C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte
del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per
la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di
Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente
ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può
riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una
delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta
antistante la cascina.
di Paolo Persichetti da Insorgenze
L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme
Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti
che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla
colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul
posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da
spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano
indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e
originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione
del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse
discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta
Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da
tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali
più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano
immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un
paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo
Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito
prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal
pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa
dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il
tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con
una improvvida iniziativa che terminò in tragedia.
La nuova perlustrazione del 20 giugno
Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol
Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975,
ovvero 15 giorni la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le
due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento
della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro
il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione
dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato
fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che
si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben
sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto
avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel
successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò
nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina
alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa
comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del
carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente.
Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due
brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe
Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli
esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali?
I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso
Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo
esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi
ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era
affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a
mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita
soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso
petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi
dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona
antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito
tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via.
L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla
stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore
contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga
tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato.
Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al
luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in
dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di
effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le
armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli
calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua
arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli.
Parlare di una indagine lacunosa è dire poco.
Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese
per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo
Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del
generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un
apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a
causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. E’ in quel momento
che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol
viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a
causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio
rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e
rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non
arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini.
Perché?
Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione
Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica
sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un
colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa.
Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo
dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima
volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate
in aria in segno di resa.
Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono
chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza
molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con
andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte
pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita
dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza
di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal
terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol.
Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi
spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era
posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato
a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta
probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che
centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo
sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa
la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio
ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla
macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata
accanto allo sportello completamente scarica.
Il duello con l’appuntato D’Alfonso
Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato
destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le
macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto
leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente
dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei
due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente
Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima
costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima
volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo
toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della
Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al
fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro
colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni
dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza
ravvicinata: nell’ordine di pochi metri».
Chi ha ucciso Mara Cagol?
Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un
terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il
corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da
un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia
chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché
fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto
c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis,
D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i
sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita.
Fantasmi come il proiettile scomparso.
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