Nel febbraio del 1942 Mussolini dispose che tutti gli ebrei della Cirenaica
fossero riuniti in un campo di concentramento della Tripolitania.
In Nordafrica gli ebrei sefarditi fuggiti dalla Spagna per scampare alle
persecuzioni dei “re cattolici” Ferdinando di Castiglia e Isabella di Aragona
alla fine del quindicesimo secolo, erano numerosissimi. La comunità libica, così
come altre nel Mediterraneo Orientale, era ancora più antica.
La loro memoria è stata seppellita dalla “Repubblica nata dalla resistenza”, che
ha coperto i crimini del colonialismo italiano.
Per limitarci alla Libia la rivolta anti coloniale del 1931 venne repressa con
uccisioni e deportazioni di massa nel deserto. In un paese di 800.000 abitanti,
centomila vennero sterminati. Uno ogni otto.
La persecuzione italiana degli ebrei viene sempre dipinta come più dolce, una
conseguenza dell’occupazione tedesca.
Non è vero.
Anche oggi non è interesse di nessuno ricordare gli ebrei morti nel campo
fascista di Giado, nella colonia italiana di Libia.
Non di un governo che raccoglie l’eredità del fascismo. Non di certa sinistra
che punta il riflettore solo sugli ebrei askenaziti che vivevano in Germania e
nell’Europa dell’est, mettendo in ombra la violenta persecuzione delle comunità
sefardite arabofone che vivevano in Libia, durante l’occupazione italiana. Una
persecuzione che proseguirà anche nel dopoguerra, quando buona parte delle
comunità ebraiche del Nord Africa, dell’Arabia e del Mediterraneo Orientale
vennero perseguitate ed espulse da paesi dove vivevano da centinaia di anni.
Nella stessa Libia i pogrom del 1945, del 1948 e del 1967 obbligarono all’esilio
i superstiti delle persecuzioni fasciste.
Quelli che seguono sono alcuni frammenti della storia dimenticata degli ebrei
rinchiusi nel campo di concentramento di Giado.
All’inizio del marzo 1942 furono compiuti i primi rastrellamenti della comunità
ebraica della Cirenaica sotto la guida del generale Bastico. Così sorse il campo
di concentramento di Giado, centottanta chilometri a sud di Tripoli, presso il
crinale di Gebel Nefusa.
La testimonianza del deportato Ofek è sconvolgente: “Ogni due settimane,
l’oppressore appendeva nella piazza di Bengasi un elenco delle famiglie che si
dovevano preparare per poi recarsi nelle scuole da dove si sarebbe partiti. Ci
caricarono sui camion, quelli solitamente usati per il trasporto delle merci: il
viaggio sarebbe durato cinque giorni. In tutto 2600 famiglie furono portate via.
Arrivammo al campo di Giado la vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica. Soldati
italiani e arabi vigilavano sul reticolato e chiunque si avvicinava rischiava di
venire colpito dai fucili dei guardiani. Ci davano 120 grammi di pane al giorno.
Le altre cose da mangiare venivano distribuite la domenica per l’intera
settimana: cinque grammi di riso al giorno, tre grammi d’olio, tre grammi di
conserva di pomodoro, cinque grammi di zucchero e cinque grammi di caffè.
Ci costringevano a lavorare per dodici ore di seguito, senza pausa, senza
interruzione, senza riposo: una tortura quotidiana.
Organizzammo una delegazione di ebrei che andasse dal comandante, il maggiore,
per domandare razioni più consistenti. Ci rise dietro.
Fu soltanto dopo molti pianti e alcuni discorsi convincenti degli anziani della
nostra comunità che il comandante, crudele, consentì agli arabi della zona di
venderci verdura, datteri e frumento. Ovviamente non avevamo soldi con noi.
Così, dopo una giornata di lavoro, completamente esausti, lavoravamo per il
villaggio arabo. Le donne del campo cucivano abiti per loro e in cambio
ottenevamo qualcosa dai loro orti…”.
A Giado gli ebrei raccoglievano pietre e le trasportavano da un lato all’altro
del campo. Un lavoro inutile, senza senso, che serviva soltanto a farli stancare
e ad annientarli psicologicamente.
Moshe Saban lo ricorda così: “Era terribile. È così che ci siamo ammalati, tutte
quelle infezioni e il tifo. Ricordo di essermi tolto la maglietta e di aver
visto le cimici: grandi la metà di una zanzara che strisciavano sul mio corpo.
La sera, verso le 19 quando cominciava a scendere il buio, eravamo costretti a
addormentarci. L’ufficiale entrava con una frusta e guai a chi continuava a
parlare o faceva altri rumori. Andava da una baracca all’altra per controllare
chi aveva la febbre e portava i malati in ospedale. Chi lasciava la famiglia e
andava in ospedale sapeva che non sarebbe più tornato”.
Il lavoro era logorante e snervante. Yehuda Chachmon ricorda che erano impegnati
“a scavare buche profonde e a entrare nella terra rocciosa. Il giorno dopo
portavano un altro gruppo e li costringevano a riempire le stesse buche con la
stessa roba. Tracciavano una linea intorno al luogo dove stavamo lavorando e chi
osava passare oltre quella linea veniva ucciso”.
L’orrore irruppe nella vita del campo quando ormai gli inglesi erano vicini.
Arrivò un ordine raccapricciante: tutti gli ebrei maschi dovevano essere
radunati e uccisi, mentre i 480 malati dell’infermeria del campo dovevano essere
condotti nello scantinato per essere bruciati. All’ultimo, forse per timore di
ritorsioni, l’ordine fu revocato.
Gli inglesi trovarono a Giado gente malata, con addosso solo stracci, distesa
per terra, nelle baracche, in condizioni igieniche inesistenti, priva di letti,
stremata dal tifo e affamata.
In quel campo persero la vita più di 560 tra uomini, donne e bambini di origine
ebraica. Questi numeri fanno di Giado il lager italiano con il maggior numero di
vittime.
Oggi, giorno della memoria, li ricordiamo.
Ma, soprattutto, ricordiamo i loro carnefici. Italiani brava gente.