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Appello: Vogliamo rompere un tabù
Riceviamo e pubblichiamo, l’appello dal blog della campagna Vogliamo rompere un tabù. Vogliamo rompere un tabù, rompere il silenzio sul fatto che lo Stato italiano tiene in carcere da quarant’anni 16 militanti delle Brigate Rosse e ne ha sottoposti altri tre, da oltre 20 anni, al regime dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Il regime speciale dell’art.41 bis è finalizzato all’annientamento psico-fisico del detenuto, che viene tenuto in isolamento quasi totale: ventidue ore al giorno in isolamento, due ore d’aria al giorno, una breve visita mensile per i familiari dietro una parete di vetro, nessun libro o giornale dall’esterno del carcere… Questo regime carcerario è uno dei più intollerabili in Europa. Ha due obiettivi: tagliare ogni comunicazione con il mondo esterno e costringere i detenuti a diventare “pentiti”, collaboratori di giustizia. Alcuni opinionisti sostengono che questi prigionieri preferiscono rimanere in carcere, rifiutando ostinatamente di beneficiare di misure alternative alla detenzione o della liberazione condizionale. Ma queste affermazioni non menzionano il fatto che, queste misure alternative, sono soggette ad una logica di scambio: si concedono solo in cambio della messa in discussione del proprio passato politico, di un’autocritica formale, che verrà amplificata dai media; si richiede loro quindi di rinnegare, in modo puro e semplice, la propria storia politica e il proprio passato rivoluzionario. Non si tratta di una questione astratta: a questi militanti si chiede di rinunciare a un’identità che per loro è la scelta di una vita, il che spiega la loro incredibile resistenza a quarant’anni di privazione della libertà; si chiede loro di rinunciare a convinzioni che corrispondono a correnti di pensiero profondamente radicate nella storia universale, in più di un secolo di lotta di classe, una lotta che è stata internazionale. Che si condividano o meno queste idee, è questa lotta-identità che è in gioco e nient’altro. Ma mentre lo Stato si vanta per la sua fermezza nel perseguire l’annientamento dei prigionieri, alcuni pretendono di ridurre la loro lotta a una semplice questione di principio che i prigionieri difenderebbero con eccessiva ostinazione. Come se alla base della loro resistenza non ci fosse una profonda coerenza, il rifiuto di mercanteggiare e mercificare il loro pensiero politico. Ma per capire meglio perché è importante rompere questo tabù, dobbiamo anche chiederci quali sono le ragioni fondamentali per cui lo Stato italiano ancora oggi, mantiene una feroce linea di condotta nei loro confronti, perché persiste in questa linea d’azione implacabile. Stiamo vivendo una fase storica caratterizzata dalla crescita sfrenata delle disuguaglianze, da un susseguirsi di crisi e da una forte intensificazione del confronto tra gli Stati che dominano il mondo. Un confronto che sta diventando sempre più pericoloso e globalizzato. In questo contesto, la crisi del sistema politico si sta intensificando, come in altre fasi storiche, come negli anni tra le due guerre o durante le guerre coloniali. Queste tensioni rendono la democrazia rappresentativa sempre più “inadatta” alla gestione delle crisi, tanto che le classi dirigenti sembrano ogni giorno più inclini a cercare soluzioni autoritarie e a liquidare le conquiste sociali. Di questa tendenza ne sono prova,per esempio, la violenta repressione da parte dello Stato francese contro i Gilets jaunes o durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni, rifiutata dalla stragrande maggioranza della popolazione; ma anche la repressione in Germania e in Francia del movimento ambientalista, le leggi antisciopero nel Regno Unito, nonché le misure senza precedenti contro i migranti. In Italia si è assistito a una massiccia criminalizzazione dei movimenti sociali: attacchi ai sindacati, agli studenti, a coloro che lottano per il diritto alla casa, al movimento dei disoccupati, alle ONG che cercano di difendere la vita degli immigrati e agli stessi immigrati, privati della protezione preventiva di pregresse tutele e attaccati violentemente nei loro lavori precari. Allo stesso tempo, il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero viene costantemente limitato: diventa compromettente difendere i palestinesi e chi denuncia il massacro in atto nei confronti del popolo gazawi è messo all’indice. Qualsiasi discussione sulla guerra in Ucraina che non adotti immediatamente e senza discussioni il punto di vista della NATO viene vista come sostegno alla Russia e tradimento. In generale, stiamo assistendo alla graduale criminalizzazione di tutta l’opposizione, non solo di quella radicale. Infine, dopo innumerevoli processi e incarcerazioni di manifestanti, attivisti antiglobalizzazione e anarchici, la repressione in Italia ha raggiunto il suo culmine quando, su ordine del Ministro della Giustizia, Alfredo Cospito è stato sottoposto al regime del 41 bis. È stato il primo anarchico a essere sottoposto a questo spietato regime di detenzione. Così, la repressione sempre più severa dei movimenti sociali, delle manifestazioni, dei militanti e degli attivisti, a prescindere dalle loro convinzioni e azioni, sta gradualmente creando un clima che ricorda la “strategia della tensione” che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Allora, questa strategia mirava a soffocare un forte movimento di protesta che stava attraversando l’intera società. Oggi, questa strategia della tensione vorrebbe impedire che il crescente malcontento e il disorientamento ideologico trovino un’espressione politica, si trasformino in una vera contestazione. In questo contesto si inserisce la “guerra” che da tempo viene condotta contro la memoria delle lotte degli anni Settanta. In quegli anni, le classi subalterne erano portatrici ed espressione di un importante processo di trasformazione sociale, di un vero e proprio “assalto al cielo”. Ecco perché questo periodo è sistematicamente oggetto di analisi riduttive o mistificatorie da parte del potere.  Negando l’esistenza della lotta di classe, si ostinano a fingere che il mondo possa essere ridotto a un’opposizione tra i sostenitori delle democrazie liberali e gli altri. È solo nel contesto di questa “guerra” alla memoria che possiamo comprendere la politica silenziosa di annientamento dei prigionieri. Lo Stato vede questi prigionieri come una sorta di trofeo e, facendo della loro prigionia un esempio e uno spauracchio, mira a scoraggiare qualsiasi lotta, nella speranza di soffocare lo sviluppo delle contraddizioni attuali, che potrebbero portare a un ribaltamento della situazione, a un nuovo “assalto al cielo”. Rompere il tabù, rompere il silenzio su questi prigionieri, sulle condizioni della loro detenzione, sulla loro durata infinita, non può essere ridotto a una reazione umanitaria. È un passo necessario per liberarci dalle nostre paure, per sciogliere il cappio delle costrizioni, dell’ingabbiamento in cui vorrebbero richiudere le lotte e i movimenti. Questo inaccettabile regime carcerario, il rinnegamento che si richiede ai prigionieri per poter sfuggire a questo regime è un ulteriore modo per soffocare tutte le lotte. Quindi, rompere questo tabù è interesse innanzitutto di coloro che subiscono le conseguenze delle disastrose condizioni economiche e politiche della società nel suo complesso,che possono essere trasformate solo da un cambiamento radicale delle strutture sociali e politiche esistenti. Rompere questo silenzio è anche un modo per riappropriarci di una libertà e di un pensiero critico, in modo da poter trovare liberamente delle possibilità di soluzione e per interrompere la spirale mortale in cui i potenti ci stanno trascinando con le loro politiche sempre più repressive, classiste e guerrafondaie. per aderire all’appello clicca qui   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 22, 2025 / Osservatorio Repressione
Le Brigate rosse, i fiancheggiatori, le ossessioni del generale
Negli anni ‘70 la democrazia del nostro Paese corse rischi elevati. Per l’azione del terrorismo, e la cosa è nota. Ma anche per il tentativo di settori degli apparati di cogliere la lotta al terrorismo come occasione per criminalizzare ampi settori della cultura, dell’Università, della stessa magistratura. Lo dimostrano due inquietanti relazioni riservate del generale dalla Chiesa redatte nel 1979 e declassificate nel 2012. di Pino Narducci da Volere la Luna Il generale ha un collaudato rapporto di collaborazione con i magistrati torinesi. D’altronde, lui stesso piemontese, lavora a Torino da diversi anni, prima al Comando della I Brigata Carabinieri e poi, dalla primavera ’74, a capo del Nucleo speciale antiterrorismo, creato, in seno alla Brigata, dopo la conclusione del sequestro del magistrato genovese Mario Sossi. Ma, fuori dal territorio sabaudo, non sempre riesce a stabilirsi quella sintonia che, in Piemonte, ha permesso ai carabinieri e alla magistratura di raggiungere risultati importanti nella attività di contrasto alle Brigate Rosse. A Milano, il giudice istruttore Ciro De Vincenzo è titolare di indagini importanti, da quella sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli e sulle attività dei GAP (Gruppi Azione Partigiana) fondati dall’editore [1] all’inchiesta sulla colonna milanese delle Brigate Rosse che, solo alcuni anni prima, sono nate proprio a Milano, negli stabilimenti della Pirelli e della Sit-Siemens. Il generale sospetta di lui: il magistrato ha favorito, durante l’istruttoria, i brigatisti Enrico Levati, Giorgio Semeria e Heide Peusch e gli ha anche passato notizie riservate sulle indagini in corso in Lombardia. Agli inizi del ’75, Carlo Alberto dalla Chiesa invia un rapporto al Procuratore Generale di Torino, Carlo Reviglio della Venaria [2], nel quale accusa il giudice istruttore milanese di essere un fiancheggiatore delle BR. Il rapporto finisce sul tavolo di Salvatore Paulesu, Procuratore Generale di Milano, ma, alla fine, la Corte di Cassazione stabilisce che sarà Torino a indagare sul magistrato. La vita e la carriera di Ciro De Vincenzo saranno sconvolte dall’avvio della inchiesta penale e poi da quella disciplinare, vicende che si concluderanno definitivamente soltanto tre anni più tardi, nel marzo ‘78, con la sconfessione dell’accusa sostenuta dal generale [3]. Dopo essere divenuto coordinatore del Servizio Sicurezza della Direzione Generale degli istituti di prevenzione e pena, nell’agosto 1978 Carlo Alberto dalla Chiesa assume il comando dell’Ufficio di coordinamento e cooperazione nella lotta al terrorismo, concentrando nella sua figura poteri mai concessi in precedenza a nessun’altro. Devono far capo al generale tutte le forze di polizia impegnate nella lotta al terrorismo ed egli, generale di divisione dei carabinieri, non deve rispondere del suo operato al Comandante Generale dell’Arma, ma solo e direttamente al Ministro dell’Interno. L’incarico terminerà molto presto, alla fine del ’79, e dalla Chiesa, durante il periodo di comando, trasmette a Virginio Rognoni due relazioni riservate che resteranno segrete sino al 2012, anno in cui avviene la declassificazione dei documenti [4]. La riservatezza delle note permette al generale di utilizzare un linguaggio ben diverso da quello che è tenuto a osservare nelle comunicazioni ufficiali con le istituzioni. Soprattutto, dalla Chiesa può fornire informazioni ed esprimere valutazioni che non potrebbe mai affidare a documenti immediatamente conoscibili da tutti. Nella prima relazione, sui risultati conseguiti tra il 10 settembre 1978 e il 10 marzo 1979, può fare valutazioni ed avanzare proposte sulla magistratura che sarebbero indicibili in sede pubblica. L’affondo è durissimo: «Non ci saranno risultati se la Magistratura (Csm) non allontanerà, senza complessi almeno dall’esercizio dell’azione penale o dall’istituto del “magistrato di sorveglianza”, quegli elementi notoriamente indicati, presso determinate Corti o Sezioni: quali extraparlamentari o comunque compromessi in loco per il loro stato di soggezione a collettivi forensi, di studio, per situazioni personali, ecc.; quali “acculturati” a tal punto da divenire espressione dialettica attiva, e talvolta di vera “prevaricazione” nei confronti di colleghi meno preparati o più esposti alle vendette dell’eversione; quali portatori – in veste di legalitari o garantisti – di “benevolenze” o “comprensioni” o “dilazioni” o “prescrizioni” o ” concessioni” a detenuti pericolosi per l’eversione, ecc…». Una fetta consistente di pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di sorveglianza costituisce, quindi, uno dei principali fattori che ostacola la lotta al terrorismo. Ma non si tratta solo dei magistrati che simpatizzano, più o memo apertamente, per la sinistra extraparlamentare, ma anche, secondo il generale, dei garantisti o legalitari, quelli che applicano le ragioni del diritto e non la ragion di Stato, anche loro di intralcio alla lotta al terrorismo. Sorprendente è la categoria degli “acculturati”, quelli più preparati e con più spiccate doti intellettuali, anche loro sospetti e pericolosi. In un passaggio successivo della relazione comincia a prendere forma la visione che il generale esporrà, compiutamente, nella seconda nota riservata: i ceti intellettuali e professionali del paese sono la linfa vitale che permette alle Brigate Rosse di crescere e radicarsi nella società: la platealità degli interventi delle BR «ha fatto perno su molte componenti intellettuali che si sono trasferite dai banchi delle Università alle loro cattedre; molte facoltà, ad esempio, che hanno dato magistrati e medici a Genova, architetti a Torino, economisti e sociologi a Genova, Milano, Padova, Cosenza, avvocati e insegnanti di Milano, Roma e Napoli». Poi, fornisce notizie sulle dinamiche esistenti negli uffici giudiziari bolognesi: «Alcuni di essi, anzi, assumendo atteggiamenti inquisitori e chiaramente di parte, hanno determinato, per le iniziative giudiziarie assunte, scoraggiamento e sbandamento in seno a qualche Reparto o tra elementi impegnati nell’assolvimento di compiti particolarmente ardui e difficili; sino a contenerne l’entusiasmo e a limitarne l’iniziativa. Il caso di maggior rilievo riguarda l’ambiente giudiziario di Bologna, ove taluni magistrati, oltre ad adottare provvedimenti contrastanti nei confronti di persone arrestate o fermate, per gli stessi motivi: hanno prima inviato comunicazione giudiziaria e poi emesso decreto di comparizione per arresto illegale ed abuso di potere nei confronti del Comandante di quel Reparto Operativo; Ufficiale già particolarmente esposto – come da documenti in atti – alle minacce dei gruppi eversivi; hanno insistentemente indagato per conoscere nominativi di componenti dei Reparti Speciali che, nello specifico caso, abbisognano di copertura. Il tutto ha creato scalpore anche perché sono ben note, al di fuori degli ambienti giudiziari, le nette simpatie per l’estremismo esternate dal magistrato che ha promosso detto procedimento penale nei confronti dell’Ufficiale, e la comunanza politica che lo lega al Collettivo Politico Giuridico di Bologna, cui appartengono gli avvocati difensori degli imputati prosciolti». La vicenda evocata nella nota come prova dello “sbandamento” ideologico e professionale della magistratura è quella che, nel marzo ’77, coinvolge il capitano Nevio Monaco, comandante del reparto operativo carabinieri Bologna, ed altri sottufficiali dell’Arma nei giorni drammatici segnati dalla uccisione dello studente Francesco Lorusso e dall’arrivo dei blindati, inviati da Cossiga, che militarizzano il centro storico del capoluogo emiliano. Il sostituto procuratore Rubini ritiene che i carabinieri siano responsabili dei reati di falso in atto pubblico e arresto illegale in relazione a un fermo di polizia avvenuto durante quelle giornate. L’indagine si chiude nel giro di pochi giorni, con un provvedimento di archiviazione siglato dal giudice istruttore il 1 aprile ‘77. Nella seconda relazione (sui risultati conseguiti tra l’11 marzo ’79 e il 10 settembre ’79) si innalza il livello di analisi politico-giudiziaria del generale sul mondo della eversione di sinistra e sui settori delle istituzioni che la sostengono. Carlo Alberto dalla Chiesa la scrive il 14 ottobre ’79, all’indomani di due operazioni giudiziarie che, a suo avviso, sono cruciali per comprendere la struttura delle formazioni eversive e definire l’identità di chi ha assunto il ruolo di comando. A Padova, il 7 aprile ‘79, la magistratura ordina l’arresto di Toni Negri, di altri docenti dell’ateneo veneto e di numerose altre persone per il reato di partecipazione a banda armata e altri delitti [5]. Un mese dopo, a Genova, il 17 maggio ’79, i carabinieri arrestano il professore universitario Enrico Fenzi e alcuni esponenti della Autonomia Operaia che gravitano nell’Università. Secondo dalla Chiesa, si tratta del primo duro colpo inferto alla colonna genovese delle BR [6]. I risultati di queste inchieste costituiscono la conferma della ipotesi che il generale ha maturato nel corso degli ultimi anni: si è realizzata una osmosi tra Autonomia Operaia Organizzata, le Brigate Rosse ed altre formazioni della lotta armata. Anzi, il ceto intellettuale che insegna nelle università rappresenta il “cervello pensante” di queste organizzazioni. Dunque, se la galassia della eversione di sinistra fa capo ai professori universitari, anche i simpatizzanti e i sostenitori non possono non appartenere al circuito delle “menti raffinatissime”. Così, il nucleo centrale della nota, più che la parte dedicata alle BR e a Prima Linea, è il capitolo intitolato «Cenni sui fiancheggiatori e sulle azioni di supporto morale e operativo garantite alle organizzazioni eversive da parte di qualificati ambienti, quali: a) intellettuali e universitari; b) giudiziari; c) carcerari; d) forensi; e) industriali; f) amministrazione dello Stato; g) editoria e stampa». Secondo dalla Chiesa, quello giudiziario è il «settore nel quale l’Autorità Giudiziaria, chiamata a formalizzare ed a giudicare fatti terroristici ai quali deve essere attribuita rilevanza penale, è talvolta apparsa incerta tra l’applicazione rigida della norma penale e la creazione continua di un nuovo diritto… Un primo aspetto… è un certo lassismo od una certa sufficienza evidenziati proprio nella trattazione di crimini legati o derivanti da fatti eversivi… Il terzo aspetto è senza dubbio più delicato ed è anche quello che si è rivelato il più pericoloso. Ci si riferisce a quei magistrati che, permeati dallo stesso credo politico delle organizzazioni eversive o estremamente fragili – anche culturalmente – alle argomentazioni di “legali-complici”, hanno derubricato reati, concesso libertà provvisorie, inflitto miti condanne in forza di attenuanti a volte speciose. Ci si riferisce a quei magistrati i quali, al riparo delle funzioni loro devolute dalle leggi dello Stato e forti di un supporto affidato o richiesto a “circoli”, “comitati”, “collettivi” ecc., hanno finito per far prevalere la loro ideologia politica, compiendo atti che si sono ben presto rivelati come veri e propri interventi a favore di indiziati di gravi reati (dichiaratisi “prigionieri politici”); di persone, cioè, che andavano invece inquisite nel più vasto contesto di una “società in pericolo”, con maggior senso di responsabilità e, almeno, secondo la “lettera” della legge. Nel trascurare volutamente la citazione dei giudici aderenti a “Magistratura Democratica”, già sottoposti a procedimento disciplinare da parte del Csm, basta citare l’emblematica posizione assunta dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano, dott. Antonio Bevere; colui che dapprima si fece diligente nel mediare un incontro tra il capo carismatico di Organizzazione eversiva, quale il prof. Toni Negri, ed un proprio collega in quel momento titolare di una inchiesta a carico della stessa organizzazione (il giudice Alessandrini); che assunse, poi e pubblicamente, una posizione gravemente censurabile…» [7]. Nella visione del generale, gli avvocati che difendono gli imputati per fatti di terrorismo sono, in realtà, complici dei propri clienti e i magistrati che applicano le regole del diritto anche agli accusati della lotta armata sono favoreggiatori o, nella migliore delle ipotesi, fragili strumenti nelle mani di questi legali [8]. Su Magistratura Democratica non è necessario spendere molte parole perché, secondo il generale, è ormai a tutti chiaro che questo gruppo di giudici è contiguo alla eversione. Infine, di nuovo, l’ossessivo tema della talpa. «Già sin dai tempi del sequestro del giudice Di Gennaro ad opera dei Nap si è cominciato a parlare di infiltrazioni in seno al Ministero di Grazia e Giustizia e non soltanto perché il sequestrato era un magistrato, ma soprattutto per le precise contestazioni mosse alla vittima in sede di “interrogatorio proletario”. Infatti, la specificità delle domande era evidentemente frutto di notizie precise e riservate, che solo una ristretta cerchia di persone gravitanti attorno al Di Gennaro poteva conoscere. Si deve in proposito rammentare che il funzionario non è stato scelto a caso come “astratto simbolo”, ma come rappresentante di un organo dello Stato che aveva avuto una parte di rilievo negli studi relativi alla riforma penitenziaria, non condivisa negli ambienti del terrorismo. Ed anche in occasione degli assassini dei magistrati Palma e Tartaglione e del criminologo prof. Paolella, i terroristi hanno dimostrato di possedere un efficiente servizio informativo, frutto dell’opera di fiancheggiatori e di irregolari inseriti, a vari livelli, nelle strutture del Ministero di Grazia e Giustizia». Il generale si spinge oltre, sino al punto di esternare anche i sospetti raccolti nel corso dell’attività svolta dal suo ufficio. Sospetti ed illazioni che lambiscono il “cuore dello Stato”: «…Illazioni, anche questa volta non confermate, hanno messo in risalto collegamenti o quanto meno silenzi, in seno al Consiglio Superiore della Magistratura, silenzio imposto da qualche suo componente collegato ideologicamente su posizioni della sinistra rivoluzionaria». L’accusa è clamorosa (le Brigate Rosse sono annidate anche all’interno del Csm), ma il generale non fornisce alcuna prova di quello che sostiene, pur essendo convinto che, a Palazzo dei Marescialli, operi almeno un fiancheggiatore delle BR. Non fa alcun nome, ma, in un organismo che, alla fine degli anni ’70, è ancora fortemente governato dai gruppi più conservatori, dalla Chiesa quasi certamente allude al gruppo di Magistratura Democratica [9]. La nota prosegue e il generale, messe da parte le illazioni, si dice certo che nel Csm, già da alcuni anni, operi una talpa: «La gravità dell’enorme pericolo costituito dalla esistenza dei “fiancheggiatori” esistenti ed operanti attivamente in ambito ministeriale non può pertanto essere legata soltanto alla “Risoluzione Strategica nr. 5” delle BR, ma assume chiari contorni anche quando nel noto covo di via Gradoli viene rinvenuto un documento, con data del 1976, nel quale viene presa in esame la struttura del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel citato documento si afferma, infatti, che l’attività informativa nei confronti dei giudici non era stata “fino ad ora possibile” perché il Consiglio Superiore era rappresentato da un solo gruppo di potere (UMI) e quindi non rifletteva la complessa realtà delle Magistrature italiane. E più oltre si soggiungeva: “tale lavoro può incominciare da ora, partendo dal Consiglio Superiore fino a sviluppare un lavoro organico e complessivo su tutta la Magistratura”. È evidente, quindi, che le BR sin dal 1976 hanno la possibilità di contare su “fonti di informazioni” nell’organo di autogoverno della Magistratura, possibilità poi attualizzata come conferma il ritrovamento in un “covo” Nap di Ostia di una copia del “Ruolo di Anzianità dei Magistrati”, contenente alcune annotazioni a fianco di giudici e funzionari in servizio al Ministero di Grazia e Giustizia» [10]. Ma non c’è solo la talpa che opera nell’organo di autogoverno dei magistrati. Il Ministero di grazia e giustizia e l’ambiente giudiziario romano, per forza di cose, ne hanno prodotto altre: «Il recente omicidio del Ten. Col. Antonio Varisco ha vieppiù attualizzato il fenomeno delle infiltrazioni non solo al Ministero di via Arenula, ma anche nell’ambito del Palazzo di Giustizia romano. Si è così riparlato della “talpa” annidatasi negli Uffici del Ministero e di quelli della Magistratura della Capitale ed ancora una volta la stampa ha pilotato i sospetti dell’opinione pubblica verso funzionari e magistrati che, per ragioni ideologiche e per connivenze, possono aver fornito al commando BR notizie sull’Ufficiale, sui suoi spostamenti ed in ordine al proponimento di lasciare il servizio» [11]. In questo delicato passaggio della relazione dedicato agli omicidi di magistrati e funzionari con importanti incarichi nel Ministero di grazia e giustizia, il generale mette insieme vicende, che, per la diversità delle epoche in cui si consumano e per la differenza delle sigle che le realizzano, non possono in alcun modo ricondursi ad un disegno unitario. Il sequestro del giudice Giuseppe Di Gennaro risale all’ormai lontano maggio ’75 e, nel ’79, l’organizzazione Nuclei Armati Proletari ha già cessato di esistere ed i suoi pochi componenti ancora liberi sono entrati nelle BR. Gli omicidi di Riccardo Palma (14 febbraio ’78) e Girolamo Tartaglione (10 ottobre ’78) sono realizzati dalla colonna brigatista romana. Ma il criminologo Alfredo Paolella viene ucciso, a Napoli (11 ottobre ’78), da un nucleo di Prima Linea [12]. Carlo Alberto dalla Chiesa possiede informazioni sulla organizzazione BR certamente superiori a quelle di qualsiasi altro investigatore dell’antiterrorismo. Tuttavia, egli ancora non conosce molti aspetti della struttura brigatista che emergeranno compiutamente solo a partire dagli anni ’80. Le Brigate Rosse hanno organizzato la propria attività creando i fronti, strutture intermedie tra la Direzione strategica e le colonne. Il fronte di lotta alla controrivoluzione, “la contro”, è il settore che si occupa della analisi delle forze della controrivoluzione: precipuamente, la magistratura, i carabinieri, la polizia, le carceri, i servizi di sicurezza ecc. Ed è proprio al lavoro di questo fronte che si devono i risultati raggiunti dalle BR nell’attacco a strutture e uomini delle istituzioni [13]. Nel 1980, quando ha già lasciato l’incarico di coordinatore della lotta al terrorismo, il generale colma un vuoto contenuto nelle sue note indirizzate al Ministro Rognoni. Aveva accusato pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di sorveglianza, sempre trascurando i giudici dei Tribunali e delle Corti di Assise. Ora quel vuoto può essere colmato. A Genova, il 3 giugno ’80, la Corte di Assise assolve, con formula piena, tutti gli imputati della indagine iniziata con gli arresti del 17 maggio ’79 e alla quale il generale ha dato ampio risalto nelle relazioni riservate. Carlo Alberto dalla Chiesa, ora comandante la Divisione Interregionale Pastrengo, reagisce in modo veemente e, il 5 giugno ’80, sceglie una sede insolita per attaccare i magistrati genovesi. In una caserma milanese, dinanzi ai reparti schierati per commemorare il 166° anniversario dell’Arma, non usa giri di parole per commentare la sentenza: «Non passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né l’ingiustizia che lo assolve». Le relazioni riservate del ’79 ci restituiscono una immagine inedita del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. L’Ufficio Coordinamento e Cooperazione svolge, senza avere alcuna legittimazione, una attività di monitoraggio e raccolta di informazioni sulle opinioni dei giudici e sulle loro vite. I magistrati contro cui si scaglia il generale non possono essere accusati di aver commesso reati. Sono tuttavia colpevoli di esprimere idee e di esercitare la funzione giudiziaria in maniera dissonante dalla visione, autoritaria, che il generale ha della società e dei mezzi repressivi con i quali attuare il contrasto giudiziario ai fenomeni eversivi. Questa illegittima attività si accompagna alla formulazione, chiaramente impropria, debordante, di vere e proprie proposte reazionarie all’esecutivo in materie (dalla Chiesa, ad esempio, propone di non concedere le aule universitarie per convegni-dibattiti o di dichiarare decaduti gli studenti fuori corso dopo 2-3 anni) che nulla hanno a che fare con il tema della prevenzione-repressione del terrorismo [14]. Il ceto intellettuale rappresenta la insolubile ossessione del generale. Se le vere menti delle BR, come egli ritiene, sono gli intellettuali che provengono dagli atenei, di rango non minore devono essere i fiancheggiatori, ceto intellettuale delle varie professioni della amministrazione pubblica. La storia che emergerà negli anni ‘80/’90 si occuperà di smentire le ipotesi del generale. Le Brigate Rosse non furono mai dirette, palesemente o occultamente, da intellettuali o professori universitari, ma da operai, impiegati, artigiani, studenti, insegnanti che, sempre, costituirono l’ossatura della Direzione strategica, del Comitato esecutivo e delle direzioni delle colonne sino al 1981, anno in cui le BR cessano di esistere come organizzazione unitaria [15]. Le decine e decine di dissociati/collaboratori di giustizia provenienti dalle organizzazioni della lotta armata non smentiscono questa conclusione e, soprattutto, pur avendo fatto arrestare centinaia di persone, non hanno mai accusato membri del CSM, magistrati o figure di medio/alto livello del Ministero di grazia e giustizia. Le idee e le proposte di dalla Chiesa sono, comunque, condivise dai settori moderati della classe politica e viaggiano sulle gambe di alcuni protagonisti della vita parlamentare. Settori consistenti della Democrazia Cristiana ritengono, come il generale, che la magistratura rappresenti il “ventre molle” dello Stato nella lotta alla eversione e, alla fine degli anni ’70, si spingono sin quasi al punto di invocare lo scioglimento di Magistratura democratica. Nel maggio ’77, il deputato democristiano Claudio Pontello ed altri parlamentari, rivolgendo una interrogazione parlamentare al Ministro di grazia e giustizia, affermano «Ciò che desta in noi gravi preoccupazioni è il fatto, più volte ripetutosi, di magistrati che si pongono ai limiti della legge… Penso alla maggioranza degli aderenti alla corrente di “Magistratura Democratica” che, a detta degli stessi magistrati di “Magistratura Indipendente”, vi è da chiedersi se, stante il comportamento tenuto, possano ancora rimanere nell’ordine giudiziario» [16]. Nel gennaio ’80, un gruppo di parlamentari democristiani capeggiato dal senatore Claudio Vitalone, già sostituto procuratore romano, esprime una adesione convinta alle idee di dalla Chiesa. Vitalone presenta al Senato una interpellanza in cui afferma che esiste un documento giudiziario che dimostra un collegamento tra alcuni giudici di Magistratura democratica e gruppi della eversione di sinistra. Sollecita l’avvio di procedimenti penali e disciplinari e chiede di disporre la immediata sospensione di questi magistrati dall’esercizio delle loro funzioni [17]. Alcuni mesi più tardi, a maggio, gli inquirenti arrestano una donna accusata di essere una militante della colonna romana delle BR. È una ragazza di 23 anni, si chiama Alessandra De Luca, e, da qualche mese, lavora come coadiutrice presso la divisione affari penali della Procura Generale. Certo, ha passato informazioni ad alcuni militanti della colonna, ma la sua individuazione costituisce un risultato assai modesto rispetto alle elevate aspettative esposte nelle relazioni riservate del ‘78-79. L’impiegata non somiglia affatto al raffinato intellettuale che, secondo la visione del generale, annidato nello Stato, fornisce informazioni segretissime, indica gli obiettivi da colpire, ispira le azioni più sanguinose, tornando poi nell’ombra, al sicuro negli uffici delle istituzioni [18]. Troppo poco per fare di questa ragazza la “talpa eccellente” che il generale non riuscì mai a trovare. Note [1] Sulla attività politica dell’editore e sulla storia della struttura clandestina creata da Feltrinelli v. Davide Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, DeriveApprodi, 2023. [2] Il 9 maggio ’74, tre detenuti del carcere di Alessandria prendono in ostaggio 17 persone, civili e guardie carcerarie. Si intavolano trattative con i rapitori, condotte anche da magistrati della Procura di Alessandria, ma poi, improvvisamente, il 10 maggio, fanno irruzione nel carcere reparti dei carabinieri comandati dal generale dalla Chiesa. Il bilancio drammatico del blitz è di 4 ostaggi morti e 22 feriti. Durante l’operazione vengono uccisi anche due dei tre detenuti rivoltosi. Il Procuratore Generale di Torino Carlo Reviglio della Venaria avoca l’indagine, togliendola alla Procura di Alessandria. Così il magistrato, che evidentemente ha condiviso con il generale dalla Chiesa la decisione di intervenire militarmente, commenta l’operazione: «Non si poteva ammettere che lo Stato fosse ulteriormente calpestato perché casi del genere si sarebbero ripetuti all’infinito». Ancora oggi, a distanza di 50 anni da quegli avvenimenti, passati alla storia come la “strage di Alessandria”, permangono molti dubbi sulla versione ufficiale fornita sulla operazione e cioè che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dai detenuti che li avevano sequestrati. [3] I reati contestati al giudice De Vincenzo sono quelli di rivelazione di segreto di ufficio, abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio. L’indagine – iniziata nel marzo ’75 e condotta dalla Procura Generale di Torino diretta da Carlo Reviglio della Venaria – si chiude, il 26 marzo ’76, allorquando il giudice istruttore emette una sentenza con cui proscioglie il magistrato. Prende avvio allora il procedimento disciplinare che si conclude, il 10 marzo ’78, innanzi alla Sezione Disciplinare del Csm, con una sentenza che esclude tutti gli addebiti contestati a De Vincenzo. Nel ’79, Ciro De Vincenzo lascia la magistratura per divenire notaio. [4] Le due relazioni riservate possono essere consultate accedendo al Portale Storico della Camera dei deputati>Le inchieste>Rapimento e morte di Aldo Moro>Documenti versati all’Archivio storico disponibili on line. In particolare, si tratta dei documenti n. 14/20 e 14/21 del 3 dicembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Sviluppate in oltre 250 pagine, insieme a corposi allegati, le relazioni analizzano, essenzialmente, le formazioni Brigate Rosse, Prima Linea, Autonomia operaia organizzata e Azione Rivoluzionaria. Il generale coordina tutte le attività riguardanti il terrorismo italiano, ma le note contengono una vistosa omissione. Solo quattro pagine della seconda relazione sono dedicate ai Nuclei Armati Rivoluzionari ed alla eversione neofascista. [5] Sulla operazione padovana v. Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile. Un caso giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale, Einaudi Storia, 2023. Vedi, inoltre, l’intervento pronunciato da Giovanni Palombarini, giudice istruttore nella indagine condotta dal PM Pietro Calogero, su Il processo 7 aprile e il nodo del garantismo penale, nel corso della manifestazione per i 60 anni di Magistratura Democratica che si è svolta, a Roma, il 9 e 10 novembre 2024. Al momento, l’intervento di Palombarini, di imminente pubblicazione sul numero 4/2024 della rivista trimestrale Questione Giustizia, e anticipato in Questione giustizia online (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-7-aprile-e-il-nodo-del-garantismo-penale) può essere ascoltato su Radio Radicale. [6] Sulla indagine e sul processo genovesi v. dell’autore Genova 79. I sovversivi, i brigatisti, i testimoni, pubblicato su Questione Giustizia, 17 ottobre 2023 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/genova-79). [7] Il PM milanese Emilio Alessandrini viene ucciso a Milano il 21 gennaio ’79. Il 7 aprile ’79 avvengono gli arresti padovani di Toni Negri ed altri. Il 14 aprile ’79, il giornalista de l’Unità Ibio Paolucci, nell’articolo dal titolo Alessandrini indicò in Negri uno dei telefonisti delle BR, rivela che, nell’aprile dell’anno precedente, il magistrato milanese si era incontrato, nel corso di una cena, con il docente padovano, incontro avvenuto su richiesta di Negri. Quando, in seguito, Alessandrini aveva ascoltato il colloquio telefonico avvenuto, il 30 aprile ’78, tra un brigatista e la moglie di Moro, il giudice milanese si era convinto che la voce del brigatista era quella di Toni Negri. Nelle giornate successive all’articolo di Paolucci salta fuori che, effettivamente, durante i giorni del sequestro Moro, si era svolta una cena a casa del sostituto procuratore milanese Antonio Bevere, aderente a Magistratura Democratica, alla quale avevano partecipato Alessandrini, Toni Negri e la giornalista de Il Manifesto Tiziana Maiolo. La Procura milanese avvia una indagine. La Maiolo e il compagno, il giornalista Stefano Menenti, vengono arrestati per il reato di falsa testimonianza perché sostengono di essere stati presenti alla cena, circostanza questa contraddetta, inizialmente, dalla moglie del giudice assassinato. Nel giro di pochi giorni si accerta che Maiolo e Menenti hanno raccontato la verità e i due giornalisti vengono scarcerati. L’episodio diventa l’occasione, anche attraverso una ossessiva campagna di stampa, per ipotizzare che, con la complicità di Bevere, Toni Negri abbia voluto “studiare” da vicino la vittima Alessandrini prima di farlo uccidere. Alla fine, l’inchiesta penale sulla cena a casa Bevere non produrrà risultati mentre emergerà processualmente che Emilio Alessandrini è stato ucciso da un nucleo di Prima Linea – composto, fra gli altri, da Sergio Segio e Marco Donat-Cattin – e che Toni Negri non ha svolto alcun ruolo nella ideazione ed organizzazione dell’agguato. Le investigazioni sulla vicenda Moro dimostreranno poi, spazzando via ogni dietrologia, che il brigatista che telefonò a casa Moro la sera del 30 aprile ’78 («solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore di Zaccagnini può modificare la situazione») era Mario Moretti. [8] Nel capitolo dedicato al mondo forense, dalla Chiesa dedica molte pagine agli avvocati di “Soccorso Rosso“ Edoardo Di Giovanni, Giovanna Lombardi, Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali che agiscono al fine di «offrire un supporto ideologico ed operativo alle organizzazioni eversive». L’avvocato Sergio Spazzali, processato insieme ai membri della colonna torinese BR accusati da Patrizio Peci, viene assolto dalla Corte di Assise di Torino il 17 giugno ’81, ma, in appello, la sentenza viene ribaltata e la condanna diventa definitiva quando il legale si è già rifugiato all’estero. Gli avvocati Edoardo Di Giovanni e Giovanna Lombardi, imputati per istigazione alla commissione di delitti di eversione, sono assolti con sentenza della Corte di Assise di Roma del 5 marzo 1981. L’avvocato Edoardo Arnaldi si toglie la vita nella sua abitazione di Genova, il 19 aprile ’80, mentre i carabinieri gli stanno notificando un mandato di cattura emesso dall’ufficio istruzione torinese sulla base delle accuse formulate da Peci. [9] Nella consiliatura 1976-1981, Magistratura Democratica è rappresentata nel CSM da Marco Ramat (uno dei fondatori del gruppo, segretario generale di MD dal ’72 al ‘76) e dal magistrato romano Michele Coiro. [10] La risoluzione della Direzione strategica BR del febbraio ’78, che avvia la campagna di primavera, è un corposo e lunghissimo documento di analisi politica, anche delle istituzioni e della magistratura. Analisi politica, dunque, – non già documento che contiene informazioni riservate provenienti da ambienti istituzionali – nel quale le BR sostengono che il Consiglio Superiore della Magistratura, sulla scorta di un’azione congiunta del Ministro Bonifacio e del Vicepresidente Vittorio Bachelet, è diventato «il principale organo di controllo tra esecutivo e giudiziario». Sicuramente, il generale dalla Chiesa avrà prestato particolare attenzione a questo fugace passaggio contenuto nella risoluzione: «è esemplare il provvedimento con cui il Csm esautora dalle loro funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta dall’esecutivo. Ancor più pesante è l’iniziativa del vicepresidente del Csm Bachelet che, su direttiva di Bonifacio e del governo, incarica i procuratori generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a “Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine democratico». Una approfondita analisi della risoluzione è contenuta nel libro di Marco Clementi Storia delle Brigate Rosse, Odradek, 2007 [11] La tesi del generale dalla Chiesa sarà smentita da Antonio Savasta, membro della direzione della colonna romana BR e uno dei componenti del nucleo che uccide il Tenente Colonnello Antonio Varisco, comandante del Reparto Carabinieri Servizi Magistratura, il 13 luglio ’79, a Roma. Divenuto collaboratore di giustizia, ricostruisce dettagliatamente il delitto Varisco nel corso di una udienza che si svolge, il 28 aprile ’82, davanti la Corte di Assise di Roma. Senza aver fatto ricorso a talpe, le BR, sulla scorta di quello che accadeva nel corso dei processi che si svolgevano nell’aula bunker del palazzo di giustizia romano, avevano individuato in Varisco (responsabile delle “traduzioni e scorte”) uno dei principali responsabili di una linea repressiva che si manifestava non solo all’interno del circuito delle carceri speciali, ma anche in occasione dei dibattimenti, direttamente contro gli imputati, impedendo loro, ad esempio, di leggere comunicati e di esprimere le proprie posizioni durante le udienze processuali. [12] Le sentenze definitive per gli omicidi dei magistrati Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, uccisi dalle Brigate Rosse, accerteranno le responsabilità della colonna romana e stabiliranno che l’inchiesta e, successivamente, gli agguati furono condotti dai militanti del fronte della controrivoluzione. È utile segnalare una vicenda, molto poco conosciuta, che avviene tra l’ottobre e il dicembre ’79. I carabinieri del generale dalla Chiesa effettuano una operazione contro il comitato marchigiano delle BR. Una militante detenuta, Sabrina Pellegrini, rivela di essere stata la telefonista della rivendicazione del delitto Tartaglione ed accusa un’altra militante, Lucia Reggiani, di aver partecipato all’omicidio. La Reggiani, assistente sociale anconetana, dopo quello ricevuto per il reato di partecipazione a banda armata, viene subito raggiunta da un mandato di cattura per il delitto Tartaglione e la stampa nazionale, insistentemente, accredita l’ipotesi che sia proprio lei la talpa delle BR all’interno del Ministero di grazia e giustizia, anche se la donna, in realtà, non ha mai lavorato per il ministero. Nel giro di pochi giorni, la Pellegrini ritratta e dice di essersi inventata tutto. Lucia Reggiani non è la talpa a lungo cercata dagli inquirenti e viene scagionata da ogni accusa riguardante il delitto Tartaglione. [13] Se il generale ritiene che le BR possano agire solo grazie a talpe annidate nelle istituzioni, in realtà, le notevoli capacità della organizzazione derivano da una struttura interna che svolge un lavoro, capillare e costante, di analisi e studio di organismi e personalità delle istituzioni. Per la magistratura, come per altri settori, si parte dalla raccolta, dal basso, di dati su convegni, singole figure di magistrati, posizioni ed opinioni espresse pubblicamente, specifica natura della attività giudiziaria svolta, ricorrendo a notizie giornalistiche nonché allo studio di riviste specializzate. Vengono redatte schede che vengono conservate dalla direzione di colonna e dal fronte nazionale di lotta alla controrivoluzione. Il fronte nazionale elabora un documento che offre alla discussione della organizzazione. Individuato un particolare obiettivo, l’inchiesta sul campo è affidata alla colonna che la porta a termine mediante una vera e propria indagine – fatta essenzialmente attraverso pedinamenti – sulle abitudini di vita e sui movimenti della persona da colpire. [14] Sul “programma politico” del generale dalla Chiesa che invoca la adozione di misure restrittive nel campo civile e sociale v. Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elena Santalena, Brigate Rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017. [15] Nello stesso periodo in cui il generale sviluppa la propria tesi sul ceto intellettuale che dirige la lotta armata, le Brigate Rosse convocano la propria Direzione strategica che si riunisce, nel dicembre ’79, a via Fracchia a Genova. Come è noto, la base sarà presto individuata grazie alle informazioni fornite a dalla Chiesa da Patrizio Peci. Ebbene, alla riunione genovese partecipano 15 persone. Di queste, nove provengono dal mondo della fabbrica e le restanti sei da altri settori del mondo del lavoro. [16] L’interrogazione a firma Pontello ed altri, riguardante la vicenda bolognese del capitano Nevio Monaco, viene discussa nella seduta della Camera dei Deputati del 20 maggio 1977. [17] L’interpellanza può essere consultata accedendo al resoconto stenografico della seduta del Senato della Repubblica dell’11 gennaio 1980. Vitalone accusa esplicitamente i giudici di MD Franco Marrone, Francesco Misiani, Gabriele Cerminara, Ernesto Rossi, Luigi Saraceni e Aldo Vittozzi i cui nomi sono stati trovati in appunti sequestrati ad un membro di Potere Operaio. Vitalone, tuttavia, non segnala che quel documento non è recente, ma è stato rinvenuto molti anni prima. Nasce una indagine penale che si estende ai magistrati Michele Coiro, Gianfranco Viglietta, Filippo Paone e Gaetano Dragotto, i cui nomi/numeri di telefono sono rinvenuti durante una perquisizione, del 22 gennaio 1980, presso l’emittente radiofonica romana Onda Rossa, vicina all’area della Autonomia. Alla fine, nel dicembre ’80, il giudice istruttore di Firenze dichiara non luogo a procedere nei confronti di tutti i magistrati perché non hanno mai fatto parte di alcuna associazione sovversiva. [18] Sulla vicenda di Alessandra De Luca v. la sentenza emessa, il 14 marzo 1985, dalla Corte di Assise di Appello di Roma, Pres. De Nictolis, nel processo Moro uno/bis. L’articolo è pubblicato anche nel sito di Questione giustizia > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 18, 2025 / Osservatorio Repressione
Franco Piperno, una biografia del Novecento
Franco Piperno protagonista del “lungo Sessantotto” italiano si è spento lunedi 13 gennaio  a Cosenza a 82 anni mentre la destra postfascista tenta di ribaltare gli anni Settanta nel loro contrario. di Ida Dominijanni da Centro Riforma dello Stato Ero andata a trovare Franco Piperno nella sua casa di Cosenza i primi di ottobre, con la mia amica Isa. C’erano con lui Marta, la sua compagna, e Enzo e Walter, i suoi fratelli; Elisabetta e altri amici stretti si alternavano a fargli visita. Stava male già allora, resisteva poco seduto, mangiava di malavoglia e parlava a fatica. Ma era felice di vedermi e di chiedermi notizie degli amici comuni, uno per uno: “Che fanno?”, sperando di sentirmi rispondere che qualcosa di politicamente sensato siamo ancora in grado di inventarcelo. Mentre lui riposava siamo rimasti lì a lungo a chiacchierare di tutto, compreso l’impatto del lavoro di cura nelle nostre vite, non previsto dalla nostra giovanile baldanza e così carico di spine ma anche di doni. È stata una gran bella giornata e sebbene immalinconite per Franco, Isa e io siamo tornate a casa felici di quel bagno di amicizia, intesa e complicità che si ricrea all’istante nelle famiglie elettive e allargate nate nei pressi del Sessantotto e seguenti. E nel nostro caso anche prima, perché il carisma di Franco aleggiava sulla sinistra extraparlamentare di Catanzaro già quando io ero bambina, Enzo mi portava a raccogliere funghi in Sila già prima di diventare un leader di Lotta Continua, Walter è stato un mio amico adorato negli anni del liceo, Marta, in anni più recenti, una fantastica compagna di scorribande newyorkesi. Nel corso del tempo ci siamo persi e ritrovati decine di volte, ogni volta come se ci fossimo visti la sera prima. Lo racconto non solo perché il ricordo di quell’ultimo incontro allevia il dispiacere della perdita, ma soprattutto perché quando si parla degli anni Settanta nel linguaggio riduttivo dei media l’eredità affettiva di quella stagione non entra mai nel conto. E invece è il suo frutto migliore. Fra le altre cose, Franco è stato un grande e incessante costruttore di relazioni e di comunità. Le costruiva a modo suo, per irruzioni e sparizioni, inattese vicinanze e distratte lontananze, ma una volta che entravi nella sua orbita affettiva non ne uscivi più. Era parte della sua idea di politica: la comunità dei compagni e degli amici prima di tutto il resto. E non solo quella dei compagni storici. Una volta sono capitata per lavoro a Montreal, e non c’era nessuno fra quelli e quelle che ho incontrato che non avesse avuto a che fare con lui negli anni del suo esilio. Tornato in Italia, ha ricominciato con gli studenti dell’Unical, con i ragazzi di Radio Ciroma, con i militanti delle prime lotte a fianco dei Rom e dei migranti, e dopo i fatti di Genova 2001 con gli amici di Esc a Roma e di Uninomade in giro per l’Italia. Non la smetteva mai e gli riusciva sempre, perché maneggiava molto bene l’arma della seduzione, che si trattasse di donne, uomini, dei lupi che ha allevato a lungo con amore, delle folle convocate a decifrare sotto la sua guida il cielo stellato nelle notti d’estate. Andrea Colombo ha scritto sul manifesto del 15 gennaio un pezzo intitolato La rivoluzione alla luce del sole che fa giustizia dei tentativi (di destra e di sinistra, vedi l’identico titolo in morte del “cattivo maestro” sul Giornale e su la Repubblica) di riportare la vita del leader di Potere operaio alla narrativa mainstream degli anni Settanta come anni di piombo tuttora carichi di misteri e di verità nascoste. Ma, scrive Andrea, “la sua idea di rivoluzione non aveva nulla di misterioso, segreto, cospiratorio. Era esplicita, ostentata, gridata alla luce del sole, come quando, in tempi nei quali i rapporti di forza rendevano normale dire quel che oggi nessuno oserebbe sussurrare, parlò apertamente di insurrezione necessaria e imminente”. Esplicito e privo di reticenza è sempre stato anche il racconto ex post degli anni Settanta – fondazione e scioglimento di Potere operaio, rapporti e non rapporti fra Potere operaio, Autonomia e BR, uso della violenza e della lotta armata, caso Moro, processo 7 aprile – che Piperno ha fornito più volte e in più sedi, pubbliche e ufficiali. Mi era capitato pochi mesi di fa di ritrovare per caso e di condividere su Facebook un suo faccia a faccia con Giovanni Minoli per “Mixer” del 1983: consiglio a chi nei Settanta non c’era di guardarlo per farsi un’idea di un’altra Italia, di un’altra stoffa di militanti, di un altro giornalismo rispetto a quello che oggi ci passa il convento. E a chi in questi giorni continua a reclamare sui social presunte verità nascoste di Piperno sul sequestro Moro e sul suo tentativo di sondare, su richiesta del PSI craxiano, la possibilità di una trattativa con le BR, consiglio di leggere il testo della sua audizione del 18 maggio 2000 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo. La verità è che in Italia più passa il tempo più la narrativa mainstream della nebbia che ancora avvolgerebbe gli anni Settanta serve non per scoprire ciò che non si sa, ma per non fare i conti con ciò che si sa. All’epoca, peraltro, io non vivevo a Roma, non simpatizzavo né per Potere operaio né per Autonomia e da femminista contestavo vibratamente l’uso politico della violenza come risvolto dell’ordine patriarcale e di una virilità malintesa. Delle vicende degli anni Settanta ho discusso con Franco in anni più recenti, quando lui, influenzato dall’esperienza del comunitarismo nordamericano e calato nell’esperienza dell’amministrazione di Cosenza di Giacomo Mancini e di Eva Catizone, parlava più di autogoverno, autogestione, municipalismo e genius loci che di strategie insurrezionali e rivoluzionarie. Di quelle conversazioni è impossibile restituire la densità, che faceva tutt’uno con la densità del personaggio e con la sua ineguagliabile eloquenza. Colpivano però l’ampiezza della prospettiva unita all’analisi minuta e dettagliata dei fatti, l’intreccio fra vissuto personale e storia e fra razionalità e sensorialità, le cicatrici di ferite mai rimarginate come il rogo di Primavalle (che nel 1973 lo risolse a sciogliere Potere operaio, non perché l’organizzazione fosse coinvolta in quei fatti ma proprio perché non essendolo non era riuscita a evitarli) e ovviamente il processo 7 aprile e relativo carcere preventivo (una cinquantina di capi d’imputazione tutti caduti per assoluzione, salvo quello, giuridicamente controverso, di partecipazione ad associazione sovversiva). Come in altri casi, anche nel caso di Piperno l’etichetta di “cattivo maestro” tanto abusata nel dibattito pubblico italiano serve in realtà a rinchiudere nella condanna morale e nel minoritarismo politico percorsi politici e intellettuali che andrebbero restituiti alla loro emblematicità del “lungo Sessantotto” italiano e del Novecento non solo italiano. Aldilà della leadership di Potere operaio, Franco Piperno è stato un politico di spessore, contrassegnato da un intreccio di visionarietà e realismo che forse, per restare nel campo dell’operaismo in cui si era formato dopo la precoce e traumatica espulsione dal Pci per “deviazionismo” nel 1967, lo avvicinava malgrado le apparenze più a Mario Tronti che a Toni Negri. Ed è stato un intellettuale di spessore, contrassegnato da un intreccio di cultura scientifica e umanistica che lo rendeva capace di continui spiazzamenti dal conformismo, anche e soprattutto di sinistra. Quando parlava di fisica entrava in un’altra dimensione, inaccessibile ai più, ma era proprio, o anche, la “fisica della materia” a preservarlo dalle derive dogmatiche del materialismo marxista. Mentre vedevano la luce tre libri (Elogio dello spirito pubblico meridionale, Roma 1997; Lo spettacolo cosmico, Roma 2007; Sessantotto. L’anno che ritorna, Milano 2008), è rimasto a lungo nel cassetto come una sorta di atto mancato un libro sul tempo, perorazione fisico-filosofica a favore del “qui e ora” contro il gradualismo e della ciclicità ritornante contro la linea retta del progressismo. Ciclico, si sa, è anche il moto rotatorio della rivoluzione. E ciclica è stata anche la dimensione della vita di Franco, dove le stesse cose ritornavano sempre. A un certo punto però anche il tempo ciclico si interrompe. Colpisce, o forse va preso come un segno di kairós, che il suo si sia interrotto proprio mentre la combriccola nera che ci governa sta facendo di tutto per ribaltare il Sessantotto e gli anni Settanta nel loro contrario e trascinarci tutti e tutte dalla parte sbagliata della storia. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 18, 2025 / Osservatorio Repressione
Archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti
«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Paolo Persichetti di Paolo Persichetti da Insorgenze Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte. Comportamenti privi di rilevanza penale Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio». Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione. Reati prescritti
 Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione». Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era. Le ragioni dell’inchiesta Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica? Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimmirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare. Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani. Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta. Cosa era successo? L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza» delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi». Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine. La velenosa insinuazione Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti! Un grave precedente Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo. Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro. Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno. La decisione finale spetta al Gip
 Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di prevenzione. > Se fare storia è un reato > Lo storico Marco Clementi: «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è > un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70» > La scongiura del discorso. Il caso Persichetti > Kafka e l’archivio di Persichetti > il passato continua a chiedere il conto a Paolo Persichetti > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 5, 2024 / Osservatorio Repressione
Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente Milei
Arriva un altro stop dall’Argentina dove la sezione istruttoria della Cassazione la magistratura più alta ha ribadito che Leonardo Bertulazzi è un rifugiato politico. A questo punto difficilmente sarà estradato nonostante le pressioni sicuramente esercitate da Giorgia Meloni nel recente incontro con Milei a Buenos Aires. di Paolo Persichetti da Insorgenze Con una decisione dai contenuti durissimi la corte di Cassazione argentina ha censurato l’operato del governo Milei che aveva arbitrariamente revocato lo statuto di rifugiato politico a Leonardo Bertulazzi, l’ex Br della colonna genovese riparato da quattro decenni in America Latina e da 20 anni residente a Buenos Aires. I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere. L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione. Un arresto arbitrario e una revoca illegittima I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche». I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei correti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale governo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui MIlei si rivendica erede. Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo step, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia. Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda. > Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo > Bertulazzi in Argentina > La caccia ai sovversivi, così la destra insegue i fantasmi > Lo accusano di aver partecipato alla logistica del sequestro Moro, ma era già > in carcere > L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex > brigatista Leonardo Bertulazzi       Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 29, 2024 / Osservatorio Repressione
La guerra su fantasmi delle Br è un avvertimento a chi lotta oggi
Rinvio a giudizio per gli ex dirigenti del movimento ormai ottantenni: Curcio, Azzolini e Moretti. Un’ulteriore criminalizzazione di quegli anni o un deterrente per il futuro? di Frank Cimini da l’Unità Come il cacio sui maccheroni. Oppure come la grappa dopo il caffè. L’uso politico della giustizia e l’infinità emergenza italiana vanno insieme ormai da quasi mezzo secolo. E scatenano aspri scontri e polemiche. Ma a volte c’è la classica eccezione che conferma la regola. Per esempio l’ultimo clamoroso caso di uso politico della giustizia ha messo tutti d’accordo. Parliamo del rinvio a giudizio degli ex dirigenti delle Brigate rosse Renato Curcio, 83 anni, Lauro Azzolini, 81 anni e Mario Moretti, 77 anni, per il concorso nell’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso alla Cascina Spiotta in occasione della liberazione di Vittorio Vallarino Gancia, l’imprenditore sequestrato a scopo di finanziamento della lotta armata quando rimase uccisa anche Mara Cagol. Stavolta la magistratura, soprattutto quella associata sempre vociante, e la politica non litigano. I politici non litigano con le toghe e neanche tra loro. A fronte di intercettazioni chiaramente farlocche senza autorizzazione del gip, con motivazione surreale del gup (“inchiesta contro ignoti”), nessuno dice nulla. Come sulla vecchia sentenza di proscioglimento revocata perché scomparsa durante un’alluvione nel 1994. Revocata senza poterne prendere visione, leggerla. A meno che non sia stata interpretata attraverso una seduta spiritica sul modello di mister Gradoli al secolo Romano Prodi. Se questi pm della procura antiterrorismo di Torino, competenti su un fatto della provincia di Alessandria avvenuto quando le Dda non esistevano, avessero buon senso e fossero in buona fede, ci sarebbe da chiedersi come abbiano fatto a laurearsi e a superare il concorso in magistratura. Ma si tratta di magistrati esperti e preparati. Il problema loro sta nel fatto che combattono contro il fantasma di un fenomeno del passato per incidere sullo scontro sociale politico di oggi, che a causa della crisi economica potrebbe aggravarsi. Non solo per criminalizzare ulteriormente gli anni 70 e tribunalizzarli in maniera definitiva, ma per lanciare moniti a chi lotta oggi contro le disuguaglianze: non ci provate perché se no sarete perseguiti e perseguitati fino alla tomba. Come gli ottantenni di oggi. Chiudiamo con le parole di Davide Steccanella, avvocato di Azzolini e storico di quel periodo: “Curcio 50 anni dopo a giudizio per aver messo in conto e voluto una sparatoria in cui gli hanno freddato la moglie. Dovevano contestargli l’uxoricidio a sto punto”.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
Cascina Spiotta, al via il processo bis: Curcio, Moretti e Azzolini perseguitati dopo 50 anni
L’uso giudiziario della storia, per altro distorto. Il nuovo processo alle Brigate rosse. Inchiesta sulla sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti a targhe alterne che affollano questo paese. di Frank Cimini da l’Unità Norimberga Due. I vincitori processeranno i vinti questa volta a mezzo secolo dai fatti. Il giudice dell’udienza preliminare di Torino Ombretta Vanini ha rinviato a giudizio Renato Curcio, Mario Moretti e Lauro Azzolini per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso durante la sparatoria alla Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 in cui rimase uccisa anche Margherita Cagol. È stato prosciolto per intervenuta prescrizione Pierluigi Zuffada. Il processo inizierà il prossimo 25 febbraio davanti alla corte di assise di Alessandria. La decisione del gup Vanini era scontata dopo il rigetto due settimane fa di una serie di eccezioni di nullità proposte dalla difesa. Gli avvocati avevano segnalato una serie di irregolarità e di forzature. Ma inutilmente. Ti piazzano addosso il captatore informatico trojan, ti intercettano per mesi confrontando le tue impronte con quanto repertato 50 anni fa e quando i tuoi difensori eccepiscono l’assenza del decreto autorizzativo da parte del gip il gup rigetta l’eccezione perché al momento l’inchiesta era contro ignoti diventata contro noti solo dopo aver ascoltato le conversazioni intercettate. Insomma, ti metto addosso il mezzo più invasivo possibile e non si può dire che ti sospetto. Sei ignoto. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra arresa e disarmata. Il gup ha deciso il 16 ottobre e ribadito oggi con il rinvio a giudizio che non c’erano irregolarità e violazione dei diritti. Il captatore insomma veniva usato per ragioni di assoluta urgenza. Su un fatto – badate bene – avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987 senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione nella provincia di Alessandria. A far riaprire l’indagine era stato un esposto presentato dagli eredi del carabiniere D’Alfonso. In aula di udienza erano stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Brigate Rosse. Un fatto notorio già all’epoca della prima indagine poi “alluvionata”. Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico, quello degli anni 70. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti che affollano questo paese. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan. Con quello che hanno speso nell’indagine per i captatori trojan non si poteva permettere una smentita all’operato della procura di Torino un delle più forcaiole d’Italia. Tutti ad Alessandria quindi per il Norimberga Due. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 1, 2024 / Osservatorio Repressione
Cascina Spiotta, rigettate le istanze della difesa: il processo si farà
Si andrà in corte di assise a celebrare un processo alla storia di un tentativo fallito di rivoluzione. I vincitori processano i vinti. Insomma. Norimberga due. di Frank Cimini da l’Unità Formalmente la decisione è stata rinviata al 30 ottobre ma il gup Ombretta Vanini rigettando le istanze della difesa a livello di eccezioni preliminari ha già scelto di rinviare a giudizio Renato Curcio Mario Moretti Lauro Azzolini e Pierluigi Zuffada ex dirigenti delle Brigate Rosse per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’ Alfonso del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta durante le fasi della liberazione dell’imprenditore Vallarino Gancia in precedenza sequestrato. “È tutto il contrario del matrimonio di Renzo e Lucia che per don Rodrigo non s’ha da fare, questo processo di Torino invece s’ha da fare” commenta l’avvocato Davide Steccanella difensore di Azzolini. Il gup nel rigettare le eccezioni proposte dagli avvocati è passato sopra una serie di forzature e irregolarità della procura. Parliamo di una indagine riaperta dopo un proscioglimento senza possibilità di leggere quella lontana sentenza poi annullata perché scomparsa nel corso dell’alluvione di Alessandria nel 1994. Parliamo di un captatore Trojan utilizzato a mezzo secolo dai fatti senza il decreto autorizzativo del gip. Ci sono anche sette libri dedicati alla stagione dei cosiddetti anni di piombo tra gli “elementi indiziari” presentati dai pm torinesi nel processo a carico degli ex Br. Tra questi ci sono i volumi firmati da Curcio e da Moretti. Alcuni frammenti di questi testi sono stati letti in aula. “I pm hanno letto dei brani io invece ne ho letti altri – dice l’avvocato Francesco Romeo che assiste Moretti – non ci si può limitare a estrapolare frasi dal contesto. La stessa presenza dei libri in un processo ci rimanda a un passato poco piacevole”. Va ricordato che il 5 giugno del 1975 moriva anche Mara Cagol colpita quando era terra arresa e disarmata. Ma su quel colpo di grazia non si è indagato nonostante i pm lo avessi promesso a Curcio in sede di interrogatorio. Si andrà in corte di assise a celebrare un processo alla storia di un tentativo fallito di rivoluzione. I vincitori processano i vinti. Insomma. Norimberga due. Almeno quella numero uno la fecero subito non mezzo secolo dopo a un gruppo di 80enni.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Cascina Spiotta, rigettate le istanze della difesa: il processo si farà sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 17, 2024 / Osservatorio Repressione
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino nell’inchiesta contro i quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987. La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti nella discussione, di cui è stata resa nota la trascrizione, che si è tenuta lo scorso 24 ottobre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata, come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, ha commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie di irregolarità, abusi, sotterfugi ed escamotage vari, tutti finalizzati ad aggirare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come ostacoli frapposti all’azione penale. Il tranello complottista Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto depose, per conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti (Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi, brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la stretta regia dei Servizi. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti civili tenteranno di reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha dichiarato di essere entrato nell’inchiesta come legale della parte civile per dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del complotto, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di colpevolezza e sprezzanti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari, al punto che i pm torinesi, presi nel ruolo di novelli riparatori delle ingiustizie della storia, si sono lanciati come Robin Hood nelle foresta di Sherwood incappando in una imbarazzante disavventura. L’inchiesta nascosta Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare» le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura della nuova inchiesta. Scriverà il responsabile della indagine, comandante dei carabinieri Pierluigi Brogliaccino, «L’attività di intercettazione consente l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma nonostante questo specifico attenzionamento, il fascicolo non muterà l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987, dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine. Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato l’archivio del tribunale di Alessandria. Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione di totale illegalità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre 2022, invece di sanare l’illeicità dell’inchiesta, la procura raddoppia l’abuso e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento. Indagato senza essere prosciolto
 Nel 2023 la situazione non cambia, anzi assistiamo ai tentativi surreali della procura che cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, improvvisamente, dopo cinque giorni i pm rinunciano a questo sotterfugio. Lo iscrivono finalmente nel registro degli indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un proprio perito. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni, da loro ritenute delle «sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante» occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova – quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale autorizzazione da tempo illecita. Le intercettazioni non bastano A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti “captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti con Azzolini. In questo modo cercano di trasformare in dichiarazioni d’accusa verbalizzate i contenuti delle intercettazioni dal valore legale traballante. Ma si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima. L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni 70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo sull’avviso. Irritata per l’atteggiamento del teste, a giugno la procura ripropone l’arresto di Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una batosta enorme per i pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta dell’inchiesta imbastita con mille sotterfugi ormai da 17 mesi. Davanti al gup, lo scorso 24 ottobre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati, le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga. Il teste braccato A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più pressanti e riguardano anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, accusato di aver subornato il testimone durante un incontro che PB aveva chiesto al legale e nel quale aveva domandato lumi sulle ragioni dell’interessamento della procura nei suoi confronti nonostante nulla c’entrasse con i fatti della Spiotta di cinquant’anni prima. 
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa dell’imputato Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre coimputati, e il tentativo fare la stesa cosa con il suo avvocato, circostanza che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e liquidare il suo difensore. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 8, 2024 / Osservatorio Repressione
Il passato che non passa
Il prossimo 26 settembre davanti al gip di Torino le richieste di rinvio a giudizio contro Azzolini, Curcio, Moretti e Zuffada per la sparatoria alla Spiotta di 49 anni fa di Paolo Persichetti da Insorgenze Il 26 settembre prossimo si terrà presso il tribunale di Torino l’udienza del gip che dovrà decidere sulle richieste di rinvio a giudizio scaturite dalla nuova inchiesta sul rapimento del magnate dello spumante Vallarino Gancia, realizzato dalla colonna torinese delle Brigate rosse il 4 giugno 1975 e conclusosi il giorno successivo con una sanguinosa sparatoria davanti la cascina dove l’ostaggio era custodito. L’indagine è stata riaperta dopo un esposto del novembre 2021 presentato dall’avvocato Sergio Favretto per conto di Bruno D’Alfonso, carabiniere in pensione figlio di Giovanni D’Alfonso, l’appuntato deceduto nello scontro a fuoco nel quale perse la vita anche Mara Cagol, fondatrice delle Brigate rosse, e rimasero feriti altri due esponenti dell’arma. Le accuse Mezzo secolo dopo i fatti, i pm torinesi hanno chiesto il giudizio per quattro ex brigatisti, Renato Curcio, 82 anni, Lauro Azzolini, 81 anni, PierLuigi Zuffada e Mario Moretti, entrambi 78 anni, quest’ultimo in esecuzione pena “solo” da 44 anni. Azzolini perché ritenuto dai pm il brigatista (all’epoca mai identificato) che insieme a Cagol custodiva l’ostaggio e si sarebbe dileguato nel bosco sottostante la Spiotta dopo la sparatoria. Gli altri tre, in realtà non presenti sul posto, accusati a titolo di concorso morale nella morte del carabiniere D’Alfonso. Le intercettazioni illegali e l’avvocato preso di mira Sui i fogli che il brigatista fuggito dopo il conflitto a fuoco scrisse ai suoi compagni per descrivere la dinamica dei fatti sono state individuate ventotto impronte, a riprova del fatto che quel dattiloscritto, ritrovato sette mesi dopo la sparatoria, era passato per molte mani. Undici sono state attribuite ad Azzolini, sette non identificate e dieci giudicate inutilizzabili. L’assenza di prove determinanti – come ritenuto dallo stesso gip – ha spinto la procura a puntare tutto sulle intercettazioni ambientali, fino a realizzarne un numero impressionante, coinvolgendo decine di persone: ex imputati, familiari e amici, persino avvocati. Davide Steccanella, legale di Azzolini, è stato ripetutamente preso di mira con una violazione molto grave del diritto costituzionale alla difesa. Azzolini è stato oggetto di 222 intercettazioni tramite trojan installato nel suo cellulare, buona parte delle quali svolte prima che il gip concedesse, nel maggio del 2023, la riapertura delle indagini. Fino a quel momento, infatti, la sua posizione giuridica era quella di una persona prosciolta dai fatti con una sentenza-ordinanza emessa dall’autorità giudiziaria di Alessandria il 3 novembre 1987. La sentenza di proscioglimento scomparsa Azzolini infatti era stato precedentemente indagato e prosciolto insieme ad Angelo Basone, scomparso nel frattempo. La riapertura delle indagini è stata concessa del gip – fatto sconcertante – senza poter esaminare la sentenza di proscioglimento e l’incartamento processuale andato distrutto nel 1994 dopo l’esondazione del fiume Tanaro, le cui acque avevano devastato gli archivi del tribunale di Alessandria. Insomma una riapertura alla cieca, sulla scorta della buona fede, per modo di dire, dell’accusa. 
Un modo per aggirare la prescrizione La lista degli episodi inquietanti è lunga, ne citiamo solo alcuni: il rinvio a giudizio di Zuffada, assente al momento della sparatoria. Nonostante secondo gli stessi pm avrebbe avuto un ruolo solo iniziale nel sequestro (reato prescritto), per poi essersi allontanato dalla cascina terminato il suo compito, è chiamato comunque a rispondere di concorso morale nell’omicidio del carabiniere D’Alfonso, anziché di «concorso anomalo», come accadde a Massimo Maraschi. Il brigatista arrestato subito dopo il rapimento e condannato anche per la sparatoria, nonostante in quel momento fosse in mano ai cc di Acqui Terme. Il «concorso anomalo», poiché prevede una pena diversa dall’ergastolo incorrerebbe nella prescrizione, ragion per cui la procura per andare a giudizio ha fatto ricorso a una qualificazione del reato più grave. Il documento di ottobre che secondo l’accusa avrebbe previsto il passato Surreale è poi l’accusa di concorso morale mossa contro Curcio e Moretti, sulla base di una frase presente in un articolo scritto (non da loro) quattro mesi dopo la sparatoria su un giornale clandestino di propaganda, Lotta armata per il comunismo, che per i pm avrebbe avuto valore predittivo, prova di una fiscale direttiva interna emessa dalle istanze dirigenziali delle Brigate rosse. Nel testo si tentava goffamente di ridimensionare il disastro della Spiotta, giustificando il conflitto a fuoco come conseguenza di una direttiva che imponeva in casi del genere di «rompere l’accerchiamento». E così Curcio e Moretti, il primo a Milano, obbligato a nascondersi dopo l’evasione del febbraio precedente dal carcere di Casale Monferrato, il secondo occupato a mettere in piedi la colonna genovese e avviare i primi contatti per la fondazione della colonna romana, secondo i pm sarebbero i veri mandanti morali della sparatoria, nonostante il sequestro fosse stato organizzato e gestito dalla colonna torinese con modalità che dovevano scongiurare qualunque contatto con le forse dell’ordine, grazie anche alla collocazione in altura della cascina che permetteva di controllare le vie di accesso. In nessun documento strategico prodotto dalle Br, e quindi di valore normativo, è mai citata una regola del genere. Ne furono scritti diversi prima del rapimento: sulle norme di condotta individuale dei militanti e sull’organizzazione, tanto che lo stesso Massimo Maraschi, che pure avrebbe dovuto avere un ruolo nella custodia dell’ostaggio (sarebbe dovuto tornare alla Spiotta per dare man forte ai due compagni rimasti soli), al momento della cattura tentò solamente la fuga senza sparare un colpo. Il carattere imprevedibile della sparatoria emerge anche da alcuni nitidi passaggi presenti nella relazione del brigatista fuggito, ritenuta affidabile dagli inquirenti, dove l’uomo e la donna discutono in maniera concitata se utilizzare o meno l’ostaggio per proteggersi nella fuga e Cagol si dice contraria per poi lanciarsi fuori dalla cascina «borsetta e mitra a tracollo, e in mano valigetta e pistola» con le “zeppe” ai piedi (sandali estivi con tacco rialzato), calzature aperte e inadatte per una fuga in campagna tra rovi e sottobosco, come si può vedere nelle foto del suo corpo senza vita scattate dalla scientifica. Silenzio sulla morte di Mara Cagol
 Altro aspetto significativo è l’assenza nella nuova inchiesta di approfondimenti sulle circostanze che portarono alla morte di Mara Cagol, nonostante la richiesta fatta durante l’interrogatorio da Renato Curcio, suo marito all’epoca. Ferita inizialmente a un polso e alla schiena, la militante brigatista era seduta sul versante della collina con le mani alzate in segno di resa. Il colpo mortale la raggiunse nella zona ascellare, trapassando il torace da destra a sinistra. Una esecuzione a freddo. Oltre al carabiniere Barberis, che l’aveva inizialmente colpita, sul posto arrivarono in breve tempo altri membri dell’Arma. I pubblici ministeri non hanno sentito l’esigenza di fare chiarezza, riequilibrando una indagine totalmente sbilanciata. Una Waterloo per la dietrologia Da rilevare infine l’immancabile irruzione della dietrologia nella vicenda. L’esposto iniziale dell’ex carabiniere Bruno D’Alfonso che ha innescato la riapertura delle indagini ha ispirato ben due volumi: L’invisibile, edizioni Falsopiano (con la prefazione dello stesso D’Alfonso) e successivamente, Radiografia di un mistero irrisolto, Bibliotheka, scritti entrambi da due giornalisti, Berardo Lupacchini e Simona Folegnani. Gli autori si dicevano convinti di aver individuato l’identità dell’«invisibile», il brigatista fuggito dopo il conflitto fuoco, nella persona di Mario Moretti. Dipinto – sulla scorta di una ricca letteratura complottista (fu il solito Sergio Flamigni a lanciare per primo l’accusa) – come un cattivo genetico, un personaggio senza scrupoli che nascosto nella folta vegetazione, dove aveva trovato riparo per sfuggire ai colpi di Barberis, avrebbe avuto un subitaneo pensiero, una preveggenza strategica che l’avrebbe indotto ad abbandonare Mara Cagol al suo destino per prendere il suo posto alla guida dell’organizzazione. Una quadra della vicenda che aveva entusiasmato l’allora magistrato Guido Salvini, nel frattempo divenuto avvocato delle parti civili, e sempre pronto a cavalcare le più astruse congetture dietrologiche. L’ex gip si è messo subito a disposizione raschiando, come sua consuetudine, i fondi di barile, gli avanzi carcerari, interpellando collaboratori di giustizia sempre in debito di qualcosa per raccogliere voci di corridoio da confezionare come prove. Un’ambigua sovrapposizione di ruoli e funzioni da cui appare difficile districare dove inizi la nuova attività di avvocato e finisca quella di magistrato. Non soddisfatti, i due giornalisti hanno ipotizzato persino una gestione a distanza del Sid nell’intera vicenda che avrebbe pilotato, attraverso un proprio confidente la fuga del «cattivo» Moretti per giungere poi in via Fani, luogo dove inevitabilmente conducono tutte la strade della dietrologia. Solo che più volte interrogato dai pm, Leonio Bozzato, la spia del Sid che militava nell’Assemblea autonoma di Porto Marghera, anziché Moretti ha indicato – vera nemesi della storia – in Alberto Franceschini (detenuto all’epoca) l’ignoto brigatista fuggito dalla Spiotta e compartecipe del complotto. Il giudice o lo storico? Fino ad ora c’è stata poca attenzione pubblica su questa inchiesta, il dibattito culturale e politico si è mostrato distratto rispetto alle importanti questioni che solleva. Nelle intenzioni della procura, stando alla lista dei testi chiamati a deporre, questo giudizio dovrebbe rappresentare una sorta di evento storico conclusivo, riedizione del processo al cosiddetto «nucleo storico» che dovrebbe sancire in modo definitivo la chiusura del Novecento italiano sotto la mannaia della punizione permanente, oltre ogni tempo ed epoca, una damnatio memorie che però ha il sapore di un esorcismo e dietro il quale si cela un’ansia patogena, un timore angosciante verso il passato. Eppure sarebbe scontato chiedersi se a distanza di mezzo secolo ha ancora senso approcciare quella stagione così distante con gli strumenti dell’azione penale. Chi deve occuparsene: i pubblici ministeri o gli storici? Svuotare una stagione storica dei fatti sociali sostituendoli unicamente con la memoria penale, oltre ad essere fuorviante è davvero il modo più efficace per fare i conti col nostro passato? La domanda ovviamente non riguarda solo il metodo, gli strumenti di conoscenza dei fatti ma anche gli obiettivi: cosa serve veramente alla società che si è trasformata cinquant’anni dopo? Solo colpevoli da condannare ad ogni costo e che alla fine rischiano di essere solo dei capri espiatori? > Gip: indagini sugli anni ‘70 siano per l’eternità > Prima uccidono la moglie poi vogliono indagarlo. Quarantotto anni dopo Renato > Curcio indagato per la sparatoria di cascina Spiotta > Pm in trincea: fermeremo le Br! > Indagano su ex Br dopo 50 anni… anche se non c’era > Dopo 50 anni vogliono processare Curcio e Moretti > Emergenza infinita processo a Curcio Moretti 50 anni dopo     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Il passato che non passa sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 20, 2024 / Osservatorio Repressione