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Italiani, brava gente. Che tortura
Torture made in Italy di Marco Sommariva Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare, frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno tedesco di Stig Dagerman. Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio Rosencof. L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985. La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti, chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?” chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal manganello ma alla fine ce la fecero”. La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole. Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è rimasto è andato a finire nella Sala 8”. Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà. In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i morti e per i vivi”. Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof. Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al potere sino al marzo del 1990. Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254. Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono messi dei topi vivi “dentro”. In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di tristezza”. Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo periodo della dittatura di Pinochet. Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se qualcuno era morto”. In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava. Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre 2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale. Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi – uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere, provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/ con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso di recupero ancora in corso”. In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero, Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi. “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli conficcarono un manganello nel culo”, ricordate? Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.” Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a firma di Siegmund Ginzberg. E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi. Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti medici. Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti, senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani, ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley. E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi. Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di Auschwitz. Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria spietatezza. Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto”. www.marcosommariva.com       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
41bis ed ergastolo ostativo come dispositivi di ricatto
L’uso degli strumenti penitenziari nella logica della guerra interna e le violazioni dei più fondamentali diritti del detenuto di Biagio Borretti da Penale, diritto e procedura La legislazione italiana di contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo reca con sé i caratteri tipici della “logica di guerra”, il cui obiettivo principale è la neutralizzazione del “nemico”. L’ergastolo c.d. “ostativo” e l’art. 41-bis ord. penit. sono le massime espressioni di tale legislazione e, alla neutralizzazione del detenuto, aggiungono un altro inconfessabile obiettivo: costringerlo alla collaborazione con la giustizia. Il ricatto intrinseco di tale logica assume i connotati della tortura, in violazione della Costituzione e delle convenzioni internazionali. Quanti, poi, con animo perverso, avessero persistito nel proprio dannato proposito, era nostro intento punirli in modo tale che la loro pena diventasse un esempio per gli altri[1]. Qui la mattina che ti svegli, la prima cosa che pensi è di dover fare qualcosa, la seconda è che non puoi fare niente[2]. 1. Il ricatto – Si può definire ricatto una attività di estorsione di qualcosa o di un comportamento per il tramite della coartazione della volontà altrui. Il fine può essere conseguito col ricorso alla violenza o alla minaccia, che assumono una funzione strumentale al perseguimento dello scopo[3]. 1.1. Il ricatto come tortura – Storicamente il concetto di tortura è stato differenziato in tre sottocategorie, determinate dalla finalità con cui le condotte venivano praticate: i) la c.d. tortura giudiziaria, finalizzata ad ottenere informazioni o confessioni; ii) la c.d. tortura punitiva, come forma di punizione fisica; iii) la c.d. tortura pedagogico-discriminatoria, finalizzata a negare l’identità della vittima[4]. Difatti, la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10.12.1984, entrata in vigore il 26.6.1987 e ratificata dall’Italia con l. 3 novembre 1988, n. 498, nel definire la tortura all’art.1, prevede le tre ipotesi appena richiamate: «il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate». Uno dei pregi della definizione appena riportata è l’aver evidenziato come la tortura sia strettamente connessa col potere. In un approfondito studio sulla tortura, si è sostenuto che il fine ultimo del torturatore sia la distruzione dell’identità della vittima. Da questo punto di vista, dunque, le sofferenze fisiche e psichiche sono i mezzi (le modalità di lesione) con i quali si persegue la distruzione di tale identità; essa consiste in una vera e propria devastazione interiore. La tortura, attraverso l’umiliazione dell’altro, provoca una crisi relazionale intersoggettiva, portando al silenzio e all’annichilimento interiore[5]. In un altro, raffinato studio sulla tortura, essa viene definita come «la situazione-limite in cui la dignità umana viene radicalmente lesa. Quando il torturatore tocca la sua vittima, ne cancella l’alterità. Viene meno ogni spazio tra i due. Il carnefice violenta il corpo, si impadronisce del sé, occupa il mondo della vittima. E la fa sprofondare nella notte dell’abiezione. Mentre la dignità precipita, non più recuperabile, si apre la vertigine dell’inumano»[6]. La gravità della tortura è tale che la Convenzione dell’ONU in materia, all’art. 2, co. 2, stabilisce: «Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura». Al fine di evitare il rischio che si ricorra all’idea di “graduazione” dell’intensità della tortura per giustificarne le manifestazioni considerate più “blande”, assieme ad essa sono vietati anche  i trattamenti crudeli, inumani o degradanti[7]. In dottrina è stato proposto un criterio distintivo tra la tortura e i trattamenti crudeli, inumani o degradanti: «La tortura […] presuppone una situazione di assenza di potere della vittima, che solitamente vuol dire privazione della libertà personale o una situazione simile di potere di fatto e di controllo diretti di una persona su un’altra. […] Il decisivo criterio distintivo tra la tortura e i comportamenti crudeli, inumani o degradanti non consiste, come sostenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da vari studiosi, nell’intensità del dolore o della sofferenza inflitti, ma nello scopo della condotta e nell’assenza di potere della vittima. […] In una situazione di detenzione o di controllo diretto di fatto similare… la proibizione della tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti è assoluta. Qualsiasi uso di forza fisica o psichica contro un detenuto allo scopo di umiliarlo costituisce una punizione o un trattamento degradanti. Ogni inflizione di dolore o sofferenza acute finalizzate ad uno degli scopi indicati dall’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura, è qualificabile come tortura»[8]. L’equiparazione, in punto di divieto, è statuita anche dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), all’art. 3: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». La tortura può assumere sia declinazioni fisiche che psicologiche, anzi nelle democrazie è proprio questa seconda forma che conquista col tempo maggior campo, venendo marginalizzata la violenza più esplicita, per motivi di consenso e legittimazione politico-sociali[9]. La tortura psicologica (c.d. bianca) è senza contatto, fondandosi per lo più sulla deprivazione sensoriale[10]. Essa raggiunge il massimo della efficacia e della insidiosità quando si spersonalizza in norme, procedure, regolamenti e circolari amministrative. I primi studi scientifici sulla tortura psicologica risalgono addirittura agli anni ’50 del secolo scorso e si sono affinati molto nel corso dei decenni, al servizio del potere costituito. Uno dei padri fondatori di tali studi, Albert Biderman, già nel 1959 aveva potuto verificare come per spezzare la volontà di una persona fosse sufficiente privarlo di ogni contatto umano, disorientarlo, alterarne i ritmi biologici e sottoporlo a forti stress[11]. Il tutto senza alcun contatto violento col corpo della vittima[12]. Obiettivo è la regressione dell’essere umano, così da eliminare le sue capacità di resistenza, con la conseguente perdita di autonomia. Ridurre la vittima in balia del torturatore, obiettivo perseguito con la violenza fisica nella tortura classica, in questo caso è ottenuto con la ‘violenza bianca’, per certi versi ancora più invasiva e devastante della prima: «La tortura psicologica… distrugge la persona, non solo una parte del suo corpo, perché mira direttamente al cuore dell’identità personale della vittima»[13]. Attraverso queste pratiche, ben descritte nel manuale della CIA sulle tecniche di interrogatorio “Kubark”, si persegue l’obiettivo di convincere la vittima che è causa delle proprie sofferenze: vittima, dunque, di sé stessa, l’unica persona che può porre fine alla tortura[14]. La logica di colpevolizzazione del soggetto passivo, in fondo, è la stessa utilizzata per legittimare l’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit.: è colpa del detenuto se si ritrova sottoposto a quei regimi, perché “liberamente” decide di non collaborare (discorso in passato avallato anche dalla Corte costituzionale[15]). Sulla scorta delle pressioni e degli impegni internazionali, dopo una lunghissima gestazione, anche in Italia, nel 2017, è stato introdotto il delitto di tortura, pur con evidenti limiti[16]. 1.2. Il ricatto come tortura giudiziaria – Dalla sintetica e schematica esposizione appena abbozzata, è possibile ricavare un dato ineludibile: il ricatto, inserito in una pratica di inflizione di forti sofferenze fisiche e/o psichiche, è elemento costitutivo della tortura c.d. giudiziaria[17]. Detta tipologia di tortura, negli ultimi vent’anni, è stata oggetto di un ampio dibattito che ha visto coinvolte varie discipline (dalle scienze politiche alla filosofia, dalla sociologia alla medicina) circa l’ipotesi di legittimarla in casi estremi di conflitti interni o internazionali. Il casus belli è rappresentato dagli attacchi alle Torri Gemelle e dalle conseguenti “guerre al terrorismo” (che hanno prodotto, tra innumerevoli orrori e distruzioni, per quanto ci riguarda più da vicino in questa sede, Abu Ghraib e Guantanamo). La proclamazione dell’emergenza e la retorica del ticking bomb scenario[18] hanno legittimato il ricorso al diritto penale del nemico (un nemico illegittimo, definito irregolare: il “terrorista”), contro il quale nessuna Convenzione, Costituzione o norma ordinaria possono operare. La tortura in tale scenario manifesta la sua più intima natura di vero e proprio strumento di politica di guerra. 2. Legislazione emergenziale e logica di guerra – La categoria della legislazione d’emergenza in Italia è da sempre un ossimoro. Dalla stagione della sovversione sociale degli anni ’70 del secolo scorso allo stragismo della mafia, passando per Tangentopoli, le soluzioni normative che si sono succedute per fronteggiare le particolari situazioni congiunturali sono state stabilizzate, con effetti dirompenti sia sul piano sociale che in ordine alla distorsione del processo penale e del suo uso politico[19]. L’emergenza reca con sé l’urgenza dell’intervento, procedure decisionali molto centralizzate (predominio dell’Esecutivo sul Parlamento e ricorso frequente ai decreti-legge), l’assenza di un vero dibattito pubblico pluralistico, la riduzione delle garanzie, soprattutto per chi viene considerato “nemico”. Il frutto di tale attività compulsiva sono discipline speciali che regolano la reazione dello Stato contro certi ‘tipi d’autore’, comprimendo persino diritti costituzionalmente garantiti. Tale logica regge sia la fase del parto normativo (con nuove fattispecie di reati, circostanze aggravanti ad hoc, pene elevatissime), sia quella processuale (compressione sistematica dei diritti della difesa, semplificazione probatoria, presunzioni di colpevolezza e pericolosità), che quella esecutiva, in particolare carceraria. La genesi dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo non sfugge a tali dinamiche, frutto delle emergenze e della ‘lotta alla mafia’, col conseguente ricorso sul piano discorsivo ad una terminologia e ad una logica di “guerra” [20]. L’art. 41-bis ord.penit. e più in generale la legislazione antimafia sono figli di questa logica bellicistica, che pur di ottenere il risultato dell’annientamento del nemico è disposta ad imporre una “moratoria” della Costituzione. Tale tendenza, d’altronde, è riscontrabile in molti altri scenari nazionali, caratterizzando il più ampio fenomeno del c.d. populismo penale, per il quale «ciò che importa è il castigo: le garanzie costituzionali del giudicabile sono solo un ostacolo»[21]. Nelle frenetiche settimane trascorse tra le due stragi di mafia di Capaci e Via D’Amelio, si discuteva la proposta di modifica dell’art. 41-bis ord.penit., con l’introduzione, al secondo comma, di una specifica disciplina di sospensione del ‘trattamento penitenziario’ per i detenuti ritenuti apicali delle consorterie mafiose. Il vecchio art. 41-bis ord.penit. (sostanzialmente plasmato sulla disciplina dell’abrogato art. 90 ord.penit., ampiamente utilizzato durante gli ‘anni di piombo’) fu ritenuto insufficiente a condurre la “guerra contro la mafia”, per cui – in via temporanea, inizialmente – si introdusse un ‘regime differenziato’ per determinate persone considerate portatrici di una pericolosità estrema. Nel suo atto di nascita, il “nuovo” art. 41-bis ord.penit. fu pura violenza, vera e propria vendetta di Stato, che colpì non soltanto i mafiosi direttamente coinvolti nella pratica stragista di Cosa nostra di quegli anni, ma anche numerosi altri detenuti (alcuni dei quali in misura cautelare), che nulla ebbero a che fare con quelle vicende. In questa sede non è possibile descrivere nemmeno sommariamente le prime fasi di applicazione del nuovo regime detentivo speciale, per cui ci si limita ad osservare come esse siano state caratterizzate da vere e proprie pratiche di tortura fisica e psicologica, con feroci maltrattamenti quotidiani[22]. Dopo i primi anni, tuttavia, data l’assoluta incompatibilità di un simile regime carcerario con uno stato di diritto, l’art. 41-bis ord.penit. venne modificato, sulla base di parametri di massimo contenimento più efficaci e meno roboanti. Per semplificare, si potrebbe sostenere che si passò da una forma di ‘tortura classica’ ad una ‘tortura senza contatto’, alla ‘deprivazione sensoriale’. 2.1. I “dispositivi bellici” del doppio binario penitenziario – La combinazione degli artt. 4-bis, 41-bis, 58-terord.penit.  ha creato e disciplinato un vero e proprio ‘doppio binario penitenziario’ che distingue il presente e soprattutto il futuro delle vite dei detenuti: da una parte i “comuni”, dall’altra quelli qualificati da una particolare pericolosità, determinata da due fattori: il titolo di reato e l’assenza di collaborazione con la giustizia. Non potendo entrare nel merito tecnico-giuridico delle numerose questioni complesse generate nel corso degli anni da questo vero e proprio sottosistema penitenziario, ci si limiterà a tracciarne a grandi linee la disciplina generale, per quel che attiene maggiormente al nostro tema. Il primo comma dell’art. 4-bis ord.penit. prevede una disciplina generale di divieto di concessione dei benefici penitenziari (fatta salva la liberazione anticipata) e di ammissione alle misure alternative alla detenzione in assenza di collaborazione con la giustizia (ai sensi dell’art. 58-ter ord.penit.) per detenuti e internati per delitti per lo più legati alla criminalità organizzata, al terrorismo o all’eversione, per alcuni gravi reati contro la libertà individuale, per reati in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, delitti associativi per contrabbando di tabacchi e traffico di sostanze stupefacenti. Tale previsione, in collegamento con l’esclusione della liberazione condizionale risultante dall’art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n.152, conv. con modif. in l. n. 12 luglio 1991, n. 203, rende, in particolare, l’ergastolo, perciò definito “ostativo”, un vero e proprio ‘fine pena mai’, senza nemmeno la speranza di poter accedere ai benefici predetti e alle misure alternative alla detenzione, se non previa collaborazione con la giustizia (o quando la collaborazione dovesse essere ritenuta, con un giudizio estremamente complesso e arduo da superare, impossibile, inutile o irrilevante)[23]. A seguito delle vicende scaturite da alcune note decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Viola c. Italia) e della Corte costituzionale (sent. n. 253/2019)[24], il legislatore, per evitare una pronuncia dichiarativa della illegittimità costituzionale della predetta disciplina anche in relazione alle misure alternative, è corso ai ripari modificando, tra l’altro, il successivo comma 1-bis, riscrivendolo e sostituendolo con una serie di ulteriori commi (1-bis.1, 1-bis.1.1 e 1-bis.2) con il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con modif. dall’art. 1, co. 1 l. 30 dicembre 2022, n. 199. Esclusa la condicio sine qua non della collaborazione, e la conseguente ‘presunzione assoluta di pericolosità sociale’, la nuova disciplina impone tuttavia in capo al detenuto una serie di adempimenti e oneri probatori “diabolici” che, di fatto, restringono al minimo le possibilità di superare il vaglio di ammissibilità dinanzi al Tribunale di sorveglianza. Basti pensare, per tutti, agli oneri di allegazione relativi alla inesistenza del pericolo di un futuro ripristino dei collegamenti, anche indiretti, con il «contesto nel quale il reato è stato commesso»[25]. L’art. 4-bis ord.penit. diviene centrale anche nel funzionamento della disciplina dettata dall’art. 41-bis ord.penit., poiché fornisce l’elenco dei reati per i quali quest’ultimo può essere adottato, indicati nel primo periodo del primo comma. Forse per evitare equivoci interpretativi (per la verità più immaginari che concretamente verificatisi), il nuovo co. 2 dell’art. 4-bis ord.penit. ha esplicitamente previsto che detenuti e internati sottoposti al regime di cui al successivo art. 41-bis non possono accedere ai benefici penitenziari o alle misure alternative. Da ultimo, il legislatore, con l’art. 7 d.l. 4 luglio 2024, n. 92 (conv. con l. 8 agosto 2024, n. 112), ha escluso anche la possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa. La portata e l’incisività della disciplina dei “divieti” imposti dall’art. 4-bis ord.penit., tali da rendere un ergastolo “ostativo” o da legittimare l’adozione del più severo dei regimi detentivi, lo hanno reso nel corso degli anni un duttile strumento di politica criminale, ampliando progressivamente il catalogo dei reati ivi compresi. Una “facile” risposta per attrarre consensi elettorali a fronte delle debolezze della politica[26]. Un vero e proprio strumento di definizione/selezione del “nemico” nelle mani del potere costituito che ricorre con crescente frequenza ad un uso politico del ‘doppio binario’ del sistema penitenziario[27]: da un lato ci sono i detenuti “comuni”, per i quali è previsto un percorso ispirato ad una progressiva apertura verso la società in un’ottica di risocializzazione (almeno sulla carta) e, dall’altro, vi è un percorso per i detenuti ritenuti “pericolosi” sulla base di titoli di reato, del tutto estraneo alla prospettiva rieducativa e informato «ad una logica di neutralizzazione e finalizzato ad incentivare le condotte collaborative»[28], che li esclude dall’accesso alla liberazione condizionale, ai benefici penitenziari e alle misure alternative al carcere. La logica del ricatto, dunque, sia nel caso dell’art. 41-bis ord.penit. che dell’ergastolo ostativo (‘di diritto’ o ‘di fatto’, dopo la riforma), conduce ad una pratica di tortura, quantomeno psicologica, col ricorso a trattamenti contrari alla dignità umana, quindi assunti in violazione dell’art. 3 Convenzione EDU[29] e della Carta costituzionale, nonché in violazione del principio della finalità rieducativa della pena stabilito nell’art. 27, co. 3 Cost.[30]. La combinazione di entrambi i dispositivi raggiunge i massimi livelli di afflittività incostituzionale. 2.2. Il ricatto negato. Non sempre – I sostenitori dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo per lo più negano la sottesa logica ricattatoria di tali regimi. Un autorevole magistrato inquirente ha da sempre sostenuto che l’unica ragione posta a fondamento del ‘regime differenziato’ sia quella preventiva: la rottura dei collegamenti con le consorterie criminali esterne al carcere e dentro di esso[31]. Tuttavia, nel ribadire come vi sia una stretta relazione tra la collaborazione e l’accertamento dell’assenza di pericolosità (via maestra per superare l’assoggettamento ad ergastolo ostativo e art. 41-bis ord.penit.), l’Autore evidenzia, per quanto involontariamente, la logica ricattatoria dei due dispositivi[32]. In un confronto proprio con l’orientamento appena citato, autorevole dottrina, nel sottolineare come l’art. 41-bis ord.penit. fosse riconducibile ad un orizzonte di diritto penale d’autore, tutto fondato sulla prevenzione speciale negativa e caratterizzato da un eccesso punitivo simbolico, manifestava il proprio dubbio: «Premialità estrema e carcere duro sono estremi ritenuti necessari all’implementazione di una sorte di “soave inquisizione”… capace di “sciogliere le lingue”?»[33]. In effetti, in dottrina, da sempre, numerose e articolate sono state le critiche ai predetti regimi. In un autorevole commentario alla legge sull’ordinamento penitenziario si legge: «Il dubbio che insinua, allora, è che il legislatore abbia voluto in realtà perseguire altri fini: istituzionalizzando il regime differenziato in esame, da un lato, mira a tranquillizzare l’opinione pubblica inducendo un maggior senso di efficienza e quindi di sicurezza (non a caso si parla di “carcere duro”, anzi “durissimo” secondo la definizione del ministro dell’epoca Alfano), dall’altro mira a sollecitare condotte collaborative da parte dei detenuti sottoposti alla sospensione delle regole trattamentali. Un siffatto risultato se può essere astrattamente condivisibile, non lo è quando per il suo raggiungimento si comprimono diritti costituzionalmente garantiti»[34]. Qualora dovessero residuare dubbi, il sigillo sulla natura intrinsecamente ricattatoria dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo è stato di recente posto da uno stimato magistrato antimafia in un passaggio estremamente franco di un testo dedicato al fenomeno dei pentiti e alla relativa disciplina normativa: «L’esperienza ha dimostrato che quanto più sono ampie le forbici tra il trattamento per il collaboratore e l’irriducibile tanto maggiore è l’effetto incentivante alla collaborazione. […] L’accesso alla collaborazione viene incentivato, in maniera consistente, dal regime differenziale esistente tra chi collabora e l’irriducibile e dall’efficienza del sistema della protezione che rivela la serietà dell’impegno dello Stato. Tanto più è marcata la differenza e l’agevolazione per la via della collaborazione tanto maggiore sarà il numero delle vocazioni collaborative sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo. Le collaborazioni sono state incentivate con la disciplina inerente all’ergastolo ostativo che inibisce o, comunque, rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari… rispetto a chi non collabora con la giustizia»[35]. 2.2.1. Sul fronte politico non sono mancate testimonianze estremamente esplicite sul fine ultimo e reale del regime differenziato. Alcuni politici, nei mesi in cui fu partorita la modifica dell’art. 41-bis ord.penit. con l’introduzione del co. 2, così si esprimevano: «Contro i capimafia è necessario il massimo rigore, senza lasciar neppure intravedere loro la possibilità di un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, salvo che cambino idea e non inizino una seria e fruttuosa collaborazione» (L. Violante); «Il punto centrale è la stabilizzazione del 41 bis […] perché di fronte ad una situazione stabile si chiarisce che si esce dal carcere duro solo con una precisa dissociazione o un pentimento» (A. Maritati)[36]. D’altronde già nel 1994, nel consesso delle Nazioni Unite, le autorità italiane si espressero con le seguenti limpide parole: «Grazie a questa misura speciale [l’applicazione dell’art. 41-bis ord.penit.], un numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le autorità giudiziarie, fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali facevano parte»[37]. Tale dinamica “virtuosa” sembrerebbe essersi accentuata a seguito della ‘riforma Alfano’ del 2009 dell’art. 41-bis ord.penit., se uno dei massimi esperti dell’istituto così commentava: «Il numero dei provvedimenti 41 bis è cresciuto, gli annullamenti dei Tribunali di sorveglianza sono diminuiti. Sono cresciuti i collaboratori di giustizia»[38]. Da allora vi è un vero e proprio consenso bipartisan delle forze politiche, tanto da farne un totem per l’attrazione di consenso. Basti pensare alla corsa ai proclami contro ogni ipotesi di riforma o abolizione dell’art. 41-bis ord.penit. in occasione della vicenda Cospito. 2.2.2. La logica ricattatoria intrinseca nei due dispositivi di cui stiamo trattando è fortemente percepita anche dai detenuti. Negli ultimi anni la letteratura relativa agli ergastolani ostativi e all’art. 41-bis ord.penit. è cresciuta sensibilmente e, tuttavia, le opere di maggiore respiro “testimoniale”, frutto di interviste massive, mancano da tempo. Ciò, forse, è anche frutto della disciplina restrittiva introdotta nel 2009, con la previsione del reato di cui all’art. 391-bis c.p., che obiettivamente “mura” anche la voce dei detenuti. Tracce di tale sensibilità, tuttavia, si trovano sparse nelle testimonianze che sono circolate nel corso degli anni. Recentemente, ad es., un detenuto già ristretto in regime di art. 41-bis ord.penit. racconta: «Dopo il mio arresto mi viene applicato il 41 bis; da quel momento inizia un interminabile calvario in quanto inizio a subire vessazioni fisiche e psicologiche: mi veniva ripetutamente chiesto di collaborare con la giustizia se volevo rivedere i miei figli. Non ho mai accettato perché nulla avevo da dire in quanto la responsabilità dei reati che mi venivano contestati era solo e soltanto mia e non me la sentivo di scaricarmela addossandola a chi in realtà non aveva colpe. Visto che non accettavo questo compromesso, stavo rinunciando alla possibilità di rivedere i miei figli. Questo calvario durerà poco più di sei anni»[39]. Un altro detenuto, in uno scritto relativo alla sua esperienza carceraria in regime di cui all’art. 41-bis ord.penit., scriveva: «Il direttore mi disse: “Sa Indelicato se ha ricevuto minacce a casa?”. Risposi: “Sono tredici mesi che non faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie ogni volta che viene qua viene vessata più di me, perché deve passare le perquisizioni corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto, mia moglie che non c’entra niente, i miei figli non c’entrano niente con queste torture. […]”. Questo direttore mi chiese se avevo ricevuto minacce a casa, tipo incendi, cose varie, ma io ovviamente non lo potevo sapere. Me ne sono andato. Ma questo pallino, questa idea mi rimase in testa; questa era una mossa psicologica perché loro ti smontavano, cioè volevano creare il pentito, questa è la realtà. E questo hanno fatto, perché ci sono state persone che si sono pentite e persone che si sono pure uccise»[40]. Un altro ex detenuto in regime di art. 41-bis ord.penit. per alcuni anni, poi assolto, ha raccontato: «Le manette… a me le hanno legate alla sedia. Il dottore voleva sapere qual era il dente che mi faceva male; con la lingua glielo indicavo, ma indicandoglielo con la lingua mi hanno tolto quello sbagliato. Una pedata ai testicoli perché dovevo collaborare. […] Le proposte che mi hanno fatto non le dico per non andare incontro a una denuncia; le proposte che mi facevano di collaborazione»[41]. La stessa, complessa, vicenda processuale di un collaboratore di giustizia del processo “Borsellino-bis”, poi mostratosi del tutto inattendibile dopo numerosi cambi di versione e alterne vicende di collaborazione e ritrattazioni – le cui dichiarazioni vanno, di conseguenza, maneggiate con estrema cautela –, è di particolare interesse ai fini del nostro studio. Questi, infatti, in più passaggi di una importante intervista, ha chiarito come il regime detentivo brutale di Pianosa nel 1992, unitamente ai numerosi ‘colloqui investigativi’, lo avessero indotto a “pentirsi”[42]. È stato osservato, condivisibilmente, che «sono “tortura” non solo “dolore e sofferenze forti” […], ma anche le “pressioni” che in particolari condizioni di detenzione si esercitano nei confronti di detenuti fatti oggetto di visite in cella eufemisticamente definite “colloqui investigativi”»[43]. Si leggano, inoltre, le interviste condotte a ben 645 detenuti in regime di art. 41-bis ord.penit. realizzate anni or sono, dalle quali emerge frequentemente come i reclami contro l’applicazione o le proroghe dell’applicazione del regime speciale venissero rigettati per una ‘persistente pericolosità’ dovuta all’assenza di ‘segni di collaborazione’[44]. Più di recente, un noto anarchico detenuto in regime di art. 41-bis ord.penit. dichiarava: «Io potrò uscire da questo girone dantesco solo se rinnegherò il mio credo politico, il mio anarchismo, solo se mi venderò qualche compagno o compagna»[45]. 2.3. Il regime del 41-bis come “dispositivo di ricatto” – La sospensione del trattamento penitenziario conseguente all’applicazione dell’art. 41-bis ord.penit. prevede numerose limitazioni, alcune delle quali già definite dal legislatore, congiuntamente applicate e senza la possibilità di adattarle al singolo caso[46]. La norma, tuttavia, riserva anche la possibilità, in capo all’Amministrazione, di imporre ulteriori restrizioni sulla base di due previsioni molto generiche che, di fatto, lasciano mano libera al decisore politico-amministrativo (sia in sede di emissioni di circolari che di applicazione locale delle stesse): i) l’adozione di «misure di elevata sicurezza interna ed esterna» non meglio specificate, «con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) ord.penit.[47]; ii) l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza… volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi» (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f) secondo periodo ord.penit.). Misure, anche in questo caso, non meglio precisate. 2.3.1. Il primo dato che emerge quando si studia l’art. 41-bis ord.penit. “reale”, cioè quello concretamente applicato, anche in violazione delle decisioni della Corte costituzionale, riguarda la sua particolare ‘geografia penitenziaria’. La logica di fondo che informa le decisioni sulle collocazioni dei detenuti particolarmente pericolosi è quella della “dispersione” e dell’allontanamento dai luoghi di origine. Si tratta di una precisa scelta politica del DAP: «Al di sotto di Secondigliano non mettiamo detenuti soggetti all’art. 41-bis, proprio per tenerli lontani da quell’ambiente. […] Al di là della battuta… abbiamo una regola alla quale non abbiamo mai contravvenuto, quella di non inviare mai detenuti sottoposti all’art. 41-bis oltre Secondigliano; peraltro c’è da considerare che Secondigliano è un’isola nell’area da Roma in giù»[48]. Dietro l’esigenza di allontanare i detenuti dai contesti criminali di provenienza (esigenza che dovrebbe essere, in verità, garantita dal regime di massima restrizione di cui all’art. 41-bis ord.penit.)[49], di fatto opera un potente meccanismo di rottura dei legami affettivi, con ciò che ne consegue in termini di qualità della vita in carcere, soprattutto tenuto conto delle restrizioni ulteriori che subisce un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord.penit.[50]. È un dato incontrovertibile che, con questa politica del distanziamento familiare, i colloqui – per motivi logistici ed economici – si diradino, riducendosi a poche occasioni in un anno[51]. La rottura dei legami familiari, già ampiamente compromessi dalle modalità con cui vengono svolti i colloqui dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. (e anche alla trafila di controlli estenuanti e invadenti che devono subire i familiari all’ingresso e all’uscita dal carcere), diventa un potente fattore di pressione sul detenuto, conferendo connotati di particolare afflittività alla pena[52]. Il tutto in evidente violazione dell’art. 28 ord. penit., stando al quale «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie». 2.3.2. Nel complesso delle limitazioni previste esplicitamente su base normativa e delle altre che si fondano sulle circolari del DAP, sono numerose quelle che mostrano profili assolutamente eccentrici rispetto alle proclamate esigenze di “sicurezza” e alla necessità di assicurare la rottura dei legami con le organizzazioni criminali di provenienza. Senza stretta funzionalità[53], non soltanto le restrizioni sono prive di legittimazione normativa, ma finiscono per violare il patto costituzionale e i divieti anche internazionali di tortura[54]. Tutto ciò che non è giustificabile in base alle esigenze di sicurezza/rottura dei legami con l’esterno, finisce per assumere i connotati della pura afflittività, essa sì funzionale a perseguire altri scopi, in particolare la collaborazione. Ciò è ancora più vero nei numerosi casi di detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. in misura cautelare (poco meno del 20% del totale). Tale critica è stata avanzata anche da uno dei più strenui difensori dell’art. 41-bis ord.penit., Nicolò Amato, capo del DAP per un decennio (1983-1993), il quale censura le restrizioni senza fini di sicurezza, sostenendo che esse abbiano «esclusivamente un carattere di afflizione o di punizione fine a sé stessa»[55]. Una tale afflittività, informata ai parametri della ‘sicurezza assoluta’ e della ‘punizione senza limiti’ – continua l’A. – «non trova alcuna legittimazione»[56]. Con ancora maggiore precisione: «Una pena detentiva è contraria al senso di umanità o lesiva della dignità personale, se infligge al detenuto una sofferenza che vada al di là di quella inevitabilmente insita nella privazione della libertà. E così, indubbiamente, tutte le disposizioni del regime 41 bis sono più o meno in contrasto con il principio indicato, giacché in sé, per il loro stesso contenuto, determinano condizioni detentive inumane o degradanti, ossia un eccesso di afflittività rispetto alla semplice privazione della libertà. […] E quindi, le restrizioni di diritti penitenziari privi di scopi di sicurezza – come quelle concernenti i pacchi, gli acquisti al sopravvitto, la permanenza nei cortili di passeggio e simili – sono senz’altro illegittime e inaccettabili, in quanto il di più di sofferenza che comportano non ha alcuna giustificazione»[57]. Di seguito si riporta un breve elenco di tali restrizioni del tutto ingiustificabili anche tenendo come riferimento le esigenze di ‘ordine e sicurezza pubblica’ e di impedimento dei “collegamenti” con la criminalità organizzata. L’edilizia e le condizioni materiali di vita delle sezioni destinate all’esecuzione in regime di art. 41-bis ord.penit. mostrano i primi segni tangibili di criticità, tanto da aver spinto il Garante Nazionale dei detenuti a parlare di vere e proprie «pene corporali»[58]. Nelle sezioni predette vige un vero e proprio ‘regime claustrale’, dove persino l’accesso alla luce naturale e all’aria sono impediti. Le finestre delle celle sono chiuse e oscurate da diversi strati di schermatura, che in alcuni casi arrivano fino a cinque. Ciò riduce il passaggio di luce e aria senza alcuna giustificazione, con risultati asfissianti d’estate[59]. Le celle, inoltre, sono del tutto impersonali, condizione che impoverisce la personalità del detenuto, già censurata in un rapporto del 2008 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)[60]. Il Garante Nazionale, inoltre, ha osservato nel suo ultimo Rapporto la «presenza ossessiva di grate a copertura dei cortili»[61], tanto che le aree di passeggio finiscono per essere dei «meri contenitori grigi, privi di ogni stimolazione visiva e avulsi da ogni elemento naturale»[62], dei cubi di cemento coperti da reti (in passato in alcuni istituti anche dal plexiglass, che in estate produceva un vero e proprio ‘effetto serra’). Gli spazi ristretti e l’assenza di visuale più ampia producono sulla distanza il deterioramento della vista e non solo: «La mancanza di una estensione dello sguardo, sempre limitata da mura o da reti, incide negativamente sulla capacità visiva delle persone e, molto probabilmente, sul loro complessivo equilibrio»[63]. Tali scelte di edilizia penitenziaria sono inserite nella logica della deprivazione sensoriale, come si è già notato in precedenza. Il Garante, pur non ricorrendo a tale terminologia, la lascia intendere: «Questa caratteristica di spazi […] pensati e progettati per tali destinazioni, induce a credere che il grigiore amorfo costituisca una scelta precisa»[64]. Alla dimensione alienante degli spazi “aperti”, si aggiunge che – stando all’ultima circolare del DAP che regola la disciplina e l’organizzazione delle sezioni destinate all’art. 41-bis ord.penit., emessa il 2.10.2017 con prot. n. 3673/6126 – l’Amministrazione ha compresso ulteriormente la previsione normativa. Difatti, mentre il co. 2-quater, lett. f) dell’art. 41-bis ord.penit. prevede che la ‘permanenza all’aperto’ non debba avere una durata superiore alle due ore, il DAP, confondendo la ‘permanenza all’aperto’ con il tempo di ‘socialità’, finisce per concedere una sola ora di ‘aria’ (v. l’art. 11 della citata circolare). Le condizioni complessive di detenzione e la composizione dei gruppi di “socialità”[65] e passeggio comportano che durante le ‘ore d’aria’ spesso domini il silenzio: «Alcune persone mi hanno raccontato che di consueto camminavano in silenzio, tutte e quattro. Anche quando si andava nella saletta per l’ora della socialità, si giocava a carte in silenzio. Il numero di parole utilizzato è estremamente limitato e con il passare degli anni le persone diventano incapaci persino di sostenere una conversazione»[66]. L’isolamento prolungato conduce alla degradazione delle capacità di comunicazione e all’assuefazione alla solitudine: «Le persone parlano poco. Ad alcune domande riguardanti la sfera emotiva spesso rispondono a monosillabi, ma anche le domande più stimolanti a volte ricevono risposte brevi oppure un insieme di frasi incomplete. Mentre le emozioni rimangono una sfera difficilmente raccontata, vi è maggiore eloquenza quando si tratta di descrivere spazi, norme e (non) attività»[67]. Il silenzio, in regime di art. 41-bis ord.penit., è la consegna impartita dagli agenti[68]. I detenuti, pur potendo, in teoria, comunicare tra di loro dalle celle, a gruppi di quattro, sono ridotti al silenzio: «… hanno la porta blindata delle celle sempre chiusa e detenuti collocati in celle diverse non possono comunicare tra loro»[69]. Un ergastolano detenuto ad Opera così inizia una lettera inviata ad un quotidiano: «Mi chiamo […], sono ininterrottamente detenuto da quasi vent’anni con l’ergastolo ostativo, il 4 bis. Sono stato per quattro anni al 41 bis e complessivamente sono stato isolato per sei anni, a volte per mesi e mesi senza parlare con nessuno. Il 41 bis spegne i rapporti con le persone che ami, crea una distanza incolmabile»[70]. La violenza della tortura «annienta il linguaggio… il torturato resta un corpo senza voce»[71]. Il silenzio della tortura, nel caso dei dispositivi che stiamo analizzando, si contrappone al recupero della parola solo sotto forma di propalazioni del collaboratore di giustizia. In effetti: «La tortura vuole spezzare la volontà del torturato, giocando il suo corpo contro la sua mente, e fargli fare e dire quello che proprio non vuole né fare né dire»[72]. Un’altra pratica costante, particolarmente invasiva, giustificata con le ‘esigenze di sicurezza’ è l’abuso delle perquisizioni ordinarie: ad ogni spostamento corrisponde un denudamento[73], anche in caso di colloqui con i familiari, notoriamente intrattenuti con vetri divisori alti fino al soffitto e che non consentono alcun passaggio di oggetti tra i colloquianti, così come  prima e dopo i colloqui con gli avvocati e persino con i magistrati[74]. E ciò, nonostante durante i tragitti di andata e ritorno i detenuti siano sempre scortati da più agenti. Nel caso di comprovata assenza di esigenze di sicurezza, tale pratica assume i connotati della violenza gratuita. Anche la censura asfissiante sulle comunicazioni verso l’esterno finisce per incidere sensibilmente sui rapporti intrattenuti coi familiari. Se è vero che tale restrizione fonda la propria logica nelle esigenze di sicurezza, ossia al fine di limitare eventuali comunicazioni criminogene verso l’esterno, è altrettanto vero che ne se fa un uso indiscriminato. Il controllo è eseguito spesso dagli agenti di sorveglianza, che possono operare arbitrariamente[75]. Sebbene sia previsto un controllo giurisdizionale sulla fondatezza della censura, è altrettanto vero che esso arriva per lo più con estremo ritardo. Il tutto provoca un impoverimento del linguaggio (teso ad evitare qualsiasi parola ed espressione che possa essere interpretata come criptica e perciò censurabile) e delle relazioni affettive[76]. A tali restrizioni, assolutamente non funzionali a garantire le esigenze di sicurezza (o delle quali, ad ogni modo, si abusa), si aggiungono quelle previste dalla circolare del 2017 già citata o adottate dai singoli istituti penitenziari. Di seguito un florilegio: le pentole e i pentolini utilizzabili per cucinare i cibi in cella non possono avere rispettivamente un diametro superiore ai 25 e 22 cm[77]; gli oggetti di igiene personale non possono essere detenuti nella cella, ma vengono consegnati e ritirati ad orari prestabiliti; nella sala pittura non possono essere detenuti più di 12 pezzi tra matite e colori all’acquerello; il numero massimo di libri che si possono avere in cella contemporaneamente è di quattro (il che comporta non pochi problemi per chi abbia intenzione di seguire dei corsi di studio)[78]; è previsto un numero massimo di fotografie da poter avere in cella ed è imposto il divieto di affissione di foto sulle pareti, salvo una singola fotografia di un familiare[79]; la televisione è fruibile soltanto dalle 7:00 alle 24:00, così limitando anche l’uso della radio per finalità informative, essendo per lo più le radio incorporate nelle tv[80]; sono previste limitazioni nell’acquisto dei quotidiani, alcuni dei quali, anche a diffusione nazionale, sono vietati in certi istituti. Il complesso di tali restrizioni, non motivabili sulla base delle esigenze di sicurezza pubblica e di rottura dei legami con le organizzazioni criminali, portò già nel 2008 il CPT in modo netto a denunciare: «Alla luce di questi elementi e delle condizioni di vita succitate, è evidente che questo tipo di trattamento è creato per spingere il detenuto alla collaborazione con la polizia e con la giustizia, in modo da ottenere lo status di collaboratore di giustizia e la sospensione del regime 41 bis»[81]. Le restrizioni imposte anche al diritto allo studio incidono in termini deteriori sulla possibilità di avviare un percorso rieducativo in osservanza dell’art. 27, co. 3 Cost.[82]. Dal punto di vista pedagogico, difatti, è stato osservato: «La finalità di un regime di massima sicurezza è da ricercare non tanto nell’esclusione e nell’allontanamento per garantire la pace sociale ma nel porre la persona mafiosa in una situazione psicologica e fisica estenuante per neutralizzare i suoi residui elementi sociali. Nel lungo periodo, questa asocialità forzosa non favorisce il suo recupero ma potrebbe, al contrario, incentivare caratteri di antisocialità»[83]. Ciò è tanto più vero se si tiene conto del c.d. effetto imbuto del regime di cui all’art. 41-bis ord.penit., per il quale chi vi entra molto difficilmente ne uscirà, se non con la completa espiazione della pena; nel caso dell’ergastolano ostativo in regime di art. 41-bis ord.penit. non collaborante, la via d’uscita è la morte[84]. Tale conseguenza è dovuta al meccanismo perverso delle proroghe pressoché automatiche e alla difficoltà (ovvero, impossibilità vera e propria senza collaborazione) di scardinare la presunzione di pericolosità sociale e della persistenza dei collegamenti con la criminalità[85]. 2.4. Il regime del 41-bis e il solitary confinement. Un rapido confronto – Il regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. ha tutte le caratteristiche di quello che nella letteratura internazionale viene definito solitary confinement, ovvero un regime carcerario nel quale il detenuto è isolato nella propria cella dalle 22 alle 24 ore al giorno e separato dagli altri detenuti; i suoi contatti con il personale penitenziario sono scarsi e superficiali, per lo più di totale dipendenza; i rapporti con i familiari sono infrequenti; vi è un controllo diffuso e costante di ogni movimento, persino di quelli più intimi (telecamere in bagno); le celle sono particolarmente piccole, prive di luci sull’esterno o comunque dotate di piccole fessure, con un limitato accesso all’aria fresca e alla luce naturale; la vita è condotta in situazioni ambientali di scarse stimolazioni e pochissime opportunità di attività da svolgere[86]. Regimi del genere furono ampiamente sperimentati nel XX secolo in vari Paesi, soprattutto durante i periodi più caldi delle stagioni dell’insorgenza sociale o delle rivolte anticoloniali. Sono numerosi gli studi internazionali che dimostrano come tale regime carcerario arrechi plurimi danni, sia fisici sia soprattutto psicologici, ai detenuti, in particolare se imposto per lunghi periodi di tempo[87]. Tra i primi, la letteratura scientifica annovera palpitazioni cardiache, diaforesi, insonnia, dolori articolari e alla schiena, deterioramento della vista, inappetenza, perdita di peso e in alcuni casi diarrea, sonnolenza, spossatezza, tremore, sensazioni di freddo, aggravamento di pregressi problemi di salute. Tra i principali effetti sul piano psichico, invece, sono stati riscontrati ansia (che varia dalle sensazioni di tensione a veri e propri attacchi di panico), depressione (che va dai casi di umore basso fino alla vera e propria depressione clinica), rabbia (che passa dall’irritabilità per arrivare alla rabbia totale), disturbi cognitivi (dalla perdita di concentrazione fino agli stati confusionali), distorsioni percettive (dalla ipersensibilità fino alle allucinazioni), paranoia e psicosi (dai pensieri ossessivi fino alla psicosi vera e propria)[88]. Le condizioni deteriori del solitary confinement sono cristallizzate anche dal brutale dato statistico dei più alti tassi di pratiche di autolesionismo e suicidio[89]. A ciò si aggiungano conseguenze, spesso irrimediabili, sulle abitudini di vita, sulle strutture caratteriali e sulle difficoltà relazionali che ne seguono in un eventuale reinserimento in società[90]. A fronte di tutto ciò, sembra un mero paravento ideologico quello utilizzato dal DAP nella premessa della circolare n. 3676/6126 del 2017, più volte richiamata: «Le prescrizioni imposte col decreto del Ministro non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata, per i soggetti sottoposti al regime detentivo in esame»[91]. 3. Guerra ai nemici – L’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit., prodotti di una «idea segregazionista della pena fondata sulla pericolosità»[92], mostrano tutti i caratteri del ricatto, dal chiaro obiettivo (in alcuni casi anche esplicitamente rivendicato) di indurre (costringere) il detenuto alla collaborazione con la giustizia a mezzo disofferenze fisiche e/o psichiche. Il ricatto, quando non riesce a raggiungere l’obiettivo principale, assume comunque i connotati della pura e gratuita afflizione, non giustificabile da alcuna esigenza di sicurezza. Imponendo un grado di massima afflittività si persegue, in effetti, anche un doppio obiettivo “simbolico”: uno, di prevenzione generale tramite la pena esemplare espiata dai “nemici” della società[93]; l’altro, di legittimazione del potere costituito grazie alla “guerra” al fenomeno criminale. In questa prospettiva, l’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit. svolgono anche una funzione di “garanzia” per le ansie sociali e qualificano l’efficacia della lotta statuale contro le organizzazioni criminali, rappresentando le ‘punte di diamante’ della repressione del crimine. La lunga stagione del populismo penale, difatti, si alimenta di discorsi giustizialisti che rivendicano la centralità del carcere come risposta dello Stato alla criminalità. Tale logica è del tutto consequenziale in rapporto al fallimento delle politiche di giustizia sociale e allo smantellamento del Welfare State. La “giustizia” passa solo per i tribunali e chi “sbaglia” deve pagare, severamente. Il carcere ha sempre di più la funzione di mero contenitore di persone “irrecuperabili”, da neutralizzare. La reattività dello Stato, in quest’ottica, si misura con quante persone vengono rinchiuse in carcere e in quali condizioni i detenuti sono stipati in questi contenitori[94]. Il meccanismo appena descritto sembra richiamare quello raffigurato nella bolla papale citata in esergo: l’obiettivo principale è ottenere la collaborazione con la giustizia (la confessione e la “conversione” richieste dall’Inquisizione) e, nel caso del mancato raggiungimento dello scopo, residua comunque la pena della massima sofferenza, conseguenza della cattiva fede e dell’irriducibilità del detenuto, che funga da terribile monito per gli altri consociati. L’uomo è ridotto a puro strumento del potere costituito. In questa dinamica di repressione e legittimazione, al “nemico” è negata non soltanto la libertà, ma anche la vita. -------------------------------------------------------------------------------- [1] Paolo III nel 1542 emanava la bolla Licet ab initio, con cui veniva istituita la “nuova” Inquisizione romana, indicando subito i propri intendimenti. La bolla è riprodotta ampiamente nell’illuminante studio di I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire. Il sospetto e l’Inquisizione romana nell’epoca di Galilei, Milano, 1979, pp. 100-104 (per la citazione v. p. 101). [2] Da una lettera di un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis pubblicata in Camera Penale di Roma, Barriere di vetro: voci dalla detenzione speciale in Italia, Roma, 2002, p. 90. [3] Il ricatto, pur non essendo un termine esplicitamente richiamato nel codice penale, è elemento costitutivo di numerose fattispecie incriminatrici. V. ad es. art. 317 c.p., art. 338 c.p., art. 377, co. 3 c.p., art. 377-bis c.p., art. 610 c.p., art. 611 c.p., art. 629 c.p., art. 630 c.p.. Sulla differenza tra “minaccia-fine” e “minaccia-mezzo” (tipica del ricatto), v. G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, passim. [4] Per un’introduzione alla storia della tortura (sui piani giuridico, sociologico e politico), con ampie ricostruzioni storiografiche, v. T. Padovani, Tortura: anno accademico 2006/2007, Pisa, 2015. [5] M. Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, Roma, 2016, pp. 19, 21-22, 74-75. [6] D. De Cesare, Tortura, Torino, 2016, p. 93. [7] Sul punto v. M. La Torre, in M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto, Bologna, 2013, pp. 159-161, 164. Si rinvia all’intero testo per una articolata critica delle teorie giustificazioniste della tortura, sviluppatesi soprattutto negli Usa e in Germania dopo gli attentati del 2001 alle Torri Gemelle. [8] M. Nowak, E. McArthur, The distinction between torture and cruel, inhuman or degrading treatment, in Torture, vol. 16, n. 3, 2006, pp. 150-151. [9] In questa sede si fa ricorso alla classica distinzione tra tortura “fisica” e “psicologica” per mera semplificazione espositiva, ben consapevoli che, invece, nella letteratura scientifica la differenziazione netta tra “corpo” e “psiche” sia criticata e rifiutata da tempo. Già negli anni ’70, ad es., uno studioso della materia osservava: «Non ha senso distinguere tra tortura fisica e psicologica perché si dovrebbe accettare la concezione profondamente sbagliata… secondo la quale un essere umano può essere pensato come l’unione di due entità distinte: la psiche (l’anima) e il corpo. […] La pratica della tortura ha […] dimostrato che le reazioni dell’uomo agli stress possono essere comprese solo in termini di combinazione di processi mentali e fisici» (S. Mistura, Le scienze umane per la tortura, in S. Mistura, Collettivo latino-americano di lavoro psico-sociale, La fabbrica della tortura. Psicologia e psichiatria come scienze della coercizione, Verona, 1978, p. 19). [10] Si tratta di pratiche che cominciarono ad essere sperimentate negli anni ’70 del secolo scorso in danno dei prigionieri politici. In un articolo giornalistico di allora, a proposito del trattamento riservato ai prigionieri della RAF nella Repubblica Federale Tedesca, si denunciava quanto segue: «Non si viene certo privati della facoltà della vista, la luce degli occhi non viene accecata: si viene privati piuttosto della possibilità di vedere qualsiasi cosa con gli occhi. Non viene sottratta la capacità soggettiva degli organi di senso, ma bensì il loro soggetto, il loro senso appunto; per cui essi diventano inutili, senza funzioni, esangui. […] Per esempio è previsto il totale divieto di parlare, vengono eseguite razzie nelle celle, la luce rimane accesa di notte, il taglio delle visite, le limitazioni negli scambi epistolari, la privazione di ogni oggetto di arredamento, l’incubo del braccio morto, ecc. Quindi: è solo la complessità delle misure dell’isolamento, e il fattore tempo, che determinano l’effetto della tortura. […] Lo scopo sono quindi le confessioni» (“La tortura che non lascia tracce”, in Wir wollen alles, n. 24 – gennaio 1975, pubblicato in A. Assante, P. Pozzi (a cura di), Il gulag socialdemocratico. Note sulla repressione in Germania, Milano, 1977, pp. 26-28). [11] Per una sintetica ricostruzione dei principali risultati dei suoi studi, v. Amnesty International, Rapporto sulla tortura nel mondo, Milano, 1975, pp. 57-63. [12] Su questi temi, nonché sul ruolo degli psicologi nell’affinamento delle tecniche di “tortura bianca”, v. R. Mausfeld, Psychologie, ‘weiße Folter’ und die Verantwortlichkeit von Wissenschaftlern, in Psychologische Rundschau, n. 60, 2009, pp. 229-240 (trad. inglese di V. Ekroll, Psychology, ‘white torture’ and the responsibility of scientists, in ResearchGate). [13] R. Mausfeld, op. cit., p. 13 ed. inglese. [14] Su questi aspetti e sull’obiettivo della regressione dell’interrogato, prodromica della sua arrendevolezza, v. Central Intelligence Agency, Manuale della tortura. Il testo finora top-secret uscito dagli archivi Usa, Roma, 1999, pp. 48, 59, 90. [15] V. ad es. la sent. Corte cost., n. 135 del 24 aprile 2003: «La preclusione prevista dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta». [16] Per un’analisi critica del reato di tortura introdotto nel nostro codice penale con l’art. 613-bis c.p., v. tra gli altri S.C. Monachini, Da Genova a Santa Maria Capua Vetere. Nuove ferite alla dignità umana. Riflessioni sulla “violenza di Stato” in Italia a quattro anni dall’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, in Ind. pen., n. 2/2022, pp. 427-454. [17] Il termine “giudiziario” è inteso in senso a-tecnico, ricomprendendo anche le fasi propriamente investigative e della esecuzione della pena. [18] ‘Cosa fare nel caso sia stata piazzata una bomba ad orologeria in un luogo sconosciuto che potrebbe essere rivelato in tempo da un terrorista prigioniero? È lecito eventualmente anche torturarlo pur di ottenere informazioni salvifiche?’. Tale argomento retorico è stato demistificato con grande efficacia da D. De Cesare, op. cit., pp. 75-81. [19] Per una oramai classica e imprescindibile introduzione alla materia, v. S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 2011, 2ª ed. riv. ed ampliata, passim. [20] Un nitido esempio di ciò che sosteniamo è l’editoriale pubblicato su uno dei principali quotidiani italiani da un noto intellettuale conservatore solitamente pacato. Si era all’indomani della strage di Via D’Amelio: «Ci interessa soltanto sapere se il governo intende vincere questa guerra e di quali mezzi voglia servirsi. “Guerra” non è un’iperbole. […] Non siamo alle prese con manifestazioni di criminalità organizzata, ma con una forza di occupazione che si è impadronita di una larga parte del territorio sociale siciliano e meridionale e che comprende probabilmente decine di migliaia di “occupanti” […]. Se questi sono i termini del problema è assurdo immaginare che il governo possa risolverlo stringendo qua e là le viti e i bulloni di un sistema che è comunque inadatto a fronteggiare fenomeni di minore ampiezza e gravità. Se è “guerra” i mezzi con cui vincerla sono quelli dello stato d’emergenza. […] Crediamo che lo Stato abbia anzitutto il diritto di difendere se stesso e i propri cittadini, anche se ciò può significare, per un certo periodo e per una parte del territorio nazionale, la sospensione delle garanzie costituzionali» (S. Romano, La mafia dichiara guerra allo Stato. Dopo Falcone, uccisi Borsellino e cinque agenti. Leggi d’emergenza, in La Stampa del 20.7.1992). [21] E. J. Prats, Los peligros del populismo penal, Santo Domingo, 2011, p. 72. La letteratura nazionale e internazionale sul tema è sterminata. Ci si limita a rinviare ad uno dei lavori più recenti: C. Landolfi, Declinazioni del populismo e ricadute sul diritto penale. Un caso emblematico: le riforme della legittima difesa, Pisa, 2023, passim. [22] Sulla stagione della brutalità massima del predetto regime carcerario, v. le testimonianze raccolte in R.E. Indelicato, L’inferno di Pianosa. L’esperienza del 41 bis nel 1992, Roma, 2015; P. De Feo, Le Cayenne italiane. Pianosa e Asinara: il regime di tortura del 41 bis, Roma, 2016, ma anche N. Dinoi, Dentro una vita: i 18 anni in regime di 41 bis di Vincenzo Stranieri, Roma, 2010 (ove alle pp. 173-186 è riprodotto il decreto ministeriale con il quale venne applicato per la prima volta il nuovo regime appena introdotto). V. anche la relazione stilata dal Magistrato di sorveglianza di Livorno il 5.9.1992 ai sensi dell’art. 69, co. 1 ord. penit. (reperibile al seguente link, nella sezione “Documenti allegati”: https://tinyurl.com/9b5xvsb7). Su quella particolare stagione, anche in un testo di impianto accademico, è stato osservato: «L’Amministrazione penitenziaria, […] ha inizialmente chiuso un occhio su quanto stava accadendo negli istituti penitenziari interessati al 41 bis: vi sono, infatti, plurime e concordanti circostanze che portano fondatamente a sospettare che, nella prima fase di applicazione del regime detentivo speciale (parliamo in particolare del periodo di tempo che va dal luglio all’ottobre del 1992), i due penitenziari ‘insulari’ di Pianosa e dell’Asinara siano stati il teatro di gravi episodi di maltrattamenti e soprusi» (A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41 bis O.P., Milano, 2016, p. 110). [23] Per un’introduzione al tema dell’ergastolo ostativo e ad una sua critica radicale v. A. Pugiotto, Criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, in C. Musumeci, A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, 2016, pp. 63-180. [24] In questa sede è semplicemente impossibile anche solo accennare alla complessità della portata delle citate sentenze e a tutte le ricadute per il nostro Paese. Tra le numerose pubblicazioni sul tema, v. E. Dolcini, F. Fiorentin, D. Galliani, R. Magi, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, Torino, 2020. [25] In dottrina, tra i primi commenti a caldo della novella, si è parlato di “percorso che scarica sul detenuto la prova”. V.  A. Cisterna, Ergastolo ostativo: la presunzione assoluta di pericolosità sostituita da un percorso che scarica sul detenuto la prova, in Quotidiano Giuridico, 15.11.2022. Per una disamina più approfondita della riforma dell’art. 4-bis, in un’ottica critica, v. S. Metrangolo, ‘E quindi uscimmo a riveder le stelle’: l’ergastolo ostativo e il diritto (negato?) alla speranza di uscire dal carcere dopo il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 e la relativa legge di conversione, in Arch. pen., fasc. 1, gennaio-aprile 2023, pp. 81-96. L’A. conclude: «La via della collaborazione sembra dunque, tuttora, la via maestra da percorrere per il condannato che ambisca a uscire dal carcere e a dismettere le scomode vesti del “ribelle sociale”» (p. 95). [26] Basti pensare alle vicende della legge c.d. spazzacorrotti, introdotta come panacea di tutti i mali della società italiana, con la quale nel catalogo di cui all’art.4-bis ord.penit. erano finiti molti reati contro la pubblica amministrazione, poi esclusi dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199. [27] È stato argutamente osservato come l’art. 4-bis ord.penit. abbia «perso la connotazione, che aveva in origine, di strumento specificamente finalizzato al contrasto alla criminalità organizzata, per trasformarsi in uno strumento politico funzionale a placare l’allarme sociale attraverso la creazione di percorsi penitenziari intramurari, e perciò percepiti come ‘sicuri’, da applicare a ‘tipi di autore’, considerati di volta in volta come i più pericolosi per la società» (A. Della Bella, op. cit., p. 93). [28] Ivi, p. 96. [29] Per un commento alla sentenza Viola c. Italia, già richiamata, v. F. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana, in E. Dolcini et alii, op. cit., pp. 67-86. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo già da tempo ha definito trattamenti inumani o degradanti tutte quelle condotte che producono lesioni particolarmente gravi della dignità umana perché capaci di instillare nell’individuo sentimenti di paura, di angoscia e di inferiorità, atti ad umiliarlo ed eventualmente a fiaccarne la resistenza fisica e morale (v. Corte EDU, sent. 18. 1.1978, Irlanda c. Regno Unito, Serie A/25, § 167). [30] Tesi sostenuta anche da autorevole dottrina, che parla di “ricatto psicologico” poiché «la scelta tra collaborare e non collaborare avviene sotto la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e possibilità di tornare liberi» (G. Fiandaca, Sì: l’Europa fa bene a ricordare che ogni delinquente è potenzialmente capace di miglioramento grazie a interventi di tipo rieducativo, in Il Foglio, 10.10.2019, ora in Id., Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Bologna, 2022, pp. 183-184). [31] V., a titolo di es., S. Ardita, Intervento, in Opinioni a confronto. Il ‘carcere duro’ tra efficacia e legittimità, in Criminalia, 2007, pp. 249-262. [32] Convinzione ribadita, da ultimo, in S. Ardita, Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere, Milano, 2022, p. 89, ove si legge: «È quasi impossibile che un capomafia che non ha collaborato possa cambiare vita». [33] M. Pavarini, Intervento, in Opinioni a confronto, cit., p. 265. [34] L. Cesaris, Art. 41-bis. Situazioni di emergenza, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, Milano, 6ª ed., 2019, p. 541. Cfr. anche T. Padovani, La pena carceraria, Pisa, 2014, ove si legge: «Si tratta di una variante della tortura, una variante soave. Io ti prospetto, anziché un dolore, un premio, e naturalmente col premio sollecito atteggiamenti, reazioni, collaborazioni della cui validità e fondatezza in realtà non ho sempre la possibilità di rendermi conto, e che somigliano da vicino ai risultati che si ottenevano con la tortura. Quindi la soave inquisizione. […] il sistema del 41-bis è costruito in modo tale che se non ti penti, cioè se non collabori, non potrai mai demolire la capacità di collegamento con l’organizzazione criminale» (pp. 332-333). Pur valorizzando tale aspetto rilevante della ‘inquisizione soave’, non va sottovalutato, tuttavia, il portato di sofferenze fisiche e psichiche che il regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. scarica sul detenuto. Non c’è, dunque, soltanto il ‘premio promesso’, ma anche il surplus di concreta sofferenza inflitta col ‘regime differenziato’. [35] L. Tescaroli, Pentiti. Storia, importanza e insidie del fenomeno dei collaboratori di giustizia, Soveria Mannelli, 2023, pp. 11, 95. L’Autore, in altri luoghi della pubblicazione, si lamenta della più recente giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale per il loro lavoro di «progressiva erosione della legislazione antimafia» (p. 96). [36] Entrambi citati in S. D’Elia, M. Turco, Tortura democratica. Inchiesta su “la comunità del 41 bis reale”, Venezia, 2002, p. 28. Il Dott. Maritati, all’epoca relatore presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, in vista della riforma dell’art. 41-bis ord.penit., l’8 luglio 2002 ribadiva tale posizione: «La definitività dell’istituto avrebbe… effetto positivo di incentivazione di possibili collaborazioni con la giustizia proprio da parte di chi a quel regime sarebbe destinato, permanendo i suoi collegamenti con la criminalità», sottolineando anche la funzione intimidatoria dello stesso, snaturandone del tutto natura e fine, che dovrebbe essere la tutela della sicurezza esterna al carcere (v. la relazione di A. Maritati trascritta nel Resoconto stenografico della 20ª seduta lunedì 8 luglio 2002 della citata Commissione, p. 17). [37] Dichiarazione riportata in Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), Rapport au Gouvernement de l’Italie relatif à la visite effectuée par le Comité européen pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou dégradants (CPT) en Italie du 22 octobre au 6 novembre 1995, al § 93, pag. 37 (reperibile in www.cpt.coe.it). [38] V. S. Ardita, Ricatto allo stato, Milano, 2011, p. 145. [39] Intervista pubblicata in S. Curatolo, Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza, Soveria Mannelli, 2022, p. 53. Lo stesso autore, ergastolano ostativo, nel suo bel libro “autoetnografico”, racconta di come sia stato sollecitato a collaborare con la giustizia da appartenenti alle forze dell’ordine durante alcuni colloqui predisposti da questi ultimi (v. p. 65). [40] R. Indelicato, Cinque anni, un mese e venti giorni, in P. De Feo (a cura di), Le Cayenne italiane, op. cit., pp. 53-54. [41] B. Labita, La maglietta strappata, in P. De Feo, op. cit., p. 60. [42] V. l’intervista rilasciata a Dina Lauricella, in R. Di Gregorio, D. Lauricella, Dalla parte sbagliata. La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di Via D’Amelio, Roma, 2014, pp. 33-54. [43] S. D’Elia, Prefazione a N. Dinoi, Dentro una vita…, op. cit., p. 13. [44] Cfr. S. D’Elia, M. Turco, op. cit., pp. 95-289. [45] A. Cospito, Dichiarazione di Alfredo Cospito all’udienza di riesame per le misure cautelari dell’operazione ‘Sibilla’, in Archivio Primo Moroni, Calusca City Light, Csoa Cox 18 (a cura di), Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro l’ergastolo e il 41 bis, Milano, 2023, p. 23. [46] Esse sono dettate dall’art. 41-bis, co. 2-quater ord.penit. Di recente la Corte costituzionale si è espressa sulla disciplina prevista dal co. 2-quater, lett. b), relativa ai colloqui, che prevede di attrezzare i locali destinati ai colloqui visivi in modo da impedire il passaggio di oggetti. Il DAP a tal fine predispone sale divise da vetri a tutta altezza; tuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 105/2023, ha escluso che tale modalità vada interpretata come l’unica soluzione percorribile, negando anche ogni automatismo nell’esclusione dei minori ultradodicenni a sostenere colloqui con contatto fisico diretto col genitore/nonno/a detenuti. [47] In dottrina tale disposizione è stata giustamente definita una norma in bianco, data la sua genericità, ulteriormente ampliata dall’utilizzo dell’avverbio “principalmente”, che apre la possibilità di intervento restrittivo anche per altre motivazioni, non strettamente legate alle esigenze di impedire i contatti con l’esterno. Cfr. L. Cesaris, op. cit., p. 548. [48] V. l’audizione del Dott. Giovanni Tinebra, pubblico ministero, all’epoca dei fatti Direttore Generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, riprodotta nel resoconto stenografico della seduta della Commissione antimafia dell’8.7.2022, cit., p. 46. Va notato che, coerentemente con quanto lamentato sull’anomalia di Secondigliano (Napoli), nel corso degli anni la relativa Casa di reclusione è stata sottratta al circuito dell’art. 41-bis, tanto che oggi il carcere più a Sud è quello di Roma-Rebibbia. Si noti, per giunta, che il disegno originario del legislatore è ancora più preciso, prevedendo l’art. 41-bis, comma 2-quater ord.penit. una preferenza esplicita per i penitenziari ubicati nelle ‘aree insulari’, che rendono ancora più difficoltosi e costosi i viaggi dei familiari. Si pensi alla Sardegna. [49] Si adduce solitamente anche la necessità di tutela del personale di sicurezza che altrimenti potrebbe subire pressioni locali. Motivazione quantomeno bislacca, considerato che nelle sezioni speciali destinate all’art. 41-bis ord.penit. la custodia è garantita da un reparto specializzato del Corpo della Polizia Penitenziaria quale è il GOM e dai suoi reparti locali (ROM) (art. 41-bis, comma 2-quater ord.penit.). [50] L’importanza dell’affettività per i detenuti, soprattutto per quelli di lungo corso e per gli ergastolani, a maggior ragione se ristretti in regime differenziato, è raccontata da alcuni di essi in F. De Carolis (a c. di), Urla a bassa voce, Viterbo, 2012, pp. 67-74. [51] Si tratta di una costante nei racconti dei detenuti sottoposti alla disciplina di cui all’art. 41-bis ord.penit. sentiti durante l’inchiesta condotta da S. D’Elia, M. Turco, op. cit., pp. 95-289 nonché nelle lettere pubblicate in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 49-92. Ciò è tanto più vero tenuto conto che la maggior parte dei detenuti nel predetto regime differenziato proviene dalla Campania, dalla Sicilia e dalla Calabria, per cui i familiari devono sostenere viaggi di migliaia di chilometri tra andata e ritorno, con i relativi costi, per poter svolgere un colloquio di un’ora. [52] Quella dell’allontanamento abissale dei “nemici” dai luoghi di provenienza è una pratica politica di “guerra”, finalizzata a spezzare legami familiari e di solidarietà. Si pensi ad es. alle esperienze dei prigionieri politici baschi, smistati a centinaia/migliaia di chilometri dai luoghi di origine, quando non “deportati” in altri Paesi, per cui i familiari sono costretti a sopportare viaggi lunghi, costosi e necessariamente rari per incontrarli. V. sul punto la testimonianza diretta di A. Etxegarai, Ritornare a Sara. Testimonianza di un deportato basco, Roma, 2002. [53] La Corte costituzionale, nel corso degli anni, dopo un iniziale periodo di maggiore timidezza, è intervenuta più volte a censurare quantomeno le restrizioni più stridenti col dettato costituzionale, pretendendo una relazione funzionale di stretta necessità tra le esigenze di sicurezza e le limitazioni imposte. V., ad es., le sentenze della Corte cost. n. 351/1996 e n. 97/2000. [54] Debordando anche dalle soglie di “dolore e sofferenze” connaturate fisiologicamente alle sanzioni legittime come indicate dall’art. 1, ultimo periodo della citata Convenzione contro la tortura. [55] N. Amato, I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro, Milano, 2012, p. 170. [56] Ivi, p. 172. In maniera ancora più precisa, proseguendo nel ragionamento, l’Autore paventa la riconducibilità alla tortura di simili condizioni di detenzione qualora venissero imposte per provocare la collaborazione con la giustizia. Un vero e proprio obiettivo “inconfessabile” (ivi, pp. 172-173). [57] Ivi, pp. 194-195. [58] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario, Roma, 20.3.2023, p. 30. [59] Il tutto in violazione dell’art. 6, co. 1 ord. penit., stando alla quale «I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; areati, riscaldati per il tempo in cui le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale». [60] La spersonalizzazione ulteriore, in alcuni casi, si persegue con il cambio improvviso e frequente delle celle. Questa pratica è testimoniata da Salvatore Curatolo: «Ogni due o tre giorni ti facevano cambiare stanza senza un reale motivo, ma solo per non lasciarti tranquillo. […] molte volte succedeva che, mentre eri ai passeggi, prendessero le tue cose e le portassero in un’altra cella» (S. Curatolo, op. cit., pp. 78-79). [61] Garante Nazionale, op. cit., p. 30. [62] Ivi, p. 33. [63] Ib. Condizioni per nulla mutate nel corso dei decenni di applicazione del regime di 41-bis ord penit., se è vero che già più di venti anni fa numerosi detenuti testimoniavano su tale particolare tema con simili espressioni di denuncia: «In questi 10 anni di 41 bis è venuta meno la vista», «Stiamo diventando ciechi per via delle barriere di plastica alle finestre» (v. S. D’Elia, M. Turco, op. cit., p. 172). Altre testimonianze dello stesso tenore si trovano nelle lettere dei detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. raccolte in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 49-92. [64] Garante Nazionale, op. cit, p. 33. [65] È stato osservato come vi sia una vera e propria costruzione scientifica dei gruppi di socialità di cui all’art. 41-bis ord.penit., finalizzata alla riduzione al minimo degli scambi interpersonali: solitamente un detenuto è molto anziano e un altro ammalato, per cui non abbandonano mai la cella; dunque la condivisione dell’aria e della socialità si riduce ad una relazione a due persone (v. S. Curatolo, op. cit., p. 82). La possibilità di comporre i gruppi in questo modo è agevolata dal fatto che oramai, tenuto conto della presenza di numerosi detenuti in regime di art. 41-bis ord.penit. da molti anni, è più facile trovare quelli particolarmente anziani e/o ammalati. In merito a tale pratica, le parole di un detenuto suonano come un epitaffio: «Magari capiti in gruppo con persone anziane, magari stanche e ammalate, allora diventa un ospizio, un’attesa per il viaggio finale» (cit. in E. Kalica, La pena di morte viva. Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico, Milano, 2019, p. 80). [66] E. Kalica, op. cit., pp. 97-98. [67] Ivi, pp. 85-86. [68] Spesso, peraltro, il silenzio è imposto anche nei rapporti tra detenuti e agenti del GOM, i quali assumono soli compiti di controllo e repressione e la cui “cultura dell’interlocuzione”, d’altronde, ebbe modo di manifestarsi in tutta la sua brutalità nella caserma di Bolzaneto, a Genova, durante il G8 del 2001. Tale prassi del silenzio veniva censurata già più di venti anni fa in un rapporto del CPT del 2000 (cit. in A. Della Bella, op. cit., p. 358, nota 99). [69] E. Kalica, op. cit., p. 119. [70] A. Caruso, Annientato dal carcere e dal 41 bis, sono salvo grazie allo studio, in Nessuno Tocchi Caino, Pena di morte e morte per pena, Roma, 2023, p. 196. [71] D. De Cesare, op. cit., p. 21. [72] M. La Torre, in M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, op. cit., pp. 126. [73] La circolare del DAP del 2017, già richiamata, prevede in teoria il ricorso alla perquisizione col metal detector; solo in caso di «comprovate ragioni di sicurezza», da dover annotare in una relazione di servizio, si dovrebbe procedere a quella manuale (art. 16). Dette prescrizioni sono ribadite anche nell’art. 25.1. [74] V. le testimonianze di detenuti riportate in E. Kalica, op. cit., pp. 72, 82. [75] L’annotazione di tale pratica è riportata ivi, pp. 68-69. [76] Nel lavoro etnografico condotto da Elton Kalica, in merito si osserva: «… la corrispondenza [è] una fonte di frustrazione… la pratica della censura ha un effetto demotivante e demoralizzante sui detenuti al punto da costringerli inizialmente a snaturare il linguaggio nei rapporti affettivi» (ivi, p. 69). [77] La seguente testimonianza di un detenuto è particolarmente eloquente: «Alla mattina ti facevi il caffè perché veniva il lavorante e ti portava le tue cose. Alle sette di sera se ne andavano, il fornello, la caffettiera… Perciò tu dopo le otto di sera se ti faceva male la testa e ti volevi fare una camomilla, non te la potevi fare… cosa c’entra questo con la pericolosità? Erano tutte secondo me cose per fiaccarti e per andare al pentimento, io lo dico non è che mi nascondo» (cit. in E. Kalica, op. cit., p. 76). D’altronde, prima ancora che la Corte costituzionale intervenisse per dichiarare l’illegittimità del divieto di cucinare cibi in cella (sent. n. 186/2018), in caso di uso “improprio” del pentolino (far bollire, ad es., la cipolla invece dell’acqua) veniva applicata una sanzione disciplinare (v. E. Kalica, op. cit., p. 77). Sul punto si legga anche la testimonianza diretta di un detenuto a Rebibbia: «… per aver riscaldato le melenzane che mi avevano dato la sera precedente e aggiungendo solo due spicchi d’aglio, sono stato rapportato con sanzione disciplinare e isolato per 5 giorni» (in Camera Penale di Roma, op. cit., p. 87). Ancora di recente, la S.C. ha ribadito che i limiti di orario imposti per cucinare in cella costituiscono un legittimo esercizio della potestà riconosciuta all’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 36, lett. b) d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 (v. Cass., Sez. I, sent. 24 gennaio 2024, n. 7886. Le fasce orarie per poter cucinare in cella, nel caso di specie, erano le seguenti: 11:30-13:00 e 16:30-18:30). Anche per poter scambiare oggetti tra membri dello stesso gruppo di socialità (ad es., zucchero, caffè, prodotti per l’igiene personale o per la pulizia della cella) si è dovuta attendere un’altra sentenza della Corte costituzionale (n. 97/2000). Ad ogni modo, lo scambio dei cibi cotti, oggi possibile, è sottoposto ad una snervante procedura burocratica di preventiva comunicazione all’Amministrazione e successiva attestazione di ricezione, con l’evidente scopo di disincentivarlo. La perversione burocratica del controllo maniacale anche dei gesti più inoffensivi si riscontra in alcune limitazioni spiegabili esclusivamente in un’ottica di pura afflittività: un detenuto sottoposto all’art. 41-bis ord.penit., ad es., raccontava di come l’amministrazione dell’istituto di pena consentisse di acquistare i baci Perugina solo per regalarli ai familiari in occasione dei colloqui e non per consumo personale (v. la testimonianza di Paolo Amico in S. D’Elia, M. Turco, op. cit., p. 103). Di recente, invece, è addirittura intervenuta la Corte di Cassazione a vietare il possesso di una borsa frigo rigida in cella (richiesta in sostituzione di una borsa frigo morbida per una migliore conservazione del cibo) (v. D. Aliprandi, Cassazione: al 41 bis vietata la borsa frigo per conservare il cibo, in Il Dubbio, 30.8.2023). In altra occasione, il giudice di legittimità ha dichiarato legittimo il diniego di utilizzo del frigorifero della sezione di assegnazione per la conservazione di cibi freschi e congelati, in luogo delle borse termiche con tavolette refrigeranti, ammesse all’interno della cella, trattandosi di disposizione organizzativa che non lede il diritto alla sana alimentazione del detenuto (Cass., Sez. I, sent. 9 febbraio 2023, n. 5691). [78] A ciò si aggiunga che spesso il “sindacato” sul libro da poter acquistare o meno è particolarmente invasivo (oltre che privo di ragione alcuna, se non quella puramente afflittiva). Tra i numerosi provvedimenti adottati dal DAP e avallati dalla magistratura di sorveglianza, ad es., vi è il divieto relativo ad alcuni libri di diritto (a firma della prof.ssa Marta Cartabia, già Presidente della Corte costituzionale, e del prof. Adolfo Ceretti), per evitare di porre il detenuto in posizione di privilegio (grazie ai suoi studi!) agli occhi degli altri detenuti e, dunque, aumentarne il carisma criminale (l’accrescimento culturale, da elemento del trattamento degrada a fattore di pericolosità; a dimostrazione di come l’obiettivo sia la regressione delle persone sottoposte a tale regime). In altri casi, invece, sono state vietate le riviste pornografiche, considerate non un diritto dal DAP. Entrambi gli episodi sono riportati da M. Brucale, Non puoi sfogarti né desiderare, anche pensare è proibito al 41 bis, in Nessuno Tocchi Caino, op. cit., pp. 173-174. [79] Ad Alfredo Cospito è stata vietata persino la detenzione di alcune fotografie che ritraggono i genitori, tanto da essere stato costretto ad attivare i rimedi giurisdizionali. V. F. Cimini, Tolte di nuovo a Cospito le foto del padre e della madre, in Il Dubbio, 13.7.2023. In un altro caso, la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il divieto di far realizzare non più di una fotografia all’anno con i propri congiunti, non incidendo tale limitazione sul diritto soggettivo all’affettività, ma solo sulle modalità del suo esercizio affidate alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria (v. Cass., Sez. I, sent. 10 gennaio 2023, n. 443: nel caso di specie si trattava della richiesta di un detenuto di scattare almeno quattro fotografie all’anno con la figlia minorenne). [80] La Corte di Cassazione, inoltre, in più occasioni ha dichiarato la legittimità del diniego di autorizzazione all’acquisto e alla detenzione di compact disk e dei relativi lettori digitali, qualora la messa in sicurezza dei dispositivi e supporti non sia possibile per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto in termini di impiego di risorse e materiali (v. per tutte: Cass., Sez. I, sent. 23 maggio 2023, n. 35687). I parametri utilizzati dalla S.C. sono talmente ampi e vaghi da riconoscere, in pratica, in capo all’Amministrazione penitenziaria, un potere decisionale insindacabile. [81] Cit. in A. Della Bella, op. cit., p. 357, nota 97. [82] La sospensione in tutto o in parte dell’applicazione delle regole trattamentali (ex art. 41-bis, co. 2 ord.penit.) entra in stridente contraddizione con il presupposto per la concessione della liberazione anticipata (l’aver «dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione» ex art. 54 ord.penit.). A rigor di logica, dunque, ai detenuti sottoposti al regime differenziato non potrebbe essere riconosciuta alcuna liberazione anticipata, poiché impossibilitati a svolgere qualsiasi percorso rieducativo (che ai sensi dell’art. 1, co. 2 ord.penit. è – dovrebbe essere – individualizzato). Contraddizione colta limpidamente dal Procuratore nazionale antimafia, il quale, audito alla Camera dei deputati sulla proposta di legge della liberazione anticipata speciale, ha evidenziato la sua insensatezza per i detenuti sottoposti al regime differenziato, tenuto conto che per loro non è previsto alcun trattamento penale (v. M. Brucale, Lo ammette anche Melillo: per i detenuti al 41 bis la rieducazione non si fa, in Domani del 19.4.2024). [83] E. Cataldo, Il regime del 41 bis O.P. e la rieducazione penitenziaria, Roma, 2023. p. 34, al quale si rimanda per approfondire il tema della rieducazione negata in regime di art. 41-bis ord.penit. L’A. osserva: «Un contesto rigido e disciplinato come il regime previsto al 41 bis o.p. non innesca e non instilla alcuna intenzionalità nell’avvio di un iter pedagogico, ma rafforza l’accettazione di una condizione statica e preordinata, con i conseguenti effetti di immobilismo anche sul piano cognitivo, affettivo e relazionale, oltre che nella struttura del pensiero» (p. 68). Ancora: «In assenza di percorsi rieducativi il condannato resta confinato in un passato senza tempo, nella negazione del presente e del futuro e attraverserà un’esistenza congelata al soliloquio e priva di impulsi» (p. 49).  Il carcere, dunque, in questo caso assume la sola finalità contenitiva, di pura neutralizzazione, in violazione dell’art. 27, co. 3 Cost. [84] Sono numerosi, infatti, i detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. da più di venti anni. Sull’effetto “imbutiforme” di detto regime speciale v. A. Della Bella, op. cit., pp. 196-201 e i due Rapporti tematici del Garante Nazionale dei detenuti del 2019 e 2023. [85] Il provvedimento applicativo originario del regime speciale ha durata di quattro anni e i rinnovi hanno durata biennale (v. art. 41-bis, co. 2-bis ord.penit.). [86] Per un’introduzione alla materia, v. S. Shalev, A sourcebook on solitary confinement, Londra, 2008. Le numerose limitazioni imposte al detenuto in regime di isolamento producono effetti sulla psiche e sulla personalità. Conseguenze illustrate in innumerevoli studi oramai da lungo tempo. Già sul finire degli anni ’70 veniva osservato: «In isolamento, al prigioniero viene a mancare la possibilità di attualizzare una delle caratteristiche precipue dell’uomo: quella di essere trasformatore dell’ambiente mediante l’azione e guidato da un progetto. Il rapporto tra l’individuo e l’ambiente è contemporaneamente e in modo intrecciato il rapporto tra il fisico dell’uomo e la materialità dell’ambiente e tra lo psichico dell’uomo e le qualità vitali dell’ambiente. In una stanza piccola bianca disadorna neonilluminata isolata, la neurofisiologia della percezione è come sofferente, si atrofizza; ma la vera sofferenza, l’umana sofferenza, sta nell’impossibilità di intenzionare la percezione intesa come l’atto attraverso il quale la coscienza si colloca in presenza di un soggetto spazio-temporale. Mancano gli oggetti per fare progetti. Il vissuto percettivo è lacerato, frammentato. Il fatto che i sensi non siano in una certa qual maniera nutriti dal flusso di stimoli esterni ed interni, li rende inutili, li fa morire. Perciò la vittima disorientata, isolata e privata delle sensazioni si avvia verso una morte subdola che non sarà “sentita”» (v. S. Mistura, op. cit., p. 36). [87] Alcune perizie disposte durante i processi ai militanti della RAF, ad es., provarono come un «prolungato isolamento sociale porta gravi danni fisici alle persone […]: difficoltà di concentrazione, disturbi nella coordinazione dei movimenti e nell’orientamento, amnesie, restrizione della capacità sensitiva, difficoltà di articolazione, scarsa capacità di prestazione e rapido esaurimento, crescente stanchezza, senso di spossatezza, svenimenti, emicranie, rilassatezza, fame. […] considerevole perdita di peso, diminuzione della massa muscolare, particolarità nello svolgersi dei movimenti, costante abbassamento dei valori della pressione sanguigna, talvolta molto bassi, accompagnata da una crescente frequenza delle pulsazioni in particolare modo nello stare in piedi e dopo uno sforzo, ed anche significative anomalie nell’elettrocardiogramma sempre nelle stesse condizioni. […] in tutti i detenuti sono stati riscontrati gravi disturbi nel funzionamento dei centri nervosi centrali che, tramite il sistema neurovegetativo, guidano i singoli organi che influiscono sulla capacità di sostenere il dibattimento». Ancora, su un altro detenuto vennero riscontrati «disturbi della memoria, in particolare della memoria temporale, torpore, disturbi nella comprensione delle parole e delle proposizioni, nebbia davanti agli occhi, continuo ronzio alle orecchie, amenorrea» (v. la scheda dei Risultati delle perizie medico-legali eseguite a Stoccarda e ad Amburgo, in Crit. dir., n. 7-8/1976, pp. 138-139). Sulla ‘deprivazione sensoriale’ come forma di tortura e sulle sue conseguenze psicofisiche sui corpi dei detenuti, v. anche S. Teuns, La tortura della ‘privazione sensoriale’, in Crit. dir., cit., pp. 134-137. Un confronto più approfondito, impossibile in questa sede, consentirebbe di evidenziare l’estrema similitudine se non quasi la totale sovrapponibilità delle discipline osservate nelle carceri speciali della RFT contro i “nemici interni” con il regime dell’art. 41-bis ord. penit. nostrano. V., ad es., anche Aa.Vv., La morte di Ulrike Meinhof. Rapporto della Commissione internazionale d’inchiesta, Napoli, 1979, pp. 15-21 sulle condizioni di detenzione. Gli es. potrebbero moltiplicarsi, basti pensare alle esperienze dei prigionieri politici irlandesi nelle carceri inglesi in quegli stessi anni, ove si consumarono le prime sperimentazioni delle tecniche di ‘tortura senza contatto’ contro i detenuti (v. A. Puggioni (a cura di), Tortura in Irlanda, Roma, 1972). [88] Un decano di questi studi, il Prof. Stefano Ferracuti, ha osservato come i regimi speciali simili a quello previsto all’art. 41-bis ord.penit. producano «forme marcate di somatizzazioni […] indicative di profonda insicurezza personale […] il che rende la persona più suscettibile allo sviluppo di disturbi psichici», comportando, detti regimi, «una seria possibilità di sviluppo di sintomi psichiatrici, anche gravi, ed un generale indebolimento della personalità», collegato anche alla perdita pressoché totale dell’autonomia; v. S. Ferracuti, Conseguenze psicologiche e psichiatriche dei regimi detentivi di massima sicurezza, in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 41-42. [89] Quello italiano è un caso a parte. Il sovraffollamento strutturale e le pessime condizioni di detenzione stanno provocando una vera e propria ecatombe negli istituti penitenziari, che vedono crescere il numero di suicidi a ritmi impressionanti e anche tra le fasce di età più basse. Al 21.8.24 dall’inizio dell’anno si sono già consumati 67 suicidi in carcere. [90] Per un approfondimento di questi temi e per la relativa letteratura scientifica, v. S. Shalev, op. cit., pp. 15-23. Sarebbe a tal proposito interessante avere dati puntuali e aggiornati sulla diffusione degli psicofarmaci nelle sezioni destinate ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. e tra gli ergastolani ostativi. Se la loro diffusione è oramai amplissima persino tra i detenuti ‘comuni’, tanto da far parlare di vera e propria ‘sedazione di Stato’, non è peregrino immaginare tassi elevatissimi di consumo tra i detenuti sottoposti ai regimi speciali. Sul tema degli psicofarmaci nei penitenziari italiani, v. A. Giunti, In carcere psicofarmaci a pioggia: per riprendermi ci ho messo 3 anni, in L’Espresso, 1.1.2016; Id., Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani, in L’Espresso, 1.2.2016; A. Scandurra, L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia, in Antigone, Dalla parte di Antigone. Primo rapporto sulle donne detenute in Italia, Roma, 2023, il quale osserva: «Fanno regolarmente uso di psicofarmaci addirittura il 63,8% delle donne presenti, contro il “solo” 41,6% degli uomini» (p. 216). Denunce del medesimo tenore provengono dai detenuti. Tra le numerose testimonianze in tal senso, v. S. Curatolo, op. cit., il quale osserva: «Psicologi e psichiatri in carcere risolvono troppo rapidamente i disturbi delle persone con un medicinale» (p. 69); oppure quella di un ergastolano “ostativo”: «Per i mali psichiatrici…: litri di Valium e cocktail di psicofarmaci. Chi sta male non è una persona da curare ma è uno che dà fastidio» (denuncia riportata in F. De Carolis (a c. di), op. cit., p. 103). [91] Non risulta condivisibile la presa di posizione netta del Garante nazionale dei detenuti, il quale – dopo aver qualificato come ‘pene corporali’ numerose limitazioni e condizioni di vita in regime di art.41-bis ord.penit.–, in un’intervista al principale quotidiano italiano, pur sostenendo la necessità di eliminare molti eccessi del regime speciale, conclude nel seguente modo: «Un sistema che interrompa le connessioni nella criminalità organizzata è doveroso e chi parla di tortura non sa ciò che dice» (v. G. Buccini, 41 bis, necessità ed eccessi di una normalità abnorme, in Corriere della Sera dell’11.12.2023). Una presa di posizione che sembra più “ideologica” che analitica. [92] F. Palazzo, Prefazione a E. Dolcini et alii, op. cit., p. x. [93] La prevenzione generale, che attiene tipicamente alla fase della comminatoria della pena, dovrebbe ridursi ai minimi termini nella sua fase esecutiva. In questo caso, invece, essa si riespande per scopi tutti politici, a detrimento della prevenzione speciale e della finalità rieducativa della pena. Sulle funzioni della pena secondo le fasi della sua dinamica, nella manualistica, v. C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino, UTET, 2016, 5^ ed., pp. 63-66. Sulla necessità, invece, di informare tutto il ‘discorso sulla pena’, in ogni sua fase, al principio rieducativo (rectius: di ‘reinserimento sociale’), v. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, soprattutto il cap. 4. Sul piano giurisprudenziale, paradigmatica di una simile impostazione, è la sentenza della Corte costituzionale del 26 giugno 1990, n. 313. [94] La centralità del carcere è stata ribadita di recente dal Ministro della Giustizia, la cui principale opzione di politica penitenziaria consiste nella costruzione di nuove carceri in una prospettiva di medio termine (v. l’intervento tenuto dal Ministro Carlo Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, tenutosi a Roma lo scorso 10.2.2024 – visionabile sul canale YouTube dell’UCPI). Coerentemente con tale impostazione, l’art. 4-bis del d.l. 4 luglio 2024, n. 92, così come modificato dalla l. di conv. 8 agosto 2024, n. 112, prevede la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria (con la finalità precisa di «far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari» – art. 4-bis, comma 1) che, tra gli altri compiti, ha quello di realizzare nuovi istituti penitenziari (art. 4-bis, comma 3, lett. a).
October 31, 2024 / Osservatorio Repressione
Il “decreto Albania” e la sospensione del diritto
La procedura messa in piedi per deportare i migranti potrebbe configurare la violazione del divieto di respingimenti collettivi. Sotto gli occhi di Unhcr e Oim di Fulvio Vassallo Paleologo da il manifesto Possiamo adesso leggere il decreto legge 158/2024 con il quale il governo tenta di fare fronte alle ordinanze dei giudici di Roma che non hanno convalidato il trattenimento di 12 richiedenti asilo provenienti da paesi di origine definiti come «sicuri». Trasferiti poi nei centri di detenzione in Albania, dopo essere stati soccorsi da navi militari italiane nelle acque internazionali a sud di Lampedusa. Una operazione di polizia marittima, sotto gli occhi dell’Unhcr e dell’Oim, a bordo di nave Libra, che potrebbe configurare, al di là del paese di provenienza delle persone sbarcate a Shengijn dopo essere state a bordo di navi della Marina militare, dunque in territorio italiano, la violazione del divieto di respingimenti collettivi affermato, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati (articolo 33), dalla Cedu (che nel “caso Hirsi” ha condannato l’Italia, per la violazione di questo divieto) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articolo 19). E Meloni ha annunciato di voler ripetere i trasferimenti in Albania. QUESTO ENNESIMO decreto legge stabilisce che l’elenco dei Paesi di origine «sicuri», finora contenuto in decreti interministeriali, vada aggiornato periodicamente con una legge e quindi notificato alla Commissione europea. Ma anche con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento i giudici resteranno soggetti alla normativa dell’Unione europea e potranno disapplicare il diritto interno in contrasto con disposizioni cogenti contenute in Regolamenti ed in Decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione. Per quanto riguarda le procedure accelerate in frontiera il governo ha preferito puntare sul ruolo attribuito alle Commissioni territoriali, ed in particolare a quella di Roma, la stessa che appena pochi giorni fa è stata dislocata in Albania per processare in poche ore le richieste di protezione, e adottare provvedimenti di diniego che contengono un’attestazione che impone l’allontanamento dal territorio, prima che possa intervenire la convalida, o più spesso la non convalida, del trattenimento da parte delle Sezioni specializzate del Tribunale competente. Con la possibilità – che si è già verificata in Sicilia – che il questore adotti un provvedimento di respingimento differito prima che la persona possa formalizzare la sua intenzione, già dichiarata, di richiedere asilo. L’ARTICOLO 2 del nuovo decreto prevede ulteriori modifiche al decreto legislativo 25/2008, come modificato da ultimo dal decreto Cutro (legge numero 50/2023). Si prevede che le nuove disposizioni sui ricorsi in appello si applicano «decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge 11 ottobre 2024 numero 145». Si innesca in questo modo una serie di rinvii, perché il termine di inizio dell’efficacia della norma che prevede un nuovo grado di giudizio con il ricorso in appello (che il ministero dell’Interno intende riservarsi per ribaltare le decisioni sgradite dei tribunali) si riporta alla data di conversione di un altro decreto legge, che però si trova ancora in Parlamento. In ogni caso di mancata convalida del trattenimento da parte del Tribunale di Roma il richiedente asilo trattenuto nei centri albanesi dovrà comunque essere condotto in Italia, venendo meno, nella pendenza del ricorso del governo in Cassazione e malgrado il ricorso in appello dell’avvocatura dello Stato, il titolo giuridico di limitazione della libertà personale richiesto dall’articolo 5 della Cedu, oltre che dall’articolo 13 della Costituzione. E intanto gli apparati giudiziari potrebbero implodere sotto una mole crescente di ricorsi. I CENTRI DI DETENZIONE in Albania resteranno ancora vuoti, o funzioneranno a scopo propagandistico, con qualche decina di richiedenti asilo in stato di detenzione, la maggior parte dei quali al termine della procedura accelerata finirà per essere ritrasferita in Italia. Per non incorrere in una procedura di infrazione si dovrà comunque riconoscere il primato del diritto dell’Unione europea, anche in base al richiamo degli articoli 10 e 117 della Costituzione e dunque il potere/dovere di cooperazione istruttoria affidato ai giudici, sul rispetto delle regole sulle procedure accelerate in frontiera, anche in assenza di una allegazione di fatti specifici da parte del richiedente asilo. Ammesso che gli venga riconosciuto l’esercizio effettivo dei diritti di difesa, senza spazi fisici o temporali di sospensione del diritto. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
October 25, 2024 / Osservatorio Repressione
Moussa Diarra, un omicidio razziale Made in Italy
L’omicidio di Moussa Diarra è un omicidio razziale di Mackda Ghebremariam Tesfaù da il manifesto Era stato torturato nei Centri di detenzione libici: “Gli hanno fatto di tutto”, dirà il fratello Djemagan. Anzitutto va detto che l’omicidio di Moussa Diarra è un omicidio razziale, e sebbene il colpo del poliziotto sia stato quello fatale, non è stato né il primo né l’ultimo in quel fuoco incrociato che è il razzismo istituzionale in questo Paese. Il primo colpo che ha ferito Moussa è stato sparato dal Governo Italiano nel 2008, quando Berlusconi e Gheddafi firmarono il loro “trattato di amicizia”. Con gli accordi bilaterali, l’Italia si impegnava a formare la Guardia Costiera Libica e a fornire risorse per la costruzione di centri di detenzione, impedendo ai migranti, come Moussa, di accedere al diritto di asilo, un diritto inalienabile. Nei centri di detenzione libici, Moussa è stato trattenuto e torturato. Suo fratello Djemagan dirà: “Gli hanno fatto di tutto”. Il secondo colpo che ha centrato Moussa è stato sparato dal Ministero dell’Interno con il decreto Salvini del 2018, che ha impedito la conversione della protezione umanitaria in permesso di soggiorno. Nonostante Moussa avesse ottenuto il riconoscimento del suo status di rifugiato, il decreto lo ha incastrato in una morsa legale che gli ha precluso la possibilità di stabilizzare la sua posizione. Dopo anni di attesa, confinato nel CAS Costagrande di Verona, tristemente noto per l’isolamento e le pessime condizioni di vita, Moussa ha visto svanire la sua opportunità di ricominciare. Questo ha ulteriormente peggiorato il suo stato psicologico, gettandolo in una disperazione comune a chi si ritrova con una vita sospesa, resa precaria e “illegale” dall’assenza di un pezzo di carta. Il terzo colpo è arrivato dal Comune di Verona, che, nonostante le continue richieste di Paratod@s, realtà attivista impegnata nel sostenere l’occupazione del Ghibellin Fuggiasco, dove Moussa aveva trovato rifugio, non ha trovato una sistemazione per le cinquanta persone presenti nella struttura. Molte di queste, con documenti e contratti di lavoro, si trovavano nell’impossibilità di trovare un alloggio a causa delle gravi e sistematiche discriminazioni che colpiscono le persone immigrate nel mercato immobiliare privato, e spesso anche nell’edilizia popolare. Persino il sindaco di Verona, Damiano Tommasi, era al corrente della situazione: nei primi mesi del suo mandato aveva visitato il Ghibellin Fuggiasco, promettendo che il Comune avrebbe trovato una soluzione dignitosa per le persone rifugiate. Il quarto colpo sì, l’ha sparato il poliziotto che ha scelto di rispondere al disagio psichico causato dalla marginalizzazione con una violenza omicida. Sebbene la dinamica dei fatti sia ancora poco chiara, possiamo affermare con certezza che, di fronte a una persona in stato confusionale da ore, la risposta adeguata avrebbe dovuto essere quella della cura e dell’intervento dei servizi medici, non certo un proiettile. Durante le due ore in cui si racconta che Moussa abbia vagato per la stazione, perché la polizia non ha allertato il 118? Il corpo nero di Moussa è apparso più minaccioso di quanto fosse realmente, come raccontano le storie di violenza poliziesca negli Stati Uniti? È possibile che il suo dolore fosse meno visibile nascosto sotto la sua pelle nera? Sul cadavere di Moussa, il quinto colpo l’ha poi infierito la stampa, cercando di dipingerlo come un criminale, inquinando le acque con affermazioni come “esclusa matrice terroristica” o descrivendo la zona della stazione come un luogo insicuro, preda di malviventi e malintenzionati. È stato creato il mostro, evocando lo spettro di Kabobo, dei machete e delle violenze barbariche dei colonizzati, senza che venisse mai diffusa alcuna immagine della presunta arma impugnata. E sul cadavere di Moussa ha infierito anche Matteo Salvini, pubblicando dichiarazioni agghiaccianti come: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere”. Queste parole meritano di essere portate all’attenzione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni d’odio. Infine, ciò che è gravissimo ma forse non sorprendente è l’umiliazione della memoria di Moussa, evidenziata da un comunicato stampa “congiunto” della Procura e della Questura, attualmente irrintracciabile ma di cui parlano le principali testate nazionali. Questa intesa sembra consolidare pratiche già osservate a Verona, dove, di fronte all’accusa di torture, inflitte dalla squadra mobile persone di origine non italiana, la Questura è stata messa a indagare su se stessa, in una totale confusione di interessi e funzioni. La morte di Moussa Diarra si colloca in un clima di crescente repressione, in coincidenza con la possibile introduzione del decreto legge 1660, che intensifica la guerra contro la povertà e la marginalizzazione delle persone con background migratorio. Per chiedere giustizia e verità per Moussa, come stanno facendo i numerosi presidi spontanei alla Stazione di Verona Porta Nuova in questi giorni, è fondamentale pretendere un’indagine trasparente sul suo omicidio per mano della polizia. Ma è altrettanto importante riconoscere che, prima del colpo letale, la vita di Moussa è stata costantemente segnata dal razzismo strutturale e istituzionale di questo paese. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
October 24, 2024 / Osservatorio Repressione
Il messaggio del Governo: “Ragazzi state a casa!”
“Ragazzi e ragazze, state a casa! Accontentatevi del presente e del probabile, smettete di sognare e di tentare di costruire l’impossibile, cioè un mondo più giusto”. È il messaggio del disegno di legge sicurezza che vuole trasformare i sogni e la rabbia dei giovani in reati, criminalizzando il dissenso e la resistenza, anche quando pacifica e non violenta. È una ragione di più per opporsi. di Elena de Filippo e Andrea Morniroli da Volere la Luna Del pessimo e pericoloso disegno di legge sicurezza presentato dal Governo molti hanno già scritto, invitando alla mobilitazione perché venga ritirato. Da un lato perché in molte sue parti è palesemente anticostituzionale, d’altro lato perché sancisce nei fatti una svolta autoritaria nella gestione del dissenso e della protesta. Un disegno di legge che non a caso viene proposto oggi in un momento in cui la prepotente ripresa della scelta economica neo-liberista alimenta in modo inevitabile un allargamento e un addensamento delle povertà e disuguaglianze con un conseguente forte aumento di rabbia e conflitto sociale che per essere contenuti, come per altro sta già avvenendo, hanno bisogno di una svolta autoritaria della nostra democrazia. Qui, però, proviamo a guardare a tale decreto in un’altra prospettiva. Abbiamo due figli che insieme a tante e tanti altri loro compagni e compagne provano a cambiare il mondo. A volte con qualche rigidità ma anche con contenuti giusti e competenza e investendo in formazione, con un impegno e un entusiasmo che ci colpiscono e che ci restituiscono un’idea di “giovane” ben diversa da quella offerta troppo spesso nel dibattito pubblico. Lo fanno occupando e gestendo spazi abbandonati che, invece di finire nelle braccia del mercato edilizio speculativo, si rigenerano e vengono restituiti a una funzione pubblica attraverso la proposta di interventi che rispondono a bisogni concreti (mense, consultori e ambulatori popolari, sportelli informativi e di orientamento alla cittadinanza e ai propri diritti), promuovono cultura e forme d’arte, offrono spazi di socialità che provano a rompere le troppe solitudini che vivono migliaia di ragazze e ragazzi, proponendo relazioni e divertimento, insieme al tentativo di costruire un noi collettivo. Lo fanno manifestando a fianco di chi viene scartato e non riconosciuto, prima ancora che nei diritti nel suo stesso essere persona, come nel caso dei migranti, o dei “matti” o di chi è considerato “diverso” – e per questo da rinchiudere, allontanare, escludere – in una sorta di dittatura della normalità che non accetta ed è rancorosa nei confronti di ogni alterità. Lo fanno stando a fianco dei popoli oppressi, come quello palestinese, stralciando le ipocrisie, gli interessi e i sensi di colpa che spesso impediscono a noi di fare altrettanto e con la stessa chiarezza (finendo, con la nostra impotenza e indifferenza, a essere complici di quel genocidio). E, ancora, manifestando per la riconversione ecologica e per un mondo senza guerra, sbattendo in faccia a noi adulti che il nostro Paese non è solo uno dei più vecchi al mondo ma anche uno tra i più egoisti: scarichiamo sulle loro spalle milioni di euro di debito e anche un futuro incerto, preoccupante, fatto da territori devastati e possibili guerre. Per farlo usano le parole, le assemblee e gli incontri. La cultura e la musica per veicolare con altri linguaggi narrazioni complesse, per provare a cambiare il senso comune. A volte lo fanno anche con i presìdi, bloccando strade, provando a sconfinare dai divieti di chi vive con fastidio ogni dissenso o forma di alterità. Sono arrabbiati, ma con ottimismo. Ideologici, ma anche capaci di parlare con quei pezzi di società con cui l’altra politica parla poco o per nulla, trovando linguaggi semplici spesso veicolati dal fare concreto. Eppure, in questo Paese, oggi tutto questo non solo non è visto di buon occhio, ma è anzi vissuto come fastidio. Perché svela e denuncia che lo Stato ha rinunciato alla sua funzione di garanzie dell’esigibilità dei diritti, piegandosi alle esigenze del mercato. Perché si oppone al terribile ministro Valditara, che propone una scuola che addestra e non educa (con buona pace di don Milani), in cui i percorsi scolastici dipendono da dove nasci, da quanti soldi hanno in tasca i tuoi genitori e dal genere (altro che merito, che ipocrisia signor ministro!). Perché questi ragazzi vorrebbero che si investisse su treni per i pendolari, sulla messa in sicurezza del territorio, per mettere le scuole a norma rispetto la normativa anti sismica invece sul faraonico Ponte sullo stretto o sul Tav. Ecco, allora, che chi ci governa tira fuori il disegno di legge sicurezza sicurezza che rende reato ogni forma di dissenso e di resistenza, anche quando pacifica e non violenta. Il processo è chiaro: intreccia marginalizzazione e colpevolizzazione di povertà, disagio e alterità; criminalizzazione del dissenso; potenziamento delle forme di controllo di polizia. Il messaggio veicolato insomma è: ragazzi e ragazze, state a casa! Accontentatevi del presente e del probabile, smettete di sognare e di tentare di costruire l’impossibile, e cioè un mondo più giusto dal punto di vista sociale e ambientale. Questo disegno di legge vuole trasformare i loro sogni e la loro rabbia in reati, penalmente perseguibili. Tanto più, allora, i ragazzi e le ragazze non possono essere lasciati soli nel loro opporsi al disegno di legge sicurezza che poi è il modo più giusto per difendere anche la nostra libertà e il nostro diritto a esprimere dissenso e agire il conflitto. Conflitto senza il quale, è bene ricordarlo, non si alimenta la democrazia. Serve una grande mobilitazione nazionale, dal basso, dai luoghi che più di altri portano con sé la fatica di povertà e disuguaglianze esasperate, e che per questo rischiano di pagare un prezzo alto in termini di repressione e di criminalizzazione del dissenso e delle protesta. È una doverosa battaglia di civiltà, per la libertà. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Il messaggio del Governo: “Ragazzi state a casa!” sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 18, 2024 / Osservatorio Repressione
Un normale eccesso di zelo. A proposito di api, pace e libertà
Multare un apicultore per una scritta pacifista esposta sul banchetto del mercato non è solo un eccesso di zelo delle forze dell’ordine. E il fatto che così sia interpretato da molti media è fonte di ulteriore preoccupazione. Perché mostra l’affacciarsi di un’idea di “normalità” che tutto accetta e metabolizza, anche l’assurdo e l’indicibile: in attesa della normalizzazione istituzionale che ci aspetta con la “legge sicurezza”. di Ezio Bertok da Volere la Luna I fatti sono noti. Per chi si fosse distratto un attimo, un breve riassunto: il 14 ottobre a Desio, nella ricca Brianza, un apicoltore espone sul suo banchetto al mercato uno striscione con scritto: “Stop bombing Gaza – stop genocide”. Qualche solerte cittadino non gradisce il messaggio e chiama i carabinieri che contestano all’apicoltore una “propaganda politica non autorizzata”. Lui si rifiuta di rimuovere lo striscione, i carabinieri chiamano un superiore, il reato viene derubricato seduta stante e punito con 430 euro per violazione di un articolo del codice della strada: lo striscione distrae gli automobilisti. Non è una bufala. Che sia un caso di ordinaria follia? O di eccesso di zelo che nulla a che fare con la svolta autoritaria e repressiva che colpisce in misura sempre crescente il dissenso e annulla gli spazi di democrazia? Con quella curva che si impennerà paurosamente se verrà approvato definitivamente il disegno di legge sicurezza già approvato alla Camera e in discussione al Senato? Un articolo de La Stampa uscito prontamente (15 ottobre, p. 15) ci tranquillizza. Un’intera pagina per fugare ogni dubbio. Chi avesse provato una sia pur piccola inquietudine si rasserena. L’articolo, nel suo piccolo (molto piccolo in verità), è comunque indicativo dei messaggi veicolati dai media sui grandi temi di attualità: la guerra che c’è e il sistema sanitario nazionale che quasi non c’è più, l’emergenza climatica che c’è e le responsabilità politiche che non ci sono, il lavoro che quando c’è è un lusso e la tutela dei diritti che è solo un lontano ricordo. E via elencando. Propongo una lettura ragionata dell’articolo in cui la giornalista esordisce con una prima certezza «Siamo certi che sia solo eccesso di zelo» e si dice convinta che all’apicoltore «arriveranno le scuse». Non manca di argomentare la sua certezza: «Mica siamo a Kabul. Da noi ogni cosa che non sia un insulto o una minaccia si può dire, soprattutto se si dice a volto scoperto, senza bastoni, e per di più accompagnata dalla gentilezza del miele». Suggestiva l’immagine idilliaca delle api a volto scoperto che manifestano senza bastoni! Dopo aver ricordato che «viviamo nell’Italia dell’articolo 21 in cui tutti hanno il diritto di manifestare ecc. ecc» e che «siamo l’Italia che ama le api e gli apicoltori», la giornalista mette in guardia sul fatto che le istituzioni al massimo livello risulterebbero danneggiate da questo eccesso di zelo «irritante perché affoga nei verbali di caserma gli ultimi sprazzi di sogno personale, giusto o sbagliato che sia, chissà come sopravvissuti alla cultura dei social e dei reality». Ecco, brava, un accenno critico ai reality non guasta. Anche se la frase prepara soltanto il terreno per arrivare al punto. L’apicoltore «con la sua cooperativa tra i due rami del Lago di Como, la sua scelta di vita inconsueta – le api come simbolo di amore per il territorio e le relazioni umane – è uno degli imprevedibili romantici prodotti da una società che va da un’altra parte. Erano milioni ai tempi di Seattle e della Via Campesina, incendiarono le piazze no-global e poi sparirono, sconfitti da modelli più forti di loro. Non basta? Pure la multa agli ultimi giapponesi di quel tipo di scelta?». Vada per il garbato accenno al Manzoni ma chissà se l’apicoltore si riconosce nell’immagine? Rifiutandosi di rimuovere lo striscione ha sostenuto che la frase non offende nessuno e ha chiarito che il suo è «un messaggio non di odio, ma l’invocazione per una pace immediata e una ‘giustizia giusta’»: non pare si riconosca nell’immagine dell’ultimo giapponese di cui narra la leggenda, quello che dopo trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale non se n’era ancora accorto. Dalle sue parole si direbbe piuttosto che si sente più vicino al popolo di Seattle e di Via Campesina, al popolo che a Genova nel 2001 diceva che “un altro mondo è possibile». O no? La giornalista de La Stampa però non ha dubbi: no, è semplicemente un inguaribile romantico sperduto nei campi che parla alle api come San Francesco parlava agli uccelli. L’importante è rassicurare i lettori ai quali, non sia mai, potrebbe saltare in mente che anche le api siano pacifiste/comuniste/sovversive. La colta giornalista si guarda bene dal mettere in evidenza che per il multato «non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale» e ricorda che «per ripulire Gaza ci vorranno anni». In verità la dichiarazione è riportata in un trafiletto nella stessa pagina ma, nella fretta di suggerire una collocazione dell’apicoltore più coerente con l’immagine proposta, la cosa viene ignorata. L’articolo si avvia alla conclusione segnalando il «danno reputazione» (sottinteso alle istituzioni di alto livello) lasciando intendere che una mela marcia non fa primavera, come le rondini. Prosegue poi con una forte denuncia: «Una istituzione è forte quando usa la mano pesante con i più grossi, non con i piccoli, gli isolati, quelli che lanciano un messaggio con un cartello in un mercatino agricolo». E fin qui, salvo alcuni dettagli, tutto bene, come diceva quell’incosciente che precipitando dall’ultimo piano di un grattacielo era arrivato appena al secondo piano. Ma poi la denuncia prende la forma di una condanna senza appello: «E di grandi e grossi nella questione delle guerre ce ne sono tantissimi, parlano di odio, ritorsione e annientamento a milioni di persone. Attraverso i social incitano all’antisemitismo e alla violenza, diffondono notizie false, talvolta lavorano al servizio di autentiche centrali di disinformazione che minacciano le nostre democrazie». Capito? E noi che credevamo che nella “questione” delle guerre i “grandi e i grossi” fossero da ricercare altrove, magari nel business delle armi, nell’ansia di dominio geopolitico degli Stati, nella volontà di stabilire nuovi equilibri nel mondo dell’economia e della finanza a livello globale, nei palazzi dei governi che se ne infischiano delle centinaia di migliaia di morti e della distruzione delle città, se ne infischiano della desertificazione di ampie aree abitate causate direttamente dalle guerre… Siamo tutti giapponesi? L’articolo finalmente si conclude, per chi nutrisse ancora dubbi, con queste testuali parole: «Sì, siamo sicuri che sia solo eccesso di zelo. Altri motivi non vengono in mente». In altre parole: state tranquilli, non è successo niente. È tutto normale. Fin qui l’articolo de La Stampa. Si dirà: sì, vabbe’, l’autrice ha espresso la sua opinione, che male c’è? Tutto normale insomma. Provo a fare un salto e guardare ad altro. Per fortuna i giovani guardano poco o niente la TV. Non vale per i bambini i cui genitori ogni sera, seduti a tavola per la cena, si ostinano a seguire il telegiornale (uno qualsiasi). Questi bambini da più di due anni e mezzo vedono scorrere sullo schermo, tutti i giorni, la “normalità” di immagini di città distrutte, macerie fumanti, feriti, sangue, carri armati e soldati che avanzano in terre desolate senza un prato verde ecc. Sono sicuramente attratti dalle tante riprese che mostrano piccoli bersagli visti attraverso il mirino di un sistema di puntamento di un aereo militare o un drone: poi una grande fiammata, una nuvola di polvere e il bersaglio non c’è più. Le prime volte i bambini hanno paura, chiedono perché. È un videogioco? No, ma con il passare dei giorni non fa molta differenza, tanto succede lontano e la cosa diventa normale. Per molti genitori non è poi molto diverso, mentre i bambini si distraggono e sognano un altro videogioco, i genitori si commuovono di fronte ai racconti dei tanti giornalisti embedded. Poi finisce lì. Si va verso un conflitto globale? Boh, vedremo. È normale. Terribile parola. Ci si abitua a tutto. Anche su molto altro ci si abitua, è normale. In un articolo pubblicato su questo sito pochi giorni fa sul collasso del Servizio Sanitario Nazionale vengono riportati i dati di un recentissimo rapporto della Fondazione Gimbe. Definire i dati allarmanti non rende giustizia alla realtà. Fa certo impressione scoprire che ormai 4,5 milioni di persone hanno rinunciato alle cure nel 2023, che alla sanità pubblica sono stati sottratti 37 miliardi tra il 2010 e il 2019 (tra parentesi: in quegli anni non c’era il Governo Meloni anche se poi le cose sono andate peggio). Fa impressione, ma passa in fretta, è normale. Quando poi capita di toccare con mano il disastro, dovendo, ad esempio, prenotare un’ecografia che viene fissata tra un anno l’indignazione e la rabbia si impossessano di chi non ha un’assicurazione e può ricorrere tranquillamente alle strutture private. Capita che si indigni una volta, due volte e poi tutto diventa normale. Nello stesso giorno in cui l’apicoltore della Brianza veniva punito per aver organizzato una manifestazione non autorizzata con il concorso delle sue api si è tenuto a Torino un incontro promosso dal Coordinamento Antifascista Torino e dall’Anpi “No allo stato di polizia, contro il disegno di legge sicurezza”. Non si è parlato di come viene prodotto il miele per usarlo poi come arma impropria nei mercati ma si è parlato comunque di eccesso di zelo, di prevenzione e repressione del dissenso. Gli articoli del disegno di legge in discussione al Senato ci portano indietro di decenni individuando nuovi reati, moltiplicando pene per quelli esistenti e considerando aggravanti quelle che il codice Rocco considerava attenuanti «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto» (norma tutt’ora valida). Se passerà il disegno di legge succederà, tra le altre cose, che per chi commette il reato di resistenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» la pena potrà essere aumentata fino a venti (!) anni di reclusione. È normale, no? I No Tav, e non solo loro, sono avvisati. Ma questo è solo un esempio, è il disegno di legge nel suo complesso che imprime una profonda curvatura autoritaria al governo della società. La resistenza passiva diventerà reato e nelle carceri i detenuti che rifiuteranno il cibo come forma di protesta rischieranno fino a otto (!) anni di reclusione. E ancora: l’occupazione di immobili verrà punita fino a sette anni e verrà punito anche chi incoraggia le occupazioni: i movimenti per la casa sono avvisati, l’emergenza abitativa avrà la risposta che merita. Il blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» verrà punito con la reclusione fino a due anni. Per intenderci: sono compresi anche i dimostranti pacifici che stazionano in gruppo in strada, di fronte ai cancelli di una fabbrica o all’ingresso di una scuola. Lavoratori, studenti, attivisti per il clima sono avvisati. È avvisato anche chi vende miele al mercato, magari parlando di guerre con un cliente. È normale tutto ciò? I solerti carabinieri di Desio sono stati più realisti del re e si son messi forse avanti con il lavoro? Il convegno di Torino si è chiuso con un invito del relatore al foltissimo pubblico: se il disegno di legge sicurezza diventerà legge scendiamo subito in piazza e disobbediamo in massa. Vogliamo raccogliere l’invito? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Un normale eccesso di zelo. A proposito di api, pace e libertà sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 18, 2024 / Osservatorio Repressione
Il Ddl Sicurezza mette al sicuro solo il Governo e i grandi interessi
Ci troviamo al cuore della crisi della democrazia. Una crisi che ha due volti. Da un lato, la sfiducia delle persone nella capacità dei partiti, dei sindacati, degli strumenti della deliberazione e decisione politica di far fronte alla complessità del presente e all’imprevedibilità del futuro. Dall’altro, governi autoritari riducono fino a soffocare gli spazi di confronto e di dissenso. di Giorgia Serughetti da Il Domani Quale sicurezza? E la sicurezza di chi? Sono domande che da decenni orientano la critica all’approccio securitario nel governo dei fenomeni che provocano allarme sociale. Come ha ricordato Tamar Pitch, è almeno dagli anni Novanta che la parola “sicurezza” ha abbandonato l’area semantica della protezione sociale, per finire a indicare la sterilizzazione dei territori urbani dal degrado, il contrasto alla microcriminalità, la sorveglianza dei marginali. Il moltiplicarsi di interventi e “pacchetti” che negli anni hanno preso di mira persone migranti e povere ha risposto alla logica di immunizzare i cittadini e le cittadine “per bene” – gli inclusi – dai rischi derivanti dalla crescita delle diseguaglianze sociali. Il disegno di legge che porta la firma dei ministri Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Guido Crosetto segna però un salto di qualità anche rispetto al passato, già piuttosto inglorioso. Perché solo la retorica governativa, e dei media che se ne fanno portavoce, può azzardarsi a giustificare i più di venti interventi punitivi contenuti nel testo – con tredici nuove fattispecie di reato – come norme a protezione della sicurezza dei cittadini. Potere dal volto cattivo – Nei fatti, le “vittime” a cui il ddl intende dare protezione sono le imprese che violano i diritti dei lavoratori, i costruttori di grandi opere, i proprietari di edifici in stato di abbandono. Mentre il beneficiario finale delle misure pare il governo stesso, che – punendo ogni forma di protesta, anche la disobbedienza non-violenta – ambisce a mettersi al riparo dal dissenso. Senza trascurare il nuovo giro di vite sul carcere e i centri di permanenza per il rimpatrio, dove le nuove pene mirano a chiudere la bocca a chi si ribella, anche solo mediante la resistenza passiva agli ordini. E poi l’ennesima norma “manifesto” contro le “borseggiatrici” – s’intende, rom – da anni al centro di politiche di costruzione del consenso di stampo razzista e classista. Un governo, insomma, “forte con i deboli e sodale con i forti”, come ha scritto Emiliano Fittipaldi. Nei decenni in cui l’ossessione della sicurezza è riuscita a conquistare i cuori e le menti, la contropartita del controllo sociale crescente era, per gli “inclusi”, la promessa di benessere derivante dalle magnifiche sorti e progressive del mercato globalizzato. Oggi, è la crisi di quella promessa, la perdita di capacità seduttiva di un ordine dominato da parole come “proprietà”, “merito”, “responsabilità”, a favorire l’ascesa di un potere dal volto cattivo. Un potere apertamente ostile alla “libertà”, se intesa nel suo significato politico e sociale; favorevole invece alla “libertà” neoliberale degli attori economici. Un ordine ingiusto – L’indebolimento del welfare e della protezione del lavoro, l’aumento delle diseguaglianze, la crescita di insicurezza sociale e ansia per il futuro minano il consenso “spontaneo” verso il paradigma della competizione e del “fare da sé” che ha dominato il discorso politico nell’ultimo mezzo secolo, o quasi. E la risposta autoritaria, apertamente repressiva, del governo appare come l’ultimo tentativo di difendere un ordine ingiusto dalle inevitabili contestazioni che produce. Se è vero che una parte della popolazione sembra avere fiducia nel fatto che un potere “forte” possa mettere tutti, anche gli ultimi, al riparo dalle molteplici “crisi” che gravano sul presente, questo tempo di ritorno della storia, con le sue contraddizioni, ci ha messo anche di fronte al ritorno di conflitti: dalle lotte ambientali a quelle per il lavoro, dalle mobilitazioni femministe a quelle antirazziste. Ed è la paura di insorgenze radicali, di mobilitazioni che non si accontentano di una grammatica riformista delle rivendicazioni, di proteste che chiedono a voce altra “una vita bella”, come recita uno slogan del collettivo della ex-Gkn – è questa paura, forse, a spiegare il passaggio di scala verso l’impiego apertamente repressivo, e a tutto campo, degli strumenti di polizia e del diritto penale. Ci troviamo al cuore della crisi della democrazia. Una crisi che ha due volti. Da un lato, la sfiducia delle persone nella capacità dei partiti, dei sindacati, degli strumenti della deliberazione e decisione politica di far fronte alla complessità del presente e all’imprevedibilità del futuro, porta consenso a esperimenti di governo di stampo sempre più apertamente autoritari. Dall’altro, simili governi riducono fino a soffocare gli spazi di confronto e di dissenso. Abolendo, con il conflitto sociale, anche uno degli ingredienti vitali per la sopravvivenza della democrazia stessa. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Il Ddl Sicurezza mette al sicuro solo il Governo e i grandi interessi sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 29, 2024 / Osservatorio Repressione
Basta legge e ordine, la sinistra lotti per la sicurezza sociale
La questione sicurezza fu introdotta proprio dalla sinistra, per coniugare la prevenzione sociale alla prevenzione dei reati. E impedire alle destre di impugnare l’arma della cosiddetta tolleranza zero. Sappiamo come è andata a finire. Ma la sicurezza “fisica” dipende dalla sicurezza sociale, non viceversa. di Tamar Pitch da Il Domani Secondo Giuseppe Sarcina (Corriere della sera, 21 settembre), la sinistra italiana farebbe bene a imitare Kamala Harris munita di pistola e Keith Starmer, che usa la repressione più dura contro le rivolte: ossia occuparsi una buona volta, oltre che di lavoro, sanità, scuola (tutte buone cose, per carità), di sicurezza, visto il 3 per cento di denunce di reato in più quest’anno rispetto al 2023. Vorrà mica Schlein lasciare alla destra la legge e l’ordine? Ebbene, la questione sicurezza, così come la conosciamo oggi, è stata introdotta nel dibattito pubblico in Italia proprio dalla sinistra. Ahimè. Era l’inizio degli anni Novanta, quando un gruppo di sociologi del diritto, criminologi critici (tra cui la sottoscritta), assessori locali e regionali lancia il progetto “Città sicure”, sponsorizzato dalla regione Emilia-Romagna. Fino ad allora, in Italia, “sicurezza” aveva prevalentemente il significato di “sicurezza sociale” (messa al riparo dalle avversità della vita attraverso misure di welfare). Il progetto “Città sicure”, mutuato da esperienze britanniche anche queste promosse da criminologi e sociologi “di sinistra”, voleva coniugare prevenzione sociale e prevenzione dei reati e delle illegalità attraverso sinergie tra attori sociali e politici locali e le agenzie di sicurezza del territorio, precisamente per, si pensava, diminuire le criticità presenti soprattutto nelle zone cittadine più povere e degradate e impedire alle destre di impugnare l’arma della cosiddetta tolleranza zero, ossia mera repressione, law and order, ecc. Già allora avevo i miei dubbi, in particolare dopo ricerche sulla percezione di insicurezza da parte delle donne (più di metà della popolazione urbana), da cui risultava che quelle che si sentivano più sicure erano quelle che avevano buone risorse culturali, sociali ed economiche: ossia, era evidente che la sicurezza intesa come immunizzazione rispetto alla possibilità di rimanere vittime di criminalità di strada derivava dalla sicurezza sociale, non viceversa. Mi è capitato di dire più volte che siamo stati apprendisti stregoni: il mantra della sicurezza nel primo senso è stato accolto con entusiasmo da amministratori locali e politici nazionali di ogni colore, conducendo i primi a emanare un delirio di ordinanze che vietavano qualsiasi cosa e i secondi a varare “pacchetti sicurezza”, tra cui spicca luminoso (si fa per dire) quello a nome Minniti/Orlando. Certo, molto più facile cercare consensi a costo quasi zero alimentando paura e odio che promuovere assai più costose politiche sociali. Ma l’insicurezza diffusa odierna, dicono le ricerche, ha a che vedere con la precarietà lavorativa, i bassi salari, il venir meno delle protezioni sociali (la sanità e la scuola pubbliche definanziate e in crisi, e così via), ossia proprio con le questioni di cui, secondo Sarcina, la sinistra si occuperebbe trascurando la “sicurezza”, piuttosto che con l’aumento di reati e illegalità. Anche perché questo non succede: l’Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo (non sarà un 3 per cento in più di denunce rispetto all’anno scorso – denunce di cosa, tra l’altro? – a smentire questo fatto) rispetto alla criminalità comune e perfino relativamente alla violenza interpersonale. Altro discorso va fatto per la criminalità organizzata, ma non è mai stata questa l’oggetto di campagne legge e ordine, né è questa a impensierire i e le brave cittadine. Kamala Harris va in giro con la pistola? Beh, gli Stati Uniti sono uno dei paesi più violenti del mondo cosiddetto occidentale anche per via della diffusione delle armi da fuoco, e direi che non è proprio un buon esempio. Oggi la destra al governo vara un ennesimo disegno di legge sulla sicurezza, introducendo ben venti nuovi reati, tra cui la resistenza passiva ecc. Si può almeno sperare che l’aumento degli arresti di bravi cittadini induca questi ultimi a rendersi conto che le nostre carceri, oggi come e più di sempre, sono piene di persone povere, emarginate, razzializzate, i cui reati, spesso, non dovrebbero essere tali, per esempio l’uso e l’abuso di sostanze che, semmai, danneggiano soltanto loro stessi, o, peggio, non essere in possesso di titoli validi per il soggiorno in Italia: ma che reato è? Dunque, mobilitiamoci tutti e tutte contro questo disegno di legge e supportiamo la sinistra non quando cerca di imitare la destra, ma quando si batte per politiche in grado di produrre maggiore sicurezza sociale. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp       L'articolo Basta legge e ordine, la sinistra lotti per la sicurezza sociale sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 25, 2024 / Osservatorio Repressione
Per il governo Meloni lo stato di diritto è solo un intralcio
L’esame punto per punto del disegno di legge sicurezza restituisce una volontà chiara: allontanarsi da ogni idea di solidarietà, garantismo e rispetto dei vincoli di Gaetano Azzariti da il manifesto Il disegno di legge «sicurezza» è solo l’ultimo atto di un più ampio progetto che punta ad abbandonare i principi del nostro sistema costituzionale per abbracciarne altri che appartengono alla storia della destra attualmente al governo. Detto in sintesi: allontanarsi da ogni idea di solidarietà, garantismo e tutela dei diritti, per favorire il primato dell’egoismo individuale, del populismo penale e dell’ordine pubblico ideale attorno a cui si struttura la mentalità autoritaria. Così, da un lato, abbiamo la Costituzione, che vieta la violenza, ma legittima il conflitto e la libertà del dissenso, dall’altro, un governo che reprime lo scontro sociale e individua nuove fattispecie di reato. Ciò che non viene più tollerato sono le manifestazioni di critica all’autorità. Passo dopo passo – dal decreto Cutro al ddl sicurezza – si vuole riaffermare il principio della superiorità dello Stato cui i cittadini devono limitarsi a credere e obbedire. È IL POTERE che tutela il popolo. Ad esso spetta garantire i diritti, stabilire chi sono gli «amici», quali i «nemici». È il governo a farsi garante della «difesa dei confini» (come se si fosse in guerra), a lui appartiene il potere di escludere «gli altri». In questo contesto lo stato di diritto e i vincoli internazionali rappresentano perlopiù un intralcio e, dunque, possono essere messi in discussione. Se poi qualche giudice pretende di farli valere si può sempre urlare al complotto. Il potere non può essere portato a processo, esso è legibus solutus. Il principio di autorità prevale su quello di legalità. Basta elencare alcune delle misure contenute nel ddl sicurezza per avere chiara la direzione di marcia. La legalità ordinaria è un ostacolo e il potere dei giudici un intralcio? Si facciano decidere alle autorità di pubblica sicurezza le misure preventive limitative della libertà individuale. Dopo il decreto Caivano, che estendeva ai minori l’applicazione del «Daspo urbano», ora le misure di allontanamento deciso dai questori possono colpire chiunque sia stato anche solo denunciato per reati contro la persona o il patrimonio senza bisogno di una valutazione in concreto di «pericolosità sociale». Come si possa conciliare questo con quanto stabilisce la Costituzione agli articoli 13 e 25 è un mistero. Le misure definite per contrastare il diritto di manifestare sono ancor più esemplari, giungendo a punire qualsiasi blocco stradale posto in essere «con il proprio corpo» e prevedendo una specifica aggravante qualora le azioni di protesta siano rivolte ad impedire la realizzazione di una grande opera pubblica (eco-attivisti e No Ponte sono avvisati). C’è da chiedersi cosa rimanga della libertà di riunione e di manifestazione del pensiero. Anche le misure previste in materia di terrorismo appaiono allontanarsi dai principi propri del diritto penale liberale. Non basta più, infatti, la norma che già punisce «comportamenti univocamente finalizzati alla commissione di condotte con finalità di terrorismo» (art. 270 quinquies codice penale), ora si punisce anche chi si procura o detiene materiale potenzialmente idoneo a compiere atti di terrorismo. Un diritto penale di prevenzione di assai dubbia efficacia, ma di sicuro impatto simbolico. SULLE OCCUPAZIONI abusive si esprime il massimo della forzatura ideologica. Si prescinde infatti del tutto dal considerare le condizioni reali di disagio che possono portare a occupare immobili. Si riduce un dramma – quello della carenza abitativa e dell’ineffettività del diritto alla casa – a una nube di fumo che tutto equipara. Lo dimostra non solo l’assenza di misure di contrasto alla carenza abitativa, ma anche l’estensione delle pene previste (sino a sette anni!) a chiunque cooperi nell’occupazione. Introducendo così il «reato di solidarietà». Nessuno potrà più sostenere chi è in situazione di disagio estremo: chi vive in alloggi occupati deve essere lasciato al suo destino e guai a chi si vuol far carico dei bisogni primari dei diseredati. Verrebbe da chiedersi se anche il Papa sarà incriminato, visto che ha espresso in più occasioni solidarietà e il suo elemosiniere si è spinto persino a riattaccare la corrente ad un palazzo occupato. La prigione è stata in passato considerata un’istituzione totale, disumana e finalizzata ad umiliare la dignità delle persone recluse. La nostra Costituzione dispone, invece, che chi deve scontare una pena sia trattato con senso di umanità e che il fine della reclusione sia quello della rieducazione del condannato. Le nuove misure introdotte dal ddl sicurezza ci fanno tornare al carcere come luogo di alienazione disumanizzante. Lo dimostrano due misure selvagge. La prima cancella il differimento obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Si esige che il carcere travolga tutto. «L’interesse superiore del minore» che è principio che informa la normativa di tutti i paesi che si ritengono civili cede il passo a una visione che non rispetta nessuno, neppure i diritti di chi non solo non ha colpe ma è pure in culla. Vittime innocenti, «danni collaterali» si dirà, utilizzando l’osceno linguaggio bellico. L’ALTRA MISURA punisce chiunque all’interno delle strutture carcerarie si oppone a un ordine di un agente di polizia, opponendo una resistenza passiva. Anche in questo caso mettendo sullo stesso piano il comportamento di chi rifiuta di sottostare ad un comando – magari illegittimo – e chi partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia (ipotesi quest’ultime già sanzionate). È stata definita la norma «anti Gandhi»: in effetti oggi c’è da temere che Gandhi sarebbe in carcere a scontare la sua pena. Che poi analogo trattamento sia previsto nei confronti delle persone migranti trattenute nei Cpr o nei Cas non può certo stupire. La paura nei confronti dello straniero – «nemico» in via di principio – non prevede il rispetto dei diritti di persone che non hanno commesso reati, ma sono ugualmente costrette in centri assai spesso peggiori delle carceri. A dimostrazione della “minorità” dei migranti v’è pure l’ultima misura introdotta nel ddl che vieta di vendere le Sim a chi non possiede il permesso di soggiorno. Prima ancora che incostituzionale è una previsione surreale. Chi può pensare possa funzionare? Impedire di comunicare al tempo di internet è come voler tornare nella preistoria. In fondo, forse, è proprio questa la direzione di marcia.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp   L'articolo Per il governo Meloni lo stato di diritto è solo un intralcio sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 25, 2024 / Osservatorio Repressione
La repressione è servita
Il Ddl 1660 è un giro di vite su comportamenti individuali e collettivi nello spazio pubblico, condizioni imposte ai detenuti nelle carceri, restrizioni per i migranti e l’operatività delle forze dell’ordine di Carlotta Caciagli da Jacobin Che per il governo Meloni la priorità non fosse la sicurezza sociale era già chiaro senza dover attendere l’ultimo provvedimento. Ma che ben 162 deputati avrebbero tentato di trasformare in legge il vecchio mantra «olio di ricino e manganello», questo no. Il Ddl sicurezza è una stretta repressiva certo, ma non solo. Non ci sono frasi o figure retoriche che siano in grado di restituire anche parzialmente l’assurda pericolosità, la tracotanza e al tempo stesso la cialtroneria di questa classe dirigente. Sì, perché le responsabilità di questo atto oltraggioso rispetto alle urgenze e i bisogni della collettività e del pianeta non sono solo del governo ma anche di tutti quei politici e amministratori che, dal locale al nazionale, hanno fatto in tempi non sospetti da apripista: dai Marco Minniti e Maurizio Lupi fino all’ultimo dei sindaci che ha applicato il daspo urbano. Chiunque adesso si stracci le vesti, ma abbia sostenuto anche uno solo dei decreti degli ultimi 15 anni è corresponsabile di quello che il nuovo Ddl renderà possibile. Ma cosa, in particolare, renderà possibile? In che modo si è potuto peggiorare ulteriormente un quadro nel quale ogni questione di disuguaglianza di classe e povertà era già trattata come mero problema di ordine pubblico? Le misure già in vigore erano inadeguate e, sotto molti aspetti, anticostituzionali, tanto che sembrava difficile immaginare peggioramenti. Ma il governo italiano, maestro nel distinguersi in negativo, ci è riuscito. Come? Per lo più modificando ad hoc e in modo un po’ posticcio il codice di procedura penale. Chapeau. Senza entrare nel dettaglio dei singoli articoli (sarebbe dispersivo, dato che il disegno di legge tiene insieme regole per l’uso di strumenti pirotecnici con l’attività lavorativa dei detenuti, con le disposizioni per le vittime dell’usura) proviamo a vedere quali sono gli zoccoli duri di questa ingegneria legislativa. Il Ddl interviene principalmente in quattro ambiti: la gestione dei comportamenti individuali e collettivi nello spazio pubblico e urbano; le condizioni imposte ai detenuti nelle carceri; le restrizioni per i migranti; e l’operatività delle forze dell’ordine. In ciascuno di questi ambiti, ogni misura si traduce in una significativa limitazione dei diritti sociali e umani, accompagnata da un’ulteriore svendita di tali diritti a soggetti privati, che, come il prezzemolo, sta bene un po’ ovunque. Vediamo più nel dettaglio. Per quanto riguarda lo spazio pubblico e urbano si mettono a punto correttivi, anche se minimi, che stigmatizzano come criminale, come se non lo si fosse sempre fatto abbastanza, azioni come quella «dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui» prevedendo una pena da due a sette anni per chi occupi case o annessi (garage, giardini, terrazzi). Non ci sono attenuanti nel decreto per le motivazioni dell’occupante, ma solo aggravanti in base al profilo di colui a cui viene occupato l’immobile. Un correttivo certo non migliorativo, ma su questo il fu ministro Maurizio Lupi e il suo Piano Casa aveva già giocato delle belle carte. Più degna di nota è l’introduzione della norma soprannominata «anti-Gandhi», volta a punire con la reclusione chiunque blocchi una strada o una ferrovia: se si è in tanti – cioè se si sta organizzando una protesta politica – le pene sono aumentate. Se durante la protesta ci sono lesioni (di qualunque natura, anche morali) ai pubblici ufficiali, la pena aumenta, così come aumenta se «la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» (art.19, modifica all’articolo 339 del codice di procedura penale). Strategica come il Ponte sullo stretto, come la Tav Torino Lione e come tutti gli inceneritori, gassificatori e basi militari che si cerca puntualmente di calare sui territori. Si modifica il codice penale anche per punire di più chi commette reati nei pressi delle stazioni ferroviarie (che d’altronde, si sa, peccano in decoro). Sul carcere invece si interviene in due modi degni di nota. In primis, si cerca di normare le rivolte nei penitenziari – identificate come atti di violenza o minaccia o resistenza agli ordini impartiti – introducendo il reato di resistenza passiva (introduzione art 415bis), ovvero «condotte […] che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». Chi diceva che il Covid ci avrebbe reso migliori forse sbagliava. Perché quelle rivolte di fame e dignità non ci hanno lasciato nulla se è, per loro, storicamente e culturalmente possibile proporre questo articolo nelle istituzioni democratiche. In secondo luogo, si mette mano all’organizzazione del lavoro dei detenuti dicendo, per decreto, che le iniziative di promozione del lavoro devono coinvolgere sempre di più e meglio le imprese private. Finanziamenti pubblici alle aziende, insomma. In carcere si può pure morire (e si fa) di mancanza di prospettive e alternative, ma se lo si fa con una co-progettazione pubblico-privato è senz’altro meglio. Il reato di resistenza passiva si applica anche ai migranti nei Cpr, così come l’innalzamento delle pene per atti di violenza, minaccia o resistenza attiva. Ma è forse sui diritti dei migranti fuori e dentro le strutture di accoglienza che quello che non sembrava possibile diventa di colpo realtà. L’articolo 32 introduce delle modifiche al codice delle comunicazioni elettroniche secondo le quali, le imprese di vendita di schede mobili (ovvero i punti vendita Tim, Wind, Vodafone) «Se il cliente è cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea”»sono tenute ad acquisire «copia del titolo di soggiorno di cui è in possesso». Nel mondo digitale, nel quale la ricerca di lavoro, l’iscrizione dei figli a scuola, l’accesso al welfare avviene tramite dispositivi elettronici, si annuncia di voler contrastare la marginalità aggiungendone un’altra. Limitazioni di diritti per tutte e tutti, ma non per le forze dell’ordine. Oltre a consentire a poliziotti e carabinieri di poter portare l’arma d’ordinanza anche fuori servizio, si introduce la possibilità, senza vincoli di sorta, per il personale di polizia, anche ferroviaria, di dotarsi di «dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento». Dispositivi da potersi usare anche nei luoghi – qualsiasi luogo – dove siano trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. Possibilità, ça va sans dire, che non si applica alle persone in stato di fermo. Niente da fare invece per l’introduzione di numeri identificativi sulle divise degli agenti. Queste dotazioni, anche se non obbligatorie, sono attuabili grazie a un’autorizzazione di spesa per il 2024, 2025 e 2026. Per il lavoro in carcere si chiede l’ingresso più consistente possibile delle imprese, ma per le «body-cam» degli agenti della Polfer no: per quelli pagano i contribuenti. Accanto a questi molti altri articoli: limitazioni sulla coltivazione della cannabis light, antiracket, benefici per vittime della criminalità organizzata. Tutti articoli animati dallo stesso principio repressivo e anti-sociale di cui questo governo ha già dato prova. Non solo si cerca – come si è fatto in passato – di rispondere a questioni sociali con misure di ordine pubblico, ma ci si pone in netto contrasto rispetto ad alcuni fra i più basilari diritti umani. Di fronte a un attacco così massiccio e trasversale non sarà sufficiente che siano i militanti politici a farsi sentire e non basterà indignarsi e gridare alle «misure fasciste». Non basterà dirsi contro. È necessario muoversi come associazioni di categoria, sindacati, partiti. Perché questo insulto all’umana intelligenza che il Ddl rappresenta per alcuni potrà essere un esercizio manieristico, ma per molti sarà un sostanziale peggioramento delle proprie condizioni di vita. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp   L'articolo La repressione è servita sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 24, 2024 / Osservatorio Repressione