Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte
del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la
pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di
una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai
militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5
giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono
sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del
bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici
giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere»
di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito
scomparso dall’indagine.
La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria
Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto
per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla
sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata
casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei
carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era
ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i
rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai
pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la
macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi
spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule
della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola
di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi
volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano
trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era
giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un
errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al
Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che
hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per
giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che
erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide
Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati
troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi
sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto
meno conosciute ed applicate».
I bossoli scomparsi
Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di
D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di
tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso.
Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica
dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione
di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono
arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano
del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato
portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo
sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone.
In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…)
Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere
Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho
trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il
Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che
fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era
sentito».
Un vuoto di mezz’ora
Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano
di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso
Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del
conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo?
Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa
l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai
feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad
ora non hanno ricostruito questi momenti.
Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque
dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che
dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili.
L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati
cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi.
Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque
minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra».
Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di
fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di
mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo
il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo
brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da
risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre
venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più
considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che
siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa
percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per
giunta in un’area ispezionabile.
Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol
Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se
vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i
cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per
facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio
dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al
Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime
del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono
state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse
l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma
sembra un po’ tardi per lamentarsene).
La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda
Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma
non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro
militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un
anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con
l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova
Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della
XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato
dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni
dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di
Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una
retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri
brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e
quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di
tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla
sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte
della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il
vero arcano del nuovo processo in corso.
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Tag - anni '70
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte
del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per
la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di
Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente
ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può
riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una
delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta
antistante la cascina.
di Paolo Persichetti da Insorgenze
L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme
Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti
che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla
colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul
posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da
spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano
indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e
originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione
del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse
discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta
Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da
tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali
più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano
immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un
paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo
Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito
prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal
pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa
dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il
tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con
una improvvida iniziativa che terminò in tragedia.
La nuova perlustrazione del 20 giugno
Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol
Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975,
ovvero 15 giorni la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le
due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento
della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro
il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione
dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato
fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che
si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben
sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto
avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel
successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò
nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina
alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa
comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del
carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente.
Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due
brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe
Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli
esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali?
I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso
Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo
esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi
ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era
affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a
mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita
soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso
petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi
dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona
antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito
tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via.
L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla
stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore
contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga
tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato.
Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al
luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in
dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di
effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le
armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli
calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua
arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli.
Parlare di una indagine lacunosa è dire poco.
Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese
per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo
Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del
generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un
apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a
causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. E’ in quel momento
che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol
viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a
causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio
rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e
rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non
arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini.
Perché?
Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione
Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica
sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un
colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa.
Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo
dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima
volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate
in aria in segno di resa.
Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono
chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza
molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con
andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte
pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita
dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza
di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal
terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol.
Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi
spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era
posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato
a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta
probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che
centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo
sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa
la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio
ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla
macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata
accanto allo sportello completamente scarica.
Il duello con l’appuntato D’Alfonso
Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato
destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le
macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto
leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente
dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei
due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente
Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima
costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima
volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo
toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della
Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al
fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro
colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni
dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza
ravvicinata: nell’ordine di pochi metri».
Chi ha ucciso Mara Cagol?
Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un
terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il
corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da
un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia
chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché
fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto
c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis,
D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i
sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita.
Fantasmi come il proiettile scomparso.
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La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni
sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici,
da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a
fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione
al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni
di Roberta Cospito da Carmilla
Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un
docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di
liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla
sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora
qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura
militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a
differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza.
La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver
rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno
Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza
londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata
prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film
di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene
(de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie
e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni,
formalità e rispetto per i più elementari diritti umani.
Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal
lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta
la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere
stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una
prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le
torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una
realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo
ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in
quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky.
Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato
che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori.
Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della
finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante
comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della
tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore –
sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i
primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte
in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte
nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo
scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di
occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da
un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre
chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di
quel periodo.
Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore
viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali
sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le
ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le
cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un
forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in
fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare
addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela
davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una
sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri.
Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale,
perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo,
è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della
nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le
mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi,
con le mani pulite.
Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche
di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci –
le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere
riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di
atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità.
Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi
ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si
può prospettare a chi ha vissuto “al limite”?
Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la
violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa
fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni.
In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono
stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati,
emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un
giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di
“carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare
il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti
neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero.
Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò
coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”.
Il silenzio di Sabina invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua
capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a
volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane:
“Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue
parole”.
Barilli riporta un’osservazione di Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della
tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai
ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le
polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al
diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la
tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente
uno sconfinato arbitrio”.
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Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo
scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero
io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha
visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di
trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi
delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta
ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti
di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita
Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni
D’Alfonso, morirà nei giorni successivi.
Processo ribaltato
Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie
e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la
strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla
inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La
testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non
dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia
alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo
le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è
stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse
parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili».
In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura
delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura
indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio
dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due
giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel
quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si
accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di
sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due
giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid
di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il
tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di
Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta
delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice
del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due
volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al
momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private
abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della
vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido
Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il
suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua»
e «oscura».
La storia non deve entrare in aula
Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è
discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e
dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo
dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in
qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario
Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate
rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto
aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto
che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla
Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò
importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un
processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante
della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena
mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una
vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se
avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori
pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi
perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso
per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi
segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione
dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova
sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è
una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato
e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra
stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte.
Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di
cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti
scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle
Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è
sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa
difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso.
Un pm senza storia
Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero
Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha
sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa
di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non
vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una
rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto
a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna,
inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo
storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di
ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si
limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro
fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non
sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli
storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada.
Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica
accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti
quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una
interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata
dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle
Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno
sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve
giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della
pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo
cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”».
Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma
Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale
davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva
producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del
processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato
omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani.
Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda
commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo
motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di
una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di
arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle
perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora
di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere
rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento
delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi
di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per
ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore
giudiziario.
Il consulente non verrà ascoltato
Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne
riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa
dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è
chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita
in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava
ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa
narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che
qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che
nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la
circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte
politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di
autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu
collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono
demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra
storia ma soprattutto una altro processo.
da insorgenze.net
> “Mara gridava ‘Non sparate’”
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Per la seconda volta la Cassazione federale dell’Argentina ha ribadito che l’ex
Br Leonardo Bertulazzi, attualmente ai domiciliari con un bracciale elettronico,
deve essere liberato perché non ha perso lo status di rifugiato politico.
L’ultima parola spetta di nuovo al primo grado
di Mario di Vito da il manifesto
Per la seconda volta la Cassazione federale dell’Argentina ha ribadito che l’ex
Br Leonardo Bertulazzi, attualmente ai domiciliari con un bracciale elettronico,
deve essere liberato perché non ha perso lo status di rifugiato politico. Adesso
la palla torna ai giudici di prima istanza, che dovranno rispondere alla
richiesta di scarcerazione avanzata dai legali del 73enne italiano tenendo conto
di quanto evidenziato dalla massima autorità giuridica del paese.
Il rimpallo va avanti dallo scorso agosto, quando lo status di rifugiato
politico ottenuto nel 2002 da Bertulazzi era stato revocato ed erano scattati
gli arresti perché su di lui pende una richiesta di estradizione dall’Italia,
dove deve scontare una pena a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977
e banda armata. Già alla fine di novembre la Cassazione aveva evidenziato che,
essendoci un ricorso pendente davanti al Conare (il Consiglio nazionale per i
rifugiati), non si può ancora dare alcun consenso all’estradizione, ma il primo
grado aveva lo stesso detto no alla liberazione. Su tutto questo pende una
riforma varata dal presidente Javier Milei lo scorso ottobre, che prevede la
revoca dell’asilo a chi è accusato di terrorismo. Il caso di Bertulazzi, però, è
in discussione da prima e quindi la norma non dovrebbe riguardarlo. Almeno in
linea teorica, perché il Conare non si è ancora espresso e non ci sono tempi
certi su quando lo farà.
Parallelamente corre anche il ricorso sull’estradizione: la difesa dell’italiano
ha tempo fino al primo di aprile per presentarlo alla Cassazione. Tre settimane
fa, il tribunale di primo grado aveva detto sì alla richiesta italiana
soprattutto sulla base del fatto che il pm di Genova Enrico Zucca, il 9
settembre scorso, ha fatto arrivare a Buenos Aires una lettera in cui afferma
che non si opporrà nel caso in cui Bertulazzi chiedesse un nuovo processo. Il
dettaglio è decisivo: la giustizia argentina non riconosce i processi che si
sono svolti in contumacia e questa assicurazione avrebbe persuaso i giudici
argentini a dare il loro assenso al rimpatrio dell’ex Br fuggito dall’Italia nel
1980, prima cioè che le sue vicende arrivassero in tribunale. Il problema è che,
al netto della posizione che prenderà la procura, la decisione finale sul nuovo
giudizio spetterà a un giudice. E su questo non possono esistere garanzie.
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L’ex brigatista, oggi ottantaduenne, Lauro Azzolini a sorpresa in aula della
corte di appello di Alessandria per il processo per i fatti accaduti a Cascina
Spiotta 50 anni fà. «Io c’ero fu l’inferno. Curcio e Moretti non sapevano. Mara
Cagol aveva le mani in alto e urlava ‘non sparate’»
“Io c’ero quel giorno di 50 anni fa”. È cominciata così in corte d’Assise ad
Alessandria la dichiarazione spontanea di Lauro Azzolini, 82 anni, ex militante
delle BR, nel processo per la sparatoria di Cascina Spiotta del 1975. Azzolini
ha detto che nella sparatoria “morirono due persone che non avrebbero dovuto
morire”, il carabiniere Giovanni D’Alfonso (per il quale risponde di omicidio) e
la brigatista Mara Cagol, per la quale nessuno è chiamato a rispondere,
nonostante quel giorno sia stata di fatto giustiziata.
“L’ultima immagine che ho di Mara Cagol e che non dimenticherò mai – ha detto
Azzolini – è di lei con entrambe le braccia alzate, disarmata, che urlava di non
sparare“. Dopo le dichiarazioni di Azzolini, per i pm rimangono ancora “alcuni
coni d’ombra”. Per questo insistono affinché vengano sentiti i coimputati Renato
Curcio e Mario Moretti, anche loro ex militanti delle Br, oggi assenti in aula.
In una memoria depositata, Curcio (all’epoca dei fatti latitante e spostatosi a
Milano) nega ogni coinvolgimento. Per il collegio difensivo, le parole di
Azzolini scagionano proprio Curcio, oltre allo stesso Moretti.
Su Radio Onda d’Urto la corrispondenza di Paolo Persichetti. Ascolta o scarica
Qui di seguito il testo della lettera presentata da Azzolini
*****
Per la Corte d’Assise di Alessandria
C’ero io quel giorno di 50 anni fa alla Spiotta!
In un minuto breve di 50 anni fa quando tutto precipitò, un inferno che ancora
oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo rivivere, al termine del quale sono
morte due persone che non avrebbero dovuto morire, il padre di Bruno D’Alfonso e
Mara.
Mara, una donna eccezionale, una compagna generosa, e la morte di una persona
cara è un dolore incancellabile che ti porti dentro per tutta la vita, per tutti
e senza distinzioni.
Un giorno maledetto che non dimenticherò mai, ma visto che a distanza di 50 anni
si è deciso di portarlo in un processo pubblico, oggi che di anni ne ho 82, e
tutto intorno a me è cambiato rispetto a quando ne avevo meno di 30, quando, nel
contesto delle lotte di classe, nel duro conflitto sociale, insieme a tanti
altri compagni pensavamo di poter fare la rivoluzione, perché allora il mondo
che ci circondava era molto diverso da quello di oggi, seppur in questo presente
quotidiano assistiamo a violenze, povertà, sfruttamento, milioni di morti in
guerre terribili tra poteri, operai uccisi dal lavoro, una umanità dispersa, ho
deciso di raccontare quello che quel giorno è successo.
Prima che questo processo abbia inizio, e prima che lo facciano altri, perché io
sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo.
Cioè che quel giorno è successo quello che avevo scritto allora, in quella
ricostruzione fatta per tutti gli altri compagni delle BR, trovata dai
carabinieri mesi dopo a Milano e che è stata nominata più volte dalla pubblica
accusa.
Voi la leggerete, io non ci riesco, neppure a distanza di 50 anni, perché mi fa
rivivere i dettagli di una prolungata sofferenza, per cui vi dirò quello che
oggi ricordo di quel giorno di così tanti anni fa e che non avrebbe dovuto
succedere.
Da pochi mesi ero arrivato a Torino e da operaio mi ero impegnato al lavoro di
coordinamento delle avanguardie nelle fabbriche torinesi; dopo l’arresto di due
compagni della Colonna torinese entro anch’io nella clandestinità proprio nel
momento in cui per necessità di autofinanziamento la Organizzazione decise di
sequestrare un ricco imprenditore. Era la prima volta e io vi partecipai, il
tutto avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni senza conseguenze nè per il
sequestrato nè per noi.
Invece già il giorno stesso del sequestro venne arrestato un nostro compagno che
si dichiarò ‘prigioniero politico’ e l’indomani successe l’impensabile che
stravolse tutto, perchè a causa del fatto e della nostra impreparazione ci
facemmo prendere alla sprovvista.
Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo di accesso alla
cascina, ma d’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla
finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere. Ad entrambi ci cadde il
mondo addosso e ci prese il panico.
Ho sentito dire che saremmo stati istruiti e addestrati per cosa fare in quei
casi e altre cose del genere, ma non è vero, non sapevamo assolutamente cosa
fare perché non era mai successo, vi fu una improvvisazione di tutto sul
momento, quel che ricordo è che decidemmo di fuggire abbandonando l’ostaggio.
La confusione era assoluta, sapevamo che fuori ad attenderci c’erano i
carabinieri. Ne avevamo visti due forse tre ma quanti di preciso fossero non lo
sapevamo. Raccogliemmo carte e bagagli frastornati cercando di capire come da lì
uscirne.
Si decise di usare le due piccole ‘SRCM’, quelle considerate di addestramento,
lanciate senza mira alcuna avrebbero prodotto una esplosione tale da
disorientare gli stessi CC e così avere lo spazio necessario per aprirci la fuga
verso le nostre due auto che erano appena fuori.
Ma tutto precipitò, sentimmo colpi di arma verso di noi, rispondemmo con qualche
colpo nel caos di una frazione di secondi.
Prese le nostre auto pensammo di esserci riusciti, ma la carreggiata era
sbarrata dall’auto dei CC, io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro
di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso.
Vi fu la resa nostra. Uscito dall’auto mi affiancai a Mara che era già sul
prato. Notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita. Mi disse di
sì ma che non era niente e che se c’era la occasione di tentare ancora di
fuggire e risposi che avevo ancora una ‘srcm’.
D’accordo, al suo cenno, la lanciai e mi misi a correre verso il bosco, convinto
che Mara mi avrebbe seguito. Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era e
allora guardai verso il prato della cascina e l’ultima immagine che ho di Mara,
che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le
braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…
Ho continuato a correre a piedi senza guardarmi indietro fino a raggiungere una
zona distante, ben oltre il bosco, quando sentii due spari. Continuai a correre
per ore cercando un nascondiglio sicuro per aspettare la notte. Ero solo.
Il giorno dopo quando raggiunsi un Paese sulle prime pagine dei giornali seppi
di feriti e vidi che Mara era morta distesa su quel prato dove l’avevo lasciata
viva.
Lo sconcerto, il dolore mi ha attraversato la carne come una lama.
Poi il bilancio finale: un’altra morte come tragico epilogo di quella giornata.
Con rispetto dovuto, è anche per quei due morti che non avrebbero dovuto esserci
che non ho più potuto tornare indietro.
Capisco che OGGI questo sembrerà paradossale, ma ALLORA per la mia coscienza di
classe ha significato assumermi la responsabilità della scelta fatta.
Lauro Azzolini
11 marzo 2025
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Milei cambia legge sui rifugiati e si aggiudica la prima manche della lunga
battaglia legale per l’estradizione dell’ex Br Leonardo Bertulazzi
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Anche se nessuna agenzia lo ha ancora scritto, giunge dall’Argentina la notizia
del parere favorevole alla estradizione dell’ex brigatista della colonna
genovese, oggi settantacinquenne, Leonardo Bertulazzi, concesso dai giudici di
Buonos Aires stanotte (ora italiana).
Dopo una udienza lampo è stata accolta la richiesta proveniente da parte
italiana. Il contenuto giuridico del provvedimento sarà noto solo nei prossimi
giorni, sapremo così come i giudici hanno risolto, forse è meglio dire aggirato,
il problema della contumacia.
Entrato nella colonna genovese quasi alla sua nascita, fu arrestato e condannato
nel 1976 per un episodio minore. Scarcerato nel 1979, dopo un periodo di
congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al settembre 1980, quando
incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire.
Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale
nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito entrato nelle Br solo più
tardi, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente
sanzionato dalla giustizia genovese perché era fuggiasco. Una volta cumulate le
condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di
reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di
pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in
Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire
d’accapo con il conteggio. E così quarantanove anni dopo è arrivato il primo sì
alla estradizione.
Milei si è dunque aggiudicato, come era nelle previsioni, questa prima partita.
La strettissima intesa con il governo di Giorgia Meloni che in cambio ha
rinunciato ad estradare il sacerdote torturatore Franco Reverberi (leggi qui),
tanto che pochi giorni fa il ministro della giustizia argentino ha concordato
con Nordio i passaggi della estradizione e quest’ultimo si recherà nei prossimi
giorni i Argentina, e la necessità dello stesso MIlei di ottenere una vittoria
simbolica nella speranza di riuscire ad incarcerare, prima o poi, gli esponenti
della vecchia resistenza armata degli anni 70 e primi anni 80 al regime militare
fascista argentino di cui si proclama il naturale erede, hanno fatto il resto.
La partita tuttavia non è ancora conclusa. La decisione di ieri notte può essere
appellata davanti alla corte suprema federale (equivalente della nostra
cassazione), prima che sia definitiva. Ma soprattutto è ancora aperto il ricorso
di fronte al Conare, l’organo federale che decide sulla concessione dell’asilo
politico e che bloccherebbe l’estradizione. Bertulazzi aveva già ottenuto questo
beneficio nel 2004 ma con una decisione arbitraria la protezione gli è stata
tolta lo scorso agosto, quando venne arrestato. La procedura davanti al Conare è
stata più vote rinviata e alla fine ritardata: probabilmente per consentire alla
procedura di estradizione di fare passi avanti e creare una situazione che renda
più difficile concedere l’asilo. Milei sta barando in tutti i modi cercando di
accomodare una situazione che altrimenti giuridicamente gli sarebbe andata
contro. Mentre il Conare rinvia, Milei sta cambiando i vecchi giudici con uomini
di fiducia ed ha varato un decreto che impedisce la concessione dell’asilo a chi
ha ottenuto un avviso favorevole alla estradizione, circostanza che tuttavia non
dovrebbe valere per Bertulazzi. Il suo ricorso infatti è precedente al decreto
del presidente e soprattutto Bertulazzi non è alla sua prima richiesta di
protezione. Ma la partita giuridica sembra sempre più truccata.
> Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo
> Bertulazzi in Argentina
> L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex
> brigatista Leonardo Bertulazzi
> Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente
> Milei
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Riceviamo e pubblichiamo, l’appello dal blog della campagna Vogliamo rompere un
tabù.
Vogliamo rompere un tabù, rompere il silenzio sul fatto che lo Stato italiano
tiene in carcere da quarant’anni 16 militanti delle Brigate Rosse e ne ha
sottoposti altri tre, da oltre 20 anni, al regime dell’articolo 41 bis
dell’ordinamento penitenziario.
Il regime speciale dell’art.41 bis è finalizzato all’annientamento psico-fisico
del detenuto, che viene tenuto in isolamento quasi totale: ventidue ore al
giorno in isolamento, due ore d’aria al giorno, una breve visita mensile per i
familiari dietro una parete di vetro, nessun libro o giornale dall’esterno del
carcere… Questo regime carcerario è uno dei più intollerabili in Europa. Ha due
obiettivi: tagliare ogni comunicazione con il mondo esterno e costringere i
detenuti a diventare “pentiti”, collaboratori di giustizia.
Alcuni opinionisti sostengono che questi prigionieri preferiscono rimanere in
carcere, rifiutando ostinatamente di beneficiare di misure alternative alla
detenzione o della liberazione condizionale. Ma queste affermazioni non
menzionano il fatto che, queste misure alternative, sono soggette ad una logica
di scambio: si concedono solo in cambio della messa in discussione del proprio
passato politico, di un’autocritica formale, che verrà amplificata dai media; si
richiede loro quindi di rinnegare, in modo puro e semplice, la propria storia
politica e il proprio passato rivoluzionario.
Non si tratta di una questione astratta: a questi militanti si chiede di
rinunciare a un’identità che per loro è la scelta di una vita, il che spiega la
loro incredibile resistenza a quarant’anni di privazione della libertà; si
chiede loro di rinunciare a convinzioni che corrispondono a correnti di pensiero
profondamente radicate nella storia universale, in più di un secolo di lotta di
classe, una lotta che è stata internazionale. Che si condividano o meno queste
idee, è questa lotta-identità che è in gioco e nient’altro.
Ma mentre lo Stato si vanta per la sua fermezza nel perseguire l’annientamento
dei prigionieri, alcuni pretendono di ridurre la loro lotta a una semplice
questione di principio che i prigionieri difenderebbero con eccessiva
ostinazione. Come se alla base della loro resistenza non ci fosse una profonda
coerenza, il rifiuto di mercanteggiare e mercificare il loro pensiero politico.
Ma per capire meglio perché è importante rompere questo tabù, dobbiamo anche
chiederci quali sono le ragioni fondamentali per cui lo Stato italiano ancora
oggi, mantiene una feroce linea di condotta nei loro confronti, perché persiste
in questa linea d’azione implacabile.
Stiamo vivendo una fase storica caratterizzata dalla crescita sfrenata delle
disuguaglianze, da un susseguirsi di crisi e da una forte intensificazione del
confronto tra gli Stati che dominano il mondo. Un confronto che sta diventando
sempre più pericoloso e globalizzato. In questo contesto, la crisi del sistema
politico si sta intensificando, come in altre fasi storiche, come negli anni tra
le due guerre o durante le guerre coloniali. Queste tensioni rendono la
democrazia rappresentativa sempre più “inadatta” alla gestione delle crisi,
tanto che le classi dirigenti sembrano ogni giorno più inclini a cercare
soluzioni autoritarie e a liquidare le conquiste sociali.
Di questa tendenza ne sono prova,per esempio, la violenta repressione da parte
dello Stato francese contro i Gilets jaunes o durante le manifestazioni contro
la riforma delle pensioni, rifiutata dalla stragrande maggioranza della
popolazione; ma anche la repressione in Germania e in Francia del movimento
ambientalista, le leggi antisciopero nel Regno Unito, nonché le misure senza
precedenti contro i migranti. In Italia si è assistito a una massiccia
criminalizzazione dei movimenti sociali: attacchi ai sindacati, agli studenti, a
coloro che lottano per il diritto alla casa, al movimento dei disoccupati, alle
ONG che cercano di difendere la vita degli immigrati e agli stessi immigrati,
privati della protezione preventiva di pregresse tutele e attaccati
violentemente nei loro lavori precari.
Allo stesso tempo, il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero viene
costantemente limitato: diventa compromettente difendere i palestinesi e chi
denuncia il massacro in atto nei confronti del popolo gazawi è messo all’indice.
Qualsiasi discussione sulla guerra in Ucraina che non adotti immediatamente e
senza discussioni il punto di vista della NATO viene vista come sostegno alla
Russia e tradimento. In generale, stiamo assistendo alla graduale
criminalizzazione di tutta l’opposizione, non solo di quella radicale. Infine,
dopo innumerevoli processi e incarcerazioni di manifestanti, attivisti
antiglobalizzazione e anarchici, la repressione in Italia ha raggiunto il suo
culmine quando, su ordine del Ministro della Giustizia, Alfredo Cospito è stato
sottoposto al regime del 41 bis. È stato il primo anarchico a essere sottoposto
a questo spietato regime di detenzione.
Così, la repressione sempre più severa dei movimenti sociali, delle
manifestazioni, dei militanti e degli attivisti, a prescindere dalle loro
convinzioni e azioni, sta gradualmente creando un clima che ricorda la
“strategia della tensione” che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Allora,
questa strategia mirava a soffocare un forte movimento di protesta che stava
attraversando l’intera società. Oggi, questa strategia della tensione vorrebbe
impedire che il crescente malcontento e il disorientamento ideologico trovino
un’espressione politica, si trasformino in una vera contestazione. In questo
contesto si inserisce la “guerra” che da tempo viene condotta contro la memoria
delle lotte degli anni Settanta. In quegli anni, le classi subalterne erano
portatrici ed espressione di un importante processo di trasformazione sociale,
di un vero e proprio “assalto al cielo”. Ecco perché questo periodo è
sistematicamente oggetto di analisi riduttive o mistificatorie da parte del
potere. Negando l’esistenza della lotta di classe, si ostinano a fingere che il
mondo possa essere ridotto a un’opposizione tra i sostenitori delle democrazie
liberali e gli altri.
È solo nel contesto di questa “guerra” alla memoria che possiamo comprendere la
politica silenziosa di annientamento dei prigionieri. Lo Stato vede questi
prigionieri come una sorta di trofeo e, facendo della loro prigionia un esempio
e uno spauracchio, mira a scoraggiare qualsiasi lotta, nella speranza di
soffocare lo sviluppo delle contraddizioni attuali, che potrebbero portare a un
ribaltamento della situazione, a un nuovo “assalto al cielo”.
Rompere il tabù, rompere il silenzio su questi prigionieri, sulle condizioni
della loro detenzione, sulla loro durata infinita, non può essere ridotto a una
reazione umanitaria. È un passo necessario per liberarci dalle nostre paure, per
sciogliere il cappio delle costrizioni, dell’ingabbiamento in cui vorrebbero
richiudere le lotte e i movimenti.
Questo inaccettabile regime carcerario, il rinnegamento che si richiede ai
prigionieri per poter sfuggire a questo regime è un ulteriore modo per soffocare
tutte le lotte.
Quindi, rompere questo tabù è interesse innanzitutto di coloro che subiscono le
conseguenze delle disastrose condizioni economiche e politiche della società nel
suo complesso,che possono essere trasformate solo da un cambiamento radicale
delle strutture sociali e politiche esistenti. Rompere questo silenzio è anche
un modo per riappropriarci di una libertà e di un pensiero critico, in modo da
poter trovare liberamente delle possibilità di soluzione e per interrompere la
spirale mortale in cui i potenti ci stanno trascinando con le loro politiche
sempre più repressive, classiste e guerrafondaie.
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Negli anni ‘70 la democrazia del nostro Paese corse rischi elevati. Per l’azione
del terrorismo, e la cosa è nota. Ma anche per il tentativo di settori degli
apparati di cogliere la lotta al terrorismo come occasione per criminalizzare
ampi settori della cultura, dell’Università, della stessa magistratura. Lo
dimostrano due inquietanti relazioni riservate del generale dalla Chiesa redatte
nel 1979 e declassificate nel 2012.
di Pino Narducci da Volere la Luna
Il generale ha un collaudato rapporto di collaborazione con i magistrati
torinesi. D’altronde, lui stesso piemontese, lavora a Torino da diversi anni,
prima al Comando della I Brigata Carabinieri e poi, dalla primavera ’74, a capo
del Nucleo speciale antiterrorismo, creato, in seno alla Brigata, dopo la
conclusione del sequestro del magistrato genovese Mario Sossi. Ma, fuori dal
territorio sabaudo, non sempre riesce a stabilirsi quella sintonia che, in
Piemonte, ha permesso ai carabinieri e alla magistratura di raggiungere
risultati importanti nella attività di contrasto alle Brigate Rosse.
A Milano, il giudice istruttore Ciro De Vincenzo è titolare di indagini
importanti, da quella sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli e sulle attività
dei GAP (Gruppi Azione Partigiana) fondati dall’editore [1] all’inchiesta sulla
colonna milanese delle Brigate Rosse che, solo alcuni anni prima, sono nate
proprio a Milano, negli stabilimenti della Pirelli e della Sit-Siemens. Il
generale sospetta di lui: il magistrato ha favorito, durante l’istruttoria, i
brigatisti Enrico Levati, Giorgio Semeria e Heide Peusch e gli ha anche passato
notizie riservate sulle indagini in corso in Lombardia. Agli inizi del ’75,
Carlo Alberto dalla Chiesa invia un rapporto al Procuratore Generale di Torino,
Carlo Reviglio della Venaria [2], nel quale accusa il giudice istruttore
milanese di essere un fiancheggiatore delle BR. Il rapporto finisce sul tavolo
di Salvatore Paulesu, Procuratore Generale di Milano, ma, alla fine, la Corte di
Cassazione stabilisce che sarà Torino a indagare sul magistrato. La vita e la
carriera di Ciro De Vincenzo saranno sconvolte dall’avvio della inchiesta penale
e poi da quella disciplinare, vicende che si concluderanno definitivamente
soltanto tre anni più tardi, nel marzo ‘78, con la sconfessione dell’accusa
sostenuta dal generale [3].
Dopo essere divenuto coordinatore del Servizio Sicurezza della Direzione
Generale degli istituti di prevenzione e pena, nell’agosto 1978 Carlo Alberto
dalla Chiesa assume il comando dell’Ufficio di coordinamento e cooperazione
nella lotta al terrorismo, concentrando nella sua figura poteri mai concessi in
precedenza a nessun’altro. Devono far capo al generale tutte le forze di polizia
impegnate nella lotta al terrorismo ed egli, generale di divisione dei
carabinieri, non deve rispondere del suo operato al Comandante Generale
dell’Arma, ma solo e direttamente al Ministro dell’Interno. L’incarico terminerà
molto presto, alla fine del ’79, e dalla Chiesa, durante il periodo di comando,
trasmette a Virginio Rognoni due relazioni riservate che resteranno segrete sino
al 2012, anno in cui avviene la declassificazione dei documenti [4]. La
riservatezza delle note permette al generale di utilizzare un linguaggio ben
diverso da quello che è tenuto a osservare nelle comunicazioni ufficiali con le
istituzioni. Soprattutto, dalla Chiesa può fornire informazioni ed esprimere
valutazioni che non potrebbe mai affidare a documenti immediatamente conoscibili
da tutti.
Nella prima relazione, sui risultati conseguiti tra il 10 settembre 1978 e il 10
marzo 1979, può fare valutazioni ed avanzare proposte sulla magistratura che
sarebbero indicibili in sede pubblica. L’affondo è durissimo: «Non ci saranno
risultati se la Magistratura (Csm) non allontanerà, senza complessi almeno
dall’esercizio dell’azione penale o dall’istituto del “magistrato di
sorveglianza”, quegli elementi notoriamente indicati, presso determinate Corti o
Sezioni: quali extraparlamentari o comunque compromessi in loco per il loro
stato di soggezione a collettivi forensi, di studio, per situazioni personali,
ecc.; quali “acculturati” a tal punto da divenire espressione dialettica attiva,
e talvolta di vera “prevaricazione” nei confronti di colleghi meno preparati o
più esposti alle vendette dell’eversione; quali portatori – in veste di
legalitari o garantisti – di “benevolenze” o “comprensioni” o “dilazioni” o
“prescrizioni” o ” concessioni” a detenuti pericolosi per l’eversione, ecc…».
Una fetta consistente di pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di
sorveglianza costituisce, quindi, uno dei principali fattori che ostacola la
lotta al terrorismo. Ma non si tratta solo dei magistrati che simpatizzano, più
o memo apertamente, per la sinistra extraparlamentare, ma anche, secondo il
generale, dei garantisti o legalitari, quelli che applicano le ragioni del
diritto e non la ragion di Stato, anche loro di intralcio alla lotta al
terrorismo. Sorprendente è la categoria degli “acculturati”, quelli più
preparati e con più spiccate doti intellettuali, anche loro sospetti e
pericolosi. In un passaggio successivo della relazione comincia a prendere forma
la visione che il generale esporrà, compiutamente, nella seconda nota riservata:
i ceti intellettuali e professionali del paese sono la linfa vitale che permette
alle Brigate Rosse di crescere e radicarsi nella società: la platealità degli
interventi delle BR «ha fatto perno su molte componenti intellettuali che si
sono trasferite dai banchi delle Università alle loro cattedre; molte facoltà,
ad esempio, che hanno dato magistrati e medici a Genova, architetti a Torino,
economisti e sociologi a Genova, Milano, Padova, Cosenza, avvocati e insegnanti
di Milano, Roma e Napoli». Poi, fornisce notizie sulle dinamiche esistenti negli
uffici giudiziari bolognesi: «Alcuni di essi, anzi, assumendo atteggiamenti
inquisitori e chiaramente di parte, hanno determinato, per le iniziative
giudiziarie assunte, scoraggiamento e sbandamento in seno a qualche Reparto o
tra elementi impegnati nell’assolvimento di compiti particolarmente ardui e
difficili; sino a contenerne l’entusiasmo e a limitarne l’iniziativa. Il caso di
maggior rilievo riguarda l’ambiente giudiziario di Bologna, ove taluni
magistrati, oltre ad adottare provvedimenti contrastanti nei confronti di
persone arrestate o fermate, per gli stessi motivi: hanno prima inviato
comunicazione giudiziaria e poi emesso decreto di comparizione per arresto
illegale ed abuso di potere nei confronti del Comandante di quel Reparto
Operativo; Ufficiale già particolarmente esposto – come da documenti in atti –
alle minacce dei gruppi eversivi; hanno insistentemente indagato per conoscere
nominativi di componenti dei Reparti Speciali che, nello specifico caso,
abbisognano di copertura. Il tutto ha creato scalpore anche perché sono ben
note, al di fuori degli ambienti giudiziari, le nette simpatie per l’estremismo
esternate dal magistrato che ha promosso detto procedimento penale nei confronti
dell’Ufficiale, e la comunanza politica che lo lega al Collettivo Politico
Giuridico di Bologna, cui appartengono gli avvocati difensori degli imputati
prosciolti». La vicenda evocata nella nota come prova dello “sbandamento”
ideologico e professionale della magistratura è quella che, nel marzo ’77,
coinvolge il capitano Nevio Monaco, comandante del reparto operativo carabinieri
Bologna, ed altri sottufficiali dell’Arma nei giorni drammatici segnati dalla
uccisione dello studente Francesco Lorusso e dall’arrivo dei blindati, inviati
da Cossiga, che militarizzano il centro storico del capoluogo emiliano. Il
sostituto procuratore Rubini ritiene che i carabinieri siano responsabili dei
reati di falso in atto pubblico e arresto illegale in relazione a un fermo di
polizia avvenuto durante quelle giornate. L’indagine si chiude nel giro di pochi
giorni, con un provvedimento di archiviazione siglato dal giudice istruttore il
1 aprile ‘77.
Nella seconda relazione (sui risultati conseguiti tra l’11 marzo ’79 e il 10
settembre ’79) si innalza il livello di analisi politico-giudiziaria del
generale sul mondo della eversione di sinistra e sui settori delle istituzioni
che la sostengono. Carlo Alberto dalla Chiesa la scrive il 14 ottobre ’79,
all’indomani di due operazioni giudiziarie che, a suo avviso, sono cruciali per
comprendere la struttura delle formazioni eversive e definire l’identità di chi
ha assunto il ruolo di comando. A Padova, il 7 aprile ‘79, la magistratura
ordina l’arresto di Toni Negri, di altri docenti dell’ateneo veneto e di
numerose altre persone per il reato di partecipazione a banda armata e altri
delitti [5]. Un mese dopo, a Genova, il 17 maggio ’79, i carabinieri arrestano
il professore universitario Enrico Fenzi e alcuni esponenti della Autonomia
Operaia che gravitano nell’Università. Secondo dalla Chiesa, si tratta del primo
duro colpo inferto alla colonna genovese delle BR [6]. I risultati di queste
inchieste costituiscono la conferma della ipotesi che il generale ha maturato
nel corso degli ultimi anni: si è realizzata una osmosi tra Autonomia Operaia
Organizzata, le Brigate Rosse ed altre formazioni della lotta armata. Anzi, il
ceto intellettuale che insegna nelle università rappresenta il “cervello
pensante” di queste organizzazioni. Dunque, se la galassia della eversione di
sinistra fa capo ai professori universitari, anche i simpatizzanti e i
sostenitori non possono non appartenere al circuito delle “menti
raffinatissime”.
Così, il nucleo centrale della nota, più che la parte dedicata alle BR e a Prima
Linea, è il capitolo intitolato «Cenni sui fiancheggiatori e sulle azioni di
supporto morale e operativo garantite alle organizzazioni eversive da parte di
qualificati ambienti, quali: a) intellettuali e universitari; b) giudiziari; c)
carcerari; d) forensi; e) industriali; f) amministrazione dello Stato; g)
editoria e stampa». Secondo dalla Chiesa, quello giudiziario è il «settore nel
quale l’Autorità Giudiziaria, chiamata a formalizzare ed a giudicare fatti
terroristici ai quali deve essere attribuita rilevanza penale, è talvolta
apparsa incerta tra l’applicazione rigida della norma penale e la creazione
continua di un nuovo diritto… Un primo aspetto… è un certo lassismo od una certa
sufficienza evidenziati proprio nella trattazione di crimini legati o derivanti
da fatti eversivi… Il terzo aspetto è senza dubbio più delicato ed è anche
quello che si è rivelato il più pericoloso. Ci si riferisce a quei magistrati
che, permeati dallo stesso credo politico delle organizzazioni eversive o
estremamente fragili – anche culturalmente – alle argomentazioni di
“legali-complici”, hanno derubricato reati, concesso libertà provvisorie,
inflitto miti condanne in forza di attenuanti a volte speciose. Ci si riferisce
a quei magistrati i quali, al riparo delle funzioni loro devolute dalle leggi
dello Stato e forti di un supporto affidato o richiesto a “circoli”, “comitati”,
“collettivi” ecc., hanno finito per far prevalere la loro ideologia politica,
compiendo atti che si sono ben presto rivelati come veri e propri interventi a
favore di indiziati di gravi reati (dichiaratisi “prigionieri politici”); di
persone, cioè, che andavano invece inquisite nel più vasto contesto di una
“società in pericolo”, con maggior senso di responsabilità e, almeno, secondo la
“lettera” della legge. Nel trascurare volutamente la citazione dei giudici
aderenti a “Magistratura Democratica”, già sottoposti a procedimento
disciplinare da parte del Csm, basta citare l’emblematica posizione assunta dal
Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano, dott. Antonio Bevere; colui
che dapprima si fece diligente nel mediare un incontro tra il capo carismatico
di Organizzazione eversiva, quale il prof. Toni Negri, ed un proprio collega in
quel momento titolare di una inchiesta a carico della stessa organizzazione (il
giudice Alessandrini); che assunse, poi e pubblicamente, una posizione
gravemente censurabile…» [7]. Nella visione del generale, gli avvocati che
difendono gli imputati per fatti di terrorismo sono, in realtà, complici dei
propri clienti e i magistrati che applicano le regole del diritto anche agli
accusati della lotta armata sono favoreggiatori o, nella migliore delle ipotesi,
fragili strumenti nelle mani di questi legali [8]. Su Magistratura Democratica
non è necessario spendere molte parole perché, secondo il generale, è ormai a
tutti chiaro che questo gruppo di giudici è contiguo alla eversione.
Infine, di nuovo, l’ossessivo tema della talpa. «Già sin dai tempi del sequestro
del giudice Di Gennaro ad opera dei Nap si è cominciato a parlare di
infiltrazioni in seno al Ministero di Grazia e Giustizia e non soltanto perché
il sequestrato era un magistrato, ma soprattutto per le precise contestazioni
mosse alla vittima in sede di “interrogatorio proletario”. Infatti, la
specificità delle domande era evidentemente frutto di notizie precise e
riservate, che solo una ristretta cerchia di persone gravitanti attorno al Di
Gennaro poteva conoscere. Si deve in proposito rammentare che il funzionario non
è stato scelto a caso come “astratto simbolo”, ma come rappresentante di un
organo dello Stato che aveva avuto una parte di rilievo negli studi relativi
alla riforma penitenziaria, non condivisa negli ambienti del terrorismo. Ed
anche in occasione degli assassini dei magistrati Palma e Tartaglione e del
criminologo prof. Paolella, i terroristi hanno dimostrato di possedere un
efficiente servizio informativo, frutto dell’opera di fiancheggiatori e di
irregolari inseriti, a vari livelli, nelle strutture del Ministero di Grazia e
Giustizia». Il generale si spinge oltre, sino al punto di esternare anche i
sospetti raccolti nel corso dell’attività svolta dal suo ufficio. Sospetti ed
illazioni che lambiscono il “cuore dello Stato”: «…Illazioni, anche questa volta
non confermate, hanno messo in risalto collegamenti o quanto meno silenzi, in
seno al Consiglio Superiore della Magistratura, silenzio imposto da qualche suo
componente collegato ideologicamente su posizioni della sinistra
rivoluzionaria». L’accusa è clamorosa (le Brigate Rosse sono annidate anche
all’interno del Csm), ma il generale non fornisce alcuna prova di quello che
sostiene, pur essendo convinto che, a Palazzo dei Marescialli, operi almeno un
fiancheggiatore delle BR. Non fa alcun nome, ma, in un organismo che, alla fine
degli anni ’70, è ancora fortemente governato dai gruppi più conservatori, dalla
Chiesa quasi certamente allude al gruppo di Magistratura Democratica [9]. La
nota prosegue e il generale, messe da parte le illazioni, si dice certo che nel
Csm, già da alcuni anni, operi una talpa: «La gravità dell’enorme pericolo
costituito dalla esistenza dei “fiancheggiatori” esistenti ed operanti
attivamente in ambito ministeriale non può pertanto essere legata soltanto alla
“Risoluzione Strategica nr. 5” delle BR, ma assume chiari contorni anche quando
nel noto covo di via Gradoli viene rinvenuto un documento, con data del 1976,
nel quale viene presa in esame la struttura del Consiglio Superiore della
Magistratura. Nel citato documento si afferma, infatti, che l’attività
informativa nei confronti dei giudici non era stata “fino ad ora possibile”
perché il Consiglio Superiore era rappresentato da un solo gruppo di potere
(UMI) e quindi non rifletteva la complessa realtà delle Magistrature italiane. E
più oltre si soggiungeva: “tale lavoro può incominciare da ora, partendo dal
Consiglio Superiore fino a sviluppare un lavoro organico e complessivo su tutta
la Magistratura”. È evidente, quindi, che le BR sin dal 1976 hanno la
possibilità di contare su “fonti di informazioni” nell’organo di autogoverno
della Magistratura, possibilità poi attualizzata come conferma il ritrovamento
in un “covo” Nap di Ostia di una copia del “Ruolo di Anzianità dei Magistrati”,
contenente alcune annotazioni a fianco di giudici e funzionari in servizio al
Ministero di Grazia e Giustizia» [10].
Ma non c’è solo la talpa che opera nell’organo di autogoverno dei magistrati. Il
Ministero di grazia e giustizia e l’ambiente giudiziario romano, per forza di
cose, ne hanno prodotto altre: «Il recente omicidio del Ten. Col. Antonio
Varisco ha vieppiù attualizzato il fenomeno delle infiltrazioni non solo al
Ministero di via Arenula, ma anche nell’ambito del Palazzo di Giustizia romano.
Si è così riparlato della “talpa” annidatasi negli Uffici del Ministero e di
quelli della Magistratura della Capitale ed ancora una volta la stampa ha
pilotato i sospetti dell’opinione pubblica verso funzionari e magistrati che,
per ragioni ideologiche e per connivenze, possono aver fornito al commando BR
notizie sull’Ufficiale, sui suoi spostamenti ed in ordine al proponimento di
lasciare il servizio» [11]. In questo delicato passaggio della relazione
dedicato agli omicidi di magistrati e funzionari con importanti incarichi nel
Ministero di grazia e giustizia, il generale mette insieme vicende, che, per la
diversità delle epoche in cui si consumano e per la differenza delle sigle che
le realizzano, non possono in alcun modo ricondursi ad un disegno unitario. Il
sequestro del giudice Giuseppe Di Gennaro risale all’ormai lontano maggio ’75 e,
nel ’79, l’organizzazione Nuclei Armati Proletari ha già cessato di esistere ed
i suoi pochi componenti ancora liberi sono entrati nelle BR. Gli omicidi di
Riccardo Palma (14 febbraio ’78) e Girolamo Tartaglione (10 ottobre ’78) sono
realizzati dalla colonna brigatista romana. Ma il criminologo Alfredo Paolella
viene ucciso, a Napoli (11 ottobre ’78), da un nucleo di Prima Linea [12]. Carlo
Alberto dalla Chiesa possiede informazioni sulla organizzazione BR certamente
superiori a quelle di qualsiasi altro investigatore dell’antiterrorismo.
Tuttavia, egli ancora non conosce molti aspetti della struttura brigatista che
emergeranno compiutamente solo a partire dagli anni ’80. Le Brigate Rosse hanno
organizzato la propria attività creando i fronti, strutture intermedie tra la
Direzione strategica e le colonne. Il fronte di lotta alla controrivoluzione,
“la contro”, è il settore che si occupa della analisi delle forze della
controrivoluzione: precipuamente, la magistratura, i carabinieri, la polizia, le
carceri, i servizi di sicurezza ecc. Ed è proprio al lavoro di questo fronte che
si devono i risultati raggiunti dalle BR nell’attacco a strutture e uomini delle
istituzioni [13].
Nel 1980, quando ha già lasciato l’incarico di coordinatore della lotta al
terrorismo, il generale colma un vuoto contenuto nelle sue note indirizzate al
Ministro Rognoni. Aveva accusato pubblici ministeri, giudici istruttori e
magistrati di sorveglianza, sempre trascurando i giudici dei Tribunali e delle
Corti di Assise. Ora quel vuoto può essere colmato. A Genova, il 3 giugno ’80,
la Corte di Assise assolve, con formula piena, tutti gli imputati della indagine
iniziata con gli arresti del 17 maggio ’79 e alla quale il generale ha dato
ampio risalto nelle relazioni riservate. Carlo Alberto dalla Chiesa, ora
comandante la Divisione Interregionale Pastrengo, reagisce in modo veemente e,
il 5 giugno ’80, sceglie una sede insolita per attaccare i magistrati genovesi.
In una caserma milanese, dinanzi ai reparti schierati per commemorare il 166°
anniversario dell’Arma, non usa giri di parole per commentare la sentenza: «Non
passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né
l’ingiustizia che lo assolve».
Le relazioni riservate del ’79 ci restituiscono una immagine inedita del
generale Carlo Alberto dalla Chiesa. L’Ufficio Coordinamento e Cooperazione
svolge, senza avere alcuna legittimazione, una attività di monitoraggio e
raccolta di informazioni sulle opinioni dei giudici e sulle loro vite. I
magistrati contro cui si scaglia il generale non possono essere accusati di aver
commesso reati. Sono tuttavia colpevoli di esprimere idee e di esercitare la
funzione giudiziaria in maniera dissonante dalla visione, autoritaria, che il
generale ha della società e dei mezzi repressivi con i quali attuare il
contrasto giudiziario ai fenomeni eversivi. Questa illegittima attività si
accompagna alla formulazione, chiaramente impropria, debordante, di vere e
proprie proposte reazionarie all’esecutivo in materie (dalla Chiesa, ad esempio,
propone di non concedere le aule universitarie per convegni-dibattiti o di
dichiarare decaduti gli studenti fuori corso dopo 2-3 anni) che nulla hanno a
che fare con il tema della prevenzione-repressione del terrorismo [14]. Il ceto
intellettuale rappresenta la insolubile ossessione del generale. Se le vere
menti delle BR, come egli ritiene, sono gli intellettuali che provengono dagli
atenei, di rango non minore devono essere i fiancheggiatori, ceto intellettuale
delle varie professioni della amministrazione pubblica.
La storia che emergerà negli anni ‘80/’90 si occuperà di smentire le ipotesi del
generale. Le Brigate Rosse non furono mai dirette, palesemente o occultamente,
da intellettuali o professori universitari, ma da operai, impiegati, artigiani,
studenti, insegnanti che, sempre, costituirono l’ossatura della Direzione
strategica, del Comitato esecutivo e delle direzioni delle colonne sino al 1981,
anno in cui le BR cessano di esistere come organizzazione unitaria [15]. Le
decine e decine di dissociati/collaboratori di giustizia provenienti dalle
organizzazioni della lotta armata non smentiscono questa conclusione e,
soprattutto, pur avendo fatto arrestare centinaia di persone, non hanno mai
accusato membri del CSM, magistrati o figure di medio/alto livello del Ministero
di grazia e giustizia.
Le idee e le proposte di dalla Chiesa sono, comunque, condivise dai settori
moderati della classe politica e viaggiano sulle gambe di alcuni protagonisti
della vita parlamentare. Settori consistenti della Democrazia Cristiana
ritengono, come il generale, che la magistratura rappresenti il “ventre molle”
dello Stato nella lotta alla eversione e, alla fine degli anni ’70, si spingono
sin quasi al punto di invocare lo scioglimento di Magistratura democratica. Nel
maggio ’77, il deputato democristiano Claudio Pontello ed altri parlamentari,
rivolgendo una interrogazione parlamentare al Ministro di grazia e giustizia,
affermano «Ciò che desta in noi gravi preoccupazioni è il fatto, più volte
ripetutosi, di magistrati che si pongono ai limiti della legge… Penso alla
maggioranza degli aderenti alla corrente di “Magistratura Democratica” che, a
detta degli stessi magistrati di “Magistratura Indipendente”, vi è da chiedersi
se, stante il comportamento tenuto, possano ancora rimanere nell’ordine
giudiziario» [16]. Nel gennaio ’80, un gruppo di parlamentari democristiani
capeggiato dal senatore Claudio Vitalone, già sostituto procuratore romano,
esprime una adesione convinta alle idee di dalla Chiesa. Vitalone presenta al
Senato una interpellanza in cui afferma che esiste un documento giudiziario che
dimostra un collegamento tra alcuni giudici di Magistratura democratica e gruppi
della eversione di sinistra. Sollecita l’avvio di procedimenti penali e
disciplinari e chiede di disporre la immediata sospensione di questi magistrati
dall’esercizio delle loro funzioni [17].
Alcuni mesi più tardi, a maggio, gli inquirenti arrestano una donna accusata di
essere una militante della colonna romana delle BR. È una ragazza di 23 anni, si
chiama Alessandra De Luca, e, da qualche mese, lavora come coadiutrice presso la
divisione affari penali della Procura Generale. Certo, ha passato informazioni
ad alcuni militanti della colonna, ma la sua individuazione costituisce un
risultato assai modesto rispetto alle elevate aspettative esposte nelle
relazioni riservate del ‘78-79. L’impiegata non somiglia affatto al raffinato
intellettuale che, secondo la visione del generale, annidato nello Stato,
fornisce informazioni segretissime, indica gli obiettivi da colpire, ispira le
azioni più sanguinose, tornando poi nell’ombra, al sicuro negli uffici delle
istituzioni [18]. Troppo poco per fare di questa ragazza la “talpa eccellente”
che il generale non riuscì mai a trovare.
Note
[1] Sulla attività politica dell’editore e sulla storia della struttura
clandestina creata da Feltrinelli v. Davide Serafino, Gappisti. La rete
clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, DeriveApprodi, 2023.
[2] Il 9 maggio ’74, tre detenuti del carcere di Alessandria prendono in
ostaggio 17 persone, civili e guardie carcerarie. Si intavolano trattative con i
rapitori, condotte anche da magistrati della Procura di Alessandria, ma poi,
improvvisamente, il 10 maggio, fanno irruzione nel carcere reparti dei
carabinieri comandati dal generale dalla Chiesa. Il bilancio drammatico del
blitz è di 4 ostaggi morti e 22 feriti. Durante l’operazione vengono uccisi
anche due dei tre detenuti rivoltosi. Il Procuratore Generale di Torino Carlo
Reviglio della Venaria avoca l’indagine, togliendola alla Procura di
Alessandria. Così il magistrato, che evidentemente ha condiviso con il generale
dalla Chiesa la decisione di intervenire militarmente, commenta l’operazione:
«Non si poteva ammettere che lo Stato fosse ulteriormente calpestato perché casi
del genere si sarebbero ripetuti all’infinito». Ancora oggi, a distanza di 50
anni da quegli avvenimenti, passati alla storia come la “strage di Alessandria”,
permangono molti dubbi sulla versione ufficiale fornita sulla operazione e cioè
che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dai detenuti che li avevano sequestrati.
[3] I reati contestati al giudice De Vincenzo sono quelli di rivelazione di
segreto di ufficio, abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio. L’indagine
– iniziata nel marzo ’75 e condotta dalla Procura Generale di Torino diretta da
Carlo Reviglio della Venaria – si chiude, il 26 marzo ’76, allorquando il
giudice istruttore emette una sentenza con cui proscioglie il magistrato. Prende
avvio allora il procedimento disciplinare che si conclude, il 10 marzo ’78,
innanzi alla Sezione Disciplinare del Csm, con una sentenza che esclude tutti
gli addebiti contestati a De Vincenzo. Nel ’79, Ciro De Vincenzo lascia la
magistratura per divenire notaio.
[4] Le due relazioni riservate possono essere consultate accedendo al Portale
Storico della Camera dei deputati>Le inchieste>Rapimento e morte di Aldo
Moro>Documenti versati all’Archivio storico disponibili on line. In particolare,
si tratta dei documenti n. 14/20 e 14/21 del 3 dicembre 2014 della Commissione
parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Sviluppate
in oltre 250 pagine, insieme a corposi allegati, le relazioni analizzano,
essenzialmente, le formazioni Brigate Rosse, Prima Linea, Autonomia operaia
organizzata e Azione Rivoluzionaria. Il generale coordina tutte le attività
riguardanti il terrorismo italiano, ma le note contengono una vistosa omissione.
Solo quattro pagine della seconda relazione sono dedicate ai Nuclei Armati
Rivoluzionari ed alla eversione neofascista.
[5] Sulla operazione padovana v. Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile. Un caso
giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale, Einaudi Storia, 2023. Vedi,
inoltre, l’intervento pronunciato da Giovanni Palombarini, giudice istruttore
nella indagine condotta dal PM Pietro Calogero, su Il processo 7 aprile e il
nodo del garantismo penale, nel corso della manifestazione per i 60 anni di
Magistratura Democratica che si è svolta, a Roma, il 9 e 10 novembre 2024. Al
momento, l’intervento di Palombarini, di imminente pubblicazione sul numero
4/2024 della rivista trimestrale Questione Giustizia, e anticipato in Questione
giustizia online
(https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-7-aprile-e-il-nodo-del-garantismo-penale)
può essere ascoltato su Radio Radicale.
[6] Sulla indagine e sul processo genovesi v. dell’autore Genova 79. I
sovversivi, i brigatisti, i testimoni, pubblicato su Questione Giustizia, 17
ottobre 2023 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/genova-79).
[7] Il PM milanese Emilio Alessandrini viene ucciso a Milano il 21 gennaio ’79.
Il 7 aprile ’79 avvengono gli arresti padovani di Toni Negri ed altri. Il 14
aprile ’79, il giornalista de l’Unità Ibio Paolucci, nell’articolo dal titolo
Alessandrini indicò in Negri uno dei telefonisti delle BR, rivela che,
nell’aprile dell’anno precedente, il magistrato milanese si era incontrato, nel
corso di una cena, con il docente padovano, incontro avvenuto su richiesta di
Negri. Quando, in seguito, Alessandrini aveva ascoltato il colloquio telefonico
avvenuto, il 30 aprile ’78, tra un brigatista e la moglie di Moro, il giudice
milanese si era convinto che la voce del brigatista era quella di Toni Negri.
Nelle giornate successive all’articolo di Paolucci salta fuori che,
effettivamente, durante i giorni del sequestro Moro, si era svolta una cena a
casa del sostituto procuratore milanese Antonio Bevere, aderente a Magistratura
Democratica, alla quale avevano partecipato Alessandrini, Toni Negri e la
giornalista de Il Manifesto Tiziana Maiolo. La Procura milanese avvia una
indagine. La Maiolo e il compagno, il giornalista Stefano Menenti, vengono
arrestati per il reato di falsa testimonianza perché sostengono di essere stati
presenti alla cena, circostanza questa contraddetta, inizialmente, dalla moglie
del giudice assassinato. Nel giro di pochi giorni si accerta che Maiolo e
Menenti hanno raccontato la verità e i due giornalisti vengono scarcerati.
L’episodio diventa l’occasione, anche attraverso una ossessiva campagna di
stampa, per ipotizzare che, con la complicità di Bevere, Toni Negri abbia voluto
“studiare” da vicino la vittima Alessandrini prima di farlo uccidere. Alla fine,
l’inchiesta penale sulla cena a casa Bevere non produrrà risultati mentre
emergerà processualmente che Emilio Alessandrini è stato ucciso da un nucleo di
Prima Linea – composto, fra gli altri, da Sergio Segio e Marco Donat-Cattin – e
che Toni Negri non ha svolto alcun ruolo nella ideazione ed organizzazione
dell’agguato. Le investigazioni sulla vicenda Moro dimostreranno poi, spazzando
via ogni dietrologia, che il brigatista che telefonò a casa Moro la sera del 30
aprile ’78 («solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore di Zaccagnini
può modificare la situazione») era Mario Moretti.
[8] Nel capitolo dedicato al mondo forense, dalla Chiesa dedica molte pagine
agli avvocati di “Soccorso Rosso“ Edoardo Di Giovanni, Giovanna Lombardi,
Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali che agiscono al fine di «offrire un supporto
ideologico ed operativo alle organizzazioni eversive». L’avvocato Sergio
Spazzali, processato insieme ai membri della colonna torinese BR accusati da
Patrizio Peci, viene assolto dalla Corte di Assise di Torino il 17 giugno ’81,
ma, in appello, la sentenza viene ribaltata e la condanna diventa definitiva
quando il legale si è già rifugiato all’estero. Gli avvocati Edoardo Di Giovanni
e Giovanna Lombardi, imputati per istigazione alla commissione di delitti di
eversione, sono assolti con sentenza della Corte di Assise di Roma del 5 marzo
1981. L’avvocato Edoardo Arnaldi si toglie la vita nella sua abitazione di
Genova, il 19 aprile ’80, mentre i carabinieri gli stanno notificando un mandato
di cattura emesso dall’ufficio istruzione torinese sulla base delle accuse
formulate da Peci.
[9] Nella consiliatura 1976-1981, Magistratura Democratica è rappresentata nel
CSM da Marco Ramat (uno dei fondatori del gruppo, segretario generale di MD dal
’72 al ‘76) e dal magistrato romano Michele Coiro.
[10] La risoluzione della Direzione strategica BR del febbraio ’78, che avvia la
campagna di primavera, è un corposo e lunghissimo documento di analisi politica,
anche delle istituzioni e della magistratura. Analisi politica, dunque, – non
già documento che contiene informazioni riservate provenienti da ambienti
istituzionali – nel quale le BR sostengono che il Consiglio Superiore della
Magistratura, sulla scorta di un’azione congiunta del Ministro Bonifacio e del
Vicepresidente Vittorio Bachelet, è diventato «il principale organo di controllo
tra esecutivo e giudiziario». Sicuramente, il generale dalla Chiesa avrà
prestato particolare attenzione a questo fugace passaggio contenuto nella
risoluzione: «è esemplare il provvedimento con cui il Csm esautora dalle loro
funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme
della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta
dall’esecutivo. Ancor più pesante è l’iniziativa del vicepresidente del Csm
Bachelet che, su direttiva di Bonifacio e del governo, incarica i procuratori
generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a
“Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine
democratico». Una approfondita analisi della risoluzione è contenuta nel libro
di Marco Clementi Storia delle Brigate Rosse, Odradek, 2007
[11] La tesi del generale dalla Chiesa sarà smentita da Antonio Savasta, membro
della direzione della colonna romana BR e uno dei componenti del nucleo che
uccide il Tenente Colonnello Antonio Varisco, comandante del Reparto Carabinieri
Servizi Magistratura, il 13 luglio ’79, a Roma. Divenuto collaboratore di
giustizia, ricostruisce dettagliatamente il delitto Varisco nel corso di una
udienza che si svolge, il 28 aprile ’82, davanti la Corte di Assise di Roma.
Senza aver fatto ricorso a talpe, le BR, sulla scorta di quello che accadeva nel
corso dei processi che si svolgevano nell’aula bunker del palazzo di giustizia
romano, avevano individuato in Varisco (responsabile delle “traduzioni e
scorte”) uno dei principali responsabili di una linea repressiva che si
manifestava non solo all’interno del circuito delle carceri speciali, ma anche
in occasione dei dibattimenti, direttamente contro gli imputati, impedendo loro,
ad esempio, di leggere comunicati e di esprimere le proprie posizioni durante le
udienze processuali.
[12] Le sentenze definitive per gli omicidi dei magistrati Riccardo Palma e
Girolamo Tartaglione, uccisi dalle Brigate Rosse, accerteranno le responsabilità
della colonna romana e stabiliranno che l’inchiesta e, successivamente, gli
agguati furono condotti dai militanti del fronte della controrivoluzione. È
utile segnalare una vicenda, molto poco conosciuta, che avviene tra l’ottobre e
il dicembre ’79. I carabinieri del generale dalla Chiesa effettuano una
operazione contro il comitato marchigiano delle BR. Una militante detenuta,
Sabrina Pellegrini, rivela di essere stata la telefonista della rivendicazione
del delitto Tartaglione ed accusa un’altra militante, Lucia Reggiani, di aver
partecipato all’omicidio. La Reggiani, assistente sociale anconetana, dopo
quello ricevuto per il reato di partecipazione a banda armata, viene subito
raggiunta da un mandato di cattura per il delitto Tartaglione e la stampa
nazionale, insistentemente, accredita l’ipotesi che sia proprio lei la talpa
delle BR all’interno del Ministero di grazia e giustizia, anche se la donna, in
realtà, non ha mai lavorato per il ministero. Nel giro di pochi giorni, la
Pellegrini ritratta e dice di essersi inventata tutto. Lucia Reggiani non è la
talpa a lungo cercata dagli inquirenti e viene scagionata da ogni accusa
riguardante il delitto Tartaglione.
[13] Se il generale ritiene che le BR possano agire solo grazie a talpe annidate
nelle istituzioni, in realtà, le notevoli capacità della organizzazione derivano
da una struttura interna che svolge un lavoro, capillare e costante, di analisi
e studio di organismi e personalità delle istituzioni. Per la magistratura, come
per altri settori, si parte dalla raccolta, dal basso, di dati su convegni,
singole figure di magistrati, posizioni ed opinioni espresse pubblicamente,
specifica natura della attività giudiziaria svolta, ricorrendo a notizie
giornalistiche nonché allo studio di riviste specializzate. Vengono redatte
schede che vengono conservate dalla direzione di colonna e dal fronte nazionale
di lotta alla controrivoluzione. Il fronte nazionale elabora un documento che
offre alla discussione della organizzazione. Individuato un particolare
obiettivo, l’inchiesta sul campo è affidata alla colonna che la porta a termine
mediante una vera e propria indagine – fatta essenzialmente attraverso
pedinamenti – sulle abitudini di vita e sui movimenti della persona da colpire.
[14] Sul “programma politico” del generale dalla Chiesa che invoca la adozione
di misure restrittive nel campo civile e sociale v. Marco Clementi, Paolo
Persichetti, Elena Santalena, Brigate Rosse, dalle fabbriche alla campagna di
primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017.
[15] Nello stesso periodo in cui il generale sviluppa la propria tesi sul ceto
intellettuale che dirige la lotta armata, le Brigate Rosse convocano la propria
Direzione strategica che si riunisce, nel dicembre ’79, a via Fracchia a Genova.
Come è noto, la base sarà presto individuata grazie alle informazioni fornite a
dalla Chiesa da Patrizio Peci. Ebbene, alla riunione genovese partecipano 15
persone. Di queste, nove provengono dal mondo della fabbrica e le restanti sei
da altri settori del mondo del lavoro.
[16] L’interrogazione a firma Pontello ed altri, riguardante la vicenda
bolognese del capitano Nevio Monaco, viene discussa nella seduta della Camera
dei Deputati del 20 maggio 1977.
[17] L’interpellanza può essere consultata accedendo al resoconto stenografico
della seduta del Senato della Repubblica dell’11 gennaio 1980. Vitalone accusa
esplicitamente i giudici di MD Franco Marrone, Francesco Misiani, Gabriele
Cerminara, Ernesto Rossi, Luigi Saraceni e Aldo Vittozzi i cui nomi sono stati
trovati in appunti sequestrati ad un membro di Potere Operaio. Vitalone,
tuttavia, non segnala che quel documento non è recente, ma è stato rinvenuto
molti anni prima. Nasce una indagine penale che si estende ai magistrati Michele
Coiro, Gianfranco Viglietta, Filippo Paone e Gaetano Dragotto, i cui nomi/numeri
di telefono sono rinvenuti durante una perquisizione, del 22 gennaio 1980,
presso l’emittente radiofonica romana Onda Rossa, vicina all’area della
Autonomia. Alla fine, nel dicembre ’80, il giudice istruttore di Firenze
dichiara non luogo a procedere nei confronti di tutti i magistrati perché non
hanno mai fatto parte di alcuna associazione sovversiva.
[18] Sulla vicenda di Alessandra De Luca v. la sentenza emessa, il 14 marzo
1985, dalla Corte di Assise di Appello di Roma, Pres. De Nictolis, nel processo
Moro uno/bis.
L’articolo è pubblicato anche nel sito di Questione giustizia
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Franco Piperno protagonista del “lungo Sessantotto” italiano si è spento lunedi
13 gennaio a Cosenza a 82 anni mentre la destra postfascista tenta di ribaltare
gli anni Settanta nel loro contrario.
di Ida Dominijanni da Centro Riforma dello Stato
Ero andata a trovare Franco Piperno nella sua casa di Cosenza i primi di
ottobre, con la mia amica Isa. C’erano con lui Marta, la sua compagna, e Enzo e
Walter, i suoi fratelli; Elisabetta e altri amici stretti si alternavano a
fargli visita. Stava male già allora, resisteva poco seduto, mangiava di
malavoglia e parlava a fatica. Ma era felice di vedermi e di chiedermi notizie
degli amici comuni, uno per uno: “Che fanno?”, sperando di sentirmi rispondere
che qualcosa di politicamente sensato siamo ancora in grado di inventarcelo.
Mentre lui riposava siamo rimasti lì a lungo a chiacchierare di tutto, compreso
l’impatto del lavoro di cura nelle nostre vite, non previsto dalla nostra
giovanile baldanza e così carico di spine ma anche di doni. È stata una gran
bella giornata e sebbene immalinconite per Franco, Isa e io siamo tornate a casa
felici di quel bagno di amicizia, intesa e complicità che si ricrea all’istante
nelle famiglie elettive e allargate nate nei pressi del Sessantotto e seguenti.
E nel nostro caso anche prima, perché il carisma di Franco aleggiava sulla
sinistra extraparlamentare di Catanzaro già quando io ero bambina, Enzo mi
portava a raccogliere funghi in Sila già prima di diventare un leader di Lotta
Continua, Walter è stato un mio amico adorato negli anni del liceo, Marta, in
anni più recenti, una fantastica compagna di scorribande newyorkesi. Nel corso
del tempo ci siamo persi e ritrovati decine di volte, ogni volta come se ci
fossimo visti la sera prima.
Lo racconto non solo perché il ricordo di quell’ultimo incontro allevia il
dispiacere della perdita, ma soprattutto perché quando si parla degli anni
Settanta nel linguaggio riduttivo dei media l’eredità affettiva di quella
stagione non entra mai nel conto. E invece è il suo frutto migliore. Fra le
altre cose, Franco è stato un grande e incessante costruttore di relazioni e di
comunità. Le costruiva a modo suo, per irruzioni e sparizioni, inattese
vicinanze e distratte lontananze, ma una volta che entravi nella sua orbita
affettiva non ne uscivi più. Era parte della sua idea di politica: la comunità
dei compagni e degli amici prima di tutto il resto. E non solo quella dei
compagni storici. Una volta sono capitata per lavoro a Montreal, e non c’era
nessuno fra quelli e quelle che ho incontrato che non avesse avuto a che fare
con lui negli anni del suo esilio. Tornato in Italia, ha ricominciato con gli
studenti dell’Unical, con i ragazzi di Radio Ciroma, con i militanti delle prime
lotte a fianco dei Rom e dei migranti, e dopo i fatti di Genova 2001 con gli
amici di Esc a Roma e di Uninomade in giro per l’Italia. Non la smetteva mai e
gli riusciva sempre, perché maneggiava molto bene l’arma della seduzione, che si
trattasse di donne, uomini, dei lupi che ha allevato a lungo con amore, delle
folle convocate a decifrare sotto la sua guida il cielo stellato nelle notti
d’estate.
Andrea Colombo ha scritto sul manifesto del 15 gennaio un pezzo intitolato La
rivoluzione alla luce del sole che fa giustizia dei tentativi (di destra e di
sinistra, vedi l’identico titolo in morte del “cattivo maestro” sul Giornale e
su la Repubblica) di riportare la vita del leader di Potere operaio alla
narrativa mainstream degli anni Settanta come anni di piombo tuttora carichi di
misteri e di verità nascoste. Ma, scrive Andrea, “la sua idea di rivoluzione non
aveva nulla di misterioso, segreto, cospiratorio. Era esplicita, ostentata,
gridata alla luce del sole, come quando, in tempi nei quali i rapporti di forza
rendevano normale dire quel che oggi nessuno oserebbe sussurrare, parlò
apertamente di insurrezione necessaria e imminente”. Esplicito e privo di
reticenza è sempre stato anche il racconto ex post degli anni Settanta –
fondazione e scioglimento di Potere operaio, rapporti e non rapporti fra Potere
operaio, Autonomia e BR, uso della violenza e della lotta armata, caso Moro,
processo 7 aprile – che Piperno ha fornito più volte e in più sedi, pubbliche e
ufficiali. Mi era capitato pochi mesi di fa di ritrovare per caso e di
condividere su Facebook un suo faccia a faccia con Giovanni Minoli per “Mixer”
del 1983: consiglio a chi nei Settanta non c’era di guardarlo per farsi un’idea
di un’altra Italia, di un’altra stoffa di militanti, di un altro giornalismo
rispetto a quello che oggi ci passa il convento. E a chi in questi giorni
continua a reclamare sui social presunte verità nascoste di Piperno sul
sequestro Moro e sul suo tentativo di sondare, su richiesta del PSI craxiano, la
possibilità di una trattativa con le BR, consiglio di leggere il testo della sua
audizione del 18 maggio 2000 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul
terrorismo. La verità è che in Italia più passa il tempo più la narrativa
mainstream della nebbia che ancora avvolgerebbe gli anni Settanta serve non per
scoprire ciò che non si sa, ma per non fare i conti con ciò che si sa.
All’epoca, peraltro, io non vivevo a Roma, non simpatizzavo né per Potere
operaio né per Autonomia e da femminista contestavo vibratamente l’uso politico
della violenza come risvolto dell’ordine patriarcale e di una virilità
malintesa. Delle vicende degli anni Settanta ho discusso con Franco in anni più
recenti, quando lui, influenzato dall’esperienza del comunitarismo nordamericano
e calato nell’esperienza dell’amministrazione di Cosenza di Giacomo Mancini e di
Eva Catizone, parlava più di autogoverno, autogestione, municipalismo e genius
loci che di strategie insurrezionali e rivoluzionarie. Di quelle conversazioni è
impossibile restituire la densità, che faceva tutt’uno con la densità del
personaggio e con la sua ineguagliabile eloquenza. Colpivano però l’ampiezza
della prospettiva unita all’analisi minuta e dettagliata dei fatti, l’intreccio
fra vissuto personale e storia e fra razionalità e sensorialità, le cicatrici di
ferite mai rimarginate come il rogo di Primavalle (che nel 1973 lo risolse a
sciogliere Potere operaio, non perché l’organizzazione fosse coinvolta in quei
fatti ma proprio perché non essendolo non era riuscita a evitarli) e ovviamente
il processo 7 aprile e relativo carcere preventivo (una cinquantina di capi
d’imputazione tutti caduti per assoluzione, salvo quello, giuridicamente
controverso, di partecipazione ad associazione sovversiva).
Come in altri casi, anche nel caso di Piperno l’etichetta di “cattivo maestro”
tanto abusata nel dibattito pubblico italiano serve in realtà a rinchiudere
nella condanna morale e nel minoritarismo politico percorsi politici e
intellettuali che andrebbero restituiti alla loro emblematicità del “lungo
Sessantotto” italiano e del Novecento non solo italiano. Aldilà della leadership
di Potere operaio, Franco Piperno è stato un politico di spessore,
contrassegnato da un intreccio di visionarietà e realismo che forse, per restare
nel campo dell’operaismo in cui si era formato dopo la precoce e traumatica
espulsione dal Pci per “deviazionismo” nel 1967, lo avvicinava malgrado le
apparenze più a Mario Tronti che a Toni Negri. Ed è stato un intellettuale di
spessore, contrassegnato da un intreccio di cultura scientifica e umanistica che
lo rendeva capace di continui spiazzamenti dal conformismo, anche e soprattutto
di sinistra. Quando parlava di fisica entrava in un’altra dimensione,
inaccessibile ai più, ma era proprio, o anche, la “fisica della materia” a
preservarlo dalle derive dogmatiche del materialismo marxista.
Mentre vedevano la luce tre libri (Elogio dello spirito pubblico meridionale,
Roma 1997; Lo spettacolo cosmico, Roma 2007; Sessantotto. L’anno che ritorna,
Milano 2008), è rimasto a lungo nel cassetto come una sorta di atto mancato un
libro sul tempo, perorazione fisico-filosofica a favore del “qui e ora” contro
il gradualismo e della ciclicità ritornante contro la linea retta del
progressismo. Ciclico, si sa, è anche il moto rotatorio della rivoluzione. E
ciclica è stata anche la dimensione della vita di Franco, dove le stesse cose
ritornavano sempre. A un certo punto però anche il tempo ciclico si interrompe.
Colpisce, o forse va preso come un segno di kairós, che il suo si sia interrotto
proprio mentre la combriccola nera che ci governa sta facendo di tutto per
ribaltare il Sessantotto e gli anni Settanta nel loro contrario e trascinarci
tutti e tutte dalla parte sbagliata della storia.
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