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Archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti
«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Paolo Persichetti di Paolo Persichetti da Insorgenze Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte. Comportamenti privi di rilevanza penale Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio». Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione. Reati prescritti
 Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione». Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era. Le ragioni dell’inchiesta Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica? Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimmirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare. Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani. Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta. Cosa era successo? L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza» delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi». Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine. La velenosa insinuazione Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti! Un grave precedente Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo. Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro. Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno. La decisione finale spetta al Gip
 Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di prevenzione. > Se fare storia è un reato > Lo storico Marco Clementi: «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è > un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70» > La scongiura del discorso. Il caso Persichetti > Kafka e l’archivio di Persichetti > il passato continua a chiedere il conto a Paolo Persichetti > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 5, 2024 / Osservatorio Repressione
Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente Milei
Arriva un altro stop dall’Argentina dove la sezione istruttoria della Cassazione la magistratura più alta ha ribadito che Leonardo Bertulazzi è un rifugiato politico. A questo punto difficilmente sarà estradato nonostante le pressioni sicuramente esercitate da Giorgia Meloni nel recente incontro con Milei a Buenos Aires. di Paolo Persichetti da Insorgenze Con una decisione dai contenuti durissimi la corte di Cassazione argentina ha censurato l’operato del governo Milei che aveva arbitrariamente revocato lo statuto di rifugiato politico a Leonardo Bertulazzi, l’ex Br della colonna genovese riparato da quattro decenni in America Latina e da 20 anni residente a Buenos Aires. I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere. L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione. Un arresto arbitrario e una revoca illegittima I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche». I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei correti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale governo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui MIlei si rivendica erede. Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo step, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia. Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda. > Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo > Bertulazzi in Argentina > La caccia ai sovversivi, così la destra insegue i fantasmi > Lo accusano di aver partecipato alla logistica del sequestro Moro, ma era già > in carcere > L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex > brigatista Leonardo Bertulazzi       Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 29, 2024 / Osservatorio Repressione
La guerra su fantasmi delle Br è un avvertimento a chi lotta oggi
Rinvio a giudizio per gli ex dirigenti del movimento ormai ottantenni: Curcio, Azzolini e Moretti. Un’ulteriore criminalizzazione di quegli anni o un deterrente per il futuro? di Frank Cimini da l’Unità Come il cacio sui maccheroni. Oppure come la grappa dopo il caffè. L’uso politico della giustizia e l’infinità emergenza italiana vanno insieme ormai da quasi mezzo secolo. E scatenano aspri scontri e polemiche. Ma a volte c’è la classica eccezione che conferma la regola. Per esempio l’ultimo clamoroso caso di uso politico della giustizia ha messo tutti d’accordo. Parliamo del rinvio a giudizio degli ex dirigenti delle Brigate rosse Renato Curcio, 83 anni, Lauro Azzolini, 81 anni e Mario Moretti, 77 anni, per il concorso nell’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso alla Cascina Spiotta in occasione della liberazione di Vittorio Vallarino Gancia, l’imprenditore sequestrato a scopo di finanziamento della lotta armata quando rimase uccisa anche Mara Cagol. Stavolta la magistratura, soprattutto quella associata sempre vociante, e la politica non litigano. I politici non litigano con le toghe e neanche tra loro. A fronte di intercettazioni chiaramente farlocche senza autorizzazione del gip, con motivazione surreale del gup (“inchiesta contro ignoti”), nessuno dice nulla. Come sulla vecchia sentenza di proscioglimento revocata perché scomparsa durante un’alluvione nel 1994. Revocata senza poterne prendere visione, leggerla. A meno che non sia stata interpretata attraverso una seduta spiritica sul modello di mister Gradoli al secolo Romano Prodi. Se questi pm della procura antiterrorismo di Torino, competenti su un fatto della provincia di Alessandria avvenuto quando le Dda non esistevano, avessero buon senso e fossero in buona fede, ci sarebbe da chiedersi come abbiano fatto a laurearsi e a superare il concorso in magistratura. Ma si tratta di magistrati esperti e preparati. Il problema loro sta nel fatto che combattono contro il fantasma di un fenomeno del passato per incidere sullo scontro sociale politico di oggi, che a causa della crisi economica potrebbe aggravarsi. Non solo per criminalizzare ulteriormente gli anni 70 e tribunalizzarli in maniera definitiva, ma per lanciare moniti a chi lotta oggi contro le disuguaglianze: non ci provate perché se no sarete perseguiti e perseguitati fino alla tomba. Come gli ottantenni di oggi. Chiudiamo con le parole di Davide Steccanella, avvocato di Azzolini e storico di quel periodo: “Curcio 50 anni dopo a giudizio per aver messo in conto e voluto una sparatoria in cui gli hanno freddato la moglie. Dovevano contestargli l’uxoricidio a sto punto”.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
Cascina Spiotta, al via il processo bis: Curcio, Moretti e Azzolini perseguitati dopo 50 anni
L’uso giudiziario della storia, per altro distorto. Il nuovo processo alle Brigate rosse. Inchiesta sulla sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti a targhe alterne che affollano questo paese. di Frank Cimini da l’Unità Norimberga Due. I vincitori processeranno i vinti questa volta a mezzo secolo dai fatti. Il giudice dell’udienza preliminare di Torino Ombretta Vanini ha rinviato a giudizio Renato Curcio, Mario Moretti e Lauro Azzolini per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso durante la sparatoria alla Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 in cui rimase uccisa anche Margherita Cagol. È stato prosciolto per intervenuta prescrizione Pierluigi Zuffada. Il processo inizierà il prossimo 25 febbraio davanti alla corte di assise di Alessandria. La decisione del gup Vanini era scontata dopo il rigetto due settimane fa di una serie di eccezioni di nullità proposte dalla difesa. Gli avvocati avevano segnalato una serie di irregolarità e di forzature. Ma inutilmente. Ti piazzano addosso il captatore informatico trojan, ti intercettano per mesi confrontando le tue impronte con quanto repertato 50 anni fa e quando i tuoi difensori eccepiscono l’assenza del decreto autorizzativo da parte del gip il gup rigetta l’eccezione perché al momento l’inchiesta era contro ignoti diventata contro noti solo dopo aver ascoltato le conversazioni intercettate. Insomma, ti metto addosso il mezzo più invasivo possibile e non si può dire che ti sospetto. Sei ignoto. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra arresa e disarmata. Il gup ha deciso il 16 ottobre e ribadito oggi con il rinvio a giudizio che non c’erano irregolarità e violazione dei diritti. Il captatore insomma veniva usato per ragioni di assoluta urgenza. Su un fatto – badate bene – avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987 senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione nella provincia di Alessandria. A far riaprire l’indagine era stato un esposto presentato dagli eredi del carabiniere D’Alfonso. In aula di udienza erano stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Brigate Rosse. Un fatto notorio già all’epoca della prima indagine poi “alluvionata”. Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico, quello degli anni 70. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti che affollano questo paese. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan. Con quello che hanno speso nell’indagine per i captatori trojan non si poteva permettere una smentita all’operato della procura di Torino un delle più forcaiole d’Italia. Tutti ad Alessandria quindi per il Norimberga Due. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 1, 2024 / Osservatorio Repressione
Cascina Spiotta, rigettate le istanze della difesa: il processo si farà
Si andrà in corte di assise a celebrare un processo alla storia di un tentativo fallito di rivoluzione. I vincitori processano i vinti. Insomma. Norimberga due. di Frank Cimini da l’Unità Formalmente la decisione è stata rinviata al 30 ottobre ma il gup Ombretta Vanini rigettando le istanze della difesa a livello di eccezioni preliminari ha già scelto di rinviare a giudizio Renato Curcio Mario Moretti Lauro Azzolini e Pierluigi Zuffada ex dirigenti delle Brigate Rosse per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’ Alfonso del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta durante le fasi della liberazione dell’imprenditore Vallarino Gancia in precedenza sequestrato. “È tutto il contrario del matrimonio di Renzo e Lucia che per don Rodrigo non s’ha da fare, questo processo di Torino invece s’ha da fare” commenta l’avvocato Davide Steccanella difensore di Azzolini. Il gup nel rigettare le eccezioni proposte dagli avvocati è passato sopra una serie di forzature e irregolarità della procura. Parliamo di una indagine riaperta dopo un proscioglimento senza possibilità di leggere quella lontana sentenza poi annullata perché scomparsa nel corso dell’alluvione di Alessandria nel 1994. Parliamo di un captatore Trojan utilizzato a mezzo secolo dai fatti senza il decreto autorizzativo del gip. Ci sono anche sette libri dedicati alla stagione dei cosiddetti anni di piombo tra gli “elementi indiziari” presentati dai pm torinesi nel processo a carico degli ex Br. Tra questi ci sono i volumi firmati da Curcio e da Moretti. Alcuni frammenti di questi testi sono stati letti in aula. “I pm hanno letto dei brani io invece ne ho letti altri – dice l’avvocato Francesco Romeo che assiste Moretti – non ci si può limitare a estrapolare frasi dal contesto. La stessa presenza dei libri in un processo ci rimanda a un passato poco piacevole”. Va ricordato che il 5 giugno del 1975 moriva anche Mara Cagol colpita quando era terra arresa e disarmata. Ma su quel colpo di grazia non si è indagato nonostante i pm lo avessi promesso a Curcio in sede di interrogatorio. Si andrà in corte di assise a celebrare un processo alla storia di un tentativo fallito di rivoluzione. I vincitori processano i vinti. Insomma. Norimberga due. Almeno quella numero uno la fecero subito non mezzo secolo dopo a un gruppo di 80enni.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Cascina Spiotta, rigettate le istanze della difesa: il processo si farà sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 17, 2024 / Osservatorio Repressione
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino nell’inchiesta contro i quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987. La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti nella discussione, di cui è stata resa nota la trascrizione, che si è tenuta lo scorso 24 ottobre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata, come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, ha commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie di irregolarità, abusi, sotterfugi ed escamotage vari, tutti finalizzati ad aggirare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come ostacoli frapposti all’azione penale. Il tranello complottista Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto depose, per conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti (Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi, brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la stretta regia dei Servizi. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti civili tenteranno di reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha dichiarato di essere entrato nell’inchiesta come legale della parte civile per dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del complotto, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di colpevolezza e sprezzanti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari, al punto che i pm torinesi, presi nel ruolo di novelli riparatori delle ingiustizie della storia, si sono lanciati come Robin Hood nelle foresta di Sherwood incappando in una imbarazzante disavventura. L’inchiesta nascosta Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare» le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura della nuova inchiesta. Scriverà il responsabile della indagine, comandante dei carabinieri Pierluigi Brogliaccino, «L’attività di intercettazione consente l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma nonostante questo specifico attenzionamento, il fascicolo non muterà l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987, dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine. Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato l’archivio del tribunale di Alessandria. Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione di totale illegalità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre 2022, invece di sanare l’illeicità dell’inchiesta, la procura raddoppia l’abuso e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento. Indagato senza essere prosciolto
 Nel 2023 la situazione non cambia, anzi assistiamo ai tentativi surreali della procura che cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, improvvisamente, dopo cinque giorni i pm rinunciano a questo sotterfugio. Lo iscrivono finalmente nel registro degli indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un proprio perito. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni, da loro ritenute delle «sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante» occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova – quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale autorizzazione da tempo illecita. Le intercettazioni non bastano A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti “captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti con Azzolini. In questo modo cercano di trasformare in dichiarazioni d’accusa verbalizzate i contenuti delle intercettazioni dal valore legale traballante. Ma si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima. L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni 70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo sull’avviso. Irritata per l’atteggiamento del teste, a giugno la procura ripropone l’arresto di Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una batosta enorme per i pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta dell’inchiesta imbastita con mille sotterfugi ormai da 17 mesi. Davanti al gup, lo scorso 24 ottobre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati, le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga. Il teste braccato A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più pressanti e riguardano anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, accusato di aver subornato il testimone durante un incontro che PB aveva chiesto al legale e nel quale aveva domandato lumi sulle ragioni dell’interessamento della procura nei suoi confronti nonostante nulla c’entrasse con i fatti della Spiotta di cinquant’anni prima. 
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa dell’imputato Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre coimputati, e il tentativo fare la stesa cosa con il suo avvocato, circostanza che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e liquidare il suo difensore. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
October 8, 2024 / Osservatorio Repressione
Il passato che non passa
Il prossimo 26 settembre davanti al gip di Torino le richieste di rinvio a giudizio contro Azzolini, Curcio, Moretti e Zuffada per la sparatoria alla Spiotta di 49 anni fa di Paolo Persichetti da Insorgenze Il 26 settembre prossimo si terrà presso il tribunale di Torino l’udienza del gip che dovrà decidere sulle richieste di rinvio a giudizio scaturite dalla nuova inchiesta sul rapimento del magnate dello spumante Vallarino Gancia, realizzato dalla colonna torinese delle Brigate rosse il 4 giugno 1975 e conclusosi il giorno successivo con una sanguinosa sparatoria davanti la cascina dove l’ostaggio era custodito. L’indagine è stata riaperta dopo un esposto del novembre 2021 presentato dall’avvocato Sergio Favretto per conto di Bruno D’Alfonso, carabiniere in pensione figlio di Giovanni D’Alfonso, l’appuntato deceduto nello scontro a fuoco nel quale perse la vita anche Mara Cagol, fondatrice delle Brigate rosse, e rimasero feriti altri due esponenti dell’arma. Le accuse Mezzo secolo dopo i fatti, i pm torinesi hanno chiesto il giudizio per quattro ex brigatisti, Renato Curcio, 82 anni, Lauro Azzolini, 81 anni, PierLuigi Zuffada e Mario Moretti, entrambi 78 anni, quest’ultimo in esecuzione pena “solo” da 44 anni. Azzolini perché ritenuto dai pm il brigatista (all’epoca mai identificato) che insieme a Cagol custodiva l’ostaggio e si sarebbe dileguato nel bosco sottostante la Spiotta dopo la sparatoria. Gli altri tre, in realtà non presenti sul posto, accusati a titolo di concorso morale nella morte del carabiniere D’Alfonso. Le intercettazioni illegali e l’avvocato preso di mira Sui i fogli che il brigatista fuggito dopo il conflitto a fuoco scrisse ai suoi compagni per descrivere la dinamica dei fatti sono state individuate ventotto impronte, a riprova del fatto che quel dattiloscritto, ritrovato sette mesi dopo la sparatoria, era passato per molte mani. Undici sono state attribuite ad Azzolini, sette non identificate e dieci giudicate inutilizzabili. L’assenza di prove determinanti – come ritenuto dallo stesso gip – ha spinto la procura a puntare tutto sulle intercettazioni ambientali, fino a realizzarne un numero impressionante, coinvolgendo decine di persone: ex imputati, familiari e amici, persino avvocati. Davide Steccanella, legale di Azzolini, è stato ripetutamente preso di mira con una violazione molto grave del diritto costituzionale alla difesa. Azzolini è stato oggetto di 222 intercettazioni tramite trojan installato nel suo cellulare, buona parte delle quali svolte prima che il gip concedesse, nel maggio del 2023, la riapertura delle indagini. Fino a quel momento, infatti, la sua posizione giuridica era quella di una persona prosciolta dai fatti con una sentenza-ordinanza emessa dall’autorità giudiziaria di Alessandria il 3 novembre 1987. La sentenza di proscioglimento scomparsa Azzolini infatti era stato precedentemente indagato e prosciolto insieme ad Angelo Basone, scomparso nel frattempo. La riapertura delle indagini è stata concessa del gip – fatto sconcertante – senza poter esaminare la sentenza di proscioglimento e l’incartamento processuale andato distrutto nel 1994 dopo l’esondazione del fiume Tanaro, le cui acque avevano devastato gli archivi del tribunale di Alessandria. Insomma una riapertura alla cieca, sulla scorta della buona fede, per modo di dire, dell’accusa. 
Un modo per aggirare la prescrizione La lista degli episodi inquietanti è lunga, ne citiamo solo alcuni: il rinvio a giudizio di Zuffada, assente al momento della sparatoria. Nonostante secondo gli stessi pm avrebbe avuto un ruolo solo iniziale nel sequestro (reato prescritto), per poi essersi allontanato dalla cascina terminato il suo compito, è chiamato comunque a rispondere di concorso morale nell’omicidio del carabiniere D’Alfonso, anziché di «concorso anomalo», come accadde a Massimo Maraschi. Il brigatista arrestato subito dopo il rapimento e condannato anche per la sparatoria, nonostante in quel momento fosse in mano ai cc di Acqui Terme. Il «concorso anomalo», poiché prevede una pena diversa dall’ergastolo incorrerebbe nella prescrizione, ragion per cui la procura per andare a giudizio ha fatto ricorso a una qualificazione del reato più grave. Il documento di ottobre che secondo l’accusa avrebbe previsto il passato Surreale è poi l’accusa di concorso morale mossa contro Curcio e Moretti, sulla base di una frase presente in un articolo scritto (non da loro) quattro mesi dopo la sparatoria su un giornale clandestino di propaganda, Lotta armata per il comunismo, che per i pm avrebbe avuto valore predittivo, prova di una fiscale direttiva interna emessa dalle istanze dirigenziali delle Brigate rosse. Nel testo si tentava goffamente di ridimensionare il disastro della Spiotta, giustificando il conflitto a fuoco come conseguenza di una direttiva che imponeva in casi del genere di «rompere l’accerchiamento». E così Curcio e Moretti, il primo a Milano, obbligato a nascondersi dopo l’evasione del febbraio precedente dal carcere di Casale Monferrato, il secondo occupato a mettere in piedi la colonna genovese e avviare i primi contatti per la fondazione della colonna romana, secondo i pm sarebbero i veri mandanti morali della sparatoria, nonostante il sequestro fosse stato organizzato e gestito dalla colonna torinese con modalità che dovevano scongiurare qualunque contatto con le forse dell’ordine, grazie anche alla collocazione in altura della cascina che permetteva di controllare le vie di accesso. In nessun documento strategico prodotto dalle Br, e quindi di valore normativo, è mai citata una regola del genere. Ne furono scritti diversi prima del rapimento: sulle norme di condotta individuale dei militanti e sull’organizzazione, tanto che lo stesso Massimo Maraschi, che pure avrebbe dovuto avere un ruolo nella custodia dell’ostaggio (sarebbe dovuto tornare alla Spiotta per dare man forte ai due compagni rimasti soli), al momento della cattura tentò solamente la fuga senza sparare un colpo. Il carattere imprevedibile della sparatoria emerge anche da alcuni nitidi passaggi presenti nella relazione del brigatista fuggito, ritenuta affidabile dagli inquirenti, dove l’uomo e la donna discutono in maniera concitata se utilizzare o meno l’ostaggio per proteggersi nella fuga e Cagol si dice contraria per poi lanciarsi fuori dalla cascina «borsetta e mitra a tracollo, e in mano valigetta e pistola» con le “zeppe” ai piedi (sandali estivi con tacco rialzato), calzature aperte e inadatte per una fuga in campagna tra rovi e sottobosco, come si può vedere nelle foto del suo corpo senza vita scattate dalla scientifica. Silenzio sulla morte di Mara Cagol
 Altro aspetto significativo è l’assenza nella nuova inchiesta di approfondimenti sulle circostanze che portarono alla morte di Mara Cagol, nonostante la richiesta fatta durante l’interrogatorio da Renato Curcio, suo marito all’epoca. Ferita inizialmente a un polso e alla schiena, la militante brigatista era seduta sul versante della collina con le mani alzate in segno di resa. Il colpo mortale la raggiunse nella zona ascellare, trapassando il torace da destra a sinistra. Una esecuzione a freddo. Oltre al carabiniere Barberis, che l’aveva inizialmente colpita, sul posto arrivarono in breve tempo altri membri dell’Arma. I pubblici ministeri non hanno sentito l’esigenza di fare chiarezza, riequilibrando una indagine totalmente sbilanciata. Una Waterloo per la dietrologia Da rilevare infine l’immancabile irruzione della dietrologia nella vicenda. L’esposto iniziale dell’ex carabiniere Bruno D’Alfonso che ha innescato la riapertura delle indagini ha ispirato ben due volumi: L’invisibile, edizioni Falsopiano (con la prefazione dello stesso D’Alfonso) e successivamente, Radiografia di un mistero irrisolto, Bibliotheka, scritti entrambi da due giornalisti, Berardo Lupacchini e Simona Folegnani. Gli autori si dicevano convinti di aver individuato l’identità dell’«invisibile», il brigatista fuggito dopo il conflitto fuoco, nella persona di Mario Moretti. Dipinto – sulla scorta di una ricca letteratura complottista (fu il solito Sergio Flamigni a lanciare per primo l’accusa) – come un cattivo genetico, un personaggio senza scrupoli che nascosto nella folta vegetazione, dove aveva trovato riparo per sfuggire ai colpi di Barberis, avrebbe avuto un subitaneo pensiero, una preveggenza strategica che l’avrebbe indotto ad abbandonare Mara Cagol al suo destino per prendere il suo posto alla guida dell’organizzazione. Una quadra della vicenda che aveva entusiasmato l’allora magistrato Guido Salvini, nel frattempo divenuto avvocato delle parti civili, e sempre pronto a cavalcare le più astruse congetture dietrologiche. L’ex gip si è messo subito a disposizione raschiando, come sua consuetudine, i fondi di barile, gli avanzi carcerari, interpellando collaboratori di giustizia sempre in debito di qualcosa per raccogliere voci di corridoio da confezionare come prove. Un’ambigua sovrapposizione di ruoli e funzioni da cui appare difficile districare dove inizi la nuova attività di avvocato e finisca quella di magistrato. Non soddisfatti, i due giornalisti hanno ipotizzato persino una gestione a distanza del Sid nell’intera vicenda che avrebbe pilotato, attraverso un proprio confidente la fuga del «cattivo» Moretti per giungere poi in via Fani, luogo dove inevitabilmente conducono tutte la strade della dietrologia. Solo che più volte interrogato dai pm, Leonio Bozzato, la spia del Sid che militava nell’Assemblea autonoma di Porto Marghera, anziché Moretti ha indicato – vera nemesi della storia – in Alberto Franceschini (detenuto all’epoca) l’ignoto brigatista fuggito dalla Spiotta e compartecipe del complotto. Il giudice o lo storico? Fino ad ora c’è stata poca attenzione pubblica su questa inchiesta, il dibattito culturale e politico si è mostrato distratto rispetto alle importanti questioni che solleva. Nelle intenzioni della procura, stando alla lista dei testi chiamati a deporre, questo giudizio dovrebbe rappresentare una sorta di evento storico conclusivo, riedizione del processo al cosiddetto «nucleo storico» che dovrebbe sancire in modo definitivo la chiusura del Novecento italiano sotto la mannaia della punizione permanente, oltre ogni tempo ed epoca, una damnatio memorie che però ha il sapore di un esorcismo e dietro il quale si cela un’ansia patogena, un timore angosciante verso il passato. Eppure sarebbe scontato chiedersi se a distanza di mezzo secolo ha ancora senso approcciare quella stagione così distante con gli strumenti dell’azione penale. Chi deve occuparsene: i pubblici ministeri o gli storici? Svuotare una stagione storica dei fatti sociali sostituendoli unicamente con la memoria penale, oltre ad essere fuorviante è davvero il modo più efficace per fare i conti col nostro passato? La domanda ovviamente non riguarda solo il metodo, gli strumenti di conoscenza dei fatti ma anche gli obiettivi: cosa serve veramente alla società che si è trasformata cinquant’anni dopo? Solo colpevoli da condannare ad ogni costo e che alla fine rischiano di essere solo dei capri espiatori? > Gip: indagini sugli anni ‘70 siano per l’eternità > Prima uccidono la moglie poi vogliono indagarlo. Quarantotto anni dopo Renato > Curcio indagato per la sparatoria di cascina Spiotta > Pm in trincea: fermeremo le Br! > Indagano su ex Br dopo 50 anni… anche se non c’era > Dopo 50 anni vogliono processare Curcio e Moretti > Emergenza infinita processo a Curcio Moretti 50 anni dopo     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Il passato che non passa sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 20, 2024 / Osservatorio Repressione
La caccia ai sovversivi, così la destra insegue i fantasmi
Chi è Leonardo Bertulazzi, l’ex brigatista arrestato a 72 anni in Argentina di Frank Cimini da l’Unità Gli anni 70 non finiscono mai. Lo Stato italiano continua ad andare in giro per il mondo per artigliare persone in relazione a fatti ormai di quasi mezzo secolo fa. È stato arrestato a Buenos Aires, in vista […] L'articolo La caccia ai sovversivi, così la destra insegue i fantasmi sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 31, 2024 / Osservatorio Repressione
Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi in Argentina
Giovedi sera i siti d’informazione hanno diffuso la notizia del nuovo arresto a Buenos Aires (nel pomeriggio ora locale) di Leonardo Bertulazzi, un cittadino italiano oggi settantaduenne, ex appartenente alla colonna genovese delle Brigate rosse che nel 2004 ottenne lo statuto di rifugiato politico dalla Commissione nazionale per i rifugiati (CONARE). In un comunicato le […] L'articolo Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi in Argentina sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 30, 2024 / Osservatorio Repressione
I cani d’Albania
Le deviazioni, gli abusi e la tortura nell’azione di contrasto alla lotta armata da parte di polizia. La loro rimozione, operata nei decenni scorsi dal mondo politico e giudiziario nella sua (quasi) totalità, non solo oltraggia la verità ma impedisce la piena comprensione di quegli anni e di quello che hanno significato nella vita del […] L'articolo I cani d’Albania sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 22, 2024 / Osservatorio Repressione