41bis ed ergastolo ostativo come dispositivi di ricattoL’uso degli strumenti penitenziari nella logica della guerra interna e le
violazioni dei più fondamentali diritti del detenuto
di Biagio Borretti da Penale, diritto e procedura
La legislazione italiana di contrasto alla criminalità organizzata e al
terrorismo reca con sé i caratteri tipici della “logica di guerra”, il cui
obiettivo principale è la neutralizzazione del “nemico”. L’ergastolo c.d.
“ostativo” e l’art. 41-bis ord. penit. sono le massime espressioni di tale
legislazione e, alla neutralizzazione del detenuto, aggiungono un altro
inconfessabile obiettivo: costringerlo alla collaborazione con la giustizia. Il
ricatto intrinseco di tale logica assume i connotati della tortura, in
violazione della Costituzione e delle convenzioni internazionali.
Quanti, poi, con animo perverso, avessero persistito nel proprio dannato
proposito, era nostro intento punirli in modo tale che la loro pena diventasse
un esempio per gli altri[1].
Qui la mattina che ti svegli, la prima cosa che pensi è di dover fare qualcosa,
la seconda è che non puoi fare niente[2].
1. Il ricatto – Si può definire ricatto una attività di estorsione di qualcosa o
di un comportamento per il tramite della coartazione della volontà altrui. Il
fine può essere conseguito col ricorso alla violenza o alla minaccia, che
assumono una funzione strumentale al perseguimento dello scopo[3].
1.1. Il ricatto come tortura – Storicamente il concetto di tortura è stato
differenziato in tre sottocategorie, determinate dalla finalità con cui le
condotte venivano praticate: i) la c.d. tortura giudiziaria, finalizzata ad
ottenere informazioni o confessioni; ii) la c.d. tortura punitiva, come forma di
punizione fisica; iii) la c.d. tortura pedagogico-discriminatoria, finalizzata a
negare l’identità della vittima[4].
Difatti, la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli,
inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10.12.1984,
entrata in vigore il 26.6.1987 e ratificata dall’Italia con l. 3 novembre 1988,
n. 498, nel definire la tortura all’art.1, prevede le tre ipotesi appena
richiamate: «il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono
intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o
mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona
informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona
ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su
di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi
altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore
o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra
persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo
consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle
sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni
o da esse cagionate».
Uno dei pregi della definizione appena riportata è l’aver evidenziato come la
tortura sia strettamente connessa col potere.
In un approfondito studio sulla tortura, si è sostenuto che il fine ultimo del
torturatore sia la distruzione dell’identità della vittima. Da questo punto di
vista, dunque, le sofferenze fisiche e psichiche sono i mezzi (le modalità di
lesione) con i quali si persegue la distruzione di tale identità; essa consiste
in una vera e propria devastazione interiore. La tortura, attraverso
l’umiliazione dell’altro, provoca una crisi relazionale intersoggettiva,
portando al silenzio e all’annichilimento interiore[5].
In un altro, raffinato studio sulla tortura, essa viene definita come «la
situazione-limite in cui la dignità umana viene radicalmente lesa. Quando il
torturatore tocca la sua vittima, ne cancella l’alterità. Viene meno ogni spazio
tra i due. Il carnefice violenta il corpo, si impadronisce del sé, occupa il
mondo della vittima. E la fa sprofondare nella notte dell’abiezione. Mentre la
dignità precipita, non più recuperabile, si apre la vertigine dell’inumano»[6].
La gravità della tortura è tale che la Convenzione dell’ONU in materia, all’art.
2, co. 2, stabilisce: «Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che
si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica
interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per
giustificare la tortura».
Al fine di evitare il rischio che si ricorra all’idea di “graduazione”
dell’intensità della tortura per giustificarne le manifestazioni considerate più
“blande”, assieme ad essa sono vietati anche i trattamenti crudeli, inumani o
degradanti[7].
In dottrina è stato proposto un criterio distintivo tra la tortura e i
trattamenti crudeli, inumani o degradanti: «La tortura […] presuppone una
situazione di assenza di potere della vittima, che solitamente vuol dire
privazione della libertà personale o una situazione simile di potere di fatto e
di controllo diretti di una persona su un’altra. […] Il decisivo criterio
distintivo tra la tortura e i comportamenti crudeli, inumani o degradanti non
consiste, come sostenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da vari
studiosi, nell’intensità del dolore o della sofferenza inflitti, ma nello scopo
della condotta e nell’assenza di potere della vittima. […] In una situazione di
detenzione o di controllo diretto di fatto similare… la proibizione della
tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti è assoluta. Qualsiasi
uso di forza fisica o psichica contro un detenuto allo scopo di umiliarlo
costituisce una punizione o un trattamento degradanti. Ogni inflizione di dolore
o sofferenza acute finalizzate ad uno degli scopi indicati dall’art. 1 della
Convenzione ONU contro la tortura, è qualificabile come tortura»[8].
L’equiparazione, in punto di divieto, è statuita anche dalla Convenzione europea
dei Diritti dell’Uomo (CEDU), all’art. 3: «Nessuno può essere sottoposto a
tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
La tortura può assumere sia declinazioni fisiche che psicologiche, anzi nelle
democrazie è proprio questa seconda forma che conquista col tempo maggior campo,
venendo marginalizzata la violenza più esplicita, per motivi di consenso e
legittimazione politico-sociali[9].
La tortura psicologica (c.d. bianca) è senza contatto, fondandosi per lo più
sulla deprivazione sensoriale[10]. Essa raggiunge il massimo della efficacia e
della insidiosità quando si spersonalizza in norme, procedure, regolamenti e
circolari amministrative. I primi studi scientifici sulla tortura psicologica
risalgono addirittura agli anni ’50 del secolo scorso e si sono affinati molto
nel corso dei decenni, al servizio del potere costituito. Uno dei padri
fondatori di tali studi, Albert Biderman, già nel 1959 aveva potuto verificare
come per spezzare la volontà di una persona fosse sufficiente privarlo di ogni
contatto umano, disorientarlo, alterarne i ritmi biologici e sottoporlo a forti
stress[11]. Il tutto senza alcun contatto violento col corpo della vittima[12].
Obiettivo è la regressione dell’essere umano, così da eliminare le sue capacità
di resistenza, con la conseguente perdita di autonomia. Ridurre la vittima in
balia del torturatore, obiettivo perseguito con la violenza fisica nella tortura
classica, in questo caso è ottenuto con la ‘violenza bianca’, per certi versi
ancora più invasiva e devastante della prima: «La tortura psicologica… distrugge
la persona, non solo una parte del suo corpo, perché mira direttamente al cuore
dell’identità personale della vittima»[13].
Attraverso queste pratiche, ben descritte nel manuale della CIA sulle tecniche
di interrogatorio “Kubark”, si persegue l’obiettivo di convincere la vittima che
è causa delle proprie sofferenze: vittima, dunque, di sé stessa, l’unica persona
che può porre fine alla tortura[14]. La logica di colpevolizzazione del soggetto
passivo, in fondo, è la stessa utilizzata per legittimare l’ergastolo ostativo e
l’art. 41-bis ord.penit.: è colpa del detenuto se si ritrova sottoposto a quei
regimi, perché “liberamente” decide di non collaborare (discorso in passato
avallato anche dalla Corte costituzionale[15]).
Sulla scorta delle pressioni e degli impegni internazionali, dopo una
lunghissima gestazione, anche in Italia, nel 2017, è stato introdotto il delitto
di tortura, pur con evidenti limiti[16].
1.2. Il ricatto come tortura giudiziaria – Dalla sintetica e schematica
esposizione appena abbozzata, è possibile ricavare un dato ineludibile: il
ricatto, inserito in una pratica di inflizione di forti sofferenze fisiche e/o
psichiche, è elemento costitutivo della tortura c.d. giudiziaria[17].
Detta tipologia di tortura, negli ultimi vent’anni, è stata oggetto di un ampio
dibattito che ha visto coinvolte varie discipline (dalle scienze politiche alla
filosofia, dalla sociologia alla medicina) circa l’ipotesi di legittimarla in
casi estremi di conflitti interni o internazionali. Il casus belli è
rappresentato dagli attacchi alle Torri Gemelle e dalle conseguenti “guerre al
terrorismo” (che hanno prodotto, tra innumerevoli orrori e distruzioni, per
quanto ci riguarda più da vicino in questa sede, Abu Ghraib e Guantanamo).
La proclamazione dell’emergenza e la retorica del ticking bomb scenario[18]
hanno legittimato il ricorso al diritto penale del nemico (un nemico
illegittimo, definito irregolare: il “terrorista”), contro il quale nessuna
Convenzione, Costituzione o norma ordinaria possono operare.
La tortura in tale scenario manifesta la sua più intima natura di vero e proprio
strumento di politica di guerra.
2. Legislazione emergenziale e logica di guerra – La categoria della
legislazione d’emergenza in Italia è da sempre un ossimoro. Dalla stagione della
sovversione sociale degli anni ’70 del secolo scorso allo stragismo della mafia,
passando per Tangentopoli, le soluzioni normative che si sono succedute per
fronteggiare le particolari situazioni congiunturali sono state stabilizzate,
con effetti dirompenti sia sul piano sociale che in ordine alla distorsione del
processo penale e del suo uso politico[19].
L’emergenza reca con sé l’urgenza dell’intervento, procedure decisionali molto
centralizzate (predominio dell’Esecutivo sul Parlamento e ricorso frequente ai
decreti-legge), l’assenza di un vero dibattito pubblico pluralistico, la
riduzione delle garanzie, soprattutto per chi viene considerato “nemico”. Il
frutto di tale attività compulsiva sono discipline speciali che regolano la
reazione dello Stato contro certi ‘tipi d’autore’, comprimendo persino diritti
costituzionalmente garantiti. Tale logica regge sia la fase del parto normativo
(con nuove fattispecie di reati, circostanze aggravanti ad hoc, pene
elevatissime), sia quella processuale (compressione sistematica dei diritti
della difesa, semplificazione probatoria, presunzioni di colpevolezza e
pericolosità), che quella esecutiva, in particolare carceraria.
La genesi dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo non sfugge a
tali dinamiche, frutto delle emergenze e della ‘lotta alla mafia’, col
conseguente ricorso sul piano discorsivo ad una terminologia e ad una logica di
“guerra” [20].
L’art. 41-bis ord.penit. e più in generale la legislazione antimafia sono figli
di questa logica bellicistica, che pur di ottenere il risultato
dell’annientamento del nemico è disposta ad imporre una “moratoria” della
Costituzione. Tale tendenza, d’altronde, è riscontrabile in molti altri scenari
nazionali, caratterizzando il più ampio fenomeno del c.d. populismo penale, per
il quale «ciò che importa è il castigo: le garanzie costituzionali del
giudicabile sono solo un ostacolo»[21].
Nelle frenetiche settimane trascorse tra le due stragi di mafia di Capaci e Via
D’Amelio, si discuteva la proposta di modifica dell’art. 41-bis ord.penit., con
l’introduzione, al secondo comma, di una specifica disciplina di sospensione del
‘trattamento penitenziario’ per i detenuti ritenuti apicali delle consorterie
mafiose.
Il vecchio art. 41-bis ord.penit. (sostanzialmente plasmato sulla disciplina
dell’abrogato art. 90 ord.penit., ampiamente utilizzato durante gli ‘anni di
piombo’) fu ritenuto insufficiente a condurre la “guerra contro la mafia”, per
cui – in via temporanea, inizialmente – si introdusse un ‘regime differenziato’
per determinate persone considerate portatrici di una pericolosità estrema.
Nel suo atto di nascita, il “nuovo” art. 41-bis ord.penit. fu pura violenza,
vera e propria vendetta di Stato, che colpì non soltanto i mafiosi direttamente
coinvolti nella pratica stragista di Cosa nostra di quegli anni, ma anche
numerosi altri detenuti (alcuni dei quali in misura cautelare), che nulla ebbero
a che fare con quelle vicende.
In questa sede non è possibile descrivere nemmeno sommariamente le prime fasi di
applicazione del nuovo regime detentivo speciale, per cui ci si limita ad
osservare come esse siano state caratterizzate da vere e proprie pratiche di
tortura fisica e psicologica, con feroci maltrattamenti quotidiani[22].
Dopo i primi anni, tuttavia, data l’assoluta incompatibilità di un simile regime
carcerario con uno stato di diritto, l’art. 41-bis ord.penit. venne modificato,
sulla base di parametri di massimo contenimento più efficaci e meno roboanti.
Per semplificare, si potrebbe sostenere che si passò da una forma di ‘tortura
classica’ ad una ‘tortura senza contatto’, alla ‘deprivazione sensoriale’.
2.1. I “dispositivi bellici” del doppio binario penitenziario – La combinazione
degli artt. 4-bis, 41-bis, 58-terord.penit. ha creato e disciplinato un vero e
proprio ‘doppio binario penitenziario’ che distingue il presente e soprattutto
il futuro delle vite dei detenuti: da una parte i “comuni”, dall’altra quelli
qualificati da una particolare pericolosità, determinata da due fattori: il
titolo di reato e l’assenza di collaborazione con la giustizia.
Non potendo entrare nel merito tecnico-giuridico delle numerose questioni
complesse generate nel corso degli anni da questo vero e proprio sottosistema
penitenziario, ci si limiterà a tracciarne a grandi linee la disciplina
generale, per quel che attiene maggiormente al nostro tema.
Il primo comma dell’art. 4-bis ord.penit. prevede una disciplina generale di
divieto di concessione dei benefici penitenziari (fatta salva la liberazione
anticipata) e di ammissione alle misure alternative alla detenzione in assenza
di collaborazione con la giustizia (ai sensi dell’art. 58-ter ord.penit.) per
detenuti e internati per delitti per lo più legati alla criminalità organizzata,
al terrorismo o all’eversione, per alcuni gravi reati contro la libertà
individuale, per reati in materia di favoreggiamento dell’immigrazione
irregolare, delitti associativi per contrabbando di tabacchi e traffico di
sostanze stupefacenti.
Tale previsione, in collegamento con l’esclusione della liberazione condizionale
risultante dall’art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n.152, conv. con modif. in l. n. 12
luglio 1991, n. 203, rende, in particolare, l’ergastolo, perciò definito
“ostativo”, un vero e proprio ‘fine pena mai’, senza nemmeno la speranza di
poter accedere ai benefici predetti e alle misure alternative alla detenzione,
se non previa collaborazione con la giustizia (o quando la collaborazione
dovesse essere ritenuta, con un giudizio estremamente complesso e arduo da
superare, impossibile, inutile o irrilevante)[23].
A seguito delle vicende scaturite da alcune note decisioni della Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo (Viola c. Italia) e della Corte costituzionale (sent. n.
253/2019)[24], il legislatore, per evitare una pronuncia dichiarativa della
illegittimità costituzionale della predetta disciplina anche in relazione alle
misure alternative, è corso ai ripari modificando, tra l’altro, il successivo
comma 1-bis, riscrivendolo e sostituendolo con una serie di ulteriori commi
(1-bis.1, 1-bis.1.1 e 1-bis.2) con il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con
modif. dall’art. 1, co. 1 l. 30 dicembre 2022, n. 199.
Esclusa la condicio sine qua non della collaborazione, e la conseguente
‘presunzione assoluta di pericolosità sociale’, la nuova disciplina impone
tuttavia in capo al detenuto una serie di adempimenti e oneri probatori
“diabolici” che, di fatto, restringono al minimo le possibilità di superare il
vaglio di ammissibilità dinanzi al Tribunale di sorveglianza. Basti pensare, per
tutti, agli oneri di allegazione relativi alla inesistenza del pericolo di un
futuro ripristino dei collegamenti, anche indiretti, con il «contesto nel quale
il reato è stato commesso»[25].
L’art. 4-bis ord.penit. diviene centrale anche nel funzionamento della
disciplina dettata dall’art. 41-bis ord.penit., poiché fornisce l’elenco dei
reati per i quali quest’ultimo può essere adottato, indicati nel primo periodo
del primo comma. Forse per evitare equivoci interpretativi (per la verità più
immaginari che concretamente verificatisi), il nuovo co. 2 dell’art. 4-bis
ord.penit. ha esplicitamente previsto che detenuti e internati sottoposti al
regime di cui al successivo art. 41-bis non possono accedere ai benefici
penitenziari o alle misure alternative. Da ultimo, il legislatore, con l’art. 7
d.l. 4 luglio 2024, n. 92 (conv. con l. 8 agosto 2024, n. 112), ha escluso anche
la possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
La portata e l’incisività della disciplina dei “divieti” imposti dall’art. 4-bis
ord.penit., tali da rendere un ergastolo “ostativo” o da legittimare l’adozione
del più severo dei regimi detentivi, lo hanno reso nel corso degli anni un
duttile strumento di politica criminale, ampliando progressivamente il catalogo
dei reati ivi compresi. Una “facile” risposta per attrarre consensi elettorali a
fronte delle debolezze della politica[26]. Un vero e proprio strumento di
definizione/selezione del “nemico” nelle mani del potere costituito che ricorre
con crescente frequenza ad un uso politico del ‘doppio binario’ del sistema
penitenziario[27]: da un lato ci sono i detenuti “comuni”, per i quali è
previsto un percorso ispirato ad una progressiva apertura verso la società in
un’ottica di risocializzazione (almeno sulla carta) e, dall’altro, vi è un
percorso per i detenuti ritenuti “pericolosi” sulla base di titoli di reato, del
tutto estraneo alla prospettiva rieducativa e informato «ad una logica di
neutralizzazione e finalizzato ad incentivare le condotte collaborative»[28],
che li esclude dall’accesso alla liberazione condizionale, ai benefici
penitenziari e alle misure alternative al carcere.
La logica del ricatto, dunque, sia nel caso dell’art. 41-bis ord.penit. che
dell’ergastolo ostativo (‘di diritto’ o ‘di fatto’, dopo la riforma), conduce ad
una pratica di tortura, quantomeno psicologica, col ricorso a trattamenti
contrari alla dignità umana, quindi assunti in violazione dell’art. 3
Convenzione EDU[29] e della Carta costituzionale, nonché in violazione del
principio della finalità rieducativa della pena stabilito nell’art. 27, co. 3
Cost.[30]. La combinazione di entrambi i dispositivi raggiunge i massimi livelli
di afflittività incostituzionale.
2.2. Il ricatto negato. Non sempre – I sostenitori dell’art. 41-bis ord.penit. e
dell’ergastolo ostativo per lo più negano la sottesa logica ricattatoria di tali
regimi. Un autorevole magistrato inquirente ha da sempre sostenuto che l’unica
ragione posta a fondamento del ‘regime differenziato’ sia quella preventiva: la
rottura dei collegamenti con le consorterie criminali esterne al carcere e
dentro di esso[31]. Tuttavia, nel ribadire come vi sia una stretta relazione tra
la collaborazione e l’accertamento dell’assenza di pericolosità (via maestra per
superare l’assoggettamento ad ergastolo ostativo e art. 41-bis ord.penit.),
l’Autore evidenzia, per quanto involontariamente, la logica ricattatoria dei due
dispositivi[32].
In un confronto proprio con l’orientamento appena citato, autorevole dottrina,
nel sottolineare come l’art. 41-bis ord.penit. fosse riconducibile ad un
orizzonte di diritto penale d’autore, tutto fondato sulla prevenzione speciale
negativa e caratterizzato da un eccesso punitivo simbolico, manifestava il
proprio dubbio: «Premialità estrema e carcere duro sono estremi ritenuti
necessari all’implementazione di una sorte di “soave inquisizione”… capace di
“sciogliere le lingue”?»[33].
In effetti, in dottrina, da sempre, numerose e articolate sono state le critiche
ai predetti regimi. In un autorevole commentario alla legge sull’ordinamento
penitenziario si legge: «Il dubbio che insinua, allora, è che il legislatore
abbia voluto in realtà perseguire altri fini: istituzionalizzando il regime
differenziato in esame, da un lato, mira a tranquillizzare l’opinione pubblica
inducendo un maggior senso di efficienza e quindi di sicurezza (non a caso si
parla di “carcere duro”, anzi “durissimo” secondo la definizione del ministro
dell’epoca Alfano), dall’altro mira a sollecitare condotte collaborative da
parte dei detenuti sottoposti alla sospensione delle regole trattamentali. Un
siffatto risultato se può essere astrattamente condivisibile, non lo è quando
per il suo raggiungimento si comprimono diritti costituzionalmente
garantiti»[34].
Qualora dovessero residuare dubbi, il sigillo sulla natura intrinsecamente
ricattatoria dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo è stato di
recente posto da uno stimato magistrato antimafia in un passaggio estremamente
franco di un testo dedicato al fenomeno dei pentiti e alla relativa disciplina
normativa: «L’esperienza ha dimostrato che quanto più sono ampie le forbici tra
il trattamento per il collaboratore e l’irriducibile tanto maggiore è l’effetto
incentivante alla collaborazione. […] L’accesso alla collaborazione viene
incentivato, in maniera consistente, dal regime differenziale esistente tra chi
collabora e l’irriducibile e dall’efficienza del sistema della protezione che
rivela la serietà dell’impegno dello Stato. Tanto più è marcata la differenza e
l’agevolazione per la via della collaborazione tanto maggiore sarà il numero
delle vocazioni collaborative sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo.
Le collaborazioni sono state incentivate con la disciplina inerente
all’ergastolo ostativo che inibisce o, comunque, rende più difficile l’accesso
ai benefici penitenziari… rispetto a chi non collabora con la giustizia»[35].
2.2.1. Sul fronte politico non sono mancate testimonianze estremamente esplicite
sul fine ultimo e reale del regime differenziato. Alcuni politici, nei mesi in
cui fu partorita la modifica dell’art. 41-bis ord.penit. con l’introduzione del
co. 2, così si esprimevano: «Contro i capimafia è necessario il massimo rigore,
senza lasciar neppure intravedere loro la possibilità di un ammorbidimento delle
condizioni di detenzione, salvo che cambino idea e non inizino una seria e
fruttuosa collaborazione» (L. Violante); «Il punto centrale è la stabilizzazione
del 41 bis […] perché di fronte ad una situazione stabile si chiarisce che si
esce dal carcere duro solo con una precisa dissociazione o un pentimento» (A.
Maritati)[36].
D’altronde già nel 1994, nel consesso delle Nazioni Unite, le autorità italiane
si espressero con le seguenti limpide parole: «Grazie a questa misura speciale
[l’applicazione dell’art. 41-bis ord.penit.], un numero crescente di detenuti ha
deciso di cooperare con le autorità giudiziarie, fornendo indicazioni sulle
organizzazioni criminali delle quali facevano parte»[37]. Tale dinamica
“virtuosa” sembrerebbe essersi accentuata a seguito della ‘riforma Alfano’ del
2009 dell’art. 41-bis ord.penit., se uno dei massimi esperti dell’istituto così
commentava: «Il numero dei provvedimenti 41 bis è cresciuto, gli annullamenti
dei Tribunali di sorveglianza sono diminuiti. Sono cresciuti i collaboratori di
giustizia»[38].
Da allora vi è un vero e proprio consenso bipartisan delle forze politiche,
tanto da farne un totem per l’attrazione di consenso. Basti pensare alla corsa
ai proclami contro ogni ipotesi di riforma o abolizione dell’art. 41-bis
ord.penit. in occasione della vicenda Cospito.
2.2.2. La logica ricattatoria intrinseca nei due dispositivi di cui stiamo
trattando è fortemente percepita anche dai detenuti.
Negli ultimi anni la letteratura relativa agli ergastolani ostativi e all’art.
41-bis ord.penit. è cresciuta sensibilmente e, tuttavia, le opere di maggiore
respiro “testimoniale”, frutto di interviste massive, mancano da tempo. Ciò,
forse, è anche frutto della disciplina restrittiva introdotta nel 2009, con la
previsione del reato di cui all’art. 391-bis c.p., che obiettivamente “mura”
anche la voce dei detenuti.
Tracce di tale sensibilità, tuttavia, si trovano sparse nelle testimonianze che
sono circolate nel corso degli anni. Recentemente, ad es., un detenuto già
ristretto in regime di art. 41-bis ord.penit. racconta: «Dopo il mio arresto mi
viene applicato il 41 bis; da quel momento inizia un interminabile calvario in
quanto inizio a subire vessazioni fisiche e psicologiche: mi veniva
ripetutamente chiesto di collaborare con la giustizia se volevo rivedere i miei
figli. Non ho mai accettato perché nulla avevo da dire in quanto la
responsabilità dei reati che mi venivano contestati era solo e soltanto mia e
non me la sentivo di scaricarmela addossandola a chi in realtà non aveva colpe.
Visto che non accettavo questo compromesso, stavo rinunciando alla possibilità
di rivedere i miei figli. Questo calvario durerà poco più di sei anni»[39].
Un altro detenuto, in uno scritto relativo alla sua esperienza carceraria in
regime di cui all’art. 41-bis ord.penit., scriveva: «Il direttore mi disse: “Sa
Indelicato se ha ricevuto minacce a casa?”. Risposi: “Sono tredici mesi che non
faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie ogni volta che
viene qua viene vessata più di me, perché deve passare le perquisizioni
corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto, mia moglie che non c’entra
niente, i miei figli non c’entrano niente con queste torture. […]”. Questo
direttore mi chiese se avevo ricevuto minacce a casa, tipo incendi, cose varie,
ma io ovviamente non lo potevo sapere. Me ne sono andato. Ma questo pallino,
questa idea mi rimase in testa; questa era una mossa psicologica perché loro ti
smontavano, cioè volevano creare il pentito, questa è la realtà. E questo hanno
fatto, perché ci sono state persone che si sono pentite e persone che si sono
pure uccise»[40].
Un altro ex detenuto in regime di art. 41-bis ord.penit. per alcuni anni, poi
assolto, ha raccontato: «Le manette… a me le hanno legate alla sedia. Il dottore
voleva sapere qual era il dente che mi faceva male; con la lingua glielo
indicavo, ma indicandoglielo con la lingua mi hanno tolto quello sbagliato. Una
pedata ai testicoli perché dovevo collaborare. […] Le proposte che mi hanno
fatto non le dico per non andare incontro a una denuncia; le proposte che mi
facevano di collaborazione»[41].
La stessa, complessa, vicenda processuale di un collaboratore di giustizia del
processo “Borsellino-bis”, poi mostratosi del tutto inattendibile dopo numerosi
cambi di versione e alterne vicende di collaborazione e ritrattazioni – le cui
dichiarazioni vanno, di conseguenza, maneggiate con estrema cautela –, è di
particolare interesse ai fini del nostro studio. Questi, infatti, in più
passaggi di una importante intervista, ha chiarito come il regime detentivo
brutale di Pianosa nel 1992, unitamente ai numerosi ‘colloqui investigativi’, lo
avessero indotto a “pentirsi”[42].
È stato osservato, condivisibilmente, che «sono “tortura” non solo “dolore e
sofferenze forti” […], ma anche le “pressioni” che in particolari condizioni di
detenzione si esercitano nei confronti di detenuti fatti oggetto di visite in
cella eufemisticamente definite “colloqui investigativi”»[43].
Si leggano, inoltre, le interviste condotte a ben 645 detenuti in regime di art.
41-bis ord.penit. realizzate anni or sono, dalle quali emerge frequentemente
come i reclami contro l’applicazione o le proroghe dell’applicazione del regime
speciale venissero rigettati per una ‘persistente pericolosità’ dovuta
all’assenza di ‘segni di collaborazione’[44].
Più di recente, un noto anarchico detenuto in regime di art. 41-bis ord.penit.
dichiarava: «Io potrò uscire da questo girone dantesco solo se rinnegherò il mio
credo politico, il mio anarchismo, solo se mi venderò qualche compagno o
compagna»[45].
2.3. Il regime del 41-bis come “dispositivo di ricatto” – La sospensione del
trattamento penitenziario conseguente all’applicazione dell’art. 41-bis
ord.penit. prevede numerose limitazioni, alcune delle quali già definite dal
legislatore, congiuntamente applicate e senza la possibilità di adattarle al
singolo caso[46]. La norma, tuttavia, riserva anche la possibilità, in capo
all’Amministrazione, di imporre ulteriori restrizioni sulla base di due
previsioni molto generiche che, di fatto, lasciano mano libera al decisore
politico-amministrativo (sia in sede di emissioni di circolari che di
applicazione locale delle stesse): i) l’adozione di «misure di elevata sicurezza
interna ed esterna» non meglio specificate, «con riguardo principalmente alla
necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o
di attuale riferimento» (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) ord.penit.[47];
ii) l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza… volte a garantire
che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti
appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi»
(art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f) secondo periodo ord.penit.). Misure,
anche in questo caso, non meglio precisate.
2.3.1. Il primo dato che emerge quando si studia l’art. 41-bis ord.penit.
“reale”, cioè quello concretamente applicato, anche in violazione delle
decisioni della Corte costituzionale, riguarda la sua particolare ‘geografia
penitenziaria’.
La logica di fondo che informa le decisioni sulle collocazioni dei detenuti
particolarmente pericolosi è quella della “dispersione” e dell’allontanamento
dai luoghi di origine. Si tratta di una precisa scelta politica del DAP: «Al di
sotto di Secondigliano non mettiamo detenuti soggetti all’art. 41-bis, proprio
per tenerli lontani da quell’ambiente. […] Al di là della battuta… abbiamo una
regola alla quale non abbiamo mai contravvenuto, quella di non inviare mai
detenuti sottoposti all’art. 41-bis oltre Secondigliano; peraltro c’è da
considerare che Secondigliano è un’isola nell’area da Roma in giù»[48].
Dietro l’esigenza di allontanare i detenuti dai contesti criminali di
provenienza (esigenza che dovrebbe essere, in verità, garantita dal regime di
massima restrizione di cui all’art. 41-bis ord.penit.)[49], di fatto opera un
potente meccanismo di rottura dei legami affettivi, con ciò che ne consegue in
termini di qualità della vita in carcere, soprattutto tenuto conto delle
restrizioni ulteriori che subisce un detenuto sottoposto al regime di cui
all’art. 41-bis ord.penit.[50]. È un dato incontrovertibile che, con questa
politica del distanziamento familiare, i colloqui – per motivi logistici ed
economici – si diradino, riducendosi a poche occasioni in un anno[51].
La rottura dei legami familiari, già ampiamente compromessi dalle modalità con
cui vengono svolti i colloqui dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art.
41-bis ord.penit. (e anche alla trafila di controlli estenuanti e invadenti che
devono subire i familiari all’ingresso e all’uscita dal carcere), diventa un
potente fattore di pressione sul detenuto, conferendo connotati di particolare
afflittività alla pena[52]. Il tutto in evidente violazione dell’art. 28 ord.
penit., stando al quale «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o
ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie».
2.3.2. Nel complesso delle limitazioni previste esplicitamente su base normativa
e delle altre che si fondano sulle circolari del DAP, sono numerose quelle che
mostrano profili assolutamente eccentrici rispetto alle proclamate esigenze di
“sicurezza” e alla necessità di assicurare la rottura dei legami con le
organizzazioni criminali di provenienza. Senza stretta funzionalità[53], non
soltanto le restrizioni sono prive di legittimazione normativa, ma finiscono per
violare il patto costituzionale e i divieti anche internazionali di tortura[54].
Tutto ciò che non è giustificabile in base alle esigenze di sicurezza/rottura
dei legami con l’esterno, finisce per assumere i connotati della pura
afflittività, essa sì funzionale a perseguire altri scopi, in particolare la
collaborazione. Ciò è ancora più vero nei numerosi casi di detenuti sottoposti
all’art. 41-bis ord.penit. in misura cautelare (poco meno del 20% del totale).
Tale critica è stata avanzata anche da uno dei più strenui difensori dell’art.
41-bis ord.penit., Nicolò Amato, capo del DAP per un decennio (1983-1993), il
quale censura le restrizioni senza fini di sicurezza, sostenendo che esse
abbiano «esclusivamente un carattere di afflizione o di punizione fine a sé
stessa»[55]. Una tale afflittività, informata ai parametri della ‘sicurezza
assoluta’ e della ‘punizione senza limiti’ – continua l’A. – «non trova alcuna
legittimazione»[56]. Con ancora maggiore precisione: «Una pena detentiva è
contraria al senso di umanità o lesiva della dignità personale, se infligge al
detenuto una sofferenza che vada al di là di quella inevitabilmente insita nella
privazione della libertà. E così, indubbiamente, tutte le disposizioni del
regime 41 bis sono più o meno in contrasto con il principio indicato, giacché in
sé, per il loro stesso contenuto, determinano condizioni detentive inumane o
degradanti, ossia un eccesso di afflittività rispetto alla semplice privazione
della libertà. […] E quindi, le restrizioni di diritti penitenziari privi di
scopi di sicurezza – come quelle concernenti i pacchi, gli acquisti al
sopravvitto, la permanenza nei cortili di passeggio e simili – sono senz’altro
illegittime e inaccettabili, in quanto il di più di sofferenza che comportano
non ha alcuna giustificazione»[57].
Di seguito si riporta un breve elenco di tali restrizioni del tutto
ingiustificabili anche tenendo come riferimento le esigenze di ‘ordine e
sicurezza pubblica’ e di impedimento dei “collegamenti” con la criminalità
organizzata.
L’edilizia e le condizioni materiali di vita delle sezioni destinate
all’esecuzione in regime di art. 41-bis ord.penit. mostrano i primi segni
tangibili di criticità, tanto da aver spinto il Garante Nazionale dei detenuti a
parlare di vere e proprie «pene corporali»[58]. Nelle sezioni predette vige un
vero e proprio ‘regime claustrale’, dove persino l’accesso alla luce naturale e
all’aria sono impediti. Le finestre delle celle sono chiuse e oscurate da
diversi strati di schermatura, che in alcuni casi arrivano fino a cinque. Ciò
riduce il passaggio di luce e aria senza alcuna giustificazione, con risultati
asfissianti d’estate[59]. Le celle, inoltre, sono del tutto impersonali,
condizione che impoverisce la personalità del detenuto, già censurata in un
rapporto del 2008 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle
pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)[60].
Il Garante Nazionale, inoltre, ha osservato nel suo ultimo Rapporto la «presenza
ossessiva di grate a copertura dei cortili»[61], tanto che le aree di passeggio
finiscono per essere dei «meri contenitori grigi, privi di ogni stimolazione
visiva e avulsi da ogni elemento naturale»[62], dei cubi di cemento coperti da
reti (in passato in alcuni istituti anche dal plexiglass, che in estate
produceva un vero e proprio ‘effetto serra’). Gli spazi ristretti e l’assenza di
visuale più ampia producono sulla distanza il deterioramento della vista e non
solo: «La mancanza di una estensione dello sguardo, sempre limitata da mura o da
reti, incide negativamente sulla capacità visiva delle persone e, molto
probabilmente, sul loro complessivo equilibrio»[63]. Tali scelte di edilizia
penitenziaria sono inserite nella logica della deprivazione sensoriale, come si
è già notato in precedenza. Il Garante, pur non ricorrendo a tale terminologia,
la lascia intendere: «Questa caratteristica di spazi […] pensati e progettati
per tali destinazioni, induce a credere che il grigiore amorfo costituisca una
scelta precisa»[64].
Alla dimensione alienante degli spazi “aperti”, si aggiunge che – stando
all’ultima circolare del DAP che regola la disciplina e l’organizzazione delle
sezioni destinate all’art. 41-bis ord.penit., emessa il 2.10.2017 con prot. n.
3673/6126 – l’Amministrazione ha compresso ulteriormente la previsione
normativa. Difatti, mentre il co. 2-quater, lett. f) dell’art. 41-bis ord.penit.
prevede che la ‘permanenza all’aperto’ non debba avere una durata superiore alle
due ore, il DAP, confondendo la ‘permanenza all’aperto’ con il tempo di
‘socialità’, finisce per concedere una sola ora di ‘aria’ (v. l’art. 11 della
citata circolare).
Le condizioni complessive di detenzione e la composizione dei gruppi di
“socialità”[65] e passeggio comportano che durante le ‘ore d’aria’ spesso domini
il silenzio: «Alcune persone mi hanno raccontato che di consueto camminavano in
silenzio, tutte e quattro. Anche quando si andava nella saletta per l’ora della
socialità, si giocava a carte in silenzio. Il numero di parole utilizzato è
estremamente limitato e con il passare degli anni le persone diventano incapaci
persino di sostenere una conversazione»[66].
L’isolamento prolungato conduce alla degradazione delle capacità di
comunicazione e all’assuefazione alla solitudine: «Le persone parlano poco. Ad
alcune domande riguardanti la sfera emotiva spesso rispondono a monosillabi, ma
anche le domande più stimolanti a volte ricevono risposte brevi oppure un
insieme di frasi incomplete. Mentre le emozioni rimangono una sfera
difficilmente raccontata, vi è maggiore eloquenza quando si tratta di descrivere
spazi, norme e (non) attività»[67].
Il silenzio, in regime di art. 41-bis ord.penit., è la consegna impartita dagli
agenti[68]. I detenuti, pur potendo, in teoria, comunicare tra di loro dalle
celle, a gruppi di quattro, sono ridotti al silenzio: «… hanno la porta blindata
delle celle sempre chiusa e detenuti collocati in celle diverse non possono
comunicare tra loro»[69]. Un ergastolano detenuto ad Opera così inizia una
lettera inviata ad un quotidiano: «Mi chiamo […], sono ininterrottamente
detenuto da quasi vent’anni con l’ergastolo ostativo, il 4 bis. Sono stato per
quattro anni al 41 bis e complessivamente sono stato isolato per sei anni, a
volte per mesi e mesi senza parlare con nessuno. Il 41 bis spegne i rapporti con
le persone che ami, crea una distanza incolmabile»[70].
La violenza della tortura «annienta il linguaggio… il torturato resta un corpo
senza voce»[71]. Il silenzio della tortura, nel caso dei dispositivi che stiamo
analizzando, si contrappone al recupero della parola solo sotto forma di
propalazioni del collaboratore di giustizia. In effetti: «La tortura vuole
spezzare la volontà del torturato, giocando il suo corpo contro la sua mente, e
fargli fare e dire quello che proprio non vuole né fare né dire»[72].
Un’altra pratica costante, particolarmente invasiva, giustificata con le
‘esigenze di sicurezza’ è l’abuso delle perquisizioni ordinarie: ad ogni
spostamento corrisponde un denudamento[73], anche in caso di colloqui con i
familiari, notoriamente intrattenuti con vetri divisori alti fino al soffitto e
che non consentono alcun passaggio di oggetti tra i colloquianti, così come
prima e dopo i colloqui con gli avvocati e persino con i magistrati[74]. E ciò,
nonostante durante i tragitti di andata e ritorno i detenuti siano sempre
scortati da più agenti. Nel caso di comprovata assenza di esigenze di sicurezza,
tale pratica assume i connotati della violenza gratuita.
Anche la censura asfissiante sulle comunicazioni verso l’esterno finisce per
incidere sensibilmente sui rapporti intrattenuti coi familiari. Se è vero che
tale restrizione fonda la propria logica nelle esigenze di sicurezza, ossia al
fine di limitare eventuali comunicazioni criminogene verso l’esterno, è
altrettanto vero che ne se fa un uso indiscriminato. Il controllo è eseguito
spesso dagli agenti di sorveglianza, che possono operare arbitrariamente[75].
Sebbene sia previsto un controllo giurisdizionale sulla fondatezza della
censura, è altrettanto vero che esso arriva per lo più con estremo ritardo. Il
tutto provoca un impoverimento del linguaggio (teso ad evitare qualsiasi parola
ed espressione che possa essere interpretata come criptica e perciò censurabile)
e delle relazioni affettive[76].
A tali restrizioni, assolutamente non funzionali a garantire le esigenze di
sicurezza (o delle quali, ad ogni modo, si abusa), si aggiungono quelle previste
dalla circolare del 2017 già citata o adottate dai singoli istituti
penitenziari. Di seguito un florilegio: le pentole e i pentolini utilizzabili
per cucinare i cibi in cella non possono avere rispettivamente un diametro
superiore ai 25 e 22 cm[77]; gli oggetti di igiene personale non possono essere
detenuti nella cella, ma vengono consegnati e ritirati ad orari prestabiliti;
nella sala pittura non possono essere detenuti più di 12 pezzi tra matite e
colori all’acquerello; il numero massimo di libri che si possono avere in cella
contemporaneamente è di quattro (il che comporta non pochi problemi per chi
abbia intenzione di seguire dei corsi di studio)[78]; è previsto un numero
massimo di fotografie da poter avere in cella ed è imposto il divieto di
affissione di foto sulle pareti, salvo una singola fotografia di un
familiare[79]; la televisione è fruibile soltanto dalle 7:00 alle 24:00, così
limitando anche l’uso della radio per finalità informative, essendo per lo più
le radio incorporate nelle tv[80]; sono previste limitazioni nell’acquisto dei
quotidiani, alcuni dei quali, anche a diffusione nazionale, sono vietati in
certi istituti.
Il complesso di tali restrizioni, non motivabili sulla base delle esigenze di
sicurezza pubblica e di rottura dei legami con le organizzazioni criminali,
portò già nel 2008 il CPT in modo netto a denunciare: «Alla luce di questi
elementi e delle condizioni di vita succitate, è evidente che questo tipo di
trattamento è creato per spingere il detenuto alla collaborazione con la polizia
e con la giustizia, in modo da ottenere lo status di collaboratore di giustizia
e la sospensione del regime 41 bis»[81].
Le restrizioni imposte anche al diritto allo studio incidono in termini
deteriori sulla possibilità di avviare un percorso rieducativo in osservanza
dell’art. 27, co. 3 Cost.[82]. Dal punto di vista pedagogico, difatti, è stato
osservato: «La finalità di un regime di massima sicurezza è da ricercare non
tanto nell’esclusione e nell’allontanamento per garantire la pace sociale ma nel
porre la persona mafiosa in una situazione psicologica e fisica estenuante per
neutralizzare i suoi residui elementi sociali. Nel lungo periodo, questa
asocialità forzosa non favorisce il suo recupero ma potrebbe, al contrario,
incentivare caratteri di antisocialità»[83].
Ciò è tanto più vero se si tiene conto del c.d. effetto imbuto del regime di cui
all’art. 41-bis ord.penit., per il quale chi vi entra molto difficilmente ne
uscirà, se non con la completa espiazione della pena; nel caso dell’ergastolano
ostativo in regime di art. 41-bis ord.penit. non collaborante, la via d’uscita è
la morte[84]. Tale conseguenza è dovuta al meccanismo perverso delle proroghe
pressoché automatiche e alla difficoltà (ovvero, impossibilità vera e propria
senza collaborazione) di scardinare la presunzione di pericolosità sociale e
della persistenza dei collegamenti con la criminalità[85].
2.4. Il regime del 41-bis e il solitary confinement. Un rapido confronto – Il
regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. ha tutte le caratteristiche di quello
che nella letteratura internazionale viene definito solitary confinement, ovvero
un regime carcerario nel quale il detenuto è isolato nella propria cella dalle
22 alle 24 ore al giorno e separato dagli altri detenuti; i suoi contatti con il
personale penitenziario sono scarsi e superficiali, per lo più di totale
dipendenza; i rapporti con i familiari sono infrequenti; vi è un controllo
diffuso e costante di ogni movimento, persino di quelli più intimi (telecamere
in bagno); le celle sono particolarmente piccole, prive di luci sull’esterno o
comunque dotate di piccole fessure, con un limitato accesso all’aria fresca e
alla luce naturale; la vita è condotta in situazioni ambientali di scarse
stimolazioni e pochissime opportunità di attività da svolgere[86].
Regimi del genere furono ampiamente sperimentati nel XX secolo in vari Paesi,
soprattutto durante i periodi più caldi delle stagioni dell’insorgenza sociale o
delle rivolte anticoloniali.
Sono numerosi gli studi internazionali che dimostrano come tale regime
carcerario arrechi plurimi danni, sia fisici sia soprattutto psicologici, ai
detenuti, in particolare se imposto per lunghi periodi di tempo[87]. Tra i
primi, la letteratura scientifica annovera palpitazioni cardiache, diaforesi,
insonnia, dolori articolari e alla schiena, deterioramento della vista,
inappetenza, perdita di peso e in alcuni casi diarrea, sonnolenza, spossatezza,
tremore, sensazioni di freddo, aggravamento di pregressi problemi di salute. Tra
i principali effetti sul piano psichico, invece, sono stati riscontrati ansia
(che varia dalle sensazioni di tensione a veri e propri attacchi di panico),
depressione (che va dai casi di umore basso fino alla vera e propria depressione
clinica), rabbia (che passa dall’irritabilità per arrivare alla rabbia totale),
disturbi cognitivi (dalla perdita di concentrazione fino agli stati
confusionali), distorsioni percettive (dalla ipersensibilità fino alle
allucinazioni), paranoia e psicosi (dai pensieri ossessivi fino alla psicosi
vera e propria)[88]. Le condizioni deteriori del solitary confinement sono
cristallizzate anche dal brutale dato statistico dei più alti tassi di pratiche
di autolesionismo e suicidio[89]. A ciò si aggiungano conseguenze, spesso
irrimediabili, sulle abitudini di vita, sulle strutture caratteriali e sulle
difficoltà relazionali che ne seguono in un eventuale reinserimento in
società[90].
A fronte di tutto ciò, sembra un mero paravento ideologico quello utilizzato dal
DAP nella premessa della circolare n. 3676/6126 del 2017, più volte richiamata:
«Le prescrizioni imposte col decreto del Ministro non sono volte a punire e non
devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata,
per i soggetti sottoposti al regime detentivo in esame»[91].
3. Guerra ai nemici – L’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit., prodotti
di una «idea segregazionista della pena fondata sulla pericolosità»[92],
mostrano tutti i caratteri del ricatto, dal chiaro obiettivo (in alcuni casi
anche esplicitamente rivendicato) di indurre (costringere) il detenuto alla
collaborazione con la giustizia a mezzo disofferenze fisiche e/o psichiche.
Il ricatto, quando non riesce a raggiungere l’obiettivo principale, assume
comunque i connotati della pura e gratuita afflizione, non giustificabile da
alcuna esigenza di sicurezza.
Imponendo un grado di massima afflittività si persegue, in effetti, anche un
doppio obiettivo “simbolico”: uno, di prevenzione generale tramite la pena
esemplare espiata dai “nemici” della società[93]; l’altro, di legittimazione del
potere costituito grazie alla “guerra” al fenomeno criminale.
In questa prospettiva, l’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit. svolgono
anche una funzione di “garanzia” per le ansie sociali e qualificano l’efficacia
della lotta statuale contro le organizzazioni criminali, rappresentando le
‘punte di diamante’ della repressione del crimine.
La lunga stagione del populismo penale, difatti, si alimenta di discorsi
giustizialisti che rivendicano la centralità del carcere come risposta dello
Stato alla criminalità. Tale logica è del tutto consequenziale in rapporto al
fallimento delle politiche di giustizia sociale e allo smantellamento del
Welfare State. La “giustizia” passa solo per i tribunali e chi “sbaglia” deve
pagare, severamente. Il carcere ha sempre di più la funzione di mero contenitore
di persone “irrecuperabili”, da neutralizzare.
La reattività dello Stato, in quest’ottica, si misura con quante persone vengono
rinchiuse in carcere e in quali condizioni i detenuti sono stipati in questi
contenitori[94].
Il meccanismo appena descritto sembra richiamare quello raffigurato nella bolla
papale citata in esergo: l’obiettivo principale è ottenere la collaborazione con
la giustizia (la confessione e la “conversione” richieste dall’Inquisizione) e,
nel caso del mancato raggiungimento dello scopo, residua comunque la pena della
massima sofferenza, conseguenza della cattiva fede e dell’irriducibilità del
detenuto, che funga da terribile monito per gli altri consociati. L’uomo è
ridotto a puro strumento del potere costituito.
In questa dinamica di repressione e legittimazione, al “nemico” è negata non
soltanto la libertà, ma anche la vita.
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[1] Paolo III nel 1542 emanava la bolla Licet ab initio, con cui veniva
istituita la “nuova” Inquisizione romana, indicando subito i propri
intendimenti. La bolla è riprodotta ampiamente nell’illuminante studio di I.
Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire. Il sospetto e
l’Inquisizione romana nell’epoca di Galilei, Milano, 1979, pp. 100-104 (per la
citazione v. p. 101).
[2] Da una lettera di un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis
pubblicata in Camera Penale di Roma, Barriere di vetro: voci dalla detenzione
speciale in Italia, Roma, 2002, p. 90.
[3] Il ricatto, pur non essendo un termine esplicitamente richiamato nel codice
penale, è elemento costitutivo di numerose fattispecie incriminatrici. V. ad es.
art. 317 c.p., art. 338 c.p., art. 377, co. 3 c.p., art. 377-bis c.p., art. 610
c.p., art. 611 c.p., art. 629 c.p., art. 630 c.p.. Sulla differenza tra
“minaccia-fine” e “minaccia-mezzo” (tipica del ricatto), v. G.L. Gatta, La
minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente
rilevante, Roma, 2013, passim.
[4] Per un’introduzione alla storia della tortura (sui piani giuridico,
sociologico e politico), con ampie ricostruzioni storiografiche, v. T. Padovani,
Tortura: anno accademico 2006/2007, Pisa, 2015.
[5] M. Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo,
Roma, 2016, pp. 19, 21-22, 74-75.
[6] D. De Cesare, Tortura, Torino, 2016, p. 93.
[7] Sul punto v. M. La Torre, in M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?
Ascesa e declino dello Stato di diritto, Bologna, 2013, pp. 159-161, 164. Si
rinvia all’intero testo per una articolata critica delle teorie
giustificazioniste della tortura, sviluppatesi soprattutto negli Usa e in
Germania dopo gli attentati del 2001 alle Torri Gemelle.
[8] M. Nowak, E. McArthur, The distinction between torture and cruel, inhuman or
degrading treatment, in Torture, vol. 16, n. 3, 2006, pp. 150-151.
[9] In questa sede si fa ricorso alla classica distinzione tra tortura “fisica”
e “psicologica” per mera semplificazione espositiva, ben consapevoli che,
invece, nella letteratura scientifica la differenziazione netta tra “corpo” e
“psiche” sia criticata e rifiutata da tempo. Già negli anni ’70, ad es., uno
studioso della materia osservava: «Non ha senso distinguere tra tortura fisica e
psicologica perché si dovrebbe accettare la concezione profondamente sbagliata…
secondo la quale un essere umano può essere pensato come l’unione di due entità
distinte: la psiche (l’anima) e il corpo. […] La pratica della tortura ha […]
dimostrato che le reazioni dell’uomo agli stress possono essere comprese solo in
termini di combinazione di processi mentali e fisici» (S. Mistura, Le scienze
umane per la tortura, in S. Mistura, Collettivo latino-americano di lavoro
psico-sociale, La fabbrica della tortura. Psicologia e psichiatria come scienze
della coercizione, Verona, 1978, p. 19).
[10] Si tratta di pratiche che cominciarono ad essere sperimentate negli anni
’70 del secolo scorso in danno dei prigionieri politici. In un articolo
giornalistico di allora, a proposito del trattamento riservato ai prigionieri
della RAF nella Repubblica Federale Tedesca, si denunciava quanto segue: «Non si
viene certo privati della facoltà della vista, la luce degli occhi non viene
accecata: si viene privati piuttosto della possibilità di vedere qualsiasi cosa
con gli occhi. Non viene sottratta la capacità soggettiva degli organi di senso,
ma bensì il loro soggetto, il loro senso appunto; per cui essi diventano
inutili, senza funzioni, esangui. […] Per esempio è previsto il totale divieto
di parlare, vengono eseguite razzie nelle celle, la luce rimane accesa di notte,
il taglio delle visite, le limitazioni negli scambi epistolari, la privazione di
ogni oggetto di arredamento, l’incubo del braccio morto, ecc. Quindi: è solo la
complessità delle misure dell’isolamento, e il fattore tempo, che determinano
l’effetto della tortura. […] Lo scopo sono quindi le confessioni» (“La tortura
che non lascia tracce”, in Wir wollen alles, n. 24 – gennaio 1975, pubblicato in
A. Assante, P. Pozzi (a cura di), Il gulag socialdemocratico. Note sulla
repressione in Germania, Milano, 1977, pp. 26-28).
[11] Per una sintetica ricostruzione dei principali risultati dei suoi studi, v.
Amnesty International, Rapporto sulla tortura nel mondo, Milano, 1975, pp.
57-63.
[12] Su questi temi, nonché sul ruolo degli psicologi nell’affinamento delle
tecniche di “tortura bianca”, v. R. Mausfeld, Psychologie, ‘weiße Folter’ und
die Verantwortlichkeit von Wissenschaftlern, in Psychologische Rundschau, n. 60,
2009, pp. 229-240 (trad. inglese di V. Ekroll, Psychology, ‘white torture’ and
the responsibility of scientists, in ResearchGate).
[13] R. Mausfeld, op. cit., p. 13 ed. inglese.
[14] Su questi aspetti e sull’obiettivo della regressione dell’interrogato,
prodromica della sua arrendevolezza, v. Central Intelligence Agency, Manuale
della tortura. Il testo finora top-secret uscito dagli archivi Usa, Roma, 1999,
pp. 48, 59, 90.
[15] V. ad es. la sent. Corte cost., n. 135 del 24 aprile 2003: «La preclusione
prevista dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario
non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva
dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per
farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al
beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la
propria scelta».
[16] Per un’analisi critica del reato di tortura introdotto nel nostro codice
penale con l’art. 613-bis c.p., v. tra gli altri S.C. Monachini, Da Genova a
Santa Maria Capua Vetere. Nuove ferite alla dignità umana. Riflessioni sulla
“violenza di Stato” in Italia a quattro anni dall’introduzione del reato di
tortura nel nostro ordinamento, in Ind. pen., n. 2/2022, pp. 427-454.
[17] Il termine “giudiziario” è inteso in senso a-tecnico, ricomprendendo anche
le fasi propriamente investigative e della esecuzione della pena.
[18] ‘Cosa fare nel caso sia stata piazzata una bomba ad orologeria in un luogo
sconosciuto che potrebbe essere rivelato in tempo da un terrorista prigioniero?
È lecito eventualmente anche torturarlo pur di ottenere informazioni
salvifiche?’. Tale argomento retorico è stato demistificato con grande efficacia
da D. De Cesare, op. cit., pp. 75-81.
[19] Per una oramai classica e imprescindibile introduzione alla materia, v. S.
Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli,
2011, 2ª ed. riv. ed ampliata, passim.
[20] Un nitido esempio di ciò che sosteniamo è l’editoriale pubblicato su uno
dei principali quotidiani italiani da un noto intellettuale conservatore
solitamente pacato. Si era all’indomani della strage di Via D’Amelio: «Ci
interessa soltanto sapere se il governo intende vincere questa guerra e di quali
mezzi voglia servirsi. “Guerra” non è un’iperbole. […] Non siamo alle prese con
manifestazioni di criminalità organizzata, ma con una forza di occupazione che
si è impadronita di una larga parte del territorio sociale siciliano e
meridionale e che comprende probabilmente decine di migliaia di “occupanti” […].
Se questi sono i termini del problema è assurdo immaginare che il governo possa
risolverlo stringendo qua e là le viti e i bulloni di un sistema che è comunque
inadatto a fronteggiare fenomeni di minore ampiezza e gravità. Se è “guerra” i
mezzi con cui vincerla sono quelli dello stato d’emergenza. […] Crediamo che lo
Stato abbia anzitutto il diritto di difendere se stesso e i propri cittadini,
anche se ciò può significare, per un certo periodo e per una parte del
territorio nazionale, la sospensione delle garanzie costituzionali» (S. Romano,
La mafia dichiara guerra allo Stato. Dopo Falcone, uccisi Borsellino e cinque
agenti. Leggi d’emergenza, in La Stampa del 20.7.1992).
[21] E. J. Prats, Los peligros del populismo penal, Santo Domingo, 2011, p. 72.
La letteratura nazionale e internazionale sul tema è sterminata. Ci si limita a
rinviare ad uno dei lavori più recenti: C. Landolfi, Declinazioni del populismo
e ricadute sul diritto penale. Un caso emblematico: le riforme della legittima
difesa, Pisa, 2023, passim.
[22] Sulla stagione della brutalità massima del predetto regime carcerario, v.
le testimonianze raccolte in R.E. Indelicato, L’inferno di Pianosa. L’esperienza
del 41 bis nel 1992, Roma, 2015; P. De Feo, Le Cayenne italiane. Pianosa e
Asinara: il regime di tortura del 41 bis, Roma, 2016, ma anche N. Dinoi, Dentro
una vita: i 18 anni in regime di 41 bis di Vincenzo Stranieri, Roma, 2010 (ove
alle pp. 173-186 è riprodotto il decreto ministeriale con il quale venne
applicato per la prima volta il nuovo regime appena introdotto). V. anche la
relazione stilata dal Magistrato di sorveglianza di Livorno il 5.9.1992 ai sensi
dell’art. 69, co. 1 ord. penit. (reperibile al seguente link, nella sezione
“Documenti allegati”: https://tinyurl.com/9b5xvsb7). Su quella particolare
stagione, anche in un testo di impianto accademico, è stato osservato:
«L’Amministrazione penitenziaria, […] ha inizialmente chiuso un occhio su quanto
stava accadendo negli istituti penitenziari interessati al 41 bis: vi sono,
infatti, plurime e concordanti circostanze che portano fondatamente a sospettare
che, nella prima fase di applicazione del regime detentivo speciale (parliamo in
particolare del periodo di tempo che va dal luglio all’ottobre del 1992), i due
penitenziari ‘insulari’ di Pianosa e dell’Asinara siano stati il teatro di gravi
episodi di maltrattamenti e soprusi» (A. Della Bella, Il “carcere duro” tra
esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del
regime detentivo speciale ex art. 41 bis O.P., Milano, 2016, p. 110).
[23] Per un’introduzione al tema dell’ergastolo ostativo e ad una sua critica
radicale v. A. Pugiotto, Criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, in C.
Musumeci, A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità
costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, 2016, pp. 63-180.
[24] In questa sede è semplicemente impossibile anche solo accennare alla
complessità della portata delle citate sentenze e a tutte le ricadute per il
nostro Paese. Tra le numerose pubblicazioni sul tema, v. E. Dolcini, F.
Fiorentin, D. Galliani, R. Magi, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza davanti
alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, Torino, 2020.
[25] In dottrina, tra i primi commenti a caldo della novella, si è parlato di
“percorso che scarica sul detenuto la prova”. V. A. Cisterna, Ergastolo
ostativo: la presunzione assoluta di pericolosità sostituita da un percorso che
scarica sul detenuto la prova, in Quotidiano Giuridico, 15.11.2022. Per una
disamina più approfondita della riforma dell’art. 4-bis, in un’ottica critica,
v. S. Metrangolo, ‘E quindi uscimmo a riveder le stelle’: l’ergastolo ostativo e
il diritto (negato?) alla speranza di uscire dal carcere dopo il d.l. 31 ottobre
2022, n. 162 e la relativa legge di conversione, in Arch. pen., fasc. 1,
gennaio-aprile 2023, pp. 81-96. L’A. conclude: «La via della collaborazione
sembra dunque, tuttora, la via maestra da percorrere per il condannato che
ambisca a uscire dal carcere e a dismettere le scomode vesti del “ribelle
sociale”» (p. 95).
[26] Basti pensare alle vicende della legge c.d. spazzacorrotti, introdotta come
panacea di tutti i mali della società italiana, con la quale nel catalogo di cui
all’art.4-bis ord.penit. erano finiti molti reati contro la pubblica
amministrazione, poi esclusi dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199.
[27] È stato argutamente osservato come l’art. 4-bis ord.penit. abbia «perso la
connotazione, che aveva in origine, di strumento specificamente finalizzato al
contrasto alla criminalità organizzata, per trasformarsi in uno strumento
politico funzionale a placare l’allarme sociale attraverso la creazione di
percorsi penitenziari intramurari, e perciò percepiti come ‘sicuri’, da
applicare a ‘tipi di autore’, considerati di volta in volta come i più
pericolosi per la società» (A. Della Bella, op. cit., p. 93).
[28] Ivi, p. 96.
[29] Per un commento alla sentenza Viola c. Italia, già richiamata, v. F.
Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità
umana, in E. Dolcini et alii, op. cit., pp. 67-86. La Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo già da tempo ha definito trattamenti inumani o degradanti tutte quelle
condotte che producono lesioni particolarmente gravi della dignità umana perché
capaci di instillare nell’individuo sentimenti di paura, di angoscia e di
inferiorità, atti ad umiliarlo ed eventualmente a fiaccarne la resistenza fisica
e morale (v. Corte EDU, sent. 18. 1.1978, Irlanda c. Regno Unito, Serie A/25, §
167).
[30] Tesi sostenuta anche da autorevole dottrina, che parla di “ricatto
psicologico” poiché «la scelta tra collaborare e non collaborare avviene sotto
la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e
possibilità di tornare liberi» (G. Fiandaca, Sì: l’Europa fa bene a ricordare
che ogni delinquente è potenzialmente capace di miglioramento grazie a
interventi di tipo rieducativo, in Il Foglio, 10.10.2019, ora in Id., Giustizia
penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Bologna, 2022, pp.
183-184).
[31] V., a titolo di es., S. Ardita, Intervento, in Opinioni a confronto. Il
‘carcere duro’ tra efficacia e legittimità, in Criminalia, 2007, pp. 249-262.
[32] Convinzione ribadita, da ultimo, in S. Ardita, Al di sopra della legge.
Come la mafia comanda dal carcere, Milano, 2022, p. 89, ove si legge: «È quasi
impossibile che un capomafia che non ha collaborato possa cambiare vita».
[33] M. Pavarini, Intervento, in Opinioni a confronto, cit., p. 265.
[34] L. Cesaris, Art. 41-bis. Situazioni di emergenza, in F. Della Casa, G.
Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, Milano, 6ª ed., 2019, p. 541.
Cfr. anche T. Padovani, La pena carceraria, Pisa, 2014, ove si legge: «Si tratta
di una variante della tortura, una variante soave. Io ti prospetto, anziché un
dolore, un premio, e naturalmente col premio sollecito atteggiamenti, reazioni,
collaborazioni della cui validità e fondatezza in realtà non ho sempre la
possibilità di rendermi conto, e che somigliano da vicino ai risultati che si
ottenevano con la tortura. Quindi la soave inquisizione. […] il sistema del
41-bis è costruito in modo tale che se non ti penti, cioè se non collabori, non
potrai mai demolire la capacità di collegamento con l’organizzazione criminale»
(pp. 332-333). Pur valorizzando tale aspetto rilevante della ‘inquisizione
soave’, non va sottovalutato, tuttavia, il portato di sofferenze fisiche e
psichiche che il regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. scarica sul detenuto.
Non c’è, dunque, soltanto il ‘premio promesso’, ma anche il surplus di concreta
sofferenza inflitta col ‘regime differenziato’.
[35] L. Tescaroli, Pentiti. Storia, importanza e insidie del fenomeno dei
collaboratori di giustizia, Soveria Mannelli, 2023, pp. 11, 95. L’Autore, in
altri luoghi della pubblicazione, si lamenta della più recente giurisprudenza
della Corte EDU e della Corte costituzionale per il loro lavoro di «progressiva
erosione della legislazione antimafia» (p. 96).
[36] Entrambi citati in S. D’Elia, M. Turco, Tortura democratica. Inchiesta su
“la comunità del 41 bis reale”, Venezia, 2002, p. 28. Il Dott. Maritati,
all’epoca relatore presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno
della criminalità organizzata mafiosa o similare, in vista della riforma
dell’art. 41-bis ord.penit., l’8 luglio 2002 ribadiva tale posizione: «La
definitività dell’istituto avrebbe… effetto positivo di incentivazione di
possibili collaborazioni con la giustizia proprio da parte di chi a quel regime
sarebbe destinato, permanendo i suoi collegamenti con la criminalità»,
sottolineando anche la funzione intimidatoria dello stesso, snaturandone del
tutto natura e fine, che dovrebbe essere la tutela della sicurezza esterna al
carcere (v. la relazione di A. Maritati trascritta nel Resoconto stenografico
della 20ª seduta lunedì 8 luglio 2002 della citata Commissione, p. 17).
[37] Dichiarazione riportata in Comitato europeo per la prevenzione della
tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), Rapport au
Gouvernement de l’Italie relatif à la visite effectuée par le Comité européen
pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou
dégradants (CPT) en Italie du 22 octobre au 6 novembre 1995, al § 93, pag. 37
(reperibile in www.cpt.coe.it).
[38] V. S. Ardita, Ricatto allo stato, Milano, 2011, p. 145.
[39] Intervista pubblicata in S. Curatolo, Ergastolo ostativo. Percorsi e
strategie di sopravvivenza, Soveria Mannelli, 2022, p. 53. Lo stesso autore,
ergastolano ostativo, nel suo bel libro “autoetnografico”, racconta di come sia
stato sollecitato a collaborare con la giustizia da appartenenti alle forze
dell’ordine durante alcuni colloqui predisposti da questi ultimi (v. p. 65).
[40] R. Indelicato, Cinque anni, un mese e venti giorni, in P. De Feo (a cura
di), Le Cayenne italiane, op. cit., pp. 53-54.
[41] B. Labita, La maglietta strappata, in P. De Feo, op. cit., p. 60.
[42] V. l’intervista rilasciata a Dina Lauricella, in R. Di Gregorio, D.
Lauricella, Dalla parte sbagliata. La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi
di Via D’Amelio, Roma, 2014, pp. 33-54.
[43] S. D’Elia, Prefazione a N. Dinoi, Dentro una vita…, op. cit., p. 13.
[44] Cfr. S. D’Elia, M. Turco, op. cit., pp. 95-289.
[45] A. Cospito, Dichiarazione di Alfredo Cospito all’udienza di riesame per le
misure cautelari dell’operazione ‘Sibilla’, in Archivio Primo Moroni, Calusca
City Light, Csoa Cox 18 (a cura di), Pensare l’impensabile, tentare
l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro l’ergastolo e il 41 bis, Milano,
2023, p. 23.
[46] Esse sono dettate dall’art. 41-bis, co. 2-quater ord.penit. Di recente la
Corte costituzionale si è espressa sulla disciplina prevista dal co. 2-quater,
lett. b), relativa ai colloqui, che prevede di attrezzare i locali destinati ai
colloqui visivi in modo da impedire il passaggio di oggetti. Il DAP a tal fine
predispone sale divise da vetri a tutta altezza; tuttavia, la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 105/2023, ha escluso che tale modalità vada
interpretata come l’unica soluzione percorribile, negando anche ogni automatismo
nell’esclusione dei minori ultradodicenni a sostenere colloqui con contatto
fisico diretto col genitore/nonno/a detenuti.
[47] In dottrina tale disposizione è stata giustamente definita una norma in
bianco, data la sua genericità, ulteriormente ampliata dall’utilizzo
dell’avverbio “principalmente”, che apre la possibilità di intervento
restrittivo anche per altre motivazioni, non strettamente legate alle esigenze
di impedire i contatti con l’esterno. Cfr. L. Cesaris, op. cit., p. 548.
[48] V. l’audizione del Dott. Giovanni Tinebra, pubblico ministero, all’epoca
dei fatti Direttore Generale del Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria, riprodotta nel resoconto stenografico della seduta della
Commissione antimafia dell’8.7.2022, cit., p. 46. Va notato che, coerentemente
con quanto lamentato sull’anomalia di Secondigliano (Napoli), nel corso degli
anni la relativa Casa di reclusione è stata sottratta al circuito dell’art.
41-bis, tanto che oggi il carcere più a Sud è quello di Roma-Rebibbia. Si noti,
per giunta, che il disegno originario del legislatore è ancora più preciso,
prevedendo l’art. 41-bis, comma 2-quater ord.penit. una preferenza esplicita per
i penitenziari ubicati nelle ‘aree insulari’, che rendono ancora più
difficoltosi e costosi i viaggi dei familiari. Si pensi alla Sardegna.
[49] Si adduce solitamente anche la necessità di tutela del personale di
sicurezza che altrimenti potrebbe subire pressioni locali. Motivazione
quantomeno bislacca, considerato che nelle sezioni speciali destinate all’art.
41-bis ord.penit. la custodia è garantita da un reparto specializzato del Corpo
della Polizia Penitenziaria quale è il GOM e dai suoi reparti locali (ROM) (art.
41-bis, comma 2-quater ord.penit.).
[50] L’importanza dell’affettività per i detenuti, soprattutto per quelli di
lungo corso e per gli ergastolani, a maggior ragione se ristretti in regime
differenziato, è raccontata da alcuni di essi in F. De Carolis (a c. di), Urla a
bassa voce, Viterbo, 2012, pp. 67-74.
[51] Si tratta di una costante nei racconti dei detenuti sottoposti alla
disciplina di cui all’art. 41-bis ord.penit. sentiti durante l’inchiesta
condotta da S. D’Elia, M. Turco, op. cit., pp. 95-289 nonché nelle lettere
pubblicate in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 49-92. Ciò è tanto più vero
tenuto conto che la maggior parte dei detenuti nel predetto regime differenziato
proviene dalla Campania, dalla Sicilia e dalla Calabria, per cui i familiari
devono sostenere viaggi di migliaia di chilometri tra andata e ritorno, con i
relativi costi, per poter svolgere un colloquio di un’ora.
[52] Quella dell’allontanamento abissale dei “nemici” dai luoghi di provenienza
è una pratica politica di “guerra”, finalizzata a spezzare legami familiari e di
solidarietà. Si pensi ad es. alle esperienze dei prigionieri politici baschi,
smistati a centinaia/migliaia di chilometri dai luoghi di origine, quando non
“deportati” in altri Paesi, per cui i familiari sono costretti a sopportare
viaggi lunghi, costosi e necessariamente rari per incontrarli. V. sul punto la
testimonianza diretta di A. Etxegarai, Ritornare a Sara. Testimonianza di un
deportato basco, Roma, 2002.
[53] La Corte costituzionale, nel corso degli anni, dopo un iniziale periodo di
maggiore timidezza, è intervenuta più volte a censurare quantomeno le
restrizioni più stridenti col dettato costituzionale, pretendendo una relazione
funzionale di stretta necessità tra le esigenze di sicurezza e le limitazioni
imposte. V., ad es., le sentenze della Corte cost. n. 351/1996 e n. 97/2000.
[54] Debordando anche dalle soglie di “dolore e sofferenze” connaturate
fisiologicamente alle sanzioni legittime come indicate dall’art. 1, ultimo
periodo della citata Convenzione contro la tortura.
[55] N. Amato, I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e
carcere duro, Milano, 2012, p. 170.
[56] Ivi, p. 172. In maniera ancora più precisa, proseguendo nel ragionamento,
l’Autore paventa la riconducibilità alla tortura di simili condizioni di
detenzione qualora venissero imposte per provocare la collaborazione con la
giustizia. Un vero e proprio obiettivo “inconfessabile” (ivi, pp. 172-173).
[57] Ivi, pp. 194-195.
[58] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà
personale, Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41-bis
dell’Ordinamento penitenziario, Roma, 20.3.2023, p. 30.
[59] Il tutto in violazione dell’art. 6, co. 1 ord. penit., stando alla quale «I
locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere
di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da
permettere il lavoro e la lettura; areati, riscaldati per il tempo in cui le
condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati,
decenti e di tipo razionale».
[60] La spersonalizzazione ulteriore, in alcuni casi, si persegue con il cambio
improvviso e frequente delle celle. Questa pratica è testimoniata da Salvatore
Curatolo: «Ogni due o tre giorni ti facevano cambiare stanza senza un reale
motivo, ma solo per non lasciarti tranquillo. […] molte volte succedeva che,
mentre eri ai passeggi, prendessero le tue cose e le portassero in un’altra
cella» (S. Curatolo, op. cit., pp. 78-79).
[61] Garante Nazionale, op. cit., p. 30.
[62] Ivi, p. 33.
[63] Ib. Condizioni per nulla mutate nel corso dei decenni di applicazione del
regime di 41-bis ord penit., se è vero che già più di venti anni fa numerosi
detenuti testimoniavano su tale particolare tema con simili espressioni di
denuncia: «In questi 10 anni di 41 bis è venuta meno la vista», «Stiamo
diventando ciechi per via delle barriere di plastica alle finestre» (v. S.
D’Elia, M. Turco, op. cit., p. 172). Altre testimonianze dello stesso tenore si
trovano nelle lettere dei detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit.
raccolte in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 49-92.
[64] Garante Nazionale, op. cit, p. 33.
[65] È stato osservato come vi sia una vera e propria costruzione scientifica
dei gruppi di socialità di cui all’art. 41-bis ord.penit., finalizzata alla
riduzione al minimo degli scambi interpersonali: solitamente un detenuto è molto
anziano e un altro ammalato, per cui non abbandonano mai la cella; dunque la
condivisione dell’aria e della socialità si riduce ad una relazione a due
persone (v. S. Curatolo, op. cit., p. 82). La possibilità di comporre i gruppi
in questo modo è agevolata dal fatto che oramai, tenuto conto della presenza di
numerosi detenuti in regime di art. 41-bis ord.penit. da molti anni, è più
facile trovare quelli particolarmente anziani e/o ammalati. In merito a tale
pratica, le parole di un detenuto suonano come un epitaffio: «Magari capiti in
gruppo con persone anziane, magari stanche e ammalate, allora diventa un
ospizio, un’attesa per il viaggio finale» (cit. in E. Kalica, La pena di morte
viva. Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico, Milano, 2019, p. 80).
[66] E. Kalica, op. cit., pp. 97-98.
[67] Ivi, pp. 85-86.
[68] Spesso, peraltro, il silenzio è imposto anche nei rapporti tra detenuti e
agenti del GOM, i quali assumono soli compiti di controllo e repressione e la
cui “cultura dell’interlocuzione”, d’altronde, ebbe modo di manifestarsi in
tutta la sua brutalità nella caserma di Bolzaneto, a Genova, durante il G8 del
2001. Tale prassi del silenzio veniva censurata già più di venti anni fa in un
rapporto del CPT del 2000 (cit. in A. Della Bella, op. cit., p. 358, nota 99).
[69] E. Kalica, op. cit., p. 119.
[70] A. Caruso, Annientato dal carcere e dal 41 bis, sono salvo grazie allo
studio, in Nessuno Tocchi Caino, Pena di morte e morte per pena, Roma, 2023, p.
196.
[71] D. De Cesare, op. cit., p. 21.
[72] M. La Torre, in M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la
tortura?, op. cit., pp. 126.
[73] La circolare del DAP del 2017, già richiamata, prevede in teoria il ricorso
alla perquisizione col metal detector; solo in caso di «comprovate ragioni di
sicurezza», da dover annotare in una relazione di servizio, si dovrebbe
procedere a quella manuale (art. 16). Dette prescrizioni sono ribadite anche
nell’art. 25.1.
[74] V. le testimonianze di detenuti riportate in E. Kalica, op. cit., pp. 72,
82.
[75] L’annotazione di tale pratica è riportata ivi, pp. 68-69.
[76] Nel lavoro etnografico condotto da Elton Kalica, in merito si osserva: «…
la corrispondenza [è] una fonte di frustrazione… la pratica della censura ha un
effetto demotivante e demoralizzante sui detenuti al punto da costringerli
inizialmente a snaturare il linguaggio nei rapporti affettivi» (ivi, p. 69).
[77] La seguente testimonianza di un detenuto è particolarmente eloquente: «Alla
mattina ti facevi il caffè perché veniva il lavorante e ti portava le tue cose.
Alle sette di sera se ne andavano, il fornello, la caffettiera… Perciò tu dopo
le otto di sera se ti faceva male la testa e ti volevi fare una camomilla, non
te la potevi fare… cosa c’entra questo con la pericolosità? Erano tutte secondo
me cose per fiaccarti e per andare al pentimento, io lo dico non è che mi
nascondo» (cit. in E. Kalica, op. cit., p. 76). D’altronde, prima ancora che la
Corte costituzionale intervenisse per dichiarare l’illegittimità del divieto di
cucinare cibi in cella (sent. n. 186/2018), in caso di uso “improprio” del
pentolino (far bollire, ad es., la cipolla invece dell’acqua) veniva applicata
una sanzione disciplinare (v. E. Kalica, op. cit., p. 77). Sul punto si legga
anche la testimonianza diretta di un detenuto a Rebibbia: «… per aver riscaldato
le melenzane che mi avevano dato la sera precedente e aggiungendo solo due
spicchi d’aglio, sono stato rapportato con sanzione disciplinare e isolato per 5
giorni» (in Camera Penale di Roma, op. cit., p. 87). Ancora di recente, la S.C.
ha ribadito che i limiti di orario imposti per cucinare in cella costituiscono
un legittimo esercizio della potestà riconosciuta all’Amministrazione
penitenziaria ai sensi dell’art. 36, lett. b) d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 (v.
Cass., Sez. I, sent. 24 gennaio 2024, n. 7886. Le fasce orarie per poter
cucinare in cella, nel caso di specie, erano le seguenti: 11:30-13:00 e
16:30-18:30). Anche per poter scambiare oggetti tra membri dello stesso gruppo
di socialità (ad es., zucchero, caffè, prodotti per l’igiene personale o per la
pulizia della cella) si è dovuta attendere un’altra sentenza della Corte
costituzionale (n. 97/2000). Ad ogni modo, lo scambio dei cibi cotti, oggi
possibile, è sottoposto ad una snervante procedura burocratica di preventiva
comunicazione all’Amministrazione e successiva attestazione di ricezione, con
l’evidente scopo di disincentivarlo. La perversione burocratica del controllo
maniacale anche dei gesti più inoffensivi si riscontra in alcune limitazioni
spiegabili esclusivamente in un’ottica di pura afflittività: un detenuto
sottoposto all’art. 41-bis ord.penit., ad es., raccontava di come
l’amministrazione dell’istituto di pena consentisse di acquistare i baci
Perugina solo per regalarli ai familiari in occasione dei colloqui e non per
consumo personale (v. la testimonianza di Paolo Amico in S. D’Elia, M. Turco,
op. cit., p. 103). Di recente, invece, è addirittura intervenuta la Corte di
Cassazione a vietare il possesso di una borsa frigo rigida in cella (richiesta
in sostituzione di una borsa frigo morbida per una migliore conservazione del
cibo) (v. D. Aliprandi, Cassazione: al 41 bis vietata la borsa frigo per
conservare il cibo, in Il Dubbio, 30.8.2023). In altra occasione, il giudice di
legittimità ha dichiarato legittimo il diniego di utilizzo del frigorifero della
sezione di assegnazione per la conservazione di cibi freschi e congelati, in
luogo delle borse termiche con tavolette refrigeranti, ammesse all’interno della
cella, trattandosi di disposizione organizzativa che non lede il diritto alla
sana alimentazione del detenuto (Cass., Sez. I, sent. 9 febbraio 2023, n. 5691).
[78] A ciò si aggiunga che spesso il “sindacato” sul libro da poter acquistare o
meno è particolarmente invasivo (oltre che privo di ragione alcuna, se non
quella puramente afflittiva). Tra i numerosi provvedimenti adottati dal DAP e
avallati dalla magistratura di sorveglianza, ad es., vi è il divieto relativo ad
alcuni libri di diritto (a firma della prof.ssa Marta Cartabia, già Presidente
della Corte costituzionale, e del prof. Adolfo Ceretti), per evitare di porre il
detenuto in posizione di privilegio (grazie ai suoi studi!) agli occhi degli
altri detenuti e, dunque, aumentarne il carisma criminale (l’accrescimento
culturale, da elemento del trattamento degrada a fattore di pericolosità; a
dimostrazione di come l’obiettivo sia la regressione delle persone sottoposte a
tale regime). In altri casi, invece, sono state vietate le riviste
pornografiche, considerate non un diritto dal DAP. Entrambi gli episodi sono
riportati da M. Brucale, Non puoi sfogarti né desiderare, anche pensare è
proibito al 41 bis, in Nessuno Tocchi Caino, op. cit., pp. 173-174.
[79] Ad Alfredo Cospito è stata vietata persino la detenzione di alcune
fotografie che ritraggono i genitori, tanto da essere stato costretto ad
attivare i rimedi giurisdizionali. V. F. Cimini, Tolte di nuovo a Cospito le
foto del padre e della madre, in Il Dubbio, 13.7.2023. In un altro caso, la
Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il divieto di far realizzare non più
di una fotografia all’anno con i propri congiunti, non incidendo tale
limitazione sul diritto soggettivo all’affettività, ma solo sulle modalità del
suo esercizio affidate alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria
(v. Cass., Sez. I, sent. 10 gennaio 2023, n. 443: nel caso di specie si trattava
della richiesta di un detenuto di scattare almeno quattro fotografie all’anno
con la figlia minorenne).
[80] La Corte di Cassazione, inoltre, in più occasioni ha dichiarato la
legittimità del diniego di autorizzazione all’acquisto e alla detenzione di
compact disk e dei relativi lettori digitali, qualora la messa in sicurezza dei
dispositivi e supporti non sia possibile per l’incidenza sull’organizzazione
della vita dell’istituto in termini di impiego di risorse e materiali (v. per
tutte: Cass., Sez. I, sent. 23 maggio 2023, n. 35687). I parametri utilizzati
dalla S.C. sono talmente ampi e vaghi da riconoscere, in pratica, in capo
all’Amministrazione penitenziaria, un potere decisionale insindacabile.
[81] Cit. in A. Della Bella, op. cit., p. 357, nota 97.
[82] La sospensione in tutto o in parte dell’applicazione delle regole
trattamentali (ex art. 41-bis, co. 2 ord.penit.) entra in stridente
contraddizione con il presupposto per la concessione della liberazione
anticipata (l’aver «dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione» ex
art. 54 ord.penit.). A rigor di logica, dunque, ai detenuti sottoposti al regime
differenziato non potrebbe essere riconosciuta alcuna liberazione anticipata,
poiché impossibilitati a svolgere qualsiasi percorso rieducativo (che ai sensi
dell’art. 1, co. 2 ord.penit. è – dovrebbe essere – individualizzato).
Contraddizione colta limpidamente dal Procuratore nazionale antimafia, il quale,
audito alla Camera dei deputati sulla proposta di legge della liberazione
anticipata speciale, ha evidenziato la sua insensatezza per i detenuti
sottoposti al regime differenziato, tenuto conto che per loro non è previsto
alcun trattamento penale (v. M. Brucale, Lo ammette anche Melillo: per i
detenuti al 41 bis la rieducazione non si fa, in Domani del 19.4.2024).
[83] E. Cataldo, Il regime del 41 bis O.P. e la rieducazione penitenziaria,
Roma, 2023. p. 34, al quale si rimanda per approfondire il tema della
rieducazione negata in regime di art. 41-bis ord.penit. L’A. osserva: «Un
contesto rigido e disciplinato come il regime previsto al 41 bis o.p. non
innesca e non instilla alcuna intenzionalità nell’avvio di un iter pedagogico,
ma rafforza l’accettazione di una condizione statica e preordinata, con i
conseguenti effetti di immobilismo anche sul piano cognitivo, affettivo e
relazionale, oltre che nella struttura del pensiero» (p. 68). Ancora: «In
assenza di percorsi rieducativi il condannato resta confinato in un passato
senza tempo, nella negazione del presente e del futuro e attraverserà
un’esistenza congelata al soliloquio e priva di impulsi» (p. 49). Il carcere,
dunque, in questo caso assume la sola finalità contenitiva, di pura
neutralizzazione, in violazione dell’art. 27, co. 3 Cost.
[84] Sono numerosi, infatti, i detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. da
più di venti anni. Sull’effetto “imbutiforme” di detto regime speciale v. A.
Della Bella, op. cit., pp. 196-201 e i due Rapporti tematici del Garante
Nazionale dei detenuti del 2019 e 2023.
[85] Il provvedimento applicativo originario del regime speciale ha durata di
quattro anni e i rinnovi hanno durata biennale (v. art. 41-bis, co. 2-bis
ord.penit.).
[86] Per un’introduzione alla materia, v. S. Shalev, A sourcebook on solitary
confinement, Londra, 2008. Le numerose limitazioni imposte al detenuto in regime
di isolamento producono effetti sulla psiche e sulla personalità. Conseguenze
illustrate in innumerevoli studi oramai da lungo tempo. Già sul finire degli
anni ’70 veniva osservato: «In isolamento, al prigioniero viene a mancare la
possibilità di attualizzare una delle caratteristiche precipue dell’uomo: quella
di essere trasformatore dell’ambiente mediante l’azione e guidato da un
progetto. Il rapporto tra l’individuo e l’ambiente è contemporaneamente e in
modo intrecciato il rapporto tra il fisico dell’uomo e la materialità
dell’ambiente e tra lo psichico dell’uomo e le qualità vitali dell’ambiente. In
una stanza piccola bianca disadorna neonilluminata isolata, la neurofisiologia
della percezione è come sofferente, si atrofizza; ma la vera sofferenza, l’umana
sofferenza, sta nell’impossibilità di intenzionare la percezione intesa come
l’atto attraverso il quale la coscienza si colloca in presenza di un soggetto
spazio-temporale. Mancano gli oggetti per fare progetti. Il vissuto percettivo è
lacerato, frammentato. Il fatto che i sensi non siano in una certa qual maniera
nutriti dal flusso di stimoli esterni ed interni, li rende inutili, li fa
morire. Perciò la vittima disorientata, isolata e privata delle sensazioni si
avvia verso una morte subdola che non sarà “sentita”» (v. S. Mistura, op. cit.,
p. 36).
[87] Alcune perizie disposte durante i processi ai militanti della RAF, ad es.,
provarono come un «prolungato isolamento sociale porta gravi danni fisici alle
persone […]: difficoltà di concentrazione, disturbi nella coordinazione dei
movimenti e nell’orientamento, amnesie, restrizione della capacità sensitiva,
difficoltà di articolazione, scarsa capacità di prestazione e rapido
esaurimento, crescente stanchezza, senso di spossatezza, svenimenti, emicranie,
rilassatezza, fame. […] considerevole perdita di peso, diminuzione della massa
muscolare, particolarità nello svolgersi dei movimenti, costante abbassamento
dei valori della pressione sanguigna, talvolta molto bassi, accompagnata da una
crescente frequenza delle pulsazioni in particolare modo nello stare in piedi e
dopo uno sforzo, ed anche significative anomalie nell’elettrocardiogramma sempre
nelle stesse condizioni. […] in tutti i detenuti sono stati riscontrati gravi
disturbi nel funzionamento dei centri nervosi centrali che, tramite il sistema
neurovegetativo, guidano i singoli organi che influiscono sulla capacità di
sostenere il dibattimento». Ancora, su un altro detenuto vennero riscontrati
«disturbi della memoria, in particolare della memoria temporale, torpore,
disturbi nella comprensione delle parole e delle proposizioni, nebbia davanti
agli occhi, continuo ronzio alle orecchie, amenorrea» (v. la scheda dei
Risultati delle perizie medico-legali eseguite a Stoccarda e ad Amburgo, in
Crit. dir., n. 7-8/1976, pp. 138-139). Sulla ‘deprivazione sensoriale’ come
forma di tortura e sulle sue conseguenze psicofisiche sui corpi dei detenuti, v.
anche S. Teuns, La tortura della ‘privazione sensoriale’, in Crit. dir., cit.,
pp. 134-137. Un confronto più approfondito, impossibile in questa sede,
consentirebbe di evidenziare l’estrema similitudine se non quasi la totale
sovrapponibilità delle discipline osservate nelle carceri speciali della RFT
contro i “nemici interni” con il regime dell’art. 41-bis ord. penit. nostrano.
V., ad es., anche Aa.Vv., La morte di Ulrike Meinhof. Rapporto della Commissione
internazionale d’inchiesta, Napoli, 1979, pp. 15-21 sulle condizioni di
detenzione. Gli es. potrebbero moltiplicarsi, basti pensare alle esperienze dei
prigionieri politici irlandesi nelle carceri inglesi in quegli stessi anni, ove
si consumarono le prime sperimentazioni delle tecniche di ‘tortura senza
contatto’ contro i detenuti (v. A. Puggioni (a cura di), Tortura in Irlanda,
Roma, 1972).
[88] Un decano di questi studi, il Prof. Stefano Ferracuti, ha osservato come i
regimi speciali simili a quello previsto all’art. 41-bis ord.penit. producano
«forme marcate di somatizzazioni […] indicative di profonda insicurezza
personale […] il che rende la persona più suscettibile allo sviluppo di disturbi
psichici», comportando, detti regimi, «una seria possibilità di sviluppo di
sintomi psichiatrici, anche gravi, ed un generale indebolimento della
personalità», collegato anche alla perdita pressoché totale dell’autonomia; v.
S. Ferracuti, Conseguenze psicologiche e psichiatriche dei regimi detentivi di
massima sicurezza, in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 41-42.
[89] Quello italiano è un caso a parte. Il sovraffollamento strutturale e le
pessime condizioni di detenzione stanno provocando una vera e propria ecatombe
negli istituti penitenziari, che vedono crescere il numero di suicidi a ritmi
impressionanti e anche tra le fasce di età più basse. Al 21.8.24 dall’inizio
dell’anno si sono già consumati 67 suicidi in carcere.
[90] Per un approfondimento di questi temi e per la relativa letteratura
scientifica, v. S. Shalev, op. cit., pp. 15-23. Sarebbe a tal proposito
interessante avere dati puntuali e aggiornati sulla diffusione degli
psicofarmaci nelle sezioni destinate ai detenuti sottoposti al regime di cui
all’art. 41-bis ord.penit. e tra gli ergastolani ostativi. Se la loro diffusione
è oramai amplissima persino tra i detenuti ‘comuni’, tanto da far parlare di
vera e propria ‘sedazione di Stato’, non è peregrino immaginare tassi
elevatissimi di consumo tra i detenuti sottoposti ai regimi speciali. Sul tema
degli psicofarmaci nei penitenziari italiani, v. A. Giunti, In carcere
psicofarmaci a pioggia: per riprendermi ci ho messo 3 anni, in L’Espresso,
1.1.2016; Id., Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri
umani, in L’Espresso, 1.2.2016; A. Scandurra, L’Osservatorio di Antigone nelle
sezioni femminili d’Italia, in Antigone, Dalla parte di Antigone. Primo rapporto
sulle donne detenute in Italia, Roma, 2023, il quale osserva: «Fanno
regolarmente uso di psicofarmaci addirittura il 63,8% delle donne presenti,
contro il “solo” 41,6% degli uomini» (p. 216). Denunce del medesimo tenore
provengono dai detenuti. Tra le numerose testimonianze in tal senso, v. S.
Curatolo, op. cit., il quale osserva: «Psicologi e psichiatri in carcere
risolvono troppo rapidamente i disturbi delle persone con un medicinale» (p.
69); oppure quella di un ergastolano “ostativo”: «Per i mali psichiatrici…:
litri di Valium e cocktail di psicofarmaci. Chi sta male non è una persona da
curare ma è uno che dà fastidio» (denuncia riportata in F. De Carolis (a c. di),
op. cit., p. 103).
[91] Non risulta condivisibile la presa di posizione netta del Garante nazionale
dei detenuti, il quale – dopo aver qualificato come ‘pene corporali’ numerose
limitazioni e condizioni di vita in regime di art.41-bis ord.penit.–, in
un’intervista al principale quotidiano italiano, pur sostenendo la necessità di
eliminare molti eccessi del regime speciale, conclude nel seguente modo: «Un
sistema che interrompa le connessioni nella criminalità organizzata è doveroso e
chi parla di tortura non sa ciò che dice» (v. G. Buccini, 41 bis, necessità ed
eccessi di una normalità abnorme, in Corriere della Sera dell’11.12.2023). Una
presa di posizione che sembra più “ideologica” che analitica.
[92] F. Palazzo, Prefazione a E. Dolcini et alii, op. cit., p. x.
[93] La prevenzione generale, che attiene tipicamente alla fase della
comminatoria della pena, dovrebbe ridursi ai minimi termini nella sua fase
esecutiva. In questo caso, invece, essa si riespande per scopi tutti politici, a
detrimento della prevenzione speciale e della finalità rieducativa della pena.
Sulle funzioni della pena secondo le fasi della sua dinamica, nella
manualistica, v. C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino,
UTET, 2016, 5^ ed., pp. 63-66. Sulla necessità, invece, di informare tutto il
‘discorso sulla pena’, in ogni sua fase, al principio rieducativo (rectius: di
‘reinserimento sociale’), v. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore.
Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, soprattutto il cap.
4. Sul piano giurisprudenziale, paradigmatica di una simile impostazione, è la
sentenza della Corte costituzionale del 26 giugno 1990, n. 313.
[94] La centralità del carcere è stata ribadita di recente dal Ministro della
Giustizia, la cui principale opzione di politica penitenziaria consiste nella
costruzione di nuove carceri in una prospettiva di medio termine (v.
l’intervento tenuto dal Ministro Carlo Nordio all’inaugurazione dell’anno
giudiziario organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, tenutosi a
Roma lo scorso 10.2.2024 – visionabile sul canale YouTube dell’UCPI).
Coerentemente con tale impostazione, l’art. 4-bis del d.l. 4 luglio 2024, n. 92,
così come modificato dalla l. di conv. 8 agosto 2024, n. 112, prevede la nomina
di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria (con la finalità
precisa di «far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti
penitenziari» – art. 4-bis, comma 1) che, tra gli altri compiti, ha quello di
realizzare nuovi istituti penitenziari (art. 4-bis, comma 3, lett. a).