Terzo settore e turismo a Napoli. L’impresa del bene, venerdì a LaterzAgorà

NapoliMONiTOR - Wednesday, April 9, 2025
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)

Sarà presentato venerdì 11 aprile, alle ore 18 al Teatro Bellini (via Conte di Ruvo, 14), il libro di Luca Rossomando L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. L’autore discuterà del volume con Giovanni Laino (Associazione Quartieri Spagnoli) ed Enrica Morlicchio (università Federico II).

Pubblichiamo a seguire un nuovo estratto del libro.

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GLI ENTI INTERMEDI
Le caratteristiche dei corpi associativi intermedi che operano in campo sociale e culturale si potrebbero sbrigativamente descrivere comparandole con quelle degli ultracorpi – quindi meno risorse, meno relazioni influenti, meno attenzione dai media –, ma questo non basterebbe a esaurire il quadro del loro sviluppo e l’analisi delle loro attuali difficoltà.

Nati in un arco di tempo piuttosto ampio, caratterizzato da rapidi mutamenti dei contesti sociali, politici e anche normativi di riferimento, questi enti presentano campi di intervento, forme giuridiche e strutture organizzative troppo disparate per poterle esaminare nel dettaglio, ma tutti si trovano oggi ad affrontare alcuni nodi fondamentali dai quali dipende il senso stesso del loro operato e in ultima istanza la loro sopravvivenza.

I più longevi vantano una lontana origine “militante”, eredità di esperienze sociali collegate ad appartenenze politiche o religiose, anche se da tempo quei principi sono stati abbandonati per adattarsi a scenari ormai radicalmente mutati. Una prima tappa di questi mutamenti, negli anni Ottanta, si registra con la grande diffusione delle associazioni di volontariato, in cui avviene un massiccio travaso di giovani fuoriusciti da partiti politici e movimenti di base. “Fino a metà degli anni Novanta – ha scritto Giovanni Laino¹ – si realizza una fase per cui, con le iniziative dal basso, ‘i progetti sollecitano le politiche’. Dalla fine degli anni Novanta invece in tutto il Paese si realizza una fase diversa, più matura per quanto problematica e ambigua, in cui sono ‘le politiche che sollecitano i progetti’, nel senso che diverse iniziative sembrano indotte soprattutto da opportunità di finanziamento”.

È in questo frangente che svaniscono le residue illusioni di un intervento sociale autonomo e politicamente alternativo. Un numero crescente di associazioni e cooperative assume su di sé funzioni di interesse pubblico su mandato delle amministrazioni, inserendosi in un sistema di mercato con gare basate sul principio del massimo ribasso; emergono nuove forme giuridiche, cambia il rapporto con le istituzioni e la competizione si approfondisce, tracciando confini sempre più netti tra due modi di operare: l’autonomia, l’autogestione, il mutuo aiuto, che erano stati i principi all’origine di molte organizzazioni nate negli anni Settanta, vengono progressivamente relegati nel campo dell’iniziativa informale; si affermano invece la gestione burocratica, la gerarchizzazione, il collateralismo politico, uniformando in un unico contenitore – quello del terzo settore – tutte le forme di intervento, dal volontariato all’associazionismo fino alla cooperazione. Lo slittamento verso il mercato e le logiche d’impresa sarà inesorabile, prima marginalizzando e poi eliminando del tutto, da pratiche e statuti, le caratteristiche delle origini.

Nel welfare pubblico in crisi dilaga il sistema dei servizi esternalizzati, dei bandi, della competizione tra enti, territori, popolazioni per aggiudicarsi fiducia e finanziamenti istituzionali. L’altra faccia della “soluzione imprenditoriale”, che oggi gli ultracorpi propongono per “rigenerare” le città, si mostra in tutta la sua crudezza a questi enti intermedi, che non avendo i mezzi per competere su una scala più ampia, sono costretti a battagliare con i loro omologhi, da un lato per accaparrarsi i beneficiari dei servizi offerti, dall’altro per attirare i finanziamenti necessari per realizzare le proprie attività, e in definitiva per avere la possibilità di continuare a esistere.

Le condizioni di esistenza, però, appaiono sempre meno sotto il loro controllo. Gli appalti dei servizi pubblici a enti “accreditati”, richiedono infatti un tipo di monitoraggio esercitato dall’alto con criteri sempre più stringenti. È necessario esibire delle credenziali, e queste credenziali non sono altro che numeri. Quello che era nato come un intervento basato sulla prossimità e sulle relazioni umane, sta traslocando in una dimensione virtuale². D’altra parte, anche i finanziatori privati, per decidere dove collocare le proprie risorse, richiedono progetti “innovativi”, “attrattivi”, che possano accrescerne la reputazione, a scapito di iniziative magari meno brillanti ma più rispondenti alle esigenze reali dei destinatari.

Il rispetto dei parametri fissati da chi mette i soldi, l’espletamento delle pratiche burocratiche necessarie prima ad aggiudicarsi i finanziamenti e poi a rendicontarne le spese, prevale ormai sullo sforzo di connettere le proprie attività con i bisogni strutturali di un territorio, con i servizi essenziali per i suoi abitanti, con le esigenze di partecipazione e le prospettive di emancipazione.

QUALE LAVORO
Tra gli “effetti collaterali” di questo sistema vi sono, da un lato, la difficoltà di mettere alla prova e consolidare nel tempo esiti e strategie di intervento, dall’altro la precarietà ormai cronica di educatori e operatori sociali, privi di garanzie contrattuali e soggetti all’estrema volatilità di progetti e finanziamenti.

La precarietà, l’instabilità, in particolare per ciò che riguarda le condizioni di lavoro, sono caratteristiche costitutive di gran parte degli enti intermedi. Gli ultracorpi hanno risorse sufficienti per offrire ai propri dipendenti contratti di lavoro regolari; inoltre, sono così esposti sui mezzi di comunicazione da non potersi permettere irregolarità formali nello svolgimento delle proprie attività. La fondazione FoQus sostiene di aver creato 168 posti di lavoro in dieci anni; la cooperativa La Paranza dichiara 45 tra dipendenti e soci, e più in generale, la galassia di cooperative e associazioni nell’orbita della fondazione San Gennaro darebbe lavoro a circa 150 persone. Da questi numeri (che peraltro non ci dicono nulla sulle condizioni in cui viene esercitato il lavoro), gli ultracorpi deducono, oltre che una conferma della propria natura benefica, un corollario più ottimista, e non verificato, che consisterebbe in un “contagio positivo” verso l’ambiente che li circonda. Lo vedremo meglio trattando dei servizi al turismo nel capitolo sesto, ma intanto possiamo affermare che se gli ultracorpi riescono a garantire contratti regolari ai propri dipendenti, questa pratica non si trasmette automaticamente agli enti intermedi, i quali continuano a offrire perlopiù lavoro precario e non garantito a chi si impiega alle loro dipendenze³.

Il lavoro sociale svolto su mandato delle pubbliche amministrazioni è vincolato a rigidi protocolli, definiti spesso in modo astratto e standardizzato. I lavoratori sono assunti secondo contratti del settore privato (per esempio il contratto nazionale delle cooperative sociali) che offrono meno tutele rispetto a quelli pubblici; il loro lavoro è generalmente riconosciuto nei bandi sotto forma di ore e minuti “erogati” all’utenza, quindi solo in considerazione della quantità di lavoro necessaria a garantire un determinato servizio, e per periodi limitati di tempo (la durata degli appalti). Le modalità in cui vengono forniti questi servizi sono demandate interamente all’ente che si aggiudica l’appalto. Da qui l’abnorme diffusione di part-time e contratti a tempo determinato, l’altissima intensità di lavoro, le numerose forme di precarizzazione e di incertezza nell’organizzazione del lavoro.

I mestieri di educatore, operatore sociale o culturale, e in genere tutte quelle figure professionali emerse con la crescita del terzo settore, hanno perso da tempo il fascino esercitato per una breve stagione su chi si era illuso di poter vivere con un lavoro quasi “nobile”, e uno stipendio quasi intero. Le storie di oggi parlano di lavoratori impegnati in ambiti diversissimi – dai centri estivi per bambini ai penitenziari, dalle comunità per minori ai centri di salute mentale –, spaziando dai compiti educativi a quelli di contenimento e controllo, alle prese con esigenze, codici di condotta e abilità richieste molto diverse da un ambito all’altro. Eppure, il profilo di chi presta servizio in questi enti si è andato uniformando, e sempre più sbiadendo, con il passare del tempo: l’attitudine flessibile, polifunzionale, intercambiabile, al di là di ogni eventuale qualificazione; la disponibilità a lavorare senza protezione normativa, talvolta senza contratto, con salari bassi o bassissimi, spesso differiti nel tempo; l’auto-sfruttamento, ovvero la confusione con la militanza per una causa, incentivata dai superiori, ma talvolta introiettata dagli stessi operatori pur di non interrompere il rapporto di lavoro; questi e altri fattori compongono un’identità incerta, lontana da quella “sicurezza di rappresentanza” che dovrebbe caratterizzare ogni impiego dignitoso. Si aggiunga la tendenza sempre maggiore a investire queste figure di compiti amministrativi e burocratici che esulano dalle loro mansioni, e l’accelerazione tecnologica che, mutando l’organizzazione del lavoro, muta anche le linee di comando, affidate sempre meno agli esseri umani e sempre più ai dispositivi; una fase di transizione in cui anche i presunti beneficiari dei servizi vedono cambiare il proprio statuto, risignificati come numeri e dati da cui estrarre un sia pur minimo margine di valore e di potere⁴.

Se quaranta o cinquanta anni fa, gli antenati di questi enti sorgevano da processi realmente collettivi e in un orizzonte di emancipazione possibile, nel tempo la formalizzazione e la costituzione di status e gerarchie interne, ha prodotto un totale disinteresse, da parte chi si trova sul fondo di queste gerarchie, per tutto ciò che non riguardi il proprio strettissimo dovere – di pari passo con la perdita della capacità di organizzarsi per difendere i propri diritti. Oggi, di fronte a operatori sempre più precari, ma anche abulici dal punto di vista politico e sindacale, si assiste al paradosso di dirigenti che “fanno politica” o “fanno sindacato” al posto loro, con accenti nominalmente progressisti ma per obiettivi concretamente corporativi, lamentando da un lato quella precarietà che loro stessi alimentano, dall’altro chiedendo alle istituzioni più risorse e agevolazioni per i propri enti.

¹ Laino G., Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 117.

² “La richiesta istituzionale era di quantificare le prestazioni e ogni attività diventava subordinata a questa richiesta. […] L’unico interesse dietro queste procedure [era] l’ottimizzazione dell’azienda in funzione della sua spendibilità sul mercato dei ‘servizi’, a scapito della reale qualità della vita delle persone coinvolte”: testimonianza di un’operatrice sociale in Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022, p. 36.

³ Si vedano: Curcio R. (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici, Sensibili alle foglie, Roma, 2014; Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022.

⁴ Si veda questa acuta analisi in: www.laterratrema.org/2021/03/poveri-stoccati-connessi/.