Non potevamo non tornare in Sudamerica questa settimana, dedicando al continente
latino l’intera puntata. Innanzitutto cercando di dare un altro punto di vista
sull’aggressione coloniale contro il Venezuela e, seguendo nel ragionamento
Geraldina Colotti, un approccio così imperialista non molto tempo fa avrebbe
scatenato un’indignazione globale, ci è piaciuto respirare ancora un afflato
assembleare con la diretta da una Caracas che non intende farsi condizionare
dalle minacce pretestuose di Trump, pur preparandosi; e poi tornando al Cop30 a
distanza di una settimana – sull’ultima suggestione inviata da Geraldina –, sia
in ambito istituzionale di nuovo con Alfredo Somoza (perché aveva seguito di
persona già i primi incontri e ne conosce i gangli), sia soprattutto nella
“Cupula dos Povos” con Renato di Nicola, abbiamo voluto raccontare l’ennesimo
flop dell’appuntamento con il disastro della lotta ambientalista, accompagnando
gli incontri di Belem tappa per tappa, quando abbiamo raccolto le loro
testimonianze non erano ancora scaturiti improvvisi incendi e i sauditi non
avevano ancora frapposto il veto dei loro pozzi di petrolio al superamento delle
energie derivanti dal fossile. Ma il Latinamerica ospita innumerevoli storie
centrali in quest’ultimo scorcio epocale, perché incrocio di interessi diversi
tra potenze globali, e così non possiamo evitare di spingerci a Quito con Davide
Matrone che ci illustra alcune conseguenze delle lotte che hanno percorso
l’Ecuador negli ultimi mesi: la prima grande sconfitta di Noboa da che è
riuscito a farsi eleggere come campione del latifondo e dei gringos.
A fronte delle pretestuose minacce dei gringos in appoggio alla golpista loro
camerata Machado, a cui hanno procurato un Nobel in grado di fungere da cavallo
di Troia, la repubblica bolivariana del Venezuela predispone alcune misure di
“difesa integrale”, che vedono – come in ogni aspetto della vita comunitaria dei
cittadini venezuelani di una “democrazia partecipata e protagonista” – la
mobilitazione dell’intero organismo sociale chiamato a prendere iniziative
assemblearmente per affrontare l’aggressione dell’ingombrante vicino. Abbiamo
chiesto a Geraldina Colotti di testimoniare questo sviluppo di una nazione dove
il socialismo è andato al potere per via elettorale; questo è ciò che vede anche
Trump, facendolo infuriare. Il capitalismo non può permettere che sopravviva
un’esperienza di corresponsabilità fondata sulla Costituzione più avanzata del
Sur nel patio trasero e in piena dottrina Monroe 2.0, si rischia che la
propaganda satanizzante non riesca nell’intento. Geraldina va oltre le 5000
comuni e l’autorganizzazione di classe, mettendo insieme il monopolio economico
con quello mediatico; facendo così un quadro nitido di come l’informazione sia
una merce generata dalle agenzie occidentali e diffusa dai social e ora pure
dall’AI, confondendo finzione e realtà, dove gli omicidi mirati di presunti
narcos-pescatori ripresi dal satellite o dal drone che si abbatte su barche il
cui carico non è distinguibile: operazioni militari feroci costate 80 vite –
presumibilmente – in cui si stenta a trovare traccia di una qualunque “verità”,
ammannite a merce simbolica come siamo ormai assoggettati a tutte le simbologie
del capitale. Geraldina è tra le animatrici di un canale YouTube (Abrebrecha)
che risponde al criterio della più militante controinformazione su imperialismo
e tecniche di resistenza popolare e in questa intervista ce ne ha dato un
esempio incentrato sul Venezuela, che mantiene la propria radicalità seppure sia
nel mirino del trumpismo senza freni.
La COP30 si sta arenando sulla questione dei combustibili fossili e la loro
eliminazione futura, dimostrando l’influenza delle multinazionali del fossile
sui delegati presenti a Belèm .
La definizione di una tabella di marcia per la graduale eliminazione dei
combustibili fossili diventa la cartina di tornasole delle divisioni trai vari
delegati, è un obiettivo sostenuto da decine di paesi, soprattutto in Europa,
Africa e America Latina, ma alcuni stati hanno minacciato di bloccare il
documento conclusivo della conferenza se non dovesse includerla. Allo stesso
tempo, un gruppo influente di stati che producono o dipendono dal petrolio e dal
gas naturale sta facendo un’opposizione molto serrata, le trattative verranno
probabilmente allungate al fine settimana.
Fra gli obiettivi prefissati c’è quello di contenere l’aumento delle temperature
sotto gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, e non superare i 2 gradi
(obiettivo che, per la maggior parte degli scienziati, è attualmente lontano
dall’essere raggiunto). La comunità scientifica è ampiamente concorde sul fatto
che il modo migliore per farlo sia eliminare i combustibili fossili, che sono la
causa principale delle emissioni inquinanti e del riscaldamento globale.
Lula si è speso molto per includere la tabella di marcia sull’eliminazione dei
conbustibili fossili e gli attivisti che sono stati molto presenti durante i
giorni della Cop 30 considerano un fallimento la mancata definizione dei tempi
per la fuoriuscita dal fossile.
I movimenti che si sono riuniti nella “Cupula dos povos” hanno dovuto però fare
i conti con le contraddizioni politiche e le ambiguità del governo brasiliano,
da un lato l’impegno per la Cop, il sostegno alle politiche climatiche e la
promozione dei diritti umani; dall’altro, il difficile compromesso con l’agenda
economica che continua a fare i conti con i grandi interessi industriali e
agricoli del paese. I movimenti indigeni per esempio si trovano a fronteggiare
un governo che non può fare a meno delle pressioni delle oligarchie, che si
sostanzia nel sostegno a progetti di sfruttamento delle risorse naturali e
petrolifere in Amazzonia.
Un altra parte dei movimenti che si riconoscono negli “atingidos” ,coloro che
sono colpiti dalla crisi climatica ,definiscono la COP 30 come un grande
palcoscenico per il governo e le multinazionali, marcata dalla forte presenza di
lobbisti del petrolio e del settore minerario. Riflette una disputa interna alla
borghesia globale: da un lato chi vuole mantenere l’economia dei combustibili
fossili, dall’altro chi promuove la transizione energetica basata
sull’estrazione di terre rare e sulla finanziarizzazione della natura, come il
mercato del carbonio.
Ne parliamo con Renato di Nicola della campagna nazionale “Per il clima fuori
dal fossile ” e del forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica.
Una sconfitta sonora, per certi aspetti sorprendente. Oltre sei elettori su
dieci hanno detto no al presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, confermato solo
da pochi mesi alla guida del Paese, bocciando nel referendum la sua proposta di
dare vita a un’Assemblea costituente. Vittoria dei “No” anche per gli altri
quesiti, che chiedevano l’abrogazione della legge che vieta la costruzione di
basi militari straniere e prevedevano l’eliminazione dei finanziamenti ai
partiti e la riduzione del numero dei parlamentari.
Nonostante la sconfitta Noboa per conto del conglomerato d’interessi
dell’oligarchia che rappresenta persevererà nel suo intento di disarticolare la
costituzione di Montecristi ed imporre le riforme neoliberali ,stavolta senza
consultare il popolo. La crisi di legittimità, già manifestatasi con la rivolta
popolare contro la legge che tagliava i sussidi al diesel ,seguita all’esito del
voto referendario ha costretto Noboa ad un rimpasto di governo. Inoltre dopo
essersi fatto fotografare con esponenti dell’amministrazione Trump davanti alle
basi di Manta e Soles promesse ai nordamericani è dovuto correre a dare
spiegazioni negli Stati Uniti dopo il chiaro rifiuto espresso nel referendum da
parte del popolo ecuatoriano di cedere la sovranità territoriale .
Le promesse mancate sulla sicurezza ,il fallimento nella lotta al narcotraffico
,l’acuirsi della crisi economica ,la pesante repressione delle proteste popolari
hanno in breve tempo sgonfiato la bolla elettorale del rampollo della famiglia
Noboa ,ed a poco è servita la criminalizzazione del correismo per guadagnare
consenso.
Ne parliamo con Davide Matrone docente e ricercatore presso l’università di
Quito.
Tag - Cop30
Questa settimana ci siamo dedicati dapprima alle proteste degli abitanti
dell’Africa occidentale esasperati dalla perpetuazione di regimi autoritari,
rintuzzate da un potere ancora postcoloniale che fa da perno al residuo
controllo francese sui paesi della Françafrique, scatenate dalla rielezione
truffaldina di dinosauri ultranovantenni in Africa occidentale, ponendole a
confronto insieme a Roberto Valussi con la contrapposizione della unione dei
paesi del Sahel, anch’essi messi in crisi dall’avanzata del jihadismo.
Ci siamo poi spostati di poco verso nord, raggiungendo il Maghreb, in
particolare la situazione nella regione dei Saharawi, da più di mezzo secolo
alle prese di un’altra forma di colonialismo: la monarchia assoluta marocchina
si è sostituita ai francesi, permettendo ancora lo sfruttamento dei fosfati e
della pesca nel territorio del Sahara occidentale, dopo aver colonizzato la
regione da cui ha cacciato il popolo saharawi. Ora all’Onu si è consumato un
nuovo passaggio verso l’annessione marocchina della zona al confine mauritano,
ne abbiamo parlato con il nostro consueto interlocutore in materia, Karim
Metref.
Abbiamo infine iniziato a occuparci della Cop30 in corso a Belem con Alfredo
Somoza, che ha tracciato con chiarezza le modalità, gli intenti e i parziali
risultati di una conferenza delel parti svolta per una volta su un campo che
avrebbe dovuto essere sensibile alle istanze della difesa dell’ambiente e che la
diplomazia internazionale costringe a barcamenarsi cercando di conseguire il
risultato condiviso richiesto; parallelamente si è quindi svolto un
Controvertice e le popolazioni native si sono prese il palcoscenico a più
riprese.
Elezioni africane, presidenti dinosauri e retaggio della Françafrique
Partendo dalle elezioni in Costa d’Avorio che hanno riconfermato il modello
autocratico del terzo mandato con l’elezione di Ouattara, legato mani e piedi
agli interessi economici e strategici di una Francia in ritirata dallo scenario
saheliano, proviamo con Roberto Valussi che scrive per la rivista Nigrizia a
decrittare il risultato dei queste elezioni allargando lo sguardo ad altre aree
del continente africano.
La serie di colpi di stato che ha cambiato gli equilibri in Mali, Burkina Faso e
Niger e la creazione dell’ Alleanza del Sahel (AES) ha spostato il baricentro
degli interessi francesi verso la Costa D’Avorio che si consolida come pivot del
residuo sistema di potere della Francia in Africa, pur aprendosi anche ad altri
interlocutori come gli Stati Uniti e la Cina. Ouattara dopo aver impedito ai
potenziali contendenti, Thiam e Gbabo, di presentarsi alle elezioni con artifici
legali poco attendibili, ha vinto nonostante le proteste contro il suo ennesimo
mandato sulla falsariga di un altro dinosauro africano, Paul Biya, che in
Camerun alla tenera età di 92 anni continua a governare dal 1982 .
Si definiscono in questa fase di mutamenti e fratture sociali tre modelli,
quello dei colpi di stato militari che con tutti i loro limiti, interpretano il
sentimento antifrancese che alberga nella maggioranza demografica dei giovani
insofferenti, la continuità delle finte democrazie autocratiche che con la
repressione e i brogli danno continuità ad un sistema di potere in agonia e la
soluzione elettorale alla senegalese forse non esportabile per le
caratteristiche proprie della storia senegalese che incanala il dissenso e la
protesta verso un progetto di cambiamento.
L’Onu ha scippato l’indipendenza saharawi
Dopo anni di stallo alle Nazioni Unite, la Risoluzione 2797 del Consiglio di
Sicurezza ha ridisegnato il panorama della questione del Sahara Occidentale.
Adottata il 31 ottobre senza veto, segna un importante cambiamento strategico:
il piano di autonomia marocchino è diventato la base del processo ONU, il
Consiglio di sicurezza ha chiaramente sancito l’iniziativa marocchina
dell’autonomia come base esclusiva per i negoziati per l’arrivo di una soluzione
definitiva al conflitto regionale che ha afflitto la regione per mezzo secolo .
Per l’Algeria, la battuta d’arresto diplomatica è tanto più grave in quanto
questa risoluzione è stata adottata mentre il paese era già membro del Consiglio
di Sicurezza. Per il Marocco, la sfida è cambiata: non si tratta più di
convincere gli altri della credibilità del suo piano, ma di dettagliarlo e
attuarlo .
Il termine “referendum” non compare più nella nuova risoluzione. l mandato della
MINURSO, la missione ONU sul campo, sarà rivisto alla luce dei progressi
politici, ponendo così fine al ciclo di proroghe tecniche automatiche. Le
Nazioni Unite continuano a menzionare il principio di autodeterminazione, ma non
lo collegano più a un referendum .
l Polisario ha reagito timidamente alla risoluzione, semplicemente prendendo
nota di alcuni elementi del testo, che costituiscono una deviazione molto
pericolosa e senza precedenti dalla base su cui il Consiglio di Sicurezza
affronta la questione “come questione di decolonizzazione”. Tuttavia, quattro
giorni prima dell’adozione della risoluzione, il Polisario aveva
“categoricamente respinto qualsiasi iniziativa come la bozza di risoluzione
promossa dagli Stati Uniti “mirava a imporre il piano di autonomia marocchino o
a limitare il diritto inalienabile del popolo saharawi di decidere liberamente
il proprio futuro”.
La soluzione proposta dall’ONU sulla spinta degli Stati Uniti e la Francia
elimina qualsisiai riferimento all’autodeterminazione del popolo saharawi
prospettando un’autonomia sotto il controllo del Marocco.
Di questo e della denuncia dell’accordo franco algerino del 1968 ,passata
all’Assemblea nazionale su proposta dei lepenisti parliamo con Karim Metref
giornalista algerino
Cop30. Mitigare il clima, almeno nel suo cambiamento
In un mondo sempre più attraversato da conflitti, dove le nazioni sono sempre
più bellicose, sembra reggere a parole l’impegno di ciascuno sulle grandi linee
della tutela dell’ambiente. Anche perché dietro al carrozzone mediatico si
nascondono anche molte occasioni di business (riconversione, sostenibilità…).
Nel commento di Alfredo Somoza si riscontrano note di parziale ottimismo per
l’impostazione della Cop30 e per i primi risultati che Lula può dichiarare
conseguiti come i 5 miliardi versati per la creazione di un fondo mondiale per
la tutela delle foreste tropicali e dunque Alfredo, che ha partecipato ad alcune
edizioni precedenti, ritiene si possa considerare non fallimentare questa
edizione improntata al pragmatismo fin dal discorso inaugurale del presidente
brasiliano, per quanto sia possibile in simili consessi istituzionali che devono
regolare con il bilancino diplomatico i rapporti e le risoluzioni finali, sempre
sottoposte a veti contrapposti delle molteplici lobbies presenti, pronte a
mettere in stallo obiettivi e finanziamenti – in particolare per il superamento
del fossile e l’abbattimento del CO2.
Infatti il fulcro di questa edizione, a dieci anni dalle promesse disattese
della Cop20 parigina, della conferenza climatica è il capitolo dell’istituzione
di uno stanziamento di 1300 miliardi per l’incremento dei flussi finanziari
verso i paesi vulnerabili (metà della spesa bellica annuale) per mettere sotto
controllo gli aspetti più drammatici del cambiamento climatico. Un terreno che
vede la Cina protagonista – non presente con i vertici politici ma con i tecnici
– è quello inerente all’aspetto tecnologico che prevederebbe secondo precedenti
accordi internazionali la neutralità climatica per il 2050, mentre Pechino ci
può arrivare già nel 2047; mentre invece l’India non ha né capacità tecnologica,
né l’intenzione di rispettare i termini, spostando il traguardo al 2070.
L’Unfcc che organizza l’evento ha fatto uscire proprio in questi giorni il
rapporto sull’impatto economico e climatico della climatizzazione domestica
Intanto si è svolto parallelamente il “Controvertice” Cúpula dos Povos, che ha
dato luogo nell’assemblea conclusiva al Movimento delle Comunità Colpite dalle
Dighe, dalla Crisi Climatica e dai Sistemi Energetici, polemico con un vertice
ufficiale contaminato dalla presenza di molte imprese responsabili di crimini
ambientali e persino emissari di crimini petroliferi. Molti nativi sono giunti
da ogni paese amazzonico e non solo per rivendicare i diritti delle popolazioni
indigene, che peraltro si trovano a casa loro e un migliaio sono anche
accreditate all’ingresso, nonostante la Conferenza delle Parti sia riservata
dall’Onu a discussioni di carattere tecnico (i leader politici partecipano al
vertice preliminare che dovrebbe demarcare i limiti entro i quali negoziare gli
accordi finali) ed è il momento in cui gli stati devono essere inchiodati alle
loro responsabilità. E stanno facendo sentire la voce e il fiato di chi vive più
vicino alla Natura.
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