Il 20 aprile in Iran ennesima esecuzione di un prigioniero politico curdo
di Gianni Sartori
Soltanto qualche giorno fa, il 18 aprile, alcune Ong avevano diffuso la notizia
che due giorni prima il prigioniero politico curdo Hamid Hossein Nejad
Heydaranlu (40 anni, padre di tre figli), detenuto nel carcere di Urmia e già
condannato a morte, era stato messo in isolamento nel braccio della morte.
Segno che l’esecuzione ormai era imminente.
Dopo una prima condanna risalente al luglio 2024 (dalla Sezione 1 del Tribunale
rivoluzionario di Urmia, presieduta dal giudice Najafzadeh), la pena di morte
era stata riconfermata alla fine di marzo dalla Sezione 9 della Corte Suprema.
Arrestato nei pressi di Chaldoran nell’aprile 2023 (dalle guardie di frontiera
che nel 2015 avevano ucciso suo cognato, Mostafa Nouri), Hosseinnezhad veniva
condannato per “baghi” (ribellione armata contro l’Imam e l’autorità islamica).
Accusato senza prove (o con prove false, stando a quanto sostiene l l’Ong
Kurdpa) di aver fatto parte di un partito dell’opposizione.
Per quasi un anno era stato sottoposto a maltrattamenti e torture e fine
costretto a firmare una confessione prestampata. Gli erano state concesse solo
due brevi telefonate con la famiglia, mentre gli venivano negati sia un avvocato
di sua scelta che le visite dei familiari.
A causa dell’episodio in cui aveva perso la vita suo cognato (ucciso dalle
guardie di frontiera), è stato accusato di ”coinvolgimento in uno scontro
armato”. Stando a quanto ha dichiarato in tribunale, il giudice Najafzadeh lo
avrebbe condannato “in base al proprio intuito” (?!?). E questo nonostante nuovi
documenti dimostrassero la sua innocenza. Ma con il trasferimento nel braccio
della morte non era stato più possibile presentarli.
Oggi la brutale notizia: Hamid Hossein Nejad Heydaranlu, è stato ucciso in
segreto domenica 20 aprile nel carcere dove era rinchiuso. Poco prima che
venisse messo in isolamento, i familiari – allertati dall’ultima, brevissima,
sua telefonata – avevano manifestato con un sit-in. Invano.
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Tag - Accadde oggi
La battaglia di Wood Green il 23 aprile 1977 fu una delle prime volte in cui i
nazisti si trovarono a scontrarsi con gli antifascisti.
“Il Fronte Nazionale non è mai stato così gravemente scosso come nella marcia di
sabato a nord di Londra.”
Circa 3.000 antifascisti hanno affrontato circa 1.200 manifestanti del National
Front. Questa contro-manifestazione non è nata dal nulla.
In vista di ciò, gli antifa della zona si sono organizzati. Hanno distribuito
volantini, testato razzi di fumo rosso sulle paludi del Tottenham e hanno
visitato i caffè turchi e greci per ottenere supporto.
Ci sono state discussioni sulla tattica. I leader del partito laburista si sono
concentrati sul tentativo di vietare la marcia NF.
La mattina della marcia i manifestanti hanno impacchettato farina, uova marce e
pomodori da consegnare alla gente. Alcuni anti-facisti hanno cercato di sfondare
i finestrini degli autobus NF mentre trasportavano i fascisti al loro punto di
raccolta.
Centinaia di giovani neri e asiatici locali e ciprioti si sono uniti alla
protesta antinazista insieme a sindacalisti e altri attivisti. Non appena la
marcia NF si spostò su Wood Green High Road, gli antifascisti attaccarono e
divisero la marcia.
Un antifa scrisse nel suo diario: “Bombe fumogene rosse riempivano l’aria e una
battaglia era presto in corso. Non abbiamo fermato la marcia ma è stata
molestata ad ogni centimetro. “
La polizia aveva vietato la manifestazione antifascista e arruolato migliaia di
poliziotti per proteggere i nazisti. Hanno arrestato 84 persone, 74 delle quali
erano antifasciste.
La battaglia di Wood Green ha contribuito al declino della NF. È stata seguita
ad agosto dalla battaglia di Lewisham, dove gli antifascisti sono riusciti a
fermare la NF dalla marcia.
A novembre si formò la Lega antinazista e istituì filiali in tutto il paese per
organizzarsi contro i fascisti.
Guarda “SYND 23 4 77 NATIONAL FRONT DEMONSTRATION ON ST GEORGES DAY“:
da InfoAut
Il 18 aprile del 1975 per le vie di Firenze sfilano l’antifascismo e la rabbia
per la morte di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, compagni uccisi a Milano
due giorni prima da un militante di Avanguardia Nazionale e da un jippone dei
carabinieri
Le realtà presenti in piazza sono tante, dagli studenti medi, all’ANPI, al PCI;
i primi si muovono in corteo durante la mattinata, mentre la manifestazione
generale cittadina parte nel tardo pomeriggio.
Già dalla mattina l’obiettivo è chiaro: raggiungere Piazza Indipendenza, dove si
trova la sede del MSI; al primo tentativo di avvicinamento seguono
immediatamente le cariche delle polizia.
Nel pomeriggio, dal corteo partito da Piazza Santa Croce, alcuni compagni
cominciano a staccarsi a piccoli gruppi e a dirigersi nuovamente verso Piazza
Indipendenza: di fronte a polizia e carabinieri schierati a difesa della sede
fascista, iniziano violenti scontri che si protraggono fino a tarda sera.
L’intero quartiere di San Lorenzo viene oscurato per creare un clima di terrore,
mentre le camionette si muovono a fari spenti e agenti speciali organizzano vere
e proprie squadre di picchiatori che si accaniscono sui singoli militanti
presenti agli scontri; alcuni abitanti del quartiere scendono spontaneamente in
strada, esasperati e indignati dal comportamento delle forze dell’ordine.
Sono ormai passate le 23 quando Francesco Panichi, militante di Autonomia
Operaia, nota un gruppo di 9 agenti in borghese intenti a picchiare un ragazzo a
terra; subito cerca di correre in suo soccorso insieme ad altri compagni ma dal
gruppo di picchiatori parte il primo colpo.
Francesco e gli altri scappano ma l’agente Basile prende la mira e spara
ripetutamente, uccidendo Rodolfo Boschi, militante del PCI, e ferendo Panichi.
Quest’ultimo viene ricoverato e il giorno successivo il Sostituto Procuratore
afferma di non poter procedere in alcun modo contro di lui per totale mancanza
di indizi.
Mentre la notizia dell’ennesimo assassinio per mano della polizia si diffonde in
tutta Italia, a Firenze il PCI è pronto a uscire con dei volantini di condanna
dell’accaduto, ma i vertici del partito ne impediscono la diffusione e
pubblicano invece un comunicato in cui distorcono completamente gli episodi del
18 Aprile.
Nel documento si tenta infatti di sminuire l’antifascismo genuino e militante di
Boschi, che si trovava volutamente sul luogo degli scontri, e di addossare la
responsabilità della sua morte a gruppi di “teppisti” e “provocatori” che hanno
fatto versare il “sangue innocente di un giovane lavoratore”.
Il PCI afferma che Panichi fosse giunto sul luogo degli scontri armato di
pistola e arriva ad auspicare che la polizia concentri il proprio operato contro
i presunti provocatori, in modo da “impedire che si scavi un solco profondo tra
i lavoratori fiorentini e le sue forze di polizia e si crei una
contrapposizione”.
Il partito alimenta così una ricostruzione dei fatti molto poco veritiera e crea
una vera e propria campagna per l’arresto di Panichi, nonostante la stessa
Questura avesse affermato che non vi fossero gli estremi per farlo.
Il 20 Aprile Francesco esce libero dall’ospedale e si dirige assieme ad altri
testimoni all’interrogatorio circa la morte di Boschi: a fine giornata viene
arrestato per tentato omicidio plurimo.
Il tentativo di infangare le figure di Panichi e di Boschi non passa però sotto
silenzio: numerose sezioni del PCI si dissociano, Lotta Continua pubblica la
smentita da parte di alcuni testimoni che, secondo i giornali, avevano visto
Francesco armato e il comizio in cui era prevista la lettura del comunicato del
partito viene duramente contestato. (da InfoAut)
Le forze di polizia caricano il corteo organizzato dalla rete campana ‘No
global’ che sta contestando il Global Forum nella sua giornata conclusiva.
Il bilancio ufficiale è di 2 arrestati, 21 denunciati ed oltre 200 feriti,
compresi quelli di agenti. In aggiunta all’allarme anticipato dei servizi sui
vertici internazionali, un significativo comunicato del Siulp napoletano,
diffuso qualche giorno fa, accusava il movimento No global di essere
“fiancheggiatore, neanche troppo occulto, di un nuovo, diffuso e pericoloso
terrorismo” e il governo “di essere garantista solo nei confronti di chi viola
la legge”.
I No global denunciano pestaggi indiscriminati di persone disarmate, a mani
alzate o già a terra, in strada e poi torture e sevizie subite nella caserma
Raniero, mentre secondo il ministro dell’Interno Enzo Bianco la polizia ha fatto
soltanto il suo dovere.
Nel gennaio 2010 il Tribunale ha condannato 10 poliziotti èer gli abusi nei
confronti dei manifestanti compiuti nel corso del Global Forum del marzo 2001 e
nella caserma Raniero negli stessi giorni. Tra i condannati anche due funzionari
di polizia, ovvero Fabio Ciccimarra e Carlo Solimene. La pena inflitta ai due è
di due anni e otto mesi relativa al reato di sequestro di persona aggravato.
Pene varianti dai due anni e sei mesi ai due anni sono state emesse nei
confronti di otto agenti, mentre sono undici i poliziotti assolti. Per gli altri
dieci agenti coinvolti e per anche per diversi imputati condannati è stata
dichiarata la prescrizione dei reati minori, tra cui violenza privata e abuso di
ufficio.
Il 26 febbraio 1982 il quotidiano LOTTA CONTINUA pubblica una lettera inviata al
proprio legale dalla brigatista Paola Maturi, arrestata a Roma il 1° febbraio,
nella quale la donna denuncia le torture subite in Questura dopo il suo arresto.
“La notte tra il 3 e il 4 febbraio sono entrati in cella, alcuni incappucciati e
uno a viso scoperto, mi hanno legato le mani dietro la schiena, non mi sentivo
più circolare il sangue, mi hanno bendata e incappucciata e messa su un pulmino,
dove mi pare ci fossero due uomini, mi hanno detto urlando che ero in uno stato
di illegalità, ero sequestrata, nessuno sapeva del mio arresto. Se non parlavo,
mi hanno detto che di me avrebbero trovato solo un cadavere. Mi hanno tolto
tutti gli indumenti di sopra e a dorso nudo hanno iniziato a picchiarmi con
botte sulle cosce, ai fianchi, sullo stomaco, e hanno iniziato a stringermi i
capezzoli con non so cosa.
Siamo arrivati non so dove, mi hanno messo un maglione addosso e sono scesa dal
pulmino. Ho fatto delle scale strette, sempre incappucciata e mi hanno fatto
entrare in una stanza. Lì sono stata denudata completamente, inveivano contro di
me, dicendomi che ero una merda, una puttana, e mi hanno chiesto se mi facevo
chiavare, io ho risposto da nessuno, allora sei una lesbica dicevano, e lo
capiamo perché fai schifo al cazzo e nessuno ti chiaverebbe, ma adesso ti
inculiamo noi. Questo è quello che mi dicevano in continuazione; mi hanno tenuto
sempre in piedi, dandomi botte su tutto il corpo, ma quello che più mi
distruggeva era il dolore che mi procuravano ai capezzoli, ripeto di nuovo non
sono riuscita a capire sinceramente con cosa: poi mi hanno fatto fumare una
sigaretta, dopo due tirate ho sentito che mi si annebbiava il cervello, ad un
certo punto mi sono ritrovata in una pozza di urina, in quel momento stavo
seduta su una sedia, credo di essere svenuta più volte.
Dimenticavo di dire che mi hanno passato delle cose calde sotto, in vagina e
nell’ano, e mi hanno dato dei calci sempre in vagina con dei pizzichi lungo la
spina dorsale.“
La scintilla per l’occupazione a Trento fu la contestazione che gli studenti
fecero nei confronti del rettore Mario Volpato, reazionario e autoritario. La
contestazione porto alla convocazione di un assemblea generale fiume il tardo
pomeriggio del 31 gennaio durata tutta la notte. Riportiamo dal blog
bodosproject “Così il due febbraio con due mesi di anticipo sul maggio francese,
inizia l’occupazione più lunga della storia di questa università.
Il movimento studentesco ormai padrone della situazione apre l’occupazione su
quattro punti programmatici:
1) Lotta all’autoritarismo accademico e sviluppo del potere studentesco;
2) No al progetto di riforma universitaria, dell’allora ministro Gui;
3) Carta rivendicativa degli studenti;
4) Ristrutturazione del movimento studentesco.
(La mozione è approvata con 237 voti favorevoli, 7 contrari, 12 astenuti)
Il 3 febbraio l’agitazione si estende anche agli studenti medi. Anche i preti
iscritti a sociologia dichiarano la loro solidarietà con gli occupanti; è solo
il preludio di quello che avverrà tra poco quando numerosi preti abbandoneranno
per sempre la tonaca. Il 6 dello stesso mese c’è un Convegno Nazionale Quadri
dei vari movimenti studenteschi nazionali che si conclude con l’approvazione
delle tesi antiautoritarie del “potere studentesco”. Mentre nei punti di accesso
dell’università si ergono palizzate, sulla facciata esterna dell’edificio viene
esteso un enorme striscione rosso con la scritta cubitale: POTERE STUDENTESCO.
Mentre dal balcone sottostante del rettorato l’asta portabandiera del tricolore
lascia sventolare un drappo rosso enorme, ai suoi due lati sventolano le
bandiere del Vietnam e di Cuba. Nell’università non si entra né si esce senza
regolare permesso e previa sommaria perquisizione. Sul portone d’ingresso aperto
solo a metà stazionano con aria aggressiva studenti molto meno sgargianti del
solito. Il colore tende al verdolino/grigio verde rotto appena da un fazzoletto
rosso intorno al collo o legato a metà del bicipite generalmente sinistro;
mentre le estremità di molti appaiono unificate in basso da stivaletti militari
ed in alto da teste barbute con basco alla Guevara.
Alcune scritte all’interno della Università:
Non vale la pena di trovare un posto in questa società ma di creare una società
in cui valga la pena di trovare un posto.
Guarda “Trento – Il ’68 e le università italiane“:
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I primi mesi del 1977 furono caratterizzati, in tutta Italia, da numerose
rivolte all’interno delle carceri e da un consistente numero di evasioni da
parte di militanti politici.
Tra queste si annovera quella di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, militanti
dei Nuclei Armati Proletari, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 Gennaio;
grazie ad un’azione coordinata tra l’interno e l’esterno dell’edificio, le due
militanti riuscirono infatti ad evadere dal carcere femminile di Pozzuoli in cui
erano rinchiuse in attesa del processo.
Il progetto di fuga comprendeva inizialmente anche la terza compagna di cella
delle due Nappiste, Rosaria Sansica, la quale decise però di rinunciare perché
aveva ottenuto qualche tempo prima la libertà provvisoria per motivi di salute.
In quel periodo l’azione dei NAP era rivolta soprattutto alla liberazione dei
militanti arrestati e a far sì che i processi in cui erano coinvolti non
potessero aprirsi (obiettivo che veniva perseguito creando difficoltà a formare
la giuria popolare e tramite una serie di proclami e ricusazioni volti a
vanificare l’intero procedimento processuale), motivo per cui l’evasione fu
programmata in concomitanza con il primo processo ai NAP che si stava svolgendo
a Napoli, in cui erano imputate anche Franca Salerno e Maria Pia Vianale.
Questa linea d’azione venne tra l’altro ribadita nel comunicato diffuso
dall’organizzazione subito dopo la fuga dal carcere di Pozzuoli, in cui si
legge: “La nostra libertà come è dovere di ogni rivoluzionario ce la
riprenderemo da soli evadendo. Dalle carceri dai ghetti dove ci costringe la
società borghese usciremo con le nostre forze. L’evasione è un momento della
nostra lotta alla repressione di Stato”.
Il ciclo di evasioni e rivolte mise in difficoltà le autorità carcerarie che,
nel caso di Pozzuoli, licenziarono il Direttore del carcere nel tentativo di
ricondurre a una negligenza della direzione quella che in realtà era un’azione
politica su scala nazionale che non poteva non destare preoccupazione in chi
quotidianamente si affannava a garantire un ordine ormai ampiamente compromesso.
Il 24 Gennaio, in sede processuale, la fuga delle due Nappiste venne rivendicata
tramite la lettura del seguente comunicato: “Sabato 22 Gennaio, alle ore 4,
l’organizzazione comunista combattente NAP ha attaccato il carcere-lager di
Pozzuoli. L’azione tendente alla liberazione delle compagne Franca Salerno e
Maria Pia Vianale, militanti dell’organizzazione, si è sviluppata con un attacco
coordinato interno-esterno ed ha raggiunto in pieno l’obiettivo fissato…il
terreno reale dello scontro si sviluppa ora totalmente all’esterno dell’aula…è
solo sulla parola d’ordine “portare attacco al cuore dello Stato” che si supera
la parzialità delle esperienze di lotta armata e si ricompone l’unità della
classe delle sue avanguardie armate nel partito combattente”.
Il processo si protrasse fino al 16 Febbraio, data nella quale la Corte inflisse
289 anni e 11 mesi di carcere a 22 nappisti (nonostante molti degli imputati si
fossero dichiarati non appartenenti all’organizzazione).
Al dato delle condanne va però affiancato il percepibile clima di sfiducia nei
confronti delle istituzioni che permeò l’aula per l’intera istruttoria:
l’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, infatti, non aveva certo
contribuito a ristabilire la certezza dell’ordine e della legge.
Le due militanti, sfuggite alle condanne di Febbraio, furono però nuovamente
catturate il 1 Luglio, a Roma, assieme ad Antonio Lo Muscio, che rimase ucciso
durante l’arresto in seguito ad una pallottola sparata a bruciapelo dalla
polizia che lo raggiunse alla testa mentre si trovava già a terra.
Franca Salerno e Maria Pia Vianale furono invece rispettivamente condannate a 7
anni e 5 mesi ed a 13 anni e 5 mesi.
Il clima di tensione, di “caccia all’uomo” e di violenza gratuita da parte degli
agenti che caratterizzò le circostanze del loro arresto (nonché altri episodi) è
ben descritto in un’intervista rilasciata da Franca Salerno alcuni anni dopo:
“Sì, loro ti cercano, ti pedinano e quando ti catturano ti massacrano di botte.
Per quei tempi era normale. Gridavano: “Ammazziamole, facciamole fuori”. Se non
ci fosse stata la gente a guardare dalle finestre sarebbe stata un’esecuzione. A
Pia hanno sparato perché si era mossa. Ricordo i loro occhi, dentro c’era rabbia
e eccitazione; erano fuori di sé perché eravamo donne. Averci prese, per loro,
era una vittoria anche dal punto di vista maschile“.
Guarda “In un Antico Palazzo“:
da InfoAut
La mafia agraria uccide a colpi di mitra il segretario della locale Camera del
Lavoro Accursio Miraglia, nei giorni successivi anche a Ficarazzi e Partinico,
in provincia di Palermo, vengono assassinati i dirigenti sindacali Macchiarella
e Silvia
Non erano anni facili in un’Italia che cercava di iniziare a riprendersi dalla
seconda guerra mondiale. Tanto più lo era per il popolo siciliano, la
maggioranza dei contadini e contadine continuavano ad essere costretti a fare i
conti con uno Stato assente e con il pericoloso mix latifondisti-mafiosi, che da
sempre costringevano alla fame e alla miseria il popolo siciliano, privandolo
dei più elementari diritti. Diverse sono state le vittime di quegli interessi
che sono finite sotto i colpi di lupara, colpa spesso anche di un
collaborazionismo dello Stato e delle sue istituzioni. Questo Accursio lo sapeva
bene, ed ogni volta che lo minacciavano oppure che qualcuno lo esortasse a farsi
gli affari propri, erano solito parafrasare le parole del rivoluzionario
Emiliano Zapata: “Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio.”
Dirigente del Partito Comunista e segretario della Camera del Lavoro di Sciacca,
da qualche tempo si stava battendo per l’attuazione dei Decreti Gullio sulla
concezione alle cooperative contadine delle terre incolte o mal coltivate.
Insieme a centinaia braccianti e poveri contadini, il 5 novembre 1945 costituì
una cooperativa che prese il nome di “Madre Terra”. In questo modo riuscì a far
assegnare a essa diversi ettari di buona terra.
Il suo impegno era diventato sempre più una spina nel fianco del latifondismo
agrario e della mafia, i quali scelsero presto di eliminarlo, in quanto le
continue rivendicazioni delle terre erano un chiaro attacco alla proprietà
privata e al potere che essi esercitavano.
Il 4 gennaio 1947, verso le 21 e trenta, Accursio Miraglia era appena uscito dai
locali della sezione comunista per tornare a casa. A “scortarlo” c’erano quattro
compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro
Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa
si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due,
invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo
salutarono e ritornarono indietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio
fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti
contro Miraglia. La Monica ritornò indietro e vide un giovane, piuttosto esile,
di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga,
dalla quale fece partire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo
alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pubblica, e, dopo aver
sparato, si allontanò di corsa verso l’uscita del paese. La stessa scena fu
vista da Aquilino.
Miraglia morì all’età di 51 anni riverso sulla porta della propria abitazione,
tra le braccia della giovane moglie russa, Tatiana Klimenko. Di corsa, erano
arrivati La Monica e Aquilino.
Non solo la città di Sciacca volle salutare quella persona che non li aveva mai
traditi, rifiutando di piegarsi alla mafia e agli agrari ma da tutta la Sicilia
arrivarono contadini, braccianti, sindacalisti, comunisti. Tanto che si dovette
aspettare una settimana per celebrare i funerali.
L’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione. I
preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto
ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni
ed imponenti. In Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per dieci minuti. In
Italia, per cinque. In tutte le fabbriche suonarono le sirene.
Non era la prima volta che il ragazzo aveva dovuto subire le violenze di uomini
in divisa.
Classe 1972, Riccardo Rasman nel 1990 durante il servizio militare è vittima di
efferate pratiche di nonnismo che oltre a segnarlo nel corpo ne intaccano anche
la mente.
Viene congedato e quando torna a casa gli diagnosticano una sindrome da
schizofrenia paranoide. Il ragazzo sviluppa, più che comprensibilmente, una
paura terribile per le divise che nel 1999 si rafforza quando sporge denuncia
per le violenze subite all’interno della sua dimora da parte di due poliziotti,
chiamati da un vicino a causa dell’alto volume della musica ascoltata dal
ragazzo.
Nell’ottobre del 2006 Riccardo, che è in cura da tempo presso il centro di
salute di Domio (fatto noto alle forze dell’ordine), trova lavoro come
netturbino. Per festeggiare l’imminente inizio del lavoro il 27, probabilmente
in preda ad uno stato di agitazione psicofisica, ascolta di nuovo la musica ad
alto volume e lancia due petardi nel cortile di casa. Dopo una segnalazione al
113 arriva la polizia.
Riccardo ha paura e si trincera nella sua camera. I quattro agenti chiamano i
vigili del fuoco che sfondano la porta dell’appartamento. Quando i poliziotti
entrano in camera di Riccardo inizia una colluttazione che si conclude quando il
ragazzo, dopo essere stato picchiato duramente, viene immobilizzato a terra con
le caviglie legate col filo di ferro.
Come verrà accertato in sede giudiziaria in ogni grado di giudizio, gli agenti
lo tennero prono ed esercitarono pressione salendo sulla sua schiena. Dopo dieci
minuti di agonia Riccardo morì per arresto cardiocircolatorio.
Tre agenti furono condannati a sei mesi di reclusione, pena sospesa. La quarta
fu assolta con formula dubitativa.
Prima della violenza Rasman aveva scritto un biglietto trovato in cucina: “Per
favore per cortesia vi prego non fatemi del male, non ho fatto niente di male.”
(da Cronache Ribelli)
Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare Comunista
Rivoluzionario Calabrese” (FPCR) viene brutalmente ucciso dai fascisti.
La mattina del 20 ottobre, di fronte al Comune di Lamezia, ci fu una
manifestazione nell’ambito del Festival Provinciale dell’Avanti.
Nella notte, scritte fasciste ingiuriose sui muri avevano provocato tensioni;
fino ad arrivare alle mani, spinte, minacce: la questione però era destinata a
non finire lì.
Fu infatti alle 15.30 di quella domenica di ottobre che, i fratelli Argada,
accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno dallo
stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni Morello,
disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi solo ventiquattro
ore prima, quando avevano picchiato il fratello più piccolo, quattordici anni
appena.
E quattordici furono anche i colpi che riecheggiarono per le strade di Lamezia;
quattro mortali indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e
aiutare l’amico ferito da un colpo alla gamba.
Il giorno dei funerali, trentamila furono le persone che scesero in piazza per
salutare Sergio Adelchi Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e,
per le orazioni, venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora
montato nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
Jovine, uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: “Conoscevamo Adelchi
Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte
degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti
giovani costretto a una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli
dei lavoratori, non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una
scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in
cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio”.
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte soltanto una
pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più di qualche giornale
conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel caso di Oscar Porchia e
Michele De Fazio sostenere di avere sparato per difendersi non funzionò:
imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di spostare la tesi processuale a
Napoli, nel 1977 furono condannati rispettivamente a quindici anni e quattro
mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione. (da InfoAut)
L'articolo Lamezia Terme, 20 ottobre 1974: i fascisti uccidono Adelchi Agrada
sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.