Le forze di polizia caricano il corteo organizzato dalla rete campana ‘No
global’ che sta contestando il Global Forum nella sua giornata conclusiva.
Il bilancio ufficiale è di 2 arrestati, 21 denunciati ed oltre 200 feriti,
compresi quelli di agenti. In aggiunta all’allarme anticipato dei servizi sui
vertici internazionali, un significativo comunicato del Siulp napoletano,
diffuso qualche giorno fa, accusava il movimento No global di essere
“fiancheggiatore, neanche troppo occulto, di un nuovo, diffuso e pericoloso
terrorismo” e il governo “di essere garantista solo nei confronti di chi viola
la legge”.
I No global denunciano pestaggi indiscriminati di persone disarmate, a mani
alzate o già a terra, in strada e poi torture e sevizie subite nella caserma
Raniero, mentre secondo il ministro dell’Interno Enzo Bianco la polizia ha fatto
soltanto il suo dovere.
Nel gennaio 2010 il Tribunale ha condannato 10 poliziotti èer gli abusi nei
confronti dei manifestanti compiuti nel corso del Global Forum del marzo 2001 e
nella caserma Raniero negli stessi giorni. Tra i condannati anche due funzionari
di polizia, ovvero Fabio Ciccimarra e Carlo Solimene. La pena inflitta ai due è
di due anni e otto mesi relativa al reato di sequestro di persona aggravato.
Pene varianti dai due anni e sei mesi ai due anni sono state emesse nei
confronti di otto agenti, mentre sono undici i poliziotti assolti. Per gli altri
dieci agenti coinvolti e per anche per diversi imputati condannati è stata
dichiarata la prescrizione dei reati minori, tra cui violenza privata e abuso di
ufficio.
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Il 26 febbraio 1982 il quotidiano LOTTA CONTINUA pubblica una lettera inviata al
proprio legale dalla brigatista Paola Maturi, arrestata a Roma il 1° febbraio,
nella quale la donna denuncia le torture subite in Questura dopo il suo arresto.
“La notte tra il 3 e il 4 febbraio sono entrati in cella, alcuni incappucciati e
uno a viso scoperto, mi hanno legato le mani dietro la schiena, non mi sentivo
più circolare il sangue, mi hanno bendata e incappucciata e messa su un pulmino,
dove mi pare ci fossero due uomini, mi hanno detto urlando che ero in uno stato
di illegalità, ero sequestrata, nessuno sapeva del mio arresto. Se non parlavo,
mi hanno detto che di me avrebbero trovato solo un cadavere. Mi hanno tolto
tutti gli indumenti di sopra e a dorso nudo hanno iniziato a picchiarmi con
botte sulle cosce, ai fianchi, sullo stomaco, e hanno iniziato a stringermi i
capezzoli con non so cosa.
Siamo arrivati non so dove, mi hanno messo un maglione addosso e sono scesa dal
pulmino. Ho fatto delle scale strette, sempre incappucciata e mi hanno fatto
entrare in una stanza. Lì sono stata denudata completamente, inveivano contro di
me, dicendomi che ero una merda, una puttana, e mi hanno chiesto se mi facevo
chiavare, io ho risposto da nessuno, allora sei una lesbica dicevano, e lo
capiamo perché fai schifo al cazzo e nessuno ti chiaverebbe, ma adesso ti
inculiamo noi. Questo è quello che mi dicevano in continuazione; mi hanno tenuto
sempre in piedi, dandomi botte su tutto il corpo, ma quello che più mi
distruggeva era il dolore che mi procuravano ai capezzoli, ripeto di nuovo non
sono riuscita a capire sinceramente con cosa: poi mi hanno fatto fumare una
sigaretta, dopo due tirate ho sentito che mi si annebbiava il cervello, ad un
certo punto mi sono ritrovata in una pozza di urina, in quel momento stavo
seduta su una sedia, credo di essere svenuta più volte.
Dimenticavo di dire che mi hanno passato delle cose calde sotto, in vagina e
nell’ano, e mi hanno dato dei calci sempre in vagina con dei pizzichi lungo la
spina dorsale.“
La scintilla per l’occupazione a Trento fu la contestazione che gli studenti
fecero nei confronti del rettore Mario Volpato, reazionario e autoritario. La
contestazione porto alla convocazione di un assemblea generale fiume il tardo
pomeriggio del 31 gennaio durata tutta la notte. Riportiamo dal blog
bodosproject “Così il due febbraio con due mesi di anticipo sul maggio francese,
inizia l’occupazione più lunga della storia di questa università.
Il movimento studentesco ormai padrone della situazione apre l’occupazione su
quattro punti programmatici:
1) Lotta all’autoritarismo accademico e sviluppo del potere studentesco;
2) No al progetto di riforma universitaria, dell’allora ministro Gui;
3) Carta rivendicativa degli studenti;
4) Ristrutturazione del movimento studentesco.
(La mozione è approvata con 237 voti favorevoli, 7 contrari, 12 astenuti)
Il 3 febbraio l’agitazione si estende anche agli studenti medi. Anche i preti
iscritti a sociologia dichiarano la loro solidarietà con gli occupanti; è solo
il preludio di quello che avverrà tra poco quando numerosi preti abbandoneranno
per sempre la tonaca. Il 6 dello stesso mese c’è un Convegno Nazionale Quadri
dei vari movimenti studenteschi nazionali che si conclude con l’approvazione
delle tesi antiautoritarie del “potere studentesco”. Mentre nei punti di accesso
dell’università si ergono palizzate, sulla facciata esterna dell’edificio viene
esteso un enorme striscione rosso con la scritta cubitale: POTERE STUDENTESCO.
Mentre dal balcone sottostante del rettorato l’asta portabandiera del tricolore
lascia sventolare un drappo rosso enorme, ai suoi due lati sventolano le
bandiere del Vietnam e di Cuba. Nell’università non si entra né si esce senza
regolare permesso e previa sommaria perquisizione. Sul portone d’ingresso aperto
solo a metà stazionano con aria aggressiva studenti molto meno sgargianti del
solito. Il colore tende al verdolino/grigio verde rotto appena da un fazzoletto
rosso intorno al collo o legato a metà del bicipite generalmente sinistro;
mentre le estremità di molti appaiono unificate in basso da stivaletti militari
ed in alto da teste barbute con basco alla Guevara.
Alcune scritte all’interno della Università:
Non vale la pena di trovare un posto in questa società ma di creare una società
in cui valga la pena di trovare un posto.
Guarda “Trento – Il ’68 e le università italiane“:
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I primi mesi del 1977 furono caratterizzati, in tutta Italia, da numerose
rivolte all’interno delle carceri e da un consistente numero di evasioni da
parte di militanti politici.
Tra queste si annovera quella di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, militanti
dei Nuclei Armati Proletari, avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 Gennaio;
grazie ad un’azione coordinata tra l’interno e l’esterno dell’edificio, le due
militanti riuscirono infatti ad evadere dal carcere femminile di Pozzuoli in cui
erano rinchiuse in attesa del processo.
Il progetto di fuga comprendeva inizialmente anche la terza compagna di cella
delle due Nappiste, Rosaria Sansica, la quale decise però di rinunciare perché
aveva ottenuto qualche tempo prima la libertà provvisoria per motivi di salute.
In quel periodo l’azione dei NAP era rivolta soprattutto alla liberazione dei
militanti arrestati e a far sì che i processi in cui erano coinvolti non
potessero aprirsi (obiettivo che veniva perseguito creando difficoltà a formare
la giuria popolare e tramite una serie di proclami e ricusazioni volti a
vanificare l’intero procedimento processuale), motivo per cui l’evasione fu
programmata in concomitanza con il primo processo ai NAP che si stava svolgendo
a Napoli, in cui erano imputate anche Franca Salerno e Maria Pia Vianale.
Questa linea d’azione venne tra l’altro ribadita nel comunicato diffuso
dall’organizzazione subito dopo la fuga dal carcere di Pozzuoli, in cui si
legge: “La nostra libertà come è dovere di ogni rivoluzionario ce la
riprenderemo da soli evadendo. Dalle carceri dai ghetti dove ci costringe la
società borghese usciremo con le nostre forze. L’evasione è un momento della
nostra lotta alla repressione di Stato”.
Il ciclo di evasioni e rivolte mise in difficoltà le autorità carcerarie che,
nel caso di Pozzuoli, licenziarono il Direttore del carcere nel tentativo di
ricondurre a una negligenza della direzione quella che in realtà era un’azione
politica su scala nazionale che non poteva non destare preoccupazione in chi
quotidianamente si affannava a garantire un ordine ormai ampiamente compromesso.
Il 24 Gennaio, in sede processuale, la fuga delle due Nappiste venne rivendicata
tramite la lettura del seguente comunicato: “Sabato 22 Gennaio, alle ore 4,
l’organizzazione comunista combattente NAP ha attaccato il carcere-lager di
Pozzuoli. L’azione tendente alla liberazione delle compagne Franca Salerno e
Maria Pia Vianale, militanti dell’organizzazione, si è sviluppata con un attacco
coordinato interno-esterno ed ha raggiunto in pieno l’obiettivo fissato…il
terreno reale dello scontro si sviluppa ora totalmente all’esterno dell’aula…è
solo sulla parola d’ordine “portare attacco al cuore dello Stato” che si supera
la parzialità delle esperienze di lotta armata e si ricompone l’unità della
classe delle sue avanguardie armate nel partito combattente”.
Il processo si protrasse fino al 16 Febbraio, data nella quale la Corte inflisse
289 anni e 11 mesi di carcere a 22 nappisti (nonostante molti degli imputati si
fossero dichiarati non appartenenti all’organizzazione).
Al dato delle condanne va però affiancato il percepibile clima di sfiducia nei
confronti delle istituzioni che permeò l’aula per l’intera istruttoria:
l’evasione di Franca Salerno e Maria Pia Vianale, infatti, non aveva certo
contribuito a ristabilire la certezza dell’ordine e della legge.
Le due militanti, sfuggite alle condanne di Febbraio, furono però nuovamente
catturate il 1 Luglio, a Roma, assieme ad Antonio Lo Muscio, che rimase ucciso
durante l’arresto in seguito ad una pallottola sparata a bruciapelo dalla
polizia che lo raggiunse alla testa mentre si trovava già a terra.
Franca Salerno e Maria Pia Vianale furono invece rispettivamente condannate a 7
anni e 5 mesi ed a 13 anni e 5 mesi.
Il clima di tensione, di “caccia all’uomo” e di violenza gratuita da parte degli
agenti che caratterizzò le circostanze del loro arresto (nonché altri episodi) è
ben descritto in un’intervista rilasciata da Franca Salerno alcuni anni dopo:
“Sì, loro ti cercano, ti pedinano e quando ti catturano ti massacrano di botte.
Per quei tempi era normale. Gridavano: “Ammazziamole, facciamole fuori”. Se non
ci fosse stata la gente a guardare dalle finestre sarebbe stata un’esecuzione. A
Pia hanno sparato perché si era mossa. Ricordo i loro occhi, dentro c’era rabbia
e eccitazione; erano fuori di sé perché eravamo donne. Averci prese, per loro,
era una vittoria anche dal punto di vista maschile“.
Guarda “In un Antico Palazzo“:
da InfoAut
La mafia agraria uccide a colpi di mitra il segretario della locale Camera del
Lavoro Accursio Miraglia, nei giorni successivi anche a Ficarazzi e Partinico,
in provincia di Palermo, vengono assassinati i dirigenti sindacali Macchiarella
e Silvia
Non erano anni facili in un’Italia che cercava di iniziare a riprendersi dalla
seconda guerra mondiale. Tanto più lo era per il popolo siciliano, la
maggioranza dei contadini e contadine continuavano ad essere costretti a fare i
conti con uno Stato assente e con il pericoloso mix latifondisti-mafiosi, che da
sempre costringevano alla fame e alla miseria il popolo siciliano, privandolo
dei più elementari diritti. Diverse sono state le vittime di quegli interessi
che sono finite sotto i colpi di lupara, colpa spesso anche di un
collaborazionismo dello Stato e delle sue istituzioni. Questo Accursio lo sapeva
bene, ed ogni volta che lo minacciavano oppure che qualcuno lo esortasse a farsi
gli affari propri, erano solito parafrasare le parole del rivoluzionario
Emiliano Zapata: “Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio.”
Dirigente del Partito Comunista e segretario della Camera del Lavoro di Sciacca,
da qualche tempo si stava battendo per l’attuazione dei Decreti Gullio sulla
concezione alle cooperative contadine delle terre incolte o mal coltivate.
Insieme a centinaia braccianti e poveri contadini, il 5 novembre 1945 costituì
una cooperativa che prese il nome di “Madre Terra”. In questo modo riuscì a far
assegnare a essa diversi ettari di buona terra.
Il suo impegno era diventato sempre più una spina nel fianco del latifondismo
agrario e della mafia, i quali scelsero presto di eliminarlo, in quanto le
continue rivendicazioni delle terre erano un chiaro attacco alla proprietà
privata e al potere che essi esercitavano.
Il 4 gennaio 1947, verso le 21 e trenta, Accursio Miraglia era appena uscito dai
locali della sezione comunista per tornare a casa. A “scortarlo” c’erano quattro
compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro
Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa
si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due,
invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo
salutarono e ritornarono indietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio
fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti
contro Miraglia. La Monica ritornò indietro e vide un giovane, piuttosto esile,
di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga,
dalla quale fece partire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo
alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pubblica, e, dopo aver
sparato, si allontanò di corsa verso l’uscita del paese. La stessa scena fu
vista da Aquilino.
Miraglia morì all’età di 51 anni riverso sulla porta della propria abitazione,
tra le braccia della giovane moglie russa, Tatiana Klimenko. Di corsa, erano
arrivati La Monica e Aquilino.
Non solo la città di Sciacca volle salutare quella persona che non li aveva mai
traditi, rifiutando di piegarsi alla mafia e agli agrari ma da tutta la Sicilia
arrivarono contadini, braccianti, sindacalisti, comunisti. Tanto che si dovette
aspettare una settimana per celebrare i funerali.
L’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione. I
preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto
ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni
ed imponenti. In Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per dieci minuti. In
Italia, per cinque. In tutte le fabbriche suonarono le sirene.
Non era la prima volta che il ragazzo aveva dovuto subire le violenze di uomini
in divisa.
Classe 1972, Riccardo Rasman nel 1990 durante il servizio militare è vittima di
efferate pratiche di nonnismo che oltre a segnarlo nel corpo ne intaccano anche
la mente.
Viene congedato e quando torna a casa gli diagnosticano una sindrome da
schizofrenia paranoide. Il ragazzo sviluppa, più che comprensibilmente, una
paura terribile per le divise che nel 1999 si rafforza quando sporge denuncia
per le violenze subite all’interno della sua dimora da parte di due poliziotti,
chiamati da un vicino a causa dell’alto volume della musica ascoltata dal
ragazzo.
Nell’ottobre del 2006 Riccardo, che è in cura da tempo presso il centro di
salute di Domio (fatto noto alle forze dell’ordine), trova lavoro come
netturbino. Per festeggiare l’imminente inizio del lavoro il 27, probabilmente
in preda ad uno stato di agitazione psicofisica, ascolta di nuovo la musica ad
alto volume e lancia due petardi nel cortile di casa. Dopo una segnalazione al
113 arriva la polizia.
Riccardo ha paura e si trincera nella sua camera. I quattro agenti chiamano i
vigili del fuoco che sfondano la porta dell’appartamento. Quando i poliziotti
entrano in camera di Riccardo inizia una colluttazione che si conclude quando il
ragazzo, dopo essere stato picchiato duramente, viene immobilizzato a terra con
le caviglie legate col filo di ferro.
Come verrà accertato in sede giudiziaria in ogni grado di giudizio, gli agenti
lo tennero prono ed esercitarono pressione salendo sulla sua schiena. Dopo dieci
minuti di agonia Riccardo morì per arresto cardiocircolatorio.
Tre agenti furono condannati a sei mesi di reclusione, pena sospesa. La quarta
fu assolta con formula dubitativa.
Prima della violenza Rasman aveva scritto un biglietto trovato in cucina: “Per
favore per cortesia vi prego non fatemi del male, non ho fatto niente di male.”
(da Cronache Ribelli)
Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare Comunista
Rivoluzionario Calabrese” (FPCR) viene brutalmente ucciso dai fascisti.
La mattina del 20 ottobre, di fronte al Comune di Lamezia, ci fu una
manifestazione nell’ambito del Festival Provinciale dell’Avanti.
Nella notte, scritte fasciste ingiuriose sui muri avevano provocato tensioni;
fino ad arrivare alle mani, spinte, minacce: la questione però era destinata a
non finire lì.
Fu infatti alle 15.30 di quella domenica di ottobre che, i fratelli Argada,
accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno dallo
stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni Morello,
disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi solo ventiquattro
ore prima, quando avevano picchiato il fratello più piccolo, quattordici anni
appena.
E quattordici furono anche i colpi che riecheggiarono per le strade di Lamezia;
quattro mortali indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e
aiutare l’amico ferito da un colpo alla gamba.
Il giorno dei funerali, trentamila furono le persone che scesero in piazza per
salutare Sergio Adelchi Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e,
per le orazioni, venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora
montato nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
Jovine, uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: “Conoscevamo Adelchi
Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte
degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti
giovani costretto a una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli
dei lavoratori, non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una
scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in
cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio”.
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte soltanto una
pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più di qualche giornale
conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel caso di Oscar Porchia e
Michele De Fazio sostenere di avere sparato per difendersi non funzionò:
imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di spostare la tesi processuale a
Napoli, nel 1977 furono condannati rispettivamente a quindici anni e quattro
mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione. (da InfoAut)
L'articolo Lamezia Terme, 20 ottobre 1974: i fascisti uccidono Adelchi Agrada
sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
La mattina del 29 settembre ha inizio quella che verrà ricordata come la “strage
di Marzabotto“, anche se in realtà i comuni interessati sono molti. Prima di
muovere l’attacco ai partigiani, le SS accerchiano e rastrellano numerosi paesi:
in località Caviglia i nazisti interrompono in una chiesa durante la recita del
rosario e sterminano tutti i presenti (195 persone, tra cui 50 bambini) a colpi
di mitraglia e bombe a mano, a Castellano uccidono una donna e i suoi sette
figli, a Tagliadazza vengono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara le
persone uccise sono 108.
Le truppe si avvicinano ai centri abitati più grandi, Marzabotto, Grizzano e
Vado di Monzuno e sulla strada ogni casolare, ogni frazione, ogni località
vengono rastrellate: nessuno viene risparmiato.
Anche nei comuni lo sterminio procede senza sosta; sono distrutti 800
appartamenti, una cartiera, un risificio, strade, ponti, scuole, cimiteri,
chiese, oratori, e tutti coloro che sono rastrellati vengono messi in gruppo,
spesso legati, e bersagliati da raffiche di mitra, che vengono sparate in basso
per avere la certezza di colpire anche i bambini.
L’azione procede per sei giorni, fino al 5 ottobre: i partigiani della Stella
Rossa tentano invano di contrastare la ferocia nazista, ma perdono il proprio
comandante, Mario Musolesi, durante uno dei primi combattimenti, e comunque non
dispongono delle armi e dei mezzi necessari per far fronte alle attrezzatissime
truppe delle SS.
Al termine della rappresaglia si contano, in tutta la zona del Monte Sole, circa
1830 morti, mentre pochissimi sono i sopravvissuti, che sono riusciti a
nascondersi, o che sono rimasti per giorni sepolti sotto i corpi dei propri
vicini, dei propri familiari.
Tra i caduti, 95 hanno meno di 16 anni, 110 ne hanno meno di 10, e 45 meno di
due anni; la vittima più giovane si chiama Walter Cardi, e aveva appena due
settimane.
Al termine della guerra il maggiore Reder fuggirà in Baviera, dove verrà
catturato dagli americani: sarà estradato in Italia e, nel 1951, verrà
condannato all’ergastolo. Nel 1985 verrà graziato, grazie all’intercessione del
governo austriaco, e si trasferirà in Austria, dove morirà senza aver mai
mostrato alcun segno di rimorso.
Rimarrà comunque in ombra, in sede processuale, il ruolo di decine e decine di
ufficiali e soldati delle SS, i veri e propri esecutori della strage, seppur
l’identità di una parte dei responsabili sarà nota alla magistratura, che spesso
deciderà di non dar seguito all’azione penale per motivi di opportunità politica
internazionale.
Nel 1961 verrà edificato un sacrario, che raccoglie i corpi di 782 delle vittime
della strage.
L'articolo 29 settembre 1944: la strage di Marzabotto sembra essere il primo su
Osservatorio Repressione.
A metà del 1920 la tensione rivoluzionaria in Italia era all’apice le
masse erano radicalizzate e disponibili alla battaglia decisiva.
Intanto, i primi mesi del 1920 erano trascorsi in un crescendo di
agitazioni molto radicali. La novità stava in un diverso
protagonismo della classe operaia attraverso i Consigli di
fabbrica che via via prendevano il posto delle vecchie Commissioni
interne, caratterizzate da una maggiore collaborazione fra datori e
prestatori di lavoro. I nuovi organismi, invece, esprimevano più
spiccatamente gli interessi dei lavoratori, e andavano via via
trasformandosi in embrioni di controllo operaio.
Gli industriali compresero presto che ciò che era in gioco era il potere
nella fabbrica. E lo espresse molto chiaramente l’industriale Olivetti
quando, nell’assemblea generale della Confindustria a Milano,
proclamò: «In officina non possono sussistere due poteri! I giornali
borghesi precisarono ulteriormente questo concetto, se mai ce ne
fosse stato bisogno: il quotidiano La Stampa scrisse che gli
industriali «sapendo di difendere non tanto la loro causa, quanto
quella dell’assetto sociale odierno, sono decisi a proseguire nel loro
atteggiamento fino alle estreme conseguenze». Gli industriali
passarono dunque dalla posizione più conciliativa tenuta l’anno
precedente a una molto più intransigente, esprimendosi apertamente
contro i Consigli di fabbrica e aspettando l’occasione per regolare i
conti.
Quest’occasione si presentò loro quando il governo fissò, a partire dal
21 marzo, l’inizio dell’ora legale.
Gli operai trovavano insopportabile essere costretti a uscire di casa
al buio, sicché il giorno seguente – siamo al 22 marzo – la Commissione
interna della Fiat decise di spostare le lancette dell’orologio
nuovamente sull’ora solare. Ciò che era in gioco non era una questione
d’orario, ma di potere nella fabbrica, e la direzione della Fiat, che lo
aveva compreso bene, non si lasciò sfuggire l’occasione e licenziò i tre
componenti dell’organismo. Immediatamente, i lavoratori scesero in
sciopero rivendicandone la riassunzione. Fu quello che venne
conosciuto come lo “sciopero delle lancette”.
Dopo un’intera giornata di sterili trattative, gli operai, stanchi del
tira e molla, occuparono la fabbrica. L’occupazione si estese anche a un
altro stabilimento della Fiat. Il 25 marzo, l’azienda riuscì a far
entrare da un ingresso secondario le forze dell’ordine che sgomberarono
la fabbrica. Il 27 marzo, per evitare che la proprietà attuasse la
serrata, gli operai decisero di rientrare al lavoro attuando però una
nuova forma di lotta, lo sciopero bianco, consistente nel rallentare
fortemente le operazioni mediante l’ostruzionismo, in modo da abbassare
di molto il tasso di produttività. L’azienda ne venne realmente
danneggiata, e così altre 44 officine meccaniche in cui venne attuato
lo stesso sciopero bianco in segno di solidarietà.
Ripresero le trattative, ma con una novità: esse furono avocate dal
segretario nazionale della Fiom, Bruno Buozzi, che volle così
esautorare di fatto il sindacato locale avendo ben compreso che il
nodo di fondo erano i poteri dei Consigli nelle fabbriche e, in senso
più generale, i rapporti fra gli ordinovisti torinesi di Gramsci e gli
organismi centrali del Partito socialista. Dopo giorni di
trattativa, il negoziato giunse a un punto morto. Sotto la spinta
della base operaia, il sindacato fu costretto controvoglia a
proclamare il 14 aprile lo sciopero generale. Si trattò del più lungo
e compatto sciopero mai verificatosi fino ad allora nella storia del
movimento operaio italiano.
La direzione politica del movimento venne affidata a un Comitato di
agitazione di fatto egemonizzato dagli ordinovisti. Frattanto,
Buozzi e altri sindacalisti non avevano interrotto per un solo momento
i contatti con la controparte padronale.
Gli ordinovisti avevano compreso che lo sciopero – che intanto il
giorno 19 aprile si era esteso a tutto il Piemonte coinvolgendo 500.000
lavoratori – non sarebbe potuto continuare all’infinito e si posero il
problema di unificare la lotta operaia con le agitazioni contadine
che negli stessi giorni si sviluppavano nella regione. Ma il
tentativo fallì per l’opposizione dei dirigenti del sindacato. A
questo punto, Gramsci e i suoi nutrirono l’ingenua illusione che il Psi
potesse emanare l’ordine dell’estensione a livello nazionale dello
sciopero. Figuriamoci se i dirigenti riformisti del partito
volevano una cosa del genere! Il Consiglio nazionale del Partito
socialista decise di inviare il segretario generale CGL D’Aragona, perché
intervenisse in prima persona.
Rimasta isolata la lotta, il braccio di ferro fra D’Aragona e il
Comitato di agitazione si concluse con l’affermazione del primo che
chiuse con gli industriali un accordo che sconfessava totalmente il
ruolo delle Commissioni interne e dei Consigli di fabbrica. Il 24
aprile lo sciopero fu revocato: il padronato aveva vinto con l’aiuto
dei dirigenti del movimento operaio.
Antonio Gramsci scriverà poi che la classe operaia torinese non era
uscita dalla lotta con la volontà spezzata.
Se ne accorse subito la borghesia che aveva cantato il de profundis del
movimento operaio preconizzando troppo presto la fine degli scioperi
politici. Infatti, il 1° maggio 1920, dopo soli sei giorni dalla
conclusione dello sciopero generale, il proletariato torinese
diede luogo a un’imponente manifestazione. Il corteo venne affrontato
dalla forza pubblica che sparò ad altezza d’uomo uccidendo due
lavoratori. Ma gli operai reagirono assaltando le camionette dei
carabinieri e, armi in pugno, si scontrarono con le forze di polizia
uccidendo un agente e ferendone molti altri.
La sconfitta dello sciopero di aprile rafforzò negli industriali la
convinzione che solo una posizione intransigente avrebbe impedito ai
lavoratori di rialzare la testa.
A partire dal 20 agosto, 400.000 metalmeccanici in tutta Italia
entrarono in lotta, dando vita a un’agitazione su tutto il territorio
nazionale.
L’ostruzionismo fu particolarmente efficace, tanto da far calare
drasticamente la produzione (alla Fiat Centro, dove lavoravano 15.000
operai, scese del 60%). E allora scattò la reazione padronale.
Il 30 agosto, a Milano, venne attuata la serrata nello stabilimento
della Romeo. Su ordine della Fiom, gli operai che ancora si trovavano
all’interno della fabbrica la occuparono. Lo stesso accadde
simultaneamente nei 300 stabilimenti di Milano. La richiesta degli
industriali al governo di intervento militare per far sgombrare le
fabbriche venne respinta: il primo ministro Giolitti, voleva evitare
un conflitto armato che temeva sarebbe potuto sfociare in una guerra
civile; ma confidava anche sul fatto che alla testa di quel grandioso
movimento vi erano dirigenti riformisti che non volevano che il
processo si estendesse dalle fabbriche ai centri nevralgici del
potere, telegrafi, telefoni, ferrovie, caserme, prefetture. Eppure,
quel movimento si allargò, nonostante e contro gli intenti
conciliativi della dirigenza riformista, dal triangolo industriale
del nord (Milano-Torino-Genova) all’Emilia, al Veneto, alla Toscana,
all’Umbria, fino alle città di Ancona, Roma, Napoli e Palermo. Nella sola
Torino quasi 150.000 furono gli occupanti, 100.000 a Genova, 600.000 in
tutta Italia quando anche officine non metallurgiche vennero
occupate. Spontaneamente, nel sud del Paese ripresero
massicciamente le occupazioni delle terre.
Una delle novità di questa lotta stava nella gestione operaia: fra lo
stupore degli industriali – che mai avrebbero immaginato che gli
operai fossero capaci di affrontare le difficoltà tecniche della
produzione – gli occupanti misero in piedi un gigantesco esperimento
di gestione operaia della fabbrica in un settore di primo piano
dell’economia capitalistica e facendo fronte al sabotaggio attivo degli
industriali, delle banche e dello Stato. A Torino venne creato un
comitato per centralizzare la produzione, gli scambi e le forniture
dei prodotti finiti. L’altro fatto nuovo del movimento di occupazione
era dato dalla difesa degli stabilimenti. In alcune delle officine si
fabbricarono bombe a mano, elmetti e parti staccate di armi. In altre,
gli operai si provvidero di mitragliatrici. Altrove si tentò di
costruire un autoblindo. Sui tetti delle fabbriche vennero installati
riflettori, molti accessi alle officine furono minati e controllati
da sistemi di segnalazione e allarme. Lo stabilimento della Fiat
Lingotto era difeso da una recinzione con corrente elettrica; quello
di Barriera di Nizza da un impianto ad aria compressa in grado di
sparare acido contenuto in un’enorme vasca. La difesa delle fabbriche
era in generale affidata alle Guardie rosse.
Le direzioni del sindacato e del partito, invece, volevano che la
vertenza uscisse dalla dimensione politica (che, al di là delle loro
intenzioni, aveva assunto) per ricondurla nei suoi limiti
rivendicativi economici.
Per questo il 9, 10 e 11 settembre, si svolsero delle drammatiche e
tese riunioni per individuare una soluzione alla vicenda. In altri
termini, si sarebbe dovuto decidere se l’agitazione in corso fosse
dovuta restare nel solco di una lotta sindacale; oppure, se essa avesse
dovuto estendersi per assumere la caratteristica di un movimento
insurrezionale.
In realtà, il fatto stesso che i destini di una rivoluzione venissero
affidati a una discussione così surreale dimostra, al di là di ogni
dubbio, la scarsa convinzione con cui la proposta insurrezionale era
sostenuta, non solo dalla direzione ma anche dalle componenti della
sinistra. Di fatto, tutti volevano soltanto uscire da una situazione
che li aveva posti spalle al muro.
Fu così che, quando la direzione riformista del sindacato,
dichiarandosi in disaccordo con l’insurrezione, minacciò le proprie
dimissioni in blocco e invitò la direzione del partito socialista ad
assumere la guida del movimento, quest’ultima intravide lo spiraglio
per uscire dalla difficile situazione: respingere le dimissioni
della direzione della CGL votando a maggioranza un ordine del giorno
che lasciava la gestione della vertenza al sindacato (cancellandone
dunque l’aspetto politico) e che di fatto metteva la parola fine alla
lotta in cambio del riconoscimento da parte padronale del principio
del controllo sindacale delle aziende.
Si trattava, naturalmente, di parole vuote. E lo capì benissimo
Giolitti, che fino a quel punto era rimasto totalmente estraneo alla
vertenza per timore che una repressione armata da parte dell’esercito
potesse scatenare la guerra civile.
Non appena vide che la prospettiva insurrezionale era stata
ufficialmente abbandonata dai socialisti, Giolitti rientrò in gioco
convocando fra le parti una riunione che si concluse il 20 settembre
con un accordo che sanciva la fine dell’occupazione delle fabbriche e
prevedeva alcuni miglioramenti economici e salariali per i
lavoratori e la promessa di incaricare una commissione di studio per
elaborare un disegno di legge sul controllo operaio.
Insomma, 600.000 operai occupavano le fabbriche, controllavano in
armi alcune grandi città, di fatto detenendo parzialmente il potere.
In quel settembre del 1920, la borghesia italiana visse quella che fu
definita “la grande paura”, la paura di perdere tutto. Fra tutti i
Paesi del continente europeo, fu in Italia, dunque, che si verificò il
più violento e pericoloso attacco al suo potere. Il biennio rosso fece
comprendere ai capitalisti che le vecchie classi dirigenti liberali
non erano più in grado di difendere i loro interessi.
Dopo l’accordo del 20 settembre, le occupazioni durarono ancora per una
decina di giorni, ma proprio in quel periodo si verificò il maggior
numero di scontri armati fra gli operai e le guardie regie, con morti da
entrambe le parti. Si trattò in realtà di una rabbiosa quanto disperata
reazione da parte delle avanguardie degli occupanti alla notizia della
stipula del concordato: l’idea di dover abbandonare le fabbriche che
con tanti sacrifici avevano tenuto – e senza aver conseguito alcun
reale avanzamento politico – appariva una beffa insopportabile.
Già durante la fase delle trattative fra sindacati, industriali e
governo, la maggior parte delle fabbriche si era espressa per il rifiuto
dell’ipotesi di accordo e per la continuazione dell’occupazione, mentre la
parte più arretrata degli operai pur non essendo soddisfatta del
concordato, votò per la sua accettazione subordinandola a due
pregiudiziali che i socialisti avevano elaborato: pagamento delle
giornate di occupazione e garanzia che la decisione finale sarebbe
stata demandata alle assemblee di fabbrica.
Antonio Gramsci il 1ottobre 1926 su L’Unità scrisse amaramente: “Come classe,
gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei
loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del
movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono
risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono
occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari
perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non
poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non
conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere
affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono
vergognosamente, protestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti
erano immaturi e incapaci, non la classe.”
Guarda “Il Biennio Rosso“:
da Infoaut
L'articolo 20 settembre 1920: Occupazione fabbriche nel biennio rosso sembra
essere il primo su Osservatorio Repressione.
Il maccartismo colpiva Charlie Chaplin, a cui viene impedito di rientrare negli
USA dopo l’accusa di avere “simpatie comuniste”.
Charles Chaplin nasce il 16 aprile del 1889 in un sobborgo di Londra.
La madre, Hannah, è una modesta attrice di teatro costretta, anche perchè
abbandonata dal marito a portare con sé il piccolo Charlie durante le sue
esibizioni artistiche. Viste le difficoltà economiche in cui si arrabatta la
madre, Charlie e suo fratello Sidney, vengono affidati per due anni ad un
orfanotrofio. All’età di 6-7 anni svolge il suo primo spettacolo teatrale, in
sostituzione della madre, nella quale cominciavano ad evidenziarsi i primi
sintomi della malattia mentale che l’aveva colpita. Le difficoltà vissute
durante l’infanzia sono però decisive per lo sviluppo del suo genio artistico:
Chaplin dichiarerà di essere stato notevolmente influenzato dalla miseria
vissuta, dall’osservazione della malattia della madre e da tutti quei strani
personaggi che attraversavano le strade di Londra. A 14 anni inizia a lavorare
stabilmente nei diversi teatri della città. La sua carriera è folgorante;
comincia a girare per l’Europa e per gli USA, dove poi deciderà di risiedere,
prima di venirne espulso per presunte attività comuniste.
A 25 anni s’inventa Il personaggio attorno al quale costruì larga parte delle
sue sceneggiature, e che gli diede fama universale, fu quello del “vagabondo”
(The Tramp in inglese; Charlot in italiano): un omino dalle raffinate maniere e
la dignità di un gentiluomo, vestito di una stretta giacchetta, pantaloni e
scarpe più grandi della sua misura, una bombetta e un bastone da passeggio in
bambù; tipici del personaggio erano anche i baffetti e l’andatura ondeggiante.
L’emotività sentimentale e il malinconico disincanto di fronte alla spietatezza
e alle ingiustizie della società moderna, fecero di Charlot l’emblema
dell’alienazione umana – in particolare delle classi sociali più emarginate –
nell’era del progresso economico e industriale.
Nel 1936 realizzò il capolavoro Tempi Moderni, splendida descrizione
dell’alienazione dell’operaio in epoca di capitalismo fordista. Evidenti in tale
situazione le simpatie e la solidarietà espresse per la causa operaia, in un
periodo in cui dilagavano i nazifascismi . E mondiale è il successo del film,
tanto da far sospettare molti, sulle due sponde dell’Atlantico, di un Chaplin
eccessivamente simpatizzante con la causa del “comunismo”. Nel febbraio 1939 il
viceministro degli Esteri, Richard Austen Butler, chiede ai suoi uomini di
indagare sul nuovo progetto cinematografico di Charlie Chaplin a Hollywood, “Il
Dittatore”, una sferzante parodia su Adolf Hitler. Londra è in ansia: il premier
britannico Neville Chamberlain sta attuando la politica dell’“appeasement” nei
confronti della Germania nazista.
I diplomatici del Consolato di Sua Maestà a Los Angeles avvicinano Chaplin a
Hollywood. Riferiscono a Londra che si sta dedicando alla produzione della
pellicola “con una foga che rasenta il fanatismo. Impressionano il suo odio e il
suo disprezzo verso le personalità che intende mettere in satira. Il suo unico
obiettivo consiste nel poter sferrare un attacco diretto a Hitler”. Si
aggrappano addirittura a una legge britannica del 1917: “Non è consentito
rappresentare sullo schermo personaggi viventi senza il loro consenso scritto.”
Premono per poter visionare il copione prima dell’inizio delle riprese, in modo
che la sceneggiatura definitiva non arrechi “offesa alcuna alla Germania”. Ma
nel maggio del 1939, dalla California, gli inglesi gettano la spugna: “Riteniamo
che andremmo incontro ad un immediato e definitivo rifiuto da parte di Chaplin
se mai provassimo a suggerire delle modifiche al copione. E’ certo che non
raggiungeremmo risultato alcuno.” L’attore reagisce pubblicamente, senza però
menzionare le pressioni che arrivano da Londra: “Intimidazioni e censure non mi
turbano affatto.” Durante l’estate l’Ente della censura britannica scrive:
“Siamo stati molto chiari su ciò che è consentito e su ciò che non lo è. Di
conseguenza Chaplin finirebbe per incolpare solo sè stesso se il film non
dovesse superare l’esame della censura britannica. Sempre e quando decida di
andare avanti con il suo progetto cinematografico.” Sarà solo con lo scoppio
della guerra nel settembre 1939 che cambierà l’atteggiamento del governo
britannico verso il film e l’autore, ora osannati da pubblico e critica.
È però nel Secondo dopoguerra che Chaplin subisce le vere e proprie
persecuzioni.
Sono gli anni della caccia alle streghe, negli States il senatore Joseph Mc
Carthy porta avanti una crociata anti comunista che prende di mira anche
l’intellighenzia dell’industria cinematografica. L’Fbi, allora governata dal
potente John Edgar Hoover, considerava Chaplin uno dei bolscevichi del salotto
di Hollywood. Nel 1952, in occasione di una sua visita a Londra, un agente
inglese di collegamento a Washington lancia l’allarme: secondo le ricostruzioni
del Bureau americano, Chaplin aveva finanziato organizzazioni comuniste. Inoltre
diversi aspetti della sua vita privata avevano suscitato clamore. I suoi due
matrimoni, entrambi con ragazze di 16 anni, la decisione di adottare un figlio
illegittimo e i suoi debiti con l’erario da 2 milioni di dollari. Soprattutto,
faceva notare l’Fbi, Chaplin non volle mai acquisire la cittadinanza americana,
nemmeno dopo aver vissuto 30 anni in quella che si auto-considerava la patria
della libertà. L’MI5 scopre inoltre che una decina di anni prima (1942), a Los
Angeles, Chaplin aveva presenziato a una riunione del Consiglio di amicizia
sovietica americana. Invitato a sostituire un relatore aveva iniziato il suo
discorso con un sospetto “Compagni…” Le parole pronunciate in quell’occasione,
però, provavano le sue idee progressiste. Ciononostante Chaplin non mancò di
affermare che «c’è molto di buono nel comunismo, […] possiamo utilizzare quello
che c’è di buono e lasciare da parte il cattivo». In questo periodo da fervido
anti-nazista, propugna l’alleanza con i sovietici. Gli 007 della Regina,
allarmati, conclusero comunque che «può essere che Chaplin abbia simpatie
comuniste, ma dalle informazioni a nostra disposizione non sembra che un
progressista o un radicale». Altri elementi che resero Chaplin sospetto fu la
partecipazione ai funerali dello scrittore comunista Dreiser nel ’45 e l’accusa
di apologia di reato per Monsieur Verdoux. Nella parte finale del film infatti
il sacerdote dice al protagonista colpevole di molteplici omicidi: “Possa il
Signore avere pietà dell’anima tua”, e Verdoux replica: “Perchè no? In fin dei
conti, gli appartiene”. I conservatori americani, tra cui i reduci cattolici, si
scatenarono accusando Chaplin di essere irrispettoso e irriverente nei confronti
della morale e della religione. Inquisito dalla Commissione per le attività
anti-americane, accusato di filo-comunismo, perseguitato dal fisco, nel Chaplin
scappa in Gran Bretagna, rifugiandosi poi successivamente (1962) in un
tranquillo angolo della Svizzera. La condanna decisiva nei suoi confronti era
arrivata infatti il 19 settembre del 1952. Chaplin e la sua nuova famiglia si
erano imbarcati per l’Europa per quella che doveva essere una vacanza. Mentre si
trovavano in mare il ministro della giustizia statunitense dispose per pubblico
decreto che a Chaplin, in quanto cittadino britannico, non sarebbe stato
permesso di rientrare nel paese a meno che non avesse convinto i funzionari
dell’immigrazione di essere “idoneo”. Intanto però l’America scagliava i suoi
anatemi contro il traditore, cercando di boiccottarlo in ogni maniera. Un
esempio riguarda l’Italia: il 22 dicembre del 1952 Chaplin sbarca a Roma: scende
dalla sua auto a pochi minuti dalle 22, davanti al teatro Sistina dove sta per
assistere alla prima italiana del suo film Limelight, tradotto in Luci della
ribalta. La gente che affolla la zona lo saluta, lo acclama. Chaplin risponde,
si leva il cappello con il suo classico gesto di eleganza. In quel momento si
odono delle urla: «Sporco ebreo», grida un nutrito gruppo di giovani. Poi un
fitto lancio di pomodori marci, che costringono il regista a ripararsi nel
Sistina. La gente si oppone alla contestazione, la polizia interviene fermando
quattro ragazzi. Si tratta di un gruppo di fascisti. La violenta sceneggiata
davanti al Sistina non era altro che una delle espressioni di boicottaggio che
in quei giorni, e mesi, venivano manifestate nei confronti di Chaplin. L’Italia,
peraltro, si copre di ridicolo oltremanica, a causa della cancellazione degli
incontri, prima accordati poi annullati, dal presidente Einaudi e dal Papa. Il
Governo italiano e il Vaticano erano stati costretti a fare marcia indietro
sotto pressione dell’ambasciata americana a Roma. Il caso finisce negli
editoriali dei giornali inglesi. Il quotidiano Star parla di «isteria e panico
anticomunista», di «crescente interferenza degli Usa nella sovranità dei Paesi
dell’Europa occidentale», di come il caso italiano ne sia «paradossale esempio».
A ciò si aggiunge il grottesco episodio del rettore dell’Università di Roma, che
rifiuta di accordargli una prevista Laurea honoris causa. Il suo film, dopo anni
di persecuzioni da parte della censura, viene interdetto dai cinema della
California, e in tutti gli Stati Uniti si scatena una campagna di odio nei
confronti del comunista Chaplin. «Il comitato esecutivo nazionale della Legione
americana – scrive il Los Angeles Herald Express nell’ottobre del ‘52 – ha fatto
richiesta a tutti i distributori cinematografici di rifiutare il film di
Chaplin, fino a quando il ministero della Giustizia non decida se concedere a
Chaplin il permesso di fare ritorno dall’Inghilterra». Non sappiamo se Chaplin
fosse effettivamente comunista o no. Il regista era certamente dichiaratamente
pacifista e ateo (Geraldine Chaplin rivelò che né lei né i suoi fratelli erano
stati battezzati: suo padre, Charlie, era così profondamente ateo da non aver
loro trasmesso neppure la “nozione” di Dio), oltre che ferocemente critico
contro il sistema capitalistico. Il suo «errore» era stato quello di criticare
dall’interno un sistema, quello americano, che vedeva nella patria, in Dio e
nella famiglia i cardini del «nuovo sogno» economico e politico. Il Comitato
inquisitore riuscì però a rintracciare in Chaplin gli elementi di fede comunista
che cercava con ossessione, grazie al fatto che in alcuni film, e discorsi
pubblici, il regista aveva affermato di credere nella pace, e che questa si
sarebbe dovuta ricercare insieme all’Urss, alleata nella sconfitta del nazismo.
Chaplin, che degli Usa si definiva «un ospite pagante», si era inoltre schierato
senza esitazioni in favore del ricorso avanzato da due sceneggiatori di
Hollywood, processati perchè «comunisti», Howard Lawson e Dalton Trumbo, ed
aveva partecipato ad una manifestazione per la pace insieme all’attrice
Katherine Hepburn. Ce n’era abbastanza, per i torquemada statunitensi, per
identificare Charlie Chaplin nel ruolo del «rosso» da combattere. La reazione di
Chaplin si concretizzò con la commedia satirica A King In New York (1957),
apologo sull’ipocrisia dell’”american way of life” e presa in giro del
maccartismo. Nel film un re detronizzato fa la conoscenza di New York tramite
un’intraprendente pubblicitaria: viene ripreso a sorpresa dalla televisione e
prova anche un carosello pubblicitario; la giovane lo convince a cambiare
faccia, ma il re non è contento della sua nuova faccia, che lo rende più giovane
ma gli impedisce di sorridere. Un giorno commette l’errore di ospitare un
bambino prodigio figlio di due sospetti comunisti; il re viene chiamato a
comparire di fronte alla famigerata commissione per le attività anti-americane,
e ne esce dopo aver innaffiato i membri con un idrante; ma il bambino, per
salvare i genitori, è costretto a denunciarli. Il re torna in Europa disgustato.
Chaplin morì la notte di Natale del 1977. La notizia, diffusa immediatamente
dalle televisioni di tutto il mondo, ebbe grande risonanza e suscitò enorme
emozione. Chaplin fu il primo artista occidentale commemorato dalla Cina
comunista. Per noi è semplicemente un vero compagno che è riuscito a lottare per
la libertà riuscendo a far cambiare le idee della gente in meglio con la forza
di un sorriso.
“Charlie Chaplin-Discorso all’umanità (sottotitolato ita)”:
da Infoaut
L'articolo 19 settembre 1952: Charlie Chaplin e la caccia alle streghe degli USA
sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.