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Bestiari, Erbari, Lapidari. Il film di D’Anolfi e Parenti venerdì ad Astra Doc
NapoliMONiTOR - Monday, January 27, 2025
Il 31 gennaio Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo la prima all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, presentano in prima visione a Napoli, nell’ambito di AstraDoc, Bestiari, erbari, lapidari, documentario “enciclopedia”, diviso in tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante, le pietre. Il film verrà proiettato alle 19.30 al cinema Astra di via Mezzocannone.
Bestiari, erbari, lapidari è un omaggio agli “sconosciuti” e per certi versi alieni mondi fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo, in quanto parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta. Riproponiamo a seguire una intervista di Cristina Piccino ai due autori, pubblicata ad agosto sul Manifesto.
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La locandina mostra un uomo e un pinguino, il primo avanza, il secondo indietreggia, il fotogramma è preso da un filmato di Roald Amundsen che documentò agli inizi del secolo scorso questo incontro nel corso di una spedizione al Polo Sud. E da qui si dichiara il movimento di Bestiari, Erbari, Lapidari il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi che sarà alla Mostra del Cinema fuori concorso – per uscire in sala dal 5 ottobre. Un film saggio, come dichiarano gli autori, fra i più attenti nel cinema italiano alla ricerca di una forma con la quale confrontarsi coi molti interrogativi della realtà contemporanea. A cominciare dall’uso degli archivi che si fanno nei loro film trama attraverso la quale interrogare il senso delle immagini di oggi, e che nelle loro narrazioni chiedono allo sguardo di riposizionarsi, di ritrovare come in una fiaba lontana il piacere della meraviglia. Specie in questa opera in tre atti che parla dell’umano e della sua relazione con la natura, un tema molto attuale declinato nel pensiero e nella storia. Ne parliamo con gli autori in una conversazione che mescola le parole dell’una e dell’altro in una costante tensione artistica comune.
Bestiari, Erbari, Lapidari esplora la relazione fra l’uomo e la natura in una prospettiva che è quella dell’immaginario e della memoria. E che pur nella sua presenza centrale lascia l’umano fuori dall’inquadratura. Cosa vi ha portati a questa riflessione?
Erano diversi anni che volevamo fare un film sulle piante, avevamo capito che gli alberi si portano dietro delle storie, c’è una linea delle immagini e una del racconto che viaggiano parallele ma le piante sono molto difficili da filmare, dovevamo trovare un modo per avvicinarci a loro perché il mondo vegetale sfugge alle nostre categorie dello sguardo. Un giorno un’amica ci ha detto che dal veterinario del suo gatto c’erano due piccole tigri, tra l’altro lo studio di questo veterinario è proprio vicino a casa nostra. Abbiamo scoperto che era un esperto di animali del circo, tutte le famiglie circensi più importanti si rivolgevano a lui. Le tigrotte erano nate in un circo e come spesso accade agli animali in cattività la madre le aveva rifiutate così le avevano portate da lui per salvarle. Abbiamo iniziato a filmare le tigri anche se in realtà volevamo filmare le piante, a quel punto abbiamo pensato alle pietre sui cui avevamo già lavorato in film come La fabbrica del Duomo. Il nostro riferimento è stato l’enciclopedia medievale, a scuola nel Medioevo si studiavano i bestiari, gli erbari, i lapidari con molte variazioni anche fantastiche. Sui lapidari nelle immagini medievali è stato più difficile, le pietre erano spesso più brutte nelle rappresentazioni, se ne parlava specie per le proprietà magiche. Ci siamo detti che forse potevamo pensare a una pietra più metaforica come è quella della memoria.
Quindi l’enciclopedia medievale è stata veramente una bussola.
Sì, ma anche un gioco nel senso che spesso nei nostri film scegliamo prima il titolo e dopo ci chiediamo come farlo cercando una narratività che esiste anche in modo indipendente da noi. In realtà questo film è cominciato da un altro progetto, volevamo realizzare qualcosa durante la pandemia e avevamo pensato a un Bestiari, Erbari, Lapidari in città. Doveva essere un lavoro piccolo che era costruito però con una scrittura molto complessa, il riferimento era un po’ La Ronde di Max Ophüls. C’erano molti episodi brevi che si passavano il testimone l’uno con l’altro, dai veterinari agli alberi che crescevano e poi venivano potati, dal sopra e al sotto della città e via dicendo. Non chiediamo mai alle persone di fare delle cose per il film, lì però tutto era incastrato e rileggendolo ci è sembrato troppo artificioso, quella scrittura si sarebbe mangiata le cose che potevano succedere. Questo film è più esteso ma anche semplice, ogni atto segue la sua narrazione, per noi è il nostro film più narrativo.
Nei tre atti si viaggia attraverso degli universi che interrogano il passato e il presente in quella che è appunto la posizione dell’umano rispetto alla natura fra scienza, filosofia, botanica e soprattutto la materia delle immagini e le sue emozioni, lasciando libero lo spettatore di seguire le proprie piste. Che tipo di lavoro fate sulla scrittura?
Il cinema stesso ha un’ambivalenza, nei Bestiari è chiaro come il frame della pellicola diventa una nuova gabbia. In un film come questo lo sviluppo drammaturgico era fondamentale, la parte dei Bestiari doveva aprire il terreno della meraviglia degli Erbari per ritornare al cuore dei Lapidari. Abbiamo scritto un inizio più saggistico che ci permettesse di costruire un processo nel quale progressivamente la parola diminuisce. È presente nei Bestiari, si allontana negli Erbari – dove sentiamo una voce senza sapere a chi appartiene – sparisce completamente nei Lapidari nonostante il ritorno all’umano. Nei compendi medievali al primo posto c’è l’erbario poi gli altri, noi abbiamo scelto invece l’ordine alfabetico perché c’era bisogno di un enigma come è quello dei vegetali fra due momenti più sentimentali. Tornando alla scrittura scriviamo tre volte come dice Wiseman, la prima è quella per la ricerca dei finanziamenti, che riguardiamo man mano che si va avanti riaggiornandola. Nella fase delle riprese (qui è Massimo D’Anolfi a parlare, ndr) scrivo giorno dopo giorno, ho bisogno di filmare per capire il luogo, le relazioni, come io abito quel posto. Di solito montiamo il film dopo due o tre mesi di riprese, per gli Erbari era chiaro sin dall’inizio che aveva un arco temporale di un anno attraverso le stagioni. Poi anche qui ci sono state delle sorprese come l’erbario di guerra che è venuto fuori quasi per caso. Ma la realtà regala sempre qualcosa e se filmi in un certo modo il montaggio te lo restituisce. La chiave delle riprese è stata qui la pazienza dello sguardo, specie per le piante, insieme alla cura che guidano il respiro di tutto il film. C’è un aspetto ipnotico, di incantamento dato dalle immagini, dai suoni, dalla musica, dai silenzi. E dall’assenza quasi totale di volti umani. Quando nell’inquadratura manca qualcosa devi cercare altro, l’inquadratura è un paesaggio visivo, ci vuole tempo e fiducia, ti affidi e la vivi fino in fondo.
Parliamo degli archivi, che sono oggi molto utilizzati al punto da diventare persino «decorativi». Nei vostri film si proiettano sul contemporaneo, e anche nelle immagini più «semplici» vi sono molte possibili letture di ciò che forma la nostra cultura e il nostro sguardo. Spesso mentre li mostrate filmate le mani che sfogliano libri, scorrono pellicole…
Le mani sono legate al fare, al lavoro, all’artigianalità, non abbiamo bisogno della figura umana intera per il tipo di lavoro che facciamo. La ricerca in questo film è stata complessa, ci abbiamo lavorato quattro anni, avendo ormai un’esperienza con gli archivi, al di là della rete che è sempre una risorsa eccezionale, siamo partiti da quello che conoscevamo, il Luce, la Cineteca svizzera quella Nazionale ecc. Abbiamo coinvolto due studiosi, Sofia Gräfe e Francesco Pitassio, Sofia ci ha parlato di un festival di cinema animale dove abbiamo scoperto il patrimonio dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam che come gli altri è entrato in produzione. Abbiamo utilizzato solo archivi europei perché i compendi medievali riguardano l’Europa. Per noi l’approccio all’archivio deve essere diegetico, abbiamo amato alla follia Farocki o Ricci Lucchi e Gianikian, e con questi esempi cerchiamo un nostra riflessione rispetto agli archivi che appunto è diegetica. A un certo punto con Guerra e pace ci siamo entrati fisicamente ma gli archivi devono avere un senso, se non li risvegli muoiono e per farlo devono essere interrogati, studiati, contestualizzati, capiti. Nel finale dei Bestiari c’è una donna che mette il fiocco al collo a dei cagnolini, è un film stupendo, a colori ma nerissimo nel mostrarci come quei cuccioli diventano i bambini di casa. C’è un elemento quasi horror, che ci fa cogliere nella meraviglia delle immagini l’orrore che sarà in futuro. Non abbiamo mai sonorizzato né manipolato gli archivi, li usiamo nella loro interezza. Ridargli un montaggio nel loro andamento cronologico contribuisce alla pulizia dello sguardo e li rende un elemento solo decorativo. Ci sono trappole continue in questa ricerca, ogni volta è una sfida, si può sbagliare ma è la cosa bella di questo mestiere.