20 settembre 1920: Occupazione fabbriche nel biennio rossoA metà del 1920 la tensione rivoluzionaria in Italia era all’apice le
masse erano radicalizzate e disponibili alla battaglia decisiva.
Intanto, i primi mesi del 1920 erano trascorsi in un crescendo di
agitazioni molto radicali. La novità stava in un diverso
protagonismo della classe operaia attraverso i Consigli di
fabbrica che via via prendevano il posto delle vecchie Commissioni
interne, caratterizzate da una maggiore collaborazione fra datori e
prestatori di lavoro. I nuovi organismi, invece, esprimevano più
spiccatamente gli interessi dei lavoratori, e andavano via via
trasformandosi in embrioni di controllo operaio.
Gli industriali compresero presto che ciò che era in gioco era il potere
nella fabbrica. E lo espresse molto chiaramente l’industriale Olivetti
quando, nell’assemblea generale della Confindustria a Milano,
proclamò: «In officina non possono sussistere due poteri! I giornali
borghesi precisarono ulteriormente questo concetto, se mai ce ne
fosse stato bisogno: il quotidiano La Stampa scrisse che gli
industriali «sapendo di difendere non tanto la loro causa, quanto
quella dell’assetto sociale odierno, sono decisi a proseguire nel loro
atteggiamento fino alle estreme conseguenze». Gli industriali
passarono dunque dalla posizione più conciliativa tenuta l’anno
precedente a una molto più intransigente, esprimendosi apertamente
contro i Consigli di fabbrica e aspettando l’occasione per regolare i
conti.
Quest’occasione si presentò loro quando il governo fissò, a partire dal
21 marzo, l’inizio dell’ora legale.
Gli operai trovavano insopportabile essere costretti a uscire di casa
al buio, sicché il giorno seguente – siamo al 22 marzo – la Commissione
interna della Fiat decise di spostare le lancette dell’orologio
nuovamente sull’ora solare. Ciò che era in gioco non era una questione
d’orario, ma di potere nella fabbrica, e la direzione della Fiat, che lo
aveva compreso bene, non si lasciò sfuggire l’occasione e licenziò i tre
componenti dell’organismo. Immediatamente, i lavoratori scesero in
sciopero rivendicandone la riassunzione. Fu quello che venne
conosciuto come lo “sciopero delle lancette”.
Dopo un’intera giornata di sterili trattative, gli operai, stanchi del
tira e molla, occuparono la fabbrica. L’occupazione si estese anche a un
altro stabilimento della Fiat. Il 25 marzo, l’azienda riuscì a far
entrare da un ingresso secondario le forze dell’ordine che sgomberarono
la fabbrica. Il 27 marzo, per evitare che la proprietà attuasse la
serrata, gli operai decisero di rientrare al lavoro attuando però una
nuova forma di lotta, lo sciopero bianco, consistente nel rallentare
fortemente le operazioni mediante l’ostruzionismo, in modo da abbassare
di molto il tasso di produttività. L’azienda ne venne realmente
danneggiata, e così altre 44 officine meccaniche in cui venne attuato
lo stesso sciopero bianco in segno di solidarietà.
Ripresero le trattative, ma con una novità: esse furono avocate dal
segretario nazionale della Fiom, Bruno Buozzi, che volle così
esautorare di fatto il sindacato locale avendo ben compreso che il
nodo di fondo erano i poteri dei Consigli nelle fabbriche e, in senso
più generale, i rapporti fra gli ordinovisti torinesi di Gramsci e gli
organismi centrali del Partito socialista. Dopo giorni di
trattativa, il negoziato giunse a un punto morto. Sotto la spinta
della base operaia, il sindacato fu costretto controvoglia a
proclamare il 14 aprile lo sciopero generale. Si trattò del più lungo
e compatto sciopero mai verificatosi fino ad allora nella storia del
movimento operaio italiano.
La direzione politica del movimento venne affidata a un Comitato di
agitazione di fatto egemonizzato dagli ordinovisti. Frattanto,
Buozzi e altri sindacalisti non avevano interrotto per un solo momento
i contatti con la controparte padronale.
Gli ordinovisti avevano compreso che lo sciopero – che intanto il
giorno 19 aprile si era esteso a tutto il Piemonte coinvolgendo 500.000
lavoratori – non sarebbe potuto continuare all’infinito e si posero il
problema di unificare la lotta operaia con le agitazioni contadine
che negli stessi giorni si sviluppavano nella regione. Ma il
tentativo fallì per l’opposizione dei dirigenti del sindacato. A
questo punto, Gramsci e i suoi nutrirono l’ingenua illusione che il Psi
potesse emanare l’ordine dell’estensione a livello nazionale dello
sciopero. Figuriamoci se i dirigenti riformisti del partito
volevano una cosa del genere! Il Consiglio nazionale del Partito
socialista decise di inviare il segretario generale CGL D’Aragona, perché
intervenisse in prima persona.
Rimasta isolata la lotta, il braccio di ferro fra D’Aragona e il
Comitato di agitazione si concluse con l’affermazione del primo che
chiuse con gli industriali un accordo che sconfessava totalmente il
ruolo delle Commissioni interne e dei Consigli di fabbrica. Il 24
aprile lo sciopero fu revocato: il padronato aveva vinto con l’aiuto
dei dirigenti del movimento operaio.
Antonio Gramsci scriverà poi che la classe operaia torinese non era
uscita dalla lotta con la volontà spezzata.
Se ne accorse subito la borghesia che aveva cantato il de profundis del
movimento operaio preconizzando troppo presto la fine degli scioperi
politici. Infatti, il 1° maggio 1920, dopo soli sei giorni dalla
conclusione dello sciopero generale, il proletariato torinese
diede luogo a un’imponente manifestazione. Il corteo venne affrontato
dalla forza pubblica che sparò ad altezza d’uomo uccidendo due
lavoratori. Ma gli operai reagirono assaltando le camionette dei
carabinieri e, armi in pugno, si scontrarono con le forze di polizia
uccidendo un agente e ferendone molti altri.
La sconfitta dello sciopero di aprile rafforzò negli industriali la
convinzione che solo una posizione intransigente avrebbe impedito ai
lavoratori di rialzare la testa.
A partire dal 20 agosto, 400.000 metalmeccanici in tutta Italia
entrarono in lotta, dando vita a un’agitazione su tutto il territorio
nazionale.
L’ostruzionismo fu particolarmente efficace, tanto da far calare
drasticamente la produzione (alla Fiat Centro, dove lavoravano 15.000
operai, scese del 60%). E allora scattò la reazione padronale.
Il 30 agosto, a Milano, venne attuata la serrata nello stabilimento
della Romeo. Su ordine della Fiom, gli operai che ancora si trovavano
all’interno della fabbrica la occuparono. Lo stesso accadde
simultaneamente nei 300 stabilimenti di Milano. La richiesta degli
industriali al governo di intervento militare per far sgombrare le
fabbriche venne respinta: il primo ministro Giolitti, voleva evitare
un conflitto armato che temeva sarebbe potuto sfociare in una guerra
civile; ma confidava anche sul fatto che alla testa di quel grandioso
movimento vi erano dirigenti riformisti che non volevano che il
processo si estendesse dalle fabbriche ai centri nevralgici del
potere, telegrafi, telefoni, ferrovie, caserme, prefetture. Eppure,
quel movimento si allargò, nonostante e contro gli intenti
conciliativi della dirigenza riformista, dal triangolo industriale
del nord (Milano-Torino-Genova) all’Emilia, al Veneto, alla Toscana,
all’Umbria, fino alle città di Ancona, Roma, Napoli e Palermo. Nella sola
Torino quasi 150.000 furono gli occupanti, 100.000 a Genova, 600.000 in
tutta Italia quando anche officine non metallurgiche vennero
occupate. Spontaneamente, nel sud del Paese ripresero
massicciamente le occupazioni delle terre.
Una delle novità di questa lotta stava nella gestione operaia: fra lo
stupore degli industriali – che mai avrebbero immaginato che gli
operai fossero capaci di affrontare le difficoltà tecniche della
produzione – gli occupanti misero in piedi un gigantesco esperimento
di gestione operaia della fabbrica in un settore di primo piano
dell’economia capitalistica e facendo fronte al sabotaggio attivo degli
industriali, delle banche e dello Stato. A Torino venne creato un
comitato per centralizzare la produzione, gli scambi e le forniture
dei prodotti finiti. L’altro fatto nuovo del movimento di occupazione
era dato dalla difesa degli stabilimenti. In alcune delle officine si
fabbricarono bombe a mano, elmetti e parti staccate di armi. In altre,
gli operai si provvidero di mitragliatrici. Altrove si tentò di
costruire un autoblindo. Sui tetti delle fabbriche vennero installati
riflettori, molti accessi alle officine furono minati e controllati
da sistemi di segnalazione e allarme. Lo stabilimento della Fiat
Lingotto era difeso da una recinzione con corrente elettrica; quello
di Barriera di Nizza da un impianto ad aria compressa in grado di
sparare acido contenuto in un’enorme vasca. La difesa delle fabbriche
era in generale affidata alle Guardie rosse.
Le direzioni del sindacato e del partito, invece, volevano che la
vertenza uscisse dalla dimensione politica (che, al di là delle loro
intenzioni, aveva assunto) per ricondurla nei suoi limiti
rivendicativi economici.
Per questo il 9, 10 e 11 settembre, si svolsero delle drammatiche e
tese riunioni per individuare una soluzione alla vicenda. In altri
termini, si sarebbe dovuto decidere se l’agitazione in corso fosse
dovuta restare nel solco di una lotta sindacale; oppure, se essa avesse
dovuto estendersi per assumere la caratteristica di un movimento
insurrezionale.
In realtà, il fatto stesso che i destini di una rivoluzione venissero
affidati a una discussione così surreale dimostra, al di là di ogni
dubbio, la scarsa convinzione con cui la proposta insurrezionale era
sostenuta, non solo dalla direzione ma anche dalle componenti della
sinistra. Di fatto, tutti volevano soltanto uscire da una situazione
che li aveva posti spalle al muro.
Fu così che, quando la direzione riformista del sindacato,
dichiarandosi in disaccordo con l’insurrezione, minacciò le proprie
dimissioni in blocco e invitò la direzione del partito socialista ad
assumere la guida del movimento, quest’ultima intravide lo spiraglio
per uscire dalla difficile situazione: respingere le dimissioni
della direzione della CGL votando a maggioranza un ordine del giorno
che lasciava la gestione della vertenza al sindacato (cancellandone
dunque l’aspetto politico) e che di fatto metteva la parola fine alla
lotta in cambio del riconoscimento da parte padronale del principio
del controllo sindacale delle aziende.
Si trattava, naturalmente, di parole vuote. E lo capì benissimo
Giolitti, che fino a quel punto era rimasto totalmente estraneo alla
vertenza per timore che una repressione armata da parte dell’esercito
potesse scatenare la guerra civile.
Non appena vide che la prospettiva insurrezionale era stata
ufficialmente abbandonata dai socialisti, Giolitti rientrò in gioco
convocando fra le parti una riunione che si concluse il 20 settembre
con un accordo che sanciva la fine dell’occupazione delle fabbriche e
prevedeva alcuni miglioramenti economici e salariali per i
lavoratori e la promessa di incaricare una commissione di studio per
elaborare un disegno di legge sul controllo operaio.
Insomma, 600.000 operai occupavano le fabbriche, controllavano in
armi alcune grandi città, di fatto detenendo parzialmente il potere.
In quel settembre del 1920, la borghesia italiana visse quella che fu
definita “la grande paura”, la paura di perdere tutto. Fra tutti i
Paesi del continente europeo, fu in Italia, dunque, che si verificò il
più violento e pericoloso attacco al suo potere. Il biennio rosso fece
comprendere ai capitalisti che le vecchie classi dirigenti liberali
non erano più in grado di difendere i loro interessi.
Dopo l’accordo del 20 settembre, le occupazioni durarono ancora per una
decina di giorni, ma proprio in quel periodo si verificò il maggior
numero di scontri armati fra gli operai e le guardie regie, con morti da
entrambe le parti. Si trattò in realtà di una rabbiosa quanto disperata
reazione da parte delle avanguardie degli occupanti alla notizia della
stipula del concordato: l’idea di dover abbandonare le fabbriche che
con tanti sacrifici avevano tenuto – e senza aver conseguito alcun
reale avanzamento politico – appariva una beffa insopportabile.
Già durante la fase delle trattative fra sindacati, industriali e
governo, la maggior parte delle fabbriche si era espressa per il rifiuto
dell’ipotesi di accordo e per la continuazione dell’occupazione, mentre la
parte più arretrata degli operai pur non essendo soddisfatta del
concordato, votò per la sua accettazione subordinandola a due
pregiudiziali che i socialisti avevano elaborato: pagamento delle
giornate di occupazione e garanzia che la decisione finale sarebbe
stata demandata alle assemblee di fabbrica.
Antonio Gramsci il 1ottobre 1926 su L’Unità scrisse amaramente: “Come classe,
gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei
loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del
movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono
risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono
occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari
perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non
poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non
conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere
affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono
vergognosamente, protestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti
erano immaturi e incapaci, non la classe.”
Guarda “Il Biennio Rosso“:
da Infoaut
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