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Nulla da perdere all’infuori delle catene
Osservatorio Repressione - Monday, February 17, 2025L’Italia resta una dura Terra Promessa dove un’umanità umiliata, sfinita dal lavoro, è sempre sfruttata e mal pagata
di Marco Sommariva*
Giorni fa, ho letto sul quotidiano Avvenire un interessante articolo intitolato In Sicilia. I disperati delle arance: 30 euro al giorno per 15 ore di lavoro.
Il giornalista che firma il pezzo, Alessandro Rapisarda, ci racconta di un terreno del comune di Paternò, nel Catanese, dov’è forte la presenza di tende e baracche, tra la maestosità dell’Etna e gli agrumeti della Valle del Simeto.
Rapisarda è andato di persona a verificare il perché di questo accampamento e ha scoperto d’essere arrivato a destinazione, quando ha visto su un’inferriata “indumenti e scarpe lasciati ad asciugare”; poi, dopo aver mosso pochi passi, “tra ruderi e spazzatura […] ecco il campo trasformato in ritrovo e rifugio di decine di immigrati”.
Sono uomini e donne che hanno attraversato il Nord Africa e hanno poi seguito la rotta dei Balcani per entrare in Italia: sei mesi in viaggio a piedi o con mezzi di fortuna.
«Sono soprattutto tunisini e marocchini, dai venti ai trent’anni, vivono qui senza luce e senz’acqua», spiegano i volontari della Caritas al giornalista.
I rifugiati raccontano a Rapisarda una realtà di sfruttamento, una feroce competizione tra disperati: sono la forza lavoro indispensabile per la raccolta di agrumi che verranno poi distribuiti sui mercati del Nord Italia e di buona parte dell’Europa.
È un lavoro che li occupa anche quindici ore al giorno per raccogliere arance a novanta centesimi a cassa, così da raggranellare a fine giornata circa trenta euro.
Le persone incontrate dal giornalista hanno gli infradito ai piedi nonostante il freddo e denunciano di non trovare un posto dove abitare perché, a Paternò, non affittano agli stranieri, oltre a raccontare che si son sentiti chiedere anche un euro l’ora, per attaccare alla presa di un bar il proprio cellulare – la cosa più preziosa che posseggono.
In quello stesso campo, quasi un anno fa un giovane di ventiquattro anni è stato ucciso durante una lite mentre, qualche mese dopo, una rissa ha provocato il ferimento di un ragazzo. «Siamo tutti qui per sopravvivere. Quando hai fame e non trovi lavoro, è facile che nascano problemi, ma desideriamo solo una vita migliore».
Non so a voi ma, a leggere tutto questo, a me è tornato in mente Furore, il famoso romanzo di John Steinbeck: pubblicato nel 1939 è divenuto il romanzo simbolo della Grande Depressione americana, la grave crisi economica e finanziaria che colpì gli Stati Uniti tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta. Il giorno in cui Franklin Delano Roosevelt si insediò alla presidenza, il 4 marzo 1933, si trovò di fronte una crisi disastrosa. Quella mattina le banche di Chicago e di New York, i centri gemelli del capitalismo americano, chiusero i battenti, seguendo l’esempio dato il mese prima da tutte le altre banche del paese – il sistema bancario era completamente crollato sotto il peso del ritiro dei depositi da parte dei clienti presi dal panico.
I disoccupati arrivarono a essere fra i dodici e i quindici milioni, un quarto dei lavoratori di tutti gli U.S.A.
Nella penosa marcia della famiglia Joad che si racconta in Furore, un’odissea verso gli aranceti della California vissuta da migliaia e migliaia di americani, è ripercorsa la storia delle grandi, disperate migrazioni – non ha importanza se interne o esterne –, verso lo sfruttamento, la miseria, la fame: un quadro potente e amaro di una dura Terra Promessa dove la manodopera è sempre sfruttata e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria miseria come un marchio d’infamia.
Mi domando se i caporali che ogni mattina reclutano parte di questi disperati e anche chi, gerarchicamente parlando, sta sopra a questi caporali, abbiano mai letto Furore. Consiglierei loro vivamente di farlo. Ma sapendo che la pratica assidua e quotidiana di soprusi e violenze li sfianca e a fine giornata sono talmente stanchi da non avere neppure la forza di aprire un libro, suggerisco io una mezza dozzina di passaggi che ho estratto apposta per loro, su cui li invito a ragionare un poco:
“[…] la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello”.
“[…] gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nel cuore degli umili maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia”.
“Si diventa cattivi, a sentirsi inseguiti”.
“È la miseria che fa diventar cattivi”.
“Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore”.
“Ci son tante cose contro la legge, che però bisogna fare lo stesso”.
Ci sarebbero altri libri di Steinbeck sull’argomento, che consiglierei un po’ a tutti di leggere: uno è il romanzo La battaglia, dove si narra la storia di uno sciopero di braccianti, del suo fallimento e di uomini che trasformano la propria disperazione in lotta per il riconoscimento dei propri diritti fondamentali; l’altro è intitolato I nomadi, ed è una raccolta di articoli: nel 1936, nel pieno della Grande Depressione, il San Francisco News commissiona a John Steinbeck una serie di articoli sulla condizione dei braccianti agricoli immigrati in California. Sono americani del Midwest, colpiti dalla crisi e costretti a fuggire dalle tempeste di sabbia della Dust Bowl. Steinbeck sale su un furgone da panettiere e inizia il suo viaggio fra le vallate della California, dove s’imbatte in un’umanità sfinita dal lavoro, umiliata, in un popolo di senza terra, schiacciato dall’economia e dalla natura infuriata. Incontra famiglie, un tempo orgogliose, scivolate nella povertà e in un’apatia senza ritorno.
Per i “signori” caporali e a chi sta loro sopra, torno a permettermi di segnalare una mezza dozzina di passaggi del primo, mentre agli indigeni e a chi li governa segnalo un unico passaggio del secondo.
Inizio con La battaglia:
“Qualcuno ha da schiattare se si vuole che la massa esca una buona volta da questo scannatoio”.
“Talvolta quando la gente non ne può più, è allora che si batte meglio”.
“Nulla da perdere all’infuori delle catene”.
“[…] odiamo il capitale investito che ci tiene schiavi”.
“Si è un po’ stufi di uno che ha sempre ragione”.
“[…] un uomo affamato non è tenuto alle regole”.
Termino con I nomadi:
“Se […] la nostra agricoltura richiede che sia creata e mantenuta a ogni costo una classe di bassa manovalanza, allora si dà per scontato che l’agricoltura californiana non sia economicamente sostenibile in un regime democratico. E se per garantirci la sicurezza economica sono necessari la violenza e l’annientamento dei diritti umani, le fustigazioni, gli omicidi commessi dagli agenti, i rapimenti e il rifiuto di tenere processi davanti a una giuria, si dà anche per scontato il rapido declino della democrazia in California”.
Basterà sostituire Italia e italiani a California e californiani per capire come, a distanza di quasi novant’anni, non sia cambiato pressoché nulla, se non il teatro della vicenda.
Sono secoli che la letteratura ci avvisa, allerta sulle tragedie che egoismo e avidità possono generare, e anche se non c’è verso di vedere l’Uomo fare un passo indietro, io continuerò a leggere comunque. Fosse anche solo per avere materiale con cui scrivere articoli come questo.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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