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Zone rosse: la costruzione di persone pericolose
Dai social alle ordinanze dei prefetti una serie di gruppi sociali e di persone razzializzate sono definiti “pericolosi”, dando molto più potere nelle mani delle forze dell’ordine lasciandogli piena discrezionalità di Vanessa Bilancetti da DINAMOpress Mercoledì della scorsa settimana – il giorno dopo l’uscita del video dell’inseguimento e dell’uccisione di Ramy Elgaml – abbiamo pubblicato sul canale instagram di Dinamo press il video di un fermo avvenuto nel quartiere San Lorenzo di Roma che ci era stato inviato da unƏ nostrƏ lettorƏ che era sul posto. Nella descrizione del video scrivevamo: «Quattro volanti corrono a sirene spiegate più di dieci agenti escono e afferrano un uomo lo buttano a terra violentemente, lo chiudono, si stringono intorno a lui per impedire di vedere la scena, lo ammanettano e poi lo caricano sull’auto. Una persona che faceva un video è stata identificata. E le persone accorse sono state allontanate. La dinamica non è chiara, ma era stato trovato a rubare delle cose da mangiare in un supermercato accanto a dove è stato preso in arresto. Le violenze contro le persone razzializzate e povere da parte delle forze dell’ordine nelle nostre città si moltiplicano e amplificano, il governo Meloni si compiace e lo trascrive tra i propri successi. Ma questa è veramente sicurezza?». Abbiamo avuto la conferma nei giorni seguenti che la persona era stata fermata perché trovata a rubare nel supermercato vicino al luogo del suo arresto. > Non crediamo sia utile chiederci quante volanti siano necessarie per fermare > un uomo che sottrae del cibo e che, scoperto, tenta di scappare dopo aver > avuto una colluttazione con il responsabile del negozio. Ci sembra invece più > utile inquadrare questo video nella partita aperta dal governo intorno alla > questione “sicurezza”. Data 3 gennaio, infatti, l’ordinanza del prefetto di Roma, che istituisce le nuove zone rosse nella città, tra cui la stazione Termini ed Esquilino, a seguito della direttiva inviata dal Ministro degli Interni ai prefetti poco prima di Capodanno e già attuate a Firenze, Bologna, Milano e Napoli. Nelle aree individuate in queste città «sono state controllate complessivamente 24.987 persone, con l’emissione di 228 provvedimenti di allontanamento», come leggiamo nella nota del Ministero aggiornata al 9 gennaio. In queste zone è possibile emettere ordini di allontanamento e divieti di accesso per persone considerate pericolose «perché denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano», come definisce la direttiva Piantedosi del 17 dicembre. L’idea è quella di «prevenire e contrastare l’insorgenza di condotte di diversa natura che – anche quando non costituiscono violazioni di legge – sono comunque di ostacolo al pieno godimento di determinate aree pubbliche, caratterizzate dal persistente afflusso di un notevole numero di persone». > Quindi con l’istituzione delle zone rosse diventa possibile allontanare tutte > le persone che possono “sembrare” pericolose. Ma sulla base di quali > percezioni i comportamenti e le persone possono essere considerate pericolose? E qui ritorniamo al nostro video di una persona che viene fermata e portata via da quattro volanti per aver rubato in un supermercato. La persona in questione è razzializzata e il fermo avviene nel quartiere limitrofo alla nuova zona rossa, stazione Termini. Il video in poche ore è virale, oggi ha superato le 210.000 visualizzazioni. Più il video gira più i commenti diventano apertamente razzisti, in supporto dell’operato delle forze dell’ordine e di offesa al nostro lavoro considerato “buonista”. La torsione avviene, in particolare, quando tre pagine instagram “notizie locali”, “Italia spaccona” e “non.fa.ridere” remixano il video con il solo titolo “quattro volanti” e riportando solo la parte introduttiva della nostra descrizione. Queste sono pagine che ripostano solo contenuti riguardanti gli spazi urbani “degradati”, persone che vivono in strada in situazioni difficili e contenuti denigratori nei confronti di persone migranti e razzializzate. > Ed ecco come il nostro stesso contenuto si trasforma in qualcos’altro. Da un > video di denuncia di un uso eccessivo della forza pubblica, a un video che > insulta la persona in stato di fermo, ed esulta del suo arresto. A questo > punto abbiamo bloccato i commenti e i remix, limitando la circolazione del > video, perché il nostro obiettivo non erano le visualizzazioni in quanto tali. Una traccia simile può essere seguita per le “borseggiatrici”, che dall’estate scorsa sono diventate virali in centinaia di video girati in tutte le città d’Italia. Fino ad approdare in un articolo del DdL Sicurezza, dove si apre «la possibilità per le donne incinte e per le madri con figli entro l’anno di età, il rinvio della pena non più obbligatorio, come stabilisce l’articolo 146 del codice penale, ma diventerà facoltativo, a discrezione del giudice», come scrive Anna Pizzo sul nostro sito. Anche qui la norma ha una chiara matrice etnica e si indirizza alle donne rom e sinti. E potremmo continuare con le polemiche montate ad arte tra giornali cartacei, programmi televisivi e social sui “maranza” del capodanno a Milano, o le baby gang (sempre di seconda generazione) nell’estate di Rimini. > La percezione, quindi, si costruisce in questo ecosistema mediale, che > amplifica e moltiplica razzismo, xenofobia, e islamofobia, per questioni di > click e accaparramento di fette di mercato. E che con l’abolizione del fact > checking di Meta potrà solo peggiorare. Gli youtuber, ripresi dalle televisioni e ormai invitati alle feste di partito, che fanno milioni di views sulla stazione Termini «violenta» e «insicura» costruiscono questa percezione sociale di pericolosità. Decreti e ordinanze iscrivono questa pericolosità a livello istituzionale, dando alle forze dell’ordine la possibilità di perseguire qualsiasi «condotta di diversa natura» e lasciando loro piena discrezionalità al di fuori di qualsiasi controllo. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 16, 2025 / Osservatorio Repressione
Dopo Ramy: violenza, ordine pubblico, ipocrisia
In alcune manifestazioni di protesta per la morte di Ramy Elgaml ci sono stati scontri tra dimostranti e forze di polizia. Come, in casi analoghi, a Los Angeles, a Lione o a Londra. Ma la maggior parte della politica ha preferito ignorare le ragioni della protesta e invocare repressione per i manifestanti e impunità per la polizia. Ancora una volta, meglio raccattare qualche voto in più che affrontare i problemi… di Livio Pepino da Volere la Luna Il 24 novembre Ramy Elgaml, 19 anni, egiziano, da tempo residente in Italia, muore a Milano, sbalzato dal sellino posteriore della moto guidata da un coetaneo, nello schianto della stessa all’esito di un inseguimento per le vie cittadine, protrattosi per otto chilometri, da parte di due auto dei carabinieri. La dinamica dello schianto (stando ai filmati diffusi sui media e acquisiti dalla Procura di Milano) rende verosimile lo speronamento della moto da parte di una delle auto inseguitrici e la responsabilità (quantomeno) del carabiniere che la guidava. Nei giorni successivi Ramy diventa un simbolo e, prima a Milano e poi nel resto del Paese, si susseguono manifestazioni di protesta, spontanee e auto organizzate, per quella morte assurda. In alcune di esse – a Torino, a Bologna, a Roma – si verificano “disordini” e scontri tra i dimostranti e le forze di polizia. Il copione è sempre lo stesso. Gli striscioni e gli slogan gridano all’omicidio di polizia. Le forze dell’ordine cercano di impedire l’accesso a zone centrali o l’avvicinamento a edifici pubblici sensibili (caserme, commissariati, ambasciate…). Dal corteo partono lanci di lattine e bottiglie. La polizia carica. Mentre il corteo si disperde, alcuni dimostranti lanciano petardi o bombe carta rudimentali. La cosa si ripete due o tre volte fino a che la manifestazione si scioglie lasciando sul campo segnali stradali divelti, cassonetti rovesciati e qualche escoriazione ad agenti di polizia e a dimostranti. I quotidiani e i telegiornali del giorno dopo sono pieni di articoli sparati con grande evidenza in cui si evocano scene di guerriglia e città messe a ferro e fuoco. Parallelamente la maggior parte della politica – di destra, ma non solo – si straccia le vesti, parla di delinquenti e teppisti che devastano le città, stigmatizza la “inaccettabile violenza” e solidarizza con le forze di polizia “senza se e senza ma”. Chi si stacca dal coro – soprattutto a sinistra – lo fa, per lo più, con imbarazzo e con mille distinguo. Tutto già visto e già detto, anche quanto alla superficialità e alla strumentalità delle analisi e delle dichiarazioni. Consumato l’ossequio al rito della (doverosa) critica della violenza – che si vorrebbe, peraltro, senza distinzioni: cioè da qualunque parte esercitata – è, finalmente, tempo di riprendere a ragionare, partendo da alcuni punti fermi. Primo. Le manifestazioni che attraversano il mondo (contro la guerra, contro il razzismo, contro le ingiustizie, contro l’autoritarismo, per il lavoro e via elencando) portano con sé, talora, violenze e scontri con le forze dell’ordine. Accade da sempre. Basta aver letto qualche classico. Uno per tutti: «“Pane! pane! aprite! Aprite!” […] “Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! Che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giù quelle mani. Vergogna. Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi… Ah canaglia!”. Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. “Canaglia! canaglia!” continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. […] Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1840-1841, cap. XII). È così da sempre: per scelte o per dinamiche incontrollate. Non si tratta di giustificare o minimizzare, ma di guardare in faccia la realtà per quel che è e non per quel che si vorrebbe secondo i propri gusti e le proprie inclinazioni. Personalmente – lo dico per inciso – non ho mai ceduto alla fascinazione della violenza: perché le dure lezioni della storia hanno dimostrato che raramente essa è levatrice di democrazia e di libertà e, al contrario, la sua pratica alimenta assai spesso prevaricazioni e ulteriore violenza. Ma prendere atto della realtà non è un lusso intellettualistico, bensì il presupposto per affrontarla in modo non velleitario. Lo aveva capito persino il legislatore fascista che, proprio in considerazione delle dinamiche proprie dei grandi assembramenti, aveva inserito nel codice penale la disposizione dell’art. 62 n. 3, dedicata alla circostanza di «aver agito per suggestione di una folla in tumulto» (fonte, in caso di condanna, di una riduzione di pena). Secondo. Le cose non cambiano se, dalla storia e dalla sociologia, si passa alla geografia e alla geopolitica. Proteste e scontri sono simili, se non identici, in ogni parte del mondo. Ad essere diverse sono, a ben guardare, solo le reazioni che le accompagnano. Se i fatti avvengono in paesi geograficamente e politicamente lontani (per esempio in Georgia, a Caracas o a Hong Kong), i manifestanti sono comunque – e spesso a ragione, beninteso – considerati avanguardie di libertà e di progresso mentre le forze dell’ordine sono descritte come strumenti del potere dediti a una repressione brutale e ingiustificata. Se, invece, quegli stessi fatti avvengono a casa nostra, gli scontri sono enfatizzati come episodi di guerriglia anche in assenza di danni alle persone, i dimostranti vengono definiti teppisti e delinquenti tout court, la polizia è considerata sempre vittima di aggressioni ingiustificate (a prescindere dalle modalità del suo intervento). Tutto questo in ogni caso, indipendentemente dalle ragioni delle proteste, che restano sullo sfondo come particolare irrilevante o, comunque, di secondaria importanza. L’irrazionalità dell’approccio ne rivela la strumentalità e suggerisce di cambiare registro, almeno se la finalità dell’analisi è quella di individuare politiche adeguate e non di raccattare qualche voto in più parlando alla pancia di masse disinformate. Terzo. Veniamo, a questo punto, ai fatti dei giorni scorsi, che, pur nel quadro generale delle manifestazioni di piazza, hanno una loro innegabile specificità. Lo si vede anche dall’esperienza comparata. Quel che è successo a Torino, a Roma o a Bologna accade da trent’anni costantemente, e con ben maggiore violenza, a Lione, a Los Angeles o a Londra all’indomani della morte o del ferimento per mano di operatori di polizia di un nero, di un migrante o di un ragazzo delle banlieues. Tutti scalmanati delinquenti quelli che, in situazioni del genere, scendono nelle strade, ovunque nel mondo, con slogan di dura contestazione? E tutti buonisti irresponsabili quelli che invitano a cogliere i segnali che vengono dalla piazza? O c’è qualche lezione che si può trarre da queste esperienze? Un fatto è evidente. Alla base delle tensioni che caratterizzano le manifestazioni conseguenti a violenze istituzionali o di polizia nei confronti di migranti e marginali ci sono sacrosante rivendicazioni di uguaglianza e di giustizia e c’è una rabbia sociale che cova – e poi esplode – in città trasformate in polveriere da degrado delle periferie, violenze istituzionali, mancanza di ascolto. Senza contare che le spinte alla violenza sono acuite dal contesto: le immagini inaudite delle guerre in corso che accompagnano, irradiate dai telegiornali, i nostri pasti quotidiani non sono certo un incentivo alla convivenza e alla pace sociale. È la realtà, non un sociologismo di comodo o un giustificazionismo acritico. Ed è grottesco ridurre tutto alla regia di questo o di quel centro sociale o sottolineare che tra i manifestanti ci sono, a fianco di migranti e marginali, giovani di diversa estrazione sociale (quasi che ciò escludesse personali valutazioni e rielaborazioni della propria stessa condizione). Negare ed esorcizzare questa realtà produce solo un circolo vizioso di ulteriore esasperazione e violenza. Quarto. Tutto vero, dicono alcuni (i più illuminati…), ma non ci si può fermare alle analisi e arrendersi, poi, ai fatti senza reagire. Giusto, a condizione, però, di mettere in campo politiche razionali ed appropriate e non risposte purchessia (o, peggio, interventi che hanno il solo effetto di inasprire e peggiorare le cose). Che fare, dunque? Non ci sono bacchette magiche ma, senza aspettative salvifiche (che richiederebbero cambiamenti sociali profondi che non sono all’ordine del giorno), qualcosa di utile e produttivo si può e si deve fare: a) anzitutto vanno evitati gli atteggiamenti isterici e strumentali che, amplificando i fatti (anche quelli più modesti), alimentano, da un lato, pregiudizi e insicurezza e, dall’altro, risentimento e diffidenza; b) in secondo luogo bisogna intervenire con decisione, sanzionando tempestivamente gli abusi, sui comportamenti razzisti, discriminatori e violenti delle forze di polizia (che, con buona pace di chi non vuol vedere, esistono, in misura più o meno grande: https://volerelaluna.it/materiali/2024/10/24/rapporto-sul-razzismo-e-lintolleranza-in-italia/); c) in terzo luogo occorrono politiche di ordine pubblico lungimiranti, con una gestione concordata delle piazze in luogo di contrapposizioni muscolari e di repressione esemplare (magari colpendo nel mucchio): anche perché decenni di esperienza comparata hanno dimostrato che, con riferimento a questo tipo di manifestazioni, la cosiddetta “tolleranza zero” ha prodotto, qualche volta, una normalizzazione contingente ma mai risultati duraturi e si è spesso trasformata in boomerang; d) infine ci vogliono, nelle città, politiche inclusive, confronto, dialogo, ascolto. Certo, ciò richiede tempo: anni, e non pochi. Ma se non si comincia mai ce ne vuole molto di più. E, poi, non partiamo da zero. Ci sono, in giro per il mondo, e anche nel nostro Paese, esperienze virtuose da riprendere. Ne cito una: quella di Torino degli anni ‘80 del secolo scorso, all’insegna dello slogan “educare la città”, che ha prodotto risultati positivi universalmente riconosciuti (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/09/14/per-contenere-il-disagio-educare-la-citta-unesperienza/): in termini di sicurezza diffusa, di gestione dei conflitti e, insieme, di riduzione della repressione (ricordo, come magistrato di sorveglianza dell’epoca, il carcere minorile vuoto). Poi le cose sono cambiate: non nei giovani e nella protesta, ma nella politica e nelle sue parole d’ordine… E oggi siamo a questo punto. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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January 16, 2025 / Osservatorio Repressione
Si scrive scudo penale, ma si legge immunità
La fine dello Stato di diritto, agenti al di sopra della legge di Fabio Anselmo – avvocato da Il Domani Scudo penale agli agenti che possa difenderli dalle indagini anche per omicidio? La propaganda non ha più limiti, se mai ne avesse davvero avuti negli ultimi decenni. Il processo penale è oramai quotidiano terreno di scontro politico e, quel che è peggio, di sconclusionati provvedimenti legislativi che intervengono su giudici, pm e cittadini di singole vicende giudiziarie. È la promozione a sistema delle leggi cosiddette ad personam, ispirate da questo o quel fatto di cronaca nera che può essere utile alla propaganda politica o da questo o quel procedimento giudiziario che, sempre rigorosamente sullo stesso piano, può viceversa essere imbarazzante o, peggio, nocivo, danneggiando l’immagine patinata e “rassicurante” a tutti costi inseguita dal governo. “Scudo penale” cosa significa? Letteralmente lo scudo è uno strumento di difesa. “Da chi?”, viene spontaneo chiedersi. La risposta è altrettanto ovvia: dallo Stato di cui fa parte, come potere funzionale giudiziario, il pm. Quindi si ritiene non solo logico, ma addirittura necessario, che gli organi di polizia del nostro Paese, nel cui nome e per il quale operano, si debbano, a prescindere, difendere da quello stesso Stato, che sarebbe, pertanto, loro ingiustamente nemico. Si tratta di una vera e propria legge-caos che trasformerà il nostro paese in un vero e proprio Far West ove vige sempre e incontrastabile la legge del più forte. In uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della forza. Sempre in quello Stato democratico esse ne devono avere la responsabilità. Mi pare ovvio. A meno che non si decida che il loro agire deve essere sempre ritenuto legittimo, a prescindere. A meno che non si voglia una vera e propria immunità per la quale si dovrebbe presumere in modo assoluto la giustezza del loro operato, qualsiasi cosa accada o sia accaduta. Un vero e proprio status sociale di privilegio sui cittadini per i quali le forze dell’ordine dovrebbero operare, che le posiziona al di sopra della legge che esse stesse dovrebbero esser chiamate ad applicare. Un sistema di assetti di potere nel quale i magistrati che esercitano la funzione giudiziaria sono soggetti alla legge mentre gli agenti no. Il caos, appunto. La fine dello Stato democratico. La responsabilità degli agenti, cosi come delineata dalla Costituzione e applicata dalla magistratura, non piace a questo governo. Deve esser compressa e limitata il più possibile. L’esigenza apertamente dichiarata, come si legge sulle agenzie di stampa, è quella di “difendere gli agenti” dalle indagini che la magistratura inquirente ritiene di dover avviare in caso di sospetti abusi che potrebbero esser stati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, anche nelle ipotesi di omicidio. Non devono essere indagati quando i fatti sono da chiarire, no. Per loro l’iscrizione come atto dovuto deve sparire. Ci deve pensare il ministro dell’Interno a stabilire quando si può fare l’iscrizione, secondo proprio giudizio. E poi, qualora il ministro lo consenta, la “patata bollente” deve passare di mano ai magistrati ritenuti più “accomodanti”: niente pm, ma le corti d’appello. Chi parla in questo modo, da quel che leggo, non conosce lo stato di diritto. Il ministro dell’Interno sarebbe chiamato a svolgere una funzione giudiziaria, sia pure in tema di accertamento della sufficienza di elementi per iscrivere l’agente “sospettato” di abusi nel registro degli indagati. È organo politico dell’esecutivo ma non fa nulla. La separazione dei poteri e delle funzioni e l’indipendenza di quelli giudiziari sono un inutile orpello della nostra invadente Costituzione. Ci penseranno i nuovi prossimi giudici che a breve verranno nominati a risolvere il problema. Sulla morte di Ramy Elgaml il ministro dell’Interno “in pectore” Salvini si è già espresso anticipando tutti: ha proclamato la assoluta correttezza dell’operato dei carabinieri coinvolti nella vicenda, quindi male farebbe a procedere con indagati già iscritti la procura di Milano, qualora fosse già operativo “lo scudo”. La grande dignità e profonda civiltà espresse dal padre di quel povero ragazzo hanno messo in difficoltà il sottosegretario Delmastro, che è stato costretto ad affermare pubblicamente che deve essere compito della magistratura fare chiarezza sui fatti, smentendo il suo collega di governo Salvini. Ci siamo già da tempo abituati a sentire i politici parlare a vanvera in tema di Giustizia. Difficile sarà abituarsi a sentirli esprimersi allo stesso modo nella primissima fase delle indagini preliminari in fatti simili a quello che ha visto morire oggi Ramy, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi ieri. Per quanto riguarda Stefano, in realtà, ci fu chi nell’immediatezza della morte si espresse in modo netto e perentorio sulla vicenda: l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa giurò sulla correttezza dell’operato dei carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi. Seguirono 6 anni di indagini e processi sbagliati contro gli agenti della Penitenziaria. Poi sappiamo come è andata. Al di là di queste amare considerazioni, quel di cui non ci si rende conto (o si fa finta) è che l’iscrizione dell’agente sospettato nel registro degli indagati è un atto di garanzia di difesa e non di accusa! Dunque, qual è il reale scopo dello Scudo? Immunità. Fine del fondamentale criterio giuridico espresso dal concetto di responsabilità. La legge non è uguale per tutti. Questo è certo.   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
January 15, 2025 / Osservatorio Repressione
Il giornalismo che giustifica le violenze e torture di polizia e alimenta il razzismo
Perché l’Italia razzista di giornalacci e politica non chiede scusa e ha messo alla gogna gli amici di Ramy. Di fronte al video che inchioda i carabinieri alle loro responsabilità giornalacci e giornaloni nostrani non hanno fatto una piega. Il complesso di superiorità bianco impedisce di fare mea culpa, dopo mesi di latrati contro l’islamizzazione. di Luca Casarini da l’Unità Alla fine non chiedono mai scusa. Non stiamo parlando dei carabinieri, visto che il caso è quello dell’omicidio, per dolo eventuale, volontario, o non intenzionale, o per eccesso di zelo, fate voi, di Ramy Elgaml, 19 anni, di Corvetto, Milano, morto in una notte come tante a causa di un inseguimento folle e di uno speronamento da parte di una gazzella dei CC. A non chiedere scusa sono i giornalacci e giornaloni, che dopo i moti di protesta dei giovani di Corvetto, che chiedevano “verità e giustizia”, hanno subito bollato come “strumentalizzazione violenta” quella presa di parola collettiva. Eh sì, perché come prima cosa, in un paese civile veramente, ci sarebbe adesso da scrivere titoli a nove colonne con la parola “SCUSATE”. Avevano ragione loro, che hanno rovesciato i cassonetti in mezzo alle strade del quartiere dove sono nati e cresciuti, figli di genitori migranti che dopo vent’anni sono più italiani di Briatore, che la residenza ce l’ha a Montecarlo. Giornalacci e giornaloni, su questo, si esercitano in “convergenze parallele”. I giornalacci non chiederanno scusa ai giovani di Corvetto, perché della razzializzazione fanno il loro credo, non più nascosto né dissimulato: sono proprio convinti che noi “bianchi”, diciamo da Berghem de Hura a poco sotto Viterbo, dobbiamo difendere la nostra “superiorità”, culturale, morale, religiosa, dall’invasione islamica dei migranti: chissenefrega se il padre e la madre di Ramy sono qui da vent’anni, lavorano, pagano le tasse, e cercano di tirar su famiglia. Restano e resteranno sempre “stranieri”. E non stranieri come Musk, sudafricano bianco che ci insegna a vivere. Perché nel nostro mondo, chi è ricco o straricco, non è mai straniero. Stranieri perché neri o scuri di pelle, perché venuti dal sud, poveri, ad abitare le “nostre città”. I giornaloni invece, sono più politically correct, o “fact cecking” come dicono i “progressisti”. Ma non chiederanno mai scusa ai ragazzi di Corvetto, perché alla fine “la via della violenza è sempre sbagliata”. Questo accade perché la razzializzazione è un fenomeno sistemico, e non è questione di razzisti o no, di buoni o cattivi. È dentro di noi, incistata nel nostro sistema sociale, e sbuca da tutte le parti. Se un gruppo di maschi cretini e ubriachi, molesta sessualmente a Capodanno delle ragazze bianche, non si insiste sul fatto che si tratta di maschi, ma di immigrati, e per giunta dal colore scuro della pelle. Mandano a fanculo la polizia e gli italiani con un video di trenta secondi, ma siccome non sono trapper da milioni di follower e di euro, non si invitano a Sanremo, ma si spiccano i mandati di cattura. E sono islamici. La “guerra di civiltà” è servita. Questa narrazione continua, martellante, è un fenomeno globale: con la bufala degli abitanti di Springfield di origine haitiana che si mangiano i cani e i gatti dei vicini bianchi, si sono vinte delle elezioni negli Usa. E i giovani carabinieri, che decidono di lanciarsi all’inseguimento di uno scooter che fugge appena vede la gazzella – e non c’era stato nessuno Alt come racconta l’amico di Ramy che lo guidava – non li leggono i giornalacci e i giornaloni? Probabile più i giornalacci, ma non sono anch’essi cresciuti ed addestrati, formati, educati dentro questo sistema razzializzato? Se uno scooter con due giovani a bordo, arrivando dalla piazza di Corvetto, corre via veloce quando li vede, di sicuro saranno “maranza”, immigrati di seconda o terza generazione, e di sicuro vanno fermati ad ogni costo, perché pericolosi. Adesso che la verità, grazie al casino che hanno fatto i ragazzi di Corvetto, è saltata fuori, il sistema razzializzato alza l’asticella: se si fermavano non succedeva niente. Un’altra bugia, per sostituire quella della tragica fatalità ora inservibile. Se sei un figlio di migranti, non è vero che non ti succede niente. O meglio, può darsi che te la sfanghi, ma è molto probabile che sarai preso a schiaffi, che passerai la notte in una cella, e forse anche peggio. Perché non ti sei fermato viene chiesto al ragazzo sopravvissuto: “non avevo la patente, ho avuto paura”. Alla fine, dal punto di vista “tecnico”, abbiamo un ragazzo morto di 19 anni e uno di 22 quasi morto e che sarà condannato al carcere ( con una pena pesante, magari per compensare qualche danno di immagine ai carabinieri), per una infrazione amministrativa. Come è formalmente un reato minore non fermarsi all’Alt, che peraltro non c’è nemmeno stato. Guidando un mezzo super riconoscibile e con una targa. Senza nessuna segnalazione di pericolo ricevuta, anche se hanno tentato di montare la storia della collanina rubata, poi risultata di proprietà del conducente con tanto di scontrino. I carabinieri sono centomila in Italia, e certo non sono mica tutti così. Ma in questo paese il problema esiste, e non è dei carabinieri. È nostro, di tutti noi, della piega sempre peggiore che sta prendendo la faccenda, ad ogni livello, a cominciare dall’alto delle cariche dello stato, passando per i media, per finire all’ultima ruota del carro, come quei carabinieri appunto. Quelli che dopo aver capito che danno irreparabile avevano fatto, sono andati a minacciare Omar, il testimone, e gli hanno fatto cancellare il video dove si vedeva lo speronamento dell’auto che ha schiacciato lo scooter contro il palo del semaforo. E qui, oltre alla razzializzazione che è una delle cause sistemiche di queste ed altre tragedie, siano esse in mezzo alle nostre città o nelle periferie urbane, in mezzo al Mediterraneo o in un lager libico, c’è una combinazione fatale: la costruzione dell’immaginario della “guerra civile”. Razzializzazione e creazione della guerra civile, insieme, creano un mix letale. Se la costruzione del “nemico esterno”, i migranti, ha una sua funzione di “distrazione di massa” dai problemi veri – tutti quelli di cui non ha parlato la nostra premier influencer durante lo show di inizio anno, per capirci – l’immaginario della guerra interna, civile, è il veicolo per passare dallo stato di diritto allo stato di polizia. Il nuovo decreto sicurezza, ddl 1660, è un buon esempio di questo superamento definitivo delle costituzioni repubblicane novecentesche, troppo ancorate alla cultura dei diritti collettivi e uguali per tutti. L’assunzione del “populismo penale”, con l’aumento dei reati, delle pene, del carcere, ne costituisce un tratto fondamentale. Per questo non passerà nessuna amnistia, come chiesto da papa Francesco per il Giubileo, nemmeno a fronte del mattatoio umano che sono diventate le patrie galere. Descrivere le nostre città come luoghi della guerra civile, serve al potere costituito per legittimare lo stato di polizia, e tentare di governare la sempre più ampia massa di poveri, assoluti o relativi, che le abitano. La guerra infatti, sospende la costituzione: prevede leggi speciali, poteri speciali, e ogni circostanza, anche due ragazzi in scooter che non si fermano, diventa una circostanza speciale. La destra al potere sta soffiando sul fuoco della guerra civile anche in questo caso: il “diritto allo speronamento” potrebbe diventare presto il diritto a sparare. > Ramy, o la fine degli equivoci   > La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto > Genova 2001     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 14, 2025 / Osservatorio Repressione
La retorica della certezza della pena
Una società sicuritaria ha bisogno di costruire delle narrazioni a senso unico per costruire carceri e militarizzare la società facendo leva sulla insicurezza sociale di Federico Giusti Perchè ci sono tanti suicidi nelle carceri italiane? Per disperazione, abbandono, mancate cure sanitarie, per la impossibilità di intravedere una via di uscita fuori dal carcere, per anni di detenzione, sovente lontano dai familiari, senza alcuna opportunità di reinserimento lavorativo e sociale una volta finita la pena. Dalla condizione degli istituti di pena si misura il livello di civiltà di un paese e le minacce di privatizzare la gestione delle carceri non è un buon segnale. E segnali involutivi potrebbero arrivare dalla riforma del Dap, il dipartimento della amministrazione penitenziaria, con la costruzione di nuove carceri alcune delle quali speciali ossia con regimi detentivi improntati alla massima sicurezza. Testo coordinato decreto carcere | Sistema Penale | SP Il Governo  Meloni con il Ddl Sicurezza ha introdotto ulteriori 16 mila anni di carcere contro persone, già detenute, precludendo loro l’accesso alle misure alternative, queste scelte vanno in direzione ostinata e contraria all’art. 27 della Costituzione che riportiamo testualmente: La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato  Non è ammessa la pena di morte. E un monito al Governo arriva direttamente dal Commissario Europeo per i diritti umani Michael O’Flaherty  che chiede ai senatori italiani di respingere il ddl sicurezza DDL sicurezza: il monito del Commissario europeo per i diritti umani – Camere Penali sito ufficiale Se alcuni esponenti del centro destra non fanno mistero di volere reintrodurre la pena di morte nel nostro ordinamento, sempre più forte è la campagna per la certezza della pena dimenticando che dovrebbe coniugarsi proprio con quella certezza dell’opera riabilitativa che oggi viene esclusa dalle norme vigenti e dalla situazione di sovraffollamento degli istituti di pena con il crescente definanziamento degli interventi sociali, sanitari, educativi a favore della popolazione detenuta. Sempre il Governo Meloni ha dichiarato di avere adottato provvedimenti atti a svuotare le carceri ad esempio istituendo un albo delle comunità dove detenuti tossicodipendenti potranno scontare la pena un provvedimento già naufragato sul nascere. E intanto invece di praticare dei percorsi reali per adottare le misure alternative alla pena stanno pensando  di ricavare nuove celle da vecchi edifici. Una società sicuritaria ha bisogno di costruire delle narrazioni a senso unico per costruire carceri e militarizzare la società facendo leva sulla insicurezza sociale determinata dalla mancanza di casa, istruzione, lavoro che vengono occultati dietro al presunto bisogno di sicurezza che porta , come nel caso del ddl 1660, alla criminalizzazione degli ultimi e dei conflittuali     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 12, 2025 / Osservatorio Repressione
Fascioliberismo, anche lo spazio privatizzato
Un Trattato Onu, firmato anche dagli Usa, dichiara lo spazio extra-atmosferico patrimonio dell’umanità. Ora è violato dal monopolio di Elon Musk con i suoi attuali 7mila satelliti di Luigi Ferrajoli da il manifesto «L’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, saranno svolte a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi, quale che sia il grado del loro sviluppo economico o scientifico, e saranno appannaggio dell’intera umanità». È il testo dell’articolo 1 del Trattato sulle attività nello spazio extra-atmosferico concluso a Washington il 27 gennaio 1967 e approvato da quasi tutti i paesi membri dell’Onu, inclusi gli Stati Uniti e l’Italia. Che l’hanno ratificato rispettivamente il 10 ottobre 1967 e il 18 gennaio1981. È una norma chiara e semplice, clamorosamente violata dal quasi monopolio dello spazio extra-atmosferico acquisito di fatto da Elon Musk. Quasi tutti i satelliti in orbita intorno al nostro pianeta – più di 7.000 di cui 6.176 operativi – sono infatti satelliti Starlink, di sua proprietà, e si prevede che raggiungeranno presto la cifra di 12.000. È AVVENUTA, IN BREVE, un’appropriazione privata dello spazio pubblico extra-atmosferico, che fa di Musk la persona non solo più ricca (473 miliardi di dollari), ma anche più potente del mondo. È difficile calcolare una simile potenza, consistente nella gestione dell’accesso veloce a Internet a livello globale e destinata a crescere in maniera esponenziale. Il futuro contratto di Musk con l’Italia – il primo paese che ha avviato una simile trattativa – affiderebbe alla sua gestione e al suo controllo tutte le comunicazioni in tema di sicurezza pubblica, dalle informazioni in materia militare a quelle relative alle relazioni diplomatiche, ai servizi segreti e alla protezione civile. La nostra sicurezza sarebbe di fatto privatizzata, in mano per di più a uno straniero, apertamente schierato con le parti politiche più reazionarie dell’Occidente. Come è potuto accadere tutto questo? Il trattato del 1967 sugli spazi extra-atmosferici e, insieme, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982, che chiama «patrimonio comune dell’umanità» le aree di alto mare e le loro risorse, disegnano un frammento di demanio planetario che comporta ovviamente il divieto della sua utilizzazione e del suo controllo da parte dei privati. È chiaro che l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico da parte delle migliaia di satelliti di proprietà di Musk (e non solo di Musk, ma anche di altri privati) non avviene, come vorrebbe la norma all’inizio ricordata, «a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi». Avviene nell’interesse esclusivo del signor Musk, che grazie ai profitti ricavati dall’utilizzazione di uno spazio che è «appannaggio dell’intera umanità», cioè di tutti noi, ha illegittimamente acquistato una ricchezza e una potenza sconfinate. SI SPIEGA CON QUESTA enorme potenza, maggiore forse di quella di qualunque capo di Stato, la disinvolta arroganza con cui Musk interferisce nella politica di tanti paesi europei: affermando che i giudici italiani non fedeli al governo Meloni «devono andarsene», insultando il premier inglese Keir Starmer, chiamando «strega malvagia» la sua ministra per la tutela delle donne Jess Phillips, sostenendo in Inghilterra l’attivista fascista Tommy Robinson e schierandosi, nelle prossime elezioni tedesche, con l’ultradestra di AfD. Stiamo evidentemente assistendo a una mutazione dello stesso capitalismo neoliberista, che fino ad oggi ha devastato la sfera pubblica e sottomesso la politica all’economia, mantenendo tuttavia la separazione formale tra le due sfere. Il fenomeno Musk segnala un’involuzione ulteriore: una sorta di regressione premoderna allo stato patrimoniale dell’età feudale, quando la politica non si era separata dall’economia quale sfera pubblica ad essa sopraordinata. Oggi siamo di fronte al diretto governo privato e al tempo stesso globale di settori fondamentali della vita civile e della vita pubblica. Trattandosi di un governo privato esso consiste anche in un potere assoluto. Sfera pubblica, separazione dei poteri e diritti fondamentali sono concetti ad esso estranei e con esso incompatibili. Naturalmente tutto questo è contro il diritto, puramente e semplicemente ignorato dai mercati e dalla politica, che l’hanno sostituito con l’assoluta sovranità dei grandi poteri economici e finanziari privati. Naturalmente è inverosimile che a una simile perversione si opponga il nuovo presidente americano Trump, che grazie ai finanziamenti di Musk è stato eletto e che di Musk condivide l’ideologia. Deboli, incerte e sostanzialmente impotenti sono state finora le proteste dell’Unione Europea e dei suoi paesi membri. Chi invece ha voluto inaugurare anche formalmente la subordinazione della sfera pubblica a questo nuovo governo privato e globale dell’informazione e della comunicazione è stato, non a caso, il governo, sedicente sovranista e nazionalista, del nostro paese, che sta trattando il pagamento di un miliardo e mezzo di dollari in cambio di attività che controlleranno la nostra sicurezza utilizzando uno spazio appartenente all’intera umanità. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 9, 2025 / Osservatorio Repressione
La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto Genova 2001
Commenti sprezzanti verso la vita degli altri, verbali distorti, testimonianze inquinate. Dal video dell’inseguimento a Milano nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024 emergono scenari inquietanti. In attesa che la Procura faccia chiarezza, ci sono però delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero già rispondere. Per non recitare la stessa ignominiosa parte di 24 anni fa di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia “Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade. No, merda, non è caduto”. Possiamo partire da qui, da questa frase detta da un carabiniere durante l’assurdo inseguimento nelle vie di Milano, per qualche breve considerazione su quanto avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024. Il fatto è noto: uno scooter, con due giovani a bordo, non si ferma all’alt dei carabinieri per un controllo e due volanti si mettono all’inseguimento; è una corsa a tutta velocità nella notte, pericolosissima soprattutto per gli occupanti dello scooter e per eventuali passanti; dura ben otto chilometri, a un certo punto anche lungo una strada imboccata contromano. Fino all’epilogo: lo scooter che svolta a sinistra, l’auto dei carabinieri così vicina che forse lo sperona, lo schianto dei due mezzi contro un palo del semaforo e la morte immediata del passeggero dello scooter, Ramy Elgaml, mentre il conducente, ferito gravemente, riuscirà a cavarsela dopo aver trascorso un periodo in ospedale in stato di coma. C’è un’indagine in corso con sei carabinieri e il conducente dello scooter indagati per vari reati (omicidio stradale, falso, depistaggio, favoreggiamento personale a vario titolo per i carabinieri; omicidio stradale, resistenza a pubblico ufficiale per il giovane) e toccherà ai periti chiarire alcuni fatti: per esempio, se la gazzella dei carabinieri abbia speronato la moto nella curva fatale, o se in precedenza vi siano stati altri contatti fra i due mezzi e di che tipo (fortuiti o volontari?). E se davvero al testimone sfiorato dallo schianto, che aveva ripreso la scena col suo telefonino, sia stato immediatamente imposto, come ha dichiarato, di cancellare il video. Qualcosa intanto però possiamo dire, a cominciare dalle frasi registrate quella notte. Oltre al “chiudilo che cade” e al “no, merda, non è caduto”, ci sono anche un “vaffanculo, non è caduto” e un “bene” alla fine della storia, quando arriva la notizia che i due ragazzi “sono caduti” (ma, va detto, senza nulla specificare sulle conseguenze per i due giovani). Sono frasi che vengono giustificate con l’adrenalina e la concitazione del momento, ma che fanno pensare a scenari inquietanti, vista anche la dinamica del fatto: un inseguimento assurdo, rischiosissimo, a prima vista sproporzionato. Sono frasi che fanno venire in mente un’altra nota registrazione, di 24 anni fa: il dialogo tra un’agente della questura e una volante di polizia il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova. A un certo punto si parla di quel che sta avvenendo in piazza, delle “zecche” -cioè i manifestanti- che stanno impegnando le forze dell’ordine, e l’operatrice, commentando i fatti, se ne esce con un eloquente “intanto, uno a zero per noi, yeah”, riferito all’uccisione in piazza Alimonda di Carlo Giuliani, colpito il giorno prima alla tempia da una pallottola sparata da un carabiniere e subito dopo calpestato dal “Defender” dell’Arma. “Che simpatica”, replica il poliziotto all’altro capo del telefono.  In attesa che la Procura chiarisca i fatti e chieda, se necessario, di processare i responsabili di eventuali abusi e reati, ci sono delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero rispondere. Hanno chiesto conto di quelle frasi? Si sono domandati, come noi, se per caso i carabinieri quella notte abbiano perso il senso della misura? Si sono chiesti se sia ben chiaro, a chi lavora nelle forze dell’ordine, che le vite degli altri, qualunque sia il loro profilo, -“sono dei delinquenti, dei rapinatori, se la sono cercata”, è stato detto a posteriori dei due ragazzi sullo scooter, quasi a giustificare l’esito letale- sono vite da tutelare, non da mettere a rischio? Hanno compreso quanto sia grave la denuncia del testimone sulla cancellazione del video dal telefonino? Sono domande che hanno una cornice: si ricordano, carabinieri e ministro, come andò al G8 di Genova? Sicuramente sì, ma, per sicurezza, possiamo rammentarglielo noi. A Genova non ci furono solo violenze ingiustificate, torture di massa e un omicidio, fu anche una fiera del falso negli atti pubblici: falso il verbale dell’arresto di massa alla scuola Diaz, falsi innumerevoli verbali di singoli arresti eseguiti per strada, falsi i verbali del carcere delle torture a Bolzaneto. Fu il festival della menzogna, della tortura e del disprezzo per i diritti e anche per la dignità dei cittadini. Fu il punto più basso per la credibilità delle nostre forze dell’ordine e non si è più risaliti, per la precisa ragione che i vertici delle nostre polizie fecero muro, non chiesero scusa, non indagarono le ragioni profonde di condotte così gravi. E non fecero autocritica.  > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 9, 2025 / Osservatorio Repressione
Il governo Meloni vuole un carcere incostituzionale. E gli altri?
Bisogna entrare in un carcere “normale” per capire il degrado in cui si vive 365 giorni l’anno. La politica lo sa ed è consapevole di quanto sia violata l’idea di pena scritta in Costituzione. Eppure è totalmente indifferente, come si vede dal rifiuto aprioristico di ogni provvedimento di amnistia o indulto. Per il governo Meloni questo è un vanto (del resto la Costituzione non è la loro). Ma per gli altri? di Michele Miravalle da Volere la Luna Chi osserva il carcere con occhio non assuefatto, come prova a fare l’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, sa che le visite in carcere più complicate sono quelle di agosto e di dicembre. Sono questi i due momenti in cui è più evidente – e dunque, inaccettabile – la distanza tra il “dentro” e il “fuori” e soprattutto tra la pena idealizzata dalle norme e quella materiale, vivente, di carne e sbarre. Ad agosto, con il Paese in vacanza, l’ammasso di corpi accaldati e madidi langue senza fare nulla per lunghissime settimane, senza scuola, senza formazione, senza lavoro. A dicembre il non-Natale penitenziario crea rabbia e tensione. La spiacevole sensazione è stata confermata ancora poche settimane fa, durante la visita in una casa di reclusione del basso Piemonte. Alle osservatrici e agli osservatori di Antigone si chiede di visitare sempre le sezioni di “media sicurezza” in cui sono reclusi oltre 50mila delle 62mila persone detenute nelle carceri italiane (le altre 10 mila sono divise invece tra sezioni di Alta Sicurezza e sezioni “a custodia attenuata” per detenute madri o per persone tossicodipendenti, 750 sono al 41bis). Ma è la “media sicurezza” la cartina di tornasole di un sistema complesso e frastagliato. É in quelle sezioni, più che in altre, che il significato di sovraffollamento diventa tangibile. Certo si deve ragionare a mente fredda sulle statistiche, su come e perché cambi il tasso di sovraffollamento, sul fatto che il Ministero della Giustizia si ostini a calcolare nella capienza regolamentare di 51 mila posti delle carceri italiane anche 4 mila posti che in realtà sono indisponibili o non agibili. Dopodiché occorre rendersi conto, senza retorica, quali effetti ha il sovraffollamento sulla quotidianità detentiva. Per farlo, in quelle sezioni sovraffollate, bisogna starci. Insomma bisogna avere visto, come ammoniva il padre costituente Piero Calamandrei. Vedere, ad esempio, come nel caso di quest’ultima visita, un unico agente venticinquenne aggirarsi solo e spaesato con il mazzo di chiavi dorate, travolto da ogni genere di richiesta da parte di un’ottantina di persone nello spazio pensato per quaranta. Quello che è chiamato in infermeria per il metadone che altrimenti la crisi è dietro l’angolo, quello all’ufficio matricola, il gruppo che deve scendere al colloquio, quello che si è tagliato per la disperazione e ora gocciola sangue, i due che litigano per il sopravvitto e vengono alle mani, quello che non si capacita di come il suo pacco con i vestiti non sia mai arrivato dal carcere dove era prima e da dieci giorni è costretto a pietire mutande e maglioni ai suoi compagni di cella. Questo è il sovraffollamento. In una qualsiasi sezione di media sicurezza, in un giorno qualsiasi. In quelle condizioni nasce l’infame record dei 90 suicidi nel 2024, con la conta già ripartita nel 2025, il 3 gennaio, a Sollicciano, dove si è ucciso un ragazzo di 25 anni. Basta insomma rimanere nel luogo più ordinario del carcere, tra le persone detenute “comuni”, per capire come sia impossibile intravedere la finalità rieducativa della pena evocata dalla Costituzione e richiamata da chiunque parli o scriva di carcere. Da parte del decisore politico, lasciare le cose come stanno e anzi vederle peggiorare con l’aumento dei numeri del sovraffollamento, può significare due cose, o non sapere oppure sapere, ma accettare. La prima opzione, il non sapere, è, nei fatti, impossibile viste l’enorme mole di studi, pareri, decisioni giurisprudenziali che sul piano nazionale e internazionale affrontano la questione del sovraffollamento e dei suoi effetti. La seconda opzione, l’accettare e dunque volere, è invece l’ipotesi più probabile. È forse arrivato il tempo di ammettere che sul carcere e le pene si è definitivamente persa la condivisione dei valori costituzionali, che univa tradizioni politico-culturali anche molto distanti e che nell’art. 27 trovava una doppia sintesi: il “divieto di trattamenti inumani” e dunque il rispetto della persona, qualsiasi sia il reato commesso e la già richiamata “finalità rieducativa” che renda la pena “utile” non solo a risarcire un danno commesso (a retribuire). All’interno di questi confini costituzionali, le sfumature, gli accenti, le soluzioni normative e gestionali possono essere molto diverse, ma il confine, fino ad oggi, era considerato invalicabile. Lo è ancora? Insomma, quando il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in un’orazione ufficiale dice di provare gioia nel non lasciare respirare una persona detenuta esagera soltanto con l’enfasi retorica oppure esprime una precisa volontà politica? L’idea di una pena che produca sofferenza, di un cattivismo atavico radicato nell’uomo che prova piacere e accetta il dolore altrui, non è certo un fatto nuovo del nostro tempo, abituato alla banalità del male. La novità oggi è piuttosto sapere che questo sentimento collettivo travalica il senso comune, la “pancia” di un popolo e rischia di diventare pianificata ragione politica. È questo l’ultimo stadio di quel populismo penal-penitenziario che aleggia da alcuni decenni nel modo di regolare, gestire e comunicare il carcere e la penalità. Sarebbe davvero complicato spiegare altrimenti la sistematica introduzione di nuovi reati o l’inasprimento di pene previste per reati già esistenti, come avvenuto con il c.d. decreto Caivano (che è tra le concause del sovraffollamento negli Istituti penali per minorenni, unico luogo dell’arcipelago penitenziario rimastone finora immune) o con il disegno di legge Sicurezza (Ddl AC 1660), che conia nuovi reati quali l’“occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, la “rivolta in istituto penitenziario” o il “blocco stradale”. Impossibile spiegare altrimenti l’inadeguatezza delle misure di contrasto al sovraffollamento, introdotte da ultimo nel decreto carceri dell’agosto scorso, laddove l’idea più innovativa è stata l’ennesimo “piano straordinario per l’edilizia penitenziaria” con il suo seguito di consulenti, commissari ad acta, finanziamenti di cui chissà quando si vedranno i risultati. In questo scenario sembra improbabile che il Parlamento possa approvare con la maggioranza qualificata dei due terzi, un provvedimento di clemenza, cioè un’amnistia o un indulto (seppur nelle sue forme più blande, di indulto condizionato e limitato ad alcune categorie di reati). Le 27 amnistie votate nella storia repubblicana (7 quelle concesse nel Ventennio fascista) e i diversi indulti, l’ultimo in ordine di tempo risalente al 2006, sembrano oggi avvenimenti storici non ripetibili. Eppure la Costituzione, all’art. 79, continua a prevederli, seppur con maggioranza aggravata così come stabilito dal 1992, come strumenti “giustificati da situazioni straordinarie o ragioni eccezionali”. Negli anni gli appelli alla clemenza si sono susseguiti e intensificati, “storico” rimase quando di fronte alle camere riunite Papa Wojtyla, il 14 novembre 2002, chiese un “gesto di clemenza”, appello ripetuto anche da Papa Bergoglio in occasione dell’inaugurazione dell’ultimo Giubileo. Dal 2006 ad oggi è invece prevalsa l’idea che un atto di clemenza collettiva sia una “resa dello Stato”. C’è da domandarsi invece se le condizioni attuali delle carceri italiane siano una vittoria, una medaglia di cui andare orgogliosi. Per coloro i quali credono che i confini costituzionali della pena siano valicabili, probabilmente sì. Ma per tutti gli altri? Davvero oggi la cultura liberale, quella cattolica, i riformisti e le tante sinistre istituzionali e non, si devono rassegnare all’idea che i valori costituzionali – oggi a proposito di carcere, ma domani di scuola, salute, lavoro – siano derogabili? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 8, 2025 / Osservatorio Repressione
Lo strappo del Daspo di Capodanno
L’ultima trovata del ministro dell’interno è stato il Daspo di Capodanno, cioè la direttiva impartita ai prefetti per la creazione di zone rosse in aree strategiche delle grandi città da cui disporre l’allontanamento coattivo dei soggetti aggressivi o molesti. La misura è, a prima vista, circoscritta ma non è così e anzi, se la si avalla, è forte il rischio della sua prossima estensione alle manifestazioni politiche e, in generale, all’area del dissenso. di Livio Pepino da Volere la Luna L’ultima trovata del ministro dell’interno, alla disperata ricerca di meriti per difendere l’incarico dagli assalti dell’ex padrino Salvini, è stato il Daspo di Capodanno, cioè la disposizione impartita ai prefetti delle grandi città di assumere provvedimenti per «vietare l’indebita permanenza» in centri storici, stazioni e aree di divertimento giovanile di «persone responsabili di attività illegali» e di «disporne l’allontanamento» per garantire «l’“ordinato vivere civile” che rappresenta il naturale obiettivo di uno Stato di diritto, libero e democratico». Ciò seguendo l’esempio di Bologna, Firenze e, da ultimo, Milano dove il Prefetto ha istituito apposite zone rosse al fine di fronteggiare «la presenza di soggetti molesti e aggressivi, dediti alla commissione di reati e non in regola con la normativa in materia di immigrazione, tale da incidere negativamente sulla percezione di sicurezza dei cittadini e dei turisti che fruiranno di quelle aree». La frontiera della sicurezza, nell’Italia dei (quasi) 6 milioni di poveri assoluti, dei 1000 morti l’anno per infortuni sul varo e di un femminicidio ogni tre giorni, è stata fissata, dunque, nella militarizzazione dei punti centrali delle città e nell’allontanamento dei soggetti molesti e aggressivi (id est, migranti e marginali) per consentire ai turisti e ai cittadini per bene di festeggiare nelle piazze l’arrivo del Capodanno! Inutile dire che ciò non ha nulla a che vedere con l’ordinario (e doveroso) controllo del territorio, che dovrebbe essere realizzato tutti i giorni dell’anno, in tutte le città e in ogni loro parte (e che – sia detto per inciso – sarebbe assicurato, assai meglio che da militari in divisa, da agenti di prossimità che conoscono il territorio). Qui il messaggio è tutt’altro. Pressapoco questo: chi vuole delinquere o infastidire il prossimo lo faccia in periferia e lasci il centro, le luci d’artista e i concerti di fine anno ai turisti e a chi se li può permettere. Anzi, per assicurare anche la sicurezza percepita di questi ultimi, chi vive situazioni di povertà e marginalità resti nelle sue periferie ed eviti di permanere indebitamente in spazi che non sono suoi. Val la pena di aggiungere che il ministro non è stato solo in questa brillante operazione e che, mentre gran parte dei telegiornali ha sparato la notizia fin dai titoli di apertura, a protestare o, comunque, a prendere le distanze sembrano essere rimaste quasi solo le Camere penali e Magistratura democratica (che, in un comunicato ad hoc ha denunciato, tra l’altro, che quelle poste in essere sono state «evidenti compromissioni della libertà di circolazione e della libertà personale, adottate in forza di un’ordinanza prefettizia ed eseguite a discrezione delle forze di polizia nell’individuarne i destinatari, con espresso pregiudizio verso le persone migranti, in palese violazione delle riserve di legge e di giurisdizione costituzionalmente garantite a presidio delle libertà fondamentali»: ). Segno dei tempi tristi in cui viviamo, ma anche epilogo di un percorso che comincia da lontano, incoraggiato anche nel nostro Paese dal proclama del premier laburista inglese Tony Blair dell’aprile 1997 secondo cui «non saranno più tollerate le infrazioni minori» ed «è giusto essere intolleranti verso i senzatetto nelle strade» e dall’esempio degli Stati Uniti, dove «i poveri di strada, che a milioni invadono i centri urbani, sono quotidianamente presi di mira da un diritto penale crudele che li sanziona se dormono per strada, se vi si siedono, se vi lasciano i loro carrelli rigurgitanti di misere cose, se piantano una tenda sotto i ponti dell’autostrada o sulle rive di un fiume, se dormono di notte nei parchi pubblici o perfino nella propria macchina, se si stendono sulle panchine, se hanno con sé una coperta o fanno i loro bisogni fuori da toilettes convenzionali – per loro peraltro inaccessibili, perché quasi tutte ormai a pagamento – o se chiedono l’elemosina» (così E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017). Ricordate l’assessore del Pd Graziano Cioni, fustigatore dei lavavetri fiorentini, diffidati, con ordinanza 25 agosto 2007 dal persistere in «occupazioni abusive di suolo pubblico composte da secchi, attrezzi, ombrelloni», idonee a provocare disagi e, addirittura, a «porre a repentaglio l’incolumità personale propria e altrui»? Negli anni successivi le ordinanza sindacali in tema di sicurezza si sono susseguite con un ritmo quasi quotidiano con disposizioni di ordinaria manutenzione della città ma anche di carattere genuinamente razzista (come il divieto di indossare in pubblico il burqa o le restrizioni alla vendita di kebab), di cervellotica limitazione delle forme più elementari di socialità e libertà (come dormire sulle panchine o sedervisi in numero superiore a due, bere, fumare o masticare chewing gum per strada, riunirsi in determinati luoghi), di attacco alla libertà di circolazione (come il coprifuoco in ore notturne nelle vie del centro) o, addirittura, di curiosa quanto inutile goffaggine (come la regolamentazione del traffico per gli animali o il divieto di lanciare riso durante le cerimonie nuziali). Ciò ha dato la stura a molteplici “pacchetti sicurezza”. Si è cominciato con la legge 24 luglio 2008 n. 125 e il successivo decreto Maroni, in cui si indicava il dovere dei sindaci di intervenire con appositi provvedimenti «per prevenire e contrastare le situazioni urbane di degrado o di isolamento, le situazioni in cui si verificano comportamenti che determinano lo scadimento della qualità urbana; l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili; le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano; la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto». Poi è stata la volta dei numerosi provvedimenti legislativi noti con i nomi dei ministri dell’interno proponenti (dal decreto Minniti [n. 14/2017] al decreto Lamorgese [n. 130/2020] passando per i decreti Salvini [nn. 113/2018 e 53/2019]) che hanno arricchito il nostro sistema del cosiddetto Daspo urbano, diretto a colpire con l’allontanamento dai luoghi incriminati e con il divieto di tornarvi chi ostacola o turba l’accesso o la permanenza in stazioni, porti, aeroporti, presidi sanitari, scuole, siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali, luoghi di cultura o di interesse turistico, fiere, mercati, teatri, parchi ovvero i parcheggiatori abusivi e i bagarini e chi è colto in stato di ubriachezza o nell’atto di compiere atti contrari alla pubblica decenza. Infine – ed è ormai cronaca – sono arrivati i provvedimenti del Governo Meloni: ultima la direttiva Piantedosi, in attesa dell’approvazione del disegno di legge n. 1660 , comprensivo di un’ulteriore estensione del Daspo all’area deli disagio e della marginalità Non inganni, in questo contesto, il fatto che il Daspo di Capodanno sia stato previsto per una categoria limitata di soggetti, considerati devianti e marginali. La previsione è grave in sé e tanto basta. Ma c’è di più. Essa consolida un precedente dotato di forte capacità espansiva. Lo dimostra la storia del Daspo, introdotto, con l’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, per i tifosi violenti e, per questo, salutato addirittura con favore da tutti gli osservatori (o quasi). Poi – come in pochi avevamo preconizzato – esso è diventato uno strumento ordinario di governo delle città. Se lo si avalla diventerà presto una misura utilizzata dal Governo per controllare il dissenso e limitare le manifestazioni politiche (come già si è tentato di fare sul crinale del nuovo millennio). Anche per questo la direttiva Piantedosi non deve passare sotto silenzio. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 4, 2025 / Osservatorio Repressione
L’eclisse degli Stati Uniti
Un Paese distopico. Gli Stati Uniti sono un luogo spaventoso. Se Donald Trump mantiene le sue promesse, diventerà un luogo spaventoso di Marco Sommariva da Carmilla Il Fatto Quotidiano riporta che Eva Longoria, l’ex stella della serie TV cult Desperate Housewives che aveva partecipato attivamente alla campagna elettorale per i Democratici e Kamala Harris, profondamente delusa dalla vittoria di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, ha preso la decisione drastica di lasciare gli Usa. In un’intervista ha dichiarato: “La parte scioccante non è tanto che abbia vinto. Il fatto è che un criminale condannato che sputa così tanto odio possa occupare l’ufficio più importante del Paese”. E ancora: “Gli Stati Uniti sono un luogo spaventoso. Se Donald Trump mantiene le sue promesse, diventerà un luogo spaventoso. […] Sento che questo capitolo della mia vita è finito. Sono privilegiata, posso scappare e andare da un’altra parte. La maggior parte degli americani non è così fortunata e si ritrova in questo Paese distopico. Per loro provo ansia e tristezza”. Questo voler fuggire da un paese distopico mi ha ricordato l’inizio di Eclipse, romanzo pubblicato negli Stati Uniti nel 1985, il primo dell’omonima trilogia cyberpunk scritta John Shirley che proseguirà con Azione al crepuscolo (1900) e terminerà con La maschera sul sole (1990), tutti pubblicati su Urania. L’universo descritto in Eclipse è ambientato nel XXI secolo, racconta un’Unione Sovietica che ha invaso l’Europa occidentale e, a proposito del fuggire di cui sopra, nei primi capitoli riporta: “Tutto ciò cui riuscivo a pensare era di pararmi il culo, di tornare negli Stati Uniti. Ma non riuscii a trovare un volo per fuori Londra; erano tutti limitati a uso governativo. O cancellati. Tutti volevano andarsene dalla fottuta Europa. Mai sentito parlare della guerra del Vietnam? Bene, allora sai come, quando l’esercito americano si spinse verso sud, ci fu questa frenetica corsa per uscire da Saigon con qualsiasi mezzo possibile… E lo stesso accadde in tutto il continente, nelle grandi città…”. Cos’era accaduto esattamente nel romanzo? Era successo che l’esercito sovietico era apparso dal nulla, “che nessuno era riuscito a capire come avessero potuto riunire così tante truppe lungo il confine senza insospettire la Nato. […] La Nato aveva avvistato qualche paracadute, ma i Sovietici avevano detto che si trattava dell’invio di medicinali per via di qualche epidemia. Poi, di colpo, le fottute truppe erano lì…”. Anche in questo caso, quanto accade realmente in Europa nel febbraio del 2022 s’avvicina molto alla narrazione di Shirley: all’epoca, l’Occidente temeva un bluff di Putin quando dichiarava che le truppe russe al confine ucraino erano lì per delle esercitazioni e che sarebbero rientrate alle loro basi. Una volta si diceva che la narrazione fantascientifica era nata e s’era sviluppata in Occidente col presupposto d’ipotizzare quali scenari avrebbero potuto scaturire dalle nuove scoperte scientifiche, ragionando anche sugli impatti che queste potevano avere sulla società e sulle persone. Sono anni, invece, che s’è insinuato un sospetto, quello che si segua la fantascienza – libri, fumetti, film, serie TV, videogiochi, eccetera – per trarre spunti, ispirazioni, suggerimenti su cosa fare e come, tipo il cane robot (da guardia) che si aggira per il resort della proprietà di Mar-a-Lago di Donald Trump, impiegato per rafforzare le misure di sicurezza a protezione del neoeletto presidente: come non pensare ai cani robot di uno degli episodi di Black Mirror 4  (Metalhead) e, soprattutto, ai cani robot di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, programmati per individuare e colpire i nemici, ossia i possessori di libri e i luoghi dove questi sono contenuti? Di esempi del genere se ne potrebbero fare a decine, a iniziare dalla decisione presa in Kuwait d’introdurre un’identità digitale elettronica giustificando la scelta come un aiuto ai cittadini per accedere ai servizi digitali della pubblica amministrazione senza, però, dare la possibilità alle persone di scegliere se aderire o meno a questa cessione dei dati sensibili allo Stato, andando a penalizzare chi si è rifiutato bloccando a tutti loro, 35 mila persone, l’accesso al proprio conto corrente né di trasferire denaro.  Un po’ quello che succede alle donne nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood ne Il racconto dell’ancella, pubblicato nel 1985. Le similitudini tra la realtà e la trilogia di Shirley sono numerose, dall’utilizzo dei droni che sorvegliano le città – “Era un uccello di metallo. Aveva ali meccaniche, viscere elettroniche e una telecamera nel capo. Ma aveva la forma di un tordo, e più o meno le stesse dimensioni. Le sue ali battevano freneticamente come quelle di un colibrì mentre attraversava in volo la città, inondata e in rovina. […] Sul ventre del pennuto era visibile una fila di numeri di serie. In realtà si trattava di un apparecchio di sorveglianza […]” – alla presenza di una Rete che ci foraggia di canali televisivi e notizie, e che viene ascoltata e seguita come una religione – “La Rete Amica, dio di tutta la Rete elettronica. La Rete dà la Tv e le notizie… dà credito, che si traduce in cibo e riparo. Pregate la Rete Amica e i computer della compagnia elettrica perderanno la vostra bolletta, regalandovi un mese extra prima di tagliarvi i fili della luce; pregate la Rete Amica e l’Interbanca compirà un errore a vostro favore, attribuendovi cinquecento dollari che non dovreste avere. Per poi dimenticarsene. Pregate la Rete Amica e il computer della polizia perderà i dati dei vostri precedenti”. Se riteneste quanto sopra non particolarmente brillante o profetico, leggete cosa scrive Shirley in Eclipse, circa la Colonia, una “cosa” costruita con asteroidi e frammenti di roccia su cui vivono diecimila persone, orbitante intorno alla Terra – “Vista dall’esterno, la Colonia, lunga dieci chilometri, appariva come una specie di cilindro che avesse inghiottito qualcosa di grosso e lo stesse digerendo come fanno i serpenti boa. Il rigonfiamento che mostrava nel centro era una sfera del diametro di circa due chilometri, il cui concavo interno rappresentava la principale zona residenziale della Colonia” – e poi date un’occhiata all’articolo pubblicato l’8 settembre 2024 da Il Sole 24 Ore, in cui Elon Musk si pone come traguardo anche quello di consentire al genere umano di “non avere più tutte le nostre uova, letteralmente e metabolicamente, su un unico pianeta”. Elon Musk mi richiama alla mente uno dei personaggi di quest’opera di Shirley: Rick Crandall il Sorridente – proprio così, “il Sorridente”. Ora, provate a leggere il prossimo estratto e vedete voi se vi viene in mente qualcuno: “Negli anni ’90, nonostante il declino economico degli Stati Uniti, tutti i paesi non-socialisti e non-islamici erano andati americanizzandosi sempre di più. Verso la fine del decennio, ogni paese in cui vivesse una classe borghese o piccolo-borghese disponeva di una sua televisione. E fra esse proliferavano le trasmissioni via satellite di canali americani. In ogni paese industrializzato esistevano canali in lingua inglese: l’inglese aveva acquistato via via sempre maggiore importanza. I valori e le attrattive della vita americana si fecero sempre più presenti nelle società del terzo mondo. E uno dei pilastri di tale pensiero era la rinata cristianità. E i sempre più numerosi predicatori propagandavano in lingua spagnola, portoghese, swahili e così via, l’importanza dei valori e dei comportamenti cari agli Stati Uniti. Ogni televisione del terzo mondo trasmetteva un programma presentato da un tipo chiamato Rick Crandall il Sorridente. Costui era uno fra i più giovani ministri fondamentalisti d’America. […] Ma in realtà, Crandall era un reclutatore. Approfittava della sua fama internazionale o ricorreva alla corruzione per arrivare ai personaggi politici più importanti, a coloro che si collocavano ai margini del governo e ai loro oppositori. Legandoli a una nuova sezione dell’Alleanza detta Loggia Antiterrorismo. La quale, in realtà, era una copertura. Era in realtà la sezione di reclutamento dell’esercito della Seconda Alleanza”. La Seconda Alleanza – nel romanzo è abbreviato in SA, proprio come il reparto paramilitare costituito da Hitler nel 1921 a difesa dei comizi del Partito Nazista – è un esercito capace di schierare solo che in Europa mezzo milione di soldati, una compagnia di sicurezza privata fondata da Predinger “un milionario americano categoricamente conservatore. Tanto quant’è possibile esserlo senza venire rinchiusi in un manicomio”, costituita da mercenari razzisti e spietati, guidata dal telepredicatore Rick Crandall, appunto. Questa forza di polizia internazionale privata, ispirata da valori di stampo religioso cristiano, ha evidenti connotati di estrema destra: “Fottuti Yankee che si masturbano con quei fottuti nazisti. Hanno deciso di reclutarli perché pensano che sia “o così o il comunismo”. E i fascisti hanno fatto grandi promesse di ottimi affari commerciali”. Caso strano, questo corpo privato, l’SA, diventa presto un gruppo armato antiterroristico che permette al suo fondatore, Predinger, di esprimere le sue simpatie politiche: “Va da sé che l’Alleanza concentrò la sua azione sul terrorismo di sinistra, ignorando quello delle destre. Mise una gran quantità di persone sotto sorveglianza […] l’Sa assassinò alcuni leader radicali da essa ritenuti alleati con i terroristi. Il più delle volte, però, le persone colpite erano proprio quei moderati che riuscivano a tenere a bada le frange più estremiste. Può anche darsi che l’abbiano fatto deliberatamente, sapendo che quando gli estremisti si fossero fatti avanti per riempire quel vuoto, il mondo impaurito avrebbe tollerato, se non addirittura richiesto, l’intervento dell’Sa. Così crebbe sia di responsabilità che di contatti, e con questi ultimi vennero anche potere e influenza. E, naturalmente, questo credito veniva aumentato dal sapiente uso del denaro operato da Predinger”. Insomma, non so voi, ma a me sembra che i due personaggi costruiti da Shirley – Predinger e Crandall – siano molto attuali: “Politicamente, il credo fondamentale dell’SA è semplicemente il fascismo. E qui non parliamo di fascisti come uno sbarbatello di sinistra potrebbe chiamare “fascista” qualsiasi guerrafondaio, rendendo il termine un mero dispregiativo. Parliamo della vera e propria essenza del fascismo. Predinger e Crandall sono entrambi profondi ammiratori del fascismo classico e della demagogia razzista, Hitler e Mussolini compresi”. Ci tengo a ricordare che Biden e, più volte, Kamala Harris hanno definito “fascista” il prossimo presidente americano Trump , e che Elon Musk è un padrone che ha proibito ai propri dipendenti negli Usa di organizzarsi in sindacato, così come Henry Ford – ammiratore di Mussolini e Hitler – famoso per la sua politica antisindacale esercitata nelle sue fabbriche. Ammesso la crescente influenza di Musk su Trump non faccia saltare il banco, alcuni collaboratori del neoeletto presidente potrebbero preoccupare come certi personaggi di Shirley. Proviamo a conoscerne meglio alcuni. Iniziamo da Pete Hegset, il signore coi tatuaggi di estrema destra. Come Crandall, anche Pete Hegseth – l’uomo scelto da Trump come futuro capo del Pentagono, un Dipartimento che governa un milione e 300 mila soldati, e 750 mila civili – è un personaggio televisivo e, come Crandall, non ama la diversità etnica: “dagli schermi di Fox, Hegseth si è scagliato in tante occasioni contro gli ideologhi che avrebbero distrutto l’esercito a colpi di programmi che incentivano la diversità etnica, razziale, di genere tra i militari. Hegseth è contrario all’accesso tra i militari delle persone transgender e alla partecipazione delle donne a operazioni di combattimento (deciso durante l’amministrazione Obama)”. Soprattutto il tema delle donne nell’esercito è sembrato appassionarlo – ovviamente in negativo. “Le donne non dovrebbero far parte dei corpi di combattimento”, ha spiegato Hegseth, “sono coloro che danno la vita. Non coloro che la tolgono. Conosco un sacco di fantastiche donne soldato. Solo che non dovrebbero stare nel mio battaglione di fanteria. Complicano tutto. E complicare le cose in una situazione di combattimento significa perdite sicure”. Proseguiamo con il fervente antiabortista Matt Gaetz. Nonostante Trump sappia che questo suo fedelissimo, assediato dagli scandali sessuali e dalle notizie che circolano relative all’abuso di droghe, non abbia molte chance di ottenere il via libera dal Senato, ha deciso di proporlo come futuro capo del dipartimento di Giustizia; ossia, lo stesso dipartimento che ha incriminato Gaetz per traffico sessuale con minorenni: “È in particolare la nomina di Gaetz, sotto inchiesta alla Camera per questioni etiche dopo che il dipartimento di Giustizia (che ora dovrà guidare) l’ha indagato senza incriminarlo per traffico sessuale con minorenni, che sta creando il maggiore shock ed oltraggio al Congresso, anche tra i senatori repubblicani che dovranno confermarlo. I repubblicani avranno una maggioranza tra i 52 e i 53 seggi, quindi anche un piccolo gruppo di oppositori potrebbe creare dei problemi alla conferma del deputato. Gaetz, 42 anni, è stato indagato dai procuratori federali per accuse di sfruttamento sessuale di una 17enne. L’inchiesta federale si è chiusa senza incriminazioni, ma ora è la commissione Etica della Camera ad indagare sulle accuse di natura sessuale e uso illecito di droga. Al centro delle accuse i viaggi che Gaetz avrebbe fatto alle Bahamas con escort pagate per viaggiare con lui, cosa che viola la legge federale, tra le quali anche una minorenne. Accuse sempre negate dal repubblicano che in questi anni si è imposto come una figura divisiva anche all’interno del partito repubblicano, soprattutto per essere stato alla guida del gruppo di trumpiani di estrema destra che fecero cadere lo Speaker Kevin McCarthy e precipitare la Camera nel caos”. Quindi, nell’ottobre del 2023 Matt Gaetz “è stato alla guida del gruppo di trumpiani di estrema destra che fecero cadere lo speaker Kevin McCarthy e precipitare la Camera nel caos”: qualcosa di inedito per la politica americana – è stata la prima volta nella storia degli Stati Uniti che la Camera dei Rappresentanti ha rimosso dall’incarico il suo presidente. Pete Hegseth e Matt Gaetz – personaggi di destra con discreta idiosincrasia verso il mondo femminile – Elon Musk e Donald Trump… sarà mica per questo che, dopo soli tre giorni dall’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, sono tantissimi i lettori americani che hanno acquistato romanzi distopici? In una sola settimana, Il racconto dell’ancella ha scalato quattrocento posizioni nella US Amazon Best Sellers chart di Amazon, arrivando a essere il terzo libro più venduto sulla piattaforma – al sedicesimo, invece, 1984 di George Orwell. Nel romanzo di Atwood è descritto un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, dove gli Stati Uniti sono diventati uno stato totalitario, basato sul controllo del corpo femminile; la voce narrante è quella di una ragazza che, prima del cambiamento, conduceva una vita normale – lavorava in una redazione, conviveva col suo compagno e, insieme, crescevano una figlia – e che, dopo, viene allontanata dalla famiglia e costretta a diventare un’ancella, perdendo così anche il diritto ad avere un nome: “Era così che si viveva allora? Vivevamo di abitudini. Come tutti, la più parte del tempo. Qualsiasi cosa accade rientra sempre nelle abitudini. Anche questo, ora, è un vivere di abitudini. Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà. Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente moriresti bollito senza nemmeno accorgertene. C’erano notizie sui giornali, certi giornali, cadaveri dentro rogge o nei boschi, percossi a morte o mutilati, manomessi, così si diceva, ma si trattava di altre donne, e gli uomini che commettevano simili cose erano altri uomini. Non erano gli uomini che conoscevamo. Le storie dei giornali erano come sogni per noi, brutti sogni sognati da altri. Che cose orribili, dicevamo, e lo erano, ma erano orribili senza essere credibili. Erano troppo melodrammatiche, avevano una dimensione che non era la dimensione della nostra vita. Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vivevamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci dava più libertà. Vivevamo negli interstizi tra le storie altrui”. Credo sia molto importante essere consapevoli del fatto che “nulla muta istantaneamente” e che, appunto, in una vasca da bagno che si riscalda gradatamente si morirebbe bolliti senza nemmeno accorgercene; forse questo aumento delle vendite è dovuto all’aver percepito sulla propria pelle, l’alzarsi della temperatura dell’acqua – o del brodo? – in cui gli statunitensi, e non solo loro, sono immersi. A proposito di donne e della prossima amministrazione, Trump ha deciso di assegnare la guida del dipartimento dell’Istruzione a Linda McMahon, ex Ceo della famosa compagnia di wrestling World Wrestling Entertainment (Wwe), scatenando le critiche dell’Associazione nazionale dell’istruzione, secondo cui The Donald “mostra di non essere interessato al futuro degli studenti” visto che, a parer loro, la McMahon non è qualificata “e il suo unico obiettivo è eliminare il dipartimento e togliere risorse alle scuole pubbliche”. Togliere risorse alle scuole pubbliche; ossia, penalizzare gli strati sociali più bassi: sempre gli stessi ci finiscono in mezzo, i più bisognosi. Anche in Eclipse non va granché bene agl’indigenti: la Colonia che avrebbe dovuto essere in grado di fornire lavoro e alloggio alle persone degli strati sociali più bassi, e quindi doveva essere qualcosa di estremamente positivo e umanitario, si rivela essere un fallimento: “una volta quassù [i più bisognosi] si sono ritrovati a vivere in dormitori sovraffollati e dall’aria malsana; una casa ben peggiore di quella che si erano lasciati dietro”. In Eclipse non va granché bene neppure agl’immigrati. Durante il Congresso Europeo della Nuova Destra, “con la stessa freddezza di un cuoco intento a commentare una ricetta”, il leader del Front Nationale francese dice: “…l’inevitabilità del conflitto fra culture le cui radici storiche affondano in terreni fondamentalmente diversi, come quelle europee e mediorientali, non può venire ignorata. Le buone intenzioni di coloro i quali cercano di riconciliare i fondamentalisti islamici con gli Europei non può che far aumentare l’attrito delle divergenze sociali. Perché in realtà le divergenze sociali sono inevitabili. Gli immigrati provenienti da mondi estranei al nostro hanno inquinato le nostre acque culturali. È da sciocchi ritenere che si possa mai arrivare a convivere armoniosamente nello stesso paese. È ingenuo e poco realistico. E questa ingenuità costa tempo, denaro e… sì, anche vite umane. Bisogna affrontare la realtà: alcune razze non potranno mai andare d’accordo con altre! La risposta è semplice: espulsione. Non dipende da noi se saremo costretti a usare la violenza per mettere in pratica questa che è l’unica soluzione al problema dell’immigrazione. Vitalità culturale e purezza razziale sono sinonimi…”. Un po’ come scriveva Michel Houellebecq in Sottomissione: “Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare se stessa […]. Il massiccio arrivo di popolazioni immigrate fedeli a una cultura tradizionale ancora modellata sulle gerarchie naturali, sulla sottomissione della donna e sul rispetto dovuto agli anziani, costituiva un’occasione storica per il riarmo morale e familiare dell’Europa, creava la possibilità di una nuova età dell’oro per il Vecchio Continente. Quelle popolazioni erano in certi casi cristiane; ma più spesso, bisognava riconoscerlo, erano musulmane”. Il problema dell’immigrazione: cos’ha idea di fare Trump, per risolverlo? Annuncia il ritorno dell’intransigente Tom Homan alla guida dell’Agenzia responsabile per il controllo delle frontiere e dell’immigrazione, l’Immigration and Customs Enforcement (Ice) degli Stati Uniti: “Conosco Tom da molto tempo e non c’è nessuno più bravo di lui nel sorvegliare e controllare i nostri confini, [sarà responsabile di] tutte le deportazioni di immigrati clandestini nel loro Paese di origine”. In pratica, il tycoon dà un volto alla promessa fatta, quella di attuare la più grande operazione di deportazione di immigrati clandestini nella storia degli Stati Uniti. Personalmente, son rimasto impressionato da quanto dichiarato da Homan durante un’intervista rilasciata a Fox News, in cui afferma che i militari non rastrelleranno e arresteranno illegalmente gli immigrati nel paese e che l’Ice si muoverà per attuare i piani di Trump in maniera umana: “Quando andremo là fuori, sapremo chi stiamo cercando. Molto probabilmente sappiamo dove saranno e tutto sarà fatto in modo umano”. Sbaglierò, ma questo attuare una deportazione in modo umano mi ha ricordato lo scopo umanitario che, in Eclipse, ha portato gli strati sociali più bassi a essere “deportati” sulla Colonia; tra l’altro, temo di sapere dove, “molto probabilmente”, Homan e l’Ice troveranno chi stanno cercando: in dormitori sovraffollati e dall’aria malsana. L’immagine dei dormitori fa tornare a Il racconto dell’ancella, il romanzo distopico già citato, dove le Zie sono le guardiane del rigore morale delle donne e le ancelle – uniche femmine ancora in grado di procreare dopo la catastrofe – vivono così: “Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. […] Avevamo lenzuola di flanella leggera, come i bambini, e vecchie coperte di quelle in dotazione all’esercito, ancora con la scritta U.S. Ripiegavamo i nostri abiti per bene e li riponevamo sugli sgabelli ai piedi del letto. Le luci venivano abbassate ma non spente. Zia Sara e Zia Elisabetta vigilavano, camminando avanti e indietro; avevano dei pungoli elettrici di quelli che si usano per il bestiame agganciati a delle cinghie che pendevano dalle loro cinture di cuoio. Niente pistole, però, neanche a loro venivano affidate le pistole. Le pistole erano per le guardie, scelte a questo scopo tra gli Angeli. Alle guardie non era permesso entrare nella casa se non vi erano chiamate, e a noi non era permesso uscirne, tranne che per le nostre passeggiate, due volte al giorno, due per due, attorno al campo di calcio che adesso era cintato da una rete metallica bordata di filo spinato. Gli Angeli stavano dall’altra parte, voltati di schiena verso di noi. Erano oggetto di paura per noi, ma anche di qualcos’altro. Se solo ci avessero guardato. Se solo avessimo potuto parlare con loro. Si sarebbe potuto stabilire uno scambio, pensavamo, un accordo, un baratto. Avevamo ancora il nostro corpo. Erano queste le nostre fantasie. Avevamo imparato a sussurrare quasi impercettibilmente. Nella semioscurità potevamo allungare le braccia, quando le Zie non guardavano, e toccarci le mani attraverso lo spazio tra un letto e l’altro. Leggevamo il movimento delle labbra, con le teste posate sul cuscino, girate di lato, osservando l’una la bocca dell’altra. In questo modo ci eravamo scambiate i nostri nomi, di letto in letto: Alma. Janine. Dolores. Moira. June”. Prima di perdermi, e magari non ritrovarmi più, in questo ginepraio dove spesso confondo quale sia la realtà e quale la finzione distopica, soprattutto, dove spesso mi sembra che la finzione distopica sia più accettabile di tante realtà, chiudo con l’ennesimo spaventoso intreccio tra quello che ci sta intorno e l’opera di Shirley. Ricordate la Seconda Alleanza descritta in Eclipse, la forza di polizia internazionale privata che diventa presto un gruppo armato antiterroristico? Bene. Pete Hegseth, la personalità Tv di estrema destra scelta da Trump quale futuro capo del Pentagono, non s’è battuto soltanto contro inchieste su militari Usa accusati di gravi crimini di guerra in Irak, ha preso le parti anche di squadre paramilitari private che avevano in appalto mansioni di sicurezza, come fece nel 2017, quando definì il massacro di diciassette civili inermi e innocenti in una piazza di Baghdad da parte di guardie dell’allora società Blackwater, come “un altro giorno di lavoro in Irak”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 27, 2024 / Osservatorio Repressione