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2 giugno 1996: Montorio nei Frentani (Campobasso), Luigina Colantonio 16 anni vittima di legge Reale
Era pomeriggio sera del 2 giugno del 1996, quando Luigina Colantonio, 16 anni,  di Montorio nei Frentani (Campobasso) viaggiava con il fratello Michele verso Larino: arrivati alle porte del paese, trovarono un posto di blocco operato da una pattuglia dei Carabinieri della Compagnia frentana. Intimano l’alt alla vecchia 127 del padre di Luigina (fiat 127 matricolata nel 1971), ma suo fratello, privo di patente di guida, alla vista di quella pattuglia si fece prendere dal panico. Il 17enne, così, effettuò una manovra d’inversione proprio davanti alla volante e ripartì per tornare a Montorio. I Carabinieri che conoscevano bene il ragazzo lo seguirono. A metà strada, tra Larino e Montorio, dopo averli seguiti per alcuni chilometri, il carabiniere Ciuffreda decise di mirare verso la lenta utilitaria ancora non raggiunta in salita dalla volate dei Carabinieri con la sua pistola d’ordinanza, in modo da bloccare la fuga. Nel frattempo, però, la piccola Luigina, 14 anni, spaventata, si era distesa sul sedile posteriore dell’auto, in un attimo la tragedia si compie. La piccola Luigina morirà subito con due proiettili conficcati al cuore. Al Tg del Molise Michele, fratello di Luigina,  dichiarò di aver subito “maltrattamenti”, accusando i carabinieri di “scorretto comportamento”. “questa cosa così atroce, che può succedere solo in un’ Italia da schifo: ce l’ hanno ammazzata e nessuno pagherà. Qui a Montorio non è mai successo niente di tanto brutto. Siamo gente per bene. Dovete aiutarci…”. Michele ascolta la versione ufficiale dell’ Arma e ad ogni passo mormora “ma non è vero questo, ma come è possibile che dicano…“. E’ stupefatto, si capisce che fa una gran fatica a controllarsi. “Io e Francesco, sostengono loro, saremmo due tossici? Ma è cosa da pazzi“. Solo alla fine alzerà la voce, furente. I fatti , secondo Michele Colantonio, sono andati così: “Sono andati – attacca lui – che i carabinieri ci aspettavano. Perché qualcuno in paese li aveva informati. Ce l’ hanno pure confermato dopo… Sapevano che io ogni tanto, ma sì insomma spesso, uso la macchina di mio padre senza dirglielo. E la patente non ce l’ ho. Ho visto le luci della pattuglia poco prima di arrivare a Larino. Ho invertito la marcia. Ero terrorizzato. Sì, perché quelli appena hanno cominciato l’ inseguimento si sono messi a sparare. Hanno sparato almeno 15 colpi contro di noi. Io in macchina urlavo come un dannato. Non mi sono fermato, no, avevo una paura tremenda. Poi Luigina, che si era accovacciata dietro dopo i primi colpi, a un certo punto ha strillato ‘ mi hanno presa’ . Allora ho inchiodato. Lei è scesa dalla macchina e ha detto ‘ Michele, mi fa male’ , ed è crollata a terra. E’ morta lì, sulle mie ginocchia. I carabinieri lo sapevano che eravamo tutti minorenni. Lo sapevano… Quando hanno aperto la portiera uno ha puntato la pistola alla testa di Francesco, quell’ altro mi ha tirato un pugno e mi ha sibilato contro: ‘ Io ti ammazzo…’ . Era agitatissimo. Io non so chi siano, non li avevo mai visti prima, sembrava che ce l’ avessero con noi. Poi quando quello che mi si è avventato contro s’ è accorto che Luigina era già morta – perché Luigina è morta lì per la strada, in ospedale c’ è arrivato il cadavere – allora s’ è disperato. E’ andato nel pallone. Ha cominciato a chiamare la centrale… mi ha detto che io gli ho rovinato la vita. Lui mi aveva ammazzato la sorella e io gli avevo rovinato la vita? Io gridavo che ci voleva l’ ospedale, subito, ma sono passati almeno quattro o cinque minuti prima che i due carabinieri caricassero Luigina sul sedile della loro macchina e ci dicessero di seguirli. All’ ospedale neanche volevano farmi entrare, continuavano a ripetere che io gli avevo rovinato la vita“. Michele Colantonio fu denunciato per guida senza patente e resistenza a pubblico ufficiale. Per due carabinieri, invece, nessuna conseguenza
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31 maggio 2013, Piazza Taksim – Gezi Park
All’alba del 31 maggio 2013, la polizia attaccava un presidio permanente di poche decine di persone a Gezi Park, un parco pubblico in Piazza Taksim, nel centro di Istanbul. Idranti, lacrimogeni, manganelli, ruspe. Le tende del presidio vennero distrutte ed incendiate, gli alberi piantati dai manifestanti abbattuti, molti i feriti e gli arrestati. Dal violento sgombero dei pochi manifestanti che protestavano contro la distruzione di uno dei pochi parchi del centro di Istanbul, si aprì una nuova fase di lotte in Turchia. Le manifestazioni contro la violenza usata dalla polizia nello sgombero vennero represse ancora più duramente, scatenando un’ondata di proteste che scontrandosi con il pugno di ferro del governo non si infranse, ma si estese in una rivolta di massa antigovernativa, che scosse la Turchia per più di due settimane. Il primo giugno la polizia, dopo ore di scontri ininterrotti, fu costretta ad abbandonare Piazza Taksim, di fronte alla determinazione di oltre un milione di persone che si erano unite alla resistenza di piazza. Da quel momento, per molti giorni, la storica Piazza Taksim dove si trova Gezi Park, piazza simbolo delle lotte dei lavoratori e dei movimenti rivoluzionari, divenne il centro di un grande movimento. Ogni gruppo politico, ogni partito o sindacato, aveva il proprio spazio in quella piazza, in cui erano sempre in corso assemblee, dibattiti, performance teatrali e musicali, mentre lo spazio liberato era completamente autogestito, dalla distribuzione di cibo all’infermeria, fino alla resistenza contro i tentativi di sgombero da parte della polizia. Ovunque in Turchia si tenevano manifestazioni quotidiane, si occupavano parchi, si resisteva alla polizia. Ad Ankara il centro delle proteste era Güven Park, un parco pubblico adiacente alle principali sedi ministeriali, nel centrale quartiere Kizilay della capitale turca. Si trattava ormai di una rivolta estesa a tutto il paese. Non è un caso che il detonatore di questo movimento sia stata la repressione della protesta contro la distruzione di Gezi Park ad Istanbul. Infatti il governo progettava di costruire su quel terreno un rifacimento delle caserme ottomane che furono demolite nel 1940 per far posto al parco. In queste strutture avrebbero trovato spazio tra l’altro una moschea e un centro commerciale. Un progetto che ben riassumeva la politica del governo conservatore-religioso del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP): nazionalismo in salsa neo-ottomana, conservatorismo religioso, speculazione edilizia e capitalismo sfrenato. Per questo la violenta repressione poliziesca ha scatenato una reazione di piazza tanto larga e determinata contro l’oppressione dello Stato e la devastazione del capitale, facendo emergere le forti contraddizioni sociali della Turchia governata da dieci anni dall’AKP. Dopo lo sgombero definitivo della “Comune di Gezi Park” il 15 giugno 2013, le proteste non si sono fermate. Al contrario in Turchia una nuova fase di lotte sociali e politiche si è aperta. Guarda “”Gezi Parkı” protestoları: Ne olmuştu? – DW Türkçe“: da InfoAut
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Torino 29 maggio 1971: Scontri alle Porte Palatine
Il pomeriggio del 29 maggio del 1971, a Torino, una manifestazione animata da studenti, operai e solidali sfocia in cinque ore di duri scontri con le forze dell’ordine. Il corteo era stato indetto in solidarietà con gli operai FIAT, nei giorni in cui si stava chiudendo la vertenza sul contratto integrativo. Chiaramente i sindacati confederali non aderirono alla manifestazione, che vedeva come principali organizzatori Lotta Continua e Potere Operaio e che aveva come concentramento piazza Porte Palatine. Intorno alle 16.30, quando alle Porte Palatine si trovavano più di 500 manifestanti, la Polizia decide di impedire la partenza del corteo, vista la presenza di un gran numero di manifestanti armati di bastoni. Da subito quindi sale la tensione, la polizia riesce a sequestrare una decina di bastoni, e in breve tempo si arriva allo scontro. Una trentina di carabinieri cerca di caricare per far disperdere il corteo che però risponde subito con grande determinazione. Dalle borse e dalle tasche dei manifestanti spuntano furori sassi e alcune bottiglie molotov. I carabinieri vengono praticamente accerchiati, molti militari alti in grado vengono presi particolarmente di mira: il vicequestore Mastronardi viene colpito da un sampietrino in pieno volto, si accascia a terra. Giungono i rinforzi, 300 tra reparto mobile e carabinieri. I manifestanti però non si disperdono e riescono sempre a ricompattarsi. Gli scontri si spostano davanti al Duomo, alcuni manifestanti vi entreranno per sfuggire alle cariche, altri continueranno ad ingaggiare un violentissimo corpo a corpo fin sopra le scalinate della chiesa. Gli scontri continuano e si spostano nelle vie circostanti, nel pieno centro di Torino. Via Garibaldi e la centralissima piazza Castello sono lo scenario di una vera e propria battaglia: da un lato delle improvvisate barricate sassi bastoni e molotov, dall’altro lacrimogeni scudi e manganelli. Sono ormai le 19.15, quando la polizia riesce a sfondare le barricate e a guadagnare terreno, il corteo non è più compatto, ma i manifestanti non abbandonano le strade e continuano a fare azioni improvvisate, “imboscate” ai danni di volanti e blindati che trasportano i fermati (una sessantina). Solo alle 21 la situazione sembra essere rientrata sotto il controllo delle forze dell’ordine, che hanno subìto più di quaranta di feriti, ma il clima è ancora teso e l’aria densa di lacrimogeni. Auto incendiate, vetrine sfondate, strade disselciate sono l’immagine di una Torino che (come si legge in un comunicato) quel giorno scese in piazza “per combattere la repressione padronale e poliziesca, per rendere agli sbirri ciò che si meritano”. da InfoAut
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25 aprile 1945: Insurrezione, liberazione
Tra febbraio e marzo del 1945, mentre le truppe alleate non sono avanzate rispetto alle posizioni occupate durante l’inverno,l’offensiva partigiana nell’Italia settentrionale si sviluppava con nuova forza. È il 10 aprile quando la direzione per l’Italia settentrionale del partito comunista fa pervenire a tutte le organizzazioni politiche e formazioni militari partigiane la direttiva n. 16 dedicata all’insurrezione: “l’offensiva sovietica sull’ Oder e l’offensiva anglo-americana in Italia saranno gli atti finali della battaglia vittoriosa. Anche noi dobbiamo scatenare l’attacco definitivo. Non si tratta più solo di intensificare la guerriglia, ma di predisporre e scatenare vere e proprie azioni insurrezionali”. Alcuni giorni dopo il generale Clark (generale americano a dirigere le forze alleate in Italia) invia un messaggio ai partigiani raccomandando di restare sulle montagne e di non compiere azioni premature. Appena conosciuto il testo dei messaggio Togliatti scrive a Longo: “Il nuovo ordine del giorno del generale Clark è stato emanato senza l’accordo del governo né nostro. Tale ordine del giorno non corrisponde agli interessi del popolo. E nostro interesse vitale che l’armata nazionale e il popolo si sollevino in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli alleati. Questo è indispensabile specialmente nelle grandi città, come Milano, Torino, Genova ecc., che noi dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare integralmente dai fascisti. Prendete tutte le misure necessarie per la rapida realizzazione di questa linea, scegliete voi stessi il momento dell’insurrezione sulla base dello sviluppo generale della situazione sui fronti, sul movimento del nemico e sulla base della situazione delle forze patriottiche.” Il popolo italiano aderisce con slancio all’appello: il 19 aprile i partigiani, guidati da Barontini, liberano Bologna e nella mattinata del 24 tutte le stazioni radio trasmettono questo messaggio “Il Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia invita all’insurrezione in tutte le città e le province, per cacciare gli invasori e i loro alleati fascisti, e per porre le basi di una nuova democrazia, che sarà l’espressione della volontà popolare”. È l’insurrezione. Il giorno successivo vengono liberate Torino e Milano, e la maggior parte del nord Italia. In questi giorni convivono, nel clima di generale euforia, la fiducia e i dubbi nei confronti del prossimo futuro, degli Alleati e del governo di Roma: ci si avvia a vivere un momento in cui l’uscita dall’incubo della morte, per essere sentita davvero come definitiva, chiede ancora dei morti. In questo senso, le organizzazioni partigiane aspirano ad una giustizia rapida ed esemplare, che permetta anche di “evitare l’errore di Roma per cui troppi fascisti girano ancora indisturbati per le vie dell’Urbe”. Procedere all’epurazione è un bisogno sentito ed impellente, “l’epurazione dobbiamo farla adesso, chè dopo la liberazione non si fa più, perché in guerra si spara, finita la guerra non si spara più”, la giustizia deve venire dal popolo, che da una parte continua a repellere la denuncia come metodologia di risoluzione, e che dall’altra parte spesso vede troppo lassismo da parte delle autorità. Per molti anni la stampa revisionista ha parlato di 300.000 uccisi nelle giornate di aprile, mentre nel 1952 il ministro dell’interno Scelba fornisce la cifra di 1732 epurati. Le stime concrete degli storici fanno invece ammontare il numero dei morti tra i dodici e i quindicimila in tutto il nord Italia. Guarda “La liberazione di Torino“: da InfoAut
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Iran: ennesima esecuzione di un prigioniero politico curdo
Il 20 aprile in Iran ennesima esecuzione di un prigioniero politico curdo di Gianni Sartori Soltanto qualche giorno fa, il 18 aprile, alcune Ong avevano diffuso la notizia che due giorni prima il prigioniero politico curdo Hamid Hossein Nejad Heydaranlu (40 anni, padre di tre figli), detenuto nel carcere di Urmia e già condannato a morte, era stato messo in isolamento nel braccio della morte. Segno che l’esecuzione ormai era imminente. Dopo una prima condanna risalente al luglio 2024 (dalla Sezione 1 del Tribunale rivoluzionario di Urmia, presieduta dal giudice Najafzadeh), la pena di morte era stata riconfermata alla fine di marzo dalla Sezione 9 della Corte Suprema. Arrestato nei pressi di Chaldoran nell’aprile 2023 (dalle guardie di frontiera che nel 2015 avevano ucciso suo cognato, Mostafa Nouri), Hosseinnezhad veniva condannato per “baghi” (ribellione armata contro l’Imam e l’autorità islamica). Accusato senza prove (o con prove false, stando a quanto sostiene l l’Ong Kurdpa) di aver fatto parte di un partito dell’opposizione. Per quasi un anno era stato sottoposto a maltrattamenti e torture e fine costretto a firmare una confessione prestampata. Gli erano state concesse solo due brevi telefonate con la famiglia, mentre gli venivano negati sia un avvocato di sua scelta che le visite dei familiari. A causa dell’episodio in cui aveva perso la vita suo cognato (ucciso dalle guardie di frontiera), è stato accusato di ”coinvolgimento in uno scontro armato”. Stando a quanto ha dichiarato in tribunale, il giudice Najafzadeh lo avrebbe condannato “in base al proprio intuito” (?!?). E questo nonostante nuovi documenti dimostrassero la sua innocenza. Ma con il trasferimento nel braccio della morte non era stato più possibile presentarli. Oggi la brutale notizia: Hamid Hossein Nejad Heydaranlu, è stato ucciso in segreto domenica 20 aprile nel carcere dove era rinchiuso. Poco prima che venisse messo in isolamento, i familiari – allertati dall’ultima, brevissima, sua telefonata – avevano manifestato con un sit-in. Invano.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Londra, 23 aprile 1977: antifascismo a Wood Green
La battaglia di Wood Green il 23 aprile 1977 fu una delle prime volte in cui i nazisti si trovarono a scontrarsi con gli antifascisti. “Il Fronte Nazionale non è mai stato così gravemente scosso come nella marcia di sabato a nord di Londra.” Circa 3.000 antifascisti hanno affrontato circa 1.200 manifestanti del National Front. Questa contro-manifestazione non è nata dal nulla. In vista di ciò, gli antifa della zona si sono organizzati. Hanno distribuito volantini, testato razzi di fumo rosso sulle paludi del Tottenham e hanno visitato i caffè turchi e greci per ottenere supporto. Ci sono state discussioni sulla tattica. I leader del partito laburista si sono concentrati sul tentativo di vietare la marcia NF. La mattina della marcia i manifestanti hanno impacchettato farina, uova marce e pomodori da consegnare alla gente. Alcuni anti-facisti hanno cercato di sfondare i finestrini degli autobus NF mentre trasportavano i fascisti al loro punto di raccolta. Centinaia di giovani neri e asiatici locali e ciprioti si sono uniti alla protesta antinazista insieme a sindacalisti e altri attivisti. Non appena la marcia NF si spostò su Wood Green High Road, gli antifascisti attaccarono e divisero la marcia. Un antifa scrisse nel suo diario: “Bombe fumogene rosse riempivano l’aria e una battaglia era presto in corso. Non abbiamo fermato la marcia ma è stata molestata ad ogni centimetro. “ La polizia aveva vietato la manifestazione antifascista e arruolato migliaia di poliziotti per proteggere i nazisti. Hanno arrestato 84 persone, 74 delle quali erano antifasciste. La battaglia di Wood Green ha contribuito al declino della NF. È stata seguita ad agosto dalla battaglia di Lewisham, dove gli antifascisti sono riusciti a fermare la NF dalla marcia. A novembre si formò la Lega antinazista e istituì filiali in tutto il paese per organizzarsi contro i fascisti. Guarda “SYND 23 4 77 NATIONAL FRONT DEMONSTRATION ON ST GEORGES DAY“: da InfoAut
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Firenze 18 aprile 1975 – La polizia spara e uccide Rodolfo Boschi
Il 18 aprile del 1975 per le vie di Firenze sfilano l’antifascismo e la rabbia per la morte di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, compagni uccisi a Milano due giorni prima da un militante di Avanguardia Nazionale e da un jippone dei carabinieri Le realtà presenti in piazza sono tante, dagli studenti medi, all’ANPI, al PCI; i primi si muovono in corteo durante la mattinata, mentre la manifestazione generale cittadina parte nel tardo pomeriggio. Già dalla mattina l’obiettivo è chiaro: raggiungere Piazza Indipendenza, dove si trova la sede del MSI; al primo tentativo di avvicinamento seguono immediatamente le cariche delle polizia. Nel pomeriggio, dal corteo partito da Piazza Santa Croce, alcuni compagni cominciano a staccarsi a piccoli gruppi e a dirigersi nuovamente verso Piazza Indipendenza: di fronte a polizia e carabinieri schierati a difesa della sede fascista, iniziano violenti scontri che si protraggono fino a tarda sera. L’intero quartiere di San Lorenzo viene oscurato per creare un clima di terrore, mentre le camionette si muovono a fari spenti e agenti speciali organizzano vere e proprie squadre di picchiatori che si accaniscono sui singoli militanti presenti agli scontri; alcuni abitanti del quartiere scendono spontaneamente in strada, esasperati e indignati dal comportamento delle forze dell’ordine. Sono ormai passate le 23 quando Francesco Panichi, militante di Autonomia Operaia, nota un gruppo di 9 agenti in borghese intenti a picchiare un ragazzo a terra; subito cerca di correre in suo soccorso insieme ad altri compagni ma dal gruppo di picchiatori parte il primo colpo. Francesco e gli altri scappano ma l’agente Basile prende la mira e spara ripetutamente, uccidendo Rodolfo Boschi, militante del PCI, e ferendo Panichi. Quest’ultimo viene ricoverato e il giorno successivo il Sostituto Procuratore afferma di non poter procedere in alcun modo contro di lui per totale mancanza di indizi. Mentre la notizia dell’ennesimo assassinio per mano della polizia si diffonde in tutta Italia, a Firenze il PCI è pronto a uscire con dei volantini di condanna dell’accaduto, ma i vertici del partito ne impediscono la diffusione e pubblicano invece un comunicato in cui distorcono completamente gli episodi del 18 Aprile. Nel documento si tenta infatti di sminuire l’antifascismo genuino e militante di Boschi, che si trovava volutamente sul luogo degli scontri, e di addossare la responsabilità della sua morte a gruppi di “teppisti” e “provocatori” che hanno fatto versare il “sangue innocente di un giovane lavoratore”. Il PCI afferma che Panichi fosse giunto sul luogo degli scontri armato di pistola e arriva ad auspicare che la polizia concentri il proprio operato contro i presunti provocatori, in modo da “impedire che si scavi un solco profondo tra i lavoratori fiorentini e le sue forze di polizia e si crei una contrapposizione”. Il partito alimenta così una ricostruzione dei fatti molto poco veritiera e crea una vera e propria campagna per l’arresto di Panichi, nonostante la stessa Questura avesse affermato che non vi fossero gli estremi per farlo. Il 20 Aprile Francesco esce libero dall’ospedale e si dirige assieme ad altri testimoni all’interrogatorio circa la morte di Boschi: a fine giornata viene arrestato per tentato omicidio plurimo. Il tentativo di infangare le figure di Panichi e di Boschi non passa però sotto silenzio: numerose sezioni del PCI si dissociano, Lotta Continua pubblica la smentita da parte di alcuni testimoni che, secondo i giornali, avevano visto Francesco armato e il comizio in cui era prevista la lettura del comunicato del partito viene duramente contestato. (da InfoAut)
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Napoli 17 marzo 2001: No Global Forum, l’antipasto del G8 di Genova
Le forze di polizia caricano il corteo organizzato dalla rete campana ‘No global’ che sta contestando il Global Forum nella sua giornata conclusiva. Il bilancio ufficiale è di 2 arrestati, 21 denunciati ed oltre 200 feriti, compresi quelli di agenti. In aggiunta all’allarme anticipato dei servizi sui vertici internazionali, un significativo comunicato del Siulp napoletano, diffuso qualche giorno fa, accusava il movimento No global di essere “fiancheggiatore, neanche troppo occulto, di un nuovo, diffuso e pericoloso terrorismo” e il governo “di essere garantista solo nei confronti di chi viola la legge”. I No global denunciano pestaggi indiscriminati di persone disarmate, a mani alzate o già a terra, in strada e poi torture e sevizie subite nella caserma Raniero, mentre secondo il ministro dell’Interno Enzo Bianco la polizia ha fatto soltanto il suo dovere. Nel gennaio 2010 il Tribunale ha condannato 10 poliziotti èer gli abusi nei confronti dei manifestanti compiuti nel corso del Global Forum del marzo 2001 e nella caserma Raniero negli stessi giorni. Tra i condannati anche due funzionari di polizia, ovvero Fabio Ciccimarra e Carlo Solimene. La pena inflitta ai due è di due anni e otto mesi relativa al reato di sequestro di persona aggravato. Pene varianti dai due anni e sei mesi ai due anni sono state emesse nei confronti di otto agenti, mentre sono undici i poliziotti assolti. Per gli altri dieci agenti coinvolti e per anche per diversi imputati condannati è stata dichiarata la prescrizione dei reati minori, tra cui violenza privata e abuso di ufficio.    
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26 febbraio 1982: L’Italia “democratica” del ministro Rognoni.
Il 26 febbraio 1982 il quotidiano LOTTA CONTINUA pubblica una lettera inviata al proprio legale dalla brigatista Paola Maturi, arrestata a Roma il 1° febbraio, nella quale la donna denuncia le torture subite in Questura dopo il suo arresto. “La notte tra il 3 e il 4 febbraio sono entrati in cella, alcuni incappucciati e uno a viso scoperto, mi hanno legato le mani dietro la schiena, non mi sentivo più circolare il sangue, mi hanno bendata e incappucciata e messa su un pulmino, dove mi pare ci fossero due uomini, mi hanno detto urlando che ero in uno stato di illegalità, ero sequestrata, nessuno sapeva del mio arresto. Se non parlavo, mi hanno detto che di me avrebbero trovato solo un cadavere. Mi hanno tolto tutti gli indumenti di sopra e a dorso nudo hanno iniziato a picchiarmi con botte sulle cosce, ai fianchi, sullo stomaco, e hanno iniziato a stringermi i capezzoli con non so cosa. Siamo arrivati non so dove, mi hanno messo un maglione addosso e sono scesa dal pulmino. Ho fatto delle scale strette, sempre incappucciata e mi hanno fatto entrare in una stanza. Lì sono stata denudata completamente, inveivano contro di me, dicendomi che ero una merda, una puttana, e mi hanno chiesto se mi facevo chiavare, io ho risposto da nessuno, allora sei una lesbica dicevano, e lo capiamo perché fai schifo al cazzo e nessuno ti chiaverebbe, ma adesso ti inculiamo noi. Questo è quello che mi dicevano in continuazione; mi hanno tenuto sempre in piedi, dandomi botte su tutto il corpo, ma quello che più mi distruggeva era il dolore che mi procuravano ai capezzoli, ripeto di nuovo non sono riuscita a capire sinceramente con cosa: poi  mi hanno fatto fumare una sigaretta, dopo due tirate ho sentito che mi si annebbiava il cervello, ad un certo punto mi sono ritrovata in una pozza di urina, in quel momento stavo seduta su una sedia, credo di essere svenuta più volte. Dimenticavo di dire che mi hanno passato delle cose calde sotto, in vagina e nell’ano, e mi hanno dato dei calci sempre in vagina con dei pizzichi lungo la spina dorsale.“  
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31 gennaio 1968: occupazione della facoltà di sociologia a Trento
La scintilla per l’occupazione a Trento fu la contestazione che gli studenti fecero nei confronti del rettore Mario Volpato, reazionario e autoritario. La contestazione porto alla convocazione di un assemblea generale fiume il tardo pomeriggio del 31 gennaio durata tutta la notte.  Riportiamo dal blog bodosproject “Così il due febbraio con due mesi di anticipo sul maggio francese, inizia l’occupazione più lunga della storia di questa università. Il movimento studentesco ormai padrone della situazione apre l’occupazione su quattro punti programmatici: 1) Lotta all’autoritarismo accademico e sviluppo del potere studentesco; 2) No al progetto di riforma universitaria, dell’allora ministro Gui; 3) Carta rivendicativa degli studenti; 4) Ristrutturazione del movimento studentesco. (La mozione è approvata con 237 voti favorevoli, 7 contrari, 12 astenuti) Il 3 febbraio l’agitazione si estende anche agli studenti medi. Anche i preti iscritti a sociologia dichiarano la loro solidarietà con gli occupanti; è solo il preludio di quello che avverrà tra poco quando numerosi preti abbandoneranno per sempre la tonaca. Il 6 dello stesso mese c’è un Convegno Nazionale Quadri dei vari movimenti studenteschi nazionali che si conclude con l’approvazione delle tesi antiautoritarie del “potere studentesco”. Mentre nei punti di accesso dell’università si ergono palizzate, sulla facciata esterna dell’edificio viene esteso un enorme striscione rosso con la scritta cubitale: POTERE STUDENTESCO. Mentre dal balcone sottostante del rettorato l’asta portabandiera del tricolore lascia sventolare un drappo rosso enorme, ai suoi due lati sventolano le bandiere del Vietnam e di Cuba. Nell’università non si entra né si esce senza regolare permesso e previa sommaria perquisizione. Sul portone d’ingresso aperto solo a metà stazionano con aria aggressiva studenti molto meno sgargianti del solito. Il colore tende al verdolino/grigio verde rotto appena da un fazzoletto rosso intorno al collo o legato a metà del bicipite generalmente sinistro; mentre le estremità di molti appaiono unificate in basso da stivaletti militari ed in alto da teste barbute con basco alla Guevara. Alcune scritte all’interno della Università: Non vale la pena di trovare un posto in questa società ma di creare una società in cui valga la pena di trovare un posto. Guarda “Trento – Il ’68 e le università italiane“: > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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