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D’Agostino, catturato sulla Sumud Flotilla. «Ci hanno chiamato terroristi, senza
acqua e al gelo e privi di assistenza legale». …
I ricordi di chi, in questi anni, ha conosciuto e amato Awdah Hathaleen, giovane
attivista palestinese di Umm al-Kheir, ucciso lunedì da un colono israeliano
Awdah Hathaleen aveva appena 31 anni, tutti trascorsi sotto occupazione
militare, in quel pezzo di terra che è Masafer Yatta, il sud della Cisgiordania
occupata. Aveva tre figli e viveva […]
Nel tardo pomeriggio di giovedì 27 marzo, nel quartiere San Lorenzo a Roma, è
avvenuto un fatto gravissimo, ripreso dalla telecamera della giornalista del
Domani Isabella De Silvestro. Una persona migrante senza fissa dimora,
visibilmente provata, è stata scaraventata violentemente a terra da alcuni
carabinieri intervenuti per arrestarlo perché in possesso di sostanze
stupefacenti. Dalle riprese è possibile vedere che l’uomo, una volta
immobilizzato a terra tra due macchine e con i corpi degli agenti che gravano su
di lui, viene ripetutamente colpito con pugni. Alla giornalista, subito dopo, è
stato detto che era passibile di denuncia per violazione della privacy e
favoreggiamento. Ci troviamo di fronte all’ennesima vicenda di abuso da parte
delle forze di polizia e di un uso illegittimo della forza esercitata a danno di
persone già prive di tutele e garanzie.
di Isabella de Silvestro da Il Domani
Sono le 18.30 di giovedì 27 marzo e sto camminando in piazzale Tiburtino, a
Roma. Il sole non è ancora tramontato. Sento delle grida provenire dal
sottopassaggio di via Santa Bibiana, adiacente al piazzale: «Prendetelo,
fermatelo». Mi giro e vedo un ragazzo che corre, inseguito da tre uomini: due
carabinieri in divisa e un altro uomo, che in seguito capirò essere un
carabiniere in borghese.
Il ragazzo inseguito, L. B., non ha più fiato per continuare a correre,
rallenta, è disarmato, è scalzo, si ferma. Uno dei carabinieri lo raggiunge e lo
spinge con violenza, scaraventandolo fra due macchine parcheggiate. «Bravo» si
complimenta il collega gridando. «Vaffanculo, vaffanculo» urlano invece contro
il ragazzo disteso sull’asfalto. Si gettano su di lui e sul suo corpo inerme e
iniziano a colpirlo con calci e pugni. Il motivo dell’inseguimento e del fermo
ha a che fare con la droga, ma questo lo scoprirò solo il giorno dopo.
Attraverso di corsa la strada che ci separa gridando di smetterla, cercando di
attirare l’attenzione dei passanti. Smettono di picchiarlo quando vedono che ho
tirato fuori il cellulare per riprenderli. Hanno il fiatone, sono agitati, lo
tengono bloccato a terra, schiacciato dal peso dei loro corpi. Lo ammanettano.
Lui non oppone resistenza, fa fatica a respirare, è in stato confusionale,
gettato fra le due auto, con il viso sul cemento. Emette dei rantoli.
Mentre lo ammanettano, i carabinieri mi chiedono insistentemente di «favorire un
documento». Rispondo che non ho alcun problema a presentare un documento ma
chiedo loro di accertarsi se il ragazzo sta bene. «Sta benissimo» risponde uno
di loro. «Non sta bene, non mi sembra una persona che sta bene, chiamate
un’ambulanza», insisto. Chiedo direttamente a lui come si sente ma non è in
grado di rispondermi. È ancora disteso a terra, cerca di riprende fiato, sembra
sotto shock. Invece dell’ambulanza i carabinieri chiamano un’altra volante, che
impiega sette minuti ad arrivare. In quei sette minuti L.B. riesce faticosamente
a mettersi a sedere. Gli chiedo se parla italiano e mi risponde di sì.
«Come stai?».
«Male».
«Cosa posso fare?».
«Ti prego, aiutami».
Domando alle persone che nel frattempo si sono radunate intorno alla scena se
qualcuno ha dell’acqua. Gli porgo una bottiglietta ma è ammanettato e
indolenzito, fatica a tenerla fra le mani, gli si rovescia addosso. Uno dei
carabinieri prende il mio documento. «Non diffonda il video o la denunciamo. Sta
intralciando un’operazione di polizia e può essere accusata di favoreggiamento».
Quando arriva la volante riprendo con il cellulare il momento il cui L.B. viene
condotto verso l’auto dei carabinieri. Fatica a camminare dritto, ha la schiena
inarcata e il passo è claudicante. Il carabiniere che lo sta portando verso
l’auto mi dice che non posso inquadrarlo. Rispondo che non lo sto inquadrando,
mi interessa riprendere le condizioni del ragazzo che hanno arrestato. Una
collega del carabiniere arrivata con la volante mi chiede nuovamente il
documento e mi ripete che verrò denunciata se dovessi divulgare il video. Dico
che sono giornalista e che non c’è alcun bisogno di intimidirmi, le chiedo di
spiegarmi per cosa verrò denunciata: «Per violazione della privacy», risponde.
Caricano L.B. nell’auto, che si siede con grande fatica per il dolore provocato
dalle percosse. L’auto dei carabinieri parte a grande velocità e sirene spiegate
e non so se lo stiano portando in ospedale o in caserma. Rimango ancora per
circa mezz’ora sul posto dell’aggressione e mi confronto con altri testimoni
della scena. Una persona, che ha preferito rimanere anonima temendo
ripercussioni da parte delle forze dell’ordine, mi dice che ha filmato la spinta
e i pugni. Gli assicuro che non verrà coinvolto se non lo desidera e dopo un po’
di titubanza mi inoltra il video.
Il mattino dopo mi reco al Tribunale penale di Roma, in piazzale Clodio, dove
avvengono le convalide degli arresti per direttissima, ovvero i procedimenti
penali che si verificano quando una persona viene arrestata in flagranza di
reato. Mi accompagna Gianluca Dicandia, avvocato che presta servizio a
CivicoZero, una cooperativa sociale che si occupa di minori stranieri non
accompagnati, poco lontana dal luogo dell’aggressione. Dicandia non ha assistito
alla scena ma è stato allertato da una collega che invece si trovava sul posto e
lo ha chiamato per fornire aiuto.
Io e l’avvocato Dicandia ci troviamo quindi in tribunale alle 9. Dopo circa
un’ora di attesa vediamo avvicinarsi L.B., accompagnato dai poliziotti verso la
sala dove si terrà l’udienza. Ha uno sguardo terrorizzato, il viso esausto. Mi
avvicino a lui e gli chiedo se si ricorda di me: annuisce. Gli spiego che ho i
video dell’abuso e che ci impegneremo per aiutarlo.
Non mi è permesso entrare nell’aula dove si svolgerà il procedimento e allora
rimango fuori, in attesa che esca insieme all’avvocata d’ufficio che gli è stata
assegnata, con la quale in seguito parlo e a cui consegno i video perché li
possa depositare. In aula c’è uno dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, lo
riconosco, lui riconosce me: non ne è felice.
Apprendo che L.B. è un migrante senza fissa dimora: dorme per strada. È stato
visto, secondo la versione dei carabinieri, al mercato Esquilino accompagnato da
un cane mentre consegnava una dose di crack a un uomo italiano. Dalla bocca
avrebbe sputato otto involucri di crack. Preso in flagranza di reato avrebbe
consegnato il cane a un signore e avrebbe iniziato a correre per scappare dalle
forze dell’ordine.
Al momento dell’aggressione a cui ho assistito correva scalzo. Ai piedi portava
dei calzini con la scritta “Italia”, accompagnata dalla nostra bandiera.
Il Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma, interpellato sulla vicenda, fa
sapere che in merito alle informazioni ed ai video forniti, sono stati attivati
approfondimenti il cui esito verrà riferito alla Procura della Repubblica di
Roma, già informata.
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Quest’oggi io non voglio essere triste. Fu Gianfranco Manfredi a convincermi che
ero uno scrittore. E’ morto all’età di 76 anni Gianfranco Manfredi: cantautore,
fumettista, scrittore, attore, sceneggiatore. Il ricordo di Marco Sommariva
di Marco Sommariva
Nel 2008 Marco Tropea pubblicò un mio romanzo. S’intitolava Il venditore di
pianeti ed era già uscito due anni prima per le edizioni di Sicilia Punto L.
Come aveva fatto Tropea a scoprirmi? Semplice. Fu Gianfranco Manfredi, all’epoca
edito da Marco, a segnalarmi. Gianfranco aveva letto alcune mie cose grazie a un
mio lettore della provincia di Parma che gliele aveva spedite a casa perché
riteneva io meritassi, bontà sua, una vetrina più ampia. Gianfranco cosa fece
secondo voi? La cosa che nessuno s’aspetta da una persona che, solitamente, “ha
ben altro da fare”: prese i miei libri inviatigli, li lesse, chiese il mio
numero di cellulare al lettore che perorava la mia causa e mi chiamò per dirmi
che, anche secondo lui, meritavo una vetrina più ampia spiegandomi che, tra
Guanda e Marco Tropea, secondo lui, per i miei scritti, era meglio il secondo.
In realtà, il mio numero di cellulare non era mio ma della ditta per cui
lavoravo e così, quando lo vidi suonare molto oltre l’orario di lavoro, decisi
di non rispondere a quel numero sconosciuto. Non un grande esordio, insomma, ma
per fortuna mi richiamò poco dopo e per fortuna decisi di rispondere.
Ora immaginatevi la scena del sottoscritto che, dall’altra parte del telefono,
sente una persona col fiato corto che si presenta come Gianfranco Manfredi: non
avreste risposto “Sì, va be’, e io sono Napoleone!”? Ma non ebbi il tempo di
farlo perché la seconda cosa che subito mi disse Gianfranco fu: “Non sto
scopando, ho il fiatone perché ho appena finito di spalare neve davanti a casa
mia”. Pensai… questo dev’essere Manfredi veramente: da uno come lui mi aspetto
proprio questa schiettezza.
Ovviamente, al primo appuntamento a Milano con Marco Tropea – era l’11 marzo
2004, il giorno degli attentati a Madrid – e, poi, pure al secondo incontro,
volle esserci anche lui: entrambe le volte pranzammo tutti e tre in un
ristorante vicino alla casa di editrice di Marco. Era tutta un’altra Italia, si
respirava tutta un’altra aria: la prima volta mi presentarono Massimo Coppola,
in quel momento impegnato nel fondare la casa editrice ISBN, la seconda volta mi
presentarono Enrico Deaglio che ho poi rivisto ultimamente alla Fiera del Libro
di Torino quando ho rilasciato l’intervista sulla letteratura distopica, ai tipi
del programma Wonderland di Rai4.
I primi due pranzi furono, per me, una specie di terzo grado, ma non da parte di
Gianfranco, bensì da parte di Tropea che aveva bisogno di capire chi fossi: lui
non aveva ancora letto nulla di mio.
I pranzi che duravano circa un paio d’ore, si svolgevano pressappoco così: Marco
chiedeva, io rispondevo guardando Gianfranco e Gianfranco ascoltava e sorrideva
soddisfatto. Credetemi, senza quei suoi sorrisi non avrei mai trovato il
coraggio di dire a Marco Tropea ciò che pensavo, e ciò che pensavo non erano
sempre cose bellissime da ascoltare. Mi spiego meglio. Quando Tropea mi chiese
se avessi mai letto libri pubblicati dalla sua casa editrice e se questi mi
erano piaciuti, risposi che li avevo letti ma che, specialmente l’ultimo, non mi
erano piaciuti – non chiedetemi perché neppure in occasioni come queste non
riesco a raccontare una balla, non lo so.
Ovviamente, spiegai il perché di quella mia risposta, lo feci con calma e onestà
intellettuale, ma sempre aggrappato al salvagente delle labbra di Gianfranco che
parevano dirmi “Vai così che vai bene”.
Pensate mi sia fermato qui? Macché! Son pure arrivato a parlar male di un
romanzo di Sepúlveda, al che il buon Tropea, stavolta un po’ piccato, mi chiese:
“Tu sai chi ha portato Sepúlveda in Italia?” Non lo sapevo e… esatto!… era stato
proprio lui.
Credetemi, in due pranzi ho inanellato una serie di risposte da far accapponar
la pelle, tutte quelle che dovrebbe evitare chi brama d’esser pubblicato da un
editore ben strutturato a livello nazionale, ma io ero sereno: già mi
pubblicavano, e pazienza se era una casa editrice di dimensioni più ridotte ma,
soprattutto, la tranquillità me la trasmetteva lui, Gianfranco che, e qui forse
mi sto un po’ allargando, a volte pareva proprio gongolare per certe mie uscite:
era lui che mi aveva portato a quel tavolo e pareva esserne fiero.
Come al lettore che gli ha spedì i miei lavori, anche a Gianfranco devo molto:
probabilmente non sarei neppure qui a scrivere di lui se non mi avesse
instradato.
Fu lui a scrivere una prefazione al mio romanzo Fischia il vento che già ne
vantava una di don Gallo, e un’altra la scrisse per il mio saggio Pillole
situazioniste.
Si pose nei miei confronti sempre in maniera orizzontale, mai salì su alcun
pulpito.
Mi fece sempre dei gran complimenti, e forse il più grande fu l’unica volta in
cui mi “sgridò”: più di vent’anni fa mi convinse che ero “un qualcosa” a cui non
mi decidevo a credere, ossia, che ero uno scrittore, e usò più o meno queste
parole: “Vengono pubblicati libri distribuiti in tutta Italia col tuo nome in
copertina, quindi, quando ti firmi, quando ti presenti, devi dire che sei uno
scrittore, se continuerai a nasconderti dietro il tuo lavoro in fabbrica
sembrerà che non credi in quello che scrivi, e questo non è vero, io lo so,
quindi, forza!, dài!”
Ha sempre risposto alle mie mail e ai miei messaggi: quando a marzo dell’anno
scorso gli scrissi che stavo andando alla Fiera del Libro di Torino per
conoscere di persona Marco Philopat, perché occorreva che mi mettessi d’accordo
per un libro che spero esca l’anno prossimo per Agenzia X, lui mi rispose:
“Philopat è una brava persona. Ti troverai bene”. Un po’ quello che mi disse di
Tropea, quando mancavano pochi giorni al primo appuntamento.
Arrivammo persino a fantasticare di un romanzo da scrivere a quattro mani.
Insomma, Gianfranco mi adottò a fine 2003 e non mi mollò più, neppure quando era
già malato, a marzo dell’anno scorso, appunto.
Col tempo s’allontanò leggermente rispetto ai primi anni, ma unicamente perché
io crescessi ulteriormente, perché non mi venisse neanche lontanamente l’idea di
restare nell’orbita di qualcun altro: dovevo camminare con le mie gambe, anzi,
correre. Lo capii quasi subito, solo un leggero spiazzamento iniziale, poca
roba: un po’ come quando si lascia la casa dei genitori per andare a vivere da
soli.
Mi fermo qui perché non vorrei finire con l’annoiare ma oggi, 24 gennaio 2025,
ci ha lasciato una persona che, per come l’ho conosciuta io, si comportava nella
vita di tutti i giorni così come ve l’ho raccontato, in linea con i suoi
scritti, le sue sceneggiature, le sue canzoni e, quindi, per il mio modo di
vedere, si comportava bene, in quel modo che mi appartiene molto: resistere
sempre, ogni momento, anche nella quotidianità, anche da soli, con parole e
fatti.
Non so se ho fatto bene a ricordarlo in questa maniera, senza neppure elencare
un’opera da lui realizzata, ma ho preferito così, e ho come l’impressione che
‘ste righe non gli sarebbero dispiaciute.
Lo scrittore Marco Sommariva, oggi, si sente un po’ più solo ma, sapete che vi
dico?, forse sono un po’ svanito ma il domani non esiste e quest’oggi io non
voglio essere triste.
www.marcosommariva.com
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Il racconto della liberazione delle prime prigioniere a Ramallah
di Compagn3 dalla Cisgiordania
Libereeeeee. Infine. Nonostante tutto. Solo alcune. Ma libereeee.
Sono le tre del mattino in piazza, a Beitunia, paesino alla periferia ovest di
Ramallah. E inizia a non esserci più nessun3. Stanno infine tornando ciascun3
alle proprie case le prime 90 persone che l’entità sionista è stata costretta a
tirare fuori dalle sue prigioni.
E’ stata una giornata lunga quella di questo 19 gennaio 2025 appena finito.
Era chiaro che l’entità sionista voleva far perdere tempo, arrivare a notte
inoltrata e fare in modo che non ci fosse nessun3 ad accogliere le persone
rilasciate. L’avevano già fatto nella prima liberazione di prigionier3 nel
novembre 2023. Lo fanno ogni volta.
Succede sempre a Beidunia, dove dal 1988 si trova la prigione di Ofer.
E’ l’unico tra i 17 carceri israeliani che si trova dentro il territorio
formalmente riconosciuto come sotto totale governo dell’autorità palestinese. Vi
sono poi altri tre centri detentivi israeliani in Cisgiordania, ma usati per
trattenere chi viene arrestat3 mentre vengono fatte le indagini, ovvero in
settimane di interrogatori e isolamento.
Ofer si trova in zona A. Eppure quest’oggi hanno dichiarato tutto lo spazio
fuori dalla prigione, dove si erano radunat3 l3 familiari e solidali, zona
militare chiusa. Mentre la croce rossa, incaricata come parte terza nella
gestione dello scambio dell3 “ostaggi”, visitava ogni detenut3 che era confluita
a Ofer per il rilascio, fuori si sparavano lacrimogeni e rubber bullets
(proiettili ricoperti di plastica) contro chi si era radunat3, parenti, solidali
e militanti. Ci sono stati tre feriti. E’ andata bene, a novembre del 2023 un
ragazzo è stato ammazzato e un’altro ha perso un occhio negli scontri.
Nel frattempo, era dalla notte precedente che, in giro per la Cisgiordania e in
particolare a Gerusalemme est, l’esercito entrava in casa di alcun3 che
sarebbero stat3 liberat3 per minacciare l3 parenti, imponendogli di non
festeggiare.
Nonostante tutto questo, in serata è arrivata molta più gente in piazza a
Beitunia. C’era chi accendeva fuochi per scaldarsi e condivideva bevande calde.
Non solo giovani e uomini, più o meno coperti, a tenere bandiere dei vari
partiti e movimenti e lanciare e ripetere cori resistenti. Anche molte donne di
tutta l’età: giovani ragazze con la kufia al collo e signore vestite
elegantemente. Una ragazza, con un cappotto di lana, apparentemente non
preparatasi per gli scontri, si era invece organizzata e distribuiva
fazzolettini intrisi di alcool per lavarsi il gas dagli occhi.
Da quella piazza una breve strada, un’altra rotonda e un’altra strada ancora a
separare dal carcere. Poco meno di 2 km. L’entità sionista voleva questo tratto
svuotato dall3 palestines3. Come vogliono sia tutta la Palestina. Così ci si è
dovuti difendere la propria presenza lì. I più esperti in prima linea, a
confrontarsi con i militari. Ma tutt3 determinat3 a restare. Ambulanze passavano
e tornavano. Forse altri feriti.
Alla fine si sono arresi, verso l’una i due autobus con le donne e i minori sono
apparsi. Alcuni giovani sono saliti sul tetto degli autobus e han fatto il
corteo da lì sopra, sventolando tutte le bandiere. Tanti corpi, attorno, urla e
canti.
Quando gli autobus son arrivati quasi alla piazza, le liberate sono iniziate a
scendere e son cominciati gli abbracci. I mazzi di fiori, le teste delle donne
vestite da ghirlande di fiori. A significare che sono delle vittoriose
combattenti. I corpi, i pianti, la gioia, per alcune le prime parole pubbliche
davanti alle telecamere dei giornalisti su quanto si è dovuto vivere. E niente..
come descrivere cosa si prova durante una liberazione di massa? Chi l’aveva mai
vista prima. Come immaginarsene una, non solo qui in Palestina?
Mentre succedeva tutto questo, un ragazzo di 22 anni è stato ammazzato in un
altro carcere israeliano. E’ il 56esimo da quando è iniziata la guerra a gaza.
Al cimitero dei martiri del campo profughi in cui è nato, il loculo è già
pronto. Sono settimane che gl3 abitant3 hanno costruito nuovi loculi. Il corpo
di Mohammed chissà quando potrà arrivarci.
L’entità sionista si tiene i corpi, come vendetta per le famiglie, così
impossibilitate a elaborare il lutto, e come repressione politica, impedendo la
dimostrazione funebre per la persona divenuta martire.
In piazza a Beitunia, mentre le persone scendevano dagli autobus, due droni
israeliani sorvegliavano incessantemente tutto. Delle 240 persone rilasciate in
novembre 2023, 27 sono state riarrestate. E tre dei ragazzi rilasciati sono poi
stati ammazzati in operazioni da parte dei militari.
La vendetta sionista non si ferma. E molt3 qua temono, o meglio sanno, che la
fine, purtroppo forse tregua, della guerra a Gaza comporta l’incremento della
guerra in Cisgiordania, dove da mesi vengono bombardati i campi di rifugiati
nelle città del nord. La Cisgiordania tutta che diventa una nuova prigione.
Non può non essere una liberazione di massa.
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