione, perché di questo si tratta: l’idea che, una
volta messa su famiglia, la gente debba rinunciare alla vita reale e
“sistemarsi”. È la grande menzogna sentimentalistica piccolo borghese […]” –
Revolutionary road di Richard Yates.
In effetti, non lo nego, sono anche uno di quelli che appena uscì dal suo
piccolo mondo che pensava fosse il mondo intero – fu quando non riuscii a
sfuggire al servizio di leva e partii per la naja –, andò in crisi: “Quando si
nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale
all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo,
naturalmente il mio fu messo in crisi” – Pasolini su Pasolini di Pier Paolo
Pasolini e Jon Halliday.
Ma sempre Pasolini potrebbe riabilitarmi, vista la mia ripugnanza per il “pare
brutto” e le “buone maniere” in generale: “il mio odio per la borghesia è in
realtà una specie di ripugnanza fisica verso la volgarità piccoloborghese, la
volgarità delle “buone maniere” ipocrite, e così via. Forse soprattutto perché
trovo insopportabile la grettezza intellettuale di questa gente” – ancora
Pasolini su Pasolini.
Anche Jack London avrebbe parole buone per il sottoscritto che – me l’hanno
riconosciuto in tanti – non ha mai avuto paura della Vita: “Il realismo è
essenziale alla mia natura, e lo spirito borghese odia il realismo. La borghesia
è codarda. Ha paura della vita” – Martin Eden.
Forse la mia colpa è stata passare impiegato dopo otto anni trascorsi
orgogliosamente da operaio? Forse mi sarebbe bastato restare una tuta blu per
non rischiare d’esser confuso con qualche lacchè borghese? Ma davvero una cosa
esclude l’altra? E qui è Paco Ignacio Taibo II a venirmi in soccorso: “Il più
borghese è l’operaio che offre il culo al padrone, e addirittura lo difende come
un coglione, e dice ma no, le cose in fabbrica vanno benissimo così” – E doña
Eustolia brandì il coltello per le cipolle.
Che se poi andiamo a vedere, ce n’è un po’ per tutti, per la morale borghese
senza dubbio ma, per esempio, non è che una “certa” sinistra – quella che
lottava per il proletariato – ne esca tanto bene: “non possiamo più fare a meno
di valori positivi. Ma dove trovarli? La morale borghese ci indigna con la sua
ipocrisia e la sua mediocre crudeltà. Il cinismo politico che regna su gran
parte del movimento rivoluzionario ci ripugna. Quanto alla sinistra cosiddetta
indipendente, in realtà, affascinata dalla potenza del comunismo e invischiata
in un marxismo pudibondo di sé, ha già abbandonato la lotta. Dobbiamo allora
trovare in noi stessi, nel vivo della nostra esperienza, cioè all’interno del
pensiero in rivolta, i valori che ci necessitano. Se non li troviamo, il mondo
crollerà, e forse sarà giusto, ma prima saremo noi a crollare, e questo sarà
infame” – Ribellione e morte di Albert Camus.
Non sarà che il pensiero della borghesia s’è già diffuso al popolo? Sarebbe un
bel guaio: “Gli avari non credono nella vita dopo la morte, per loro il presente
è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno,
dove più che mai il denaro domina le leggi, la politica e i costumi.
Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la fede in
un’altra vita, fede su cui da diciotto secoli si basa tutta la struttura
sociale. Tuttavia ci troviamo quasi al medesimo punto, poiché l’avvenire che ci
attendeva al di là del requiem è stato trasportato nel presente. Giungere al
paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, far divenire il cuore di
pietra e macerarsi il corpo nell’ansia di accumulare beni passeggeri, come una
volta si soffriva il martirio per conquistare l’eternità, ecco l’idea che oramai
si è fatta comune, l’idea fissa, in ogni luogo, persino nelle leggi, che ormai
domandano all’uomo: “Quanto paghi?” invece di chiedergli: “Cosa pensi?” Se un
simile pensiero si diffonderà dalla borghesia al popolo, chissà cosa ne sarà del
mondo” – Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.
Anche perché il nuovo potere borghese parrebbe, davvero, essere una brutta cosa:
“L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della
civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo
una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico
che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. […] il nuovo potere
borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico
ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può
svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per
la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è spazio” – Scritti corsari di
Pier Paolo Pasolini.
Sulla necessità del potere borghese di pragmatismo da parte dei consumatori, ha
qualcosa da dire anche Raoul Vaneigem: “Se i borghesi preferiscono l’uomo a Dio,
è perché egli produce e consuma, acquista e fornisce” – Trattato del saper
vivere.
Ma chi sono io, oggi, ancora non l’ho capito.
Visto che non mi spavento se i lacci delle mie scarpe non sono in ordine e non
sono mai sicuro d’aver ragione, non dovrei esser compreso fra la media
borghesia: “la media borghesia inglese deve masticare ogni boccone trenta volte
perché ha l’intestino così stretto che un boccone grosso quanto un pisello lo
ostruirebbe. Sono un branco di disgraziati effeminati, pieni di boria,
spaventati se i lacci delle scarpe non sono in ordine, putridi come selvaggina
andata a male, e sempre sicuri di avere ragione. È questo che mi distrugge.
Sempre lì a leccare il culo finché non gli fa male la lingua, eppure sono sempre
sicuri di avere ragione. Presuntuosi! Presuntuosi su tutto. Presuntuosi! Una
generazione di presuntuosi effeminati senza coglioni…” – L’amante di Lady
Chatterley di David Herbert Lawrence.
E dato che non ho mai pensato che oltre i miei confini il mondo sia piuttosto
ignorante, anche Robert Louis Stevenson potrebbe aiutarmi a restare fuori da
certi elenchi in cui non avrei piacere di essere incluso: “L’ignoranza di voi
borghesucci mi sorprende. Al di là dei vostri confini, ritenete che il mondo sia
piuttosto ignorante e un universo indistinto, immerso in una degradazione
generale…” – Il terrorista.
Ma non sarà che questo problema dell’essere o non essere borghesi, è una fisima
tutta mia, nostra, dell’uomo occidentale, e magari una fissazione dei giorni
nostri? No, non è così; scrive Jean-Patrick Manchette ne Il caso N’Gustro: “Lo
Zimbabwin, il loro Paese, si è liberato e un Fronte di liberazione, l’Flz, ha
preso il potere. Ma se capisco bene, c’è un’etnia che cammina sulla testa delle
altre, nell’Flz, e ancora peggio è musulmana […]. Mi spiegano: i musulmani,
laggiù, sono l’equivalente dei borghesi qui, sono grandi famiglie, stirpi, da
sempre compromesse con le spedizioni arabe che discendevano l’Africa, risalendo
il Nilo e arrivando ben oltre nell’interno, attraverso il Sudan, fino al cuore
del continente, per razziare, rapire su grande scala intere popolazioni che
rivendevano sul Mar Rosso, gli uomini per il lavoro, le donne ai bordelli, i
bambini dipende”.
Niente, addirittura potrebbe essere un problema mondiale e, forse, sempre
esistito.
Pur non risparmiando i proletari, anche Johnny Rotten riteneva essere un
problema questa borghesia capace di opprimere: “Ricordo che quand’ero piccolo e
andavo a scuola i genitori inglesi mi prendevano a mattonate. Per arrivare alla
scuola cattolica dovevo passare in una zona in prevalenza protestante. Era
bruttissimo. La facevo sempre di corsa. “Quei luridi bastardi irlandesi!”. E
cazzate del genere. Adesso se la prendono coi neri, o chi altri. Ci sarà sempre
odio negli inglesi perché sono una nazione piena d’astio. È questo il guaio dei
proletari di tutto il mondo. Cercano sempre di sfogare i loro rancori su quelli
che considerano più in basso nella scala sociale, invece di saltare alla
giugulare di quei fottuti bastardi dell’alta e media borghesia che li tengono
oppressi, tanto per cominciare” – L’autobiografia.
Persino la Chiesa pare non abbia gradito il potere della borghesia, accusandola
d’aver fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore,
benché la contestazione non parrebbe mossa sulla scia di una qualche carità
cristiana: “L’abate […] trovava delle scusanti alle scelleratezze degli
scioperanti, attaccava violentemente la borghesia sulla quale rigettava ogni
responsabilità. Era la borghesia, che, spossessando la Chiesa delle sue antiche
libertà, per servirsene lei stessa, aveva fatto di questo mondo un luogo
maledetto d’ingiustizia e di dolore, era lei che prolungava i malintesi, che
spingeva ad una catastrofe spaventosa, col suo ateismo, rifiutandosi di
ritornare alla fede, alle tradizioni fraterne dei primi cristiani” – Germinal di
Emile Zola.
Leggo che la borghesia è fondamentalmente vile e ottusa e che, in ogni epoca, è
rimasta unita solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e
depredare coloro che stavano sotto: “Sono nato con dentro un odio per
l’ingiustizia… sin dall’infanzia il sangue mi ribolliva contro il cielo quando
vedevo la gente malata, e mi ribolliva contro gli uomini quando ero testimone
delle sofferenze dei poveri; pensando al tozzo di pane della povera gente, le
cose buone che mangiavo mi andavano di traverso, e un bambino storpio mi faceva
piangere. […] Anno dopo anno, questa passione per la gente più derelitta mi
ossessionò sempre di più. Si poteva riporre speranza nei re? Si poteva riporre
speranza nelle classi meglio pasciute che si rotolano nel denaro? Avevo studiato
il corso della storia… sapevo che la borghesia, il nostro monarca di oggi, è
fondamentalmente vile e ottusa… in ogni epoca, avevo visto come la borghesia si
unisse solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare
coloro che stanno sotto; la sua ottusità, ne ero convinto, alla fine avrebbe
provocato la propria rovina; sapevo che ormai i suoi giorni erano contati, ma
come avrei potuto aspettare? Come potevo lasciare che i bambini poveri
tremassero sotto la pioggia? Certo, sarebbero arrivati giorni migliori, ma i
bambini sarebbero morti prima. […] con un’impazienza sicuramente non priva di
uno slancio di generosità mi arruolai tra i nemici di questa società ingiusta e
ormai condannata […]” – nuovamente da Il terrorista di Robert Louis Stevenson.
Anche il mio corregionale Edmondo De Amicis, nel romanzo Sull’oceano non ne dice
un granché bene di ‘sti borghesi: “tutta la sua persona rivelava la borghesuccia
impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto,
capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una
marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui
marciapiedi”.
Ecco, non provando invidia per chi sta sopra né disprezzo per chi sta sotto
semplicemente perché il mondo che vedo io non è strutturato in verticale ma in
orizzontale; non avendo mai dimezzato il pane da dare a mio figlio per
qualsivoglia bene materiale a cui rinuncio tranquillamente, anche se ammetto che
i libri mi tentano sempre parecchio; non commettendo alcuna vigliaccheria per
entrare in relazione con una marchesa per lo stesso motivo di prima – nella mia
visione orizzontale del mondo, marchese, psicologhe, suore, operaie, casalinghe,
eccetera sono, giocoforza, tutte sullo stesso piano –; mi sento abbastanza
sollevato.
E mi sento abbastanza sollevato anche perché non provo alcuna gioia quando
s’arresta una puttana o se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova
campana; non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna
intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali;
non so mentire con cortesia, cinismo e vigliaccheria, e non faccio
dell’ipocrisia la mia formula di poesia; non ho nulla contro chi fa l’amore più
di una volta alla settimana e neanche contro chi lo fa per più di due ore o
verso chi lo fa in maniera strana; non pesto le mani a chi arranca dentro a una
fossa e neppure son disponibile, al più ricco e ai suoi cani, a leccar le ossa.
Sì, dài!, mi sento abbastanza sollevato.
Ora che finalmente so chi sono, devo chiudere il pezzo e salutarvi perché sono
già in ritardo: di là, sul tavolo di noce del tinello, la cena è apparecchiata,
son tutti già seduti e mi aspettano per il segno della croce. Rifiutarsi mi
pareva brutto.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Tag - riflessioni
Un pubblico processo per fare chiarezza sull’uccisione di Carlo che mai c’è
stato, il silenzio di grandi organizzazioni e il coraggio di infierire da parte
di un capitano dei carabinieri
di Haidi Gaggio Giuliani
Ho letto su Osservatorio Repressione l’articolo del 10 aprile Turchia, quando il
potere infierisce anche sui familiari delle vittime di Gianni Sartori, che
ringrazio: si ricorda ancora di me nonostante la mia latitanza (mi ha fermato il
tumore da qualche anno). La situazione in Italia non è drammatica come in altri
Paesi, comunque non bisogna sottovalutare alcuni segnali.
Tempo fa avevo ricevuto da parte di Amnesty International l’invito a
sottoscrivere un appello per Pedro Enrique, ucciso con otto colpi di pistola
mentre dormiva nel suo letto: “I tre assassini sono stati identificati come
poliziotti, ma sono ancora liberi e in servizio”. La colpa di Pedro Enrique è
stata quella di organizzare marce pacifiche nella regione di Bahia in Brasile
per denunciare la violenza sistematica della polizia nei confronti di giovani
neri. Sua madre Ana Maria si batte da anni per chiedere giustizia per
l’assassinio di Pedro Enrique. Sostieni la lotta di Ana Maria”. Giusto, ho
pensato. Un giovane uomo come mio figlio, ho pensato. Anch’io ho chiesto per
molti anni un pubblico processo che facesse chiarezza sulla sua uccisione, che
rispondesse ai molti dubbi rimasti. Amnesty però non ha mai organizzato in
sostegno una raccolta di firme e io non ho mai capito perché.
Certo, Pedro Enrique è stato ucciso nel suo letto mentre l’immagine di Carlo è
cristallizzata nel momento in cui, con un estintore vuoto tra le mani a più di
tre metri di distanza, “assale” una povera camionetta indifesa. Riparati dentro
la camionetta ci sono tre (qualcuno ha detto quattro) carabinieri armati, ma
questo si sottace. La sua uccisione viene rapidamente archiviata quando ancora
la “grande” informazione parla di ferite pregresse per i manifestanti massacrati
alla scuola Diaz: nel 2003 infatti per la “macelleria messicana” erano ancora
indagati i manifestanti che dormivano nella palestra e non circolavano notizie a
proposito delle torture nella caserma di Bolzaneto.
L’ archiviazione ha influito pesantemente, in seguito, vanificando i nostri
tentativi di ottenere un processo, sia in Italia che presso la Corte europea.
In cambio un altro processo è in corso: il signor Claudio Cappello, presente in
piazza Alimonda quel 20 luglio con il grado di Capitano, ha querelato il padre
di Carlo per aver usato parole poco rispettose nei suoi confronti in un paio di
interviste. Non ho mai approvato il linguaggio di mio marito, certe sue
interpretazioni. Sono convinta che riportare i fatti nudi e crudi, e le immagini
(tutte), sia sufficiente: le persone che ascoltano, se sono interessate, hanno
la capacità di giudicare autonomamente. Tuttavia penso che ci vuole coraggio per
infierire su un vecchio di ottantasette anni, che certamente non è uscito
indenne neppure lui dalla tragedia che ha colpito la famiglia.
Ma il signor Cappello è un Colonnello dell’Arma, il coraggio non gli manca.
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Malgrado il ricorso alla legislazione di urgenza sia ormai prassi consolidata,
non era immaginabile che lo strumento diventasse un mezzo per superare il
dibattito parlamentare. Un provvedimento di «controllo» che muta il paradigma
della penalità: da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di
soggettività pericolose
di Mauro Palma da il manifesto
Forse bisognerebbe ricordare le perplessità di Costantino Mortati nel corso
della discussione che avrebbe portato alla formulazione dell’articolo 77 della
Costituzione, quello che prevede la possibilità per il governo di adottare
decreti-legge in caso di necessità e urgenza.
Il grande costituzionalista intervenne nel settembre del 1947 nel dibattito che
si era aperto con la constatazione che il Progetto predisposto dal Comitato
ristretto dell’Assemblea costituente non li prevedeva e che, secondo quanto
suggerito da Pietro Calamandrei, un qualche spiraglio andava lasciato, per
esempio, per provvedere urgentemente in caso di terremoti o simili situazioni:
«Bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una
forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare
piuttosto che ignorarla».
Mortati metteva in guardia rispetto al rischio estensivo di quel concetto di
urgenza e di necessità, negando a quest’ultima la possibilità di esondare dal
normale procedere legislativo, quasi configurandola come «fonte autonoma di
diritto». E, proprio per questo ammoniva: «L’esperienza ha infatti dimostrato
come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei
decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime
fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del governo di
abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra
parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del parlamento, il quale tende a
scaricarsi dei compiti di sua spettanza».
Il testo poi adottato nella Costituzione prevede una forma di “catenaccio”
teoricamente volto a evitare il rischio di debordare. Certamente, però, quel
dibattito non poteva prefigurare una situazione in cui allo strumento di
legiferare per decreto, con successiva conversione, avrebbero fatto ricorso
bulimico molti governi futuri – di vario orientamento politico – fino a svuotare
il ruolo effettivo di almeno di una delle due camere, chiamata a ratificare a
scatola chiusa quanto nell’altra si era dibattuto. Così come usualmente avviene
ora.
Soprattutto non poteva prevedere il ricorso al decreto-legge per superare un
dibattito parlamentare attorno a un disegno di legge la cui approvazione fosse
divenuta ardua proprio per le molte perplessità espresse da associazioni
professionali, realtà sociali, esperti nonché da parlamentari stessi sul testo
in esame. Ancor più nel caso in cui tale disegno di legge riguardasse quel bene
che l’articolo 13 della Carta definisce come «inviolabile»: la libertà
personale. Lorenza Carlassare si chiese anni fa se un decreto-legge potesse
costituire quella tutela che la Costituzione richiede per tale bene.
Invece, è proprio ciò che è avvenuto in questi giorni, con il disegno di legge
cosiddetto «sicurezza» che era da più di un anno all’esame del senato, in
maniera congiunta da parte della commissione per gli affari costituzionali e di
quella per la giustizia e che ora si trasforma, con qualche attenuazione, ma con
la stessa fisionomia, in decreto-legge.
Non un testo qualsiasi, bensì un articolato che tocca vari aspetti e che sarebbe
stato meglio definire di esteso «controllo» invece che non di «sicurezza»,
perché i due termini non sono sinonimi e, al contrario, se il secondo esprime un
valore da tutelare per la collettività nel contesto di garanzia dell’effettività
dei diritti per tutti, il primo rappresenta un’inaccettabile intrusione nella
espressione del dissenso. Un controllo che, nel testo del decreto-legge, muta
anche il paradigma della penalità trasferendone la funzione da repressione di
fatti costituenti reati a individuazione di soggettività di per sé assunte come
potenzialmente pericolose.
Non è possibile leggere altrimenti, per esempio, il mantenimento, pur attenuato
rispetto al testo del discusso disegno di legge, della possibilità di
restringere in dipartimenti detentivi donne incinte e madri di bimbi di età
inferiore a un anno – nonostante sia per loro riservata la sistemazione in un
Icam (Istituto a custodia attenuata per madri con bambini), considerato che ne
esistono solo tre al Nord e uno in Campania e che così si porrà facilmente il
problema della distanza dal proprio luogo familiare. Come pure è difficile
leggere altrimenti le attenuazioni impresse all’originario nuovo reato di
rivolta in carcere perché queste non risolvono la gravità di penalizzare
l’inadempienza a ordini impartiti, soltanto col prevedere che tale passiva
resistenza debba essere tale da incidere sul mantenimento dell’ordine e della
sicurezza. Come non cambia il senso del provvedimento, l’aver circoscritto le
opere pubbliche o i servizi la cui interruzione determina, anche nel nuovo
testo, forti aggravanti sul piano penale. Né incidono altre attenuazioni sul
piano della facoltatività – e non l’obbligatorietà – per le università e gli
enti di ricerca a collaborare con i Servizi di sicurezza per fornire
informazioni e dati o, ancora, le attenuazioni nella politica repressiva nei
confronti delle persone migranti irregolari.
Sono attenuazioni che evitano il rischio di palese bocciatura e che sono state
presentate enfaticamente, con anche lo sgarbo istituzionale di voler
sottintendere l’intrinseca approvazione del Quirinale; ma che non mutano
l’ambito paradigmatico del provvedimento. Che ruota appunto attorno a quella
«necessità e urgenza» che il dibattito costituente aveva posto proprio per
configurare un “catenaccio” che evitasse l’affermazione primaziale del potere
esecutivo sulla produzione di norme da mantenere invece affidata al doveroso e
libero dibattito parlamentare.
Questo è il vulnus che tale modo di legiferare determina nell’ordinato sviluppo
democratico centrato sul bilanciamento dei poteri e che è stato ed è l’asse
centrale su cui la nostra Carta tesse il proprio filo. Perché di fatto –
nonostante l’occhio vigile volto a far cadere le più palesi connotazioni
poliziesche del provvedimento – si è azzerato un dibattito prolungato che aveva
il segno di richiamare l’attenzione sul principio del limite che deve essere
criterio regolatore dell’attività di governo e dello stesso potere legiferante.
Qui il limite viene visto come un impaccio e per questo lo si supera forzando
quello strumento che aveva costituito la lunghissima discussione nell’Assemblea
costituente, protrattosi per più mesi, proprio per i rischi che si
intravedevano. Anche molto inferiori a quelli che la realtà ci sta presentando.
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Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata
di Marco Sommariva*
In un articolo di Stefania Garassini pubblicato qualche giorno fa su Avvenire,
leggo che Adolescence – la miniserie tv britannica che affronta il tema della
violenza tra i teenager, appena uscita e già la più vista sulla piattaforma
Netflix – conta “quattro episodi girati tutti in tempo reale (un’ora circa di
durata corrisponde esattamente a un’ora di vicenda narrata) e con inquadrature
continue che seguono i personaggi in ogni loro movimento con l’effetto di
immergere completamente lo spettatore nella storia, evitando di dare alcun
giudizio su quanto accade”.
Adolescence è la storia dello sconvolgimento di una famiglia quando il figlio
tredicenne, Jamie, viene arrestato per l’omicidio di una sua coetanea, compagna
di scuola.
Stefania Garassini prosegue spiegandoci che “sono diversi e tutti cruciali i
temi che la serie affronta, dal bullismo, alle dinamiche tossiche all’interno
dei social media, all’incomunicabilità tra genitori e figli. Un oceano di dolore
che lambisce le vite di tutti i personaggi, senza che sia possibile identificare
con certezza un colpevole per il disastro cui si assiste. […] Adolescence invita
ad allargare lo sguardo su un mondo adulto che non sembra avere più gli
strumenti per capire quanto sta accadendo nelle menti e nei cuori dei propri
figli, troppo spesso soli, totalmente immersi nel mondo dei social, dove la
derisione e la vergogna possono nascondersi anche dietro le parole e le emoji
apparentemente più innocue”.
Su un altro articolo pubblicato da Avvenire, questa volta a firma di Marco
Pappalardo, vengono riportate le parole di una studentessa alla quale il
giornalista ha chiesto un parere su Adolescence: “Non ero pronta a vedere una
storia così violenta eppure così normale oggi. La necessità di sentirsi
accettati non si nega e non è solo della mia generazione. Avere le proprie idee,
diverse dagli altri, è difficile. Devi essere brava a scuola, educata,
obbediente a casa, tra i compagni furba e vestita in un certo modo; devi piacere
e condividere storie nel posto giusto. Senza uno di questi requisiti, la vita
potrebbe diventare un inferno e per colpa dei social non c’è un posto dove
nascondersi. Mi ha sconvolta l’incapacità del protagonista di capire che aveva
un’altra scelta. Mi ha spaventato che nessuno abbia chiesto aiuto agli adulti e
che essi siano così ciechi e sordi. Questa serie non dà speranze!”
Nell’articolo di Pappalardo, quello sopra non è l’unico commento per bocca dei
giovani; altri dicono la loro, come per esempio un certo Marco: “Il contrasto a
casa riesce ad isolarci, facendoci sentire soli, impotenti uditori di liti tra
adulti. Così giungono delle “consolazioni” che ci distruggono: droga, bullismo,
alcool, azzardo, atti criminali. Mi fa riflettere la fragilità umana e la
delicatezza dei rapporti”.
Da giorni, sono tantissimi a occuparsi di questa miniserie tv di Netflix: il
Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Il Mattino, Il
Fatto Quotidiano, Il Foglio, Libero, Internazionale, L’Espresso, eccetera.
Oltre ai due articoli già citati, Avvenire ne ha pubblicati altri su
Adolescence, tra cui quello di Massimo Calvi, il quale ci fa notare che “Il vero
motivo per cui tutti in questi giorni stanno parlando di Adolescence […] non
risiede probabilmente nella sua elevata qualità di regia e recitazione, e
nemmeno nella complessità del tema affrontato, aspetti che in ogni caso ne
stanno decretando uno straordinario successo. La ragione più profonda che tiene
sulla bocca di tanti la storia del giovane Jamie è legata al fatto che dopo aver
visto la serie per intero si manifesta pressante il bisogno di parlarne. Perché
è necessario liberarsi di qualcosa, trovare il modo di espellere il disagio
condividendolo, superare il trauma attraverso le parole e lo
scambio. Adolescence è sì un pugno nello stomaco, come in tanti hanno rilevato –
o meglio, sono quattro cazzotti, quante le puntate della serie – ma è
soprattutto una forma di abuso, un racconto talmente disturbante per un genitore
da richiedere di essere elaborato il prima possibile”.
Ora, anche giustamente, qualcuno di voi s’aspetterà una mia disamina su
Adolescence così che anch’io possa liberarmi di qualcosa, trovare il modo di
espellere un disagio, superare un trauma attraverso la scrittura di un articolo.
No. La mia disamina sarà leggermente diversa, verterà sull’adolescenza di altre
epoche cui fanno cenno alcuni scrittori e scrittrici a me cari, anche per capire
se, in passato, tutto filava liscio o meno; quindi, tranquilli, non si parlerà
della mia adolescenza o di quella “dei miei tempi”.
Intanto, inizierei col dire che sono d’accordo con Laura Pariani quando nella
sua raccolta di racconti Il pettine, scrive che “L’adolescenza è una brutta età.
[…] come un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare
di afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo
che mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci
e di coloro che sono destinati a riceverti…”
In Autunno tedesco, Stig Dagerman scrive della Germania dell’immediato
dopoguerra, quella del 1946, e dei giovani ci racconta questo: “I ventenni
gironzolano per le stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza
avere un treno o qualcosa d’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli,
disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano
fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si
vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne
stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto in compagnia di negri
ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino […]. Hanno
conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto”.
Mi verrebbe da dire che gli adolescenti d’oggi hanno perso tutto senza, prima,
aver mai conquistato nulla, ma forse la faccio troppo semplice, e allora mi
limito a scrivere che questi disperati tentativi di furto da parte di
adolescenti e queste ragazzine brille che si attaccano al collo di qualcuno, mi
ricordano un po’ troppo da vicino i nostri figli; fosse così, significherebbe
che siamo riusciti a devastarli come fossero usciti da una guerra mondiale.
Nel libro Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa, si racconta la storia di
quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la
nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza
patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo
profughi di Jenin: “[…] il corpo di Jolanta era stato devastato dai nazisti, che
l’avevano costretta a dare gli ultimi anni della sua adolescenza in pasto agli
appetiti sessuali delle SS. Quell’incubo le aveva salvato la vita ma l’aveva
resa sterile. Avendo perso ogni membro della sua famiglia nei campi di
sterminio, Jolanta si era imbarcata da sola per la Palestina alla fine della
Seconda guerra mondiale. Non sapeva nulla della Palestina né dei palestinesi,
seguiva solo il richiamo del sionismo e le lussureggianti promesse di una terra
di latte e miele. Voleva un rifugio. Voleva fuggire dai ricordi di tedeschi
sudati che contaminavano il suo corpo, dai ricordi di fame, dai ricordi di
depravazione. Voleva fuggire dalle urla di morte che popolavano i suoi sogni,
dalle canzoni ormai spente di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle
sorelle, dalle grida senza fine degli ebrei agonizzanti”.
Non sarà che i nostri figli vorrebbero “semplicemente” scappare dalle urla di
morte che popolano i loro sogni, dalle grida di chi agonizza in questi nostri
tempi in cui la ricchezza dei miliardari è cresciuta nel 2024 di duemila
miliardi di dollari, tre volte più velocemente del 2023, mentre tre miliardi e
mezzo di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno? Non solo, non è che
i nostri figli vengono devastati sempre più spesso dagli appetiti sessuali degli
adulti o si devastano vicendevolmente pensandosi protagonisti di quei video
pornografici da cui si fatica a star distanti e che nessuno ha insegnato loro a
studiare, analizzare, verificare, decifrare?
Tra il 1963 e il 1966, Jim Carroll – poeta e musicista – racconta in un diario
gli anni della sua adolescenza, scritti che poi diventeranno il libro culto Jim
entra nel campo di basket. Quando uscì negli Stati Uniti, rappresentò un caso
letterario, suscitando l’entusiasmo di Jack Kerouac; racconta la vita on the
road di un ragazzino straordinariamente intelligente, un libro autobiografico,
un racconto fedele della sua adolescenza segnata da una precoce dipendenza
dall’eroina e dall’esperienza della prostituzione: “Poi ci siamo noialtri
ragazzi di strada che cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e
crediamo di poter tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine.
Funziona raramente. Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di
controllo, finisco nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che
passare tutta la giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene
tutto, ragazzi. Non ci sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui
correre. Sai quando ci sei dentro definitivamente perché è la volta che
svegliandoti la mattina te lo dici chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o
mi trovo la mia dose o finisco a farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono
cazzi”.
Non so dalle vostre parti cosa stia succedendo, ma qui, dalle mie – a Genova –
lo spaccio di stupefacenti è così diffuso che il più conosciuto quotidiano
locale, ha dedicato ultimamente numerosi articoli “all’inferno del crack nel
Centro città” e, credetemi, sono tantissimi i ragazzi che si alzano da letto
decisi a qualsiasi cosa, anche a farsi “spaccare” pur di avere la propria dose
giornaliera; fosse così, significherebbe che siamo riusciti a bucarli,
intossicarli, stordirli e mortificarli come certi ragazzi eroinomani newyorkesi
dei primi anni Sessanta, e senza neppure aver la consolazione di ritrovarli
ostili alle mode e alle comparsate televisive come lo era Jim Carroll, appunto.
Nel 1967 viene pubblicato Ora d’aria, la storia di un gruppo di detenuti in un
carcere statunitense dove la vita scorre senza tempo: qualcuno è arrivato da
poco, qualcuno è dietro le sbarre da anni, qualcuno ci resterà per sempre. Il
carcere descritto da Malcolm Braly, l’autore, è un mondo straordinariamente
simile a ciò che sta fuori, capace di farci comprendere che tutti, sotto certi
aspetti, siamo prigionieri delle nostre esistenze. Braly, abbandonato dai
genitori ancora bambino, si dedicherà fin dall’adolescenza a piccole attività
criminali, perlopiù rapine, che lo porteranno presto in riformatorio; dei suoi
primi quarant’anni, diciassette li trascorrerà nelle più dure prigioni
americane: “Si svegliò. Mentre la sensazione del sogno scivolava via, lui ne
riconobbe i contorni adolescenziali e gli venne un desiderio nostalgico per quel
mondo perduto, le cui aspettative troppo alte avevano avvelenato la sua vita di
adulto quando ne aveva scoperto il grigiore”.
E forse qui troviamo un altro aspetto su cui bisognerebbe fermarsi a ragionare
un bel po’: le aspettative troppo alte di quel mondo adolescenziale che
avvelenano la vita adulta quando se ne scopre il grigiore. Chi genera queste
aspettative troppo alte? I genitori? Magari per provare a rifarsi dei propri
fallimenti? Magari nel tentativo di “perfezionare” i figli senza rendersi conto
che, invece, questa loro deleteria ricerca di perfezione distruggerà i ragazzi?
O certe ideologie? Magari quelle che ti promettono ricchezza e benessere se
competi contro tutto e tutti e in continuazione? O forse è lo stato? Magari con
le sue promesse di sconfiggere nemici, conquistare terre, anche fosse “solo”
occupandole culturalmente?
Riprendo la frase di Laura Pariani – “L’adolescenza è una brutta età. […] come
un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare di
afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo che
mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci e di
coloro che sono destinati a riceverti…” – e mi domando se, noi che di questi
adolescenti siamo genitori zii nonni e insegnanti, siamo attendibili o se siamo
soltanto corpi che attraversano i giorni con modalità talmente anonima e passiva
da garantire agli altri un minimo di credibilità unicamente quando viene
pubblicato il nostro necrologio, o se magari la nostra affidabilità l’abbiamo
esaurita perché interamente impegnata nel soddisfare il nostro bisogno di far
sapere al mondo intero ogni cosa noi si pensi e si faccia postando tutti i
nostri palpiti, o se siamo così presi a dispiacerci per i figli adolescenti e
per chiunque altro esclusivamente per ignorare noi stessi, la nostra
inattendibilità.
L’adolescenza è l’unico periodo della vita in cui non si è sopraffatti dalla
nostra adolescenza, è un santuario dove alcuni trascorrono tutto il loro tempo
anche mentre i capelli s’ingrigiscono. Forse perché è quel periodo della vita
tanto bello quanto tormentato, in cui l’innocenza dell’infanzia non è ancora
stata contaminata dall’età adulta e si riesce ancora a immaginare un futuro a
colori.
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Lo stato della propaganda e la propaganda di stato. Isernia: un caso emblematico
di Alessandro Ugo Imbriglia
Lo scorso 25 marzo, il sindacato autonomo di polizia ha ricevuto, nella città di
Isernia, gli studenti dei tre istituti di scuola superiore della città, per
celebrare – nei modi in cui si conviene – il suo decimo congresso provinciale.
Il quotidiano Primo Piano Molise ha estratto alcune fra le considerazioni più
significative dei promotori e degli invitati. Commentiamone alcune. La
segretaria provinciale del sindacato autonomo di polizia, Sonia Iacovone, ha
affermato:
«Questo incontro è stato fortemente voluto dal Sap. Abbiamo coinvolto i ragazzi
per dare una prospettiva diversa a questa giornata. Vogliamo partire dalle loro
curiosità, dai loro dubbi, dai loro punti di vista, per capire meglio il
concetto di sicurezza, per capire come loro vedano la legalità, ma anche il
ruolo delle forze dell’ordine. Insomma, vogliamo riflettere su questi valori,
che sono fondamentali per la nostra società».
Dall’estratto emerge un’evidente puntualizzazione, che è probabilmente la più
significativa: «vogliamo riflettere su questi valori, che sono fondamentali per
la nostra società». Sicurezza e legalità sono dunque annessi al rango di valore,
di concetti–valore. Ciò cosa significa? Quando un significante assurge a valore
esprime, su un piano semantico, il massimo grado di generalità: poste in questo
ordine, legalità e sicurezza devono apparire, in seno alla propaganda, come idee
“increate”. Esse sono collocate, all’interno del discorso di stato, per essere
recepite come tali, dunque inamovibili, in una posizione che dovrà essere intesa
e assimilata come elemento permanente rispetto alle sue modalità di applicazione
e agli effetti che ad esse conseguiranno. Un concetto-valore, espresso nei
termini succitati, attribuisce a sé stesso una grande forza generativa, poiché
compare, anzitutto, come elemento inderivato: prima di esso non v’è nulla, nulla
da cui possa dipendere o da cui possa conseguire. Per tal motivo si appone al
sostantivo “valore” un attributo ovvio, ad esso implicito, qual è il termine
“fondamentale”. La legalità deve essere concepita come fondamento primo, come
basamento. È essa stessa a costituire, sia sul piano concettuale, sia sul piano
fattuale, la fonte unica e originaria di potenziali effetti, conseguenze e
derivazioni. Poste in questi termini, sembra che alla legalità e alla sicurezza
non preesista una forza, una fonte che, sul piano anzitutto dell’idea, sia in
grado di stabilirne e contenerne la dimensione semantica, la posizione
sintattica e la funzione operativa. Ecco che allora “il ruolo delle forze di
polizia” assume, nell’ordine del discorso, una configurazione autolegittimante,
poiché si manifesta come immediata espressione dei concetti-valore, quali
sembrano essere la legalità e la sicurezza. In quest’ottica l’eurodeputato Aldo
Patriciello ha espresso le seguenti considerazioni:
«Gli agenti di polizia sono il baluardo della democrazia e soprattutto sono per
noi un punto di riferimento per rappresentare la presenza dello stato. Questa
iniziativa mira dunque a riconoscere alle forze di polizia e al sindacato di
polizia quel lavoro silenzioso, costante che fanno quotidianamente a difesa
della democrazia e soprattutto a difesa dei cittadini».
Questa costruzione di significati presenta quantomeno delle aporie: in
un’entità statuale, la funzione strategica delle forze polizia consiste – sia
sul piano operativo, sia sul piano simbolico – nell’imposizione e nel
consolidamento di un principio weberiano: l’utilizzo della forza fisica –
l’utilizzo della violenza – è monopolio incondizionato dello stato. Lo stato
detiene l’indiscutibile monopolio della forza fisica. Questa è la priorità
strategica di un corpo di polizia, in quanto derivazione di uno o più apparati
di potere. Essa è tenuta a ribadire e conservare – nella propria funzione
simbolica e operativa – tale principio. L’obiettivo delle forze di polizia non
consiste certamente nella “difesa della democrazia”, bensì nella tutela di un
sistema di apparati – istituzionali, politici ed economici – annessi e connessi
allo stato. A riguardo, ciò che è possibile osservare come “difesa dei
cittadini” è solo uno dei molteplici effetti – delle funzioni derivate,
secondarie – prodotti dal perseguimento dell’obiettivo strategico di cui sopra.
In realtà, la “difesa della democrazia” può essere detenuta, e legittimamente
ambita, dai cittadini. E sono i cittadini ricompresi in specifiche classi,
quelle subalterne, a costituire un elemento nevralgico nella difesa di ciò che
intendiamo con il termine democrazia.
Dunque a cosa assistiamo? Il potere, che in tal caso corrisponde immediatamente
allo Stato, eleva degli indicatori – dei fattori circoscrivibili e misurabili
quali sono la legalità e la sicurezza – al grado di valore-concetto. È
un’operazione di astrazione, con la quale si idealizza uno specifico stato delle
cose e/o un obiettivo strategico. Tale operazione mira anzitutto a produrre un
immaginario o a colonizzarne uno già esistente; il suo fine ultimo, invece, può
essere individuato nella costruzione del consenso, o – in maniera più sottile –
nella produzione delle condizioni meno favorevoli all’emersione del dissenso. La
mistificazione consiste per l’appunto in una sorta di rovesciamento, che è prima
sintattico e poi sociologico: in una condizione di effettiva democraticità,
legalità e sicurezza sarebbero concepiti e adoperati come due semplici
variabili, due categorie descrittive che misurano, in termini qualitativi e
quantitativi, un oggetto dell’indagine, uno fra i numerosi oggetti empirici di
cui può disporre un campo di ricerca, come la qualità e la quantità di
specifiche condotte criminose, o, più precisamente, la corrispondenza fra
precise condotte e le tipologie di reato codificate dal diritto. Detto ciò,
l’oggetto empirico – l’adozione di una condotta legale o illegale, ad esempio –
si conferma, il più delle volte, come un effetto, una conseguenza. Esso ha poco
o nulla a che vedere con la valenza “pedagogica” del binomio legalità/sicurezza
o con l’adesione a tali concetti-valore. Al contrario, l’adozione di una
condotta “illegale” può scaturire dalla convergenza di molteplici fattori,
quindi dell’azione, più o meno congiunta, di molteplici fenomeni. Sulla base
dell’impatto o dell’andamento che tali fenomeni registrano in un dato contesto
sociale potrà derivare, invero, una specifica condizione di legalità/illegalità
o sicurezza/insicurezza, né più né meno.
Riflettiamo. In un dato luogo, a partire da specifiche condizioni
socio-economiche – tasso di occupazione; livello di produttività; qualità delle
condizioni contrattuali etc. – si potrebbe registrare un determinato “grado” di
legalità e sicurezza, non certo il contrario. La penuria materiale, il
logoramento progressivo e costante delle condizioni di vita possono spingere, o
costringere, coloro che versano in tali condizioni ad adottare condotte che
violino il principio di legalità. Si tratterebbe, in molti casi, di stratagemmi
o espedienti per poter vivere, o sopravvivere, appena al di sopra di quella
soglia che separa la dignità dall’indecenza.
Al contempo, nel medesimo luogo, precise condizioni socio-politiche – corruzione
della classe politica e dei colletti bianchi; scambio voto/lavoro; privilegi di
ceto connessi a specifici esiti elettorali e rapporti economici etc. –
potrebbero generare o esacerbare un forte rancore sociale. Tale risentimento,
connaturato a una specifica condizione di esclusione sociale, potrebbe
registrare, a sua volta, una significativa incidenza sull’emersione di
molteplici condotte “devianti”, e dunque sul “grado” di illegalità e insicurezza
che caratterizzano il contesto sociale considerato.
In ultimo, specifiche scelte di economia pubblica e welfare – disinvestimento
nell’edilizia popolare; espansione della sanità privata a discapito della sanità
pubblica; gestione iniqua delle principali fonti di vita (risorse idriche ad
esempio) – potrebbero generare o accrescere una concorrenza cinica, spietata,
fra coloro che non hanno accesso a un reddito minimo, a una dimora stabile e a
prestazioni sanitarie di base o specialistiche. Le penuria e la scarsità delle
risorse alimenterebbe conflitti laceranti fra le classi subalterne, fra
proletari e sottoproletari. Va da sé che in questa lotta “fratricida” –
combattuta, attualmente, in molte periferie delle città italiane – possano
emergere condotte criminose.
In definitiva, tutte le variabili e le dinamiche passate in rassegna possono
co-determinare specifici livelli di legalità e sicurezza. Legalità e sicurezza
sono i risultati, gli effetti, di queste complesse combinazioni. Ridimensionare
o escludere dal discorso fondamentali variabili di carattere
economico-produttivo, sociopolitico, amministrativo-partitico e imprenditoriale,
a favore di un indottrinamento alla legalità e alla sicurezza – intese come a
priori, come concetti-valore che, di per sé, possono e devono essere imposti in
termini pedagogici e propagandistici – non fa che certificare uno scivolamento
autoritario, dalla chiara impronta mistificatoria. Lungo questo crinale si
assiste dunque alla imponente e assillante generazione di un feticcio: legalità
e sicurezza avrebbero, in sé, un valore intrinseco e inalienabile, in grado di
garantire condotte sociali “accettabili”, ergo compatibili con quanto il diritto
penale e l’esecuzione penale approvano o, per converso, deplorano. Si tratta, in
tal caso, di una mistificazione ideologica, poiché il discorso rovescia, o
meglio occulta, l’effettivo nesso tra cause ed effetti, elevando gli effetti –
legalità e sicurezza – ad assiomi, a concetti-valore da inculcare. Tale lavorio
ideologico misconosce le serie di cause e concause da cui dipendono, nei fatti,
specifiche determinazioni storiche e sociali, come la forma e il grado di
legalità o sicurezza in un dato luogo e in un dato momento, ad esempio. Il
carattere elusivo di questa manipolazione lascia innominati una serie di
significanti che uno stato realmente democratico potrebbe, e dovrebbe, elevare a
concetti-valore. È il caso dell’equità, ad esempio. L’equità potrebbe essere
“idealizzata” e collocata in questa posizione apicale. Un valido corollario
dell’equità potrebbe essere composto dalle seguenti categorie concettuali:
soddisfazione dei bisogni primari, giustizia sociale e parità dei diritti.
Nel verso opposto, quando al rango di concetti-valore sono collocati la legalità
e la sicurezza, giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza alla
forza-lavoro, riconoscimento dei diritti alle minoranze, accesso alle risorse
vitali (acqua, cibo, casa) subiscono, il più delle volte, effetti regressivi.
Retrocedendo, divengono fattori opzionali, e in quanto tali sono facilmente
eliminabili, giacché l’operazione ideologica dello stato sovrastima,
indefinitamente, l’incidenza positiva che i valori-concetto di legalità e
sicurezza avranno sulle condotte individuali e collettive. Tale pedagogia è
imposta sulla base di una subdola e malcelata consapevolezza: sono specifiche
logiche di mercato, condizioni economiche, sociali e politiche che, in verità,
producono, in misura differente ma combinata, determinate condotte legali o
illegali. In spregio a tali evidenze, legalità e sicurezza sono altresì
ricostituite come un valore-concetto dal segno esclusivamente positivo. Ad oggi
è altamente improbabile che tale segno possa essere messo in discussione, a meno
che non siano le classi subalterne a riqualificare la collocazione, l’incidenza
e la funzione dei termini “legalità” e “sicurezza”.
In conclusione, cosa suggerisce tutto ciò? La legalità e la sicurezza dei
cittadini vengono prima di ogni altra cosa. È da manuale lo slogan adottato dal
sindacato autonomo di polizia e dalla dirigente scolastica dell’Isis
Fermi-Mattei di Isernia. È un messaggio che arriva immediatamente alla pancia,
che sollecita un primitivo bisogno di autoconservazione. Nel binomio
legalità/sicurezza, il primo termine è assorbito dal secondo, in una voragine di
pulsione sicuritaria.
Slogan di questo genere sono il peggior veleno per la democrazia, poiché parlano
al nostro istinto e dunque trovano una prima, istantanea, accoglienza: tutti
siamo spaventati dalla mancanza di sicurezza, e una promessa sicuritaria,
istintivamente, ci rassicura. Ma in questo modo il corpo della democrazia
assimila gradualmente uno spirito che gli è contrario, e questo spirito,
lentamente, la corrompe, la svuota dall’interno, come il più letale dei mali.
Non è vero che la legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni
altra cosa. Non è questa la democrazia. Non è questo lo stato di diritto. Se per
legalità si intende il rispetto della legge, in un’effettiva democrazia esso non
è l’elemento, il valore-concetto, che precede ogni altra cosa: una legge è
sempre e solo la volontà espressa dalla maggioranza; la democrazia non dovrebbe
essere il regime in cui comanda la maggioranza, ma quello in cui sono tutelate
le minoranze. Nel gioco delle parti, la legge è sì espressione della volontà
della maggioranza, ma essa non può negare i princìpi della dignità della persona
e i suoi corollari, così come fissati nell’assiologia costituzionale. Dunque non
è il rispetto della legge – la legalità – a precedere ogni altra cosa, ma il
rispetto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fissati in Costituzione.
Quanto all’altro polo dello slogan – la sicurezza –, sì, certo, la sicurezza
costituisce una priorità, ma occorre essere cauti: la sicurezza non può essere
ridotta alla mera tutela dell’integrità fisica delle persone; quest’ultima
dimensione ne costituisce certamente una misura minima, ma non esclusiva. Del
resto, tale sicurezza potrebbe essere garantita anche in un regime autoritario,
in un regime oppressivo. Si può essere “sicurissimi”, sotto questo punto di
vista, anche in un regime di privazione assoluta della libertà. La sicurezza cui
mira la nostra democrazia è invece un’altra cosa; essa è la sicurezza sociale a
cui si riferisce l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
paese».
E di questa sicurezza chi ne parla più? È forse il caso di sottoporre tale
quesito al sindaco di Isernia, Piero Castrataro, così che possa riflettere
sull’assennatezza e sulla validità delle proprie riflessioni. Secondo il primo
cittadino di Isernia è stata «una scelta vincente quella di coinvolgere gli
studenti dei tre istituti superiori della città» nella celebrazione del decimo
congresso provinciale del sindacato autonomo di polizia.
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Mentre non è ancora morto il Poteve Opevaio, schiere di sfruttati continuano a
prendere il bus al volo
di Marco Sommariva da Carmilla
Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il
giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle
sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a
festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una
versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico
L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di
color correction.
Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio scrive per “L’Europeo”, un settimanale
d’attualità edito da Rizzoli pubblicato sino al 2013; diventerà un libro nel
1971, quando lo stesso editore del settimanale gli proporrà di raccogliere
queste storie in volume.
Nella premessa del libro datata luglio 1971, l’attore genovese scrive: “Con
Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione
della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o
sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con
onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per
sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi. Nel suo mondo il
padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società,
il mondo. E di questa struttura lui ha paura sempre e comunque perché sa che è
una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai
abbastanza. Questo per lo meno qui da noi. Ma questo rischia di diventare un
discorso politico troppo serio per uno «scherzo» quale deve essere tutta questa
faccenda del «libro» e mi fermo qui”.
Era ed è sì un discorso politico: lo era allora, quando sul viso di Fantozzi
ritrovavamo tutte le sconfitte dell’impiegato medio italiano, non una
caricatura, ma una discarica pubblica dove ci si alleggeriva tutti, in cui si
evacuavano le risate amare che le nostre facce da culo producevano guardando le
genuflessioni del Ragionier Ugo davanti allo stesso Megadirettore Galattico che
ci aspettava l’indomani in ufficio, al quale rispondevamo “faccio subito”
intanto che speravamo che qualcuno gli sparasse nelle gambe; lo è al giorno
d’oggi, mentre una struttura-società che non ha bisogno di noi e non ci
difenderà mai abbastanza, ci sta sfruttando con quella viscida delicatezza che
cinquant’anni fa ancora non esisteva, che prevede di non prenderci a
manganellate perché, con gli anni, è stata capace di convincerci che dobbiamo
essere noi a manganellare i nostri pari che non seguono le direttive dei potenti
– non a caso, nella stessa premessa l’autore ci consiglia coi potenti “di essere
vischiosi, servili e sempre d’accordo anche su posizioni «fasciste»”, un po’
come certi conduttori televisivi che da decenni non riusciamo a scollarceli di
dosso, regnanti indiscussi di squallidi studi televisivi consacrati alle
celebrazioni del regime.
Sul manganellare i nostri pari, Villaggio aveva capito che era un processo già
iniziato: “[…] la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena
nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un
bicchiere di vino ristoratore. Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma
si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce
all’uomo degli ultimi centovent’anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto
e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c’erano moltissimi impiegati
ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la
direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica
caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi
abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti”.
A differenza dei tanti comici che proliferano nei numerosi spettacoli d’oggi
creati apposta per far ridere il pubblico e che sempre più raramente raggiungono
l’obiettivo, Villaggio non ci parla di una zona dell’Italia – siciliani o
calabresi “contro” milanesi, nordisti “contro” sudisti, apologie del romanesco,
napoletano, toscano, eccetera – non ci parla di uomini “contro” donne e
viceversa – i primi che sporcano di pipì la seduta del water, le seconde che
sono intrattabili in “quei giorni” – no, Villaggio non ha alcuna intenzione di
anestetizzarci con queste fesserie che fingiamo di credere esistere ancora
ridendo fintamente a crepapelle perché intorno a noi altri fanno la stessa cosa,
no, Villaggio ci parla dell’autobus preso al volo perché cinquant’anni fa si
provava a dormire sino all’ultimo minuto dopo giornate snervanti già allora per
la mancanza di senso, che mi ricordano molto da vicino la vita che fanno certe
dipendenti della cooperativa che ha in appalto la pulizia degli uffici dove
lavoro che, stremate dalla giornata lavorativa precedente, alle cinque del
mattino prendono al volo il primo di tre autobus che, dopo un’ora e mezza di
viaggio, le porterà a svuotarmi nuovamente il cestino chiedendomi scusa per il
disturbo, e il tutto per un pugno di euro all’ora, lo stesso che a volte mi
capita di dare in elemosina a Yassir, il ragazzo bengalese che mi riporta a
posto il carrello vuoto, dopo che ho riempito l’auto coi sacchetti della spesa,
situazione che a volte mi fa sentire come il Megadirettore Galattico Duca Conte
Maria Rita Vittorio Balabam, il Direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani o
un altro qualsiasi feroce padrone o amministratore delegato: è un attimo saltare
dall’altra parte della barricata senza neppure accorgersene.
Se è vero che 1984 di Orwell fu un romanzo premonitore, vedete se vi dice
qualcosa dei nostri giorni questo estratto del libro Fantozzi: “Cominciò […] una
discussione tra giovani sulla contestazione studentesca e l’intervento americano
in Vietnam. Fantozzi credeva di essere nel covo della reazione: ma con suo
grande stupore s’accorse che più quei gran signori erano bardati con orologi
Cartier e brillanti (con uno solo dei quali lui avrebbe vissuto senza patemi il
resto dei suoi giorni) più erano su posizioni maoiste. La maggior parte, giudicò
Fantozzi, era a sinistra del partito comunista cinese. […] L’indomani mattina
lui “timbrava” alle 8: pensando a quei giovani sovversivi che si sarebbero
svegliati a mezzogiorno, gli si confondevano le idee”.
Questo è Fantozzi; Villaggio, invece, nella biografia in quarta di copertina
della seconda edizione del libro, datata 1981, si definisce “figlio di padre
ricchissimo” e per questo “a sinistra del partito comunista cinese”, non solo,
sostiene che “a Roma ha fondato con un gruppo di nobili una frangia politica di
estrema sinistra molto “in” che si chiama «POTEVE OPEVAIO»”.
Il libro Fantozzi era anche confortante; alla rabbia di mio padre che
bestemmiava nel leggere dell’ennesima apparizione mariana a una contadina
quattordicenne, piuttosto che a dei bambini impegnati a sorvegliare un gregge o
a una bambina belga, il concittadino e quasi coetaneo Paolo Villaggio rispondeva
così: “Un giorno c’era un tale caldo che a Fantozzi alle undici del mattino,
mentre era in cucina che faceva correre un po’ d’acqua per bere, comparve
improvvisamente la Madonna. Era in piedi sull’acquaio e gli sorrideva, poi
scomparve. “Sarà questo maledetto caldo” si disse: e decise di raggiungere la
moglie in campagna. Mentre si preparava per il viaggio si domandava perché mai
la Madonna per il passato si sia limitata a comparire a pastorelli
semianalfabeti e in zone montuose, e mai per esempio a Von Braun, al Centro
Spaziale di Houston durante una riunione della NASA. Non ricordava infatti di
aver mai letto sui giornali notizie di questo tipo: “Ieri alle 16,30 la Santa
Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di
studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di “meccanica
applicata alle macchine”. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è
svenuto di fronte a duecento studenti”.
Il libro Fantozzi è ancora confortante; alla mia rabbia condita di bestemmie che
fa seguito all’ascolto di boiate pazzesche tipo quella espressa da due signore
bionde col fisico scolpito che, d’estate, alla spiaggia, lamentano il “sold out”
– a giugno! – nelle “location” più “in” di New York che le costringerà a
trascorrere il Capodanno da un’altra parte, mentre una donna africana larga
quanto le due messe assieme passa loro accanto stracarica di mercanzia che
nessuno vuole, le pagine del libro mi consolano così: “A un’ora da Roma,
Fantozzi andò in corridoio a fumare. C’erano due bambini molto belli biondi,
figli di ricchi: tutti i figli dei ricchi sono biondi e uguali, i figli dei
braccianti calabresi sono scuri, disuguali e sembrano scimmie. Erano dei bambini
molto educati e non facevano rumore. Una baby-sitter americana bionda li
custodiva. Uscirono dallo scompartimento le madri. Erano molto giovani, molto
belle, molto ricche, molto profumate, molto eleganti e molto abbronzate:
venivano da due mesi sulla neve a Gstaad in Svizzera e parlavano della gente che
c’era lassù. Fantozzi le guardava con la bocca semiaperta. Le due donne
cominciarono a parlare delle loro prossime vacanze al mare ed erano un po’ in
pensiero perché non sapevano più dove andare: dovunque ormai andassero, dalla
Corsica alle isole Vergini, trovavano della gente orribile. Fantozzi si commosse
quasi per il dramma di quelle poverette. Il treno entrò alla stazione Termini.
Sulla banchina c’era una tragica lunga fila di terremotati siciliani del Belice.
Erano seduti sulle loro valigie di cartone […] e guardavano muti il vuoto. Una
delle due signore disse: “E’ stato un anno davvero disgraziato!”. “Meno male”
pensò Fantozzi “che si occupano di questi poveracci!”. “Perché?” domandò
l’amica. E l’altra: “Perché non abbiamo mai avuto a Gstaad una neve così poco
farinosa!”
Perché mi consolano queste pagine? Perché avere testimonianza scritta che figure
così mostruosamente stronze già esistevano più di mezzo secolo fa e che, quindi,
certi orrori non sono solo frutto degli sfaceli della mia generazione, solleva
un poco il morale: lo so, non sono messo bene.
Perché la mia generazione, e pure quella dopo, di errori ne ha fatti veramente
tanti, nonostante gli ammonimenti ricevuti da cinema e letteratura; avvertimenti
che, ancor oggi, continuano a esser lanciati vista la produzione di Scissione,
una serie televisiva statunitense del 2022 dove gli impiegati di una ditta non
conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, sono
solo schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro
precluso. Allo sceneggiatore televisivo e produttore statunitense Dan Erickson,
l’idea gli è stata ispirata da certe sue deprimenti esperienze lavorative
giovanili maturate in ambito impiegatizio, un po’ come Paolo Villaggio quando,
da giovane, lavorava all’Italsider di Genova come impiegato e iniziava a mettere
in cantiere certe idee, ma per saperne di più su Scissione v’invito a leggere
questo pezzo di Walter Catalano: Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli
incubi di Fantozzi.
Conforto, consolazione, riconoscenza, ecco quello che raccolgo dal genio di
Paolo Villaggio, e non sono il solo; scriveva Oreste Del Buono nell’introduzione
al libro: “L’ultima apparizione di Paolo Villaggio a cui ho assistito in
televisione quasi mi ha fatto piangere per la riconoscenza. La riconoscenza per
chi si sobbarca il peso di tutti i diseredati dell’aspetto e del gesto, di tutti
gli umiliati e offesi dalla propria bruttezza e goffaggine, di tutti i mutilati
del pensiero e della prassi, dell’affabilità e della sintassi. Si era sotto le
feste di Natale, magari alla viglia stessa. Avevano chiamato Paolo Villaggio in
televisione per commentare insieme natività e austerità, un miscuglio di moda
nel nostro disgraziato paese”.
Chi aveva invitato l’attore genovese s’aspettava da lui un po’ d’umorismo, ma
sbagliò i suoi conti: Villaggio si presentò trasandato, malmostoso e, parlando
con piglio truce, disse “controvoglia una sgradevolezza dopo l’altra” e prese a
parlar male di se stesso, perché quello aveva da dire – Paolo Villaggio non
fingeva mai.
A proposito di Natale, leggete quest’altro estratto del libro Fantozzi: “A casa
la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno
sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse:
“Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con
violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra
rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi,
nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande
dignità”.
Quella dignità che perdiamo quando siamo preda della sindrome da consumo; ossia,
quasi sempre.
Villaggio fa cenno al boom consumistico in un’intervista rilasciata alla
Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è
vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla
televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo
preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo
determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!,
che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave
consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e
contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma,
tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è
incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale
chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale
entrasse in crisi”.
Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in
seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui
l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi
energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per
uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza
prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che
terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari.
Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo
determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a
rallentare.
E se pensate che anche andare a vedere la versione di Fantozzi rimessa a nuovo
faccia parte di questo circolo vizioso, quello del consumare e del vivere
secondo determinati schemi, vi rispondo che andrò ugualmente a vederlo
lasciandovi alla vostra erre moscia e a quella cagata pazzesca de La corazzata
Potëmkin.
E mentre mi si azzera la salivazione per l’emozione dovuta a questa mia
intransigente presa di posizione, già sento iniziare lo scroscio dei novantadue
minuti di applausi che mi renderanno immortale.
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Da Piazza del Popolo allo scontro surreale su Ventotene. È evidente il tentativo
in atto, da parte di chi guida la cultura e la comunicazione mainstream, di
convincere l’opinione pubblica che è giunto per tutti il momento di combattere,
e forse anche morire, per difendere l’Europa, i suoi valori, la sua tradizione
di pensiero
di Gianmaria Nerli da l’Unità
Anche questo periodo di rivolgimenti geopolitici e crisi epocali è tempo di
“fenomeni morbosi”, per dirla con Gramsci. E anche oggi inedite forme di
nazionalismo tornano a ridisegnare il senso e l’orizzonte del mondo. È infatti
un fenomeno ormai evidente il tentativo in atto, da parte di chi guida la
cultura e la comunicazione mainstream, di convincere l’opinione pubblica che è
giunto per noi tutti il momento di combattere, e forse anche morire, per
difendere l’Europa, i suoi valori, la sua tradizione di pensiero. Il tutto
all’insegna di un ri-nato orgoglio nazionalista europeo, che accantona i
sovranismi e i nazionalismi dei singoli paesi in nome dell’europeismo, ma che
del nazionalismo ripropone neanche troppo velatamente le logiche e di cui
riproduce le matrici psicologiche, forze indispensabili per una chiamata alle
armi. Campo di battaglia di tale propaganda è l’ampio fronte di chi sente di
appartenere alla cultura liberale moderata e progressista egemone in questi
decenni; ovvero la maggioranza più o meno silenziosa dei nostri giorni che è
ragionevolmente bisognosa di riconoscersi in qualche valore fondante dopo il
vuoto lasciato da 40 anni di politiche neoliberali e di ipocrita demonizzazione
delle ideologie.
Mentre per la cultura di destra, nell’attuale cataclisma, è facile riconoscersi
nelle radici identitarie della nazione o del credo cristiano, ed infatti rimane
fuori dal target della propaganda, diverso è il discorso per chi anche a
sinistra è vissuto per decenni sotto la martellante litania dei miti postmoderni
della globalizzazione redentrice, della pacificante fine della storia, della
religione unica del mercato. Questo ampio fronte, disorientato dall’imminente
crollo del mondo in cui ancora vive, deve essere convinto che oggi la vera
battaglia di civiltà sta nel difendere l’Europa e i suoi valori. E così, come in
un remake holliwoodiano degli anni Dieci del Novecento, una parte sostanziosa di
intellettuali, chiamiamoli mainstream, organici a questo ampio fronte sono stati
ormai arruolati, come dimostra l’attivismo di Repubblica, nel promuovere un
europeismo idealizzato e insieme armato, ultimo baluardo di bene in nome del
quale combattere. È l’europeismo sentimentale ed eurocentrico che si è ritrovato
nella manifestazione del 15 marzo lanciata non a caso da Michele Serra, un
intellettuale che di mestiere scrive elzeviri.
Va detto subito che lo scoglio principale di questo progetto di costruzione di
un sentimento nazionalista europeo consiste nel confronto con la realtà, da qui
il bisogno della propaganda. La realtà tanto dei fatti storici: alla cultura
europea dobbiamo da alcuni secoli l’ideazione dello sterminio sistematico delle
altre popolazioni in nome della propria superiorità, inventando il razzismo come
legittimazione, imponendo il colonialismo come forma di governo e l’imperialismo
come forma di sostegno all’economia; più che erede della democrazia ateniese,
che, ricordiamolo en passant, si sosteneva grazie a un’economia schiavile,
l’Europa assomiglia piuttosto al discendente stanco di chi ha accumulato le
proprie ricchezze con la rapina e il saccheggio.
Quanto alla realtà dei fatti attuali: il sentimento popolare diffuso non si
riconosce nel pensiero di queste élite intellettuali, stando almeno ai recenti
sondaggi che bocciano tanto il piano di riarmo di Von der Leyen che il sostegno
all’Ucraina voluto dall’Ue. Come cento anni fa, quando gli intellettuali e gli
studenti manifestavano per l’entrata in guerra, e contadini e operai, consci che
a morire nelle trincee sarebbero andati soprattutto loro, si opponevano. Anche
oggi a volere la difesa europea, e magari il ripristino della leva obbligatoria
per forgiare dei veri guerrieri, sono la classe dirigente e una parte di
intellettuali tra i 60 e 70 anni, non gli anonimi e impauriti cittadini che
magari pensano al futuro concreto dei propri figli.
Vale la pena dunque interrogarsi sulle ragioni profonde di tale nuovo
arruolamento degli intellettuali alla causa del nazionalismo, e della creazione
di un nuovo mito nazionalista europeo. Le polemiche sui discorsi che hanno
accompagnato la manifestazione per l’Europa, e lo scontro surreale sul Manifesto
di Ventotene danno alcune utili chiavi di lettura, in quanto sono entrambi
sintomatici di un modo di ragionare e di fondare il pensiero teso a rimuovere o
capovolgere il senso delle cose, come si fa quando si deve adattare la realtà
alla narrazione che si ha in testa.
L’aspetto più interessante del gran rifiuto meloniano verso l’autorità simbolica
del Manifesto di Ventotene, negli ultimi anni trasformato in una sacra reliquia
della religione europeista, e come tale quasi mai letto, non è il
disconoscimento di quel testo evidenziandone la matrice socialista, procedimento
tutto sommato legittimo da parte di chi incarna i valori di una destra non
antifascista che della nazione fa un mito fondante: sta anzi nelle cose, e
fortunatamente, che quel manifesto da costoro sia disprezzato. Ciò che invece è
estremamente interessante è l’ampio fenomeno di indignazione con rimozione con
cui l’ampio mondo liberale e progressista ha reagito. Non si contano storici,
intellettuali, parlamentari, che si sono affrettati a dire che estrapolando
delle citazioni si falsifica il testo, che bisogna tenere conto del contesto
storico, che è frutto dell’isolamento, insomma tutte dichiarazioni per dire che
parole come abolizione proprietà privata, partito rivoluzionario ecc. sono
parolacce, che facevano parte dello spirito dei tempi e della reclusione, ma che
quel testo, in seguito emendato nei fatti dagli stessi autori, è santo.
Addirittura il Benigni addomesticato di questi tempi, ha sentito di dover dire
che, sì, ci sono delle idee superate, ma l’opera dei tre eroi è fondamentale per
costruire l’Europa federalista. Questo diffuso atteggiamento di giustificazione
mette in luce il rimosso vero e proprio: ossia la cancellazione di ogni forma di
pensiero che fuoriesce dall’ortodossia liberale oggi egemone.
In questo modo, cancellando il pensiero sociale che lo ispira, non solo si
rovesciano le premesse filosofiche antinazionaliste del Manifesto, ma l’uso che
se ne fa è ribaltato: di quell’esperienza si prende solamente un astratto
federalismo europeo, che, va ricordato, nelle premesse di quel testo era un
passaggio per arrivare kantianamente all’unità politica della terra, e lo si
eleva a obiettivo strategico. Ma quell’involucro federale, se è svuotato dei
contenuti che portano alla pace, resta un involucro vuoto, che afferma il
contrario dell’internazionalismo ispiratore: nelle premesse teoriche del
Manifesto la guerra imperialista nasce dall’implosione degli stati perché le
classi dei possidenti non accettano le conquiste dei ceti proletari, e che i
limitati spazi della democrazia liberale d’inizio secolo diventano un pericolo
perché mostrano la possibilità di raggiungere più uguaglianza e libertà per vie
legali. Senza quindi questi contenuti sociali e rivoluzionari, che oggi si cerca
di liquidare come residui trascurabili, il federalismo europeo millantato,
trasformandosi nella rivendicazione di una superiorità per natura, è la
negazione degli intenti internazionalisti dei cosiddetti padri fondatori.
Allo stesso modo, già dall’iniziale vaghezza dell’appello per la manifestazione
in difesa dell’Europa, senza entrare nel dettaglio dei singoli discorsi o
articoli con cui si è costruita la campagna, su cui ci si potrebbe divertire a
lungo mostrandone i reali contenuti di verità, si intuisce l’operazione di
rovesciamento che viene orchestrata. Si chiama il popolo europeo a raccolta per
stringersi unito contro la minaccia di un nemico: in primo luogo la Russia di
Putin, ma anche gli Stati Uniti del traditore Trump, e magari la Cina
insondabile e sorniona che se ne sta in silenzio. Questa è d’altronde la
narrazione a cui ci hanno allenato. Eppure questa narrazione si basa su una
falsità tanto lampante quanto pericolosa. La Russia, pur portando avanti una
politica di potenza di tipo imperialistico, non assume nell’Europa un nemico,
non la vuole conquistare, non ne avrebbe le capacità, e in definitiva combatte
una guerra che avrebbe volentieri evitato. In sintesi, non vuole e non ha
bisogno dell’Europa come nemico. È questa Europa che ha bisogno di costruire un
nemico per non sgretolarsi, per non crollare, e la Russia è il candidato ideale.
La manifestazione ideata dagli intellettuali mainstream serve anche a questo
proposito, a creare il nemico, anche per legittimare la costruzione del mito
nazionalistico dell’Europa indomita e coraggiosa. Lo potremmo chiamare, con un
po’ di fantasia, la nascita dell’irredentismo europeo, il tentativo di liberare
dal giogo nemico una terra che ancora non esiste nella realtà. Non esiste nella
realtà, ma sì nella scommessa imbastita dalle élite, che nel tentativo di non
soccombere hanno deciso che anche l’Europa, stretta tra opposti imperialismi, si
deve fare impero.
La speranza è che nessuno di questi intellettuali mainstream voglia morire
imperiale, anche se si sente parte della élite che lotta per salvarsi. Se
qualcosa di veramente memorabile ha prodotto nei secoli la cultura europea è
stata la capacità creare sempre un pensiero antagonista e alternativo a quello
che creava continui mostri: così è stato per il movimento operaio con lo
sfruttamento capitalistico, così per il movimento anticolonialista, così per il
pensiero femminista, e così via. Questa tradizione può essere ripresa,
rinnovata, rinvigorita, coinvolgendo in questo lavoro di speranza anche tutti
gli intellettuali che oggi si sentono smarriti e si affidano a un facile e
prevedibilmente fallace nazionalismo europeo. Non è certo infatti da questa
linea di pensiero eurocentrica, organica alla cultura liberale e neoliberale che
ha creato il disastro in cui stiamo affondando, che possiamo aspettarci uno
scarto per superare indenni e pacifici questi anni turbolenti. Da qui la
rimozione operata sul Manifesto di Spinelli, Colorni e Rossi: sarà solo mettendo
in discussione il sistema economico e sociale costruito dal capitalismo liberale
e neoliberale che si estirperanno le ragioni della guerra, della politica di
potenza, dell’imperialismo e del nazionalismo, e si affermeranno le ragioni
della pace e della giustizia sociale. Forse quello di cui abbiamo bisogno è
proprio quel pensiero rivoluzionario rimosso; e insieme di tutti quegli
intellettuali che con un pensiero di radicale cambiamento vogliano misurarsi,
per il presente e per il futuro. Ma per costruire, kantianamente, non un’Europa,
bensì una Terra unita, uguale, in pace.
> Caro Roberto (Vecchioni)
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Da Samarcanda alla piazza del 15 marzo
di Marco Sommariva*
Non avevo ancora compiuto quattordici anni quando i miei pomeriggi venivano
scanditi dal giradischi, o meglio, dai pochi vinili che avevo: all’epoca,
trovare i soldi per comprarne uno non era semplice – sto parlando del ’76, ’77.
Diesel di Eugenio Finardi, Burattino senza fili di Edoardo Bennato, La luna di
Angelo Branduardi e Samarcanda di Roberto Vecchioni arrivarono a ruota di
Umanamente uomo: il sogno di Lucio Battisti, del Volume 3° di Fabrizio De André,
de La torre di Babele di Edoardo Bennato e di Elisir di Roberto Vecchioni:
questi otto dischi hanno dato un’impronta indelebile all’animo di quel ragazzino
che, tra le mille peripezie della Vita, è diventato l’uomo che sono, quello che
oggi ha più di sessant’anni.
Raccontare nel dettaglio cosa mi hanno insegnato questi otto dischi, quanto mi
ha fatto crescere ogni loro canzone, quali ragionamenti la mia giovane mente è
stata indotta a intraprendere, sviluppare grazie ai testi contenuti in questi
long playing, sarebbe cosa lunga e, molto probabilmente, anche noiosa;
nonostante tutto, vorrei provare a fare quest’analisi prendendone uno a caso:
Elisir di Roberto Vecchioni, per esempio.
Dal brano Un uomo navigato ho imparato che non vanno letti i giornali e i libri
o ascoltati i telegiornali e i segretari di partito solo per poter ripetere come
pappagalli frasi scritte o dette da altri, cercando di convincere se stessi e
gli astanti che, non solo si crede fermamente in questa nostra recita, ma che
l’esposizione è addirittura frutto del proprio intelletto, ragionamento; questo,
secondo me, è ciò che Vecchioni mi ha insegnato col passaggio Sentirsi il
migliore, il primo, il vero, il solo, e invece elencare concetti presi a nolo.
Dal brano Velasquez ho imparato che bisogna sempre scrivere e lottare, e così ho
sempre fatto, specie quando ho scoperto che la prima azione aiuta la seconda, e
ho continuato a farlo anche quando era molto più semplice fermare la vela delle
mie rotte intraprese volutamente fra i marosi della Vita e tornare in un porto
sicuro che sapevo bene esserci e come trovarlo: Certe sere quanta voglia,
fermare la vela e ritornare da mia moglie, e tu [Velasquez] mi dici Fatti
scrivere è normale. Per te [Velasquez] bisogna sempre scrivere e lottare.
Fu soprattutto lì che per me tutto cominciò, caro Roberto, con Velasquez, e per
questo mondo, questo mondo da cambiare.
Dal brano Le belle compagnie ho imparato che c’è qualcosa al mondo che si chiama
anarchia e che occorre fare attenzione a non commettere l’errore di entrare in
competizione con chi, come te, quest’idea prova a praticarla, ma anche che, in
generale, non dev’essere una gara a chi è più antifascista, più “a sinistra”,
più rivoluzionario o chissà che altro, specie se nel frattempo ci è sfuggito il
fatto che proviamo ad avere conferma di quanto siamo belli per la nostra
ribellione che spesso ci anima solo a parole senza, però, preoccuparci d’essere
ancora una rotella dell’intero sistema che siamo convinti di combattere: Su,
dimmi specchio delle mie brame chi è il più anarchico del reame?
Dal brano A.R., iniziali di Arthur Rimbaud, ho imparato che, nel tentativo di
cercare un’altra poesia, si può cambiare, persino rivoltare il senso alle
parole, ma al contempo ho capito che la stessa tecnica la può utilizzare chi
vuole farti credere una cosa per un’altra, chi tenta di far passare per
“vincenti” concetti espressi in passato ma risultati chiaramente “perdenti” e,
quindi, capisco che occorre fare attenzione a tutti questi artigiani della
parola, che siano professori di scuola, preti, leader politici, parenti,
giornalisti, partner, scrittori, eccetera: Ribaltare le parole, invertire il
senso fino allo sputo.
Da Il suonatore stanco ho imparato che si può anche dire no, che questo “no” può
essere tanto deciso quanto pacifico ed elegante, e che il diniego va osato anche
quando dall’altra parte c’è gente potente, capace di far male: All’alba verranno
a domandarmi venti chili di riso, ma manteniamo la calma, l’importante è dirgli
un no deciso. Forse li accoglierò con la vestaglia turchese, rendendo baci per
le offese […] Sta di fatto, però, che quelli là giocan duro, quelli mi infilano
in un muro.
Da Canzone per Francesco, un testo dedicato al suo amico Francesco Guccini, ho
imparato che se una volta ci si muoveva, si spendevano energie per far valere i
propri diritti, oggi ci si muove per giungere a mete che altri ti hanno convinto
essere importanti, movimenti di persone verso il niente, soprattutto, contro il
niente: La rabbia un tempo la scandiva soltanto la locomotiva […] e contro il
niente adesso parte ogni mezzora un volo charter itinerario di gran moda.
Da questo testo ho anche imparato che il sedersi su un volo charter è deleterio,
che invece bisognerebbe darsi da fare e pure in fretta, ma non per correre
dietro ad aerei che decollano ogni mezz’ora: E noi vediamo un po’ d’alzarci,
perché è l’ora, perché è tardi.
Da Pani e pesci ho imparato a diffidare dalla Storia che ci insegnano, per cui
ho iniziato a cercarla andando a chiedere lumi direttamente a chi aveva vissuto
gli avvenimenti, e non leggendo pagine che, visto il periodo storico, potevo
ricostruire e scrivere personalmente: Ad Adua si era in mille contro duecento
negri però la Storia dice che ci siamo ben difesi. Ho imparato a diffidare di
chi promette: I vecchi han mille mille mille maschere da giovani quando
spargendo lacrime e medaglie ti promettono pani e pesci, pesci e pani. Ho
imparato a diffidare di chi manda al macello gli altri, sia che si tratti di
guerre sia che si tratti di lavori indegni: Ben altra morte in tanti senza
batter ciglio affrontano per mantener le sedie a tutti quelli che promettono
pani e pesci, pesci e pani. Ho imparato a diffidare persino di chi contesta il
Potere e le sue modalità: E l’occhio del padrone a furia d’ingrassare fece
ingrassare pure chi lo stava a contestare.
Da Figlia ho imparato ad agitarmi, sempre, anche quando mi si diceva che era
inutile tanta verve, che era meglio omologarsi, ho imparato a strillare la mia
agitazione, a strillare la Vita: Sempre contro finché ti lasciano la voce,
vorranno la foto col sorriso deficiente, diranno Non ti agitare che non serve a
niente, e invece tu grida forte, la Vita contro la Morte.
Da Pagando s’intende (Canzone degli effetti sbagliati) ho imparato che
l’agitazione, la verve, il brio che, fra le tante cose, mi hanno permesso di
gridare la Vita anche contro una libertà che non mi sembrava tale, erano tutti
elementi che mi aiutavano a essere lucido: La rabbia mi mantiene calmo e abbasso
questa libertà.
Caro Roberto, credo proprio che fu soprattutto lì che tutto cominciò, fu con
l’ascolto attento delle canzoni contenute nel trentatré giri Elisir che capii
che serviva darsi da fare per questo mondo, questo mondo da cambiare.
Caro Roberto, so che il 15 marzo scorso, durante la manifestazione «Una piazza
per l’Europa», hai profferito anche questa frase: Ora […] chiudete gli occhi un
momento e pensate ai nomi che vi dico, io vi dico Socrate, vi dico Spinoza,
Cartesio, vi dico Hegel, Marx, e vi dico anche Shakespeare, vi dico Cervantes,
vi dico Pirandello, Manzoni, Leopardi, ma gli altri le hanno queste cose?
Non considererò altri passaggi del tuo intervento, anche perché so che l’hanno
già fatto in molti e, sono certo, meglio di quanto potrei riuscire io: mi
limiterò a questo.
Caro Roberto, chi sono “gli altri”? Per cortesia, non rispondermi: è una domanda
retorica – ho paura di quello che potresti dirmi. Ti dico solo che mi hai
ricordato una conoscente che ho smesso di frequentare perché così pregna di
tanta ignoranza da rivelarsi pericolosa per sé e per gli altri, perché col suo
“noiatri” – “noi”, in dialetto genovese – a infarcire ogni suo discorso, ha
sempre sbattuto in faccia a tutti “gli altri” che noi genovesi certe cose non le
diciamo, non le facciamo, neppure le pensiamo, che il male viene sempre e
soltanto da “gli altri”, e con questo sbattere in faccia a chiunque il suo
pedigree peraltro tutto da dimostrare, ha creato rancori, inimicizie, odii,
vendette che hanno colpito specialmente la persona in questione e i suoi cari,
perché dopo aver seminato gerarchie, ghetti, confini, è questo che alla fine si
raccoglie: astio, dolore, guerra.
Nel ’76 mai avrei immaginato che tu finissi col ricordarmi personaggi del
genere.
Roberto, cosa ti è successo? Una volta “gli altri” erano quelli che ti tenevano
fermo tanto per parlare, ricordi? Era quando tu pensavi Ora gli dico sono
anch’io fascista, ma a ogni pugno che ti arrivava dritto sulla testa, la tua
paura non bastava a farti dire Basta. Ricordi? Sapessi quanto coraggio mi hanno
dato queste tue parole, quando il fascismo di tante insospettabili camicie
bianche mi prendeva a pugni sulla testa per schiacciare e scacciare certi miei
ragionamenti e io, che sapevo mi sarebbe bastato schierarmi un minimo dalla loro
parte per smetterla di soffrire, nonostante la paura che m’incuteva la violenza
del nemico, perseveravo perché non accettavo di scendere da quella pianta
libertaria che tu avevi fatto germogliare e che nessuna ideologia al napalm
riuscirà mai a defoliare, tantomeno ad abbattere
Non ti ho seguito più molto, ma so che frequenti la TV, che spesso siedi accanto
a un giornalista, e spero questo non t’abbia dato alla testa: ricordi quando in
Canzone per Francesco cantavi che il giornalista in fondo è un modo di campare?
Nella stessa canzone dicevi che gli imbonitori sono troppi e non li fermi, e
avevi ragione: nessuno ti ha fermato durante il tuo intervento in Piazza del
Popolo, nessuno ti ha detto sbagli, guarda che t’inganni, quelli che hanno
organizzato tutto questo hanno solo meno dubbi e meno anni. Dove sono finiti i
tuoi dubbi, Roberto? Nel caso il tuo fosse stato solo un tentativo, mi permetto
di consigliarti di fare attenzione a certi esperimenti perché, andando a
svestirti per tornar normale, potresti non essere più in grado di distinguere
cos’avevi indossato di vero e cosa di finto rischiando, così, di confondere te
stesso con la barba al mento.
Hai parlato di “noi” europei scegliendo, quindi, per compagnia anche portoghesi,
inglesi e tanti altri uccelli da rapina come cantavi in A.R.
Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato che il più
grande conquistò nazione dopo nazione e che quando fu di fronte al mare si sentì
un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente e che questo
signore, in fondo, aveva percorso tanta strada solo per vedere un sole
disperato.
Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato ai ragazzi di
fare attenzione a quelli che diranno loro parole rosse come il sangue, nere come
la notte, perché non è vero che la ragione sta sempre col più forte.
Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo avevi già invitato a
chiudere gli occhi, ma non per pensare ai “nostri” Socrate, Spinoza, Cartesio,
Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni e Leopardi, bensì per
credere solo a quel che si vede dentro, hai invitato a chiudere gli occhi e
insieme a stringere i pugni per non lasciargliela vinta neanche un momento.
Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato di lasciar
parlare chi dice che al mondo certe persone sono destinate a perdere sempre
perché, semmai, queste continue sconfitte che il Sistema ti affibbia sono, in
realtà, delle vittorie.
Ammetto che potrei aver scritto un’infinità di sciocchezze sinora perché potrei
aver inteso dalle parole dei tuoi testi, cose che neanche hai mai pensato, ma
sarei comunque contento d’aver interpretato così certi tuoi brani: mi hanno
tenuto in piedi anche quando non sapevo fossero loro a darmi forza, e in questo
senso funzionano ancora benissimo.
Le tue parole cantate mi hanno insegnato una marea di cose, a essere forte, a
essere dolce, a essere forte senza mai dimenticare la dolcezza, a essere dolce
senza mai dimenticare la forza; sarà per questo che ho sempre un fiore dentro il
pugno.
Caro Roberto, anche se non credo sia per te granché importante, desideravo dirti
che lo scorso 15 marzo mi hai deluso molto, mi hai ricordato troppo da vicino
quel conte di cui canti in Pagando s’intende (Canzone degli effetti sbagliati),
quel conte che, al sommo della sua gloria, fece a pezzi la sua vita, a pezzi la
memoria, a pezzi i rubinetti e il sole, e si mangiò anche il cavallo gridando
Adesso so chi sono, più tardi mi ci abituerò. Per piacere Roberto, non ti ci
abituare.
Caro Roberto, anche se non credo sia per te granché importante, desideravo dirti
che, nonostante quanto sopra, non riesco ancora a non volerti bene: forse non lo
sai ma pure questo è amore.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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La censura è un fenomeno in crescita, molti dei libri messi al bando hanno in
comune il fatto di occuparsi, anche solo indirettamente, di razzismo, questioni
di genere o storia
di Marco Sommariva*
Nell’agosto del 2022, diversi giornali ripresero la notizia pubblicata dal
quotidiano britannico The Times riguardo la cosiddetta “cancel culture”, la
cultura della cancellazione, che pareva coinvolgere oltre centoquaranta
università inglesi.
Circa la volontà di oscurare o nascondere opere del passato ritenute
incompatibili con la contemporaneità, due atenei – l’Essex e il Sussex –
accettarono di parlarne col quotidiano inglese, confermando agli intervistatori
d’aver eliminato alcuni titoli dall’elenco dei testi disponibili per gli
studenti.
Fra i libri banditi c’erano, per esempio, La ferrovia sotterranea di Colson
Whitehead, Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, Oliver
Twist di Charles Dickens (perché contiene “abusi sui minori”), oltre a testi di
Jane Austen, Charlotte Brontë, Agatha Christie e molti altri.
Due anni dopo, nel settembre del 2024, grazie a una denuncia di PEN America –
organizzazione non-profit dedicata alla libertà di espressione – venivamo a
sapere che il numero di libri messi al bando nelle scuole pubbliche americane
s’era triplicato in un anno passando dai 3.362 titoli del 2023 agli oltre 10.000
del 2024; tra quelli vietati, c’era anche “Radici” di Alex Haley, un romanzo che
ripercorre la storia di un ramo della famiglia dell’autore che, dal Gambia, fu
deportato in America e fatto schiavo.
Nei giorni scorsi, invece, Giovanni De Mauro scriveva sul settimanale
Internazionale che tra le decisioni più recenti della nuova amministrazione di
Donald Trump c’è l’annuncio della messa al bando di Freckleface strawberry, un
romanzo per bambini e bambine, la storia di una ragazza che non ama le sue
lentiggini ma impara a conviverci: il libro è stato vietato nelle scuole gestite
dal ministero della difesa frequentate da ventimila alunni in tutto il paese,
perché è “collegato all’ideologia di genere”.
Non solo, nello stesso pezzo ci viene spiegato che negli Stati Uniti la censura
può avvenire a tre livelli: locale, in un distretto scolastico che fa circolare
una lista di libri a cui i genitori si sono opposti; statale, quando un
governatore decide di vietare alcuni libri; oppure a livello federale, come nel
caso di Freckleface strawberry.
De Mauro scrive che il fenomeno è in crescita e che molti dei libri messi al
bando hanno in comune il fatto di occuparsi, anche solo indirettamente, di
razzismo, questioni di genere o storia; non solo, riprende la denuncia di PEN
America citando alcuni titoli dei 10.046 vietati: L’occhio più azzurro di Toni
Morrison, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Il mondo nuovo di Aldous
Huxley, Maus di Art Spiegelman, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood e la
saga di Twilight di Stephenie Meyer.
Detto che – come ricorda Esther Cyna , docente universitaria di storia – negli
Stati Uniti “la censura c’è sempre stata, in particolare quando al potere ci
sono i repubblicani, ma questa volta è senza precedenti in termini di quantità
di libri censurati e di velocità con cui tutto succede”, visto che dei sei
titoli citati sul pezzo di Internazionale ne ho letti la metà, ho provato a
riprenderli in mano cercando di capire cosa può aver “spaventato” chi sta al
potere.
Il buio oltre la siepe di Harper Lee, edito nel 1960, è ambientato in una
tranquilla cittadina del profondo Sud degli Stati Uniti, dove l’onesto avvocato
Atticus Finch è incaricato della difesa d’ufficio di Tom, un bracciante negro –
sì, è proprio riportato così nella sinossi della quarta di copertina di
un’edizione Feltrinelli del 2011, “negro” – ingiustamente accusato di violenza
carnale; la vicenda è raccontata dalla piccola Scout (sei anni), figlia
dell’avvocato, mentre rivive il suo mondo, quello dell’infanzia. Finch riuscirà
a dimostrare l’assenza di prove a carico dell’imputato e, in modo
incontrovertibile, che la violenza subita dalla donna è opera del crudele e
ignorante padre – malgrado questo, la giuria condannerà ugualmente Tom che verrà
incarcerato.
Nonostante mi sia impossibile calarmi nei panni di qualsiasi censore, ho cercato
le mie note e sottolineature di quando avevo letto il romanzo della Lee e ho
provato a immaginare cos’altro, oltre all’evidente ingiustizia narrata, poteva
aver “spaventato” il potere, e così ho raccolto questi passaggi:
“Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi
di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?”
“[…] a volte fa più male la Bibbia in mano a un uomo qualunque che una bottiglia
di whisky in mano a… a tuo padre, per esempio. […] Ci sono degli uomini… che si
preoccupano tanto dell’altro mondo da non imparare mai a vivere in questo”.
“Non è una buona ragione non cercare di vincere per il semplice fatto che si è
battuti in partenza”.
“[…] non è mai una vergogna sentirsi buttare addosso una parolaccia. Dimostra
soltanto quanto sia meschina la persona che te la dice: a te non può fare alcun
male”.
“Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare,
e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda”.
“C’è qualcosa nel nostro mondo che fa perdere la testa alla gente: non riescono
a essere giusti neanche quando lo vogliono”.
Il mondo nuovo di Aldous Huxley, edito nel 1932, è ambientato in un immaginario
stato totalitario del futuro, pianificato nel nome del razionalismo
produttivistico, dove tutto è sacrificabile a un malinteso mito del progresso. I
cittadini di questa società, concepiti e prodotti industrialmente in provetta,
durante l’infanzia vengono condizionati con la tecnologia e con le droghe.
Premesso che il libro è un documento inquietante che costringe a riflettere sul
prezzo che quotidianamente siamo chiamati a pagare per costruire il futuro e che
questo avvertimento ai lettori non può di certo lasciar tranquilli chi ha in
mano il potere, anche in questo caso ho provato a raccogliere dal testo sei
frasi capaci di disturbare il sonno di tutti i Trump e i Musk del mondo:
“Le primule e i paesaggi […] hanno un grave difetto: sono gratuiti. L’amore per
la natura non fa lavorare le fabbriche”.
“Coloro che si sentono disprezzati fanno bene ad assumere un’aria sprezzante”.
“Ognuno, uomo, donna e fanciullo, fu costretto a consumare tanto per anno.
Nell’interesse dell’industria. […] È meglio buttare che aggiustare. Più sono i
rammendi e minore è il benessere”.
“Preferisco essere me stesso. Me stesso e antipatico. Non qualcun altro, per
quanto allegro”.
“Si credono le cose perché si è stati condizionati a crederle. […] La gente
crede in Dio perché è stata condizionata a credere in Dio”.
“[…] è il vostro sistema: sbarazzarsi di tutto ciò che non è gradito, invece di
imparare a sopportarlo”.
Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, edito nel 1985, è ambientato in un
mondo devastato dalle radiazioni atomiche dove gli Stati Uniti sono diventati
uno stato totalitario e teocratico basato sul controllo del corpo femminile, che
priva le donne di qualsiasi potere; questo regime è fondato sullo sfruttamento
delle cosiddette ancelle, le uniche che dopo la catastrofe sono ancora in grado
di procreare.
Eccovi i sei estratti “spaventevoli” che ho scelto:
“Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi
mettere di buona volontà”.
“Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente
moriresti bollito senza nemmeno accorgertene”.
“C’è sempre qualcosa per tenere occupata la mente desiderosa di conoscenza”.
“[…] per istituire un sistema totalitario efficace o invero un qualsiasi
sistema, è necessario offrire qualche beneficio e qualche libertà, almeno a
pochi privilegiati, in cambio di ciò che viene loro tolto”.
“Quando il potere è scarso, averne anche solo un poco costituisce una
tentazione”.
“[…] il passato è un grande spazio buio, colmo di echi. Le voci che raggiungono
di lì sono intrise dell’oscurità della matrice da cui provengono e, per quanto
ci si provi, non sempre possiamo decifrarle con esattezza alla luce più chiara
del nostro tempo”.
Alla fine di questi miei ripassi, mi è più chiaro il perché il potere vieta
questi titoli.
Sono contento che il libro spaventi ancora così tanto anche perché, nonostante i
mille divieti e incendi a cui è stato sottoposto nella sua storia, è forse
l’unico oggetto capace, anche a distanza di secoli, di contrastare il potere.
A tutti i Trump e i Musk dell’universo, dedico un brano che ho iniziato ad
ascoltare quando non avevo ancora compiuto tredici anni; è Signor censore di
Edoardo Bennato che, fra le varie cose, dice anche: “Signor Censore, tu stai
facendo un bel lavoro/la tua teoria è che il silenzio è d’oro/prima fai un
ghetto poi lo nascondi con un muro/e così mentre la gente continua a emigrare/tu
sfogli i libri e passi il tempo a cancellare/le frasi sconce e qualche nudo un
po’ volgare”.
Mi sa che, oltre ai libri, il potere dovrà sbrigarsi a censurare anche le
canzoni. E poi il teatro, e poi… non so, credo ci sia un lavoro enorme ad
attenderli: chiedessero ai talebani.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Come ha suggerito Alain Joxe, uno dei più grandi sociologi degli affari e delle
strategie militari, la difesa-difensiva è l’unica prospettiva legittima dal
punto di vista del rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani e della lotta
coerente per la pace. L’Europa sognata dai padri della sua idea non può che
essere quella di questa strategia e del divieto di ogni armamento offensivo. E’
urgente rilanciare la Resistenza per la pace
di Salvatore Palidda
Di fronte al delirio, per non dire alle idee degne di criminali di guerra, che
in questo momento sembrano essere adottate dai leader europei, è più che mai
necessario ricordare i suggerimenti di Alain Joxe, che aveva imparato i principi
di strategia dal generale Beaufre, anche dal generale Poirier e anche da suo
padre, Louis Joxe, gollisti coerenti che nutrivano un grande rispetto per i
comunisti e i socialisti e per l’URSS, principale vincitrice del nazismo.
Direttore degli studi all’EHESS di Parigi, Alain Joxe ha dedicato tutta la sua
vita di ricercatore ha dedicato tutta la sua vita di ricerca allo sviluppo di
una teoria strategica per la pace (nel 1981, ha partecipato alla creazione del
Comitato per il disarmo nucleare in Europa, è stato membro del comitato di
patrocinio del tribunale Russell per la Palestina e ha formato numerosi
ricercatori francesi e stranieri, pubblicando, tra l’altro, decine di opere in
diverse lingue).
Ricordiamo che il generale Lucien Poirier, uno dei quattro più importanti autori
del pensiero militare francese (André Beaufre, Charles Ailleret, Pierre
Gallois), sempre molto attento a sottolineare che «l’arte di dissuadere non è
l’arte di costringere – come la guerra – ma quella di convincere», dopo il
crollo dell’URSS aveva invitato a una riflessione che andasse a mettere in
discussione la «forza d’attacco». Perché il contesto bipolare era morto ed era
necessario lavorare per ridurre e persino eliminare le armi atomiche, troppo
pericolose in un mondo multipolare e con il rischio sempre più serio della loro
proliferazione. Ed è qui che Alain Joxe rilancia la sua idea di difesa difensiva
(ben evidenziata dalla Fondation des Etudes de Défense Nationale) come unica e
irrinunciabile scelta che uno Stato di diritto veramente democratico dovrebbe
perseguire.
Alla luce dell’attuale situazione mondiale ed europea molto preoccupante,
l’atteggiamento di difesa difensiva appare più che mai necessario, perché
altrimenti si rischia di finire alla mercé dei criminali di guerra che lavorano
per le lobby militari di ogni Paese.
È evidente che il genocidio dei palestinesi, il massacro di migliaia di ucraini
e soldati russi e le vittime di altre guerre permanenti sparse nel mondo, così
come il massacro di decine di migliaia di bambini e persone di ogni età a causa
del super-sfruttamento direttamente o indirettamente legato alle guerre, sono il
prodotto della scelta dei leader politici (Putin, Stati Uniti, Europa, Netanyahu
ecc.) asserviti alle lobby degli armamenti o direttamente coinvolti con esse.
Sì, l’ideale europeo prospettato dagli autori del Manifesto di Ventotene era
“Per un’Europa libera e unita”, un testo precursore dell’idea di federalismo
europeo. E a garanzia del diritto internazionale sosteneva che bisognava
“aggiungere una forza internazionale”. Ma la concezione di questa forza era solo
quella di difesa-difensiva, perché gran parte di questo Manifesto si focalizza
sull’auspicio della società europea futura totalmente organizzata secondo i
criteri di una rivoluzione europea che deve essere socialista, consentendo
l’emancipazione dei lavoratori e l’accesso a migliori condizioni di vita. Sono
gli esseri umani a dovervi dominare le forze economiche e non viceversa. Per
questo motivo è prescritta la nazionalizzazione delle imprese e la
ridistribuzione della ricchezza ingiustamente accumulata attraverso vecchi
privilegi e diritti di successione. In esso è implicito il principio di pari
opportunità, così come la garanzia di uno standard minimo di vita fornito non
dalla carità, ma dal “potenziale di produzione di massa di beni di prima
necessità”. Si auspica anche la garanzia della libera scelta dei rappresentanti
sindacali e la garanzia statale del rispetto dei contratti. Infine, il manifesto
chiede la laicizzazione dello Stato.
Ma, non appena si leggono i discorsi della signora von der Leyen, del signor
Macron, di Starmer e di Friedrich Merz, ma anche quelli della signora Meloni, si
è immediatamente sconcertati dalla loro nonchalance nell’annunciare la scelta di
un’enorme quantità di denaro destinata ad armare una difesa europea pronta alla
guerra attraverso il sacrificio esplicito della sanità pubblica, della pubblica
istruzione e delle politiche sociali.
Se si imporranno le scelte che questi leader europei prima citati vogliono
perseguire, avremo un’Europa costretta a forgiare un’economia di guerra.
L’Europa sociale, finora tanto ignorata e persino disprezzata, non potrà mai
essere realizzata.
È quindi più che mai indispensabile rilanciareuna forte RESISTENZA per la pace,
per la difesa-difensiva, per salvaguardare la possibilità di politiche sociali,
di misure atte a garantire il rispetto effettivo dei diritti universali di tutti
gli esseri umani.
articolo pubblicato anche su mediapart.fr
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