Siamo sempre stanchi. Per l’eccessivo carico di lavoro, per la ripetitività
della mansione svolta, per l’ostilità dell’ambiente lavorativo, perché
consapevoli d’essere inutili rotelle di un ingranaggio che potrebbe stritolarci
in qualsiasi momento. E se ci avessero narcotizzati per impedire il nostro
risveglio? di Marco Sommariva da Carmilla L’8 giugno 1976 fu ucciso Francesco
Coco, il […]
Tag - riflessioni
L’attuale situazione carceraria risulta insopportabile per uno stato di diritto.
Per far fronte al sovraffollamento servono riforme. E serve un’opera radicale di
“rieducazione”, ma della società e delle istituzioni di Sergio Moccia da il
manifesto L’attuale situazione carceraria risulta insopportabile per uno stato
di diritto. Eppure quest’anno ricorre il cinquantenario di quella che pareva una
[…]
Appare chiaro che sia l’incarico, che la stessa persona fisica di Francesca
Albanese sono in pericolo e che la società civile, sia italiana, dato che stiamo
parlando di una nostra connazionale, che europea ed internazionale debba
mobilitarsi di Enrico Calamai da il manifesto Sostiene il segretario di Stato
Usa Marc Rubio che quelli di Francesca […]
Le ripetute condanne dell’Italia per la pratica della tortura durante le
giornate del G8 di Genova del luglio 2001 e per l’inadeguata punizione dei
responsabili non bastano a indurre il Governo e la maggioranza a interventi che
disincentivino fatti analoghi. Al contrario Salvini e la Lega propongono una
sorta di “scudo penale” che impedisca il […]
Filippo Ferri, condannato per i fatti del G8 di Genova 2001, è stato di recente
indicato dal governo come questore a Monza. Le reazioni, salvo alcune deboli
iniziative, sono quasi assenti. La dimostrazione è che in Italia abbiamo
permesso che l’onda lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle
menzogne si estendesse nel tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle
forze dell’ordine
di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia
“Per quanto riguarda le misure disciplinari, la Corte ha dichiarato più volte
che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano dei
maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante
l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi”: così
la Corte europea per i diritti umani nella famosa sentenza Cestaro (2015) sul
caso Diaz.
Il passo viene in mente di fronte alle polemiche nate dalla fresca nomina di
Filippo Ferri a questore di Monza. Ferri nel processo Diaz fu condannato a tre
anni e otto mesi, con annessa -automatica- sospensione dai pubblici uffici per
cinque anni, ma né lui né altri sono stati mai sospesi durante i processi, tanto
meno “rimossi” dopo la condanna definitiva (2012).
Di più: nessuno -salvo forse uno, multato per 47 euro- è stato nemmeno
sottoposto a procedimenti disciplinari. E dire che la “perquisizione” alla Diaz
fu qualificata dalla Corte europea come un caso di tortura e che la condotta dei
vertici di polizia e dello Stato fu fortemente stigmatizzato dai giudici di
Strasburgo, specie per la constatazione che la polizia “ostacolò impunemente”
l’azione della magistratura.
Che dire, dunque, del “caso Ferri”? Una cosa semplice: che il governo italiano,
con qualche ragione a dire il vero, ritiene che il caso Genova G8 sia chiuso e
archiviato, ormai dimenticato dall’opinione pubblica, per cui nulla osta alla
nomina a questore di un funzionario con un passato così problematico.
E non si sbaglia, il governo, se guardiamo all’assenza quasi totale di reazioni,
se non fosse per un appello di gruppi e associazioni della Brianza e qualche
debole iniziativa parlamentare (la senatrice Ilaria Cucchi e forse qualche
altro); tacciono i commentatori, tacciono i giornalisti “esperti” di forze
dell’ordine, tacciono i leader politici e sindacali. Del resto Ferri non è il
primo fra i condannati nel processo Diaz a rientrare nei ranghi, e con ruoli di
rilievo, a pena scontata.
La verità è che in Italia abbiamo rimosso Genova G8, abbiamo permesso che l’onda
lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle menzogne si estendesse nel
tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle forze dell’ordine, minando
alla radice la loro credibilità democratica. Non vi è stata al tempo alcuna
autocritica in seno alle polizie, né furono presi i provvedimenti necessari:
sospensioni, licenziamenti, riforme. Genova G8, in questo modo, non è stata una
caduta improvvisa e circoscritta della legalità costituzionale, né una pagina
nera ormai chiusa e superata. Genova G8, piuttosto, è un biglietto da visita che
le forze dell’ordine italiane continuano a presentare a chi governa e a tutti i
cittadini.
> Poliziotto condannato per la Diaz diventa questore di Monza
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Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro
capacità di essere bussola del mondo
di Riccardo De Vito da il manifesto
Tra poco più di due mesi l’ordinamento penitenziario compirà cinquant’anni.
Chiamiamo così la legge del 1975 che aveva dato vigore e prospettiva
all’articolo 27, comma 3, della Costituzione, per il quale le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato.
Il compleanno di mezzo secolo, però, si è macchiato di sangue e quel sangue si è
tinto di strumentalizzazioni. Tutto accade in pochi giorni, tra il 9 e l’11
maggio, quando Emanuele De Maria, in espiazione della pena per l’omicidio di una
donna, esce dal carcere per recarsi a svolgere attività lavorativa all’esterno.
Sono due giorni di tragedia: Emanuele torna a uccidere una donna, Chamila;
ferisce quasi mortalmente un collega di lavoro; infine, si toglie la vita
lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano.
Si riaffaccia una domanda insistente: è ancora tollerabile il sacrificio di una
vittima per consentire ai detenuti di riconnettersi gradualmente alla società?
Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro la forza della del
diritto: è giusto perché lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Questa
replica rischia di non funzionare più.
Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro
capacità di essere bussola del mondo. Gaza segna l’assoggettamento della logica
dei diritti umani e del diritto internazionale alla ragione della forza; negli
Stati uniti si fa spettacolo delle persone incatenate e si ventila di abolire
l’habeas corpus per i migranti; alle nostre latitudini, si ricostruiscono
neo-colonie detentive in territorio estero e si prevedono ergastoli automatici.
La Costituzione ha perso il suo carattere di fondamento della Repubblica ed è
diventata culturalmente rifiutabile. L’articolo 27 dice che il condannato deve
essere risocializzato? Sbaglia, lo si cancelli con un tratto di penna. E,
infatti, un disegno di legge costituzionale prevede che la rieducazione possa
essere limitata da «altre finalità» ed «esigenze di difesa sociale» (disegno di
legge del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia).
Se così stanno le cose, occorre ri-giustificare il normativo, il dover essere
del mondo, a partire dalla sostanza delle cose. Il progressivo reinserimento del
detenuto in società – quelle finestre nella pena detentiva che consentono di
mettere i piedi fuori dalla prigione – serve perché rende il mondo più sicuro e
meno violento. Se le pene fossero scontate in carcere dal primo all’ultimo
giorno, si finirebbe per consegnare alla libertà esseri umani incapacitati alla
costruzione della relazione più semplice, pericolose bombe a orologeria. La
pena, prima o poi, finisce e i conti con il pericolo di recidiva si dovranno
fare comunque. Tutte le statistiche dimostrano che quei conti è bene farli
prima, in quelle famose finestre che servono anche come momenti di
sperimentazione controllata.
Circola nell’aria, sempre meno latente, una pulsione a fare in modo che la pena
non finisca. Non servirebbe: chi uccide, quasi sempre lo fa senza aver valutato
le conseguenze in modo razionale. Il caso di questi giorni ne è un esempio: il
condannato sa che perderà tutto, a partire dalla libertà riconquistata, ma
uccide lo stesso. Subito dopo telefona alla madre, chiede perdono e va a
lanciarsi dal Duomo di Milano. L’essere umano, troppo umano, è più complesso e
drammatico di ogni tecnologia normativa della dissuasione.
Statistiche e ragione, tuttavia, non bastano a dare senso alla vittima, che
rimane unica. Quell’unicità ha bisogno di risposte ulteriori. La prima,
essenziale. L’area del controllo penale, si è allargata a dismisura: 95mila
persone in misure alternative, 62.400 detenuti. Sono numeri che rendono
impossibile agli operatori (educatori e assistenti sociali) concentrarsi sui
casi davvero importanti, quelli che meritano di essere seguiti anche quando
tutto pare filare liscio. Se l’area penale fosse meno affollata di condannati
per reati senza vittima, funzionerebbe meglio. Amnistia, indulto e
depenalizzazione sono le parole di un vocabolario di sicurezza. Non serve
risocializzare meno, serve risocializzare meglio.
Strettamente collegato a questo punto, ne viene un altro: rieducare è una parola
brutta, lascia pensare a pretese egemoniche sull’animo. Sappiamo che deve essere
declinata a livello laico, come risocializzazione, ma il tema non cambia: è un
problema che investe tutta la società e le sue agenzie, non può essere scaricata
solo sul carcere. Sulle pagine online dei quotidiani più diffusi, nei giorni
successivi alla vicenda De Maria, circolavano i video degli ultimi istanti di
vita della vittima e del detenuto. Accanto a essi, il video del robot umanoide
di Tesla che danza a ritmo di musica, accendendosi e spegnendosi a comando. Non
serve scomodare «la precessione del simulacro» per capire che qualcosa è
saltato. Ri-educare, nella società come in carcere, dovrebbe significare tornare
a mettere in discussione (o in crisi) le strutture psichiche dell’ordine
economico e sociale, i rapporti tra desiderio e frustrazione, la confusione tra
libertà e signoria. Sono questioni che vengono prima del carcere e che vanno
oltre il carcere.
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Per fortuna non so mai chi sono, ma per certo non godo quando gli anormali son
trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio
tutti gli zingari e gli intellettuali
di Marco Sommariva*
Giorni fa mi son trovato a disquisire con un amico su chi sono, oggi, i borghesi
e a chiedermi se facessi parte di questa schiera; lo spunto per la discussione
ci era stato dato da una scritta su un muro, tanto breve quanto solleticante, un
microscopico j’accuse: “Ti sei imborghesito!”
L’indomani, lo stesso amico mi ha segnalato un articolo pubblicato diversi anni
fa su Repubblica e, così, ripartendo da questo,ho provato a mettermi nuovamente
in discussione – questa volta da solo.
A inizio pezzo leggo: “Nel significato oggi più diffuso il borghese è un membro
di un ceto medio che va dai benestanti ai ceti impiegatizi e che comprende sia
gli industriali, i grandi professionisti, i livelli superiori del pubblico
impiego (la cosiddetta alta borghesia) sia una più vasta platea di persone che,
in condizioni più modeste, sono tuttavia fornite di qualche bene, di qualche
indipendenza, di qualche responsabilità anche se limitata, e di qualche
istruzione (la piccola borghesia)”.
Non so se il mio stipendio può essere considerato un bene e non so neppure se
l’indipendenza che questo stipendio mi garantisce si possa annoverare fra quelle
ipotizzate nell’articolo di Repubblica, ma di certo ho qualche responsabilità
“anche se limitata” – un ufficio in cui coordino, così dice l’organigramma
aziendale, due colleghi – e ho una “qualche istruzione”: sono uno di quei
tantissimi periti industriali che nei primi anni Ottanta sbandierava il “pezzo
di carta” che occorreva per provare a non replicare la vita di stenti dei
genitori che, “con tanti sacrifici”, ti avevano fatto studiare.
Possibile davvero io sia un piccolo borghese?
Proseguo la lettura: “Borghesi sono […] i ceti che si affermano nell’età moderna
come i più adatti a governare secondo ragione, scalzando – anche attraverso le
rivoluzioni – il potere tradizionale dei nobili e degli ecclesiastici […]”, e
qui non c’entro nulla: “scalzare chi governa” sì, “anche attraverso le
rivoluzioni” sì, ma non di certo per governare. Dài!, questa l’ho sfangata, ma
non so se riuscirò a passare l’esame dei miei libri, delle mie letture.
Per l’egoismo con cui custodisco i miei libri, e pure i miei dischi, mi sa che
Gustave Flaubert mi definirebbe borghese: “si divertiva a fabbricare
portasalviette: ne aveva riempito la casa, li conservava con la gelosia di un
artista e l’egoismo di un borghese” – Madame Bovary.
Ma André Malraux – sapendo di tutte le mie cause (perse) combattute fianco a
fianco coi più deboli, per i più deboli – mi difenderebbe: “La borghesia starà
col più forte. La conosco” – La condizione umana.
Non essendo spilorcio e arrogante, ed essendo spesso criticato per la troppa
sincerità, credo che anche Doris Lessing prenderebbe le mie parti: “Dio sa
quanto lei li odiava, i borghesi, così attaccati ai soldi, attenti a non
sprecare un centesimo, sempre con il pensiero fisso di mettere da parte, di
risparmiare […]”; e ancora “Alice sapeva che Muriel apparteneva all’alta
borghesia ed era per questo che non la poteva soffrire. Come in tutte le
rappresentanti della sua classe, ogni sua parola, ogni gesto, era implicitamente
arrogante”; e infine “non c’è mai una volta che manifestino quello che pensano
questi maledetti piccoli borghesi” – La brava terrorista.
E se fossi, invece, un borghese perché mangio troppo? “Come dicono i sandinisti,
era da tempo che avevo perso l’abitudine borghese di fare due pasti al giorno” –
Dead end blues di Hugues Pagan.
O forse lo sono perché, quando mi sposai, pensai anch’io – lo ammetto –
d’essermi sistemato e, per un po’, rinunciai alla vita reale? “noi due abbiamo
accettato quest’enorme illusione, perché di questo si tratta: l’idea che, una
volta messa su famiglia, la gente debba rinunciare alla vita reale e
“sistemarsi”. È la grande menzogna sentimentalistica piccolo borghese […]” –
Revolutionary road di Richard Yates.
In effetti, non lo nego, sono anche uno di quelli che appena uscì dal suo
piccolo mondo che pensava fosse il mondo intero – fu quando non riuscii a
sfuggire al servizio di leva e partii per la naja –, andò in crisi: “Quando si
nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale
all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo,
naturalmente il mio fu messo in crisi” – Pasolini su Pasolini di Pier Paolo
Pasolini e Jon Halliday.
Ma sempre Pasolini potrebbe riabilitarmi, vista la mia ripugnanza per il “pare
brutto” e le “buone maniere” in generale: “il mio odio per la borghesia è in
realtà una specie di ripugnanza fisica verso la volgarità piccoloborghese, la
volgarità delle “buone maniere” ipocrite, e così via. Forse soprattutto perché
trovo insopportabile la grettezza intellettuale di questa gente” – ancora
Pasolini su Pasolini.
Anche Jack London avrebbe parole buone per il sottoscritto che – me l’hanno
riconosciuto in tanti – non ha mai avuto paura della Vita: “Il realismo è
essenziale alla mia natura, e lo spirito borghese odia il realismo. La borghesia
è codarda. Ha paura della vita” – Martin Eden.
Forse la mia colpa è stata passare impiegato dopo otto anni trascorsi
orgogliosamente da operaio? Forse mi sarebbe bastato restare una tuta blu per
non rischiare d’esser confuso con qualche lacchè borghese? Ma davvero una cosa
esclude l’altra? E qui è Paco Ignacio Taibo II a venirmi in soccorso: “Il più
borghese è l’operaio che offre il culo al padrone, e addirittura lo difende come
un coglione, e dice ma no, le cose in fabbrica vanno benissimo così” – E doña
Eustolia brandì il coltello per le cipolle.
Che se poi andiamo a vedere, ce n’è un po’ per tutti, per la morale borghese
senza dubbio ma, per esempio, non è che una “certa” sinistra – quella che
lottava per il proletariato – ne esca tanto bene: “non possiamo più fare a meno
di valori positivi. Ma dove trovarli? La morale borghese ci indigna con la sua
ipocrisia e la sua mediocre crudeltà. Il cinismo politico che regna su gran
parte del movimento rivoluzionario ci ripugna. Quanto alla sinistra cosiddetta
indipendente, in realtà, affascinata dalla potenza del comunismo e invischiata
in un marxismo pudibondo di sé, ha già abbandonato la lotta. Dobbiamo allora
trovare in noi stessi, nel vivo della nostra esperienza, cioè all’interno del
pensiero in rivolta, i valori che ci necessitano. Se non li troviamo, il mondo
crollerà, e forse sarà giusto, ma prima saremo noi a crollare, e questo sarà
infame” – Ribellione e morte di Albert Camus.
Non sarà che il pensiero della borghesia s’è già diffuso al popolo? Sarebbe un
bel guaio: “Gli avari non credono nella vita dopo la morte, per loro il presente
è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno,
dove più che mai il denaro domina le leggi, la politica e i costumi.
Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la fede in
un’altra vita, fede su cui da diciotto secoli si basa tutta la struttura
sociale. Tuttavia ci troviamo quasi al medesimo punto, poiché l’avvenire che ci
attendeva al di là del requiem è stato trasportato nel presente. Giungere al
paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, far divenire il cuore di
pietra e macerarsi il corpo nell’ansia di accumulare beni passeggeri, come una
volta si soffriva il martirio per conquistare l’eternità, ecco l’idea che oramai
si è fatta comune, l’idea fissa, in ogni luogo, persino nelle leggi, che ormai
domandano all’uomo: “Quanto paghi?” invece di chiedergli: “Cosa pensi?” Se un
simile pensiero si diffonderà dalla borghesia al popolo, chissà cosa ne sarà del
mondo” – Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.
Anche perché il nuovo potere borghese parrebbe, davvero, essere una brutta cosa:
“L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della
civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo
una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico
che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. […] il nuovo potere
borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico
ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può
svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per
la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è spazio” – Scritti corsari di
Pier Paolo Pasolini.
Sulla necessità del potere borghese di pragmatismo da parte dei consumatori, ha
qualcosa da dire anche Raoul Vaneigem: “Se i borghesi preferiscono l’uomo a Dio,
è perché egli produce e consuma, acquista e fornisce” – Trattato del saper
vivere.
Ma chi sono io, oggi, ancora non l’ho capito.
Visto che non mi spavento se i lacci delle mie scarpe non sono in ordine e non
sono mai sicuro d’aver ragione, non dovrei esser compreso fra la media
borghesia: “la media borghesia inglese deve masticare ogni boccone trenta volte
perché ha l’intestino così stretto che un boccone grosso quanto un pisello lo
ostruirebbe. Sono un branco di disgraziati effeminati, pieni di boria,
spaventati se i lacci delle scarpe non sono in ordine, putridi come selvaggina
andata a male, e sempre sicuri di avere ragione. È questo che mi distrugge.
Sempre lì a leccare il culo finché non gli fa male la lingua, eppure sono sempre
sicuri di avere ragione. Presuntuosi! Presuntuosi su tutto. Presuntuosi! Una
generazione di presuntuosi effeminati senza coglioni…” – L’amante di Lady
Chatterley di David Herbert Lawrence.
E dato che non ho mai pensato che oltre i miei confini il mondo sia piuttosto
ignorante, anche Robert Louis Stevenson potrebbe aiutarmi a restare fuori da
certi elenchi in cui non avrei piacere di essere incluso: “L’ignoranza di voi
borghesucci mi sorprende. Al di là dei vostri confini, ritenete che il mondo sia
piuttosto ignorante e un universo indistinto, immerso in una degradazione
generale…” – Il terrorista.
Ma non sarà che questo problema dell’essere o non essere borghesi, è una fisima
tutta mia, nostra, dell’uomo occidentale, e magari una fissazione dei giorni
nostri? No, non è così; scrive Jean-Patrick Manchette ne Il caso N’Gustro: “Lo
Zimbabwin, il loro Paese, si è liberato e un Fronte di liberazione, l’Flz, ha
preso il potere. Ma se capisco bene, c’è un’etnia che cammina sulla testa delle
altre, nell’Flz, e ancora peggio è musulmana […]. Mi spiegano: i musulmani,
laggiù, sono l’equivalente dei borghesi qui, sono grandi famiglie, stirpi, da
sempre compromesse con le spedizioni arabe che discendevano l’Africa, risalendo
il Nilo e arrivando ben oltre nell’interno, attraverso il Sudan, fino al cuore
del continente, per razziare, rapire su grande scala intere popolazioni che
rivendevano sul Mar Rosso, gli uomini per il lavoro, le donne ai bordelli, i
bambini dipende”.
Niente, addirittura potrebbe essere un problema mondiale e, forse, sempre
esistito.
Pur non risparmiando i proletari, anche Johnny Rotten riteneva essere un
problema questa borghesia capace di opprimere: “Ricordo che quand’ero piccolo e
andavo a scuola i genitori inglesi mi prendevano a mattonate. Per arrivare alla
scuola cattolica dovevo passare in una zona in prevalenza protestante. Era
bruttissimo. La facevo sempre di corsa. “Quei luridi bastardi irlandesi!”. E
cazzate del genere. Adesso se la prendono coi neri, o chi altri. Ci sarà sempre
odio negli inglesi perché sono una nazione piena d’astio. È questo il guaio dei
proletari di tutto il mondo. Cercano sempre di sfogare i loro rancori su quelli
che considerano più in basso nella scala sociale, invece di saltare alla
giugulare di quei fottuti bastardi dell’alta e media borghesia che li tengono
oppressi, tanto per cominciare” – L’autobiografia.
Persino la Chiesa pare non abbia gradito il potere della borghesia, accusandola
d’aver fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore,
benché la contestazione non parrebbe mossa sulla scia di una qualche carità
cristiana: “L’abate […] trovava delle scusanti alle scelleratezze degli
scioperanti, attaccava violentemente la borghesia sulla quale rigettava ogni
responsabilità. Era la borghesia, che, spossessando la Chiesa delle sue antiche
libertà, per servirsene lei stessa, aveva fatto di questo mondo un luogo
maledetto d’ingiustizia e di dolore, era lei che prolungava i malintesi, che
spingeva ad una catastrofe spaventosa, col suo ateismo, rifiutandosi di
ritornare alla fede, alle tradizioni fraterne dei primi cristiani” – Germinal di
Emile Zola.
Leggo che la borghesia è fondamentalmente vile e ottusa e che, in ogni epoca, è
rimasta unita solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e
depredare coloro che stavano sotto: “Sono nato con dentro un odio per
l’ingiustizia… sin dall’infanzia il sangue mi ribolliva contro il cielo quando
vedevo la gente malata, e mi ribolliva contro gli uomini quando ero testimone
delle sofferenze dei poveri; pensando al tozzo di pane della povera gente, le
cose buone che mangiavo mi andavano di traverso, e un bambino storpio mi faceva
piangere. […] Anno dopo anno, questa passione per la gente più derelitta mi
ossessionò sempre di più. Si poteva riporre speranza nei re? Si poteva riporre
speranza nelle classi meglio pasciute che si rotolano nel denaro? Avevo studiato
il corso della storia… sapevo che la borghesia, il nostro monarca di oggi, è
fondamentalmente vile e ottusa… in ogni epoca, avevo visto come la borghesia si
unisse solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare
coloro che stanno sotto; la sua ottusità, ne ero convinto, alla fine avrebbe
provocato la propria rovina; sapevo che ormai i suoi giorni erano contati, ma
come avrei potuto aspettare? Come potevo lasciare che i bambini poveri
tremassero sotto la pioggia? Certo, sarebbero arrivati giorni migliori, ma i
bambini sarebbero morti prima. […] con un’impazienza sicuramente non priva di
uno slancio di generosità mi arruolai tra i nemici di questa società ingiusta e
ormai condannata […]” – nuovamente da Il terrorista di Robert Louis Stevenson.
Anche il mio corregionale Edmondo De Amicis, nel romanzo Sull’oceano non ne dice
un granché bene di ‘sti borghesi: “tutta la sua persona rivelava la borghesuccia
impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto,
capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una
marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui
marciapiedi”.
Ecco, non provando invidia per chi sta sopra né disprezzo per chi sta sotto
semplicemente perché il mondo che vedo io non è strutturato in verticale ma in
orizzontale; non avendo mai dimezzato il pane da dare a mio figlio per
qualsivoglia bene materiale a cui rinuncio tranquillamente, anche se ammetto che
i libri mi tentano sempre parecchio; non commettendo alcuna vigliaccheria per
entrare in relazione con una marchesa per lo stesso motivo di prima – nella mia
visione orizzontale del mondo, marchese, psicologhe, suore, operaie, casalinghe,
eccetera sono, giocoforza, tutte sullo stesso piano –; mi sento abbastanza
sollevato.
E mi sento abbastanza sollevato anche perché non provo alcuna gioia quando
s’arresta una puttana o se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova
campana; non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna
intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali;
non so mentire con cortesia, cinismo e vigliaccheria, e non faccio
dell’ipocrisia la mia formula di poesia; non ho nulla contro chi fa l’amore più
di una volta alla settimana e neanche contro chi lo fa per più di due ore o
verso chi lo fa in maniera strana; non pesto le mani a chi arranca dentro a una
fossa e neppure son disponibile, al più ricco e ai suoi cani, a leccar le ossa.
Sì, dài!, mi sento abbastanza sollevato.
Ora che finalmente so chi sono, devo chiudere il pezzo e salutarvi perché sono
già in ritardo: di là, sul tavolo di noce del tinello, la cena è apparecchiata,
son tutti già seduti e mi aspettano per il segno della croce. Rifiutarsi mi
pareva brutto.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Un pubblico processo per fare chiarezza sull’uccisione di Carlo che mai c’è
stato, il silenzio di grandi organizzazioni e il coraggio di infierire da parte
di un capitano dei carabinieri
di Haidi Gaggio Giuliani
Ho letto su Osservatorio Repressione l’articolo del 10 aprile Turchia, quando il
potere infierisce anche sui familiari delle vittime di Gianni Sartori, che
ringrazio: si ricorda ancora di me nonostante la mia latitanza (mi ha fermato il
tumore da qualche anno). La situazione in Italia non è drammatica come in altri
Paesi, comunque non bisogna sottovalutare alcuni segnali.
Tempo fa avevo ricevuto da parte di Amnesty International l’invito a
sottoscrivere un appello per Pedro Enrique, ucciso con otto colpi di pistola
mentre dormiva nel suo letto: “I tre assassini sono stati identificati come
poliziotti, ma sono ancora liberi e in servizio”. La colpa di Pedro Enrique è
stata quella di organizzare marce pacifiche nella regione di Bahia in Brasile
per denunciare la violenza sistematica della polizia nei confronti di giovani
neri. Sua madre Ana Maria si batte da anni per chiedere giustizia per
l’assassinio di Pedro Enrique. Sostieni la lotta di Ana Maria”. Giusto, ho
pensato. Un giovane uomo come mio figlio, ho pensato. Anch’io ho chiesto per
molti anni un pubblico processo che facesse chiarezza sulla sua uccisione, che
rispondesse ai molti dubbi rimasti. Amnesty però non ha mai organizzato in
sostegno una raccolta di firme e io non ho mai capito perché.
Certo, Pedro Enrique è stato ucciso nel suo letto mentre l’immagine di Carlo è
cristallizzata nel momento in cui, con un estintore vuoto tra le mani a più di
tre metri di distanza, “assale” una povera camionetta indifesa. Riparati dentro
la camionetta ci sono tre (qualcuno ha detto quattro) carabinieri armati, ma
questo si sottace. La sua uccisione viene rapidamente archiviata quando ancora
la “grande” informazione parla di ferite pregresse per i manifestanti massacrati
alla scuola Diaz: nel 2003 infatti per la “macelleria messicana” erano ancora
indagati i manifestanti che dormivano nella palestra e non circolavano notizie a
proposito delle torture nella caserma di Bolzaneto.
L’ archiviazione ha influito pesantemente, in seguito, vanificando i nostri
tentativi di ottenere un processo, sia in Italia che presso la Corte europea.
In cambio un altro processo è in corso: il signor Claudio Cappello, presente in
piazza Alimonda quel 20 luglio con il grado di Capitano, ha querelato il padre
di Carlo per aver usato parole poco rispettose nei suoi confronti in un paio di
interviste. Non ho mai approvato il linguaggio di mio marito, certe sue
interpretazioni. Sono convinta che riportare i fatti nudi e crudi, e le immagini
(tutte), sia sufficiente: le persone che ascoltano, se sono interessate, hanno
la capacità di giudicare autonomamente. Tuttavia penso che ci vuole coraggio per
infierire su un vecchio di ottantasette anni, che certamente non è uscito
indenne neppure lui dalla tragedia che ha colpito la famiglia.
Ma il signor Cappello è un Colonnello dell’Arma, il coraggio non gli manca.
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Malgrado il ricorso alla legislazione di urgenza sia ormai prassi consolidata,
non era immaginabile che lo strumento diventasse un mezzo per superare il
dibattito parlamentare. Un provvedimento di «controllo» che muta il paradigma
della penalità: da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di
soggettività pericolose
di Mauro Palma da il manifesto
Forse bisognerebbe ricordare le perplessità di Costantino Mortati nel corso
della discussione che avrebbe portato alla formulazione dell’articolo 77 della
Costituzione, quello che prevede la possibilità per il governo di adottare
decreti-legge in caso di necessità e urgenza.
Il grande costituzionalista intervenne nel settembre del 1947 nel dibattito che
si era aperto con la constatazione che il Progetto predisposto dal Comitato
ristretto dell’Assemblea costituente non li prevedeva e che, secondo quanto
suggerito da Pietro Calamandrei, un qualche spiraglio andava lasciato, per
esempio, per provvedere urgentemente in caso di terremoti o simili situazioni:
«Bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una
forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare
piuttosto che ignorarla».
Mortati metteva in guardia rispetto al rischio estensivo di quel concetto di
urgenza e di necessità, negando a quest’ultima la possibilità di esondare dal
normale procedere legislativo, quasi configurandola come «fonte autonoma di
diritto». E, proprio per questo ammoniva: «L’esperienza ha infatti dimostrato
come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei
decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime
fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del governo di
abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra
parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del parlamento, il quale tende a
scaricarsi dei compiti di sua spettanza».
Il testo poi adottato nella Costituzione prevede una forma di “catenaccio”
teoricamente volto a evitare il rischio di debordare. Certamente, però, quel
dibattito non poteva prefigurare una situazione in cui allo strumento di
legiferare per decreto, con successiva conversione, avrebbero fatto ricorso
bulimico molti governi futuri – di vario orientamento politico – fino a svuotare
il ruolo effettivo di almeno di una delle due camere, chiamata a ratificare a
scatola chiusa quanto nell’altra si era dibattuto. Così come usualmente avviene
ora.
Soprattutto non poteva prevedere il ricorso al decreto-legge per superare un
dibattito parlamentare attorno a un disegno di legge la cui approvazione fosse
divenuta ardua proprio per le molte perplessità espresse da associazioni
professionali, realtà sociali, esperti nonché da parlamentari stessi sul testo
in esame. Ancor più nel caso in cui tale disegno di legge riguardasse quel bene
che l’articolo 13 della Carta definisce come «inviolabile»: la libertà
personale. Lorenza Carlassare si chiese anni fa se un decreto-legge potesse
costituire quella tutela che la Costituzione richiede per tale bene.
Invece, è proprio ciò che è avvenuto in questi giorni, con il disegno di legge
cosiddetto «sicurezza» che era da più di un anno all’esame del senato, in
maniera congiunta da parte della commissione per gli affari costituzionali e di
quella per la giustizia e che ora si trasforma, con qualche attenuazione, ma con
la stessa fisionomia, in decreto-legge.
Non un testo qualsiasi, bensì un articolato che tocca vari aspetti e che sarebbe
stato meglio definire di esteso «controllo» invece che non di «sicurezza»,
perché i due termini non sono sinonimi e, al contrario, se il secondo esprime un
valore da tutelare per la collettività nel contesto di garanzia dell’effettività
dei diritti per tutti, il primo rappresenta un’inaccettabile intrusione nella
espressione del dissenso. Un controllo che, nel testo del decreto-legge, muta
anche il paradigma della penalità trasferendone la funzione da repressione di
fatti costituenti reati a individuazione di soggettività di per sé assunte come
potenzialmente pericolose.
Non è possibile leggere altrimenti, per esempio, il mantenimento, pur attenuato
rispetto al testo del discusso disegno di legge, della possibilità di
restringere in dipartimenti detentivi donne incinte e madri di bimbi di età
inferiore a un anno – nonostante sia per loro riservata la sistemazione in un
Icam (Istituto a custodia attenuata per madri con bambini), considerato che ne
esistono solo tre al Nord e uno in Campania e che così si porrà facilmente il
problema della distanza dal proprio luogo familiare. Come pure è difficile
leggere altrimenti le attenuazioni impresse all’originario nuovo reato di
rivolta in carcere perché queste non risolvono la gravità di penalizzare
l’inadempienza a ordini impartiti, soltanto col prevedere che tale passiva
resistenza debba essere tale da incidere sul mantenimento dell’ordine e della
sicurezza. Come non cambia il senso del provvedimento, l’aver circoscritto le
opere pubbliche o i servizi la cui interruzione determina, anche nel nuovo
testo, forti aggravanti sul piano penale. Né incidono altre attenuazioni sul
piano della facoltatività – e non l’obbligatorietà – per le università e gli
enti di ricerca a collaborare con i Servizi di sicurezza per fornire
informazioni e dati o, ancora, le attenuazioni nella politica repressiva nei
confronti delle persone migranti irregolari.
Sono attenuazioni che evitano il rischio di palese bocciatura e che sono state
presentate enfaticamente, con anche lo sgarbo istituzionale di voler
sottintendere l’intrinseca approvazione del Quirinale; ma che non mutano
l’ambito paradigmatico del provvedimento. Che ruota appunto attorno a quella
«necessità e urgenza» che il dibattito costituente aveva posto proprio per
configurare un “catenaccio” che evitasse l’affermazione primaziale del potere
esecutivo sulla produzione di norme da mantenere invece affidata al doveroso e
libero dibattito parlamentare.
Questo è il vulnus che tale modo di legiferare determina nell’ordinato sviluppo
democratico centrato sul bilanciamento dei poteri e che è stato ed è l’asse
centrale su cui la nostra Carta tesse il proprio filo. Perché di fatto –
nonostante l’occhio vigile volto a far cadere le più palesi connotazioni
poliziesche del provvedimento – si è azzerato un dibattito prolungato che aveva
il segno di richiamare l’attenzione sul principio del limite che deve essere
criterio regolatore dell’attività di governo e dello stesso potere legiferante.
Qui il limite viene visto come un impaccio e per questo lo si supera forzando
quello strumento che aveva costituito la lunghissima discussione nell’Assemblea
costituente, protrattosi per più mesi, proprio per i rischi che si
intravedevano. Anche molto inferiori a quelli che la realtà ci sta presentando.
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Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata
di Marco Sommariva*
In un articolo di Stefania Garassini pubblicato qualche giorno fa su Avvenire,
leggo che Adolescence – la miniserie tv britannica che affronta il tema della
violenza tra i teenager, appena uscita e già la più vista sulla piattaforma
Netflix – conta “quattro episodi girati tutti in tempo reale (un’ora circa di
durata corrisponde esattamente a un’ora di vicenda narrata) e con inquadrature
continue che seguono i personaggi in ogni loro movimento con l’effetto di
immergere completamente lo spettatore nella storia, evitando di dare alcun
giudizio su quanto accade”.
Adolescence è la storia dello sconvolgimento di una famiglia quando il figlio
tredicenne, Jamie, viene arrestato per l’omicidio di una sua coetanea, compagna
di scuola.
Stefania Garassini prosegue spiegandoci che “sono diversi e tutti cruciali i
temi che la serie affronta, dal bullismo, alle dinamiche tossiche all’interno
dei social media, all’incomunicabilità tra genitori e figli. Un oceano di dolore
che lambisce le vite di tutti i personaggi, senza che sia possibile identificare
con certezza un colpevole per il disastro cui si assiste. […] Adolescence invita
ad allargare lo sguardo su un mondo adulto che non sembra avere più gli
strumenti per capire quanto sta accadendo nelle menti e nei cuori dei propri
figli, troppo spesso soli, totalmente immersi nel mondo dei social, dove la
derisione e la vergogna possono nascondersi anche dietro le parole e le emoji
apparentemente più innocue”.
Su un altro articolo pubblicato da Avvenire, questa volta a firma di Marco
Pappalardo, vengono riportate le parole di una studentessa alla quale il
giornalista ha chiesto un parere su Adolescence: “Non ero pronta a vedere una
storia così violenta eppure così normale oggi. La necessità di sentirsi
accettati non si nega e non è solo della mia generazione. Avere le proprie idee,
diverse dagli altri, è difficile. Devi essere brava a scuola, educata,
obbediente a casa, tra i compagni furba e vestita in un certo modo; devi piacere
e condividere storie nel posto giusto. Senza uno di questi requisiti, la vita
potrebbe diventare un inferno e per colpa dei social non c’è un posto dove
nascondersi. Mi ha sconvolta l’incapacità del protagonista di capire che aveva
un’altra scelta. Mi ha spaventato che nessuno abbia chiesto aiuto agli adulti e
che essi siano così ciechi e sordi. Questa serie non dà speranze!”
Nell’articolo di Pappalardo, quello sopra non è l’unico commento per bocca dei
giovani; altri dicono la loro, come per esempio un certo Marco: “Il contrasto a
casa riesce ad isolarci, facendoci sentire soli, impotenti uditori di liti tra
adulti. Così giungono delle “consolazioni” che ci distruggono: droga, bullismo,
alcool, azzardo, atti criminali. Mi fa riflettere la fragilità umana e la
delicatezza dei rapporti”.
Da giorni, sono tantissimi a occuparsi di questa miniserie tv di Netflix: il
Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Il Mattino, Il
Fatto Quotidiano, Il Foglio, Libero, Internazionale, L’Espresso, eccetera.
Oltre ai due articoli già citati, Avvenire ne ha pubblicati altri su
Adolescence, tra cui quello di Massimo Calvi, il quale ci fa notare che “Il vero
motivo per cui tutti in questi giorni stanno parlando di Adolescence […] non
risiede probabilmente nella sua elevata qualità di regia e recitazione, e
nemmeno nella complessità del tema affrontato, aspetti che in ogni caso ne
stanno decretando uno straordinario successo. La ragione più profonda che tiene
sulla bocca di tanti la storia del giovane Jamie è legata al fatto che dopo aver
visto la serie per intero si manifesta pressante il bisogno di parlarne. Perché
è necessario liberarsi di qualcosa, trovare il modo di espellere il disagio
condividendolo, superare il trauma attraverso le parole e lo
scambio. Adolescence è sì un pugno nello stomaco, come in tanti hanno rilevato –
o meglio, sono quattro cazzotti, quante le puntate della serie – ma è
soprattutto una forma di abuso, un racconto talmente disturbante per un genitore
da richiedere di essere elaborato il prima possibile”.
Ora, anche giustamente, qualcuno di voi s’aspetterà una mia disamina su
Adolescence così che anch’io possa liberarmi di qualcosa, trovare il modo di
espellere un disagio, superare un trauma attraverso la scrittura di un articolo.
No. La mia disamina sarà leggermente diversa, verterà sull’adolescenza di altre
epoche cui fanno cenno alcuni scrittori e scrittrici a me cari, anche per capire
se, in passato, tutto filava liscio o meno; quindi, tranquilli, non si parlerà
della mia adolescenza o di quella “dei miei tempi”.
Intanto, inizierei col dire che sono d’accordo con Laura Pariani quando nella
sua raccolta di racconti Il pettine, scrive che “L’adolescenza è una brutta età.
[…] come un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare
di afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo
che mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci
e di coloro che sono destinati a riceverti…”
In Autunno tedesco, Stig Dagerman scrive della Germania dell’immediato
dopoguerra, quella del 1946, e dei giovani ci racconta questo: “I ventenni
gironzolano per le stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza
avere un treno o qualcosa d’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli,
disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano
fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si
vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne
stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto in compagnia di negri
ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino […]. Hanno
conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto”.
Mi verrebbe da dire che gli adolescenti d’oggi hanno perso tutto senza, prima,
aver mai conquistato nulla, ma forse la faccio troppo semplice, e allora mi
limito a scrivere che questi disperati tentativi di furto da parte di
adolescenti e queste ragazzine brille che si attaccano al collo di qualcuno, mi
ricordano un po’ troppo da vicino i nostri figli; fosse così, significherebbe
che siamo riusciti a devastarli come fossero usciti da una guerra mondiale.
Nel libro Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa, si racconta la storia di
quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la
nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza
patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo
profughi di Jenin: “[…] il corpo di Jolanta era stato devastato dai nazisti, che
l’avevano costretta a dare gli ultimi anni della sua adolescenza in pasto agli
appetiti sessuali delle SS. Quell’incubo le aveva salvato la vita ma l’aveva
resa sterile. Avendo perso ogni membro della sua famiglia nei campi di
sterminio, Jolanta si era imbarcata da sola per la Palestina alla fine della
Seconda guerra mondiale. Non sapeva nulla della Palestina né dei palestinesi,
seguiva solo il richiamo del sionismo e le lussureggianti promesse di una terra
di latte e miele. Voleva un rifugio. Voleva fuggire dai ricordi di tedeschi
sudati che contaminavano il suo corpo, dai ricordi di fame, dai ricordi di
depravazione. Voleva fuggire dalle urla di morte che popolavano i suoi sogni,
dalle canzoni ormai spente di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle
sorelle, dalle grida senza fine degli ebrei agonizzanti”.
Non sarà che i nostri figli vorrebbero “semplicemente” scappare dalle urla di
morte che popolano i loro sogni, dalle grida di chi agonizza in questi nostri
tempi in cui la ricchezza dei miliardari è cresciuta nel 2024 di duemila
miliardi di dollari, tre volte più velocemente del 2023, mentre tre miliardi e
mezzo di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno? Non solo, non è che
i nostri figli vengono devastati sempre più spesso dagli appetiti sessuali degli
adulti o si devastano vicendevolmente pensandosi protagonisti di quei video
pornografici da cui si fatica a star distanti e che nessuno ha insegnato loro a
studiare, analizzare, verificare, decifrare?
Tra il 1963 e il 1966, Jim Carroll – poeta e musicista – racconta in un diario
gli anni della sua adolescenza, scritti che poi diventeranno il libro culto Jim
entra nel campo di basket. Quando uscì negli Stati Uniti, rappresentò un caso
letterario, suscitando l’entusiasmo di Jack Kerouac; racconta la vita on the
road di un ragazzino straordinariamente intelligente, un libro autobiografico,
un racconto fedele della sua adolescenza segnata da una precoce dipendenza
dall’eroina e dall’esperienza della prostituzione: “Poi ci siamo noialtri
ragazzi di strada che cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e
crediamo di poter tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine.
Funziona raramente. Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di
controllo, finisco nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che
passare tutta la giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene
tutto, ragazzi. Non ci sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui
correre. Sai quando ci sei dentro definitivamente perché è la volta che
svegliandoti la mattina te lo dici chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o
mi trovo la mia dose o finisco a farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono
cazzi”.
Non so dalle vostre parti cosa stia succedendo, ma qui, dalle mie – a Genova –
lo spaccio di stupefacenti è così diffuso che il più conosciuto quotidiano
locale, ha dedicato ultimamente numerosi articoli “all’inferno del crack nel
Centro città” e, credetemi, sono tantissimi i ragazzi che si alzano da letto
decisi a qualsiasi cosa, anche a farsi “spaccare” pur di avere la propria dose
giornaliera; fosse così, significherebbe che siamo riusciti a bucarli,
intossicarli, stordirli e mortificarli come certi ragazzi eroinomani newyorkesi
dei primi anni Sessanta, e senza neppure aver la consolazione di ritrovarli
ostili alle mode e alle comparsate televisive come lo era Jim Carroll, appunto.
Nel 1967 viene pubblicato Ora d’aria, la storia di un gruppo di detenuti in un
carcere statunitense dove la vita scorre senza tempo: qualcuno è arrivato da
poco, qualcuno è dietro le sbarre da anni, qualcuno ci resterà per sempre. Il
carcere descritto da Malcolm Braly, l’autore, è un mondo straordinariamente
simile a ciò che sta fuori, capace di farci comprendere che tutti, sotto certi
aspetti, siamo prigionieri delle nostre esistenze. Braly, abbandonato dai
genitori ancora bambino, si dedicherà fin dall’adolescenza a piccole attività
criminali, perlopiù rapine, che lo porteranno presto in riformatorio; dei suoi
primi quarant’anni, diciassette li trascorrerà nelle più dure prigioni
americane: “Si svegliò. Mentre la sensazione del sogno scivolava via, lui ne
riconobbe i contorni adolescenziali e gli venne un desiderio nostalgico per quel
mondo perduto, le cui aspettative troppo alte avevano avvelenato la sua vita di
adulto quando ne aveva scoperto il grigiore”.
E forse qui troviamo un altro aspetto su cui bisognerebbe fermarsi a ragionare
un bel po’: le aspettative troppo alte di quel mondo adolescenziale che
avvelenano la vita adulta quando se ne scopre il grigiore. Chi genera queste
aspettative troppo alte? I genitori? Magari per provare a rifarsi dei propri
fallimenti? Magari nel tentativo di “perfezionare” i figli senza rendersi conto
che, invece, questa loro deleteria ricerca di perfezione distruggerà i ragazzi?
O certe ideologie? Magari quelle che ti promettono ricchezza e benessere se
competi contro tutto e tutti e in continuazione? O forse è lo stato? Magari con
le sue promesse di sconfiggere nemici, conquistare terre, anche fosse “solo”
occupandole culturalmente?
Riprendo la frase di Laura Pariani – “L’adolescenza è una brutta età. […] come
un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare di
afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo che
mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci e di
coloro che sono destinati a riceverti…” – e mi domando se, noi che di questi
adolescenti siamo genitori zii nonni e insegnanti, siamo attendibili o se siamo
soltanto corpi che attraversano i giorni con modalità talmente anonima e passiva
da garantire agli altri un minimo di credibilità unicamente quando viene
pubblicato il nostro necrologio, o se magari la nostra affidabilità l’abbiamo
esaurita perché interamente impegnata nel soddisfare il nostro bisogno di far
sapere al mondo intero ogni cosa noi si pensi e si faccia postando tutti i
nostri palpiti, o se siamo così presi a dispiacerci per i figli adolescenti e
per chiunque altro esclusivamente per ignorare noi stessi, la nostra
inattendibilità.
L’adolescenza è l’unico periodo della vita in cui non si è sopraffatti dalla
nostra adolescenza, è un santuario dove alcuni trascorrono tutto il loro tempo
anche mentre i capelli s’ingrigiscono. Forse perché è quel periodo della vita
tanto bello quanto tormentato, in cui l’innocenza dell’infanzia non è ancora
stata contaminata dall’età adulta e si riesce ancora a immaginare un futuro a
colori.
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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