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Ti sei imborghesito!
Per fortuna non so mai chi sono, ma per certo non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali di Marco Sommariva* Giorni fa mi son trovato a disquisire con un amico su chi sono, oggi, i borghesi e a chiedermi se facessi parte di questa schiera; lo spunto per la discussione ci era stato dato da una scritta su un muro, tanto breve quanto solleticante, un microscopico j’accuse: “Ti sei imborghesito!” L’indomani, lo stesso amico mi ha segnalato un articolo pubblicato diversi anni fa su Repubblica e, così, ripartendo da questo,ho provato a mettermi nuovamente in discussione – questa volta da solo. A inizio pezzo leggo: “Nel significato oggi più diffuso il borghese è un membro di un ceto medio che va dai benestanti ai ceti impiegatizi e che comprende sia gli industriali, i grandi professionisti, i livelli superiori del pubblico impiego (la cosiddetta alta borghesia) sia una più vasta platea di persone che, in condizioni più modeste, sono tuttavia fornite di qualche bene, di qualche indipendenza, di qualche responsabilità anche se limitata, e di qualche istruzione (la piccola borghesia)”. Non so se il mio stipendio può essere considerato un bene e non so neppure se l’indipendenza che questo stipendio mi garantisce si possa annoverare fra quelle ipotizzate nell’articolo di Repubblica, ma di certo ho qualche responsabilità “anche se limitata” – un ufficio in cui coordino, così dice l’organigramma aziendale, due colleghi – e ho una “qualche istruzione”: sono uno di quei tantissimi periti industriali che nei primi anni Ottanta sbandierava il “pezzo di carta” che occorreva per provare a non replicare la vita di stenti dei genitori che, “con tanti sacrifici”, ti avevano fatto studiare. Possibile davvero io sia un piccolo borghese? Proseguo la lettura: “Borghesi sono […] i ceti che si affermano nell’età moderna come i più adatti a governare secondo ragione, scalzando – anche attraverso le rivoluzioni – il potere tradizionale dei nobili e degli ecclesiastici […]”, e qui non c’entro nulla: “scalzare chi governa” sì, “anche attraverso le rivoluzioni” sì, ma non di certo per governare. Dài!, questa l’ho sfangata, ma non so se riuscirò a passare l’esame dei miei libri, delle mie letture. Per l’egoismo con cui custodisco i miei libri, e pure i miei dischi, mi sa che Gustave Flaubert mi definirebbe borghese: “si divertiva a fabbricare portasalviette: ne aveva riempito la casa, li conservava con la gelosia di un artista e l’egoismo di un borghese” – Madame Bovary. Ma André Malraux – sapendo di tutte le mie cause (perse) combattute fianco a fianco coi più deboli, per i più deboli – mi difenderebbe: “La borghesia starà col più forte. La conosco” – La condizione umana. Non essendo spilorcio e arrogante, ed essendo spesso criticato per la troppa sincerità, credo che anche Doris Lessing prenderebbe le mie parti: “Dio sa quanto lei li odiava, i borghesi, così attaccati ai soldi, attenti a non sprecare un centesimo, sempre con il pensiero fisso di mettere da parte, di risparmiare […]”; e ancora “Alice sapeva che Muriel apparteneva all’alta borghesia ed era per questo che non la poteva soffrire. Come in tutte le rappresentanti della sua classe, ogni sua parola, ogni gesto, era implicitamente arrogante”; e infine “non c’è mai una volta che manifestino quello che pensano questi maledetti piccoli borghesi” – La brava terrorista. E se fossi, invece, un borghese perché mangio troppo? “Come dicono i sandinisti, era da tempo che avevo perso l’abitudine borghese di fare due pasti al giorno” – Dead end blues di Hugues Pagan. O forse lo sono perché, quando mi sposai, pensai anch’io – lo ammetto – d’essermi sistemato e, per un po’, rinunciai alla vita reale? “noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione, perché di questo si tratta: l’idea che, una volta messa su famiglia, la gente debba rinunciare alla vita reale e “sistemarsi”. È la grande menzogna sentimentalistica piccolo borghese […]” – Revolutionary road di Richard Yates. In effetti, non lo nego, sono anche uno di quelli che appena uscì dal suo piccolo mondo che pensava fosse il mondo intero – fu quando non riuscii a sfuggire al servizio di leva e partii per la naja –, andò in crisi: “Quando si nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo, naturalmente il mio fu messo in crisi” – Pasolini su Pasolini di Pier Paolo Pasolini e Jon Halliday. Ma sempre Pasolini potrebbe riabilitarmi, vista la mia ripugnanza per il “pare brutto” e le “buone maniere” in generale: “il mio odio per la borghesia è in realtà una specie di ripugnanza fisica verso la volgarità piccoloborghese, la volgarità delle “buone maniere” ipocrite, e così via. Forse soprattutto perché trovo insopportabile la grettezza intellettuale di questa gente” – ancora Pasolini su Pasolini. Anche Jack London avrebbe parole buone per il sottoscritto che – me l’hanno riconosciuto in tanti – non ha mai avuto paura della Vita: “Il realismo è essenziale alla mia natura, e lo spirito borghese odia il realismo. La borghesia è codarda. Ha paura della vita” – Martin Eden. Forse la mia colpa è stata passare impiegato dopo otto anni trascorsi orgogliosamente da operaio? Forse mi sarebbe bastato restare una tuta blu per non rischiare d’esser confuso con qualche lacchè borghese? Ma davvero una cosa esclude l’altra? E qui è Paco Ignacio Taibo II a venirmi in soccorso: “Il più borghese è l’operaio che offre il culo al padrone, e addirittura lo difende come un coglione, e dice ma no, le cose in fabbrica vanno benissimo così” – E doña Eustolia brandì il coltello per le cipolle. Che se poi andiamo a vedere, ce n’è un po’ per tutti, per la morale borghese senza dubbio ma, per esempio, non è che una “certa” sinistra – quella che lottava per il proletariato – ne esca tanto bene: “non possiamo più fare a meno di valori positivi. Ma dove trovarli? La morale borghese ci indigna con la sua ipocrisia e la sua mediocre crudeltà. Il cinismo politico che regna su gran parte del movimento rivoluzionario ci ripugna. Quanto alla sinistra cosiddetta indipendente, in realtà, affascinata dalla potenza del comunismo e invischiata in un marxismo pudibondo di sé, ha già abbandonato la lotta. Dobbiamo allora trovare in noi stessi, nel vivo della nostra esperienza, cioè all’interno del pensiero in rivolta, i valori che ci necessitano. Se non li troviamo, il mondo crollerà, e forse sarà giusto, ma prima saremo noi a crollare, e questo sarà infame” – Ribellione e morte di Albert Camus. Non sarà che il pensiero della borghesia s’è già diffuso al popolo? Sarebbe un bel guaio: “Gli avari non credono nella vita dopo la morte, per loro il presente è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno, dove più che mai il denaro domina le leggi, la politica e i costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la fede in un’altra vita, fede su cui da diciotto secoli si basa tutta la struttura sociale. Tuttavia ci troviamo quasi al medesimo punto, poiché l’avvenire che ci attendeva al di là del requiem è stato trasportato nel presente. Giungere al paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, far divenire il cuore di pietra e macerarsi il corpo nell’ansia di accumulare beni passeggeri, come una volta si soffriva il martirio per conquistare l’eternità, ecco l’idea che oramai si è fatta comune, l’idea fissa, in ogni luogo, persino nelle leggi, che ormai domandano all’uomo: “Quanto paghi?” invece di chiedergli: “Cosa pensi?” Se un simile pensiero si diffonderà dalla borghesia al popolo, chissà cosa ne sarà del mondo” – Eugénie Grandet di Honoré de Balzac. Anche perché il nuovo potere borghese parrebbe, davvero, essere una brutta cosa: “L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. […] il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è spazio” – Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Sulla necessità del potere borghese di pragmatismo da parte dei consumatori, ha qualcosa da dire anche Raoul Vaneigem: “Se i borghesi preferiscono l’uomo a Dio, è perché egli produce e consuma, acquista e fornisce” – Trattato del saper vivere. Ma chi sono io, oggi, ancora non l’ho capito. Visto che non mi spavento se i lacci delle mie scarpe non sono in ordine e non sono mai sicuro d’aver ragione, non dovrei esser compreso fra la media borghesia: “la media borghesia inglese deve masticare ogni boccone trenta volte perché ha l’intestino così stretto che un boccone grosso quanto un pisello lo ostruirebbe. Sono un branco di disgraziati effeminati, pieni di boria, spaventati se i lacci delle scarpe non sono in ordine, putridi come selvaggina andata a male, e sempre sicuri di avere ragione. È questo che mi distrugge. Sempre lì a leccare il culo finché non gli fa male la lingua, eppure sono sempre sicuri di avere ragione. Presuntuosi! Presuntuosi su tutto. Presuntuosi! Una generazione di presuntuosi effeminati senza coglioni…” – L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence. E dato che non ho mai pensato che oltre i miei confini il mondo sia piuttosto ignorante, anche Robert Louis Stevenson potrebbe aiutarmi a restare fuori da certi elenchi in cui non avrei piacere di essere incluso: “L’ignoranza di voi borghesucci mi sorprende. Al di là dei vostri confini, ritenete che il mondo sia piuttosto ignorante e un universo indistinto, immerso in una degradazione generale…” – Il terrorista. Ma non sarà che questo problema dell’essere o non essere borghesi, è una fisima tutta mia, nostra, dell’uomo occidentale, e magari una fissazione dei giorni nostri? No, non è così; scrive Jean-Patrick Manchette ne Il caso N’Gustro: “Lo Zimbabwin, il loro Paese, si è liberato e un Fronte di liberazione, l’Flz, ha preso il potere. Ma se capisco bene, c’è un’etnia che cammina sulla testa delle altre, nell’Flz, e ancora peggio è musulmana […]. Mi spiegano: i musulmani, laggiù, sono l’equivalente dei borghesi qui, sono grandi famiglie, stirpi, da sempre compromesse con le spedizioni arabe che discendevano l’Africa, risalendo il Nilo e arrivando ben oltre nell’interno, attraverso il Sudan, fino al cuore del continente, per razziare, rapire su grande scala intere popolazioni che rivendevano sul Mar Rosso, gli uomini per il lavoro, le donne ai bordelli, i bambini dipende”. Niente, addirittura potrebbe essere un problema mondiale e, forse, sempre esistito. Pur non risparmiando i proletari, anche Johnny Rotten riteneva essere un problema questa borghesia capace di opprimere: “Ricordo che quand’ero piccolo e andavo a scuola i genitori inglesi mi prendevano a mattonate. Per arrivare alla scuola cattolica dovevo passare in una zona in prevalenza protestante. Era bruttissimo. La facevo sempre di corsa. “Quei luridi bastardi irlandesi!”. E cazzate del genere. Adesso se la prendono coi neri, o chi altri. Ci sarà sempre odio negli inglesi perché sono una nazione piena d’astio. È questo il guaio dei proletari di tutto il mondo. Cercano sempre di sfogare i loro rancori su quelli che considerano più in basso nella scala sociale, invece di saltare alla giugulare di quei fottuti bastardi dell’alta e media borghesia che li tengono oppressi, tanto per cominciare” – L’autobiografia. Persino la Chiesa pare non abbia gradito il potere della borghesia, accusandola d’aver fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore, benché la contestazione non parrebbe mossa sulla scia di una qualche carità cristiana: “L’abate […] trovava delle scusanti alle scelleratezze degli scioperanti, attaccava violentemente la borghesia sulla quale rigettava ogni responsabilità. Era la borghesia, che, spossessando la Chiesa delle sue antiche libertà, per servirsene lei stessa, aveva fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore, era lei che prolungava i malintesi, che spingeva ad una catastrofe spaventosa, col suo ateismo, rifiutandosi di ritornare alla fede, alle tradizioni fraterne dei primi cristiani” – Germinal di Emile Zola. Leggo che la borghesia è fondamentalmente vile e ottusa e che, in ogni epoca, è rimasta unita solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare coloro che stavano sotto: “Sono nato con dentro un odio per l’ingiustizia… sin dall’infanzia il sangue mi ribolliva contro il cielo quando vedevo la gente malata, e mi ribolliva contro gli uomini quando ero testimone delle sofferenze dei poveri; pensando al tozzo di pane della povera gente, le cose buone che mangiavo mi andavano di traverso, e un bambino storpio mi faceva piangere. […] Anno dopo anno, questa passione per la gente più derelitta mi ossessionò sempre di più. Si poteva riporre speranza nei re? Si poteva riporre speranza nelle classi meglio pasciute che si rotolano nel denaro? Avevo studiato il corso della storia… sapevo che la borghesia, il nostro monarca di oggi, è fondamentalmente vile e ottusa… in ogni epoca, avevo visto come la borghesia si unisse solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare coloro che stanno sotto; la sua ottusità, ne ero convinto, alla fine avrebbe provocato la propria rovina; sapevo che ormai i suoi giorni erano contati, ma come avrei potuto aspettare? Come potevo lasciare che i bambini poveri tremassero sotto la pioggia? Certo, sarebbero arrivati giorni migliori, ma i bambini sarebbero morti prima. […] con un’impazienza sicuramente non priva di uno slancio di generosità mi arruolai tra i nemici di questa società ingiusta e ormai condannata […]” – nuovamente da Il terrorista di Robert Louis Stevenson. Anche il mio corregionale Edmondo De Amicis, nel romanzo Sull’oceano non ne dice un granché bene di ‘sti borghesi: “tutta la sua persona rivelava la borghesuccia impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto, capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui marciapiedi”. Ecco, non provando invidia per chi sta sopra né disprezzo per chi sta sotto semplicemente perché il mondo che vedo io non è strutturato in verticale ma in orizzontale; non avendo mai dimezzato il pane da dare a mio figlio per qualsivoglia bene materiale a cui rinuncio tranquillamente, anche se ammetto che i libri mi tentano sempre parecchio; non commettendo alcuna vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa per lo stesso motivo di prima – nella mia visione orizzontale del mondo, marchese, psicologhe, suore, operaie, casalinghe, eccetera sono, giocoforza, tutte sullo stesso piano –; mi sento abbastanza sollevato. E mi sento abbastanza sollevato anche perché non provo alcuna gioia quando s’arresta una puttana o se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana; non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali; non so mentire con cortesia, cinismo e vigliaccheria, e non faccio dell’ipocrisia la mia formula di poesia; non ho nulla contro chi fa l’amore più di una volta alla settimana e neanche contro chi lo fa per più di due ore o verso chi lo fa in maniera strana; non pesto le mani a chi arranca dentro a una fossa e neppure son disponibile, al più ricco e ai suoi cani, a leccar le ossa. Sì, dài!, mi sento abbastanza sollevato. Ora che finalmente so chi sono, devo chiudere il pezzo e salutarvi perché sono già in ritardo: di là, sul tavolo di noce del tinello, la cena è apparecchiata, son tutti già seduti e mi aspettano per il segno della croce. Rifiutarsi mi pareva brutto.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
riflessioni
misure repressive
Il silenzio e il coraggio di infierire
Un pubblico processo per fare chiarezza sull’uccisione di Carlo che mai c’è stato, il silenzio di grandi organizzazioni e il coraggio di infierire da parte di un capitano dei carabinieri di Haidi Gaggio Giuliani Ho letto su Osservatorio Repressione l’articolo del 10 aprile Turchia, quando il potere infierisce anche sui familiari delle vittime di Gianni Sartori, che ringrazio: si ricorda ancora di me nonostante la mia latitanza (mi ha fermato il tumore da qualche anno). La situazione in Italia non è drammatica come in altri Paesi, comunque non bisogna sottovalutare alcuni segnali. Tempo fa avevo ricevuto da parte di Amnesty International l’invito a sottoscrivere un appello per Pedro Enrique, ucciso con otto colpi di pistola mentre dormiva nel suo letto: “I tre assassini sono stati identificati come poliziotti, ma sono ancora liberi e in servizio”. La colpa di Pedro Enrique è stata quella di organizzare marce pacifiche nella regione di Bahia in Brasile per denunciare la violenza sistematica della polizia nei confronti di giovani neri. Sua madre Ana Maria si batte da anni per chiedere giustizia per l’assassinio di Pedro Enrique. Sostieni la lotta di Ana Maria”. Giusto, ho pensato. Un giovane uomo come mio figlio, ho pensato. Anch’io ho chiesto per molti anni un pubblico processo che facesse chiarezza sulla sua uccisione, che rispondesse ai molti dubbi rimasti. Amnesty però non ha mai organizzato in sostegno una raccolta di firme e io non ho mai capito perché. Certo, Pedro Enrique è stato ucciso nel suo letto mentre l’immagine di Carlo è cristallizzata nel momento in cui, con un estintore vuoto tra le mani a più di tre metri di distanza, “assale” una povera camionetta indifesa. Riparati dentro la camionetta ci sono tre (qualcuno ha detto quattro) carabinieri armati, ma questo si sottace. La sua uccisione viene rapidamente archiviata quando ancora la “grande” informazione parla di ferite pregresse per i manifestanti massacrati alla scuola Diaz: nel 2003 infatti per la “macelleria messicana” erano ancora indagati i manifestanti che dormivano nella palestra e non circolavano notizie a proposito delle torture nella caserma di Bolzaneto. L’ archiviazione ha influito pesantemente, in seguito, vanificando i nostri tentativi di ottenere un processo, sia in Italia che presso la Corte europea. In cambio un altro processo è in corso: il signor Claudio Cappello, presente in piazza Alimonda quel 20 luglio con il grado di Capitano, ha querelato il padre di Carlo per aver usato parole poco rispettose nei suoi confronti in un paio di interviste. Non ho mai approvato il linguaggio di mio marito, certe sue interpretazioni. Sono convinta che riportare i fatti nudi e crudi, e le immagini (tutte), sia sufficiente: le persone che ascoltano, se sono interessate, hanno la capacità di giudicare autonomamente. Tuttavia penso che ci vuole coraggio per infierire su un vecchio di ottantasette anni, che certamente non è uscito indenne neppure lui dalla tragedia che ha colpito la famiglia. Ma il signor Cappello è un Colonnello dell’Arma, il coraggio non gli manca.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp > >  
riflessioni
lotte sociali
Il limite costituzionale travolto dal decreto «sicurezza»
Malgrado il ricorso alla legislazione di urgenza sia ormai prassi consolidata, non era immaginabile che lo strumento diventasse un mezzo per superare il dibattito parlamentare. Un provvedimento di «controllo» che muta il paradigma della penalità: da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di soggettività pericolose di Mauro Palma da il manifesto Forse bisognerebbe ricordare le perplessità di Costantino Mortati nel corso della discussione che avrebbe portato alla formulazione dell’articolo 77 della Costituzione, quello che prevede la possibilità per il governo di adottare decreti-legge in caso di necessità e urgenza. Il grande costituzionalista intervenne nel settembre del 1947 nel dibattito che si era aperto con la constatazione che il Progetto predisposto dal Comitato ristretto dell’Assemblea costituente non li prevedeva e che, secondo quanto suggerito da Pietro Calamandrei, un qualche spiraglio andava lasciato, per esempio, per provvedere urgentemente in caso di terremoti o simili situazioni: «Bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla». Mortati metteva in guardia rispetto al rischio estensivo di quel concetto di urgenza e di necessità, negando a quest’ultima la possibilità di esondare dal normale procedere legislativo, quasi configurandola come «fonte autonoma di diritto». E, proprio per questo ammoniva: «L’esperienza ha infatti dimostrato come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del governo di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del parlamento, il quale tende a scaricarsi dei compiti di sua spettanza». Il testo poi adottato nella Costituzione prevede una forma di “catenaccio” teoricamente volto a evitare il rischio di debordare. Certamente, però, quel dibattito non poteva prefigurare una situazione in cui allo strumento di legiferare per decreto, con successiva conversione, avrebbero fatto ricorso bulimico molti governi futuri – di vario orientamento politico – fino a svuotare il ruolo effettivo di almeno di una delle due camere, chiamata a ratificare a scatola chiusa quanto nell’altra si era dibattuto. Così come usualmente avviene ora. Soprattutto non poteva prevedere il ricorso al decreto-legge per superare un dibattito parlamentare attorno a un disegno di legge la cui approvazione fosse divenuta ardua proprio per le molte perplessità espresse da associazioni professionali, realtà sociali, esperti nonché da parlamentari stessi sul testo in esame. Ancor più nel caso in cui tale disegno di legge riguardasse quel bene che l’articolo 13 della Carta definisce come «inviolabile»: la libertà personale. Lorenza Carlassare si chiese anni fa se un decreto-legge potesse costituire quella tutela che la Costituzione richiede per tale bene. Invece, è proprio ciò che è avvenuto in questi giorni, con il disegno di legge cosiddetto «sicurezza» che era da più di un anno all’esame del senato, in maniera congiunta da parte della commissione per gli affari costituzionali e di quella per la giustizia e che ora si trasforma, con qualche attenuazione, ma con la stessa fisionomia, in decreto-legge. Non un testo qualsiasi, bensì un articolato che tocca vari aspetti e che sarebbe stato meglio definire di esteso «controllo» invece che non di «sicurezza», perché i due termini non sono sinonimi e, al contrario, se il secondo esprime un valore da tutelare per la collettività nel contesto di garanzia dell’effettività dei diritti per tutti, il primo rappresenta un’inaccettabile intrusione nella espressione del dissenso. Un controllo che, nel testo del decreto-legge, muta anche il paradigma della penalità trasferendone la funzione da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di soggettività di per sé assunte come potenzialmente pericolose. Non è possibile leggere altrimenti, per esempio, il mantenimento, pur attenuato rispetto al testo del discusso disegno di legge, della possibilità di restringere in dipartimenti detentivi donne incinte e madri di bimbi di età inferiore a un anno – nonostante sia per loro riservata la sistemazione in un Icam (Istituto a custodia attenuata per madri con bambini), considerato che ne esistono solo tre al Nord e uno in Campania e che così si porrà facilmente il problema della distanza dal proprio luogo familiare. Come pure è difficile leggere altrimenti le attenuazioni impresse all’originario nuovo reato di rivolta in carcere perché queste non risolvono la gravità di penalizzare l’inadempienza a ordini impartiti, soltanto col prevedere che tale passiva resistenza debba essere tale da incidere sul mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Come non cambia il senso del provvedimento, l’aver circoscritto le opere pubbliche o i servizi la cui interruzione determina, anche nel nuovo testo, forti aggravanti sul piano penale. Né incidono altre attenuazioni sul piano della facoltatività – e non l’obbligatorietà – per le università e gli enti di ricerca a collaborare con i Servizi di sicurezza per fornire informazioni e dati o, ancora, le attenuazioni nella politica repressiva nei confronti delle persone migranti irregolari. Sono attenuazioni che evitano il rischio di palese bocciatura e che sono state presentate enfaticamente, con anche lo sgarbo istituzionale di voler sottintendere l’intrinseca approvazione del Quirinale; ma che non mutano l’ambito paradigmatico del provvedimento. Che ruota appunto attorno a quella «necessità e urgenza» che il dibattito costituente aveva posto proprio per configurare un “catenaccio” che evitasse l’affermazione primaziale del potere esecutivo sulla produzione di norme da mantenere invece affidata al doveroso e libero dibattito parlamentare. Questo è il vulnus che tale modo di legiferare determina nell’ordinato sviluppo democratico centrato sul bilanciamento dei poteri e che è stato ed è l’asse centrale su cui la nostra Carta tesse il proprio filo. Perché di fatto – nonostante l’occhio vigile volto a far cadere le più palesi connotazioni poliziesche del provvedimento – si è azzerato un dibattito prolungato che aveva il segno di richiamare l’attenzione sul principio del limite che deve essere criterio regolatore dell’attività di governo e dello stesso potere legiferante. Qui il limite viene visto come un impaccio e per questo lo si supera forzando quello strumento che aveva costituito la lunghissima discussione nell’Assemblea costituente, protrattosi per più mesi, proprio per i rischi che si intravedevano. Anche molto inferiori a quelli che la realtà ci sta presentando. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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misure repressive
Adolescence
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza, soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata di Marco Sommariva* In un articolo di Stefania Garassini pubblicato qualche giorno fa su Avvenire, leggo che Adolescence – la miniserie tv britannica che affronta il tema della violenza tra i teenager, appena uscita e già la più vista sulla piattaforma Netflix – conta “quattro episodi girati tutti in tempo reale (un’ora circa di durata corrisponde esattamente a un’ora di vicenda narrata) e con inquadrature continue che seguono i personaggi in ogni loro movimento con l’effetto di immergere completamente lo spettatore nella storia, evitando di dare alcun giudizio su quanto accade”. Adolescence è la storia dello sconvolgimento di una famiglia quando il figlio tredicenne, Jamie, viene arrestato per l’omicidio di una sua coetanea, compagna di scuola. Stefania Garassini prosegue spiegandoci che “sono diversi e tutti cruciali i temi che la serie affronta, dal bullismo, alle dinamiche tossiche all’interno dei social media, all’incomunicabilità tra genitori e figli. Un oceano di dolore che lambisce le vite di tutti i personaggi, senza che sia possibile identificare con certezza un colpevole per il disastro cui si assiste. […] Adolescence invita ad allargare lo sguardo su un mondo adulto che non sembra avere più gli strumenti per capire quanto sta accadendo nelle menti e nei cuori dei propri figli, troppo spesso soli, totalmente immersi nel mondo dei social, dove la derisione e la vergogna possono nascondersi anche dietro le parole e le emoji apparentemente più innocue”. Su un altro articolo pubblicato da Avvenire, questa volta a firma di Marco Pappalardo, vengono riportate le parole di una studentessa alla quale il giornalista ha chiesto un parere su Adolescence: “Non ero pronta a vedere una storia così violenta eppure così normale oggi. La necessità di sentirsi accettati non si nega e non è solo della mia generazione. Avere le proprie idee, diverse dagli altri, è difficile. Devi essere brava a scuola, educata, obbediente a casa, tra i compagni furba e vestita in un certo modo; devi piacere e condividere storie nel posto giusto. Senza uno di questi requisiti, la vita potrebbe diventare un inferno e per colpa dei social non c’è un posto dove nascondersi. Mi ha sconvolta l’incapacità del protagonista di capire che aveva un’altra scelta. Mi ha spaventato che nessuno abbia chiesto aiuto agli adulti e che essi siano così ciechi e sordi. Questa serie non dà speranze!” Nell’articolo di Pappalardo, quello sopra non è l’unico commento per bocca dei giovani; altri dicono la loro, come per esempio un certo Marco: “Il contrasto a casa riesce ad isolarci, facendoci sentire soli, impotenti uditori di liti tra adulti. Così giungono delle “consolazioni” che ci distruggono: droga, bullismo, alcool, azzardo, atti criminali. Mi fa riflettere la fragilità umana e la delicatezza dei rapporti”. Da giorni, sono tantissimi a occuparsi di questa miniserie tv di Netflix: il Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Il Mattino, Il Fatto Quotidiano, Il Foglio, Libero, Internazionale, L’Espresso, eccetera. Oltre ai due articoli già citati, Avvenire ne ha pubblicati altri su Adolescence, tra cui quello di Massimo Calvi, il quale ci fa notare che “Il vero motivo per cui tutti in questi giorni stanno parlando di Adolescence […] non risiede probabilmente nella sua elevata qualità di regia e recitazione, e nemmeno nella complessità del tema affrontato, aspetti che in ogni caso ne stanno decretando uno straordinario successo. La ragione più profonda che tiene sulla bocca di tanti la storia del giovane Jamie è legata al fatto che dopo aver visto la serie per intero si manifesta pressante il bisogno di parlarne. Perché è necessario liberarsi di qualcosa, trovare il modo di espellere il disagio condividendolo, superare il trauma attraverso le parole e lo scambio. Adolescence è sì un pugno nello stomaco, come in tanti hanno rilevato – o meglio, sono quattro cazzotti, quante le puntate della serie – ma è soprattutto una forma di abuso, un racconto talmente disturbante per un genitore da richiedere di essere elaborato il prima possibile”. Ora, anche giustamente, qualcuno di voi s’aspetterà una mia disamina su Adolescence così che anch’io possa liberarmi di qualcosa, trovare il modo di espellere un disagio, superare un trauma attraverso la scrittura di un articolo. No. La mia disamina sarà leggermente diversa, verterà sull’adolescenza di altre epoche cui fanno cenno alcuni scrittori e scrittrici a me cari, anche per capire se, in passato, tutto filava liscio o meno; quindi, tranquilli, non si parlerà della mia adolescenza o di quella “dei miei tempi”. Intanto, inizierei col dire che sono d’accordo con Laura Pariani quando nella sua raccolta di racconti Il pettine, scrive che “L’adolescenza è una brutta età. […] come un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare di afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo che mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci e di coloro che sono destinati a riceverti…” In Autunno tedesco, Stig Dagerman scrive della Germania dell’immediato dopoguerra, quella del 1946, e dei giovani ci racconta questo: “I ventenni gironzolano per le stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza avere un treno o qualcosa d’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli, disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto in compagnia di negri ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino […]. Hanno conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto”. Mi verrebbe da dire che gli adolescenti d’oggi hanno perso tutto senza, prima, aver mai conquistato nulla, ma forse la faccio troppo semplice, e allora mi limito a scrivere che questi disperati tentativi di furto da parte di adolescenti e queste ragazzine brille che si attaccano al collo di qualcuno, mi ricordano un po’ troppo da vicino i nostri figli; fosse così, significherebbe che siamo riusciti a devastarli come fossero usciti da una guerra mondiale. Nel libro Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa, si racconta la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo profughi di Jenin: “[…] il corpo di Jolanta era stato devastato dai nazisti, che l’avevano costretta a dare gli ultimi anni della sua adolescenza in pasto agli appetiti sessuali delle SS. Quell’incubo le aveva salvato la vita ma l’aveva resa sterile. Avendo perso ogni membro della sua famiglia nei campi di sterminio, Jolanta si era imbarcata da sola per la Palestina alla fine della Seconda guerra mondiale. Non sapeva nulla della Palestina né dei palestinesi, seguiva solo il richiamo del sionismo e le lussureggianti promesse di una terra di latte e miele. Voleva un rifugio. Voleva fuggire dai ricordi di tedeschi sudati che contaminavano il suo corpo, dai ricordi di fame, dai ricordi di depravazione. Voleva fuggire dalle urla di morte che popolavano i suoi sogni, dalle canzoni ormai spente di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle sorelle, dalle grida senza fine degli ebrei agonizzanti”. Non sarà che i nostri figli vorrebbero “semplicemente” scappare dalle urla di morte che popolano i loro sogni, dalle grida di chi agonizza in questi nostri tempi in cui la ricchezza dei miliardari è cresciuta nel 2024 di duemila miliardi di dollari, tre volte più velocemente del 2023, mentre tre miliardi e mezzo di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno?  Non solo, non è che i nostri figli vengono devastati sempre più spesso dagli appetiti sessuali degli adulti o si devastano vicendevolmente pensandosi protagonisti di quei video pornografici da cui si fatica a star distanti e che nessuno ha insegnato loro a studiare, analizzare, verificare, decifrare? Tra il 1963 e il 1966, Jim Carroll – poeta e musicista – racconta in un diario gli anni della sua adolescenza, scritti che poi diventeranno il libro culto Jim entra nel campo di basket. Quando uscì negli Stati Uniti, rappresentò un caso letterario, suscitando l’entusiasmo di Jack Kerouac; racconta la vita on the road di un ragazzino straordinariamente intelligente, un libro autobiografico, un racconto fedele della sua adolescenza segnata da una precoce dipendenza dall’eroina e dall’esperienza della prostituzione: “Poi ci siamo noialtri ragazzi di strada che cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e crediamo di poter tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine. Funziona raramente. Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di controllo, finisco nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che passare tutta la giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene tutto, ragazzi. Non ci sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui correre. Sai quando ci sei dentro definitivamente perché è la volta che svegliandoti la mattina te lo dici chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o mi trovo la mia dose o finisco a farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono cazzi”. Non so dalle vostre parti cosa stia succedendo, ma qui, dalle mie – a Genova – lo spaccio di stupefacenti è così diffuso che il più conosciuto quotidiano locale, ha dedicato ultimamente numerosi articoli “all’inferno del crack nel Centro città” e, credetemi, sono tantissimi i ragazzi che si alzano da letto decisi a qualsiasi cosa, anche a farsi “spaccare” pur di avere la propria dose giornaliera; fosse così, significherebbe che siamo riusciti a bucarli, intossicarli, stordirli e mortificarli come certi ragazzi eroinomani newyorkesi dei primi anni Sessanta, e senza neppure aver la consolazione di ritrovarli ostili alle mode e alle comparsate televisive come lo era Jim Carroll, appunto. Nel 1967 viene pubblicato Ora d’aria, la storia di un gruppo di detenuti in un carcere statunitense dove la vita scorre senza tempo: qualcuno è arrivato da poco, qualcuno è dietro le sbarre da anni, qualcuno ci resterà per sempre. Il carcere descritto da Malcolm Braly, l’autore, è un mondo straordinariamente simile a ciò che sta fuori, capace di farci comprendere che tutti, sotto certi aspetti, siamo prigionieri delle nostre esistenze. Braly, abbandonato dai genitori ancora bambino, si dedicherà fin dall’adolescenza a piccole attività criminali, perlopiù rapine, che lo porteranno presto in riformatorio; dei suoi primi quarant’anni, diciassette li trascorrerà nelle più dure prigioni americane: “Si svegliò. Mentre la sensazione del sogno scivolava via, lui ne riconobbe i contorni adolescenziali e gli venne un desiderio nostalgico per quel mondo perduto, le cui aspettative troppo alte avevano avvelenato la sua vita di adulto quando ne aveva scoperto il grigiore”. E forse qui troviamo un altro aspetto su cui bisognerebbe fermarsi a ragionare un bel po’: le aspettative troppo alte di quel mondo adolescenziale che avvelenano la vita adulta quando se ne scopre il grigiore. Chi genera queste aspettative troppo alte? I genitori? Magari per provare a rifarsi dei propri fallimenti? Magari nel tentativo di “perfezionare” i figli senza rendersi conto che, invece, questa loro deleteria ricerca di perfezione distruggerà i ragazzi? O certe ideologie? Magari quelle che ti promettono ricchezza e benessere se competi contro tutto e tutti e in continuazione? O forse è lo stato? Magari con le sue promesse di sconfiggere nemici, conquistare terre, anche fosse “solo” occupandole culturalmente? Riprendo la frase di Laura Pariani – “L’adolescenza è una brutta età. […] come un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare di afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo che mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci e di coloro che sono destinati a riceverti…” – e mi domando se, noi che di questi adolescenti siamo genitori zii nonni e insegnanti, siamo attendibili o se siamo soltanto corpi che attraversano i giorni con modalità talmente anonima e passiva da garantire agli altri un minimo di credibilità unicamente quando viene pubblicato il nostro necrologio, o se magari la nostra affidabilità l’abbiamo esaurita perché interamente impegnata nel soddisfare il nostro bisogno di far sapere al mondo intero ogni cosa noi si pensi e si faccia postando tutti i nostri palpiti, o se siamo così presi a dispiacerci per i figli adolescenti e per chiunque altro esclusivamente per ignorare noi stessi, la nostra inattendibilità. L’adolescenza è l’unico periodo della vita in cui non si è sopraffatti dalla nostra adolescenza, è un santuario dove alcuni trascorrono tutto il loro tempo anche mentre i capelli s’ingrigiscono. Forse perché è quel periodo della vita tanto bello quanto tormentato, in cui l’innocenza dell’infanzia non è ancora stata contaminata dall’età adulta e si riesce ancora a immaginare un futuro a colori. Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza, soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Pedagogia sicuritaria e istituzione scolastica
Lo stato della propaganda e la propaganda di stato. Isernia: un caso emblematico di Alessandro Ugo Imbriglia Lo scorso 25 marzo, il sindacato autonomo di polizia ha ricevuto, nella città di Isernia, gli studenti dei tre istituti di scuola superiore della città, per celebrare – nei modi in cui si conviene – il suo decimo congresso provinciale. Il quotidiano Primo Piano Molise ha estratto alcune fra le considerazioni più significative dei promotori e degli invitati. Commentiamone alcune. La segretaria provinciale del sindacato autonomo di polizia, Sonia Iacovone, ha affermato: «Questo incontro è stato fortemente voluto dal Sap. Abbiamo coinvolto i ragazzi per dare una prospettiva diversa a questa giornata. Vogliamo partire dalle loro curiosità, dai loro dubbi, dai loro punti di vista, per capire meglio il concetto di sicurezza, per capire come loro vedano la legalità, ma anche il ruolo delle forze dell’ordine. Insomma, vogliamo riflettere su questi valori, che sono fondamentali per la nostra società». Dall’estratto emerge un’evidente puntualizzazione, che è probabilmente la più significativa: «vogliamo riflettere su questi valori, che sono fondamentali per la nostra società». Sicurezza e legalità sono dunque annessi al rango di valore, di concetti–valore. Ciò cosa significa? Quando un significante assurge a valore esprime, su un piano semantico, il massimo grado di generalità: poste in questo ordine, legalità e sicurezza devono apparire, in seno alla propaganda, come idee “increate”. Esse sono collocate, all’interno del discorso di stato, per essere recepite come tali, dunque inamovibili, in una posizione che dovrà essere intesa e assimilata come elemento permanente rispetto alle sue modalità di applicazione e agli effetti che ad esse conseguiranno. Un concetto-valore, espresso nei termini succitati, attribuisce a sé stesso una grande forza generativa, poiché compare, anzitutto, come elemento inderivato: prima di esso non v’è nulla, nulla da cui possa dipendere o da cui possa conseguire. Per tal motivo si appone al sostantivo “valore” un attributo ovvio, ad esso implicito, qual è il termine “fondamentale”. La legalità deve essere concepita come fondamento primo, come basamento. È essa stessa a costituire, sia sul piano concettuale, sia sul piano fattuale, la fonte unica e originaria di potenziali effetti, conseguenze e derivazioni. Poste in questi termini, sembra che alla legalità e alla sicurezza non preesista una forza, una fonte che, sul piano anzitutto dell’idea, sia in grado di stabilirne e contenerne la dimensione semantica, la posizione sintattica e la funzione operativa. Ecco che allora “il ruolo delle forze di polizia” assume, nell’ordine del discorso, una configurazione autolegittimante, poiché si manifesta come immediata espressione dei concetti-valore, quali sembrano essere la legalità e la sicurezza. In quest’ottica l’eurodeputato Aldo Patriciello ha espresso le seguenti considerazioni: «Gli agenti di polizia sono il baluardo della democrazia e soprattutto sono per noi un punto di riferimento per rappresentare la presenza dello stato. Questa iniziativa mira dunque a riconoscere alle forze di polizia e al sindacato di polizia quel lavoro silenzioso, costante che fanno quotidianamente a difesa della democrazia e soprattutto a difesa dei cittadini».  Questa costruzione di significati presenta quantomeno delle aporie: in un’entità statuale, la funzione strategica delle forze polizia consiste – sia sul piano operativo, sia sul piano simbolico – nell’imposizione e nel consolidamento di un principio weberiano: l’utilizzo della forza fisica – l’utilizzo della violenza – è monopolio incondizionato dello stato. Lo stato detiene l’indiscutibile monopolio della forza fisica. Questa è la priorità strategica di un corpo di polizia, in quanto derivazione di uno o più apparati di potere. Essa è tenuta a ribadire e conservare – nella propria funzione simbolica e operativa – tale principio. L’obiettivo delle forze di polizia non consiste certamente nella “difesa della democrazia”, bensì nella tutela di un sistema di apparati – istituzionali, politici ed economici – annessi e connessi allo stato. A riguardo, ciò che è possibile osservare come “difesa dei cittadini” è solo uno dei molteplici effetti – delle funzioni derivate, secondarie – prodotti dal perseguimento dell’obiettivo strategico di cui sopra. In realtà, la “difesa della democrazia” può essere detenuta, e legittimamente ambita, dai cittadini. E sono i cittadini ricompresi in specifiche classi, quelle subalterne, a costituire un elemento nevralgico nella difesa di ciò che intendiamo con il termine democrazia. Dunque a cosa assistiamo? Il potere, che in tal caso corrisponde immediatamente allo Stato, eleva degli indicatori – dei fattori circoscrivibili e misurabili quali sono la legalità e la sicurezza – al grado di valore-concetto. È un’operazione di astrazione, con la quale si idealizza uno specifico stato delle cose e/o un obiettivo strategico. Tale operazione mira anzitutto a produrre un immaginario o a colonizzarne uno già esistente; il suo fine ultimo, invece, può essere individuato nella costruzione del consenso, o – in maniera più sottile – nella produzione delle condizioni meno favorevoli all’emersione del dissenso. La mistificazione consiste per l’appunto in una sorta di rovesciamento, che è prima sintattico e poi sociologico: in una condizione di effettiva democraticità, legalità e sicurezza sarebbero concepiti e adoperati come due semplici variabili, due categorie descrittive che misurano, in termini qualitativi e quantitativi, un oggetto dell’indagine, uno fra i numerosi oggetti empirici di cui può disporre un campo di ricerca, come la qualità e la quantità di specifiche condotte criminose, o, più precisamente, la corrispondenza fra precise condotte e le tipologie di reato codificate dal diritto. Detto ciò, l’oggetto empirico – l’adozione di una condotta legale o illegale, ad esempio – si conferma, il più delle volte, come un effetto, una conseguenza. Esso ha poco o nulla a che vedere con la valenza “pedagogica” del binomio legalità/sicurezza o con l’adesione a tali concetti-valore.  Al contrario, l’adozione di una condotta “illegale” può scaturire dalla convergenza di molteplici fattori, quindi dell’azione, più o meno congiunta, di molteplici fenomeni. Sulla base dell’impatto o dell’andamento che tali fenomeni registrano in un dato contesto sociale potrà derivare, invero, una specifica condizione di legalità/illegalità o sicurezza/insicurezza, né più né meno. Riflettiamo. In un dato luogo, a partire da specifiche condizioni socio-economiche – tasso di occupazione; livello di produttività; qualità delle condizioni contrattuali etc. – si potrebbe registrare un determinato “grado” di legalità e sicurezza, non certo il contrario. La penuria materiale, il logoramento progressivo e costante delle condizioni di vita possono spingere, o costringere, coloro che versano in tali condizioni ad adottare condotte che violino il principio di legalità. Si tratterebbe, in molti casi, di stratagemmi o espedienti per poter vivere, o sopravvivere, appena al di sopra di quella soglia che separa la dignità dall’indecenza. Al contempo, nel medesimo luogo, precise condizioni socio-politiche – corruzione della classe politica e dei colletti bianchi; scambio voto/lavoro; privilegi di ceto connessi a specifici esiti elettorali e rapporti economici etc. – potrebbero generare o esacerbare un forte rancore sociale. Tale risentimento, connaturato a una specifica condizione di esclusione sociale, potrebbe registrare, a sua volta, una significativa incidenza sull’emersione di molteplici condotte “devianti”, e dunque sul “grado” di illegalità e insicurezza che caratterizzano il contesto sociale considerato. In ultimo, specifiche scelte di economia pubblica e welfare – disinvestimento nell’edilizia popolare; espansione della sanità privata a discapito della sanità pubblica; gestione iniqua delle principali fonti di vita (risorse idriche ad esempio) – potrebbero generare o accrescere una concorrenza cinica, spietata, fra coloro che non hanno accesso a un reddito minimo, a una dimora stabile e a prestazioni sanitarie di base o specialistiche. Le penuria e la scarsità delle risorse alimenterebbe conflitti laceranti fra le classi subalterne, fra proletari e sottoproletari. Va da sé che in questa lotta “fratricida” – combattuta, attualmente, in molte periferie delle città italiane – possano emergere condotte criminose. In definitiva, tutte le variabili e le dinamiche passate in rassegna possono co-determinare specifici livelli di legalità e sicurezza. Legalità e sicurezza sono i risultati, gli effetti, di queste complesse combinazioni. Ridimensionare o escludere dal discorso fondamentali variabili di carattere economico-produttivo, sociopolitico, amministrativo-partitico e imprenditoriale, a favore di un indottrinamento alla legalità e alla sicurezza – intese come a priori, come concetti-valore che, di per sé, possono e devono essere imposti in termini pedagogici e propagandistici – non fa che certificare uno scivolamento autoritario, dalla chiara impronta mistificatoria. Lungo questo crinale si assiste dunque alla imponente e assillante generazione di un feticcio: legalità e sicurezza avrebbero, in sé, un valore intrinseco e inalienabile, in grado di garantire condotte sociali “accettabili”, ergo compatibili con quanto il diritto penale e l’esecuzione penale approvano o, per converso, deplorano. Si tratta, in tal caso, di una mistificazione ideologica, poiché il discorso rovescia, o meglio occulta, l’effettivo nesso tra cause ed effetti, elevando gli effetti – legalità e sicurezza – ad assiomi, a concetti-valore da inculcare. Tale lavorio ideologico misconosce le serie di cause e concause da cui dipendono, nei fatti, specifiche determinazioni storiche e sociali, come la forma e il grado di legalità o sicurezza in un dato luogo e in un dato momento, ad esempio. Il carattere elusivo di questa manipolazione lascia innominati una serie di significanti che uno stato realmente democratico potrebbe, e dovrebbe, elevare a concetti-valore. È il caso dell’equità, ad esempio. L’equità potrebbe essere “idealizzata” e collocata in questa posizione apicale. Un valido corollario dell’equità potrebbe essere composto dalle seguenti categorie concettuali: soddisfazione dei bisogni primari, giustizia sociale e parità dei diritti. Nel verso opposto, quando al rango di concetti-valore sono collocati la legalità e la sicurezza, giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza alla forza-lavoro, riconoscimento dei diritti alle minoranze, accesso alle risorse vitali (acqua, cibo, casa) subiscono, il più delle volte, effetti regressivi. Retrocedendo, divengono fattori opzionali, e in quanto tali sono facilmente eliminabili, giacché l’operazione ideologica dello stato sovrastima, indefinitamente, l’incidenza positiva che i valori-concetto di legalità e sicurezza avranno sulle condotte individuali e collettive. Tale pedagogia è imposta sulla base di una subdola e malcelata consapevolezza: sono specifiche logiche di mercato, condizioni economiche, sociali e politiche che, in verità, producono, in misura differente ma combinata, determinate condotte legali o illegali. In spregio a tali evidenze, legalità e sicurezza sono altresì ricostituite come un valore-concetto dal segno esclusivamente positivo. Ad oggi è altamente improbabile che tale segno possa essere messo in discussione, a meno che non siano le classi subalterne a riqualificare la collocazione, l’incidenza e la funzione dei termini “legalità” e “sicurezza”. In conclusione, cosa suggerisce tutto ciò? La legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni altra cosa. È da manuale lo slogan adottato dal sindacato autonomo di polizia e dalla dirigente scolastica dell’Isis Fermi-Mattei di Isernia. È un messaggio che arriva immediatamente alla pancia, che sollecita un primitivo bisogno di autoconservazione. Nel binomio legalità/sicurezza, il primo termine è assorbito dal secondo, in una voragine di pulsione sicuritaria. Slogan di questo genere sono il peggior veleno per la democrazia, poiché parlano al nostro istinto e dunque trovano una prima, istantanea, accoglienza: tutti siamo spaventati dalla mancanza di sicurezza, e una promessa sicuritaria, istintivamente, ci rassicura. Ma in questo modo il corpo della democrazia assimila gradualmente uno spirito che gli è contrario, e questo spirito, lentamente, la corrompe, la svuota dall’interno, come il più letale dei mali. Non è vero che la legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni altra cosa. Non è questa la democrazia. Non è questo lo stato di diritto. Se per legalità si intende il rispetto della legge, in un’effettiva democrazia esso non è l’elemento, il valore-concetto, che precede ogni altra cosa: una legge è sempre e solo la volontà espressa dalla maggioranza; la democrazia non dovrebbe essere il regime in cui comanda la maggioranza, ma quello in cui sono tutelate le minoranze. Nel gioco delle parti, la legge è sì espressione della volontà della maggioranza, ma essa non può negare i princìpi della dignità della persona e i suoi corollari, così come fissati nell’assiologia costituzionale. Dunque non è il rispetto della legge – la legalità – a precedere ogni altra cosa, ma il rispetto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fissati in Costituzione. Quanto all’altro polo dello slogan – la sicurezza –, sì, certo, la sicurezza costituisce una priorità, ma occorre essere cauti: la sicurezza non può essere ridotta alla mera tutela dell’integrità fisica delle persone; quest’ultima dimensione ne costituisce certamente una misura minima, ma non esclusiva. Del resto, tale sicurezza potrebbe essere garantita anche in un regime autoritario, in un regime oppressivo. Si può essere “sicurissimi”, sotto questo punto di vista, anche in un regime di privazione assoluta della libertà. La sicurezza cui mira la nostra democrazia è invece un’altra cosa; essa è la sicurezza sociale a cui si riferisce l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». E di questa sicurezza chi ne parla più? È forse il caso di sottoporre tale quesito al sindaco di Isernia, Piero Castrataro, così che possa riflettere sull’assennatezza e sulla validità delle proprie riflessioni. Secondo il primo cittadino di Isernia è stata «una scelta vincente quella di coinvolgere gli studenti dei tre istituti superiori della città» nella celebrazione del decimo congresso provinciale del sindacato autonomo di polizia.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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misure repressive
Poteve Opevaio. Fantozzi e l’astrazione kafkiana del padrone
Mentre non è ancora morto il Poteve Opevaio, schiere di sfruttati continuano a prendere il bus al volo di Marco Sommariva da Carmilla Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di color correction. Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio scrive per “L’Europeo”, un settimanale d’attualità edito da Rizzoli pubblicato sino al 2013; diventerà un libro nel 1971, quando lo stesso editore del settimanale gli proporrà di raccogliere queste storie in volume. Nella premessa del libro datata luglio 1971, l’attore genovese scrive: “Con Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi. Nel suo mondo il padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società, il mondo. E di questa struttura lui ha paura sempre e comunque perché sa che è una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai abbastanza. Questo per lo meno qui da noi. Ma questo rischia di diventare un discorso politico troppo serio per uno «scherzo» quale deve essere tutta questa faccenda del «libro» e mi fermo qui”. Era ed è sì un discorso politico: lo era allora, quando sul viso di Fantozzi ritrovavamo tutte le sconfitte dell’impiegato medio italiano, non una caricatura, ma una discarica pubblica dove ci si alleggeriva tutti, in cui si evacuavano le risate amare che le nostre facce da culo producevano guardando le genuflessioni del Ragionier Ugo davanti allo stesso Megadirettore Galattico che ci aspettava l’indomani in ufficio, al quale rispondevamo “faccio subito” intanto che speravamo che qualcuno gli sparasse nelle gambe; lo è al giorno d’oggi, mentre una struttura-società che non ha bisogno di noi e non ci difenderà mai abbastanza, ci sta sfruttando con quella viscida delicatezza che cinquant’anni fa ancora non esisteva, che prevede di non prenderci a manganellate perché, con gli anni, è stata capace di convincerci che dobbiamo essere noi a manganellare i nostri pari che non seguono le direttive dei potenti – non a caso, nella stessa premessa l’autore ci consiglia coi potenti “di essere vischiosi, servili e sempre d’accordo anche su posizioni «fasciste»”, un po’ come certi conduttori televisivi che da decenni non riusciamo a scollarceli di dosso, regnanti indiscussi di squallidi studi televisivi consacrati alle celebrazioni del regime. Sul manganellare i nostri pari, Villaggio aveva capito che era un processo già iniziato: “[…] la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un bicchiere di vino ristoratore. Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce all’uomo degli ultimi centovent’anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c’erano moltissimi impiegati ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti”. A differenza dei tanti comici che proliferano nei numerosi spettacoli d’oggi creati apposta per far ridere il pubblico e che sempre più raramente raggiungono l’obiettivo, Villaggio non ci parla di una zona dell’Italia – siciliani o calabresi “contro” milanesi, nordisti “contro” sudisti, apologie del romanesco, napoletano, toscano, eccetera – non ci parla di uomini “contro” donne e viceversa – i primi che sporcano di pipì la seduta del water, le seconde che sono intrattabili in “quei giorni” – no, Villaggio non ha alcuna intenzione di anestetizzarci con queste fesserie che fingiamo di credere esistere ancora ridendo fintamente a crepapelle perché intorno a noi altri fanno la stessa cosa, no, Villaggio ci parla dell’autobus preso al volo perché cinquant’anni fa si provava a dormire sino all’ultimo minuto dopo giornate snervanti già allora per la mancanza di senso, che mi ricordano molto da vicino la vita che fanno certe dipendenti della cooperativa che ha in appalto la pulizia degli uffici dove lavoro che, stremate dalla giornata lavorativa precedente, alle cinque del mattino prendono al volo il primo di tre autobus che, dopo un’ora e mezza di viaggio, le porterà a svuotarmi nuovamente il cestino chiedendomi scusa per il disturbo, e il tutto per un pugno di euro all’ora, lo stesso che a volte mi capita di dare in elemosina a Yassir, il ragazzo bengalese che mi riporta a posto il carrello vuoto, dopo che ho riempito l’auto coi sacchetti della spesa, situazione che a volte mi fa sentire come il Megadirettore Galattico Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam, il Direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani o un altro qualsiasi feroce padrone o amministratore delegato: è un attimo saltare dall’altra parte della barricata senza neppure accorgersene. Se è vero che 1984 di Orwell fu un romanzo premonitore, vedete se vi dice qualcosa dei nostri giorni questo estratto del libro Fantozzi: “Cominciò […] una discussione tra giovani sulla contestazione studentesca e l’intervento americano in Vietnam. Fantozzi credeva di essere nel covo della reazione: ma con suo grande stupore s’accorse che più quei gran signori erano bardati con orologi Cartier e brillanti (con uno solo dei quali lui avrebbe vissuto senza patemi il resto dei suoi giorni) più erano su posizioni maoiste. La maggior parte, giudicò Fantozzi, era a sinistra del partito comunista cinese. […] L’indomani mattina lui “timbrava” alle 8: pensando a quei giovani sovversivi che si sarebbero svegliati a mezzogiorno, gli si confondevano le idee”. Questo è Fantozzi; Villaggio, invece, nella biografia in quarta di copertina della seconda edizione del libro, datata 1981, si definisce “figlio di padre ricchissimo” e per questo “a sinistra del partito comunista cinese”, non solo, sostiene che “a Roma ha fondato con un gruppo di nobili una frangia politica di estrema sinistra molto “in” che si chiama «POTEVE OPEVAIO»”. Il libro Fantozzi era anche confortante; alla rabbia di mio padre che bestemmiava nel leggere dell’ennesima apparizione mariana a una contadina quattordicenne, piuttosto che a dei bambini impegnati a sorvegliare un gregge o a una bambina belga, il concittadino e quasi coetaneo Paolo Villaggio rispondeva così: “Un giorno c’era un tale caldo che a Fantozzi alle undici del mattino, mentre era in cucina che faceva correre un po’ d’acqua per bere, comparve improvvisamente la Madonna. Era in piedi sull’acquaio e gli sorrideva, poi scomparve. “Sarà questo maledetto caldo” si disse: e decise di raggiungere la moglie in campagna. Mentre si preparava per il viaggio si domandava perché mai la Madonna per il passato si sia limitata a comparire a pastorelli semianalfabeti e in zone montuose, e mai per esempio a Von Braun, al Centro Spaziale di Houston durante una riunione della NASA. Non ricordava infatti di aver mai letto sui giornali notizie di questo tipo: “Ieri alle 16,30 la Santa Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di “meccanica applicata alle macchine”. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è svenuto di fronte a duecento studenti”. Il libro Fantozzi è ancora confortante; alla mia rabbia condita di bestemmie che fa seguito all’ascolto di boiate pazzesche tipo quella espressa da due signore bionde col fisico scolpito che, d’estate, alla spiaggia, lamentano il “sold out” – a giugno! – nelle “location” più “in” di New York che le costringerà a trascorrere il Capodanno da un’altra parte, mentre una donna africana larga quanto le due messe assieme passa loro accanto stracarica di mercanzia che nessuno vuole, le pagine del libro mi consolano così: “A un’ora da Roma, Fantozzi andò in corridoio a fumare. C’erano due bambini molto belli biondi, figli di ricchi: tutti i figli dei ricchi sono biondi e uguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri, disuguali e sembrano scimmie. Erano dei bambini molto educati e non facevano rumore. Una baby-sitter americana bionda li custodiva. Uscirono dallo scompartimento le madri. Erano molto giovani, molto belle, molto ricche, molto profumate, molto eleganti e molto abbronzate: venivano da due mesi sulla neve a Gstaad in Svizzera e parlavano della gente che c’era lassù. Fantozzi le guardava con la bocca semiaperta. Le due donne cominciarono a parlare delle loro prossime vacanze al mare ed erano un po’ in pensiero perché non sapevano più dove andare: dovunque ormai andassero, dalla Corsica alle isole Vergini, trovavano della gente orribile. Fantozzi si commosse quasi per il dramma di quelle poverette. Il treno entrò alla stazione Termini. Sulla banchina c’era una tragica lunga fila di terremotati siciliani del Belice. Erano seduti sulle loro valigie di cartone […] e guardavano muti il vuoto. Una delle due signore disse: “E’ stato un anno davvero disgraziato!”. “Meno male” pensò Fantozzi “che si occupano di questi poveracci!”. “Perché?” domandò l’amica. E l’altra: “Perché non abbiamo mai avuto a Gstaad una neve così poco farinosa!” Perché mi consolano queste pagine? Perché avere testimonianza scritta che figure così mostruosamente stronze già esistevano più di mezzo secolo fa e che, quindi, certi orrori non sono solo frutto degli sfaceli della mia generazione, solleva un poco il morale: lo so, non sono messo bene. Perché la mia generazione, e pure quella dopo, di errori ne ha fatti veramente tanti, nonostante gli ammonimenti ricevuti da cinema e letteratura; avvertimenti che, ancor oggi, continuano a esser lanciati vista la produzione di Scissione, una serie televisiva statunitense del 2022 dove gli impiegati di una ditta non conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, sono solo schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro precluso. Allo sceneggiatore televisivo e produttore statunitense Dan Erickson, l’idea gli è stata ispirata da certe sue deprimenti esperienze lavorative giovanili maturate in ambito impiegatizio, un po’ come Paolo Villaggio quando, da giovane, lavorava all’Italsider di Genova come impiegato e iniziava a mettere in cantiere certe idee, ma per saperne di più su Scissione v’invito a leggere questo pezzo di Walter Catalano: Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli incubi di Fantozzi. Conforto, consolazione, riconoscenza, ecco quello che raccolgo dal genio di Paolo Villaggio, e non sono il solo; scriveva Oreste Del Buono nell’introduzione al libro: “L’ultima apparizione di Paolo Villaggio a cui ho assistito in televisione quasi mi ha fatto piangere per la riconoscenza. La riconoscenza per chi si sobbarca il peso di tutti i diseredati dell’aspetto e del gesto, di tutti gli umiliati e offesi dalla propria bruttezza e goffaggine, di tutti i mutilati del pensiero e della prassi, dell’affabilità e della sintassi. Si era sotto le feste di Natale, magari alla viglia stessa. Avevano chiamato Paolo Villaggio in televisione per commentare insieme natività e austerità, un miscuglio di moda nel nostro disgraziato paese”. Chi aveva invitato l’attore genovese s’aspettava da lui un po’ d’umorismo, ma sbagliò i suoi conti: Villaggio si presentò trasandato, malmostoso e, parlando con piglio truce, disse “controvoglia una sgradevolezza dopo l’altra” e prese a parlar male di se stesso, perché quello aveva da dire – Paolo Villaggio non fingeva mai. A proposito di Natale, leggete quest’altro estratto del libro Fantozzi: “A casa la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse: “Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi, nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande dignità”. Quella dignità che perdiamo quando siamo preda della sindrome da consumo; ossia, quasi sempre. Villaggio fa cenno al boom consumistico in un’intervista rilasciata alla Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!, che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma, tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale entrasse in crisi”. Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari. Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a rallentare. E se pensate che anche andare a vedere la versione di Fantozzi rimessa a nuovo faccia parte di questo circolo vizioso, quello del consumare e del vivere secondo determinati schemi, vi rispondo che andrò ugualmente a vederlo lasciandovi alla vostra erre moscia e a quella cagata pazzesca de La corazzata Potëmkin. E mentre mi si azzera la salivazione per l’emozione dovuta a questa mia intransigente presa di posizione, già sento iniziare lo scroscio dei novantadue minuti di applausi che mi renderanno immortale. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
riflessioni
misure repressive
Intellettuali con l’elmetto per il nazionalismo europeo
Da Piazza del Popolo allo scontro surreale su Ventotene. È evidente il tentativo in atto, da parte di chi guida la cultura e la comunicazione mainstream, di convincere l’opinione pubblica che è giunto per tutti il momento di combattere, e forse anche morire, per difendere l’Europa, i suoi valori, la sua tradizione di pensiero di Gianmaria Nerli da l’Unità Anche questo periodo di rivolgimenti geopolitici e crisi epocali è tempo di “fenomeni morbosi”, per dirla con Gramsci. E anche oggi inedite forme di nazionalismo tornano a ridisegnare il senso e l’orizzonte del mondo. È infatti un fenomeno ormai evidente il tentativo in atto, da parte di chi guida la cultura e la comunicazione mainstream, di convincere l’opinione pubblica che è giunto per noi tutti il momento di combattere, e forse anche morire, per difendere l’Europa, i suoi valori, la sua tradizione di pensiero. Il tutto all’insegna di un ri-nato orgoglio nazionalista europeo, che accantona i sovranismi e i nazionalismi dei singoli paesi in nome dell’europeismo, ma che del nazionalismo ripropone neanche troppo velatamente le logiche e di cui riproduce le matrici psicologiche, forze indispensabili per una chiamata alle armi. Campo di battaglia di tale propaganda è l’ampio fronte di chi sente di appartenere alla cultura liberale moderata e progressista egemone in questi decenni; ovvero la maggioranza più o meno silenziosa dei nostri giorni che è ragionevolmente bisognosa di riconoscersi in qualche valore fondante dopo il vuoto lasciato da 40 anni di politiche neoliberali e di ipocrita demonizzazione delle ideologie. Mentre per la cultura di destra, nell’attuale cataclisma, è facile riconoscersi nelle radici identitarie della nazione o del credo cristiano, ed infatti rimane fuori dal target della propaganda, diverso è il discorso per chi anche a sinistra è vissuto per decenni sotto la martellante litania dei miti postmoderni della globalizzazione redentrice, della pacificante fine della storia, della religione unica del mercato. Questo ampio fronte, disorientato dall’imminente crollo del mondo in cui ancora vive, deve essere convinto che oggi la vera battaglia di civiltà sta nel difendere l’Europa e i suoi valori. E così, come in un remake holliwoodiano degli anni Dieci del Novecento, una parte sostanziosa di intellettuali, chiamiamoli mainstream, organici a questo ampio fronte sono stati ormai arruolati, come dimostra l’attivismo di Repubblica, nel promuovere un europeismo idealizzato e insieme armato, ultimo baluardo di bene in nome del quale combattere. È l’europeismo sentimentale ed eurocentrico che si è ritrovato nella manifestazione del 15 marzo lanciata non a caso da Michele Serra, un intellettuale che di mestiere scrive elzeviri. Va detto subito che lo scoglio principale di questo progetto di costruzione di un sentimento nazionalista europeo consiste nel confronto con la realtà, da qui il bisogno della propaganda. La realtà tanto dei fatti storici: alla cultura europea dobbiamo da alcuni secoli l’ideazione dello sterminio sistematico delle altre popolazioni in nome della propria superiorità, inventando il razzismo come legittimazione, imponendo il colonialismo come forma di governo e l’imperialismo come forma di sostegno all’economia; più che erede della democrazia ateniese, che, ricordiamolo en passant, si sosteneva grazie a un’economia schiavile, l’Europa assomiglia piuttosto al discendente stanco di chi ha accumulato le proprie ricchezze con la rapina e il saccheggio. Quanto alla realtà dei fatti attuali: il sentimento popolare diffuso non si riconosce nel pensiero di queste élite intellettuali, stando almeno ai recenti sondaggi che bocciano tanto il piano di riarmo di Von der Leyen che il sostegno all’Ucraina voluto dall’Ue. Come cento anni fa, quando gli intellettuali e gli studenti manifestavano per l’entrata in guerra, e contadini e operai, consci che a morire nelle trincee sarebbero andati soprattutto loro, si opponevano. Anche oggi a volere la difesa europea, e magari il ripristino della leva obbligatoria per forgiare dei veri guerrieri, sono la classe dirigente e una parte di intellettuali tra i 60 e 70 anni, non gli anonimi e impauriti cittadini che magari pensano al futuro concreto dei propri figli. Vale la pena dunque interrogarsi sulle ragioni profonde di tale nuovo arruolamento degli intellettuali alla causa del nazionalismo, e della creazione di un nuovo mito nazionalista europeo. Le polemiche sui discorsi che hanno accompagnato la manifestazione per l’Europa, e lo scontro surreale sul Manifesto di Ventotene danno alcune utili chiavi di lettura, in quanto sono entrambi sintomatici di un modo di ragionare e di fondare il pensiero teso a rimuovere o capovolgere il senso delle cose, come si fa quando si deve adattare la realtà alla narrazione che si ha in testa. L’aspetto più interessante del gran rifiuto meloniano verso l’autorità simbolica del Manifesto di Ventotene, negli ultimi anni trasformato in una sacra reliquia della religione europeista, e come tale quasi mai letto, non è il disconoscimento di quel testo evidenziandone la matrice socialista, procedimento tutto sommato legittimo da parte di chi incarna i valori di una destra non antifascista che della nazione fa un mito fondante: sta anzi nelle cose, e fortunatamente, che quel manifesto da costoro sia disprezzato. Ciò che invece è estremamente interessante è l’ampio fenomeno di indignazione con rimozione con cui l’ampio mondo liberale e progressista ha reagito. Non si contano storici, intellettuali, parlamentari, che si sono affrettati a dire che estrapolando delle citazioni si falsifica il testo, che bisogna tenere conto del contesto storico, che è frutto dell’isolamento, insomma tutte dichiarazioni per dire che parole come abolizione proprietà privata, partito rivoluzionario ecc. sono parolacce, che facevano parte dello spirito dei tempi e della reclusione, ma che quel testo, in seguito emendato nei fatti dagli stessi autori, è santo. Addirittura il Benigni addomesticato di questi tempi, ha sentito di dover dire che, sì, ci sono delle idee superate, ma l’opera dei tre eroi è fondamentale per costruire l’Europa federalista. Questo diffuso atteggiamento di giustificazione mette in luce il rimosso vero e proprio: ossia la cancellazione di ogni forma di pensiero che fuoriesce dall’ortodossia liberale oggi egemone. In questo modo, cancellando il pensiero sociale che lo ispira, non solo si rovesciano le premesse filosofiche antinazionaliste del Manifesto, ma l’uso che se ne fa è ribaltato: di quell’esperienza si prende solamente un astratto federalismo europeo, che, va ricordato, nelle premesse di quel testo era un passaggio per arrivare kantianamente all’unità politica della terra, e lo si eleva a obiettivo strategico. Ma quell’involucro federale, se è svuotato dei contenuti che portano alla pace, resta un involucro vuoto, che afferma il contrario dell’internazionalismo ispiratore: nelle premesse teoriche del Manifesto la guerra imperialista nasce dall’implosione degli stati perché le classi dei possidenti non accettano le conquiste dei ceti proletari, e che i limitati spazi della democrazia liberale d’inizio secolo diventano un pericolo perché mostrano la possibilità di raggiungere più uguaglianza e libertà per vie legali. Senza quindi questi contenuti sociali e rivoluzionari, che oggi si cerca di liquidare come residui trascurabili, il federalismo europeo millantato, trasformandosi nella rivendicazione di una superiorità per natura, è la negazione degli intenti internazionalisti dei cosiddetti padri fondatori. Allo stesso modo, già dall’iniziale vaghezza dell’appello per la manifestazione in difesa dell’Europa, senza entrare nel dettaglio dei singoli discorsi o articoli con cui si è costruita la campagna, su cui ci si potrebbe divertire a lungo mostrandone i reali contenuti di verità, si intuisce l’operazione di rovesciamento che viene orchestrata. Si chiama il popolo europeo a raccolta per stringersi unito contro la minaccia di un nemico: in primo luogo la Russia di Putin, ma anche gli Stati Uniti del traditore Trump, e magari la Cina insondabile e sorniona che se ne sta in silenzio. Questa è d’altronde la narrazione a cui ci hanno allenato. Eppure questa narrazione si basa su una falsità tanto lampante quanto pericolosa. La Russia, pur portando avanti una politica di potenza di tipo imperialistico, non assume nell’Europa un nemico, non la vuole conquistare, non ne avrebbe le capacità, e in definitiva combatte una guerra che avrebbe volentieri evitato. In sintesi, non vuole e non ha bisogno dell’Europa come nemico. È questa Europa che ha bisogno di costruire un nemico per non sgretolarsi, per non crollare, e la Russia è il candidato ideale. La manifestazione ideata dagli intellettuali mainstream serve anche a questo proposito, a creare il nemico, anche per legittimare la costruzione del mito nazionalistico dell’Europa indomita e coraggiosa. Lo potremmo chiamare, con un po’ di fantasia, la nascita dell’irredentismo europeo, il tentativo di liberare dal giogo nemico una terra che ancora non esiste nella realtà. Non esiste nella realtà, ma sì nella scommessa imbastita dalle élite, che nel tentativo di non soccombere hanno deciso che anche l’Europa, stretta tra opposti imperialismi, si deve fare impero. La speranza è che nessuno di questi intellettuali mainstream voglia morire imperiale, anche se si sente parte della élite che lotta per salvarsi. Se qualcosa di veramente memorabile ha prodotto nei secoli la cultura europea è stata la capacità creare sempre un pensiero antagonista e alternativo a quello che creava continui mostri: così è stato per il movimento operaio con lo sfruttamento capitalistico, così per il movimento anticolonialista, così per il pensiero femminista, e così via. Questa tradizione può essere ripresa, rinnovata, rinvigorita, coinvolgendo in questo lavoro di speranza anche tutti gli intellettuali che oggi si sentono smarriti e si affidano a un facile e prevedibilmente fallace nazionalismo europeo. Non è certo infatti da questa linea di pensiero eurocentrica, organica alla cultura liberale e neoliberale che ha creato il disastro in cui stiamo affondando, che possiamo aspettarci uno scarto per superare indenni e pacifici questi anni turbolenti. Da qui la rimozione operata sul Manifesto di Spinelli, Colorni e Rossi: sarà solo mettendo in discussione il sistema economico e sociale costruito dal capitalismo liberale e neoliberale che si estirperanno le ragioni della guerra, della politica di potenza, dell’imperialismo e del nazionalismo, e si affermeranno le ragioni della pace e della giustizia sociale. Forse quello di cui abbiamo bisogno è proprio quel pensiero rivoluzionario rimosso; e insieme di tutti quegli intellettuali che con un pensiero di radicale cambiamento vogliano misurarsi, per il presente e per il futuro. Ma per costruire, kantianamente, non un’Europa, bensì una Terra unita, uguale, in pace. > Caro Roberto (Vecchioni) > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
riflessioni
misure repressive
Caro Roberto (Vecchioni)
Da Samarcanda alla piazza del 15 marzo di Marco Sommariva* Non avevo ancora compiuto quattordici anni quando i miei pomeriggi venivano scanditi dal giradischi, o meglio, dai pochi vinili che avevo: all’epoca, trovare i soldi per comprarne uno non era semplice – sto parlando del ’76, ’77. Diesel di Eugenio Finardi, Burattino senza fili di Edoardo Bennato, La luna di Angelo Branduardi e Samarcanda di Roberto Vecchioni arrivarono a ruota di Umanamente uomo: il sogno di Lucio Battisti, del Volume 3° di Fabrizio De André, de La torre di Babele di Edoardo Bennato e di Elisir di Roberto Vecchioni: questi otto dischi hanno dato un’impronta indelebile all’animo di quel ragazzino che, tra le mille peripezie della Vita, è diventato l’uomo che sono, quello che oggi ha più di sessant’anni. Raccontare nel dettaglio cosa mi hanno insegnato questi otto dischi, quanto mi ha fatto crescere ogni loro canzone, quali ragionamenti la mia giovane mente è stata indotta a intraprendere, sviluppare grazie ai testi contenuti in questi long playing, sarebbe cosa lunga e, molto probabilmente, anche noiosa; nonostante tutto, vorrei provare a fare quest’analisi prendendone uno a caso: Elisir di Roberto Vecchioni, per esempio. Dal brano Un uomo navigato ho imparato che non vanno letti i giornali e i libri o ascoltati i telegiornali e i segretari di partito solo per poter ripetere come pappagalli frasi scritte o dette da altri, cercando di convincere se stessi e gli astanti che, non solo si crede fermamente in questa nostra recita, ma che l’esposizione è addirittura frutto del proprio intelletto, ragionamento; questo, secondo me, è ciò che Vecchioni mi ha insegnato col passaggio Sentirsi il migliore, il primo, il vero, il solo, e invece elencare concetti presi a nolo. Dal brano Velasquez ho imparato che bisogna sempre scrivere e lottare, e così ho sempre fatto, specie quando ho scoperto che la prima azione aiuta la seconda, e ho continuato a farlo anche quando era molto più semplice fermare la vela delle mie rotte intraprese volutamente fra i marosi della Vita e tornare in un porto sicuro che sapevo bene esserci e come trovarlo: Certe sere quanta voglia, fermare la vela e ritornare da mia moglie, e tu [Velasquez] mi dici Fatti scrivere è normale. Per te [Velasquez] bisogna sempre scrivere e lottare. Fu soprattutto lì che per me tutto cominciò, caro Roberto, con Velasquez, e per questo mondo, questo mondo da cambiare. Dal brano Le belle compagnie ho imparato che c’è qualcosa al mondo che si chiama anarchia e che occorre fare attenzione a non commettere l’errore di entrare in competizione con chi, come te, quest’idea prova a praticarla, ma anche che, in generale, non dev’essere una gara a chi è più antifascista, più “a sinistra”, più rivoluzionario o chissà che altro, specie se nel frattempo ci è sfuggito il fatto che proviamo ad avere conferma di quanto siamo belli per la nostra ribellione che spesso ci anima solo a parole senza, però, preoccuparci d’essere ancora una rotella dell’intero sistema che siamo convinti di combattere: Su, dimmi specchio delle mie brame chi è il più anarchico del reame? Dal brano A.R., iniziali di Arthur Rimbaud, ho imparato che, nel tentativo di cercare un’altra poesia, si può cambiare, persino rivoltare il senso alle parole, ma al contempo ho capito che la stessa tecnica la può utilizzare chi vuole farti credere una cosa per un’altra, chi tenta di far passare per “vincenti” concetti espressi in passato ma risultati chiaramente “perdenti” e, quindi, capisco che occorre fare attenzione a tutti questi artigiani della parola, che siano professori di scuola, preti, leader politici, parenti, giornalisti, partner, scrittori, eccetera: Ribaltare le parole, invertire il senso fino allo sputo. Da Il suonatore stanco ho imparato che si può anche dire no, che questo “no” può essere tanto deciso quanto pacifico ed elegante, e che il diniego va osato anche quando dall’altra parte c’è gente potente, capace di far male: All’alba verranno a domandarmi venti chili di riso, ma manteniamo la calma, l’importante è dirgli un no deciso. Forse li accoglierò con la vestaglia turchese, rendendo baci per le offese […] Sta di fatto, però, che quelli là giocan duro, quelli mi infilano in un muro. Da Canzone per Francesco, un testo dedicato al suo amico Francesco Guccini, ho imparato che se una volta ci si muoveva, si spendevano energie per far valere i propri diritti, oggi ci si muove per giungere a mete che altri ti hanno convinto essere importanti, movimenti di persone verso il niente, soprattutto, contro il niente: La rabbia un tempo la scandiva soltanto la locomotiva […] e contro il niente adesso parte ogni mezzora un volo charter itinerario di gran moda. Da questo testo ho anche imparato che il sedersi su un volo charter è deleterio, che invece bisognerebbe darsi da fare e pure in fretta, ma non per correre dietro ad aerei che decollano ogni mezz’ora: E noi vediamo un po’ d’alzarci, perché è l’ora, perché è tardi. Da Pani e pesci ho imparato a diffidare dalla Storia che ci insegnano, per cui ho iniziato a cercarla andando a chiedere lumi direttamente a chi aveva vissuto gli avvenimenti, e non leggendo pagine che, visto il periodo storico, potevo ricostruire e scrivere personalmente: Ad Adua si era in mille contro duecento negri però la Storia dice che ci siamo ben difesi. Ho imparato a diffidare di chi promette: I vecchi han mille mille mille maschere da giovani quando spargendo lacrime e medaglie ti promettono pani e pesci, pesci e pani. Ho imparato a diffidare di chi manda al macello gli altri, sia che si tratti di guerre sia che si tratti di lavori indegni: Ben altra morte in tanti senza batter ciglio affrontano per mantener le sedie a tutti quelli che promettono pani e pesci, pesci e pani. Ho imparato a diffidare persino di chi contesta il Potere e le sue modalità: E l’occhio del padrone a furia d’ingrassare fece ingrassare pure chi lo stava a contestare. Da Figlia ho imparato ad agitarmi, sempre, anche quando mi si diceva che era inutile tanta verve, che era meglio omologarsi, ho imparato a strillare la mia agitazione, a strillare la Vita: Sempre contro finché ti lasciano la voce, vorranno la foto col sorriso deficiente, diranno Non ti agitare che non serve a niente, e invece tu grida forte, la Vita contro la Morte. Da Pagando s’intende (Canzone degli effetti sbagliati) ho imparato che l’agitazione, la verve, il brio che, fra le tante cose, mi hanno permesso di gridare la Vita anche contro una libertà che non mi sembrava tale, erano tutti elementi che mi aiutavano a essere lucido: La rabbia mi mantiene calmo e abbasso questa libertà. Caro Roberto, credo proprio che fu soprattutto lì che tutto cominciò, fu con l’ascolto attento delle canzoni contenute nel trentatré giri Elisir che capii che serviva darsi da fare per questo mondo, questo mondo da cambiare. Caro Roberto, so che il 15 marzo scorso, durante la manifestazione «Una piazza per l’Europa», hai profferito anche questa frase: Ora […] chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico, io vi dico Socrate, vi dico Spinoza, Cartesio, vi dico Hegel, Marx, e vi dico anche Shakespeare, vi dico Cervantes, vi dico Pirandello, Manzoni, Leopardi, ma gli altri le hanno queste cose? Non considererò altri passaggi del tuo intervento, anche perché so che l’hanno già fatto in molti e, sono certo, meglio di quanto potrei riuscire io: mi limiterò a questo. Caro Roberto, chi sono “gli altri”? Per cortesia, non rispondermi: è una domanda retorica – ho paura di quello che potresti dirmi. Ti dico solo che mi hai ricordato una conoscente che ho smesso di frequentare perché così pregna di tanta ignoranza da rivelarsi pericolosa per sé e per gli altri, perché col suo “noiatri” – “noi”, in dialetto genovese – a infarcire ogni suo discorso, ha sempre sbattuto in faccia a tutti “gli altri” che noi genovesi certe cose non le diciamo, non le facciamo, neppure le pensiamo, che il male viene sempre e soltanto da “gli altri”, e con questo sbattere in faccia a chiunque il suo pedigree peraltro tutto da dimostrare, ha creato rancori, inimicizie, odii, vendette che hanno colpito specialmente la persona in questione e i suoi cari, perché dopo aver seminato gerarchie, ghetti, confini, è questo che alla fine si raccoglie: astio, dolore, guerra. Nel ’76 mai avrei immaginato che tu finissi col ricordarmi personaggi del genere. Roberto, cosa ti è successo? Una volta “gli altri” erano quelli che ti tenevano fermo tanto per parlare, ricordi? Era quando tu pensavi Ora gli dico sono anch’io fascista, ma a ogni pugno che ti arrivava dritto sulla testa, la tua paura non bastava a farti dire Basta. Ricordi? Sapessi quanto coraggio mi hanno dato queste tue parole, quando il fascismo di tante insospettabili camicie bianche mi prendeva a pugni sulla testa per schiacciare e scacciare certi miei ragionamenti e io, che sapevo mi sarebbe bastato schierarmi un minimo dalla loro parte per smetterla di soffrire, nonostante la paura che m’incuteva la violenza del nemico, perseveravo perché non accettavo di scendere da quella pianta libertaria che tu avevi fatto germogliare e che nessuna ideologia al napalm riuscirà mai a defoliare, tantomeno ad abbattere Non ti ho seguito più molto, ma so che frequenti la TV, che spesso siedi accanto a un giornalista, e spero questo non t’abbia dato alla testa: ricordi quando in Canzone per Francesco cantavi che il giornalista in fondo è un modo di campare? Nella stessa canzone dicevi che gli imbonitori sono troppi e non li fermi, e avevi ragione: nessuno ti ha fermato durante il tuo intervento in Piazza del Popolo, nessuno ti ha detto sbagli, guarda che t’inganni, quelli che hanno organizzato tutto questo hanno solo meno dubbi e meno anni. Dove sono finiti i tuoi dubbi, Roberto? Nel caso il tuo fosse stato solo un tentativo, mi permetto di consigliarti di fare attenzione a certi esperimenti perché, andando a svestirti per tornar normale, potresti non essere più in grado di distinguere cos’avevi indossato di vero e cosa di finto rischiando, così, di confondere te stesso con la barba al mento. Hai parlato di “noi” europei scegliendo, quindi, per compagnia anche portoghesi, inglesi e tanti altri uccelli da rapina come cantavi in A.R. Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato che il più grande conquistò nazione dopo nazione e che quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente e che questo signore, in fondo, aveva percorso tanta strada solo per vedere un sole disperato. Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato ai ragazzi di fare attenzione a quelli che diranno loro parole rosse come il sangue, nere come la notte, perché non è vero che la ragione sta sempre col più forte. Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo avevi già invitato a chiudere gli occhi, ma non per pensare ai “nostri” Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni e Leopardi, bensì per credere solo a quel che si vede dentro, hai invitato a chiudere gli occhi e insieme a stringere i pugni per non lasciargliela vinta neanche un momento. Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato di lasciar parlare chi dice che al mondo certe persone sono destinate a perdere sempre perché, semmai, queste continue sconfitte che il Sistema ti affibbia sono, in realtà, delle vittorie. Ammetto che potrei aver scritto un’infinità di sciocchezze sinora perché potrei aver inteso dalle parole dei tuoi testi, cose che neanche hai mai pensato, ma sarei comunque contento d’aver interpretato così certi tuoi brani: mi hanno tenuto in piedi anche quando non sapevo fossero loro a darmi forza, e in questo senso funzionano ancora benissimo. Le tue parole cantate mi hanno insegnato una marea di cose, a essere forte, a essere dolce, a essere forte senza mai dimenticare la dolcezza, a essere dolce senza mai dimenticare la forza; sarà per questo che ho sempre un fiore dentro il pugno. Caro Roberto, anche se non credo sia per te granché importante, desideravo dirti che lo scorso 15 marzo mi hai deluso molto, mi hai ricordato troppo da vicino quel conte di cui canti in Pagando s’intende (Canzone degli effetti sbagliati), quel conte che, al sommo della sua gloria, fece a pezzi la sua vita, a pezzi la memoria, a pezzi i rubinetti e il sole, e si mangiò anche il cavallo gridando Adesso so chi sono, più tardi mi ci abituerò. Per piacere Roberto, non ti ci abituare. Caro Roberto, anche se non credo sia per te granché importante, desideravo dirti che, nonostante quanto sopra, non riesco ancora a non volerti bene: forse non lo sai ma pure questo è amore.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
riflessioni
misure repressive
Signor censore
La censura è un fenomeno in crescita, molti dei libri messi al bando hanno in comune il fatto di occuparsi, anche solo indirettamente, di razzismo, questioni di genere o storia di Marco Sommariva* Nell’agosto del 2022, diversi giornali ripresero la notizia pubblicata dal quotidiano britannico The Times riguardo la cosiddetta “cancel culture”, la cultura della cancellazione, che pareva coinvolgere oltre centoquaranta università inglesi. Circa la volontà di oscurare o nascondere opere del passato ritenute incompatibili con la contemporaneità, due atenei – l’Essex e il Sussex – accettarono di parlarne col quotidiano inglese, confermando agli intervistatori d’aver eliminato alcuni titoli dall’elenco dei testi disponibili per gli studenti. Fra i libri banditi c’erano, per esempio, La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, Oliver Twist di Charles Dickens (perché contiene “abusi sui minori”), oltre a testi di Jane Austen, Charlotte Brontë, Agatha Christie e molti altri. Due anni dopo, nel settembre del 2024, grazie a una denuncia di PEN America – organizzazione non-profit dedicata alla libertà di espressione – venivamo a sapere  che il numero di libri messi al bando nelle scuole pubbliche americane s’era triplicato in un anno passando dai 3.362 titoli del 2023 agli oltre 10.000 del 2024; tra quelli vietati, c’era anche “Radici” di Alex Haley, un romanzo che ripercorre la storia di un ramo della famiglia dell’autore che, dal Gambia, fu deportato in America e fatto schiavo. Nei giorni scorsi, invece, Giovanni De Mauro scriveva sul settimanale Internazionale che tra le decisioni più recenti della nuova amministrazione di Donald Trump c’è l’annuncio della messa al bando di Freckleface strawberry, un romanzo per bambini e bambine, la storia di una ragazza che non ama le sue lentiggini ma impara a conviverci: il libro è stato vietato nelle scuole gestite dal ministero della difesa frequentate da ventimila alunni in tutto il paese, perché è “collegato all’ideologia di genere”. Non solo, nello stesso pezzo ci viene spiegato che negli Stati Uniti la censura può avvenire a tre livelli: locale, in un distretto scolastico che fa circolare una lista di libri a cui i genitori si sono opposti; statale, quando un governatore decide di vietare alcuni libri; oppure a livello federale, come nel caso di Freckleface strawberry. De Mauro scrive che il fenomeno è in crescita e che molti dei libri messi al bando hanno in comune il fatto di occuparsi, anche solo indirettamente, di razzismo, questioni di genere o storia; non solo, riprende la denuncia di PEN America citando alcuni titoli dei 10.046 vietati: L’occhio più azzurro di Toni Morrison, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Il mondo nuovo di Aldous Huxley, Maus di Art Spiegelman, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood e la saga di Twilight di Stephenie Meyer. Detto che – come ricorda Esther Cyna , docente universitaria di storia – negli Stati Uniti “la censura c’è sempre stata, in particolare quando al potere ci sono i repubblicani, ma questa volta è senza precedenti in termini di quantità di libri censurati e di velocità con cui tutto succede”, visto che dei sei titoli citati sul pezzo di Internazionale ne ho letti la metà, ho provato a riprenderli in mano cercando di capire cosa può aver “spaventato” chi sta al potere. Il buio oltre la siepe di Harper Lee, edito nel 1960, è ambientato in una tranquilla cittadina del profondo Sud degli Stati Uniti, dove l’onesto avvocato Atticus Finch è incaricato della difesa d’ufficio di Tom, un bracciante negro – sì, è proprio riportato così nella sinossi della quarta di copertina di un’edizione Feltrinelli del 2011, “negro” – ingiustamente accusato di violenza carnale; la vicenda è raccontata dalla piccola Scout (sei anni), figlia dell’avvocato, mentre rivive il suo mondo, quello dell’infanzia. Finch riuscirà a dimostrare l’assenza di prove a carico dell’imputato e, in modo incontrovertibile, che la violenza subita dalla donna è opera del crudele e ignorante padre – malgrado questo, la giuria condannerà ugualmente Tom che verrà incarcerato. Nonostante mi sia impossibile calarmi nei panni di qualsiasi censore, ho cercato le mie note e sottolineature di quando avevo letto il romanzo della Lee e ho provato a immaginare cos’altro, oltre all’evidente ingiustizia narrata, poteva aver “spaventato” il potere, e così ho raccolto questi passaggi: “Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?” “[…] a volte fa più male la Bibbia in mano a un uomo qualunque che una bottiglia di whisky in mano a… a tuo padre, per esempio. […] Ci sono degli uomini… che si preoccupano tanto dell’altro mondo da non imparare mai a vivere in questo”. “Non è una buona ragione non cercare di vincere per il semplice fatto che si è battuti in partenza”. “[…] non è mai una vergogna sentirsi buttare addosso una parolaccia. Dimostra soltanto quanto sia meschina la persona che te la dice: a te non può fare alcun male”. “Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda”. “C’è qualcosa nel nostro mondo che fa perdere la testa alla gente: non riescono a essere giusti neanche quando lo vogliono”. Il mondo nuovo di Aldous Huxley, edito nel 1932, è ambientato in un immaginario stato totalitario del futuro, pianificato nel nome del razionalismo produttivistico, dove tutto è sacrificabile a un malinteso mito del progresso. I cittadini di questa società, concepiti e prodotti industrialmente in provetta, durante l’infanzia vengono condizionati con la tecnologia e con le droghe. Premesso che il libro è un documento inquietante che costringe a riflettere sul prezzo che quotidianamente siamo chiamati a pagare per costruire il futuro e che questo avvertimento ai lettori non può di certo lasciar tranquilli chi ha in mano il potere, anche in questo caso ho provato a raccogliere dal testo sei frasi capaci di disturbare il sonno di tutti i Trump e i Musk del mondo: “Le primule e i paesaggi […] hanno un grave difetto: sono gratuiti. L’amore per la natura non fa lavorare le fabbriche”. “Coloro che si sentono disprezzati fanno bene ad assumere un’aria sprezzante”. “Ognuno, uomo, donna e fanciullo, fu costretto a consumare tanto per anno. Nell’interesse dell’industria. […] È meglio buttare che aggiustare. Più sono i rammendi e minore è il benessere”. “Preferisco essere me stesso. Me stesso e antipatico. Non qualcun altro, per quanto allegro”. “Si credono le cose perché si è stati condizionati a crederle. […] La gente crede in Dio perché è stata condizionata a credere in Dio”. “[…] è il vostro sistema: sbarazzarsi di tutto ciò che non è gradito, invece di imparare a sopportarlo”. Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, edito nel 1985, è ambientato in un mondo devastato dalle radiazioni atomiche dove gli Stati Uniti sono diventati uno stato totalitario e teocratico basato sul controllo del corpo femminile, che priva le donne di qualsiasi potere; questo regime è fondato sullo sfruttamento delle cosiddette ancelle, le uniche che dopo la catastrofe sono ancora in grado di procreare. Eccovi i sei estratti “spaventevoli” che ho scelto: “Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà”. “Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente moriresti bollito senza nemmeno accorgertene”. “C’è sempre qualcosa per tenere occupata la mente desiderosa di conoscenza”. “[…] per istituire un sistema totalitario efficace o invero un qualsiasi sistema, è necessario offrire qualche beneficio e qualche libertà, almeno a pochi privilegiati, in cambio di ciò che viene loro tolto”. “Quando il potere è scarso, averne anche solo un poco costituisce una tentazione”. “[…] il passato è un grande spazio buio, colmo di echi. Le voci che raggiungono di lì sono intrise dell’oscurità della matrice da cui provengono e, per quanto ci si provi, non sempre possiamo decifrarle con esattezza alla luce più chiara del nostro tempo”. Alla fine di questi miei ripassi, mi è più chiaro il perché il potere vieta questi titoli. Sono contento che il libro spaventi ancora così tanto anche perché, nonostante i mille divieti e incendi a cui è stato sottoposto nella sua storia, è forse l’unico oggetto capace, anche a distanza di secoli, di contrastare il potere. A tutti i Trump e i Musk dell’universo, dedico un brano che ho iniziato ad ascoltare quando non avevo ancora compiuto tredici anni; è Signor censore di Edoardo Bennato che, fra le varie cose, dice anche: “Signor Censore, tu stai facendo un bel lavoro/la tua teoria è che il silenzio è d’oro/prima fai un ghetto poi lo nascondi con un muro/e così mentre la gente continua a emigrare/tu sfogli i libri e passi il tempo a cancellare/le frasi sconce e qualche nudo un po’ volgare”. Mi sa che, oltre ai libri, il potere dovrà sbrigarsi a censurare anche le canzoni. E poi il teatro, e poi… non so, credo ci sia un lavoro enorme ad attenderli: chiedessero ai talebani.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
riflessioni
misure repressive
Difesa-difensiva per la pace contro le lobby che producono le guerre
Come ha suggerito Alain Joxe, uno dei più grandi sociologi degli affari e delle strategie militari, la difesa-difensiva è l’unica prospettiva legittima dal punto di vista del rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani e della lotta coerente per la pace. L’Europa sognata dai padri della sua idea non può che essere quella di questa strategia e del divieto di ogni armamento offensivo. E’ urgente rilanciare la Resistenza per la pace di Salvatore Palidda Di fronte al delirio, per non dire alle idee degne di criminali di guerra, che in questo momento sembrano essere adottate dai leader europei, è più che mai necessario ricordare i suggerimenti di Alain Joxe, che aveva imparato i principi di strategia dal generale Beaufre, anche dal generale Poirier e anche da suo padre, Louis Joxe, gollisti coerenti che nutrivano un grande rispetto per i comunisti e i socialisti e per l’URSS, principale vincitrice del nazismo. Direttore degli studi all’EHESS di Parigi, Alain Joxe ha dedicato tutta la sua vita di ricercatore ha dedicato tutta la sua vita di ricerca allo sviluppo di una teoria strategica per la pace (nel 1981, ha partecipato alla creazione del Comitato per il disarmo nucleare in Europa, è stato membro del comitato di patrocinio del tribunale Russell per la Palestina e ha formato numerosi ricercatori francesi e stranieri, pubblicando, tra l’altro, decine di opere in diverse lingue). Ricordiamo che il generale Lucien Poirier, uno dei quattro più importanti autori del pensiero militare francese (André Beaufre, Charles Ailleret, Pierre Gallois), sempre molto attento a sottolineare che «l’arte di dissuadere non è l’arte di costringere – come la guerra – ma quella di convincere», dopo il crollo dell’URSS aveva invitato a una riflessione che andasse a mettere in discussione la «forza d’attacco». Perché il contesto bipolare era morto ed era necessario lavorare per ridurre e persino eliminare le armi atomiche, troppo pericolose in un mondo multipolare e con il rischio sempre più serio della loro proliferazione. Ed è qui che Alain Joxe rilancia la sua idea di difesa difensiva (ben evidenziata dalla Fondation des Etudes de Défense Nationale) come unica e irrinunciabile scelta che uno Stato di diritto veramente democratico dovrebbe perseguire. Alla luce dell’attuale situazione mondiale ed europea molto preoccupante, l’atteggiamento di difesa difensiva appare più che mai necessario, perché altrimenti si rischia di finire alla mercé dei criminali di guerra che lavorano per le lobby militari di ogni Paese. È evidente che il genocidio dei palestinesi, il massacro di migliaia di ucraini e soldati russi e le vittime di altre guerre permanenti sparse nel mondo, così come il massacro di decine di migliaia di bambini e persone di ogni età a causa del super-sfruttamento direttamente o indirettamente legato alle guerre, sono il prodotto della scelta dei leader politici (Putin, Stati Uniti, Europa, Netanyahu ecc.) asserviti alle lobby degli armamenti o direttamente coinvolti con esse. Sì, l’ideale europeo prospettato dagli autori del Manifesto di Ventotene era “Per un’Europa libera e unita”, un testo precursore dell’idea di federalismo europeo. E a garanzia del diritto internazionale sosteneva che bisognava “aggiungere una forza internazionale”. Ma la concezione di questa forza era solo quella di difesa-difensiva, perché gran parte di questo Manifesto si focalizza sull’auspicio della società europea futura totalmente organizzata secondo i criteri di una rivoluzione europea che deve essere socialista, consentendo l’emancipazione dei lavoratori e l’accesso a migliori condizioni di vita. Sono gli esseri umani a dovervi dominare le forze economiche e non viceversa. Per questo motivo è prescritta la nazionalizzazione delle imprese e la ridistribuzione della ricchezza ingiustamente accumulata attraverso vecchi privilegi e diritti di successione. In esso è implicito il principio di pari opportunità, così come la garanzia di uno standard minimo di vita fornito non dalla carità, ma dal “potenziale di produzione di massa di beni di prima necessità”. Si auspica anche la garanzia della libera scelta dei rappresentanti sindacali e la garanzia statale del rispetto dei contratti. Infine, il manifesto chiede la laicizzazione dello Stato. Ma, non appena si leggono i discorsi della signora von der Leyen, del signor Macron, di Starmer e di Friedrich Merz, ma anche quelli della signora Meloni, si è immediatamente sconcertati dalla loro nonchalance nell’annunciare la scelta di un’enorme quantità di denaro destinata ad armare una difesa europea pronta alla guerra attraverso il sacrificio esplicito della sanità pubblica, della pubblica istruzione e delle politiche sociali. Se si imporranno le scelte che questi leader europei prima citati vogliono perseguire, avremo un’Europa costretta a forgiare un’economia di guerra. L’Europa sociale, finora tanto ignorata e persino disprezzata, non potrà mai essere realizzata. È quindi più che mai indispensabile rilanciareuna forte RESISTENZA per la pace, per la difesa-difensiva, per salvaguardare la possibilità di politiche sociali, di misure atte a garantire il rispetto effettivo dei diritti universali di tutti gli esseri umani.   articolo pubblicato anche su mediapart.fr   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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