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Trieste, 27 ottobre 2006: Riccardo Rasman ucciso dalla polizia
Non era la prima volta che il ragazzo aveva dovuto subire le violenze di uomini in divisa. Classe 1972, Riccardo Rasman nel 1990 durante il servizio militare è vittima di efferate pratiche di nonnismo che oltre a segnarlo nel corpo ne intaccano anche la mente. Viene congedato e quando torna a casa gli diagnosticano una sindrome da schizofrenia paranoide. Il ragazzo sviluppa, più che comprensibilmente, una paura terribile per le divise che nel 1999 si rafforza quando sporge denuncia per le violenze subite all’interno della sua dimora da parte di due poliziotti, chiamati da un vicino a causa dell’alto volume della musica ascoltata dal ragazzo. Nell’ottobre del 2006 Riccardo, che è in cura da tempo presso il centro di salute di Domio (fatto noto alle forze dell’ordine), trova lavoro come netturbino. Per festeggiare l’imminente inizio del lavoro il 27, probabilmente in preda ad uno stato di agitazione psicofisica, ascolta di nuovo la musica ad alto volume e lancia due petardi nel cortile di casa. Dopo una segnalazione al 113 arriva la polizia. Riccardo ha paura e si trincera nella sua camera. I quattro agenti chiamano i vigili del fuoco che sfondano la porta dell’appartamento. Quando i poliziotti entrano in camera di Riccardo inizia una colluttazione che si conclude quando il ragazzo, dopo essere stato picchiato duramente, viene immobilizzato a terra con le caviglie legate col filo di ferro. Come verrà accertato in sede giudiziaria in ogni grado di giudizio, gli agenti lo tennero prono ed esercitarono pressione salendo sulla sua schiena. Dopo dieci minuti di agonia Riccardo morì per arresto cardiocircolatorio. Tre agenti furono condannati a sei mesi di reclusione, pena sospesa. La quarta fu assolta con formula dubitativa. Prima della violenza Rasman aveva scritto un biglietto trovato in cucina: “Per favore per cortesia vi prego non fatemi del male, non ho fatto niente di male.” (da Cronache Ribelli)
October 27, 2024 / Osservatorio Repressione
Lamezia Terme, 20 ottobre 1974: i fascisti uccidono Adelchi Agrada
Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare Comunista Rivoluzionario Calabrese” (FPCR) viene brutalmente ucciso dai fascisti. La mattina del 20 ottobre, di fronte al Comune di Lamezia, ci fu una manifestazione nell’ambito del Festival Provinciale dell’Avanti. Nella notte, scritte fasciste ingiuriose sui muri avevano provocato tensioni; fino ad arrivare alle mani, spinte, minacce: la questione però era destinata a non finire lì. Fu infatti alle 15.30 di quella domenica di ottobre che, i fratelli Argada, accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno dallo stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni Morello, disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi solo ventiquattro ore prima, quando avevano picchiato il fratello più piccolo, quattordici anni appena. E quattordici furono anche i colpi che riecheggiarono per le strade di Lamezia; quattro mortali indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e aiutare l’amico ferito da un colpo alla gamba. Il giorno dei funerali, trentamila furono le persone che scesero in piazza per salutare Sergio Adelchi Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e, per le orazioni, venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora montato nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente. Jovine, uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: “Conoscevamo Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti giovani costretto a una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli dei lavoratori, non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio”. Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte soltanto una pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più di qualche giornale conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel caso di Oscar Porchia e Michele De Fazio sostenere di avere sparato per difendersi non funzionò: imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di spostare la tesi processuale a Napoli, nel 1977 furono condannati rispettivamente a quindici anni e quattro mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione. (da InfoAut)   L'articolo Lamezia Terme, 20 ottobre 1974: i fascisti uccidono Adelchi Agrada sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 20, 2024 / Osservatorio Repressione
29 settembre 1944: la strage di Marzabotto
La mattina del 29 settembre ha inizio quella che verrà ricordata come la “strage di Marzabotto“, anche se in realtà i comuni interessati sono molti. Prima di muovere l’attacco ai partigiani, le SS accerchiano e rastrellano numerosi paesi: in località Caviglia i nazisti interrompono in una chiesa durante la recita del rosario e sterminano tutti i presenti (195 persone, tra cui 50 bambini) a colpi di mitraglia e bombe a mano, a Castellano uccidono una donna e i suoi sette figli, a Tagliadazza vengono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara le persone uccise sono 108. Le truppe si avvicinano ai centri abitati più grandi, Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno e sulla strada ogni casolare, ogni frazione, ogni località vengono rastrellate: nessuno viene risparmiato. Anche nei comuni lo sterminio procede senza sosta; sono distrutti 800 appartamenti, una cartiera, un risificio, strade, ponti, scuole, cimiteri, chiese, oratori, e tutti coloro che sono rastrellati vengono messi in gruppo, spesso legati, e bersagliati da raffiche di mitra, che vengono sparate in basso per avere la certezza di colpire anche i bambini. L’azione procede per sei giorni, fino al 5 ottobre: i partigiani della Stella Rossa tentano invano di contrastare la ferocia nazista, ma perdono il proprio comandante, Mario Musolesi, durante uno dei primi combattimenti, e comunque non dispongono delle armi e dei mezzi necessari per far fronte alle attrezzatissime truppe delle SS. Al termine della rappresaglia si contano, in tutta la zona del Monte Sole, circa 1830 morti, mentre pochissimi sono i sopravvissuti, che sono riusciti a nascondersi, o che sono rimasti per giorni sepolti sotto i corpi dei propri vicini, dei propri familiari. Tra i caduti, 95 hanno meno di 16 anni, 110 ne hanno meno di 10, e 45 meno di due anni; la vittima più giovane si chiama Walter Cardi, e aveva appena due settimane. Al termine della guerra il maggiore Reder fuggirà in Baviera, dove verrà catturato dagli americani: sarà estradato in Italia e, nel 1951, verrà condannato all’ergastolo. Nel 1985 verrà graziato, grazie all’intercessione del governo austriaco, e si trasferirà in Austria, dove morirà senza aver mai mostrato alcun segno di rimorso. Rimarrà comunque in ombra, in sede processuale, il ruolo di decine e decine di ufficiali e soldati delle SS, i veri e propri esecutori della strage, seppur l’identità di una parte dei responsabili sarà nota alla magistratura, che spesso deciderà di non dar seguito all’azione penale per motivi di opportunità politica internazionale. Nel 1961 verrà edificato un sacrario, che raccoglie i corpi di 782 delle vittime della strage. L'articolo 29 settembre 1944: la strage di Marzabotto sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 29, 2024 / Osservatorio Repressione
20 settembre 1920: Occupazione fabbriche nel biennio rosso
A metà del 1920 la ten­sio­ne rivo­lu­zio­na­ria in Ita­lia era all’apice le mas­se era­no radi­ca­liz­za­te e dispo­ni­bi­li alla bat­ta­glia deci­si­va. Intan­to, i pri­mi mesi del 1920 era­no tra­scor­si in un cre­scen­do di agi­ta­zio­ni mol­to radi­ca­li. La novi­tà sta­va in un diver­so pro­ta­go­ni­smo del­la clas­se ope­ra­ia attra­ver­so i Con­si­gli di fab­bri­ca che via via pren­de­va­no il posto del­le vec­chie Com­mis­sio­ni inter­ne, carat­te­riz­za­te da una maggiore col­la­bo­ra­zio­ne fra dato­ri e pre­sta­to­ri di lavo­ro. I nuo­vi orga­ni­smi, inve­ce, espri­me­va­no più spic­ca­ta­men­te gli inte­res­si dei lavo­ra­to­ri, e anda­va­no via via tra­sfor­man­do­si in embrio­ni di con­trol­lo ope­ra­io. Gli indu­stria­li com­pre­se­ro pre­sto che ciò che era in gio­co era il pote­re nel­la fab­bri­ca. E lo espres­se mol­to chia­ra­men­te l’industriale Oli­vet­ti quan­do, nell’assemblea gene­ra­le del­la Con­fin­du­stria a Mila­no, pro­cla­mò: «In offi­ci­na non pos­so­no sus­si­ste­re due pote­ri! I gior­na­li bor­ghe­si pre­ci­sa­ro­no ulte­rior­men­te que­sto con­cet­to, se mai ce ne fos­se sta­to biso­gno: il quo­ti­dia­no La Stam­pa scris­se che gli indu­stria­li «sapen­do di difen­de­re non tan­to la loro cau­sa, quan­to quel­la dell’assetto socia­le odier­no, sono deci­si a pro­se­gui­re nel loro atteg­gia­men­to fino alle estre­me con­se­guen­ze». Gli indu­stria­li pas­sa­ro­no dun­que dal­la posi­zio­ne più con­ci­lia­ti­va tenu­ta l’anno pre­ce­den­te a una mol­to più intran­si­gen­te, espri­men­do­si aper­ta­men­te con­tro i Con­si­gli di fab­bri­ca e aspet­tan­do l’occasione per rego­la­re i con­ti. Quest’occasione si pre­sen­tò loro quan­do il gover­no fis­sò, a par­ti­re dal 21 mar­zo, l’inizio dell’ora lega­le. Gli ope­rai tro­va­va­no insop­por­ta­bi­le esse­re costret­ti a usci­re di casa al buio, sic­ché il gior­no seguen­te – sia­mo al 22 mar­zo – la Com­mis­sio­ne inter­na del­la Fiat deci­se di spo­sta­re le lan­cet­te dell’orologio nuo­va­men­te sull’ora sola­re. Ciò che era in gio­co non era una que­stio­ne d’orario, ma di pote­re nel­la fab­bri­ca, e la dire­zio­ne del­la Fiat, che lo ave­va com­pre­so bene, non si lasciò sfug­gi­re l’occasione e licen­ziò i tre com­po­nen­ti dell’organismo. Imme­dia­ta­men­te, i lavo­ra­to­ri sce­se­ro in scio­pe­ro riven­di­can­do­ne la rias­sun­zio­ne. Fu quel­lo che ven­ne cono­sciu­to come lo “scio­pe­ro del­le lan­cet­te”. Dopo un’intera gior­na­ta di ste­ri­li trat­ta­ti­ve, gli ope­rai, stan­chi del tira e mol­la, occu­pa­ro­no la fab­bri­ca. L’occupazione si este­se anche a un altro sta­bi­li­men­to del­la Fiat. Il 25 mar­zo, l’azienda riu­scì a far entra­re da un ingres­so secon­da­rio le for­ze dell’ordine che sgom­be­ra­ro­no la fab­bri­ca. Il 27 mar­zo, per evi­ta­re che la pro­prie­tà attuas­se la ser­ra­ta, gli ope­rai deci­se­ro di rien­tra­re al lavo­ro attuan­do però una nuo­va for­ma di lot­ta, lo scio­pe­ro bian­co, con­si­sten­te nel ral­len­ta­re for­te­men­te le ope­ra­zio­ni median­te l’ostruzionismo, in modo da abbas­sa­re di mol­to il tas­so di pro­dut­ti­vi­tà. L’azienda ne ven­ne real­men­te dan­neg­gia­ta, e così altre 44 offi­ci­ne mec­ca­ni­che in cui ven­ne attua­to lo stes­so scio­pe­ro bian­co in segno di soli­da­rie­tà. Ripre­se­ro le trat­ta­ti­ve, ma con una novi­tà: esse furo­no avo­ca­te dal segre­ta­rio nazio­na­le del­la Fiom, Bru­no Buoz­zi, che vol­le così esau­to­ra­re di fat­to il sin­da­ca­to loca­le aven­do ben com­pre­so che il nodo di fon­do era­no i pote­ri dei Con­si­gli nel­le fab­bri­che e, in sen­so più gene­ra­le, i rap­por­ti fra gli ordi­no­vi­sti tori­ne­si di Gram­sci e gli orga­ni­smi cen­tra­li del Par­ti­to socia­li­sta. Dopo gior­ni di trat­ta­ti­va, il nego­zia­to giun­se a un pun­to mor­to. Sot­to la spin­ta del­la base ope­ra­ia, il sin­da­ca­to fu costret­to con­tro­vo­glia a pro­cla­ma­re il 14 apri­le lo scio­pe­ro gene­ra­le. Si trat­tò del più lun­go e com­pat­to scio­pe­ro mai veri­fi­ca­to­si fino ad allo­ra nel­la sto­ria del movi­men­to ope­ra­io ita­lia­no. La dire­zio­ne poli­ti­ca del movi­men­to ven­ne affi­da­ta a un Comi­ta­to di agi­ta­zio­ne di fat­to ege­mo­niz­za­to dagli ordi­no­vi­sti. Frat­tan­to, Buoz­zi e altri sin­da­ca­li­sti non ave­va­no inter­rot­to per un solo momen­to i con­tat­ti con la con­tro­par­te padro­na­le. Gli ordi­no­vi­sti ave­va­no com­pre­so che lo scio­pe­ro – che intan­to il gior­no 19 apri­le si era este­so a tut­to il Pie­mon­te coin­vol­gen­do 500.000 lavo­ra­to­ri – non sareb­be potu­to con­ti­nua­re all’infinito e si pose­ro il pro­ble­ma di uni­fi­ca­re la lot­ta ope­ra­ia con le agi­ta­zio­ni con­ta­di­ne che negli stes­si gior­ni si svi­lup­pa­va­no nel­la regio­ne. Ma il ten­ta­ti­vo fal­lì per l’opposizione dei diri­gen­ti del sin­da­ca­to. A que­sto pun­to, Gram­sci e i suoi nutri­ro­no l’ingenua illu­sio­ne che il Psi potes­se ema­na­re l’ordine dell’estensione a livel­lo nazio­na­le del­lo scio­pe­ro. Figu­ria­mo­ci se i diri­gen­ti rifor­mi­sti del par­ti­to vole­va­no una cosa del gene­re! Il Con­si­glio nazio­na­le del Par­ti­to socia­li­sta decise di inviare il segretario generale CGL D’Aragona, per­ché inter­ve­nis­se in pri­ma per­so­na. Rima­sta iso­la­ta la lot­ta, il brac­cio di fer­ro fra D’Aragona e il Comi­ta­to di agi­ta­zio­ne si con­clu­se con l’affermazione del pri­mo che chiu­se con gli indu­stria­li un accor­do che scon­fes­sa­va total­men­te il ruo­lo del­le Com­mis­sio­ni inter­ne e dei Con­si­gli di fab­bri­ca. Il 24 apri­le lo scio­pe­ro fu revo­ca­to: il padro­na­to ave­va vin­to con l’aiuto dei diri­gen­ti del movi­men­to ope­ra­io. Anto­nio Gram­sci scri­ve­rà poi che la clas­se ope­ra­ia tori­ne­se non era usci­ta dal­la lot­ta con la volon­tà spez­za­ta. Se ne accor­se subi­to la bor­ghe­sia che ave­va can­ta­to il de pro­fun­dis del movi­men­to ope­ra­io pre­co­niz­zan­do trop­po pre­sto la fine degli scio­pe­ri poli­ti­ci. Infat­ti, il 1° mag­gio 1920, dopo soli sei gior­ni dal­la con­clu­sio­ne del­lo scio­pe­ro gene­ra­le, il pro­le­ta­ria­to tori­ne­se die­de luo­go a un’imponente mani­fe­sta­zio­ne. Il cor­teo ven­ne affron­ta­to dal­la for­za pub­bli­ca che spa­rò ad altez­za d’uomo ucci­den­do due lavo­ra­to­ri. Ma gli ope­rai rea­gi­ro­no assal­tan­do le camio­net­te dei cara­bi­nie­ri e, armi in pugno, si scon­tra­ro­no con le for­ze di poli­zia ucci­den­do un agen­te e feren­do­ne mol­ti altri. La scon­fit­ta del­lo scio­pe­ro di apri­le raf­for­zò negli indu­stria­li la con­vin­zio­ne che solo una posi­zio­ne intran­si­gen­te avreb­be impe­di­to ai lavo­ra­to­ri di rial­za­re la testa. A par­ti­re dal 20 ago­sto, 400.000 metal­mec­ca­ni­ci in tut­ta Ita­lia entra­ro­no in lot­ta, dan­do vita a un’agitazione su tut­to il ter­ri­to­rio nazio­na­le. L’ostruzionismo fu par­ti­co­lar­men­te effi­ca­ce, tan­to da far cala­re dra­sti­ca­men­te la pro­du­zio­ne (alla Fiat Cen­tro, dove lavo­ra­va­no 15.000 ope­rai, sce­se del 60%). E allo­ra scat­tò la rea­zio­ne padro­na­le. Il 30 ago­sto, a Mila­no, ven­ne attua­ta la ser­ra­ta nel­lo sta­bi­li­men­to del­la Romeo. Su ordi­ne del­la Fiom, gli ope­rai che anco­ra si tro­va­va­no all’interno del­la fab­bri­ca la occu­pa­ro­no. Lo stes­so accad­de simul­ta­nea­men­te nei 300 sta­bi­li­men­ti di Mila­no. La richie­sta degli indu­stria­li al gover­no di inter­ven­to mili­ta­re per far sgom­bra­re le fab­bri­che ven­ne respin­ta: il pri­mo mini­stro Gio­lit­ti, vole­va evi­ta­re un con­flit­to arma­to che teme­va sareb­be potu­to sfo­cia­re in una guer­ra civi­le; ma con­fi­da­va anche sul fat­to che alla testa di quel gran­dio­so movi­men­to vi era­no diri­gen­ti rifor­mi­sti che non vole­va­no che il pro­ces­so si esten­des­se dal­le fab­bri­che ai cen­tri nevral­gi­ci del pote­re, tele­gra­fi, tele­fo­ni, fer­ro­vie, caser­me, pre­fet­tu­re. Eppu­re, quel movi­men­to si allar­gò, nono­stan­te e con­tro gli inten­ti con­ci­lia­ti­vi del­la diri­gen­za rifor­mi­sta, dal trian­go­lo indu­stria­le del nord (Mila­no-Tori­no-Geno­va) all’Emilia, al Vene­to, alla Tosca­na, all’Umbria, fino alle cit­tà di Anco­na, Roma, Napo­li e Paler­mo. Nel­la sola Tori­no qua­si 150.000 furo­no gli occu­pan­ti, 100.000 a Geno­va, 600.000 in tut­ta Ita­lia quan­do anche offi­ci­ne non metal­lur­gi­che ven­ne­ro occu­pa­te. Spon­ta­nea­men­te, nel sud del Pae­se ripre­se­ro mas­sic­cia­men­te le occu­pa­zio­ni del­le ter­re. Una del­le novi­tà di que­sta lot­ta sta­va nel­la gestio­ne ope­ra­ia: fra lo stu­po­re degli indu­stria­li – che mai avreb­be­ro imma­gi­na­to che gli ope­rai fos­se­ro capa­ci di affron­ta­re le dif­fi­col­tà tec­ni­che del­la pro­du­zio­ne – gli occu­pan­ti mise­ro in pie­di un gigan­te­sco espe­ri­men­to di gestio­ne ope­ra­ia del­la fab­bri­ca in un set­to­re di pri­mo pia­no dell’economia capi­ta­li­sti­ca e facen­do fron­te al sabo­tag­gio atti­vo degli indu­stria­li, del­le ban­che e del­lo Sta­to. A Tori­no ven­ne crea­to un comi­ta­to per cen­tra­liz­za­re la pro­du­zio­ne, gli scam­bi e le for­ni­tu­re dei pro­dot­ti fini­ti. L’altro fat­to nuo­vo del movi­men­to di occu­pa­zio­ne era dato dal­la dife­sa degli sta­bi­li­men­ti. In alcu­ne del­le offi­ci­ne si fab­bri­ca­ro­no bom­be a mano, elmet­ti e par­ti stac­ca­te di armi. In altre, gli ope­rai si prov­vi­de­ro di mitra­glia­tri­ci. Altro­ve si ten­tò di costrui­re un auto­blin­do. Sui tet­ti del­le fab­bri­che ven­ne­ro instal­la­ti riflet­to­ri, mol­ti acces­si alle offi­ci­ne furo­no mina­ti e con­trol­la­ti da siste­mi di segna­la­zio­ne e allar­me. Lo sta­bi­li­men­to del­la Fiat Lin­got­to era dife­so da una recin­zio­ne con cor­ren­te elet­tri­ca; quel­lo di Bar­rie­ra di Niz­za da un impian­to ad aria com­pres­sa in gra­do di spa­ra­re aci­do con­te­nu­to in un’enorme vasca. La dife­sa del­le fab­bri­che era in gene­ra­le affi­da­ta alle Guar­die rosse. Le dire­zio­ni del sin­da­ca­to e del par­ti­to, inve­ce, vole­va­no che la ver­ten­za uscis­se dal­la dimen­sio­ne poli­ti­ca (che, al di là del­le loro inten­zio­ni, ave­va assun­to) per ricon­dur­la nei suoi limi­ti riven­di­ca­ti­vi eco­no­mi­ci. Per que­sto il 9, 10 e 11 set­tem­bre, si svol­se­ro del­le dram­ma­ti­che e tese riu­nio­ni per indi­vi­dua­re una solu­zio­ne alla vicen­da. In altri ter­mi­ni, si sareb­be dovu­to deci­de­re se l’agitazione in cor­so fos­se dovu­ta resta­re nel sol­co di una lot­ta sin­da­ca­le; oppu­re, se essa aves­se dovu­to esten­der­si per assu­me­re la carat­te­ri­sti­ca di un movi­men­to insur­re­zio­na­le. In real­tà, il fat­to stes­so che i desti­ni di una rivo­lu­zio­ne venis­se­ro affi­da­ti a una discus­sio­ne così sur­rea­le dimo­stra, al di là di ogni dub­bio, la scar­sa con­vin­zio­ne con cui la pro­po­sta insur­re­zio­na­le era soste­nu­ta, non solo dal­la dire­zio­ne ma anche dal­le com­po­nen­ti del­la sini­stra. Di fat­to, tut­ti vole­va­no sol­tan­to usci­re da una situa­zio­ne che li ave­va posti spal­le al  muro. Fu così che, quan­do la dire­zio­ne rifor­mi­sta del sin­da­ca­to, dichia­ran­do­si in disac­cor­do con l’insurrezione, minac­ciò le pro­prie dimis­sio­ni in bloc­co e invi­tò la dire­zio­ne del par­ti­to socialista ad assu­me­re la gui­da del movi­men­to, quest’ultima intra­vi­de lo spi­ra­glio per usci­re dal­la dif­fi­ci­le situa­zio­ne: respin­ge­re le dimis­sio­ni del­la dire­zio­ne del­la CGL votan­do a mag­gio­ran­za un ordi­ne del gior­no che lascia­va la gestio­ne del­la ver­ten­za al sin­da­ca­to (can­cel­lan­do­ne dun­que l’aspetto poli­ti­co) e che di fat­to met­te­va la paro­la fine alla lot­ta in cam­bio del rico­no­sci­men­to da par­te padro­na­le del prin­ci­pio del con­trol­lo sin­da­ca­le del­le azien­de. Si trat­ta­va, natu­ral­men­te, di paro­le vuo­te. E lo capì benis­si­mo Gio­lit­ti, che fino a quel pun­to era rima­sto total­men­te estra­neo alla ver­ten­za per timo­re che una repres­sio­ne arma­ta da par­te dell’esercito potes­se sca­te­na­re la guer­ra civi­le. Non appe­na vide che la pro­spet­ti­va insur­re­zio­na­le era sta­ta uffi­cial­men­te abban­do­na­ta dai socia­li­sti, Gio­lit­ti rien­trò in gio­co con­vo­can­do fra le par­ti una riu­nio­ne che si con­clu­se il 20 set­tem­bre con un accor­do che san­ci­va la fine dell’occupazione del­le fab­bri­che e pre­ve­de­va alcu­ni miglio­ra­men­ti eco­no­mi­ci e sala­ria­li per i lavo­ra­to­ri e la pro­mes­sa di inca­ri­ca­re una com­mis­sio­ne di stu­dio per ela­bo­ra­re un dise­gno di leg­ge sul con­trol­lo ope­ra­io. Insom­ma, 600.000 ope­rai occu­pa­va­no le fab­bri­che, con­trol­la­va­no in armi alcu­ne gran­di cit­tà, di fat­to dete­nen­do par­zial­men­te il pote­re. In quel set­tem­bre del 1920, la bor­ghe­sia ita­lia­na vis­se quel­la che fu defi­ni­ta “la gran­de pau­ra”, la pau­ra di per­de­re tut­to. Fra tut­ti i Pae­si del con­ti­nen­te euro­peo, fu in Ita­lia, dun­que, che si veri­fi­cò il più vio­len­to e peri­co­lo­so attac­co al suo pote­re. Il bien­nio ros­so fece com­pren­de­re ai capi­ta­li­sti che le vec­chie clas­si diri­gen­ti libe­ra­li non era­no più in gra­do di difen­de­re i loro inte­res­si. Dopo l’accordo del 20 set­tem­bre, le occu­pa­zio­ni dura­ro­no anco­ra per una deci­na di gior­ni, ma pro­prio in quel perio­do si veri­fi­cò il mag­gior nume­ro di scon­tri arma­ti fra gli ope­rai e le guar­die regie, con mor­ti da entram­be le par­ti. Si trat­tò in real­tà di una rab­bio­sa quan­to dispe­ra­ta rea­zio­ne da par­te del­le avan­guar­die degli occu­pan­ti alla noti­zia del­la sti­pu­la del con­cor­da­to: l’idea di dover abban­do­na­re le fab­bri­che che con tan­ti sacri­fi­ci ave­va­no tenu­to – e sen­za aver con­se­gui­to alcun rea­le avan­za­men­to poli­ti­co – appa­ri­va una bef­fa insop­por­ta­bi­le. Già duran­te la fase del­le trat­ta­ti­ve fra sin­da­ca­ti, indu­stria­li e gover­no, la mag­gior par­te del­le fab­bri­che si era espres­sa per il rifiu­to dell’ipotesi di accor­do e per la con­ti­nua­zio­ne dell’occupazione, men­tre la par­te più arre­tra­ta degli ope­rai  pur non essen­do sod­di­sfat­ta del con­cor­da­to, votò per la sua accet­ta­zio­ne subor­di­nan­do­la a due pre­giu­di­zia­li che i socia­listi ave­va­no ela­bo­ra­to: paga­men­to del­le gior­na­te di occu­pa­zio­ne e garan­zia che la deci­sio­ne fina­le sareb­be sta­ta deman­da­ta alle assem­blee di fab­bri­ca. Antonio Gramsci il 1ottobre 1926 su L’Unità scrisse amaramente: “Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, protestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe.” Guarda “Il Biennio Rosso“: da Infoaut L'articolo 20 settembre 1920: Occupazione fabbriche nel biennio rosso sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 20, 2024 / Osservatorio Repressione
19 settembre 1952: Charlie Chaplin e la caccia alle streghe degli USA
Il maccartismo colpiva Charlie Chaplin, a cui viene impedito di rientrare negli USA dopo l’accusa di avere “simpatie comuniste”. Charles Chaplin nasce il 16 aprile del 1889 in un sobborgo di Londra. La madre, Hannah, è una modesta attrice di teatro costretta, anche perchè abbandonata dal marito a portare con sé il piccolo Charlie durante le sue esibizioni artistiche. Viste le difficoltà economiche in cui si arrabatta la madre, Charlie e suo fratello Sidney, vengono affidati per due anni ad un orfanotrofio. All’età di 6-7 anni svolge il suo primo spettacolo teatrale, in sostituzione della madre, nella quale cominciavano ad evidenziarsi i primi sintomi della malattia mentale che l’aveva colpita. Le difficoltà vissute durante l’infanzia sono però decisive per lo sviluppo del suo genio artistico: Chaplin dichiarerà di essere stato notevolmente influenzato dalla miseria vissuta, dall’osservazione della malattia della madre e da tutti quei strani personaggi che attraversavano le strade di Londra. A 14 anni inizia a lavorare stabilmente nei diversi teatri della città. La sua carriera è folgorante; comincia a girare per l’Europa e per gli USA, dove poi deciderà di risiedere, prima di venirne espulso per presunte attività comuniste. A 25 anni s’inventa Il personaggio attorno al quale costruì larga parte delle sue sceneggiature, e che gli diede fama universale, fu quello del “vagabondo” (The Tramp in inglese; Charlot in italiano): un omino dalle raffinate maniere e la dignità di un gentiluomo, vestito di una stretta giacchetta, pantaloni e scarpe più grandi della sua misura, una bombetta e un bastone da passeggio in bambù; tipici del personaggio erano anche i baffetti e l’andatura ondeggiante. L’emotività sentimentale e il malinconico disincanto di fronte alla spietatezza e alle ingiustizie della società moderna, fecero di Charlot l’emblema dell’alienazione umana – in particolare delle classi sociali più emarginate – nell’era del progresso economico e industriale. Nel 1936 realizzò il capolavoro Tempi Moderni, splendida descrizione dell’alienazione dell’operaio in epoca di capitalismo fordista. Evidenti in tale situazione le simpatie e la solidarietà espresse per la causa operaia, in un periodo in cui dilagavano i nazifascismi . E mondiale è il successo del film, tanto da far sospettare molti, sulle due sponde dell’Atlantico, di un Chaplin eccessivamente simpatizzante con la causa del “comunismo”. Nel febbraio 1939 il viceministro degli Esteri, Richard Austen Butler, chiede ai suoi uomini di indagare sul nuovo progetto cinematografico di Charlie Chaplin a Hollywood, “Il Dittatore”, una sferzante parodia su Adolf Hitler. Londra è in ansia: il premier britannico Neville Chamberlain sta attuando la politica dell’“appeasement” nei confronti della Germania nazista. I diplomatici del Consolato di Sua Maestà a Los Angeles avvicinano Chaplin a Hollywood. Riferiscono a Londra che si sta dedicando alla produzione della pellicola “con una foga che rasenta il fanatismo. Impressionano il suo odio e il suo disprezzo verso le personalità che intende mettere in satira. Il suo unico obiettivo consiste nel poter sferrare un attacco diretto a Hitler”. Si aggrappano addirittura a una legge britannica del 1917: “Non è consentito rappresentare sullo schermo personaggi viventi senza il loro consenso scritto.” Premono per poter visionare il copione prima dell’inizio delle riprese, in modo che la sceneggiatura definitiva non arrechi “offesa alcuna alla Germania”. Ma nel maggio del 1939, dalla California, gli inglesi gettano la spugna: “Riteniamo che andremmo incontro ad un immediato e definitivo rifiuto da parte di Chaplin se mai provassimo a suggerire delle modifiche al copione. E’ certo che non raggiungeremmo risultato alcuno.” L’attore reagisce pubblicamente, senza però menzionare le pressioni che arrivano da Londra: “Intimidazioni e censure non mi turbano affatto.” Durante l’estate l’Ente della censura britannica scrive: “Siamo stati molto chiari su ciò che è consentito e su ciò che non lo è. Di conseguenza Chaplin finirebbe per incolpare solo sè stesso se il film non dovesse superare l’esame della censura britannica. Sempre e quando decida di andare avanti con il suo progetto cinematografico.” Sarà solo con lo scoppio della guerra nel settembre 1939 che cambierà l’atteggiamento del governo britannico verso il film e l’autore, ora osannati da pubblico e critica. È però nel Secondo dopoguerra che Chaplin subisce le vere e proprie persecuzioni. Sono gli anni della caccia alle streghe, negli States il senatore Joseph Mc Carthy porta avanti una crociata anti comunista che prende di mira anche l’intellighenzia dell’industria cinematografica. L’Fbi, allora governata dal potente John Edgar Hoover, considerava Chaplin uno dei bolscevichi del salotto di Hollywood. Nel 1952, in occasione di una sua visita a Londra, un agente inglese di collegamento a Washington lancia l’allarme: secondo le ricostruzioni del Bureau americano, Chaplin aveva finanziato organizzazioni comuniste. Inoltre diversi aspetti della sua vita privata avevano suscitato clamore. I suoi due matrimoni, entrambi con ragazze di 16 anni, la decisione di adottare un figlio illegittimo e i suoi debiti con l’erario da 2 milioni di dollari. Soprattutto, faceva notare l’Fbi, Chaplin non volle mai acquisire la cittadinanza americana, nemmeno dopo aver vissuto 30 anni in quella che si auto-considerava la patria della libertà. L’MI5 scopre inoltre che una decina di anni prima (1942), a Los Angeles, Chaplin aveva presenziato a una riunione del Consiglio di amicizia sovietica americana. Invitato a sostituire un relatore aveva iniziato il suo discorso con un sospetto “Compagni…” Le parole pronunciate in quell’occasione, però, provavano le sue idee progressiste. Ciononostante Chaplin non mancò di affermare che «c’è molto di buono nel comunismo, […] possiamo utilizzare quello che c’è di buono e lasciare da parte il cattivo». In questo periodo da fervido anti-nazista, propugna l’alleanza con i sovietici. Gli 007 della Regina, allarmati, conclusero comunque che «può essere che Chaplin abbia simpatie comuniste, ma dalle informazioni a nostra disposizione non sembra che un progressista o un radicale». Altri elementi che resero Chaplin sospetto fu la partecipazione ai funerali dello scrittore comunista Dreiser nel ’45 e l’accusa di apologia di reato per Monsieur Verdoux. Nella parte finale del film infatti il sacerdote dice al protagonista colpevole di molteplici omicidi: “Possa il Signore avere pietà dell’anima tua”, e Verdoux replica: “Perchè no? In fin dei conti, gli appartiene”. I conservatori americani, tra cui i reduci cattolici, si scatenarono accusando Chaplin di essere irrispettoso e irriverente nei confronti della morale e della religione. Inquisito dalla Commissione per le attività anti-americane, accusato di filo-comunismo, perseguitato dal fisco, nel Chaplin scappa in Gran Bretagna, rifugiandosi poi successivamente (1962) in un tranquillo angolo della Svizzera. La condanna decisiva nei suoi confronti era arrivata infatti il 19 settembre del 1952. Chaplin e la sua nuova famiglia si erano imbarcati per l’Europa per quella che doveva essere una vacanza. Mentre si trovavano in mare il ministro della giustizia statunitense dispose per pubblico decreto che a Chaplin, in quanto cittadino britannico, non sarebbe stato permesso di rientrare nel paese a meno che non avesse convinto i funzionari dell’immigrazione di essere “idoneo”. Intanto però l’America scagliava i suoi anatemi contro il traditore, cercando di boiccottarlo in ogni maniera. Un esempio riguarda l’Italia: il 22 dicembre del 1952 Chaplin sbarca a Roma: scende dalla sua auto a pochi minuti dalle 22, davanti al teatro Sistina dove sta per assistere alla prima italiana del suo film Limelight, tradotto in Luci della ribalta. La gente che affolla la zona lo saluta, lo acclama. Chaplin risponde, si leva il cappello con il suo classico gesto di eleganza. In quel momento si odono delle urla: «Sporco ebreo», grida un nutrito gruppo di giovani. Poi un fitto lancio di pomodori marci, che costringono il regista a ripararsi nel Sistina. La gente si oppone alla contestazione, la polizia interviene fermando quattro ragazzi. Si tratta di un gruppo di fascisti. La violenta sceneggiata davanti al Sistina non era altro che una delle espressioni di boicottaggio che in quei giorni, e mesi, venivano manifestate nei confronti di Chaplin. L’Italia, peraltro, si copre di ridicolo oltremanica, a causa della cancellazione degli incontri, prima accordati poi annullati, dal presidente Einaudi e dal Papa. Il Governo italiano e il Vaticano erano stati costretti a fare marcia indietro sotto pressione dell’ambasciata americana a Roma. Il caso finisce negli editoriali dei giornali inglesi. Il quotidiano Star parla di «isteria e panico anticomunista», di «crescente interferenza degli Usa nella sovranità dei Paesi dell’Europa occidentale», di come il caso italiano ne sia «paradossale esempio». A ciò si aggiunge il grottesco episodio del rettore dell’Università di Roma, che rifiuta di accordargli una prevista Laurea honoris causa. Il suo film, dopo anni di persecuzioni da parte della censura, viene interdetto dai cinema della California, e in tutti gli Stati Uniti si scatena una campagna di odio nei confronti del comunista Chaplin. «Il comitato esecutivo nazionale della Legione americana – scrive il Los Angeles Herald Express nell’ottobre del ‘52 – ha fatto richiesta a tutti i distributori cinematografici di rifiutare il film di Chaplin, fino a quando il ministero della Giustizia non decida se concedere a Chaplin il permesso di fare ritorno dall’Inghilterra». Non sappiamo se Chaplin fosse effettivamente comunista o no. Il regista era certamente dichiaratamente pacifista e ateo (Geraldine Chaplin rivelò che né lei né i suoi fratelli erano stati battezzati: suo padre, Charlie, era così profondamente ateo da non aver loro trasmesso neppure la “nozione” di Dio), oltre che ferocemente critico contro il sistema capitalistico. Il suo «errore» era stato quello di criticare dall’interno un sistema, quello americano, che vedeva nella patria, in Dio e nella famiglia i cardini del «nuovo sogno» economico e politico. Il Comitato inquisitore riuscì però a rintracciare in Chaplin gli elementi di fede comunista che cercava con ossessione, grazie al fatto che in alcuni film, e discorsi pubblici, il regista aveva affermato di credere nella pace, e che questa si sarebbe dovuta ricercare insieme all’Urss, alleata nella sconfitta del nazismo. Chaplin, che degli Usa si definiva «un ospite pagante», si era inoltre schierato senza esitazioni in favore del ricorso avanzato da due sceneggiatori di Hollywood, processati perchè «comunisti», Howard Lawson e Dalton Trumbo, ed aveva partecipato ad una manifestazione per la pace insieme all’attrice Katherine Hepburn. Ce n’era abbastanza, per i torquemada statunitensi, per identificare Charlie Chaplin nel ruolo del «rosso» da combattere. La reazione di Chaplin si concretizzò con la commedia satirica A King In New York (1957), apologo sull’ipocrisia dell’”american way of life” e presa in giro del maccartismo. Nel film un re detronizzato fa la conoscenza di New York tramite un’intraprendente pubblicitaria: viene ripreso a sorpresa dalla televisione e prova anche un carosello pubblicitario; la giovane lo convince a cambiare faccia, ma il re non è contento della sua nuova faccia, che lo rende più giovane ma gli impedisce di sorridere. Un giorno commette l’errore di ospitare un bambino prodigio figlio di due sospetti comunisti; il re viene chiamato a comparire di fronte alla famigerata commissione per le attività anti-americane, e ne esce dopo aver innaffiato i membri con un idrante; ma il bambino, per salvare i genitori, è costretto a denunciarli. Il re torna in Europa disgustato. Chaplin morì la notte di Natale del 1977. La notizia, diffusa immediatamente dalle televisioni di tutto il mondo, ebbe grande risonanza e suscitò enorme emozione. Chaplin fu il primo artista occidentale commemorato dalla Cina comunista. Per noi è semplicemente un vero compagno che è riuscito a lottare per la libertà riuscendo a far cambiare le idee della gente in meglio con la forza di un sorriso.   “Charlie Chaplin-Discorso all’umanità (sottotitolato ita)”: da  Infoaut L'articolo 19 settembre 1952: Charlie Chaplin e la caccia alle streghe degli USA sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 19, 2024 / Osservatorio Repressione
28 agosto 1963 – “I have a dream”
L’indimenticabile “I have a dream”, ripetuto più volte all’inizio delle sue frasi. Forse nessuna anafora ha inciso sulla storia della pace come quella del discorso di Martin Luther King del 28 agosto 1963. L’anafora è una figura retorica che si basa sulla ripetizione di una o più parole all’inizio di frasi. “Io ho un sogno, […] L'articolo 28 agosto 1963 – “I have a dream” sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 28, 2024 / Osservatorio Repressione
Focene 27 agosto 2006 – I fascisti uccidono Renato Biagetti
Renato Biagetti, giovane attivista del centro sociale Acrobax di Roma, viene ucciso in un agguato fascista. Ha appena 26 anni ed è appena uscito da una festa reggae sul litorale romano di Focene. Chi lo ha ucciso lo ha aggredito con un coltello, ferendo anche altre due persone. “Una banale rissa tra balordi” diranno alcuni. […] L'articolo Focene 27 agosto 2006 – I fascisti uccidono Renato Biagetti sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 27, 2024 / Osservatorio Repressione
Parma, 25 agosto 1972: Mario Lupo, militante di Lotta Continua ucciso dai fascisti
Il giovane militante di Lotta Continua Mario Lupo viene accoltellato davanti a un cinema della città. A ucciderlo, una squadra di fascisti. Sono le dieci di sera del 25 agosto del 1972, una calda serata di agosto. Mariano Lupo, detto Mario, con altri suoi compagni, si avvia verso il cinema Roma, dove aveva un appuntamento. […] L'articolo Parma, 25 agosto 1972: Mario Lupo, militante di Lotta Continua ucciso dai fascisti sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 25, 2024 / Osservatorio Repressione
23 agosto 1927: Sacco e Vanzetti giustiziati da innocenti in America
Il 23 agosto del 1927 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono fatti sedere sulla sedia elettrica e giustiziati per un duplice omicidio che non avevano commesso. I due italiani aderivano al movimento anarchico e sostenevano le battaglie operaie, solo dopo 50 anni fu ristabilita la verità Il 23 agosto del 1927 la sedia elettrica poneva […] L'articolo 23 agosto 1927: Sacco e Vanzetti giustiziati da innocenti in America sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 23, 2024 / Osservatorio Repressione
19 agosto 1978: rivolta al carcere dell’Asinara
A seguito del rapimento del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, nel 1978, le condizioni dei detenuti politici nelle carceri italiane, soprattutto nelle “speciali”, peggiora sensibilmente. Dal mese di marzo in tutte le strutture carcerarie italiane pacchi portati dai familiari non possono più contenere carne cotta, salumi, formaggio, dentifricio e sigarette. In particolare, nel carcere […] L'articolo 19 agosto 1978: rivolta al carcere dell’Asinara sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 19, 2024 / Osservatorio Repressione