Le Brigate rosse, i fiancheggiatori, le ossessioni del generaleNegli anni ‘70 la democrazia del nostro Paese corse rischi elevati. Per l’azione
del terrorismo, e la cosa è nota. Ma anche per il tentativo di settori degli
apparati di cogliere la lotta al terrorismo come occasione per criminalizzare
ampi settori della cultura, dell’Università, della stessa magistratura. Lo
dimostrano due inquietanti relazioni riservate del generale dalla Chiesa redatte
nel 1979 e declassificate nel 2012.
di Pino Narducci da Volere la Luna
Il generale ha un collaudato rapporto di collaborazione con i magistrati
torinesi. D’altronde, lui stesso piemontese, lavora a Torino da diversi anni,
prima al Comando della I Brigata Carabinieri e poi, dalla primavera ’74, a capo
del Nucleo speciale antiterrorismo, creato, in seno alla Brigata, dopo la
conclusione del sequestro del magistrato genovese Mario Sossi. Ma, fuori dal
territorio sabaudo, non sempre riesce a stabilirsi quella sintonia che, in
Piemonte, ha permesso ai carabinieri e alla magistratura di raggiungere
risultati importanti nella attività di contrasto alle Brigate Rosse.
A Milano, il giudice istruttore Ciro De Vincenzo è titolare di indagini
importanti, da quella sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli e sulle attività
dei GAP (Gruppi Azione Partigiana) fondati dall’editore [1] all’inchiesta sulla
colonna milanese delle Brigate Rosse che, solo alcuni anni prima, sono nate
proprio a Milano, negli stabilimenti della Pirelli e della Sit-Siemens. Il
generale sospetta di lui: il magistrato ha favorito, durante l’istruttoria, i
brigatisti Enrico Levati, Giorgio Semeria e Heide Peusch e gli ha anche passato
notizie riservate sulle indagini in corso in Lombardia. Agli inizi del ’75,
Carlo Alberto dalla Chiesa invia un rapporto al Procuratore Generale di Torino,
Carlo Reviglio della Venaria [2], nel quale accusa il giudice istruttore
milanese di essere un fiancheggiatore delle BR. Il rapporto finisce sul tavolo
di Salvatore Paulesu, Procuratore Generale di Milano, ma, alla fine, la Corte di
Cassazione stabilisce che sarà Torino a indagare sul magistrato. La vita e la
carriera di Ciro De Vincenzo saranno sconvolte dall’avvio della inchiesta penale
e poi da quella disciplinare, vicende che si concluderanno definitivamente
soltanto tre anni più tardi, nel marzo ‘78, con la sconfessione dell’accusa
sostenuta dal generale [3].
Dopo essere divenuto coordinatore del Servizio Sicurezza della Direzione
Generale degli istituti di prevenzione e pena, nell’agosto 1978 Carlo Alberto
dalla Chiesa assume il comando dell’Ufficio di coordinamento e cooperazione
nella lotta al terrorismo, concentrando nella sua figura poteri mai concessi in
precedenza a nessun’altro. Devono far capo al generale tutte le forze di polizia
impegnate nella lotta al terrorismo ed egli, generale di divisione dei
carabinieri, non deve rispondere del suo operato al Comandante Generale
dell’Arma, ma solo e direttamente al Ministro dell’Interno. L’incarico terminerà
molto presto, alla fine del ’79, e dalla Chiesa, durante il periodo di comando,
trasmette a Virginio Rognoni due relazioni riservate che resteranno segrete sino
al 2012, anno in cui avviene la declassificazione dei documenti [4]. La
riservatezza delle note permette al generale di utilizzare un linguaggio ben
diverso da quello che è tenuto a osservare nelle comunicazioni ufficiali con le
istituzioni. Soprattutto, dalla Chiesa può fornire informazioni ed esprimere
valutazioni che non potrebbe mai affidare a documenti immediatamente conoscibili
da tutti.
Nella prima relazione, sui risultati conseguiti tra il 10 settembre 1978 e il 10
marzo 1979, può fare valutazioni ed avanzare proposte sulla magistratura che
sarebbero indicibili in sede pubblica. L’affondo è durissimo: «Non ci saranno
risultati se la Magistratura (Csm) non allontanerà, senza complessi almeno
dall’esercizio dell’azione penale o dall’istituto del “magistrato di
sorveglianza”, quegli elementi notoriamente indicati, presso determinate Corti o
Sezioni: quali extraparlamentari o comunque compromessi in loco per il loro
stato di soggezione a collettivi forensi, di studio, per situazioni personali,
ecc.; quali “acculturati” a tal punto da divenire espressione dialettica attiva,
e talvolta di vera “prevaricazione” nei confronti di colleghi meno preparati o
più esposti alle vendette dell’eversione; quali portatori – in veste di
legalitari o garantisti – di “benevolenze” o “comprensioni” o “dilazioni” o
“prescrizioni” o ” concessioni” a detenuti pericolosi per l’eversione, ecc…».
Una fetta consistente di pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di
sorveglianza costituisce, quindi, uno dei principali fattori che ostacola la
lotta al terrorismo. Ma non si tratta solo dei magistrati che simpatizzano, più
o memo apertamente, per la sinistra extraparlamentare, ma anche, secondo il
generale, dei garantisti o legalitari, quelli che applicano le ragioni del
diritto e non la ragion di Stato, anche loro di intralcio alla lotta al
terrorismo. Sorprendente è la categoria degli “acculturati”, quelli più
preparati e con più spiccate doti intellettuali, anche loro sospetti e
pericolosi. In un passaggio successivo della relazione comincia a prendere forma
la visione che il generale esporrà, compiutamente, nella seconda nota riservata:
i ceti intellettuali e professionali del paese sono la linfa vitale che permette
alle Brigate Rosse di crescere e radicarsi nella società: la platealità degli
interventi delle BR «ha fatto perno su molte componenti intellettuali che si
sono trasferite dai banchi delle Università alle loro cattedre; molte facoltà,
ad esempio, che hanno dato magistrati e medici a Genova, architetti a Torino,
economisti e sociologi a Genova, Milano, Padova, Cosenza, avvocati e insegnanti
di Milano, Roma e Napoli». Poi, fornisce notizie sulle dinamiche esistenti negli
uffici giudiziari bolognesi: «Alcuni di essi, anzi, assumendo atteggiamenti
inquisitori e chiaramente di parte, hanno determinato, per le iniziative
giudiziarie assunte, scoraggiamento e sbandamento in seno a qualche Reparto o
tra elementi impegnati nell’assolvimento di compiti particolarmente ardui e
difficili; sino a contenerne l’entusiasmo e a limitarne l’iniziativa. Il caso di
maggior rilievo riguarda l’ambiente giudiziario di Bologna, ove taluni
magistrati, oltre ad adottare provvedimenti contrastanti nei confronti di
persone arrestate o fermate, per gli stessi motivi: hanno prima inviato
comunicazione giudiziaria e poi emesso decreto di comparizione per arresto
illegale ed abuso di potere nei confronti del Comandante di quel Reparto
Operativo; Ufficiale già particolarmente esposto – come da documenti in atti –
alle minacce dei gruppi eversivi; hanno insistentemente indagato per conoscere
nominativi di componenti dei Reparti Speciali che, nello specifico caso,
abbisognano di copertura. Il tutto ha creato scalpore anche perché sono ben
note, al di fuori degli ambienti giudiziari, le nette simpatie per l’estremismo
esternate dal magistrato che ha promosso detto procedimento penale nei confronti
dell’Ufficiale, e la comunanza politica che lo lega al Collettivo Politico
Giuridico di Bologna, cui appartengono gli avvocati difensori degli imputati
prosciolti». La vicenda evocata nella nota come prova dello “sbandamento”
ideologico e professionale della magistratura è quella che, nel marzo ’77,
coinvolge il capitano Nevio Monaco, comandante del reparto operativo carabinieri
Bologna, ed altri sottufficiali dell’Arma nei giorni drammatici segnati dalla
uccisione dello studente Francesco Lorusso e dall’arrivo dei blindati, inviati
da Cossiga, che militarizzano il centro storico del capoluogo emiliano. Il
sostituto procuratore Rubini ritiene che i carabinieri siano responsabili dei
reati di falso in atto pubblico e arresto illegale in relazione a un fermo di
polizia avvenuto durante quelle giornate. L’indagine si chiude nel giro di pochi
giorni, con un provvedimento di archiviazione siglato dal giudice istruttore il
1 aprile ‘77.
Nella seconda relazione (sui risultati conseguiti tra l’11 marzo ’79 e il 10
settembre ’79) si innalza il livello di analisi politico-giudiziaria del
generale sul mondo della eversione di sinistra e sui settori delle istituzioni
che la sostengono. Carlo Alberto dalla Chiesa la scrive il 14 ottobre ’79,
all’indomani di due operazioni giudiziarie che, a suo avviso, sono cruciali per
comprendere la struttura delle formazioni eversive e definire l’identità di chi
ha assunto il ruolo di comando. A Padova, il 7 aprile ‘79, la magistratura
ordina l’arresto di Toni Negri, di altri docenti dell’ateneo veneto e di
numerose altre persone per il reato di partecipazione a banda armata e altri
delitti [5]. Un mese dopo, a Genova, il 17 maggio ’79, i carabinieri arrestano
il professore universitario Enrico Fenzi e alcuni esponenti della Autonomia
Operaia che gravitano nell’Università. Secondo dalla Chiesa, si tratta del primo
duro colpo inferto alla colonna genovese delle BR [6]. I risultati di queste
inchieste costituiscono la conferma della ipotesi che il generale ha maturato
nel corso degli ultimi anni: si è realizzata una osmosi tra Autonomia Operaia
Organizzata, le Brigate Rosse ed altre formazioni della lotta armata. Anzi, il
ceto intellettuale che insegna nelle università rappresenta il “cervello
pensante” di queste organizzazioni. Dunque, se la galassia della eversione di
sinistra fa capo ai professori universitari, anche i simpatizzanti e i
sostenitori non possono non appartenere al circuito delle “menti
raffinatissime”.
Così, il nucleo centrale della nota, più che la parte dedicata alle BR e a Prima
Linea, è il capitolo intitolato «Cenni sui fiancheggiatori e sulle azioni di
supporto morale e operativo garantite alle organizzazioni eversive da parte di
qualificati ambienti, quali: a) intellettuali e universitari; b) giudiziari; c)
carcerari; d) forensi; e) industriali; f) amministrazione dello Stato; g)
editoria e stampa». Secondo dalla Chiesa, quello giudiziario è il «settore nel
quale l’Autorità Giudiziaria, chiamata a formalizzare ed a giudicare fatti
terroristici ai quali deve essere attribuita rilevanza penale, è talvolta
apparsa incerta tra l’applicazione rigida della norma penale e la creazione
continua di un nuovo diritto… Un primo aspetto… è un certo lassismo od una certa
sufficienza evidenziati proprio nella trattazione di crimini legati o derivanti
da fatti eversivi… Il terzo aspetto è senza dubbio più delicato ed è anche
quello che si è rivelato il più pericoloso. Ci si riferisce a quei magistrati
che, permeati dallo stesso credo politico delle organizzazioni eversive o
estremamente fragili – anche culturalmente – alle argomentazioni di
“legali-complici”, hanno derubricato reati, concesso libertà provvisorie,
inflitto miti condanne in forza di attenuanti a volte speciose. Ci si riferisce
a quei magistrati i quali, al riparo delle funzioni loro devolute dalle leggi
dello Stato e forti di un supporto affidato o richiesto a “circoli”, “comitati”,
“collettivi” ecc., hanno finito per far prevalere la loro ideologia politica,
compiendo atti che si sono ben presto rivelati come veri e propri interventi a
favore di indiziati di gravi reati (dichiaratisi “prigionieri politici”); di
persone, cioè, che andavano invece inquisite nel più vasto contesto di una
“società in pericolo”, con maggior senso di responsabilità e, almeno, secondo la
“lettera” della legge. Nel trascurare volutamente la citazione dei giudici
aderenti a “Magistratura Democratica”, già sottoposti a procedimento
disciplinare da parte del Csm, basta citare l’emblematica posizione assunta dal
Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano, dott. Antonio Bevere; colui
che dapprima si fece diligente nel mediare un incontro tra il capo carismatico
di Organizzazione eversiva, quale il prof. Toni Negri, ed un proprio collega in
quel momento titolare di una inchiesta a carico della stessa organizzazione (il
giudice Alessandrini); che assunse, poi e pubblicamente, una posizione
gravemente censurabile…» [7]. Nella visione del generale, gli avvocati che
difendono gli imputati per fatti di terrorismo sono, in realtà, complici dei
propri clienti e i magistrati che applicano le regole del diritto anche agli
accusati della lotta armata sono favoreggiatori o, nella migliore delle ipotesi,
fragili strumenti nelle mani di questi legali [8]. Su Magistratura Democratica
non è necessario spendere molte parole perché, secondo il generale, è ormai a
tutti chiaro che questo gruppo di giudici è contiguo alla eversione.
Infine, di nuovo, l’ossessivo tema della talpa. «Già sin dai tempi del sequestro
del giudice Di Gennaro ad opera dei Nap si è cominciato a parlare di
infiltrazioni in seno al Ministero di Grazia e Giustizia e non soltanto perché
il sequestrato era un magistrato, ma soprattutto per le precise contestazioni
mosse alla vittima in sede di “interrogatorio proletario”. Infatti, la
specificità delle domande era evidentemente frutto di notizie precise e
riservate, che solo una ristretta cerchia di persone gravitanti attorno al Di
Gennaro poteva conoscere. Si deve in proposito rammentare che il funzionario non
è stato scelto a caso come “astratto simbolo”, ma come rappresentante di un
organo dello Stato che aveva avuto una parte di rilievo negli studi relativi
alla riforma penitenziaria, non condivisa negli ambienti del terrorismo. Ed
anche in occasione degli assassini dei magistrati Palma e Tartaglione e del
criminologo prof. Paolella, i terroristi hanno dimostrato di possedere un
efficiente servizio informativo, frutto dell’opera di fiancheggiatori e di
irregolari inseriti, a vari livelli, nelle strutture del Ministero di Grazia e
Giustizia». Il generale si spinge oltre, sino al punto di esternare anche i
sospetti raccolti nel corso dell’attività svolta dal suo ufficio. Sospetti ed
illazioni che lambiscono il “cuore dello Stato”: «…Illazioni, anche questa volta
non confermate, hanno messo in risalto collegamenti o quanto meno silenzi, in
seno al Consiglio Superiore della Magistratura, silenzio imposto da qualche suo
componente collegato ideologicamente su posizioni della sinistra
rivoluzionaria». L’accusa è clamorosa (le Brigate Rosse sono annidate anche
all’interno del Csm), ma il generale non fornisce alcuna prova di quello che
sostiene, pur essendo convinto che, a Palazzo dei Marescialli, operi almeno un
fiancheggiatore delle BR. Non fa alcun nome, ma, in un organismo che, alla fine
degli anni ’70, è ancora fortemente governato dai gruppi più conservatori, dalla
Chiesa quasi certamente allude al gruppo di Magistratura Democratica [9]. La
nota prosegue e il generale, messe da parte le illazioni, si dice certo che nel
Csm, già da alcuni anni, operi una talpa: «La gravità dell’enorme pericolo
costituito dalla esistenza dei “fiancheggiatori” esistenti ed operanti
attivamente in ambito ministeriale non può pertanto essere legata soltanto alla
“Risoluzione Strategica nr. 5” delle BR, ma assume chiari contorni anche quando
nel noto covo di via Gradoli viene rinvenuto un documento, con data del 1976,
nel quale viene presa in esame la struttura del Consiglio Superiore della
Magistratura. Nel citato documento si afferma, infatti, che l’attività
informativa nei confronti dei giudici non era stata “fino ad ora possibile”
perché il Consiglio Superiore era rappresentato da un solo gruppo di potere
(UMI) e quindi non rifletteva la complessa realtà delle Magistrature italiane. E
più oltre si soggiungeva: “tale lavoro può incominciare da ora, partendo dal
Consiglio Superiore fino a sviluppare un lavoro organico e complessivo su tutta
la Magistratura”. È evidente, quindi, che le BR sin dal 1976 hanno la
possibilità di contare su “fonti di informazioni” nell’organo di autogoverno
della Magistratura, possibilità poi attualizzata come conferma il ritrovamento
in un “covo” Nap di Ostia di una copia del “Ruolo di Anzianità dei Magistrati”,
contenente alcune annotazioni a fianco di giudici e funzionari in servizio al
Ministero di Grazia e Giustizia» [10].
Ma non c’è solo la talpa che opera nell’organo di autogoverno dei magistrati. Il
Ministero di grazia e giustizia e l’ambiente giudiziario romano, per forza di
cose, ne hanno prodotto altre: «Il recente omicidio del Ten. Col. Antonio
Varisco ha vieppiù attualizzato il fenomeno delle infiltrazioni non solo al
Ministero di via Arenula, ma anche nell’ambito del Palazzo di Giustizia romano.
Si è così riparlato della “talpa” annidatasi negli Uffici del Ministero e di
quelli della Magistratura della Capitale ed ancora una volta la stampa ha
pilotato i sospetti dell’opinione pubblica verso funzionari e magistrati che,
per ragioni ideologiche e per connivenze, possono aver fornito al commando BR
notizie sull’Ufficiale, sui suoi spostamenti ed in ordine al proponimento di
lasciare il servizio» [11]. In questo delicato passaggio della relazione
dedicato agli omicidi di magistrati e funzionari con importanti incarichi nel
Ministero di grazia e giustizia, il generale mette insieme vicende, che, per la
diversità delle epoche in cui si consumano e per la differenza delle sigle che
le realizzano, non possono in alcun modo ricondursi ad un disegno unitario. Il
sequestro del giudice Giuseppe Di Gennaro risale all’ormai lontano maggio ’75 e,
nel ’79, l’organizzazione Nuclei Armati Proletari ha già cessato di esistere ed
i suoi pochi componenti ancora liberi sono entrati nelle BR. Gli omicidi di
Riccardo Palma (14 febbraio ’78) e Girolamo Tartaglione (10 ottobre ’78) sono
realizzati dalla colonna brigatista romana. Ma il criminologo Alfredo Paolella
viene ucciso, a Napoli (11 ottobre ’78), da un nucleo di Prima Linea [12]. Carlo
Alberto dalla Chiesa possiede informazioni sulla organizzazione BR certamente
superiori a quelle di qualsiasi altro investigatore dell’antiterrorismo.
Tuttavia, egli ancora non conosce molti aspetti della struttura brigatista che
emergeranno compiutamente solo a partire dagli anni ’80. Le Brigate Rosse hanno
organizzato la propria attività creando i fronti, strutture intermedie tra la
Direzione strategica e le colonne. Il fronte di lotta alla controrivoluzione,
“la contro”, è il settore che si occupa della analisi delle forze della
controrivoluzione: precipuamente, la magistratura, i carabinieri, la polizia, le
carceri, i servizi di sicurezza ecc. Ed è proprio al lavoro di questo fronte che
si devono i risultati raggiunti dalle BR nell’attacco a strutture e uomini delle
istituzioni [13].
Nel 1980, quando ha già lasciato l’incarico di coordinatore della lotta al
terrorismo, il generale colma un vuoto contenuto nelle sue note indirizzate al
Ministro Rognoni. Aveva accusato pubblici ministeri, giudici istruttori e
magistrati di sorveglianza, sempre trascurando i giudici dei Tribunali e delle
Corti di Assise. Ora quel vuoto può essere colmato. A Genova, il 3 giugno ’80,
la Corte di Assise assolve, con formula piena, tutti gli imputati della indagine
iniziata con gli arresti del 17 maggio ’79 e alla quale il generale ha dato
ampio risalto nelle relazioni riservate. Carlo Alberto dalla Chiesa, ora
comandante la Divisione Interregionale Pastrengo, reagisce in modo veemente e,
il 5 giugno ’80, sceglie una sede insolita per attaccare i magistrati genovesi.
In una caserma milanese, dinanzi ai reparti schierati per commemorare il 166°
anniversario dell’Arma, non usa giri di parole per commentare la sentenza: «Non
passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né
l’ingiustizia che lo assolve».
Le relazioni riservate del ’79 ci restituiscono una immagine inedita del
generale Carlo Alberto dalla Chiesa. L’Ufficio Coordinamento e Cooperazione
svolge, senza avere alcuna legittimazione, una attività di monitoraggio e
raccolta di informazioni sulle opinioni dei giudici e sulle loro vite. I
magistrati contro cui si scaglia il generale non possono essere accusati di aver
commesso reati. Sono tuttavia colpevoli di esprimere idee e di esercitare la
funzione giudiziaria in maniera dissonante dalla visione, autoritaria, che il
generale ha della società e dei mezzi repressivi con i quali attuare il
contrasto giudiziario ai fenomeni eversivi. Questa illegittima attività si
accompagna alla formulazione, chiaramente impropria, debordante, di vere e
proprie proposte reazionarie all’esecutivo in materie (dalla Chiesa, ad esempio,
propone di non concedere le aule universitarie per convegni-dibattiti o di
dichiarare decaduti gli studenti fuori corso dopo 2-3 anni) che nulla hanno a
che fare con il tema della prevenzione-repressione del terrorismo [14]. Il ceto
intellettuale rappresenta la insolubile ossessione del generale. Se le vere
menti delle BR, come egli ritiene, sono gli intellettuali che provengono dagli
atenei, di rango non minore devono essere i fiancheggiatori, ceto intellettuale
delle varie professioni della amministrazione pubblica.
La storia che emergerà negli anni ‘80/’90 si occuperà di smentire le ipotesi del
generale. Le Brigate Rosse non furono mai dirette, palesemente o occultamente,
da intellettuali o professori universitari, ma da operai, impiegati, artigiani,
studenti, insegnanti che, sempre, costituirono l’ossatura della Direzione
strategica, del Comitato esecutivo e delle direzioni delle colonne sino al 1981,
anno in cui le BR cessano di esistere come organizzazione unitaria [15]. Le
decine e decine di dissociati/collaboratori di giustizia provenienti dalle
organizzazioni della lotta armata non smentiscono questa conclusione e,
soprattutto, pur avendo fatto arrestare centinaia di persone, non hanno mai
accusato membri del CSM, magistrati o figure di medio/alto livello del Ministero
di grazia e giustizia.
Le idee e le proposte di dalla Chiesa sono, comunque, condivise dai settori
moderati della classe politica e viaggiano sulle gambe di alcuni protagonisti
della vita parlamentare. Settori consistenti della Democrazia Cristiana
ritengono, come il generale, che la magistratura rappresenti il “ventre molle”
dello Stato nella lotta alla eversione e, alla fine degli anni ’70, si spingono
sin quasi al punto di invocare lo scioglimento di Magistratura democratica. Nel
maggio ’77, il deputato democristiano Claudio Pontello ed altri parlamentari,
rivolgendo una interrogazione parlamentare al Ministro di grazia e giustizia,
affermano «Ciò che desta in noi gravi preoccupazioni è il fatto, più volte
ripetutosi, di magistrati che si pongono ai limiti della legge… Penso alla
maggioranza degli aderenti alla corrente di “Magistratura Democratica” che, a
detta degli stessi magistrati di “Magistratura Indipendente”, vi è da chiedersi
se, stante il comportamento tenuto, possano ancora rimanere nell’ordine
giudiziario» [16]. Nel gennaio ’80, un gruppo di parlamentari democristiani
capeggiato dal senatore Claudio Vitalone, già sostituto procuratore romano,
esprime una adesione convinta alle idee di dalla Chiesa. Vitalone presenta al
Senato una interpellanza in cui afferma che esiste un documento giudiziario che
dimostra un collegamento tra alcuni giudici di Magistratura democratica e gruppi
della eversione di sinistra. Sollecita l’avvio di procedimenti penali e
disciplinari e chiede di disporre la immediata sospensione di questi magistrati
dall’esercizio delle loro funzioni [17].
Alcuni mesi più tardi, a maggio, gli inquirenti arrestano una donna accusata di
essere una militante della colonna romana delle BR. È una ragazza di 23 anni, si
chiama Alessandra De Luca, e, da qualche mese, lavora come coadiutrice presso la
divisione affari penali della Procura Generale. Certo, ha passato informazioni
ad alcuni militanti della colonna, ma la sua individuazione costituisce un
risultato assai modesto rispetto alle elevate aspettative esposte nelle
relazioni riservate del ‘78-79. L’impiegata non somiglia affatto al raffinato
intellettuale che, secondo la visione del generale, annidato nello Stato,
fornisce informazioni segretissime, indica gli obiettivi da colpire, ispira le
azioni più sanguinose, tornando poi nell’ombra, al sicuro negli uffici delle
istituzioni [18]. Troppo poco per fare di questa ragazza la “talpa eccellente”
che il generale non riuscì mai a trovare.
Note
[1] Sulla attività politica dell’editore e sulla storia della struttura
clandestina creata da Feltrinelli v. Davide Serafino, Gappisti. La rete
clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, DeriveApprodi, 2023.
[2] Il 9 maggio ’74, tre detenuti del carcere di Alessandria prendono in
ostaggio 17 persone, civili e guardie carcerarie. Si intavolano trattative con i
rapitori, condotte anche da magistrati della Procura di Alessandria, ma poi,
improvvisamente, il 10 maggio, fanno irruzione nel carcere reparti dei
carabinieri comandati dal generale dalla Chiesa. Il bilancio drammatico del
blitz è di 4 ostaggi morti e 22 feriti. Durante l’operazione vengono uccisi
anche due dei tre detenuti rivoltosi. Il Procuratore Generale di Torino Carlo
Reviglio della Venaria avoca l’indagine, togliendola alla Procura di
Alessandria. Così il magistrato, che evidentemente ha condiviso con il generale
dalla Chiesa la decisione di intervenire militarmente, commenta l’operazione:
«Non si poteva ammettere che lo Stato fosse ulteriormente calpestato perché casi
del genere si sarebbero ripetuti all’infinito». Ancora oggi, a distanza di 50
anni da quegli avvenimenti, passati alla storia come la “strage di Alessandria”,
permangono molti dubbi sulla versione ufficiale fornita sulla operazione e cioè
che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dai detenuti che li avevano sequestrati.
[3] I reati contestati al giudice De Vincenzo sono quelli di rivelazione di
segreto di ufficio, abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio. L’indagine
– iniziata nel marzo ’75 e condotta dalla Procura Generale di Torino diretta da
Carlo Reviglio della Venaria – si chiude, il 26 marzo ’76, allorquando il
giudice istruttore emette una sentenza con cui proscioglie il magistrato. Prende
avvio allora il procedimento disciplinare che si conclude, il 10 marzo ’78,
innanzi alla Sezione Disciplinare del Csm, con una sentenza che esclude tutti
gli addebiti contestati a De Vincenzo. Nel ’79, Ciro De Vincenzo lascia la
magistratura per divenire notaio.
[4] Le due relazioni riservate possono essere consultate accedendo al Portale
Storico della Camera dei deputati>Le inchieste>Rapimento e morte di Aldo
Moro>Documenti versati all’Archivio storico disponibili on line. In particolare,
si tratta dei documenti n. 14/20 e 14/21 del 3 dicembre 2014 della Commissione
parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Sviluppate
in oltre 250 pagine, insieme a corposi allegati, le relazioni analizzano,
essenzialmente, le formazioni Brigate Rosse, Prima Linea, Autonomia operaia
organizzata e Azione Rivoluzionaria. Il generale coordina tutte le attività
riguardanti il terrorismo italiano, ma le note contengono una vistosa omissione.
Solo quattro pagine della seconda relazione sono dedicate ai Nuclei Armati
Rivoluzionari ed alla eversione neofascista.
[5] Sulla operazione padovana v. Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile. Un caso
giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale, Einaudi Storia, 2023. Vedi,
inoltre, l’intervento pronunciato da Giovanni Palombarini, giudice istruttore
nella indagine condotta dal PM Pietro Calogero, su Il processo 7 aprile e il
nodo del garantismo penale, nel corso della manifestazione per i 60 anni di
Magistratura Democratica che si è svolta, a Roma, il 9 e 10 novembre 2024. Al
momento, l’intervento di Palombarini, di imminente pubblicazione sul numero
4/2024 della rivista trimestrale Questione Giustizia, e anticipato in Questione
giustizia online
(https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-7-aprile-e-il-nodo-del-garantismo-penale)
può essere ascoltato su Radio Radicale.
[6] Sulla indagine e sul processo genovesi v. dell’autore Genova 79. I
sovversivi, i brigatisti, i testimoni, pubblicato su Questione Giustizia, 17
ottobre 2023 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/genova-79).
[7] Il PM milanese Emilio Alessandrini viene ucciso a Milano il 21 gennaio ’79.
Il 7 aprile ’79 avvengono gli arresti padovani di Toni Negri ed altri. Il 14
aprile ’79, il giornalista de l’Unità Ibio Paolucci, nell’articolo dal titolo
Alessandrini indicò in Negri uno dei telefonisti delle BR, rivela che,
nell’aprile dell’anno precedente, il magistrato milanese si era incontrato, nel
corso di una cena, con il docente padovano, incontro avvenuto su richiesta di
Negri. Quando, in seguito, Alessandrini aveva ascoltato il colloquio telefonico
avvenuto, il 30 aprile ’78, tra un brigatista e la moglie di Moro, il giudice
milanese si era convinto che la voce del brigatista era quella di Toni Negri.
Nelle giornate successive all’articolo di Paolucci salta fuori che,
effettivamente, durante i giorni del sequestro Moro, si era svolta una cena a
casa del sostituto procuratore milanese Antonio Bevere, aderente a Magistratura
Democratica, alla quale avevano partecipato Alessandrini, Toni Negri e la
giornalista de Il Manifesto Tiziana Maiolo. La Procura milanese avvia una
indagine. La Maiolo e il compagno, il giornalista Stefano Menenti, vengono
arrestati per il reato di falsa testimonianza perché sostengono di essere stati
presenti alla cena, circostanza questa contraddetta, inizialmente, dalla moglie
del giudice assassinato. Nel giro di pochi giorni si accerta che Maiolo e
Menenti hanno raccontato la verità e i due giornalisti vengono scarcerati.
L’episodio diventa l’occasione, anche attraverso una ossessiva campagna di
stampa, per ipotizzare che, con la complicità di Bevere, Toni Negri abbia voluto
“studiare” da vicino la vittima Alessandrini prima di farlo uccidere. Alla fine,
l’inchiesta penale sulla cena a casa Bevere non produrrà risultati mentre
emergerà processualmente che Emilio Alessandrini è stato ucciso da un nucleo di
Prima Linea – composto, fra gli altri, da Sergio Segio e Marco Donat-Cattin – e
che Toni Negri non ha svolto alcun ruolo nella ideazione ed organizzazione
dell’agguato. Le investigazioni sulla vicenda Moro dimostreranno poi, spazzando
via ogni dietrologia, che il brigatista che telefonò a casa Moro la sera del 30
aprile ’78 («solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore di Zaccagnini
può modificare la situazione») era Mario Moretti.
[8] Nel capitolo dedicato al mondo forense, dalla Chiesa dedica molte pagine
agli avvocati di “Soccorso Rosso“ Edoardo Di Giovanni, Giovanna Lombardi,
Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali che agiscono al fine di «offrire un supporto
ideologico ed operativo alle organizzazioni eversive». L’avvocato Sergio
Spazzali, processato insieme ai membri della colonna torinese BR accusati da
Patrizio Peci, viene assolto dalla Corte di Assise di Torino il 17 giugno ’81,
ma, in appello, la sentenza viene ribaltata e la condanna diventa definitiva
quando il legale si è già rifugiato all’estero. Gli avvocati Edoardo Di Giovanni
e Giovanna Lombardi, imputati per istigazione alla commissione di delitti di
eversione, sono assolti con sentenza della Corte di Assise di Roma del 5 marzo
1981. L’avvocato Edoardo Arnaldi si toglie la vita nella sua abitazione di
Genova, il 19 aprile ’80, mentre i carabinieri gli stanno notificando un mandato
di cattura emesso dall’ufficio istruzione torinese sulla base delle accuse
formulate da Peci.
[9] Nella consiliatura 1976-1981, Magistratura Democratica è rappresentata nel
CSM da Marco Ramat (uno dei fondatori del gruppo, segretario generale di MD dal
’72 al ‘76) e dal magistrato romano Michele Coiro.
[10] La risoluzione della Direzione strategica BR del febbraio ’78, che avvia la
campagna di primavera, è un corposo e lunghissimo documento di analisi politica,
anche delle istituzioni e della magistratura. Analisi politica, dunque, – non
già documento che contiene informazioni riservate provenienti da ambienti
istituzionali – nel quale le BR sostengono che il Consiglio Superiore della
Magistratura, sulla scorta di un’azione congiunta del Ministro Bonifacio e del
Vicepresidente Vittorio Bachelet, è diventato «il principale organo di controllo
tra esecutivo e giudiziario». Sicuramente, il generale dalla Chiesa avrà
prestato particolare attenzione a questo fugace passaggio contenuto nella
risoluzione: «è esemplare il provvedimento con cui il Csm esautora dalle loro
funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme
della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta
dall’esecutivo. Ancor più pesante è l’iniziativa del vicepresidente del Csm
Bachelet che, su direttiva di Bonifacio e del governo, incarica i procuratori
generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a
“Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine
democratico». Una approfondita analisi della risoluzione è contenuta nel libro
di Marco Clementi Storia delle Brigate Rosse, Odradek, 2007
[11] La tesi del generale dalla Chiesa sarà smentita da Antonio Savasta, membro
della direzione della colonna romana BR e uno dei componenti del nucleo che
uccide il Tenente Colonnello Antonio Varisco, comandante del Reparto Carabinieri
Servizi Magistratura, il 13 luglio ’79, a Roma. Divenuto collaboratore di
giustizia, ricostruisce dettagliatamente il delitto Varisco nel corso di una
udienza che si svolge, il 28 aprile ’82, davanti la Corte di Assise di Roma.
Senza aver fatto ricorso a talpe, le BR, sulla scorta di quello che accadeva nel
corso dei processi che si svolgevano nell’aula bunker del palazzo di giustizia
romano, avevano individuato in Varisco (responsabile delle “traduzioni e
scorte”) uno dei principali responsabili di una linea repressiva che si
manifestava non solo all’interno del circuito delle carceri speciali, ma anche
in occasione dei dibattimenti, direttamente contro gli imputati, impedendo loro,
ad esempio, di leggere comunicati e di esprimere le proprie posizioni durante le
udienze processuali.
[12] Le sentenze definitive per gli omicidi dei magistrati Riccardo Palma e
Girolamo Tartaglione, uccisi dalle Brigate Rosse, accerteranno le responsabilità
della colonna romana e stabiliranno che l’inchiesta e, successivamente, gli
agguati furono condotti dai militanti del fronte della controrivoluzione. È
utile segnalare una vicenda, molto poco conosciuta, che avviene tra l’ottobre e
il dicembre ’79. I carabinieri del generale dalla Chiesa effettuano una
operazione contro il comitato marchigiano delle BR. Una militante detenuta,
Sabrina Pellegrini, rivela di essere stata la telefonista della rivendicazione
del delitto Tartaglione ed accusa un’altra militante, Lucia Reggiani, di aver
partecipato all’omicidio. La Reggiani, assistente sociale anconetana, dopo
quello ricevuto per il reato di partecipazione a banda armata, viene subito
raggiunta da un mandato di cattura per il delitto Tartaglione e la stampa
nazionale, insistentemente, accredita l’ipotesi che sia proprio lei la talpa
delle BR all’interno del Ministero di grazia e giustizia, anche se la donna, in
realtà, non ha mai lavorato per il ministero. Nel giro di pochi giorni, la
Pellegrini ritratta e dice di essersi inventata tutto. Lucia Reggiani non è la
talpa a lungo cercata dagli inquirenti e viene scagionata da ogni accusa
riguardante il delitto Tartaglione.
[13] Se il generale ritiene che le BR possano agire solo grazie a talpe annidate
nelle istituzioni, in realtà, le notevoli capacità della organizzazione derivano
da una struttura interna che svolge un lavoro, capillare e costante, di analisi
e studio di organismi e personalità delle istituzioni. Per la magistratura, come
per altri settori, si parte dalla raccolta, dal basso, di dati su convegni,
singole figure di magistrati, posizioni ed opinioni espresse pubblicamente,
specifica natura della attività giudiziaria svolta, ricorrendo a notizie
giornalistiche nonché allo studio di riviste specializzate. Vengono redatte
schede che vengono conservate dalla direzione di colonna e dal fronte nazionale
di lotta alla controrivoluzione. Il fronte nazionale elabora un documento che
offre alla discussione della organizzazione. Individuato un particolare
obiettivo, l’inchiesta sul campo è affidata alla colonna che la porta a termine
mediante una vera e propria indagine – fatta essenzialmente attraverso
pedinamenti – sulle abitudini di vita e sui movimenti della persona da colpire.
[14] Sul “programma politico” del generale dalla Chiesa che invoca la adozione
di misure restrittive nel campo civile e sociale v. Marco Clementi, Paolo
Persichetti, Elena Santalena, Brigate Rosse, dalle fabbriche alla campagna di
primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017.
[15] Nello stesso periodo in cui il generale sviluppa la propria tesi sul ceto
intellettuale che dirige la lotta armata, le Brigate Rosse convocano la propria
Direzione strategica che si riunisce, nel dicembre ’79, a via Fracchia a Genova.
Come è noto, la base sarà presto individuata grazie alle informazioni fornite a
dalla Chiesa da Patrizio Peci. Ebbene, alla riunione genovese partecipano 15
persone. Di queste, nove provengono dal mondo della fabbrica e le restanti sei
da altri settori del mondo del lavoro.
[16] L’interrogazione a firma Pontello ed altri, riguardante la vicenda
bolognese del capitano Nevio Monaco, viene discussa nella seduta della Camera
dei Deputati del 20 maggio 1977.
[17] L’interpellanza può essere consultata accedendo al resoconto stenografico
della seduta del Senato della Repubblica dell’11 gennaio 1980. Vitalone accusa
esplicitamente i giudici di MD Franco Marrone, Francesco Misiani, Gabriele
Cerminara, Ernesto Rossi, Luigi Saraceni e Aldo Vittozzi i cui nomi sono stati
trovati in appunti sequestrati ad un membro di Potere Operaio. Vitalone,
tuttavia, non segnala che quel documento non è recente, ma è stato rinvenuto
molti anni prima. Nasce una indagine penale che si estende ai magistrati Michele
Coiro, Gianfranco Viglietta, Filippo Paone e Gaetano Dragotto, i cui nomi/numeri
di telefono sono rinvenuti durante una perquisizione, del 22 gennaio 1980,
presso l’emittente radiofonica romana Onda Rossa, vicina all’area della
Autonomia. Alla fine, nel dicembre ’80, il giudice istruttore di Firenze
dichiara non luogo a procedere nei confronti di tutti i magistrati perché non
hanno mai fatto parte di alcuna associazione sovversiva.
[18] Sulla vicenda di Alessandra De Luca v. la sentenza emessa, il 14 marzo
1985, dalla Corte di Assise di Appello di Roma, Pres. De Nictolis, nel processo
Moro uno/bis.
L’articolo è pubblicato anche nel sito di Questione giustizia
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