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Nulla da perdere all’infuori delle catene
L’Italia resta una dura Terra Promessa dove un’umanità umiliata, sfinita dal lavoro, è sempre sfruttata e mal pagata di Marco Sommariva* Giorni fa, ho letto sul quotidiano Avvenire un interessante articolo  intitolato In Sicilia. I disperati delle arance: 30 euro al giorno per 15 ore di lavoro. Il giornalista che firma il pezzo, Alessandro Rapisarda, ci racconta di un terreno del comune di Paternò, nel Catanese, dov’è forte la presenza di tende e baracche, tra la maestosità dell’Etna e gli agrumeti della Valle del Simeto. Rapisarda è andato di persona a verificare il perché di questo accampamento e ha scoperto d’essere arrivato a destinazione, quando ha visto su un’inferriata “indumenti e scarpe lasciati ad asciugare”; poi, dopo aver mosso pochi passi, “tra ruderi e spazzatura […] ecco il campo trasformato in ritrovo e rifugio di decine di immigrati”. Sono uomini e donne che hanno attraversato il Nord Africa e hanno poi seguito la rotta dei Balcani per entrare in Italia: sei mesi in viaggio a piedi o con mezzi di fortuna. «Sono soprattutto tunisini e marocchini, dai venti ai trent’anni, vivono qui senza luce e senz’acqua», spiegano i volontari della Caritas al giornalista. I rifugiati raccontano a Rapisarda una realtà di sfruttamento, una feroce competizione tra disperati: sono la forza lavoro indispensabile per la raccolta di agrumi che verranno poi distribuiti sui mercati del Nord Italia e di buona parte dell’Europa. È un lavoro che li occupa anche quindici ore al giorno per raccogliere arance a novanta centesimi a cassa, così da raggranellare a fine giornata circa trenta euro. Le persone incontrate dal giornalista hanno gli infradito ai piedi nonostante il freddo e denunciano di non trovare un posto dove abitare perché, a Paternò, non affittano agli stranieri, oltre a raccontare che si son sentiti chiedere anche un euro l’ora, per attaccare alla presa di un bar il proprio cellulare – la cosa più preziosa che posseggono. In quello stesso campo, quasi un anno fa un giovane di ventiquattro anni è stato ucciso durante una lite mentre, qualche mese dopo, una rissa ha provocato il ferimento di un ragazzo. «Siamo tutti qui per sopravvivere. Quando hai fame e non trovi lavoro, è facile che nascano problemi, ma desideriamo solo una vita migliore». Non so a voi ma, a leggere tutto questo, a me è tornato in mente Furore, il famoso romanzo di John Steinbeck: pubblicato nel 1939 è divenuto il romanzo simbolo della Grande Depressione americana, la grave crisi economica e finanziaria che colpì gli Stati Uniti tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Il giorno in cui Franklin Delano Roosevelt si insediò alla presidenza, il 4 marzo 1933, si trovò di fronte una crisi disastrosa. Quella mattina le banche di Chicago e di New York, i centri gemelli del capitalismo americano, chiusero i battenti, seguendo l’esempio dato il mese prima da tutte le altre banche del paese – il sistema bancario era completamente crollato sotto il peso del ritiro dei depositi da parte dei clienti presi dal panico. I disoccupati arrivarono a essere fra i dodici e i quindici milioni, un quarto dei lavoratori di tutti gli U.S.A. Nella penosa marcia della famiglia Joad che si racconta in Furore, un’odissea verso gli aranceti della California vissuta da migliaia e migliaia di americani, è ripercorsa la storia delle grandi, disperate migrazioni – non ha importanza se interne o esterne –, verso lo sfruttamento, la miseria, la fame: un quadro potente e amaro di una dura Terra Promessa dove la manodopera è sempre sfruttata e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria miseria come un marchio d’infamia. Mi domando se i caporali che ogni mattina reclutano parte di questi disperati e anche chi, gerarchicamente parlando, sta sopra a questi caporali, abbiano mai letto Furore. Consiglierei loro vivamente di farlo. Ma sapendo che la pratica assidua e quotidiana di soprusi e violenze li sfianca e a fine giornata sono talmente stanchi da non avere neppure la forza di aprire un libro, suggerisco io una mezza dozzina di passaggi che ho estratto apposta per loro, su cui li invito a ragionare un poco: “[…] la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello”. “[…] gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nel cuore degli umili maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia”. “Si diventa cattivi, a sentirsi inseguiti”. “È la miseria che fa diventar cattivi”. “Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore”. “Ci son tante cose contro la legge, che però bisogna fare lo stesso”. Ci sarebbero altri libri di Steinbeck sull’argomento, che consiglierei un po’ a tutti di leggere: uno è il romanzo La battaglia, dove si narra la storia di uno sciopero di braccianti, del suo fallimento e di uomini che trasformano la propria disperazione in lotta per il riconoscimento dei propri diritti fondamentali; l’altro è intitolato I nomadi, ed è una raccolta di articoli: nel 1936, nel pieno della Grande Depressione, il San Francisco News commissiona a John Steinbeck una serie di articoli sulla condizione dei braccianti agricoli immigrati in California. Sono americani del Midwest, colpiti dalla crisi e costretti a fuggire dalle tempeste di sabbia della Dust Bowl. Steinbeck sale su un furgone da panettiere e inizia il suo viaggio fra le vallate della California, dove s’imbatte in un’umanità sfinita dal lavoro, umiliata, in un popolo di senza terra, schiacciato dall’economia e dalla natura infuriata. Incontra famiglie, un tempo orgogliose, scivolate nella povertà e in un’apatia senza ritorno. Per i “signori” caporali e a chi sta loro sopra, torno a permettermi di segnalare una mezza dozzina di passaggi del primo, mentre agli indigeni e a chi li governa segnalo un unico passaggio del secondo. Inizio con La battaglia: “Qualcuno ha da schiattare se si vuole che la massa esca una buona volta da questo scannatoio”. “Talvolta quando la gente non ne può più, è allora che si batte meglio”. “Nulla da perdere all’infuori delle catene”. “[…] odiamo il capitale investito che ci tiene schiavi”. “Si è un po’ stufi di uno che ha sempre ragione”. “[…] un uomo affamato non è tenuto alle regole”. Termino con I nomadi: “Se […] la nostra agricoltura richiede che sia creata e mantenuta a ogni costo una classe di bassa manovalanza, allora si dà per scontato che l’agricoltura californiana non sia economicamente sostenibile in un regime democratico. E se per garantirci la sicurezza economica sono necessari la violenza e l’annientamento dei diritti umani, le fustigazioni, gli omicidi commessi dagli agenti, i rapimenti e il rifiuto di tenere processi davanti a una giuria, si dà anche per scontato il rapido declino della democrazia in California”. Basterà sostituire Italia e italiani a California e californiani per capire come, a distanza di quasi novant’anni, non sia cambiato pressoché nulla, se non il teatro della vicenda. Sono secoli che la letteratura ci avvisa, allerta sulle tragedie che egoismo e avidità possono generare, e anche se non c’è verso di vedere l’Uomo fare un passo indietro, io continuerò a leggere comunque. Fosse anche solo per avere materiale con cui scrivere articoli come questo.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 17, 2025 / Osservatorio Repressione
Toghe rosse e camicie nere
Il Governo e la sua maggioranza accusano i magistrati di politicizzazione e proclamano la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. In realtà la separazione è già in atto e, con il termine politicizzazione, si indica, a ben guardare, l’indipendenza dei magistrati, mal tollerata dal potere. Il fatto più inquietante è che i discorsi sono molto simili a quelli di cent’anni fa. Mancano solo le camicie nere. di Livio Pepino da Volere la Luna I film Luce del Ventennio e dei primi anni Cinquanta – la voce del padrone mascherata da attualità politica in onda al cinema tra uno spettacolo e l’altro – erano un gioco da bambini. Oggi i video della presidente del Consiglio, trasmessi sostanzialmente a reti unificate, inondano i nostri pasti quotidiani di fake news, evocando complotti inenarrabili, affrontati – naturalmente – con schiena dritta in virile scontro con nemici da colpire inesorabilmente. Tra i nemici prediletti ci sono da tempo, in perfetta continuità con la stagione berlusconiana, i magistrati. Lungi da me l’idea di una difesa acritica di questi ultimi, magari dettata da un’antica appartenenza alla corporazione (in verità cessata ormai da 15 anni). Al contrario sono assai critico nei confronti di molti orientamenti di una magistratura spesso forte solo con i deboli (i barbari, i marginali, i ribelli) e trovo stucchevoli, oltre che sbagliate, le affermazioni – in voga sino a qualche anno fa – tese a rivendicare una superiorità morale dei magistrati rispetto ai politici. Mi asterrei, dunque, dall’entrare in questa “singolar tenzone” se non fosse che, in essa, il conflitto tra magistratura e politica è, nonostante le apparenze, del tutto secondario. Ma quali sono, allora, le questioni sul tappeto? Conviene esaminarle a partire dalle affermazioni e dai progetti della maggioranza politica. Il fulcro di tutto è il disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera lo sorso gennaio dedicato, a detta dei proponenti, alla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, cioè alla diversificazione dei percorsi professionali della magistratura giudicante e di quella requirente. Nulla da obiettare – almeno per me – su tale diversificazione, tesa ad evitare commistioni improprie e conseguenti lesioni dei diritti dell’imputato e, dunque, del tutto condivisibile e, almeno sul piano teorico, più corretta del modello organizzativo unitario. Ma – cosa non da poco – non è quello il contenuto del disegno di legge, nel quale nulla si dice sul collegamento tra giudici e pubblici ministeri. Né potrebbe essere altrimenti considerato che i due percorsi professionali sono già oggi nettamente separati, tanto che l’interscambio (possibile una sola volta nel corso della carriera, entro nove anni dalla prima assegnazione delle funzioni e con cambio di sede) è poco più di un caso di scuola che interessa, ogni anno, un’aliquota di magistrati inferiore all’uno per cento (https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri). A ben guardare, dunque, l’espressione “separazione delle carriere” si inserisce a pieno titolo nel vocabolario delle parole distorte usato dai regimi per rendere accettabile ciò che tale non è e la riforma costituzionale (che riguarda l’istituzione di due Consigli superiori, il sorteggio dei loro componenti magistrati e una inedita Corte di disciplina per i magistrati) rivela il suo ruolo di strumento per «creare un magistrato burocrate, di nuovo inserito in una gerarchia, intimorito dalla politica e dai superiori» (https://volerelaluna.it/commenti/2025/01/20/riformare-la-giustizia-o-scardinare-la-democrazia/) con una «regressione corporativa destinata a contraddire tutta la storia recente della magistratura, dalla seconda metà degli anni Sessanta sino ad oggi» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/03/separazione-delle-carriere-una-vecchia-etichetta-per-una-nuova-merce/). Non è un’illazione ma un fatto, risultante dalle stesse affermazioni dei suoi sostenitori, che invocano la riforma per evitare il ripetersi di alcuni casi definiti “scandalosi”, come le mancate convalide, da parte di tribunali e corti d’appello, dei trattenimenti di richiedenti asilo nei centri di detenzione albanesi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/11/15/migranti-paesi-sicuri-lo-scontro-e-tra-diritto-e-arbitrio/) e l’“incriminazione”, da parte del Procuratore della Repubblica di Roma, della presidente del Consiglio e di alcuni ministri per l’affare Almasri (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/02/03/il-caso-almasri-e-lidea-di-stato-della-destra/): casi che coinvolgono solo giudici, il primo, e solo pubblici ministeri, il secondo, e che non sarebbero in alcun modo toccati da una revisione dei rapporti tra le due categorie… Analoghe considerazioni si impongono per il secondo leitmotiv della destra al governo: quello secondo cui “bisogna finirla con le toghe rosse politicizzate!”. Lo slogan è stato rispolverato con riferimento alla appena ricordata incriminazione della presidente del Consiglio da parte della Procura di Roma e alla parallela vicenda della presunta divulgazione di un documento destinato a restare segreto da parte dello stesso magistrato. Ma si tratta del più clamoroso degli autogol, posto che il procuratore di Roma è esattamente l’opposto di un barricadiero magistrato di sinistra e si riconosce nella corrente più conservatrice della magistratura (quella, per intenderci, di cui ha fatto parte fino a ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano) della quale è stato dirigente autorevole e nella cui lista è stato, in passato, eletto al Consiglio superiore. Dunque, se di scorrettezze si trattasse (ed è assai dubbio che sia così), esse dovrebbero essere riportate a categorie ben diverse dalla politicizzazione, come l’errore o a uno scontro tutto interno allo schieramento conservatore. Difficile, in ogni caso, non riandare con la memoria alla situazione, descritta da Piero Calamandrei, in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (risalente al 1935), del miliardario che, per sottrarre il figlio dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista». In realtà – non sembri un paradosso – la magistratura italiana di questo inizio di millennio è la meno politicizzata della storia nazionale: una storia che ha visto, nell’epoca liberale indicata come modello, una totale coincidenza tra classe politica di governo e magistratura, con continui passaggi dalle aule di giustizia a quelle parlamentari, e che si è sviluppata in perfetta coerenza fino agli anni Sessanta del secolo scorso (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/10/giudici-fascisti-cerchiobottisti/). A volte – con maggiore o minor frequenza – la magistratura sbaglia, ma quando lo fa, non è per una vocazione antigovernativa e quella che viene, impropriamente, chiamata “politicizzazione” è, a ben guardare, il suo opposto: l’indipendenza dalla politica, che può anche portare a momenti di collisione, come è fisiologico che sia nella vigenza del potere istituzionale diviso voluto dalla Costituzione (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/). Così il quadro si ribalta e diventa chiaro che – come ha scritto recentemente Sergio Labate – «la politicizzazione non è quel che il Governo teme ma quel che vuole» per liberarsi dai lacci delle regole e del controllo di legalità: sul piano interno e su quello internazionale, come le polemiche di questi giorni con la Corte penale internazionale dimostrano. La storia si ripete. Il 10 giugno 1925, esattamente un secolo fa, il guardasigilli fascista Alfredo Rocco espose alla Camera il progetto del regime sulla giustizia affermando che «la magistratura non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista». Il seguito è noto. Nel dicembre dello stesso anno l’Associazione nazionale magistrati deliberò il proprio scioglimento per evitare di essere trasformata in un sindacato fascista. Quattro anni dopo, lo stesso Rocco affermò, con viva soddisfazione, che «lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Nel 1939, infine, i più alti magistrati del regno – come ricorda Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione». Oggi manca la camicia nera, ma la sostanza non cambia. Il fascismo del nuovo millennio segue la stessa strada, talora addirittura con le stesse parole. Eppure c’è ancora qualcuno – molti – che contesta questa assimilazione e nega che sia in atto una torsione autoritaria dello Stato. Ma anche in questo la storia si ripete… > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 14, 2025 / Osservatorio Repressione
Le troppe amnesie su carcere e repressione
L’approccio a carcere e repressione non potrà essere mai esaustivo e corretto senza partire dalla realtà che ci trasmette da tempo un’egemonia schiacciante delle culture e pratiche sicuritarie. di Federico Giusti Possiamo discutere all’infinito sull’approccio alle tematiche repressive ma alla fine andremo a sovrapporre i nostri desiderata alla realtà con la quale bisogna invece sempre e comunque fare i conti. E la realtà ricorda che oggi alcuni concetti la fanno da padrone tanto a sinistra quanto a destra, sono ormai punti comuni delle analisi provenienti dai vari schieramenti, parliamo di certezza della pena, di sicurezza nei centri abitati, di lotta alla microcriminalità, di telecamere diffuse ad ogni angolo cittadino. E quando ci imbattiamo negli infortuni e nelle morti sul lavoro la richiesta di molti è la istituzione di un reato per omicidio sul lavoro sperando che l’ennesimo reato nel codice penale a tutela dei lavoratori possa in qualche modo restituire dignità e giustizia alle vittime del profitto. Sia ben chiaro: il nostro codice penale introduce ogni mese reati nuovi per colpire devianze e soggetti sociali, l’elenco sarebbe lungo e i nostri ascoltatori o lettori ne sono già al corrente, la speranza che infortuni e morti sul lavoro possano ridursi per la istituzione di pene severe anche contro i mancati controlli della committenza stride con la subalternità dei Rappresentanti dei lavoratori alla filiera aziendale, alle dinamiche decise dai vertici aziendali, pubblici e privati, a norme, incluso il testo unico sulla sicurezza, che non hanno attribuito potere contrattuale alle figure sindacali che si occupano di salute e prevenzione. Sta qui il problema, pensare che una legge determini lo spostamento del punto di vista generale, le legislazioni avanzate in materia di salute e sicurezza sono figlie di lunghe stagioni di lotte e di iniziative culturali e sociali ma anche di pratiche politiche e sociali avanzate. Chi oggi ragiona sull’abolizione del carcere pensando sia possibile farlo alla luce di quanto avvenuto negli anni settanta con i manicomi dovrebbe prima studiare e contestualizzare il problema e magari anche chiedersi dove siano finiti tutti gli interventi sociali di accompagnamento della Basaglia di cui si è subito perso traccia all’indomani dei processi attuativi della Legge Perchè il modo migliore per vanificare dei percorsi di riforma è quello di abbandonare al proprio destino la transizione scaricandone gli oneri sociali sulla collettività o, meglio ancora, sulle singole famiglie che poi si troveranno a fare i salti mortali per la soluzione dei problemi. Dobbiamo quindi ripartire da alcuni luoghi di comuni come la certezza della pena in un paese nel quale a pagare sono sempre i meno abbienti con le carceri ridotte a discarica sociale, con i percorsi di studio e di lavoro di fatto ridotti ai minimi termini, con le misure alternative alla pena rese impossibili dall’assenza di una rete di welfare fino alla privatizzazione della pena e del carcere sul modello Usa con le carceri affidate ai privati e a costi decisamente più bassi. Ma non possiamo eludere anche la necessità di un approccio meno caritatevole e sociologico alla questione detentiva recuperando invece una chiave di lettura politica e politicizzata, del resto il 1660 è la risposta al conflitto interno ai paesi a capitalismo avanzato che vanno imponendo economie di guerra e sacrifici economici e sociali. E in questo approccio allargato non possiamo eludere la questione dell’emergenza trasformata in strumento ordinario, pensare che i recinti urbani non siano figli di una diffusa cultura che spazia dalla sicurezza urbana alle logiche del mercato immobiliare fino ai progetti che andranno a ridefinire i confini e le dinamiche della città con una sorta di selezione preventiva della tipologia di abitante da collocare in ogni singolo quartiere. Quello che serve oggi è mettere insieme i vari approcci e trasformarli in una contro narrazione che per essere credibile dovrà affrontare, e non eludere, le contraddizioni emerse nel tempo attorno alle tematiche securitarie, il securitarismo si afferma dopo decenni di egemonia culturale e politica dei dominanti e tra i dominanti non mancano anche settori dell’attuale opposizione parlamentare a cui dobbiamo ad esempio i pacchetti sicurezza o avere minimizzato la situazione di vita nei campi in Libia per ragioni legate alla salvaguardia della sicurezza nazionale. Proviamo a uscire allora dalle nostre zone comfort siano esse ideologiche o di gruppo politico, di approccio intellettuale o di ribellismo fino a sè stesso. La questione carceraria, in un paese dove a distanza di 40 anni ci sono ancora detenuti politici, è uno spaccato della società e come tale va affrontata, farlo ora prima di trovarci davanti al modello usa, ai carceri gestiti da privati nei quali i diritti umani e civili saranno letteralmente sospesi. l’articolo è uno Stralcio dell’ intervento della Cub alla presentazione pisana del numero di Jacobin “Regime di Massima sicurezza” Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
February 14, 2025 / Osservatorio Repressione
La polizia, la destra, la sinistra
Nel nostro Paese, l’organizzazione delle forze di polizia è ancora lontana da una concezione democratica. Per ragioni storiche (che affondano le radici nella continuità dello Stato repubblicano con quello fascista) e per mancanza di controlli adeguati. Ma anche per le coperture della destra e le timidezze della sinistra, incapace di prendere le distanze e di criticare atteggiamenti e operazioni pur meritevoli di censura. di Giovanni Vighetti da Volere la Luna Nell’ultima puntata dell’interessante fiction della Rai La lunga notte. La caduta del duce c’è un dialogo significativo tra il gerarca Dino Grandi, autore della mozione che al Gran consiglio del fascismo del luglio 1943 portò alla sfiducia e caduta di Mussolini e al suo arresto, e il responsabile dell’Ovra, acronimo di Opera vigilanza repressione antifascismo, cioè la polizia politica fascista. Se il fascista Grandi si rende conto dell’imminente crollo del regime il responsabile dell’Ovra ribatte: «L’aria non cambierà mai. Noi siamo lo Stato e lo saremo sempre. Anche senza Mussolini». In questo passaggio c’è ben poca fiction e molta realtà. In effetti il capo dell’Ovra Guido Leto, che diresse la feroce polizia politica durante la dittatura fascista, è uno degli infiniti esempi della mancata epurazione della presenza fascista nelle istituzioni perché, dopo un breve periodo di detenzione, fu incaricato da Umberto Federico D’Amato di riorganizzare le strutture dei Servizi segreti. Anche il curriculum di Umberto Federico d’Amato, che da dirigente dell’Ufficio politico della Questura di Roma divenne poi responsabile dell’Ufficio Affari Riservati, nido nero negli anni della strategia della tensione, è un’altra cartina tornasole del fallimento del mancato rinnovamento democratico delle forze di polizia: nell’anno 2000 la Procura Generale di Bologna lo ha indicato tra i mandanti, insieme a Licio Gelli il capo della Loggia Massonica eversiva P2, della strage della Stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Con l’errore dell’amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946, atto con cui si rinunciò a perseguire e punire i crimini fascisti, al punto che anche un violento squadrista come Piero Brandimarte, responsabile della strage del 18-20 dicembre 1922 a Torino in cui 11 esponenti della sinistra furono assassinati e molti altri massacrati di botte, venne incredibilmente assolto … anche perché la maggioranza dei giudici, in particolare quelli della Corte di Cassazione, era rimasta legata a doppio filo nero con l’ideologia fascista e il “pugno di ferro” lo utilizzò nei confronti delle azioni dei partigiani. Con questo passato prossimo della dittatura fascista non abbiamo mai fatto fino in fondo i conti, e questa storica mancanza ha generato la nebbia che ha sempre facilitato e coperto le trame nere che, in tempi più recenti, ha spesso messo in pericolo la democrazia nel nostro Paese, a iniziare dai tentativi di colpo di Stato, tra cui il più grave quello del dicembre 1970 guidato da Junio Valerio Borghese, e dalle numerose stragi fasciste che hanno sempre visto la partecipazione dei Servizi segreti, di volta in volta “assolti” con la formula “trattasi di una minoranza di servizi deviati”. Certamente i servizi segreti deviati esistono, ma costituiscono solo la minoranza fedele alla Costituzione. Da questo preambolo, storicamente documentato, consegue che l’organizzazione delle forze di polizia è ancora lontana da una visione pienamente democratica, perché le leve di comando, con rare eccezioni, sono rimaste avvolte dal filo nero di responsabili già compromessi con il fascismo e non epurati, i quali a loro volta hanno selezionato i propri eredi per garantire la continuità della visione conservatrice e reazionaria. Non si può diversamente spiegare il radicamento all’interno delle forze di polizia e dell’esercito della P2 o dell’organizzazione paramilitare Gladio. L’impunità sempre garantita dai vertici degli apparati, anche in occasione della “macelleria messicana” del G8 a Genova nel 2001, la rinuncia a introdurre elementi di chiarezza e controllo sui comportamenti, anche individuali, dei poliziotti con il numero di codice da apporre sul casco, sono altri elementi che non aiutano ad avere fiducia in una Polizia, più impegnata a reprimere le contestazioni sociali che non la criminalità, e la cui “fotografia” nell’immaginario collettivo è sempre più quella del manganello che colpisce la testa dei manifestanti. In questo quadro si inserisce la classe politica, a trazione neofascista, di questo Governo autoritario indirettamente aiutato nella “presa del potere” da chi, in questa fase storica che richiede la massima unità anche sul terreno elettorale, continua a scegliere l’astensionismo. E il Governo Meloni, con il decreto sicurezza, sta percorrendo, a grandi passi, la strada dell’involuzione antidemocratica con l’inasprimento delle pene (dai sei mesi ai due anni) per chi manifesta con blocchi stradali o ferroviari, forme di lotta che rientrano nella legittima tradizione delle lotte operaie e sociali, che vengono quindi punite come illecito penale e non più amministrativo. Inoltre, con la proposta di una sorta di scudo penale, rafforza l’autoritarismo e le garanzie di impunità alle forze dell’ordine, a cui viene delegato il contenimento e la repressione del dissenso, sempre più criminalizzato anche dai media filogovernativi, che invece è il sale della dialettica democratica quando il Potere si rifiuta di ascoltare o accettare o mediare rispetto alle ragioni dell’opposizione sociale. Ancor più grave, in un Paese in cui i Servizi segreti sono sempre stati coinvolti nelle trame nere e nelle stragi neofasciste, l’intento di potenziarne le attività sotto copertura, consentendo agli agenti non solo di partecipare alle organizzazioni terroristiche-eversive ma anche di dirigerle e guidarle, arruolando nuovi membri, e obbligando le Università a collaborare con i Servizi in deroga alle norme sulla riservatezza, il che porterebbe a un controllo sulla libera espressione garantita dalla Costituzione. Quanto alle forze dell’opposizione, per lo più silenziose e timorose anche sull’incredibile episodio del  corteo di poliziotti carabinieri e finanzieri che il 24 novembre 2024 hanno manifestato a Torino di fronte al Comune contro ogni forma di dissenso sociale e chiedendo la chiusura del centro sociale Askatasuna, risultano sensibilmente slegate dalla realtà del Paese, e nei momenti di tensione cercano sempre di cavarsela in calcio d’angolo con la formula “esprimiamo la nostra solidarietà alle forze dell’ordine”. Frase di rito retorica e utilizzata a prescindere, senza nemmeno approfondire o conoscere i motivi delle proteste per pigrizia o mancanza di coraggio intellettuale e con molta cecità politica, perché questa linea allontana i cittadini che rivendicano la piena e attiva partecipazione sociale, mentre le forze dell’ordine storicamente sono e restano, se non si introducono elementi di controllo rispetto all’uso della forza quando questa è illegittima o sfocia nella violenza, un granitico bacino elettorale del centrodestra. Illuminante su questi continui “calci d’angolo”, fini a se stessi e alla propria pallida visibilità, è la dichiarazione riportata sul Corriere della Sera di due senatrici renziane di Italia Viva, partito che tra governo e opposizione sta un po’ di qua e un po’ di là ma mai dalla parte dei lavoratori o dei cittadini, in occasione del recente e violento intervento per l’esproprio del terreno di proprietà di valsusini No Tav alle porte di Susa (un esproprio compiuto manu militari senza aspettare quello amministrativo, e quindi senza rispettare le regole, talmente urgente che oggi il terreno è solo una discarica di jersey di cemento, griglie e filo spinato utilizzati per blindare lo sgombero). «Basta violenze in val di Susa — hanno commentato le senatrici di Italia Viva Silvia Fregolent e Raffaella Paita –. I lavori dell’Alta velocità Torino-Lione devono andare avanti, la battaglia di gruppuscoli no Tav e centri sociali è inutile e anacronistica. Le infrastrutture sono fondamentali per lo sviluppo del paese e dell’Europa, e servono anche a tutelare quell’ambiente a cui i no tav tutti dicono di tenere. Solidarietà alle forze dell’ordine, costrette ad avere a che fare con questi facinorosi». Evidentemente, come la maggioranza dei deputati che siedono in Parlamento, non sanno nemmeno che la Francia ha rinviato a dopo il 2040 ogni decisione se costruire o meno una linea ad alta velocità per collegare Torino a Lyon e che quindi il tunnel sotto il Moncenisio è fine a se stesso, e servirà solo per una risibile e demenziale linea ad alta velocità tra Susa e Saint Jean de Maurienne. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
Firenze, l’offensiva antisindacale di Montblanc e il diritto di sciop…ping
La multinazionale del lusso Montblanc aveva chiesto alla sezione civile del Tribunale di Firenze il “daspo antisindacale per mettere il bavaglio ai lavoratori”. Sebbene ritirato, il ricorso costituisce un pericoloso precedente e un interessante spunto di riflessione.  di Cosimo Barbagli, Marco Ravasio da Monitor L’offensiva antisindacale di Montblanc fa un buco nell’acqua. La società voleva ottenere dal tribunale l’ordine per il sindacato Sudd Cobas di “astenersi dall’organizzare, promuovere e/o svolgere manifestazioni nei confronti di Montblanc Italia S.r.l. a distanza inferiore a 500 metri dalle vetrine della boutique sita in via Tornabuoni”. Una proposta senza precedenti, che minaccia le fondamenta della libertà sindacale e di manifestazione, nel solco della direzione tracciata dal ddl 1660. Sebbene ritirato, il ricorso costituisce un pericoloso precedente e un interessante spunto di riflessione. Il sindacato e un’ampia comunità solidale non hanno mancato di rispondere pubblicamente, con una assemblea pubblica molto partecipata domenica 2 febbraio a Firenze e la diffusione di un appello di solidarietà internazionale. COME SI È ARRIVATI A QUESTO PUNTO Facciamo un passo indietro e proviamo a riepilogare i fatti che hanno portato alla situazione attuale. Prima di tutto occorre chiarire cosa vuol dire parlare di “operai Montblanc”: secondo un meccanismo rodato e ampiamente diffuso, i grandi marchi non producono direttamente le proprie merci, o lo fanno solamente in minima parte, commissionando ad altri il grosso della produzione e alimentando filiere lunghe e torbide. Nel caso di Montblanc, il brand commissiona le proprie borse alla Pelletteria Richemont Firenze, una società detenuta dal Gruppo Richemont, l’holding finanziaria cui appartiene anche Montblanc stessa. La distinzione tra le due aziende è quindi formale, tanto che la stella simbolo del marchio è ben visibile sull’edificio di Pelletteria Richemont. La produzione vera e propria, tuttavia, veniva sub-commissionata a un’altra azienda, la Z Production, la quale aveva a sua volta un sub-fornitore, Eurotaglio (azienda in realtà solo formalmente distinta da Z Production, operante nello stesso stabile e con lo stesso capo). Erano gli operai di queste ultime due aziende a lavorare le borse di Montblanc, costretti a turni di dodici ore al giorno, sei giorni a settimana, per pochi euro l’ora. Fin qui, per quanto si intuisca la ricerca del massimo profitto da parte di Montblanc attraverso un sistema di appalti che massimizza il plusvalore assoluto prodotto dai lavoratori, qualcuno potrebbe ancora sostenere che l’azienda non possa essere ritenuta responsabile per le condizioni di lavoro in queste aziende. Occorre quindi far presente che (1) appare chiaro a chiunque che una borsa pagata settanta euro, ma lavorata secondo alti standard qualitativi, deve necessariamente implicare del lavoro sottopagato e che (2) un supervisore della pelletteria Richemont visitava regolarmente Z Production ed Eurotaglio per assicurare gli standard di produzione. Non si deve quindi immaginare, tra queste aziende, il classico rapporto tra cliente e fornitore, ma una distorsione di questo a favore del cliente che, grazie alle sue dimensioni spropositate, impone a ditte in mono-committenza tempi, modi e prezzi di produzione. Dopo quattro mesi dall’inizio del percorso di lotta, a febbraio 2023, gli operai di Z Production ed Eurotaglio sono riusciti a ottenere il rispetto dei propri diritti (quelli garantiti dalla legge italiana) e l’applicazione del contratto nazionale. Il costo del prodotto per Montblanc è così passato da settanta a cento euro al pezzo (il prezzo al pubblico di questi prodotti supera i mille euro per borsa). Poche settimane dopo, la committenza comunica a Z Production che, alla scadenza del contratto, non lo avrebbe rinnovato, condannando di fatto i lavoratori alla perdita del proprio impiego. Gli operai però non mollano e cambiano la propria strategia: anche l’idra ha un punto debole, se si ha l’intelligenza e il coraggio di trovarlo. Al grido di “Montblanc sfrutta, Montblanc scappa”, la lotta riprende, dirigendosi direttamente contro il brand. La strategia diventa quella di colpire ciò che veramente viene venduto dall’azienda: il marchio, l’immagine, l’aura del lusso. I picchetti davanti al sontuoso negozio si susseguono e a settembre 2024 il Sudd Cobas lancia la campagna “Shame in Italy”, con l’obiettivo di fare luce sulle ombre che si nascondono dietro le scintillanti vetrine del marchio. Il coraggioso gruppo di operai arriva perfino a Ginevra per protestare sotto la sede di Richemont, mentre in varie città d’Europa si attiva una giornata di convergenza sotto i negozi Montblanc e in viaTornabuoni, nel cuore della Firenze bene, gli operai montano le tende in mezzo alle vetrine di gioiellerie, boutique e alberghi a cinque stelle. La stampa internazionale inizia a interessarsi e Al Jazeera produce un documentario che conferma quanto sostenuto dagli operai fin dall’inizio: Montblanc sa tutto. IL PRIVILEGIO È UN DIRITTO, I DIRITTI UN PRIVILEGIO Messo alle strette, il gruppo Richemont decide di reagire con forza e mostrare ciò di cui è capace un colosso finanziario da venti miliardi di euro di fatturato. Facendo appello al tribunale civile diFirenze, Montblanc costruisce un ricorso con cui chiede che sia impedito al sindacato di manifestare a meno di cinquecento metri dal proprio negozio in via Tornabuoni, di fatto volendo imporre le proprie prerogative su un’area che copre un terzo del centro storico cittadino. Se chi legge potrebbe essere stupito da una tale arroganza, forse non lo sarà chi vive nel capoluogo toscano, ormai abituato alla gestione privatistica dello spazio pubblico, vedasi piazza della Signoria affittata a Ferragamo per una sfilata o Ponte Vecchio a Ferrari per una cena, solo per citare i due eventi più eclatanti. Si aggiunga a questo che via Tornabuoni, insieme a diverse altre decine di strade del centro storico, è “tutelata” da una norma che limita l’apertura di nuove attività unicamente a quelle “di pregio”, come negozi di antiquariato, design e gallerie d’arte. Se infine si considera la messa in vendita di gran parte degli immobili di maggiore pregio in possesso del Comune, il quadro che ne emerge è quello di una città che da anni, marcatamente dall’amministrazione Renzi in poi, è espressione dell’organizzazione pubblica di interessi privati. L’estrazione di valore operata da privati che si appropriano di porzioni via via crescenti della città, mostra però continuamente le sue contraddizioni. È così che le folle di turisti devono essere disciplinate da ordinanze “anti-panino” che impediscano loro di ungere le preziose pavimentazioni degli edifici storici, e i fruitori della movida notturna devono essere controllati da guardie private che li guidino nel consumo attraverso selve di ristoranti, bar e locali. E sempre così si rende necessaria la smart control room che coordina le circa 1.700 telecamere cittadine, una ogni 230 abitanti (primato nazionale) e la continua richiesta di nuovi agenti di polizia al governo. La trasformazione dei quartieri, da espressione dei bisogni, dei conflitti e degli espedienti di una comunità a luogo di produzione di valore, non è indolore. Per produrre diventa necessario controllare tutte le espressioni non coerenti con la ricerca costante di profitto, siano esse modalità di fruizione dello spazio incentivate proprio dalla sua commercializzazione o l’espressione di soggettività incompatibili con questo modello. Strumenti come il “daspo urbano” e le “zone rosse” (sperimentate in modo fallimentare a Firenze a partire dal 2019 e ora incentivate dal governo in tutte le maggiori città italiane) si rendono così necessari a silenziare con la forza tutte le forme che non seguono la strada prevista. In questo contesto, dove il negozio in via Tornabuoni è parte fondamentale della costruzione dell’immagine per la valorizzazione delle merci e, perciò, nodo in cui può esprimersi la conflittualità operaia, non appare così incredibile che Montblanc pretenda di difendersi ampliando la portata degli strumenti già esistenti, per usarli contro il sindacato. Degna di nota risulta però la modalità con cui avviene il tentativo da parte del brand: ricorrendo al tribunale civile, infatti, esso non solo derubrica la questione a gestione dell’ordine pubblico, anziché a conflitto tra parte datoriale e sindacale, ma scavalca anche l’amministrazione cittadina. Quest’ultima, trasformata col processo neoliberista in strumento dei privati, viene ritenuta evidentemente obsoleta da chi si sente ormai in grado di governare da sé. Fortunatamente, la mobilitazione attivata dal sindacato, a cui hanno fatto eco le numerose realtà che lottano per un diverso futuro della città, stavolta è stata in grado di bloccare sul nascere questo tentativo, evitando un pericoloso precedente per tutto il territorio. Resta però la necessità di analizzare il bivio di fronte a cui la comunità democratica si trova di fronte: il declivio verso città amministrate direttamente dai privati, ormai liberi dalla maschera della politica rappresentativa, o l’accidentato sentiero da percorrere per portare in centro, al centro, le necessità di tutte quelle operaie e operai che i padroni vorrebbero chini a lavorare. Che possa essere la convergenza tra lotte sindacali e realtà territoriali a riaprire una strada che sembrava ormai impraticabile?   > Firenze: Montblanc chiede il daspo antisindacale > Montblanc, il lusso del Daspo sindacale     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
Il caso Almasri e l’idea di Stato della destra
L’affaire Almasri non è solo un “infortunio” rivelatore del favoreggiamento, da parte dell’Italia, di un personaggio impresentabile. È anche la spia della modifica della forma di Stato perseguita dalla destra, nella quale il Governo è il solo responsabile dell’interesse nazionale, svincolato, per questo, da ogni regola e sottratto al controllo del Parlamento e della magistratura. In attesa dell’introduzione del premierato… di Gianluca Vitale da Volere la Luna La difesa del Governo, modificatasi in breve tempo, nella vicenda del generale Almasri ha confermato qual è l’idea di Stato, o meglio di forma di Stato, che si sta tentando di affermare e consolidare. Inizialmente abbiamo assistito a un goffo tentativo di dar la colpa alla Digos (che avrebbe errato nell’eseguire l’arresto senza la richiesta del Ministro) e al decorso del tempo (non abbiamo avuto il tempo di seguire la procedura corretta), di conclamare il sacro rispetto dei diritti della persona, chiunque egli sia (proprio come avviene, per non allontanarci troppo dal generale, nella navi che conducono alcune delle sue vittime in Albania, trattenendoli ben oltre le 96 ore di Costituzione prima di vedere un giudice…) e di affermare che si è deciso di allontanarlo come un qualunque pericoloso criminale extracomunitario (è, infatti, noto che il rimpatrio sia sempre seguito in guanti bianchi, con un aereo di Stato dedicato, e non con l’applicazione di fascette ai polsi e in spregio della dignità della persona). Ben presto, però, abbiamo assistito a un cambio di direzione, dalla difesa all’attacco: non guardate a cosa abbiamo fatto noi, ma alla Corte Penale Internazionale, che “non è la bocca della verità” (frase utile a prepararsi all’accoglienza di altri criminali, magari provenienti dalla sponda est del Mediterraneo); inoltre, il mandato di arresto è stato emesso non a caso quando il generale era in Italia, che è come dire che egli è quasi una pedina incolpevole di un oscuro piano politico orchestrato, dalla Corte con qualcun altro, contro l’Italia e, soprattutto, contro il Governo italiano. Siamo noi le vittime, altro che quei pezzenti che infestano le carceri libiche da noi finanziate (e che vorrebbero infestare anche le nostre strade)! Ma è la “terza fase” della difesa/attacco a rendere evidente che l’affaire Almasri è divenuto una tappa del tentativo di modifica della forma di Stato in atto: qualunque cosa sia accaduta, qualunque sia il motivo per cui lo abbiamo liberato, qualunque sia la ragione per la quale lo abbiamo rimandato dove potrà continuare impunemente a torturare ed uccidere, lo abbiamo fatto per “ragion di Stato”. Il nostro, del Governo tutto (Presidente del Consiglio, Ministro della Giustizia, Ministro degli Interni, Ministro degli Esteri), è un “atto politico”, come tale insindacabile ed ingiustiziabile! È proprio in questo affondo (per ora) finale che si vede con evidenza quale sia l’idea di Stato sottesa e che si vuole costruire: la tripartizione classica dei poteri di Montesquieu (legislativo, esecutivo, giudiziario) deve avere dei “correttivi”; la preminenza deve sempre essere attribuita del potere esecutivo (ben più che primus, dovendosi negare agli altri due la qualifica di suoi pares); i suoi atti (politici per definizione) non possono essere sottoposti ad alcun vaglio da parte del potere giudiziario; il Governo è l’unico chiamato a fare il bene della nazione, a curarne gli interessi, e quindi non solo può ma deve collocarsi al di sopra delle regole, potendole violare quando questo sia imposto per fare, appunto, il bene della nazione. É proprio in questo senso che l’esecutivo è “necessariamente” sovrano rispetto agli altri due poteri: rispetto al legislativo, le cui leggi può violare; rispetto al giudiziario, che non può giudicarlo. La questione non è nuova: da sempre il potere esecutivo aspira a conquistare una piena libertà di manovra, al di là di quei lacci e lacciuoli che questo o quell’altro potere vorrebbe imporgli. Ma ha tentato di farlo quasi sempre (per carità, non sempre) in silenzio, non dandolo a vedere, utilizzando per quanto possibile gli strumenti che lo stesso quadro costituzionale gli concedeva (si veda l’abuso della decretazione di urgenza seguito dall’imposizione del voto di fiducia, a svuotare il ruolo del parlamento). L’affondo di questi ultimi tempi, che trova origine proprio nella reazione alle proteste per la liberazione del generale libico accusato dalla CPI (nel rispetto della presunzione di innocenza lo chiameremo ancora così), getta nel dimenticatoio non solo il costituzionalismo moderno e il riconoscimento della rule of law (potremmo dire, semplificando, della supremazia del diritto), ma decenni di giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Non è qui il luogo dove operare una ricostruzione giurisprudenziale, ma basti ricordare che la Corte Costituzionale, già nel 2012 ha affermato che «gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto», e che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nel 2023, ha riconosciuto che il giudice non è tenuto solo al rispetto della separazione dei poteri, ma è e resta sempre il garante della legalità, «e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l’esercizio dell’azione di governo». Limiti che oggi, al contrario, si ritiene che debbano poter essere – impunemente – superati quando il governo lo ritenga utile o necessario. Due segnali convergenti verso questo progetto complessivo di mutamento genetico dello Stato si possono conclusivamente richiamare: l’introduzione del premierato che, anche qui semplificando, vorrebbe sancire definitivamente la primazia del capo eletto (unto, si sarebbe detto qualche anno fa) dal popolo sul potere legislativo; la previsione, nel disegno di legge sicurezza attualmente in discussione in Senato, della figura dell’agente provocatore, di colui che non solo si infiltra nell’organizzazione criminale ma che la dirige, che le fa commettere dei reati, ma che, essendo un agente dell’esecutivo, non può essere giudicato. É, questa, una pericolosissima ragion di Stato impura, incostituzionale, oscena, profondamente eversiva. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 3, 2025 / Osservatorio Repressione
Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab”
C’è stato un tempo in cui il cinema neorealista proponeva un ribaltamento del senso comune muovendosi in una prospettiva di trasformazione sociale radicale. Oggi il neorealismo è sostituito dalle serie televisive di Netflix fondate sulla spettacolarizzazione del conflitto, sull’allineamento sistematico all’operato della polizia (acriticamente identificata con “i buoni”), sulla sollecitazione di maggior repressione. Ultimo il caso di Acab. di Vincenzo Scalia da Volere la Luna Alla fine degli anni Settanta, in Inghilterra, prese piede la teoria criminologica del left realism (realismo di sinistra), che muoveva dalla necessità di prendere sul serio la questione criminale, per non lasciarla nelle mani delle destre. I left realists, tra i cui maggiori esponenti ricordiamo Jock Young e Roger Matthews, proponevano uno schema quadrangolare di lettura dei fenomeni criminali. I vertici del quadrato sono costituiti dai rei, dalle vittime, dal pubblico e dalle agenzie di controllo sociale formali, ovvero la polizia, la magistratura e i servizi sociali, in quanto articolazione dei poteri statali. La lettura dei fenomeni criminali, per il realismo di sinistra, sarebbe la risultante dell’interazione di questi quattro fattori. Lo schema analitico del realismo di sinistra ci torna in mente in relazione alla produzione di serie tv che riguardano fatti di criminalità prodotti dalla piattaforma Netflix. Da Sanpa, su San Patrignano, ad ACAB, che propone in versione televisiva anche i fatti relativi alla protesta No-Tav, passando per Mare Fuori, sulla criminalità minorile, la piattaforma televisiva si accredita come un attore sproporzionatamente rilevante in merito alla lettura dei fatti criminali. Ne scaturiscono la formazione dell’opinione pubblica e una produzione di panico morale che ispirano molto spesso, specialmente negli ultimi anni, le politiche governative. In particolare, colpisce come Netflix si collochi sempre simmetricamente a chi evoca ed avoca l’implementazione di misure maggiormente repressive per risolvere questioni sociali stridenti. Partendo dalla buona fede di chi ha prodotto e realizzato le serie, non si possono non riscontrare i limiti insiti in ogni spettacolarizzazione dei fenomeni sociali, quantomeno di quelle prodotte in anni recenti. In altre parole, il canovaccio viene adeguato ai parametri richiesti dal format di successo, per cui bisogna proporre sempre la dicotomia tra figure positive e negative, con la vittoria ovvia dei primi, e la resa mediatica consiste nell’accentuazione caricaturale di queste caratteristiche. Con riferimento, in particolare ad ACAB e alla questione del Tav, le caratteristiche negative si attribuiscono ovviamente ai protestatari, un po’ affetti da fanatismo ideologico e un altro po’ composti da una popolazione anziana, nostalgica del passato, non criminalizzabile per questioni di anagrafe, ma sicuramente preda del fanatismo. Ai No-Tav viene reso l’onore delle armi all’interno di un’epica degli scontri che, oltre ad essere figlia del politicamente corretto odierno, marcia in parallelo con quell’estetica della violenza che fa la fortuna dei prodotti mediatici ispirati all’azione. Last but not least, la scelta di identificare i buoni tra le schiere delle forze dell’ordine, è figlia del vento che soffia dalla caduta del muro di Berlino in poi, per cui chi ricopre un ruolo istituzionale si colloca sempre dalla parte giusta. Un’impostazione che sorvola sugli abusi compiuti dalle forze di polizia, in particolare quelli sui dimostranti, come da Genova 2001 a Pisa nella scorsa primavera, abbiamo avuto modo di constatare. E che strizza pericolosamente l’occhio all’assunto della premier per cui “criticare i poliziotti è pericoloso”, tanto da ispirare il disegno di legge 1660, lo scudo penale per le forze dell’ordine, la modifica (cioè l’abolizione de facto) del reato di tortura. Le ragioni della protesta rimangono fuori, eppure avrebbero potuto interessare il pubblico. Dallo scempio del territorio alla distruzione di intere comunità, per non dire dello sperpero di ingenti quantitativi di risorse pubbliche, oltre all’inutilità dell’opera, asserita anche Oltralpe, argomenti con cui attirare l’attenzione del pubblico ce ne sarebbero stati molti. Altri importanti aspetti, come la criminalizzazione dei No Tav operata dalla magistratura torinese, l’uso discutibile degli arresti e delle carcerazioni preventive, le accuse di terrorismo, la carcerazione di una donna in età avanzata come Nicoletta Dosio, avrebbero meritato ben altra sorte dell’essere omessi o considerati implicitamente come normali conseguenze. Non è la prima volta, si diceva, che Netflix propone questo tipo di interventi sull’attualità. Basti pensare a Mare Fuori, dove i minori protagonisti cadono fatalmente nel loro destino lombrosiano di criminali, rifuggendo l’aiuto degli angeli istituzionali e le opportunità fornite all’interno della struttura detentiva. Una rappresentazione fuorviante del sistema penale minorile italiano, considerato uno dei migliori d’Europa, con l’utenza penale ridotta ai minimi termini e i detenuti prevalentemente di origine migrante o rom che scontano la loro marginalità sociale, oltre alla mancanza di risorse, agli squilibri territoriali in termini di servizi e all’habitus talvolta familista degli operatori del sistema minorile. Eppure, Mare Fuori, ha plasmato l’immaginario collettivo rispetto alla devianza minorile, producendo la proliferazione di articoli e discussioni sulle presunte baby gang culminate col decreto Caivano e con l’aumento esponenziale dei minori detenuti. Il rapporto tra le serie televisive e il pubblico ci permette di tornare allo schema proposto dai realisti di sinistra. Quando Young e Matthews proposero il loro schema interpretativo, in uno dei vertici del quadrato del crimine, ovvero, quello del pubblico, circolavano letture contrapposte dei fenomeni criminali. I filtri robusti delle organizzazioni di massa, della partecipazione diffusa, del confronto, che gravitavano attorno alle strutture della classe operaia, consentivano di proporre valutazioni ed elaborazioni più articolate dei fenomeni sociali, che avevano la loro ricaduta sia sull’operato degli apparati statali sia sulla capacità di analizzare i contesti all’interno dei quali i reati avevano luogo. Soprattutto, la prospettiva, condivisa da tutti, era quella dell’inclusione, del reinserimento. Fu proprio in questo contesto che cominciarono a svilupparsi le politiche di riduzione del danno. Quanto al pubblico, nel caso italiano, oltre alla stampa democratica e di sinistra, potevamo contare su un apparato di produzione mediatica di livello. Si pensi al neorealismo, a registi come Pasolini, Lizzani e Montaldo, ad attori come Gian Maria Volonté, a film come Sciuscià o a lavori documentali come quello sulla strage di piazza Fontana. Prodotti mediatici che proponevano un ribaltamento del senso comune, tentavano di egemonizzare il discorso pubblico, perché rispecchiavano una prospettiva di trasformazione sociale radicale. La ristrutturazione socio-economica neo-liberista, sfaldando le organizzazioni di massa, evaporando la prospettiva di un cambiamento, comporta la subordinazione delle opere di divulgazione alla necessità di attrarre audience per realizzare profitti. Ne consegue un detrimento della qualità dei prodotti e la circolazione di un senso comune securitario che tracima in una sfera politica sempre più orientata alla sopravvivenza spiccia. Davvero, ridateci il neorealismo. > A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 29, 2025 / Osservatorio Repressione
Non solo ferire. Le parole che fanno bene
Agitatevi, istruitevi, organizzatevi. di Marco Sommariva da Carmilla Ultimamente ho incassato un po’ di delusioni da diverse persone sulle quali contavo in modo particolare: tutta gente che frequento da almeno quarant’anni, si sappia. È stata la loro intelligenza a deludermi, le loro esternazioni a sorprendermi negativamente. E a parole che fanno male, ho pensato di porre rimedio con parole che fanno bene: è una vita che mi curo coi libri. Sono entrato in sala dove tengo esposti gli oltre cinquecento libri letti di cui ho preferito non liberarmi e, col magone, ho cercato lo spazio dedicato ai titoli di George Orwell: in qualche angolo del mio cervello c’era la certezza che un libro dello scrittore inglese potesse aiutarmi. Guardo La fattoria degli animali, ma il cervello non reagisce. Una boccata d’aria? Senza un soldo a Parigi e a Londra? Niente. Forse Omaggio alla Catalogna oppure 1984? Neppure. Nel ventre della balena? Zero assoluto. Possibile che quell’angolo del mio cervello abbia preso un tale abbaglio? Data l’età sì. E invece no che non l’ha preso! Eccolo lì il ricercato, stranamente fuori posto: La strada di Wigan Pier. Mi affretto a cercare in terza di copertina tutte le note che richiamano ogni mia sottolineatura di quando l’ho letto nell’aprile del 2005 – non è buona memoria: ho trovato la data in calce alle note –, e inizio a sfogliare il libro cercando le frasi sottolineate, l’urgente medicamento. “La cosa più terribile in [certa] gente […] è il modo con cui ripetono all’infinito sempre le stesse cose.” In effetti, ai personaggi che mi hanno ferito ho troppo spesso scusato il loro frequente ripetersi, mi spiaceva farglielo notare, ma il sopportare questa loro terribile caratteristica non mi ha giovato: quando il problema su cui avrei voluto confrontarmi era di una portata spaventosa, mi è stata detta la stessa banalità che avevo già sentito per il figlio del fruttivendolo sotto casa, che non ha mai mostrato troppa voglia di lavorare. Qualche pagina più avanti, con l’evidente intento d’infondermi coraggio, Orwell mi dice: “Per quanto abbia tentato, l’uomo non è ancora riuscito a spargere la sua sporcizia dappertutto. La terra è così vasta e ancora così vuota che perfino nel sudicio cuore della civiltà trovi campi dove l’erba è verde anzi che grigia; forse, a cercarli, si potrebbero perfino trovare fiumi e torrenti con dentro pesci vivi anzi che scatole di salmone.” Questa faccenda di non aver mai fatto notare ai miei interlocutori che si ripetevano, che le loro frasi sfilate dalla faretra della banalità non servivano a nulla, che erano comode solo ai piccoloborghesi per infilzare qualsiasi discorso, ferirlo, se non ucciderlo, potrebbe aver spiegazione nelle mie radici operaie: lo erano i miei nonni, lo era mio padre, lo son stato io per almeno una dozzina d’anni: “Questa faccenda […] di dover fare ogni cosa secondo il comodo altrui è implicita nella vita della classe operaia. Mille influenze costringono di continuo l’operaio in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l’azione altrui. Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è fermamente convinto che “quelli” non gli permetteranno mai di fare questo, quello, o quell’altro.” Mi domando se anch’io faccio parte di “quella gente [che] ha cessato di scalciare sotto le frustate.” Fa bene Orwell a farmelo notare. Che poi, ripensandoci bene, una delle persone che mi ha deluso è un dirigente abituato a sviscerare complessità enormi che spesso “l’uomo comune” ha difficoltà persino a immaginare, a sbrogliare matasse relazionali sviscerando ogni minimo dettaglio; sia chiaro, non per il gusto del vivere pacifico, ma perché ogni risorsa coinvolta in qualsivoglia bega possa rendere al massimo in quella famosissima ditta per cui lavora. Ma anche qui sbagliavo: “…lo sviluppo postbellico di generi voluttuari a buon mercato è stato una fortuna per i nostri governanti. È molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze di seta, salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici […] il cinematografo, la radio, il tè forte e i Football Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è un’astuta manovra della classe dirigente – una specie di “pane e circensi” – per tenere a bada i disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza. La cosa è avvenuta, ma attraverso un processo inconscio: l’interazione affatto naturale tra la necessità da parte dell’industriale di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata, di palliativi a basso costo.” Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza, e io l’avevo vista la poca elasticità di questa stirpe, ma avevo dimenticato, o meglio, ritenevo che qualcuno si potesse salvare da questo egocentrismo che riesce a convincerli d’essere in grado di chiudere a loro favore ogni querelle, disputa, perché alla fine di questo si trattava: io esprimevo un pensiero rispettando il suo, lui esprimeva il suo ritenendo il mio quello di un idiota. Era un pensiero per nulla profondo, il mio, lo ammetto; mi ero limitato a dire che invidiavo agli stranieri la loro capacità di aprire un’attività in Italia mentre io, che non ho il problema della lingua, non saprei neppure da che parte iniziare, tutto qui. Bene, dall’altra parte mi sentivo ripetere che sbagliavo. In cosa? Sbagliavo a invidiarli, STOP!, senza alcuna spiegazione del perché ero nell’errore. Detto che la mia era invidia “buona” e che al mio contraltare nulla importava dei sette peccati capitali che lo impregnano da una vita per minimo quattro settimi del totale, mi chiedevo – visto lo stato in cui ero: dignitosamente disperato – non mi fai neppure un piccolo sconto? Perché mi aspettavo uno sconto? Perché nelle case dove sono cresciuto s’è sempre respirato un’atmosfera profondamente umana: “In una casa della classe operaia – non penso per il momento a case di operai disoccupati, ma ad altre relativamente prospere – si respira un’atmosfera calda, onesta, profondamente umana, che non è molto facile trovare altrove.” Case dove ho imparato molto, dove s’impara molto: “…so che si può imparare molto in una casa operaia, sol che vi si possa andare a vivere. Il punto essenziale è che i vostri ideali e pregiudizi borghesi sono messi alla prova dal contatto con altri ideali e pregiudizi che non sono necessariamente migliori, ma sono certo diversi.” Case in cui non si va tanto per il sottile, dove si dice pane al pane e vino al vino, dove regna la schiettezza: “Un’altra caratteristica operaia, sconcertante in un primo momento, è la schiettezza nei riguardi di chiunque l’operaio ritenga suo pari. Se offrite a un operaio qualcosa che egli non vuole, vi dirà che non la vuole; una persona del ceto medio l’accetterà evitando così di offendervi.” Forse sarà stata la mia schiettezza a infastidire, chissà. Di certo qualcuno era infastidito: io. E lo ero per via della pena capitale che avrebbe volentieri inflitto chi stava dall’altra parte del telefono, al ragazzo su cui si stava disquisendo, un giovane che, in fondo, aveva soltanto ripetuto più volte d’avere in testa un unico progetto di vita pressoché impossibile da realizzare, denunciando così tutto il proprio grande disagio e che questo – il Grande Disagio – andava analizzato, null’altro: “La maggioranza della gente approva la punizione capitale, ma quella stessa maggioranza non vorrebbe fare il lavoro del boia. E ancora… Non ho mai messo piede in una prigione senza sentire […] che il mio posto era dall’altra parte delle sbarre. […] il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca.” Ma quanti passaggi interessanti ci sono in questo libro?! Le delusioni a cui sto facendo riferimento, le ho incassate sia parlando al telefono sia vis à vis e anche nei silenzi che dialogando faccia a faccia, spesso, dicono più di tante parole: “…sfortunatamente non mi ero allenato ad essere indifferente all’espressione della faccia umana.” Nonostante tutto, a parte l’impatto iniziale di questi scontri imprevisti, ne sono uscito certamente più forte: “È solo quando s’incontra qualcuno di cultura ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire quali siano realmente le nostre opinioni.” Eppure, me lo ricordo bene quel dirigente quand’era ragazzo, verso la fine degli anni Settanta, quando girava con in testa la cresta colorata dei punk dell’epoca: “…si può osservare […] il triste fenomeno del borghese che è un ardente socialista a venticinque anni e un conservatore tutto sussiego a trentacinque.” Se non vi ho ancora annoiato, termino con l’ultima grande delusione: una persona che raccoglie per anni le mie confidenze e un giorno scopro non aver tenuto per sé nulla, ogni mia personalissima parola l’aveva data in pasto ad altri. Motivo? “Perché così potrai riappacificarti con un po’ di persone.” Ma uno potrà ancora avere almeno la libertà di decidere da sé quando, come e con chi riappacificarsi? Purtroppo, pare non essere così, c’è sempre qualcuno che si erge genitore benché tu abbia ormai tutti i capelli grigi, e ti indichi la retta via. Questa persona credente cattolica, fottendosene ampiamente del segreto previsto dal sacramento della (mia) confessione, mi ha gettato al vento un mondo intero, perlomeno una dimensione di questo: “Come avviene per la religione cristiana, la peggior pubblicità al socialismo è rappresentata dai suoi fautori”, sempre il buon George. Niente. Non mi resta altro da fare che ammettere tutta la mia imbecillità: a cosa serve leggere, rileggere, sottolineare Orwell se poi penso ad altro e abbasso la guardia? Appena l’ho abbassata, subito mi hanno fiocinato come un polpo, anzi, di più, mi hanno battuto come un polpo, legato, incaprettato e trascinato per lo scalpo. Consegnata ai posteri la mia ammissione d’imbecillità, mi viene in mente che una cosa ha accomunato tutte queste delusioni: gl’interlocutori m’interrompevano continuamente. Mi si voleva silenziare, in pratica. Insomma, era stato messo in opera un genocidio nei miei confronti: “…c’è una differenza sostanziale fra genocidio e tortura. Il genocidio cerca di mettere a tacere, mentre la tortura è l’antidoto contro il silenzio.” Questo non è più Orwell, è John Biguenet e il suo libro s’intitola Elogio del silenzio, un saggio da non perdere: “…un mondo in cui il destino, anzi Dio stesso si son fatti famosi anzitutto perché ci fronteggiano col silenzio.” È in questo libro che ho realizzato una conclusione tanto scontata quanto sfuggente: chi t’interrompe manifesta la sua superiorità: “…mentre cercavo di perfezionarmi nel mestiere di professore, lessi un articolo sulla tendenza degli insegnanti, sia uomini che donne, a interrompere le studentesse – ma non gli studenti – mentre rispondono alle domande. […] Viviamo in un mondo in cui le donne vengono spesso messe a tacere, a volte anche in modo violento. Ma l’umiliante affronto di zittire le donne con nonchalance è un’esperienza talmente radicata nella nostra quotidianità che questo piccolo esempio di imposizione del silenzio su un altro essere umano – la brusca interruzione […] dell’insegnante – in realtà può aiutare, anche meglio di casi più eclatanti, a chiarire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento dell’attuale distribuzione del potere nella società.” Il tentativo di zittirmi va avanti ormai da una vita. Mi contestano i credenti perché non credo e mi contestano i non credenti perché non sto neppure dalla loro parte, e allora mi consolo con Non ho risposte semplici, un volume che raccoglie una ventina tra interviste e conversazioni con Stanley Kubrick, che delineano il suo genio: “Nella galassia ci sono cento miliardi di stelle e nell’universo visibile ci sono cento miliardi di galassie. Ogni stella è un sole, come il nostro, probabilmente con pianeti che lo circondano. […] Pensi al tipo di vita che potrebbe essersi evoluta su quei pianeti nel corso di millenni, e pensi anche a quali passi da gigante ha fatto la tecnologia dell’uomo sulla terra nei seimila anni in cui è documentata la sua civiltà, un periodo che è più piccolo di un granello di sabbia nella clessidra cosmica. […] Quelle intelligenze cosmiche […] potrebbero essere in comunicazione telepatica simultanea attraverso tutto l’universo; potrebbero aver ottenuto la padronanza completa sulla materia, e quindi potrebbero essere in grado di trasportarsi telecineticamente in modo istantaneo a miliardi di anni luce di distanza; nella loro forma definitiva, potrebbero essersi liberati completamente del guscio del corpo ed esistere in quanto coscienze incorporee e immortali in tutto l’universo. […] tutti gli attributi essenziali di quelle intelligenze extraterrestri sono gli attributi che noi conferiamo a Dio. E se quegli esseri di pura intelligenza dovessero mai intervenire negli affari dell’uomo, i loro poteri sarebbero talmente lontani dalla nostra possibilità di capirli che potremmo giustificarli solo in termini divini o magici.” Mi contesta chi vota perché non voto e mi contesta chi non vota perché non scrivo ciò che lo aggrada: “Un aspetto doloroso della crescita intellettuale e artistica è che implica soprattutto il superamento degli altri: man mano, ci sono sempre meno persone con cui condividere le proprie idee, persone che capiscono, senza semplificare troppo, quello che uno sta cercando di comunicare.” Ancora Stanley Kubrick in Non ho risposte semplici. Visto che non mi è nuovo questo potere che interrompe, silenzia, irrompe e violenta, da molto tempo mi auto silenzio verso coloro che tanto tengono alla mia bocca chiusa, così da restituire loro un po’ di dolore. E pare che Biguenet abbia nuovamente qualcosa da dire al riguardo: “L’impiego del silenzio […] spesso attraverso il semplice rifiuto di rivolgersi al soggetto, viene largamente utilizzato sia dai governi sia dai singoli individui. Per esempio, il rifiuto dei terroristi di proclamare la propria responsabilità dopo un bombardamento o dopo altre forme di omicidio di massa cerca di amplificare la paura causata dal violento attacco attraverso un silenzio implacabile. Così facendo, si prolunga la paura almeno finché il mistero sui responsabili rimane irrisolto.” Non mi spiace affatto l’idea che alle tante delusioni causatemi da ‘sti signori corrisponda loro un po’ di paura, fosse solo che per rivolgermi la parola; certo è che dall’altra parte della barricata sono sempre più numerosi i nemici, ma non mi scoraggio perché se erano numerosi i consigli de La strada di Wigan Pier che avevo dimenticato, un passaggio di un altro romanzo di Orwell – 1984 – lo ricordo bene: “l’essere in minoranza, anche l’esser rimasto addirittura solo, non vuol dire affatto esser pazzo.” Ma anche, come diceva Camillo Berneri, “Non ci posso niente, in questo mio trovarmi d’accordo con quasi nessuno.” La solitudine è scomoda? La posizione scomoda è da sempre una garanzia di sapere come stanno veramente le cose. Sapere come stanno veramente le cose non fa star tranquilli? Bene. Come diceva Errico Malatesta, “Non ho bisogno di stare tranquillo.” Permettetemi un consiglio: agitatevi. Anzi, istruitevi agitatevi organizzatevi. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 28, 2025 / Osservatorio Repressione
Fare memoria: è la creazione del nemico che genera i mostri
La follia si ripete. Nelle società contemporanee si è di nuovo alla ricerca del nemico come condizione per l’affermazione ideologica del potere e si persegue alacremente l’odio verso l’altro (il non identico a sé, il diverso, l’antagonista, l’oppositore, il non integrabile). Così, con un insopprimibile ghigno, si ricomincia a parlare di deportazione e di campi di concentramento, di muri e di filo spinato. di Franco Di Giorgi da Volere la Luna «Normalmente – osserva Erika Mann nel suo saggio del 1938, La scuola dei barbari. L’educazione della gioventù nel Terzo Reich – il termine “brutalità”, al pari di altri (come, ad esempio, “barbarico”), esprime un senso negativo. Ma quando viene inteso come una qualità della Hitlerjugend o della Gioventù di Stato in generale, cioè come “un dato che è auspicabile avere e mettere in pratica”, allora acquista un senso positivo. Riempiti dall’odio, “alimentato e coltivato con cura, sistematicamente e conseguentemente, […] fomentato con ogni mezzo a disposizione”, i giovani nazisti dovranno mettere in pratica quella crudeltà contro un nemico qualsiasi, anche se di fatto esso ora non c’è, e che, in certe situazioni che si tratta di agevolare, un giorno ci sarà. E ci sarà quando Hitler e la Germania daranno inizio al loro Kampf, alla loro guerra per la conquista del mondo: “Perché oggi è nostra la Germania” – suonano i versi di una canzonetta che i bimbi tedeschi cantavano marciando –, “e domani il mondo intero”. Nell’attesa di questa guerra mondiale, essi possono intanto esercitarsi e mettere alla prova la loro crudeltà creandosi opportunamente un nemico interno, nella stessa patria, nella società (ebrei, pacifisti, socialisti), nelle istituzioni (politici, insegnanti, religiosi), nella stessa famiglia (genitori e parenti contrari alla pedagogia nazionalsocialista, la quale sotto certi aspetti sembra paradossalmente rifarsi alla Repubblica e alle Leggi di Platone). Ben lungi però dal prepararsi culturalmente, con l’invenzione di un nemico interno essi debbono invece cominciare a prepararsi sia a una “lotta difensiva” sia a una guerra preventiva. Infatti, osserva ancora la Mann, privati di questo nemico inventato, “nazisti e gioventù nazista non potrebbero più vivere”. Ecco dunque un altro chiaro esempio di necessaria priorità del negativo». Abbiamo voluto riprendere questa pagina di un nostro recente lavoro, in cui riflettevamo intorno alla Shoah a partire da Primo Levi, perché sembra che nelle società contemporanee ci si sia messi di nuovo alacremente alla ricerca del nemico come condizione imprescindibile per l’affermazione ideologica del potere. In queste società infatti si registra non solo il rovesciamento e lo stravolgimento ideologico dei significati o dei valori eticamente consolidati (con il conseguente smantellamento della cultura o della memoria che li conteneva), ma anche la radicale alterazione del valore della politica intesa come arte di occuparsi della città e dei cittadini; in esse si persegue sia l’odio verso l’altro (il non identico a sé, il diverso, l’antagonista, l’oppositore, il non integrabile) sia la necessaria creazione di un nemico, di fatto inesistente, che però risulta propedeutica alla formazione di una generazione consenziente, risulta cioè essere preparatoria a un eventuale confronto con l’altro, con un nemico reale; e tutto ciò come unica ragione di vita per giovani a cui, in un’esistenza senza prospettive, si offre ancora una volta come modello culturale e formativo la messa a rischio della propria vita. Questa logica idealistica della necessità del negativo conduce alla storica e culturale necessità del nemico, dell’altro da me, il quale diventa dialetticamente necessario per l’affermazione dell’io e della sua identità. Ma non ci può essere né affermazione dell’io né emancipazione dell’altro negato e assoggettato senza l’altrettanto necessario rischio di morte. Per quel genere di logica infatti questo rischio serve sia per l’affermazione formativa dell’io sia per l’affermazione emancipativa dell’altro. Secondo tale logica pertanto il confronto con la morte risulta imprescindibile per le due opposte autocoscienze, sia per colui che è diventato il Signore solo perché ha sottomesso l’altro, sia per quest’altro, il quale, ottenendo salva la vita, è diventato il Servo del primo. Questo rapporto dialettico che Hegel aveva scorto all’inizio della storia e della civiltà umana – e su cui tra l’altro hanno riflettuto a fondo anche Edgar Morin e Zygmunt Bauman – ben lungi dall’essere stato superato, si è invece sempre più consolidato ed evidenziato nel corso del tempo, con tutte le sue tremende conseguenze – fra le quali, come si è visto, rientra anche la pedagogia nazifascista, la pedagogia nera della “bella morte”, formativa per tutti quei giovani che diventeranno anche SS. Proprio in virtù di questa logica e di questa sua conseguente pedagogia, che affonda le sue radici nella ricerca ossessiva di un nemico e del rischio della bella morte, grazie a questo tipo di educazione, dalla quale i nostri tempi continuano incredibilmente a trarre ispirazione, sia dunque in passato che nel nostro presente si potrebbe dire, riprendendo Bauman che riflette sull’etica di Lévinas, «la vita si emancipa da ogni responsabilità». Ora, come non vedere con quale velocità nel nostro tempo ci si affretti e ci si adoperi per ottenere una tale “emancipazione”? Tutti, Signori, Servi e Servette, per un motivo o per l’altro, approfittando della favorevole congiuntura, del passaggio inatteso di una “buona stella” o del “grande carro” nel cielo stellato sulla loro testa, cioè fuori di loro, tutti insieme cercano prima che possono, prima che sia troppo tardi, di emanciparsi da ogni responsabilità, vale a dire sostanzialmente di mettersi al riparo per i disastri che hanno già compiuto e per quelli che si apprestano a compiere. A tal proposito, faceva osservare Levi in una pagina de L’altrui mestiere, non tutti hanno quella legge morale kantiana dentro di loro. Anzi, scrive appunto in Notizie dal cielo: «Ogni anno che passa – [siamo nel 1985, a quattro anni dalla demolizione del muro di Berlino] – accresce i nostri dubbi; davanti alla necrosi politica che affligge il nostro Paese, e non solo il nostro; davanti alla corsa insensata verso il riarmo nucleare, non si sfugge al sospetto che sulla legge morale prevalga un principio perverso, per cui acquista potere chi di questa legge, che sentiamo unica in ogni tempo e luogo, cemento di tutte le civiltà, non sa che farsene, non ne percepisce il pungolo, è senza e sta bene senza». Abbiamo voluto evidenziare alcune parole di questo sorprendente e lungimirante passo del testimone torinese per far notare che quel “principio perverso” era a fondamento dell’indimenticabile “mondo alla rovescia”, mondo di un recente passato che, come irresponsabili amenti, uomini e donne del nostro tempo, a soli ottant’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz, tentano ancora oggi in tutti i modi di riproporre anche nel nostro mondo attuale e forse anche per il futuro, per le nuove generazioni. E Auschwitz, ammoniva a sua volta Ka-Tzetnik (un altro deportato in quel Lager nazista), «Auschwitz non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui» (La fenice venuta dal Lager). Che amarezza vivere in un mondo in cui con un insopprimibile ghigno si ricomincia a parlare di deportazione e di campi di concentramento, di muri e di filo spinato, di annessione e persino di remigrazione! A cosa possono servire grandi organismi internazionali come l’Onu, la Nato, l’Unione Europea e i Tribunali internazionali istituiti dopo la seconda guerra mondiale – guerra che i russi e gli anglo-americani hanno vinto contro il nazifascismo – se da essi non si è levata neppure una sola voce, almeno per redarguire quel genio naturalizzato statunitense che con il suo folle gesto, con quel suo saluto romano dimostra apertamente di non volere riconoscere quelle istituzioni? A che cosa serve tutto il progresso del mondo se si realizza come regresso? Il nostro è uno strano tempo in cui gli Alleati americani, vittoriosi sul nemico nazifascista, in virtù della loro nuova scelta nazional-protezionista, cercano incomprensibilmente con gesti plateali e premeditati di allearsi con esso, cioè con il vecchio nazionalismo razziale tedesco, il quale, a causa di una nuova e profonda crisi economica, si sta di nuovo minacciosamente risvegliando. È il tempo astorico e amente in cui, a causa della ricerca folle del massimo potere e del massimo guadagno, vengono meno le differenze amico/nemico, vittima/carnefice che erano finora a fondamento dell’etica e della politica. È il tempo in cui, venuta meno la differenza con il nemico, ci si mette alla ricerca di nuovi e necessari nemici per legittimare la riaffermazione di quel vecchio potere, di quell’ancien régime che non ha ancora estinto la sua atavica sete di assoluto, di dominio imperialistico. Tutto si ripete di nuovo come se la tanto decantata astuzia hegeliana della ragione si fosse gradualmente trasmutata in quella che in Moby Dick Ismaele definisce astuzia della demenza. Nel romanzo di Melville Ismaele è l’unico scampato al naufragio contro il Leviatano acronologico, ma nel racconto biblico (a cui in quel romanzo continuamente ci si richiama) il giovane Ismaele verrà abbandonato, assieme alla madre Agar, dal padre Abramo nel deserto del Negev, oggi confinante con l’Egitto e con l’attuale striscia di Gaza. Ma – potremmo chiederci in conclusione ancora con lo scrittore newyorkese – dove ci porterà mai questa nuova avventura dello spirito, dove ci condurrà questa nuova circumnavigazione, se non, «attraverso pericoli innumerevoli, al punto esatto da dove eravamo partiti»? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 28, 2025 / Osservatorio Repressione
Lo stato odierno, in Italia, della libertà di dissenso
Tra le accuse della Procura di Torino a persone del centro sociale Askatasuna del movimento No Tav c’è un non senso: l’associazione a delinquere «finalizzata» a commettere la resistenza. Richiesti quasi 7 milioni di euro di risarcimento. È contro queste forme di protesta che il governo Meloni con il ddl Sicurezza si è accanito, associando le lotte sociali al terrorismo di Luigi Ferrajoli da il manifesto Ha senso supporre che un gruppo persone decida di dar vita a un’associazione a delinquere finalizzata a compiere atti di resistenza a pubblici ufficiali? È l’accusa singolare, ovviamente in aggiunta alle imputazioni di violenza e resistenza, della Procura di Torino rivolta ad alcune persone del centro sociale Askatasuna impegnate da anni nel movimento No Tav. Sarebbe accaduto, secondo la pubblica accusa, che queste persone, «in Torino e altrove dal 2009» in poi, si sarebbero associate «allo scopo» non già di esprimere le loro proteste, bensì di opporre resistenza ai pubblici ufficiali che quelle espressioni di dissenso avessero ostacolato. Di qui l’ulteriore imputazione, contro la logica e il buon senso, di associazione a delinquere. A QUESTE ACCUSE l’Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell’interno e del Ministero della difesa, ha aggiunto una spaventosa richiesta di risarcimento dei danni, quantificati in molti milioni di euro: 3.595.047 euro a titolo di danno patrimoniale in favore del Ministero dell’interno per il «costo dell’attività investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie ed indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato»; altri 3.208.230 euro a titolo di danno non patrimoniale, in favore del Ministero dell’interno, del Ministero della difesa e della Presidenza del consiglio per il danno alla loro «immagine» e precisamente al loro «prestigio» e alla loro «credibilità». È lecito domandarsi, di fronte a questa furia persecutoria, quale altro senso, se non la volontà di infierire sugli imputati, abbia l’aggiunta, alle accuse di violenza e resistenza a pubblici ufficiali, di queste incredibili richieste. L’associazione a delinquere «finalizzata» a commettere la resistenza è semplicemente un non senso. Il danno patrimoniale consistente nel costo delle indagini è un’assoluta novità, dato che dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato. Quanto al danno d’immagine alla Pubblica amministrazione lamentato dall’Avvocatura, non si capisce in che cosa consista. Semmai un danno penoso d’immagine proviene proprio da questa assurda richiesta risarcitoria. PURTROPPO QUESTA vicenda ci dice che la libertà di riunione in Italia non ha mai conosciuto, in ottanta anni dalla Liberazione, un momento altrettanto buio. È precisamente contro le manifestazioni pubbliche del dissenso che questo governo si è maggiormente accanito con il disegno di legge S.1236, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato: dal blocco stradale punito, se commesso da più persone, con la reclusione da sei mesi a due anni, all’aggravante dei reati di violenza e resistenza se commessi «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica» come il Tav o il ponte sullo Stretto; dalle norme sulle rivolte negli istituti penitenziari che qualificano come «atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva» fino all’aumento delle pene per i reati di resistenza o lesioni in danno di agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni. È triste che taluni magistrati partecipino, con successo, a questa gara con il governo nell’aggressione alle libertà fondamentali. I magistrati, quando procedono per violenza o resistenza nel corso di pubbliche manifestazioni, non dovrebbero mai dimenticare che questi reati sono stati commessi simultaneamente all’esercizio dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. Queste manifestazioni di piazza, infatti, consistono nell’esercizio non solo della libertà di riunione ma anche della libertà di manifestazione del pensiero. Giacché la riunione e la pubblica manifestazione sono il solo medium di cui dispongono i comuni cittadini – che non pubblicano libri, non vanno in televisione e non scrivono sui giornali – per esprimere il loro pensiero e il loro dissenso. STA INVECE ACCADENDO un fenomeno di gravissima irresponsabilità civile e politica. Giornalisti e perfino esponenti delle istituzioni hanno associato queste manifestazioni di protesta all’eversione e al terrorismo. Hanno confuso le lotte sociali con la lotta armata, l’impegno collettivo e le battaglie civili in difesa dei più deboli con la sovversione, la cittadinanza attiva con la violenza arbitraria. Stanno costruendo nemici, identificandoli con i dissenzienti. Come avviene in tutti i regimi autoritari. È un capovolgimento della realtà. Contro il quale non dobbiamo stancarci di ripetere che le formazioni sociali e le manifestazioni del dissenso devono sempre essere considerate un valore, soprattutto da parte di chi, magistrato o poliziotto, è chiamato ad applicare il diritto e a difendere i diritti dei cittadini costituzionalmente stabiliti. Per questo la contestazione dei reati di violenza e resistenza commessi in occasione di manifestazioni di piazza dovrebbe sempre essere accompagnata da una specifica circostanza attenuante – l’aver agito, dice il codice penale, per un motivo «di particolare valore morale» quale è appunto la manifestazione del dissenso – e dalla valutazione della sua prevalenza sulle circostanze aggravanti. Almeno se ancora si ritiene che i principi costituzionali abbiano maggior valore del codice fascista Rocco. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 28, 2025 / Osservatorio Repressione