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Il silenzio di Sabina
La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici, da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni di Roberta Cospito da Carmilla Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza. La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene (de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni, formalità e rispetto per i più elementari diritti umani. Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky. Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori. Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore – sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di quel periodo. Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri. Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale, perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo, è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi, con le mani pulite. Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci – le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità. Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si può prospettare a chi ha vissuto “al limite”? Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni. In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati, emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di “carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero. Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”. Il silenzio di Sabina  invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane: “Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue parole”. Barilli riporta un’osservazione di  Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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Processo Spiotta, la storia fa paura alla pubblica accusa e alle parti civili
Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà nei giorni successivi. Processo ribaltato Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili». In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua» e «oscura». La storia non deve entrare in aula Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte. Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso. Un pm senza storia Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna, inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada. Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”». Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani. Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore giudiziario. Il consulente non verrà ascoltato Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra storia ma soprattutto una altro processo. da insorgenze.net > “Mara gridava ‘Non sparate’”     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Francesco Romeo
anni 70
La Cassazione argentina: «Bertulazzi è un rifugiato»
Per la seconda volta la Cassazione federale dell’Argentina ha ribadito che l’ex Br Leonardo Bertulazzi, attualmente ai domiciliari con un bracciale elettronico, deve essere liberato perché non ha perso lo status di rifugiato politico. L’ultima parola spetta di nuovo al primo grado di Mario di Vito da il manifesto Per la seconda volta la Cassazione federale dell’Argentina ha ribadito che l’ex Br Leonardo Bertulazzi, attualmente ai domiciliari con un bracciale elettronico, deve essere liberato perché non ha perso lo status di rifugiato politico. Adesso la palla torna ai giudici di prima istanza, che dovranno rispondere alla richiesta di scarcerazione avanzata dai legali del 73enne italiano tenendo conto di quanto evidenziato dalla massima autorità giuridica del paese. Il rimpallo va avanti dallo scorso agosto, quando lo status di rifugiato politico ottenuto nel 2002 da Bertulazzi era stato revocato ed erano scattati gli arresti perché su di lui pende una richiesta di estradizione dall’Italia, dove deve scontare una pena a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e banda armata. Già alla fine di novembre la Cassazione aveva evidenziato che, essendoci un ricorso pendente davanti al Conare (il Consiglio nazionale per i rifugiati), non si può ancora dare alcun consenso all’estradizione, ma il primo grado aveva lo stesso detto no alla liberazione. Su tutto questo pende una riforma varata dal presidente Javier Milei lo scorso ottobre, che prevede la revoca dell’asilo a chi è accusato di terrorismo. Il caso di Bertulazzi, però, è in discussione da prima e quindi la norma non dovrebbe riguardarlo. Almeno in linea teorica, perché il Conare non si è ancora espresso e non ci sono tempi certi su quando lo farà. Parallelamente corre anche il ricorso sull’estradizione: la difesa dell’italiano ha tempo fino al primo di aprile per presentarlo alla Cassazione. Tre settimane fa, il tribunale di primo grado aveva detto sì alla richiesta italiana soprattutto sulla base del fatto che il pm di Genova Enrico Zucca, il 9 settembre scorso, ha fatto arrivare a Buenos Aires una lettera in cui afferma che non si opporrà nel caso in cui Bertulazzi chiedesse un nuovo processo. Il dettaglio è decisivo: la giustizia argentina non riconosce i processi che si sono svolti in contumacia e questa assicurazione avrebbe persuaso i giudici argentini a dare il loro assenso al rimpatrio dell’ex Br fuggito dall’Italia nel 1980, prima cioè che le sue vicende arrivassero in tribunale. Il problema è che, al netto della posizione che prenderà la procura, la decisione finale sul nuovo giudizio spetterà a un giudice. E su questo non possono esistere garanzie. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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“Mara gridava ‘Non sparate’”
L’ex brigatista, oggi ottantaduenne,  Lauro Azzolini a sorpresa in aula della corte di appello di Alessandria per il processo per i fatti accaduti a Cascina Spiotta 50 anni fà. «Io c’ero fu l’inferno. Curcio e Moretti non sapevano. Mara Cagol aveva le mani in alto e urlava ‘non sparate’» “Io c’ero quel giorno di 50 anni fa”. È cominciata così in corte d’Assise ad Alessandria la dichiarazione spontanea di Lauro Azzolini, 82 anni, ex militante delle BR, nel processo per la sparatoria di Cascina Spiotta del 1975. Azzolini ha detto che nella sparatoria “morirono due persone che non avrebbero dovuto morire”, il carabiniere Giovanni D’Alfonso (per il quale risponde di omicidio) e la brigatista Mara Cagol, per la quale nessuno è chiamato a rispondere, nonostante quel giorno sia stata di fatto giustiziata. “L’ultima immagine che ho di Mara Cagol e che non dimenticherò mai – ha detto Azzolini – è di lei con entrambe le braccia alzate, disarmata, che urlava di non sparare“. Dopo le dichiarazioni di Azzolini, per i pm rimangono ancora “alcuni coni d’ombra”. Per questo insistono affinché vengano sentiti i coimputati Renato Curcio e Mario Moretti, anche loro ex militanti delle Br, oggi assenti in aula. In una memoria depositata, Curcio (all’epoca dei fatti latitante e spostatosi a Milano) nega ogni coinvolgimento. Per il collegio difensivo, le parole di Azzolini scagionano proprio Curcio, oltre allo stesso Moretti. Su Radio Onda d’Urto la corrispondenza di Paolo Persichetti. Ascolta o scarica Qui di seguito il testo della lettera presentata da Azzolini ***** Per la Corte d’Assise di Alessandria C’ero io quel giorno di 50 anni fa alla Spiotta! In un minuto breve di 50 anni fa quando tutto precipitò, un inferno che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo rivivere, al termine del quale sono morte due persone che non avrebbero dovuto morire, il padre di Bruno D’Alfonso e Mara. Mara, una donna eccezionale, una compagna generosa, e la morte di una persona cara è un dolore incancellabile che ti porti dentro per tutta la vita, per tutti e senza distinzioni. Un giorno maledetto che non dimenticherò mai, ma visto che a distanza di 50 anni si è deciso di portarlo in un processo pubblico, oggi che di anni ne ho 82, e tutto intorno a me è cambiato rispetto a quando ne avevo meno di 30, quando, nel contesto delle lotte di classe, nel duro conflitto sociale, insieme a tanti altri compagni pensavamo di poter fare la rivoluzione, perché allora il mondo che ci circondava era molto diverso da quello di oggi, seppur in questo presente quotidiano assistiamo a violenze, povertà, sfruttamento, milioni di morti in guerre terribili tra poteri, operai uccisi dal lavoro, una umanità dispersa, ho deciso di raccontare quello che quel giorno è successo. Prima che questo processo abbia inizio, e prima che lo facciano altri, perché io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo. Cioè che quel giorno è successo quello che avevo scritto allora, in quella ricostruzione fatta per tutti gli altri compagni delle BR, trovata dai carabinieri mesi dopo a Milano e che è stata nominata più volte dalla pubblica accusa. Voi la leggerete, io non ci riesco, neppure a distanza di 50 anni, perché mi fa rivivere i dettagli di una prolungata sofferenza, per cui vi dirò quello che oggi ricordo di quel giorno di così tanti anni fa e che non avrebbe dovuto succedere. Da pochi mesi ero arrivato a Torino e da operaio mi ero impegnato al lavoro di coordinamento delle avanguardie nelle fabbriche torinesi; dopo l’arresto di due compagni della Colonna torinese entro anch’io nella clandestinità proprio nel momento in cui per necessità di autofinanziamento la Organizzazione  decise di sequestrare un ricco imprenditore. Era la prima volta e io vi partecipai, il tutto avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni senza conseguenze nè per il sequestrato nè per noi. Invece già il giorno stesso del sequestro venne arrestato un nostro compagno che si dichiarò ‘prigioniero politico’ e l’indomani successe l’impensabile che stravolse tutto, perchè a causa del fatto e della nostra impreparazione ci facemmo prendere alla sprovvista. Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo di accesso alla cascina, ma d’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere. Ad entrambi ci cadde il mondo addosso e ci prese il panico. Ho sentito dire che saremmo stati istruiti e addestrati per cosa fare in quei casi e altre cose del genere, ma non è vero, non sapevamo assolutamente cosa fare perché non era mai successo, vi fu una improvvisazione di tutto sul momento, quel che ricordo è che decidemmo di fuggire abbandonando l’ostaggio. La confusione era assoluta, sapevamo che fuori ad attenderci c’erano i carabinieri. Ne avevamo visti due forse tre ma quanti di preciso fossero non lo sapevamo. Raccogliemmo carte e bagagli frastornati cercando di capire come da lì uscirne. Si decise di usare le due piccole ‘SRCM’, quelle considerate di addestramento, lanciate senza mira alcuna avrebbero prodotto una esplosione tale da disorientare gli stessi CC e così avere lo spazio necessario per aprirci la fuga verso le nostre due auto che erano appena fuori. Ma tutto precipitò, sentimmo colpi di arma verso di noi, rispondemmo con qualche colpo nel caos di una frazione di secondi. Prese le nostre auto pensammo di esserci riusciti, ma la carreggiata era sbarrata dall’auto dei CC, io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso. Vi fu la resa nostra. Uscito dall’auto mi affiancai a Mara che era già sul prato. Notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita. Mi disse di sì ma che non era niente e che se c’era la occasione di tentare ancora di fuggire e risposi che avevo ancora una ‘srcm’. D’accordo, al suo cenno, la lanciai e mi misi a correre verso il bosco, convinto che Mara mi avrebbe seguito. Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era e allora guardai verso il prato della cascina e l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare… Ho continuato a correre a piedi senza guardarmi indietro fino a raggiungere una zona distante, ben oltre il bosco, quando sentii due spari. Continuai a correre per ore cercando un nascondiglio sicuro per aspettare la notte. Ero solo. Il giorno dopo quando raggiunsi un Paese sulle prime pagine dei giornali seppi di feriti e vidi che Mara era morta distesa su quel prato dove l’avevo lasciata viva. Lo sconcerto, il dolore mi ha attraversato la carne come una lama. Poi il bilancio finale: un’altra morte come tragico epilogo di quella giornata. Con rispetto dovuto, è anche per quei due morti che non avrebbero dovuto esserci che non ho più potuto tornare indietro. Capisco che OGGI questo sembrerà paradossale, ma ALLORA per la mia coscienza di classe ha significato assumermi la responsabilità della scelta fatta. Lauro Azzolini 11 marzo 2025 > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Primo sì dei giudici argentini alla estradizione dell’ex Br Bertulazzi
Milei cambia legge sui rifugiati e si aggiudica la prima manche della lunga battaglia legale  per l’estradizione dell’ex Br Leonardo Bertulazzi di Paolo Persichetti da Insorgenze Anche se nessuna agenzia lo ha ancora scritto, giunge dall’Argentina la notizia del parere favorevole alla estradizione dell’ex brigatista della colonna genovese, oggi settantacinquenne, Leonardo Bertulazzi, concesso dai giudici di Buonos Aires stanotte (ora italiana). Dopo una udienza lampo è stata accolta la richiesta proveniente da parte italiana. Il contenuto giuridico del provvedimento sarà noto solo nei prossimi giorni, sapremo così come i giudici hanno risolto, forse è meglio dire aggirato, il problema della contumacia. Entrato nella colonna genovese quasi alla sua nascita, fu arrestato e condannato nel 1976 per un episodio minore. Scarcerato nel 1979, dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito entrato nelle Br solo più tardi, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era fuggiasco. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così quarantanove anni dopo è arrivato il primo sì alla estradizione. Milei si è dunque aggiudicato, come era nelle previsioni, questa prima partita. La strettissima intesa con il governo di Giorgia Meloni che in cambio ha rinunciato ad estradare il sacerdote torturatore Franco Reverberi (leggi qui), tanto che pochi giorni fa il ministro della giustizia argentino ha concordato con Nordio i passaggi della estradizione e quest’ultimo si recherà nei prossimi giorni i Argentina, e la necessità dello stesso MIlei di ottenere una vittoria simbolica nella speranza di riuscire ad incarcerare, prima o poi, gli esponenti della vecchia resistenza armata degli anni 70 e primi anni 80 al regime militare fascista argentino di cui si proclama il naturale erede, hanno fatto il resto. La partita tuttavia non è ancora conclusa. La decisione di ieri notte può essere appellata davanti alla corte suprema federale (equivalente della nostra cassazione), prima che sia definitiva. Ma soprattutto è ancora aperto il ricorso di fronte al Conare, l’organo federale che decide sulla concessione dell’asilo politico e che bloccherebbe l’estradizione. Bertulazzi aveva già ottenuto questo beneficio nel 2004 ma con una decisione arbitraria la protezione gli è stata tolta lo scorso agosto, quando venne arrestato. La procedura davanti al Conare è stata più vote rinviata e alla fine ritardata: probabilmente per consentire alla procedura di estradizione di fare passi avanti e creare una situazione che renda più difficile concedere l’asilo. Milei sta barando in tutti i modi cercando di accomodare una situazione che altrimenti giuridicamente gli sarebbe andata contro. Mentre il Conare rinvia, Milei sta cambiando i vecchi giudici con uomini di fiducia ed ha varato un decreto che impedisce la concessione dell’asilo a chi ha ottenuto un avviso favorevole alla estradizione, circostanza che tuttavia non dovrebbe valere per Bertulazzi. Il suo ricorso infatti è precedente al decreto del presidente e soprattutto Bertulazzi non è alla sua prima richiesta di protezione. Ma la partita giuridica sembra sempre più truccata. > Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo > Bertulazzi in Argentina > L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex > brigatista Leonardo Bertulazzi > Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente > Milei   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Appello: Vogliamo rompere un tabù
Riceviamo e pubblichiamo, l’appello dal blog della campagna Vogliamo rompere un tabù. Vogliamo rompere un tabù, rompere il silenzio sul fatto che lo Stato italiano tiene in carcere da quarant’anni 16 militanti delle Brigate Rosse e ne ha sottoposti altri tre, da oltre 20 anni, al regime dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Il regime speciale dell’art.41 bis è finalizzato all’annientamento psico-fisico del detenuto, che viene tenuto in isolamento quasi totale: ventidue ore al giorno in isolamento, due ore d’aria al giorno, una breve visita mensile per i familiari dietro una parete di vetro, nessun libro o giornale dall’esterno del carcere… Questo regime carcerario è uno dei più intollerabili in Europa. Ha due obiettivi: tagliare ogni comunicazione con il mondo esterno e costringere i detenuti a diventare “pentiti”, collaboratori di giustizia. Alcuni opinionisti sostengono che questi prigionieri preferiscono rimanere in carcere, rifiutando ostinatamente di beneficiare di misure alternative alla detenzione o della liberazione condizionale. Ma queste affermazioni non menzionano il fatto che, queste misure alternative, sono soggette ad una logica di scambio: si concedono solo in cambio della messa in discussione del proprio passato politico, di un’autocritica formale, che verrà amplificata dai media; si richiede loro quindi di rinnegare, in modo puro e semplice, la propria storia politica e il proprio passato rivoluzionario. Non si tratta di una questione astratta: a questi militanti si chiede di rinunciare a un’identità che per loro è la scelta di una vita, il che spiega la loro incredibile resistenza a quarant’anni di privazione della libertà; si chiede loro di rinunciare a convinzioni che corrispondono a correnti di pensiero profondamente radicate nella storia universale, in più di un secolo di lotta di classe, una lotta che è stata internazionale. Che si condividano o meno queste idee, è questa lotta-identità che è in gioco e nient’altro. Ma mentre lo Stato si vanta per la sua fermezza nel perseguire l’annientamento dei prigionieri, alcuni pretendono di ridurre la loro lotta a una semplice questione di principio che i prigionieri difenderebbero con eccessiva ostinazione. Come se alla base della loro resistenza non ci fosse una profonda coerenza, il rifiuto di mercanteggiare e mercificare il loro pensiero politico. Ma per capire meglio perché è importante rompere questo tabù, dobbiamo anche chiederci quali sono le ragioni fondamentali per cui lo Stato italiano ancora oggi, mantiene una feroce linea di condotta nei loro confronti, perché persiste in questa linea d’azione implacabile. Stiamo vivendo una fase storica caratterizzata dalla crescita sfrenata delle disuguaglianze, da un susseguirsi di crisi e da una forte intensificazione del confronto tra gli Stati che dominano il mondo. Un confronto che sta diventando sempre più pericoloso e globalizzato. In questo contesto, la crisi del sistema politico si sta intensificando, come in altre fasi storiche, come negli anni tra le due guerre o durante le guerre coloniali. Queste tensioni rendono la democrazia rappresentativa sempre più “inadatta” alla gestione delle crisi, tanto che le classi dirigenti sembrano ogni giorno più inclini a cercare soluzioni autoritarie e a liquidare le conquiste sociali. Di questa tendenza ne sono prova,per esempio, la violenta repressione da parte dello Stato francese contro i Gilets jaunes o durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni, rifiutata dalla stragrande maggioranza della popolazione; ma anche la repressione in Germania e in Francia del movimento ambientalista, le leggi antisciopero nel Regno Unito, nonché le misure senza precedenti contro i migranti. In Italia si è assistito a una massiccia criminalizzazione dei movimenti sociali: attacchi ai sindacati, agli studenti, a coloro che lottano per il diritto alla casa, al movimento dei disoccupati, alle ONG che cercano di difendere la vita degli immigrati e agli stessi immigrati, privati della protezione preventiva di pregresse tutele e attaccati violentemente nei loro lavori precari. Allo stesso tempo, il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero viene costantemente limitato: diventa compromettente difendere i palestinesi e chi denuncia il massacro in atto nei confronti del popolo gazawi è messo all’indice. Qualsiasi discussione sulla guerra in Ucraina che non adotti immediatamente e senza discussioni il punto di vista della NATO viene vista come sostegno alla Russia e tradimento. In generale, stiamo assistendo alla graduale criminalizzazione di tutta l’opposizione, non solo di quella radicale. Infine, dopo innumerevoli processi e incarcerazioni di manifestanti, attivisti antiglobalizzazione e anarchici, la repressione in Italia ha raggiunto il suo culmine quando, su ordine del Ministro della Giustizia, Alfredo Cospito è stato sottoposto al regime del 41 bis. È stato il primo anarchico a essere sottoposto a questo spietato regime di detenzione. Così, la repressione sempre più severa dei movimenti sociali, delle manifestazioni, dei militanti e degli attivisti, a prescindere dalle loro convinzioni e azioni, sta gradualmente creando un clima che ricorda la “strategia della tensione” che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Allora, questa strategia mirava a soffocare un forte movimento di protesta che stava attraversando l’intera società. Oggi, questa strategia della tensione vorrebbe impedire che il crescente malcontento e il disorientamento ideologico trovino un’espressione politica, si trasformino in una vera contestazione. In questo contesto si inserisce la “guerra” che da tempo viene condotta contro la memoria delle lotte degli anni Settanta. In quegli anni, le classi subalterne erano portatrici ed espressione di un importante processo di trasformazione sociale, di un vero e proprio “assalto al cielo”. Ecco perché questo periodo è sistematicamente oggetto di analisi riduttive o mistificatorie da parte del potere.  Negando l’esistenza della lotta di classe, si ostinano a fingere che il mondo possa essere ridotto a un’opposizione tra i sostenitori delle democrazie liberali e gli altri. È solo nel contesto di questa “guerra” alla memoria che possiamo comprendere la politica silenziosa di annientamento dei prigionieri. Lo Stato vede questi prigionieri come una sorta di trofeo e, facendo della loro prigionia un esempio e uno spauracchio, mira a scoraggiare qualsiasi lotta, nella speranza di soffocare lo sviluppo delle contraddizioni attuali, che potrebbero portare a un ribaltamento della situazione, a un nuovo “assalto al cielo”. Rompere il tabù, rompere il silenzio su questi prigionieri, sulle condizioni della loro detenzione, sulla loro durata infinita, non può essere ridotto a una reazione umanitaria. È un passo necessario per liberarci dalle nostre paure, per sciogliere il cappio delle costrizioni, dell’ingabbiamento in cui vorrebbero richiudere le lotte e i movimenti. Questo inaccettabile regime carcerario, il rinnegamento che si richiede ai prigionieri per poter sfuggire a questo regime è un ulteriore modo per soffocare tutte le lotte. Quindi, rompere questo tabù è interesse innanzitutto di coloro che subiscono le conseguenze delle disastrose condizioni economiche e politiche della società nel suo complesso,che possono essere trasformate solo da un cambiamento radicale delle strutture sociali e politiche esistenti. Rompere questo silenzio è anche un modo per riappropriarci di una libertà e di un pensiero critico, in modo da poter trovare liberamente delle possibilità di soluzione e per interrompere la spirale mortale in cui i potenti ci stanno trascinando con le loro politiche sempre più repressive, classiste e guerrafondaie. per aderire all’appello clicca qui   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
41bis
carcere
appello
anni '70
Le Brigate rosse, i fiancheggiatori, le ossessioni del generale
Negli anni ‘70 la democrazia del nostro Paese corse rischi elevati. Per l’azione del terrorismo, e la cosa è nota. Ma anche per il tentativo di settori degli apparati di cogliere la lotta al terrorismo come occasione per criminalizzare ampi settori della cultura, dell’Università, della stessa magistratura. Lo dimostrano due inquietanti relazioni riservate del generale dalla Chiesa redatte nel 1979 e declassificate nel 2012. di Pino Narducci da Volere la Luna Il generale ha un collaudato rapporto di collaborazione con i magistrati torinesi. D’altronde, lui stesso piemontese, lavora a Torino da diversi anni, prima al Comando della I Brigata Carabinieri e poi, dalla primavera ’74, a capo del Nucleo speciale antiterrorismo, creato, in seno alla Brigata, dopo la conclusione del sequestro del magistrato genovese Mario Sossi. Ma, fuori dal territorio sabaudo, non sempre riesce a stabilirsi quella sintonia che, in Piemonte, ha permesso ai carabinieri e alla magistratura di raggiungere risultati importanti nella attività di contrasto alle Brigate Rosse. A Milano, il giudice istruttore Ciro De Vincenzo è titolare di indagini importanti, da quella sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli e sulle attività dei GAP (Gruppi Azione Partigiana) fondati dall’editore [1] all’inchiesta sulla colonna milanese delle Brigate Rosse che, solo alcuni anni prima, sono nate proprio a Milano, negli stabilimenti della Pirelli e della Sit-Siemens. Il generale sospetta di lui: il magistrato ha favorito, durante l’istruttoria, i brigatisti Enrico Levati, Giorgio Semeria e Heide Peusch e gli ha anche passato notizie riservate sulle indagini in corso in Lombardia. Agli inizi del ’75, Carlo Alberto dalla Chiesa invia un rapporto al Procuratore Generale di Torino, Carlo Reviglio della Venaria [2], nel quale accusa il giudice istruttore milanese di essere un fiancheggiatore delle BR. Il rapporto finisce sul tavolo di Salvatore Paulesu, Procuratore Generale di Milano, ma, alla fine, la Corte di Cassazione stabilisce che sarà Torino a indagare sul magistrato. La vita e la carriera di Ciro De Vincenzo saranno sconvolte dall’avvio della inchiesta penale e poi da quella disciplinare, vicende che si concluderanno definitivamente soltanto tre anni più tardi, nel marzo ‘78, con la sconfessione dell’accusa sostenuta dal generale [3]. Dopo essere divenuto coordinatore del Servizio Sicurezza della Direzione Generale degli istituti di prevenzione e pena, nell’agosto 1978 Carlo Alberto dalla Chiesa assume il comando dell’Ufficio di coordinamento e cooperazione nella lotta al terrorismo, concentrando nella sua figura poteri mai concessi in precedenza a nessun’altro. Devono far capo al generale tutte le forze di polizia impegnate nella lotta al terrorismo ed egli, generale di divisione dei carabinieri, non deve rispondere del suo operato al Comandante Generale dell’Arma, ma solo e direttamente al Ministro dell’Interno. L’incarico terminerà molto presto, alla fine del ’79, e dalla Chiesa, durante il periodo di comando, trasmette a Virginio Rognoni due relazioni riservate che resteranno segrete sino al 2012, anno in cui avviene la declassificazione dei documenti [4]. La riservatezza delle note permette al generale di utilizzare un linguaggio ben diverso da quello che è tenuto a osservare nelle comunicazioni ufficiali con le istituzioni. Soprattutto, dalla Chiesa può fornire informazioni ed esprimere valutazioni che non potrebbe mai affidare a documenti immediatamente conoscibili da tutti. Nella prima relazione, sui risultati conseguiti tra il 10 settembre 1978 e il 10 marzo 1979, può fare valutazioni ed avanzare proposte sulla magistratura che sarebbero indicibili in sede pubblica. L’affondo è durissimo: «Non ci saranno risultati se la Magistratura (Csm) non allontanerà, senza complessi almeno dall’esercizio dell’azione penale o dall’istituto del “magistrato di sorveglianza”, quegli elementi notoriamente indicati, presso determinate Corti o Sezioni: quali extraparlamentari o comunque compromessi in loco per il loro stato di soggezione a collettivi forensi, di studio, per situazioni personali, ecc.; quali “acculturati” a tal punto da divenire espressione dialettica attiva, e talvolta di vera “prevaricazione” nei confronti di colleghi meno preparati o più esposti alle vendette dell’eversione; quali portatori – in veste di legalitari o garantisti – di “benevolenze” o “comprensioni” o “dilazioni” o “prescrizioni” o ” concessioni” a detenuti pericolosi per l’eversione, ecc…». Una fetta consistente di pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di sorveglianza costituisce, quindi, uno dei principali fattori che ostacola la lotta al terrorismo. Ma non si tratta solo dei magistrati che simpatizzano, più o memo apertamente, per la sinistra extraparlamentare, ma anche, secondo il generale, dei garantisti o legalitari, quelli che applicano le ragioni del diritto e non la ragion di Stato, anche loro di intralcio alla lotta al terrorismo. Sorprendente è la categoria degli “acculturati”, quelli più preparati e con più spiccate doti intellettuali, anche loro sospetti e pericolosi. In un passaggio successivo della relazione comincia a prendere forma la visione che il generale esporrà, compiutamente, nella seconda nota riservata: i ceti intellettuali e professionali del paese sono la linfa vitale che permette alle Brigate Rosse di crescere e radicarsi nella società: la platealità degli interventi delle BR «ha fatto perno su molte componenti intellettuali che si sono trasferite dai banchi delle Università alle loro cattedre; molte facoltà, ad esempio, che hanno dato magistrati e medici a Genova, architetti a Torino, economisti e sociologi a Genova, Milano, Padova, Cosenza, avvocati e insegnanti di Milano, Roma e Napoli». Poi, fornisce notizie sulle dinamiche esistenti negli uffici giudiziari bolognesi: «Alcuni di essi, anzi, assumendo atteggiamenti inquisitori e chiaramente di parte, hanno determinato, per le iniziative giudiziarie assunte, scoraggiamento e sbandamento in seno a qualche Reparto o tra elementi impegnati nell’assolvimento di compiti particolarmente ardui e difficili; sino a contenerne l’entusiasmo e a limitarne l’iniziativa. Il caso di maggior rilievo riguarda l’ambiente giudiziario di Bologna, ove taluni magistrati, oltre ad adottare provvedimenti contrastanti nei confronti di persone arrestate o fermate, per gli stessi motivi: hanno prima inviato comunicazione giudiziaria e poi emesso decreto di comparizione per arresto illegale ed abuso di potere nei confronti del Comandante di quel Reparto Operativo; Ufficiale già particolarmente esposto – come da documenti in atti – alle minacce dei gruppi eversivi; hanno insistentemente indagato per conoscere nominativi di componenti dei Reparti Speciali che, nello specifico caso, abbisognano di copertura. Il tutto ha creato scalpore anche perché sono ben note, al di fuori degli ambienti giudiziari, le nette simpatie per l’estremismo esternate dal magistrato che ha promosso detto procedimento penale nei confronti dell’Ufficiale, e la comunanza politica che lo lega al Collettivo Politico Giuridico di Bologna, cui appartengono gli avvocati difensori degli imputati prosciolti». La vicenda evocata nella nota come prova dello “sbandamento” ideologico e professionale della magistratura è quella che, nel marzo ’77, coinvolge il capitano Nevio Monaco, comandante del reparto operativo carabinieri Bologna, ed altri sottufficiali dell’Arma nei giorni drammatici segnati dalla uccisione dello studente Francesco Lorusso e dall’arrivo dei blindati, inviati da Cossiga, che militarizzano il centro storico del capoluogo emiliano. Il sostituto procuratore Rubini ritiene che i carabinieri siano responsabili dei reati di falso in atto pubblico e arresto illegale in relazione a un fermo di polizia avvenuto durante quelle giornate. L’indagine si chiude nel giro di pochi giorni, con un provvedimento di archiviazione siglato dal giudice istruttore il 1 aprile ‘77. Nella seconda relazione (sui risultati conseguiti tra l’11 marzo ’79 e il 10 settembre ’79) si innalza il livello di analisi politico-giudiziaria del generale sul mondo della eversione di sinistra e sui settori delle istituzioni che la sostengono. Carlo Alberto dalla Chiesa la scrive il 14 ottobre ’79, all’indomani di due operazioni giudiziarie che, a suo avviso, sono cruciali per comprendere la struttura delle formazioni eversive e definire l’identità di chi ha assunto il ruolo di comando. A Padova, il 7 aprile ‘79, la magistratura ordina l’arresto di Toni Negri, di altri docenti dell’ateneo veneto e di numerose altre persone per il reato di partecipazione a banda armata e altri delitti [5]. Un mese dopo, a Genova, il 17 maggio ’79, i carabinieri arrestano il professore universitario Enrico Fenzi e alcuni esponenti della Autonomia Operaia che gravitano nell’Università. Secondo dalla Chiesa, si tratta del primo duro colpo inferto alla colonna genovese delle BR [6]. I risultati di queste inchieste costituiscono la conferma della ipotesi che il generale ha maturato nel corso degli ultimi anni: si è realizzata una osmosi tra Autonomia Operaia Organizzata, le Brigate Rosse ed altre formazioni della lotta armata. Anzi, il ceto intellettuale che insegna nelle università rappresenta il “cervello pensante” di queste organizzazioni. Dunque, se la galassia della eversione di sinistra fa capo ai professori universitari, anche i simpatizzanti e i sostenitori non possono non appartenere al circuito delle “menti raffinatissime”. Così, il nucleo centrale della nota, più che la parte dedicata alle BR e a Prima Linea, è il capitolo intitolato «Cenni sui fiancheggiatori e sulle azioni di supporto morale e operativo garantite alle organizzazioni eversive da parte di qualificati ambienti, quali: a) intellettuali e universitari; b) giudiziari; c) carcerari; d) forensi; e) industriali; f) amministrazione dello Stato; g) editoria e stampa». Secondo dalla Chiesa, quello giudiziario è il «settore nel quale l’Autorità Giudiziaria, chiamata a formalizzare ed a giudicare fatti terroristici ai quali deve essere attribuita rilevanza penale, è talvolta apparsa incerta tra l’applicazione rigida della norma penale e la creazione continua di un nuovo diritto… Un primo aspetto… è un certo lassismo od una certa sufficienza evidenziati proprio nella trattazione di crimini legati o derivanti da fatti eversivi… Il terzo aspetto è senza dubbio più delicato ed è anche quello che si è rivelato il più pericoloso. Ci si riferisce a quei magistrati che, permeati dallo stesso credo politico delle organizzazioni eversive o estremamente fragili – anche culturalmente – alle argomentazioni di “legali-complici”, hanno derubricato reati, concesso libertà provvisorie, inflitto miti condanne in forza di attenuanti a volte speciose. Ci si riferisce a quei magistrati i quali, al riparo delle funzioni loro devolute dalle leggi dello Stato e forti di un supporto affidato o richiesto a “circoli”, “comitati”, “collettivi” ecc., hanno finito per far prevalere la loro ideologia politica, compiendo atti che si sono ben presto rivelati come veri e propri interventi a favore di indiziati di gravi reati (dichiaratisi “prigionieri politici”); di persone, cioè, che andavano invece inquisite nel più vasto contesto di una “società in pericolo”, con maggior senso di responsabilità e, almeno, secondo la “lettera” della legge. Nel trascurare volutamente la citazione dei giudici aderenti a “Magistratura Democratica”, già sottoposti a procedimento disciplinare da parte del Csm, basta citare l’emblematica posizione assunta dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano, dott. Antonio Bevere; colui che dapprima si fece diligente nel mediare un incontro tra il capo carismatico di Organizzazione eversiva, quale il prof. Toni Negri, ed un proprio collega in quel momento titolare di una inchiesta a carico della stessa organizzazione (il giudice Alessandrini); che assunse, poi e pubblicamente, una posizione gravemente censurabile…» [7]. Nella visione del generale, gli avvocati che difendono gli imputati per fatti di terrorismo sono, in realtà, complici dei propri clienti e i magistrati che applicano le regole del diritto anche agli accusati della lotta armata sono favoreggiatori o, nella migliore delle ipotesi, fragili strumenti nelle mani di questi legali [8]. Su Magistratura Democratica non è necessario spendere molte parole perché, secondo il generale, è ormai a tutti chiaro che questo gruppo di giudici è contiguo alla eversione. Infine, di nuovo, l’ossessivo tema della talpa. «Già sin dai tempi del sequestro del giudice Di Gennaro ad opera dei Nap si è cominciato a parlare di infiltrazioni in seno al Ministero di Grazia e Giustizia e non soltanto perché il sequestrato era un magistrato, ma soprattutto per le precise contestazioni mosse alla vittima in sede di “interrogatorio proletario”. Infatti, la specificità delle domande era evidentemente frutto di notizie precise e riservate, che solo una ristretta cerchia di persone gravitanti attorno al Di Gennaro poteva conoscere. Si deve in proposito rammentare che il funzionario non è stato scelto a caso come “astratto simbolo”, ma come rappresentante di un organo dello Stato che aveva avuto una parte di rilievo negli studi relativi alla riforma penitenziaria, non condivisa negli ambienti del terrorismo. Ed anche in occasione degli assassini dei magistrati Palma e Tartaglione e del criminologo prof. Paolella, i terroristi hanno dimostrato di possedere un efficiente servizio informativo, frutto dell’opera di fiancheggiatori e di irregolari inseriti, a vari livelli, nelle strutture del Ministero di Grazia e Giustizia». Il generale si spinge oltre, sino al punto di esternare anche i sospetti raccolti nel corso dell’attività svolta dal suo ufficio. Sospetti ed illazioni che lambiscono il “cuore dello Stato”: «…Illazioni, anche questa volta non confermate, hanno messo in risalto collegamenti o quanto meno silenzi, in seno al Consiglio Superiore della Magistratura, silenzio imposto da qualche suo componente collegato ideologicamente su posizioni della sinistra rivoluzionaria». L’accusa è clamorosa (le Brigate Rosse sono annidate anche all’interno del Csm), ma il generale non fornisce alcuna prova di quello che sostiene, pur essendo convinto che, a Palazzo dei Marescialli, operi almeno un fiancheggiatore delle BR. Non fa alcun nome, ma, in un organismo che, alla fine degli anni ’70, è ancora fortemente governato dai gruppi più conservatori, dalla Chiesa quasi certamente allude al gruppo di Magistratura Democratica [9]. La nota prosegue e il generale, messe da parte le illazioni, si dice certo che nel Csm, già da alcuni anni, operi una talpa: «La gravità dell’enorme pericolo costituito dalla esistenza dei “fiancheggiatori” esistenti ed operanti attivamente in ambito ministeriale non può pertanto essere legata soltanto alla “Risoluzione Strategica nr. 5” delle BR, ma assume chiari contorni anche quando nel noto covo di via Gradoli viene rinvenuto un documento, con data del 1976, nel quale viene presa in esame la struttura del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel citato documento si afferma, infatti, che l’attività informativa nei confronti dei giudici non era stata “fino ad ora possibile” perché il Consiglio Superiore era rappresentato da un solo gruppo di potere (UMI) e quindi non rifletteva la complessa realtà delle Magistrature italiane. E più oltre si soggiungeva: “tale lavoro può incominciare da ora, partendo dal Consiglio Superiore fino a sviluppare un lavoro organico e complessivo su tutta la Magistratura”. È evidente, quindi, che le BR sin dal 1976 hanno la possibilità di contare su “fonti di informazioni” nell’organo di autogoverno della Magistratura, possibilità poi attualizzata come conferma il ritrovamento in un “covo” Nap di Ostia di una copia del “Ruolo di Anzianità dei Magistrati”, contenente alcune annotazioni a fianco di giudici e funzionari in servizio al Ministero di Grazia e Giustizia» [10]. Ma non c’è solo la talpa che opera nell’organo di autogoverno dei magistrati. Il Ministero di grazia e giustizia e l’ambiente giudiziario romano, per forza di cose, ne hanno prodotto altre: «Il recente omicidio del Ten. Col. Antonio Varisco ha vieppiù attualizzato il fenomeno delle infiltrazioni non solo al Ministero di via Arenula, ma anche nell’ambito del Palazzo di Giustizia romano. Si è così riparlato della “talpa” annidatasi negli Uffici del Ministero e di quelli della Magistratura della Capitale ed ancora una volta la stampa ha pilotato i sospetti dell’opinione pubblica verso funzionari e magistrati che, per ragioni ideologiche e per connivenze, possono aver fornito al commando BR notizie sull’Ufficiale, sui suoi spostamenti ed in ordine al proponimento di lasciare il servizio» [11]. In questo delicato passaggio della relazione dedicato agli omicidi di magistrati e funzionari con importanti incarichi nel Ministero di grazia e giustizia, il generale mette insieme vicende, che, per la diversità delle epoche in cui si consumano e per la differenza delle sigle che le realizzano, non possono in alcun modo ricondursi ad un disegno unitario. Il sequestro del giudice Giuseppe Di Gennaro risale all’ormai lontano maggio ’75 e, nel ’79, l’organizzazione Nuclei Armati Proletari ha già cessato di esistere ed i suoi pochi componenti ancora liberi sono entrati nelle BR. Gli omicidi di Riccardo Palma (14 febbraio ’78) e Girolamo Tartaglione (10 ottobre ’78) sono realizzati dalla colonna brigatista romana. Ma il criminologo Alfredo Paolella viene ucciso, a Napoli (11 ottobre ’78), da un nucleo di Prima Linea [12]. Carlo Alberto dalla Chiesa possiede informazioni sulla organizzazione BR certamente superiori a quelle di qualsiasi altro investigatore dell’antiterrorismo. Tuttavia, egli ancora non conosce molti aspetti della struttura brigatista che emergeranno compiutamente solo a partire dagli anni ’80. Le Brigate Rosse hanno organizzato la propria attività creando i fronti, strutture intermedie tra la Direzione strategica e le colonne. Il fronte di lotta alla controrivoluzione, “la contro”, è il settore che si occupa della analisi delle forze della controrivoluzione: precipuamente, la magistratura, i carabinieri, la polizia, le carceri, i servizi di sicurezza ecc. Ed è proprio al lavoro di questo fronte che si devono i risultati raggiunti dalle BR nell’attacco a strutture e uomini delle istituzioni [13]. Nel 1980, quando ha già lasciato l’incarico di coordinatore della lotta al terrorismo, il generale colma un vuoto contenuto nelle sue note indirizzate al Ministro Rognoni. Aveva accusato pubblici ministeri, giudici istruttori e magistrati di sorveglianza, sempre trascurando i giudici dei Tribunali e delle Corti di Assise. Ora quel vuoto può essere colmato. A Genova, il 3 giugno ’80, la Corte di Assise assolve, con formula piena, tutti gli imputati della indagine iniziata con gli arresti del 17 maggio ’79 e alla quale il generale ha dato ampio risalto nelle relazioni riservate. Carlo Alberto dalla Chiesa, ora comandante la Divisione Interregionale Pastrengo, reagisce in modo veemente e, il 5 giugno ’80, sceglie una sede insolita per attaccare i magistrati genovesi. In una caserma milanese, dinanzi ai reparti schierati per commemorare il 166° anniversario dell’Arma, non usa giri di parole per commentare la sentenza: «Non passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né l’ingiustizia che lo assolve». Le relazioni riservate del ’79 ci restituiscono una immagine inedita del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. L’Ufficio Coordinamento e Cooperazione svolge, senza avere alcuna legittimazione, una attività di monitoraggio e raccolta di informazioni sulle opinioni dei giudici e sulle loro vite. I magistrati contro cui si scaglia il generale non possono essere accusati di aver commesso reati. Sono tuttavia colpevoli di esprimere idee e di esercitare la funzione giudiziaria in maniera dissonante dalla visione, autoritaria, che il generale ha della società e dei mezzi repressivi con i quali attuare il contrasto giudiziario ai fenomeni eversivi. Questa illegittima attività si accompagna alla formulazione, chiaramente impropria, debordante, di vere e proprie proposte reazionarie all’esecutivo in materie (dalla Chiesa, ad esempio, propone di non concedere le aule universitarie per convegni-dibattiti o di dichiarare decaduti gli studenti fuori corso dopo 2-3 anni) che nulla hanno a che fare con il tema della prevenzione-repressione del terrorismo [14]. Il ceto intellettuale rappresenta la insolubile ossessione del generale. Se le vere menti delle BR, come egli ritiene, sono gli intellettuali che provengono dagli atenei, di rango non minore devono essere i fiancheggiatori, ceto intellettuale delle varie professioni della amministrazione pubblica. La storia che emergerà negli anni ‘80/’90 si occuperà di smentire le ipotesi del generale. Le Brigate Rosse non furono mai dirette, palesemente o occultamente, da intellettuali o professori universitari, ma da operai, impiegati, artigiani, studenti, insegnanti che, sempre, costituirono l’ossatura della Direzione strategica, del Comitato esecutivo e delle direzioni delle colonne sino al 1981, anno in cui le BR cessano di esistere come organizzazione unitaria [15]. Le decine e decine di dissociati/collaboratori di giustizia provenienti dalle organizzazioni della lotta armata non smentiscono questa conclusione e, soprattutto, pur avendo fatto arrestare centinaia di persone, non hanno mai accusato membri del CSM, magistrati o figure di medio/alto livello del Ministero di grazia e giustizia. Le idee e le proposte di dalla Chiesa sono, comunque, condivise dai settori moderati della classe politica e viaggiano sulle gambe di alcuni protagonisti della vita parlamentare. Settori consistenti della Democrazia Cristiana ritengono, come il generale, che la magistratura rappresenti il “ventre molle” dello Stato nella lotta alla eversione e, alla fine degli anni ’70, si spingono sin quasi al punto di invocare lo scioglimento di Magistratura democratica. Nel maggio ’77, il deputato democristiano Claudio Pontello ed altri parlamentari, rivolgendo una interrogazione parlamentare al Ministro di grazia e giustizia, affermano «Ciò che desta in noi gravi preoccupazioni è il fatto, più volte ripetutosi, di magistrati che si pongono ai limiti della legge… Penso alla maggioranza degli aderenti alla corrente di “Magistratura Democratica” che, a detta degli stessi magistrati di “Magistratura Indipendente”, vi è da chiedersi se, stante il comportamento tenuto, possano ancora rimanere nell’ordine giudiziario» [16]. Nel gennaio ’80, un gruppo di parlamentari democristiani capeggiato dal senatore Claudio Vitalone, già sostituto procuratore romano, esprime una adesione convinta alle idee di dalla Chiesa. Vitalone presenta al Senato una interpellanza in cui afferma che esiste un documento giudiziario che dimostra un collegamento tra alcuni giudici di Magistratura democratica e gruppi della eversione di sinistra. Sollecita l’avvio di procedimenti penali e disciplinari e chiede di disporre la immediata sospensione di questi magistrati dall’esercizio delle loro funzioni [17]. Alcuni mesi più tardi, a maggio, gli inquirenti arrestano una donna accusata di essere una militante della colonna romana delle BR. È una ragazza di 23 anni, si chiama Alessandra De Luca, e, da qualche mese, lavora come coadiutrice presso la divisione affari penali della Procura Generale. Certo, ha passato informazioni ad alcuni militanti della colonna, ma la sua individuazione costituisce un risultato assai modesto rispetto alle elevate aspettative esposte nelle relazioni riservate del ‘78-79. L’impiegata non somiglia affatto al raffinato intellettuale che, secondo la visione del generale, annidato nello Stato, fornisce informazioni segretissime, indica gli obiettivi da colpire, ispira le azioni più sanguinose, tornando poi nell’ombra, al sicuro negli uffici delle istituzioni [18]. Troppo poco per fare di questa ragazza la “talpa eccellente” che il generale non riuscì mai a trovare. Note [1] Sulla attività politica dell’editore e sulla storia della struttura clandestina creata da Feltrinelli v. Davide Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, DeriveApprodi, 2023. [2] Il 9 maggio ’74, tre detenuti del carcere di Alessandria prendono in ostaggio 17 persone, civili e guardie carcerarie. Si intavolano trattative con i rapitori, condotte anche da magistrati della Procura di Alessandria, ma poi, improvvisamente, il 10 maggio, fanno irruzione nel carcere reparti dei carabinieri comandati dal generale dalla Chiesa. Il bilancio drammatico del blitz è di 4 ostaggi morti e 22 feriti. Durante l’operazione vengono uccisi anche due dei tre detenuti rivoltosi. Il Procuratore Generale di Torino Carlo Reviglio della Venaria avoca l’indagine, togliendola alla Procura di Alessandria. Così il magistrato, che evidentemente ha condiviso con il generale dalla Chiesa la decisione di intervenire militarmente, commenta l’operazione: «Non si poteva ammettere che lo Stato fosse ulteriormente calpestato perché casi del genere si sarebbero ripetuti all’infinito». Ancora oggi, a distanza di 50 anni da quegli avvenimenti, passati alla storia come la “strage di Alessandria”, permangono molti dubbi sulla versione ufficiale fornita sulla operazione e cioè che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dai detenuti che li avevano sequestrati. [3] I reati contestati al giudice De Vincenzo sono quelli di rivelazione di segreto di ufficio, abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio. L’indagine – iniziata nel marzo ’75 e condotta dalla Procura Generale di Torino diretta da Carlo Reviglio della Venaria – si chiude, il 26 marzo ’76, allorquando il giudice istruttore emette una sentenza con cui proscioglie il magistrato. Prende avvio allora il procedimento disciplinare che si conclude, il 10 marzo ’78, innanzi alla Sezione Disciplinare del Csm, con una sentenza che esclude tutti gli addebiti contestati a De Vincenzo. Nel ’79, Ciro De Vincenzo lascia la magistratura per divenire notaio. [4] Le due relazioni riservate possono essere consultate accedendo al Portale Storico della Camera dei deputati>Le inchieste>Rapimento e morte di Aldo Moro>Documenti versati all’Archivio storico disponibili on line. In particolare, si tratta dei documenti n. 14/20 e 14/21 del 3 dicembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Sviluppate in oltre 250 pagine, insieme a corposi allegati, le relazioni analizzano, essenzialmente, le formazioni Brigate Rosse, Prima Linea, Autonomia operaia organizzata e Azione Rivoluzionaria. Il generale coordina tutte le attività riguardanti il terrorismo italiano, ma le note contengono una vistosa omissione. Solo quattro pagine della seconda relazione sono dedicate ai Nuclei Armati Rivoluzionari ed alla eversione neofascista. [5] Sulla operazione padovana v. Roberto Colozza, L’affaire 7 aprile. Un caso giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale, Einaudi Storia, 2023. Vedi, inoltre, l’intervento pronunciato da Giovanni Palombarini, giudice istruttore nella indagine condotta dal PM Pietro Calogero, su Il processo 7 aprile e il nodo del garantismo penale, nel corso della manifestazione per i 60 anni di Magistratura Democratica che si è svolta, a Roma, il 9 e 10 novembre 2024. Al momento, l’intervento di Palombarini, di imminente pubblicazione sul numero 4/2024 della rivista trimestrale Questione Giustizia, e anticipato in Questione giustizia online (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-processo-7-aprile-e-il-nodo-del-garantismo-penale) può essere ascoltato su Radio Radicale. [6] Sulla indagine e sul processo genovesi v. dell’autore Genova 79. I sovversivi, i brigatisti, i testimoni, pubblicato su Questione Giustizia, 17 ottobre 2023 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/genova-79). [7] Il PM milanese Emilio Alessandrini viene ucciso a Milano il 21 gennaio ’79. Il 7 aprile ’79 avvengono gli arresti padovani di Toni Negri ed altri. Il 14 aprile ’79, il giornalista de l’Unità Ibio Paolucci, nell’articolo dal titolo Alessandrini indicò in Negri uno dei telefonisti delle BR, rivela che, nell’aprile dell’anno precedente, il magistrato milanese si era incontrato, nel corso di una cena, con il docente padovano, incontro avvenuto su richiesta di Negri. Quando, in seguito, Alessandrini aveva ascoltato il colloquio telefonico avvenuto, il 30 aprile ’78, tra un brigatista e la moglie di Moro, il giudice milanese si era convinto che la voce del brigatista era quella di Toni Negri. Nelle giornate successive all’articolo di Paolucci salta fuori che, effettivamente, durante i giorni del sequestro Moro, si era svolta una cena a casa del sostituto procuratore milanese Antonio Bevere, aderente a Magistratura Democratica, alla quale avevano partecipato Alessandrini, Toni Negri e la giornalista de Il Manifesto Tiziana Maiolo. La Procura milanese avvia una indagine. La Maiolo e il compagno, il giornalista Stefano Menenti, vengono arrestati per il reato di falsa testimonianza perché sostengono di essere stati presenti alla cena, circostanza questa contraddetta, inizialmente, dalla moglie del giudice assassinato. Nel giro di pochi giorni si accerta che Maiolo e Menenti hanno raccontato la verità e i due giornalisti vengono scarcerati. L’episodio diventa l’occasione, anche attraverso una ossessiva campagna di stampa, per ipotizzare che, con la complicità di Bevere, Toni Negri abbia voluto “studiare” da vicino la vittima Alessandrini prima di farlo uccidere. Alla fine, l’inchiesta penale sulla cena a casa Bevere non produrrà risultati mentre emergerà processualmente che Emilio Alessandrini è stato ucciso da un nucleo di Prima Linea – composto, fra gli altri, da Sergio Segio e Marco Donat-Cattin – e che Toni Negri non ha svolto alcun ruolo nella ideazione ed organizzazione dell’agguato. Le investigazioni sulla vicenda Moro dimostreranno poi, spazzando via ogni dietrologia, che il brigatista che telefonò a casa Moro la sera del 30 aprile ’78 («solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore di Zaccagnini può modificare la situazione») era Mario Moretti. [8] Nel capitolo dedicato al mondo forense, dalla Chiesa dedica molte pagine agli avvocati di “Soccorso Rosso“ Edoardo Di Giovanni, Giovanna Lombardi, Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali che agiscono al fine di «offrire un supporto ideologico ed operativo alle organizzazioni eversive». L’avvocato Sergio Spazzali, processato insieme ai membri della colonna torinese BR accusati da Patrizio Peci, viene assolto dalla Corte di Assise di Torino il 17 giugno ’81, ma, in appello, la sentenza viene ribaltata e la condanna diventa definitiva quando il legale si è già rifugiato all’estero. Gli avvocati Edoardo Di Giovanni e Giovanna Lombardi, imputati per istigazione alla commissione di delitti di eversione, sono assolti con sentenza della Corte di Assise di Roma del 5 marzo 1981. L’avvocato Edoardo Arnaldi si toglie la vita nella sua abitazione di Genova, il 19 aprile ’80, mentre i carabinieri gli stanno notificando un mandato di cattura emesso dall’ufficio istruzione torinese sulla base delle accuse formulate da Peci. [9] Nella consiliatura 1976-1981, Magistratura Democratica è rappresentata nel CSM da Marco Ramat (uno dei fondatori del gruppo, segretario generale di MD dal ’72 al ‘76) e dal magistrato romano Michele Coiro. [10] La risoluzione della Direzione strategica BR del febbraio ’78, che avvia la campagna di primavera, è un corposo e lunghissimo documento di analisi politica, anche delle istituzioni e della magistratura. Analisi politica, dunque, – non già documento che contiene informazioni riservate provenienti da ambienti istituzionali – nel quale le BR sostengono che il Consiglio Superiore della Magistratura, sulla scorta di un’azione congiunta del Ministro Bonifacio e del Vicepresidente Vittorio Bachelet, è diventato «il principale organo di controllo tra esecutivo e giudiziario». Sicuramente, il generale dalla Chiesa avrà prestato particolare attenzione a questo fugace passaggio contenuto nella risoluzione: «è esemplare il provvedimento con cui il Csm esautora dalle loro funzioni alcuni giudici di sorveglianza, rei di aver applicato alcune norme della riforma penitenziaria in una chiave opposta a quella voluta dall’esecutivo. Ancor più pesante è l’iniziativa del vicepresidente del Csm Bachelet che, su direttiva di Bonifacio e del governo, incarica i procuratori generali di indagare sulle dichiarazioni politiche di appartenenti a “Magistratura Democratica” accusandoli di affermazioni in contrasto con l’ordine democratico». Una approfondita analisi della risoluzione è contenuta nel libro di Marco Clementi Storia delle Brigate Rosse, Odradek, 2007 [11] La tesi del generale dalla Chiesa sarà smentita da Antonio Savasta, membro della direzione della colonna romana BR e uno dei componenti del nucleo che uccide il Tenente Colonnello Antonio Varisco, comandante del Reparto Carabinieri Servizi Magistratura, il 13 luglio ’79, a Roma. Divenuto collaboratore di giustizia, ricostruisce dettagliatamente il delitto Varisco nel corso di una udienza che si svolge, il 28 aprile ’82, davanti la Corte di Assise di Roma. Senza aver fatto ricorso a talpe, le BR, sulla scorta di quello che accadeva nel corso dei processi che si svolgevano nell’aula bunker del palazzo di giustizia romano, avevano individuato in Varisco (responsabile delle “traduzioni e scorte”) uno dei principali responsabili di una linea repressiva che si manifestava non solo all’interno del circuito delle carceri speciali, ma anche in occasione dei dibattimenti, direttamente contro gli imputati, impedendo loro, ad esempio, di leggere comunicati e di esprimere le proprie posizioni durante le udienze processuali. [12] Le sentenze definitive per gli omicidi dei magistrati Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, uccisi dalle Brigate Rosse, accerteranno le responsabilità della colonna romana e stabiliranno che l’inchiesta e, successivamente, gli agguati furono condotti dai militanti del fronte della controrivoluzione. È utile segnalare una vicenda, molto poco conosciuta, che avviene tra l’ottobre e il dicembre ’79. I carabinieri del generale dalla Chiesa effettuano una operazione contro il comitato marchigiano delle BR. Una militante detenuta, Sabrina Pellegrini, rivela di essere stata la telefonista della rivendicazione del delitto Tartaglione ed accusa un’altra militante, Lucia Reggiani, di aver partecipato all’omicidio. La Reggiani, assistente sociale anconetana, dopo quello ricevuto per il reato di partecipazione a banda armata, viene subito raggiunta da un mandato di cattura per il delitto Tartaglione e la stampa nazionale, insistentemente, accredita l’ipotesi che sia proprio lei la talpa delle BR all’interno del Ministero di grazia e giustizia, anche se la donna, in realtà, non ha mai lavorato per il ministero. Nel giro di pochi giorni, la Pellegrini ritratta e dice di essersi inventata tutto. Lucia Reggiani non è la talpa a lungo cercata dagli inquirenti e viene scagionata da ogni accusa riguardante il delitto Tartaglione. [13] Se il generale ritiene che le BR possano agire solo grazie a talpe annidate nelle istituzioni, in realtà, le notevoli capacità della organizzazione derivano da una struttura interna che svolge un lavoro, capillare e costante, di analisi e studio di organismi e personalità delle istituzioni. Per la magistratura, come per altri settori, si parte dalla raccolta, dal basso, di dati su convegni, singole figure di magistrati, posizioni ed opinioni espresse pubblicamente, specifica natura della attività giudiziaria svolta, ricorrendo a notizie giornalistiche nonché allo studio di riviste specializzate. Vengono redatte schede che vengono conservate dalla direzione di colonna e dal fronte nazionale di lotta alla controrivoluzione. Il fronte nazionale elabora un documento che offre alla discussione della organizzazione. Individuato un particolare obiettivo, l’inchiesta sul campo è affidata alla colonna che la porta a termine mediante una vera e propria indagine – fatta essenzialmente attraverso pedinamenti – sulle abitudini di vita e sui movimenti della persona da colpire. [14] Sul “programma politico” del generale dalla Chiesa che invoca la adozione di misure restrittive nel campo civile e sociale v. Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elena Santalena, Brigate Rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, DeriveApprodi, 2017. [15] Nello stesso periodo in cui il generale sviluppa la propria tesi sul ceto intellettuale che dirige la lotta armata, le Brigate Rosse convocano la propria Direzione strategica che si riunisce, nel dicembre ’79, a via Fracchia a Genova. Come è noto, la base sarà presto individuata grazie alle informazioni fornite a dalla Chiesa da Patrizio Peci. Ebbene, alla riunione genovese partecipano 15 persone. Di queste, nove provengono dal mondo della fabbrica e le restanti sei da altri settori del mondo del lavoro. [16] L’interrogazione a firma Pontello ed altri, riguardante la vicenda bolognese del capitano Nevio Monaco, viene discussa nella seduta della Camera dei Deputati del 20 maggio 1977. [17] L’interpellanza può essere consultata accedendo al resoconto stenografico della seduta del Senato della Repubblica dell’11 gennaio 1980. Vitalone accusa esplicitamente i giudici di MD Franco Marrone, Francesco Misiani, Gabriele Cerminara, Ernesto Rossi, Luigi Saraceni e Aldo Vittozzi i cui nomi sono stati trovati in appunti sequestrati ad un membro di Potere Operaio. Vitalone, tuttavia, non segnala che quel documento non è recente, ma è stato rinvenuto molti anni prima. Nasce una indagine penale che si estende ai magistrati Michele Coiro, Gianfranco Viglietta, Filippo Paone e Gaetano Dragotto, i cui nomi/numeri di telefono sono rinvenuti durante una perquisizione, del 22 gennaio 1980, presso l’emittente radiofonica romana Onda Rossa, vicina all’area della Autonomia. Alla fine, nel dicembre ’80, il giudice istruttore di Firenze dichiara non luogo a procedere nei confronti di tutti i magistrati perché non hanno mai fatto parte di alcuna associazione sovversiva. [18] Sulla vicenda di Alessandra De Luca v. la sentenza emessa, il 14 marzo 1985, dalla Corte di Assise di Appello di Roma, Pres. De Nictolis, nel processo Moro uno/bis. L’articolo è pubblicato anche nel sito di Questione giustizia > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
riflessioni
misure repressive
anni '70
Franco Piperno, una biografia del Novecento
Franco Piperno protagonista del “lungo Sessantotto” italiano si è spento lunedi 13 gennaio  a Cosenza a 82 anni mentre la destra postfascista tenta di ribaltare gli anni Settanta nel loro contrario. di Ida Dominijanni da Centro Riforma dello Stato Ero andata a trovare Franco Piperno nella sua casa di Cosenza i primi di ottobre, con la mia amica Isa. C’erano con lui Marta, la sua compagna, e Enzo e Walter, i suoi fratelli; Elisabetta e altri amici stretti si alternavano a fargli visita. Stava male già allora, resisteva poco seduto, mangiava di malavoglia e parlava a fatica. Ma era felice di vedermi e di chiedermi notizie degli amici comuni, uno per uno: “Che fanno?”, sperando di sentirmi rispondere che qualcosa di politicamente sensato siamo ancora in grado di inventarcelo. Mentre lui riposava siamo rimasti lì a lungo a chiacchierare di tutto, compreso l’impatto del lavoro di cura nelle nostre vite, non previsto dalla nostra giovanile baldanza e così carico di spine ma anche di doni. È stata una gran bella giornata e sebbene immalinconite per Franco, Isa e io siamo tornate a casa felici di quel bagno di amicizia, intesa e complicità che si ricrea all’istante nelle famiglie elettive e allargate nate nei pressi del Sessantotto e seguenti. E nel nostro caso anche prima, perché il carisma di Franco aleggiava sulla sinistra extraparlamentare di Catanzaro già quando io ero bambina, Enzo mi portava a raccogliere funghi in Sila già prima di diventare un leader di Lotta Continua, Walter è stato un mio amico adorato negli anni del liceo, Marta, in anni più recenti, una fantastica compagna di scorribande newyorkesi. Nel corso del tempo ci siamo persi e ritrovati decine di volte, ogni volta come se ci fossimo visti la sera prima. Lo racconto non solo perché il ricordo di quell’ultimo incontro allevia il dispiacere della perdita, ma soprattutto perché quando si parla degli anni Settanta nel linguaggio riduttivo dei media l’eredità affettiva di quella stagione non entra mai nel conto. E invece è il suo frutto migliore. Fra le altre cose, Franco è stato un grande e incessante costruttore di relazioni e di comunità. Le costruiva a modo suo, per irruzioni e sparizioni, inattese vicinanze e distratte lontananze, ma una volta che entravi nella sua orbita affettiva non ne uscivi più. Era parte della sua idea di politica: la comunità dei compagni e degli amici prima di tutto il resto. E non solo quella dei compagni storici. Una volta sono capitata per lavoro a Montreal, e non c’era nessuno fra quelli e quelle che ho incontrato che non avesse avuto a che fare con lui negli anni del suo esilio. Tornato in Italia, ha ricominciato con gli studenti dell’Unical, con i ragazzi di Radio Ciroma, con i militanti delle prime lotte a fianco dei Rom e dei migranti, e dopo i fatti di Genova 2001 con gli amici di Esc a Roma e di Uninomade in giro per l’Italia. Non la smetteva mai e gli riusciva sempre, perché maneggiava molto bene l’arma della seduzione, che si trattasse di donne, uomini, dei lupi che ha allevato a lungo con amore, delle folle convocate a decifrare sotto la sua guida il cielo stellato nelle notti d’estate. Andrea Colombo ha scritto sul manifesto del 15 gennaio un pezzo intitolato La rivoluzione alla luce del sole che fa giustizia dei tentativi (di destra e di sinistra, vedi l’identico titolo in morte del “cattivo maestro” sul Giornale e su la Repubblica) di riportare la vita del leader di Potere operaio alla narrativa mainstream degli anni Settanta come anni di piombo tuttora carichi di misteri e di verità nascoste. Ma, scrive Andrea, “la sua idea di rivoluzione non aveva nulla di misterioso, segreto, cospiratorio. Era esplicita, ostentata, gridata alla luce del sole, come quando, in tempi nei quali i rapporti di forza rendevano normale dire quel che oggi nessuno oserebbe sussurrare, parlò apertamente di insurrezione necessaria e imminente”. Esplicito e privo di reticenza è sempre stato anche il racconto ex post degli anni Settanta – fondazione e scioglimento di Potere operaio, rapporti e non rapporti fra Potere operaio, Autonomia e BR, uso della violenza e della lotta armata, caso Moro, processo 7 aprile – che Piperno ha fornito più volte e in più sedi, pubbliche e ufficiali. Mi era capitato pochi mesi di fa di ritrovare per caso e di condividere su Facebook un suo faccia a faccia con Giovanni Minoli per “Mixer” del 1983: consiglio a chi nei Settanta non c’era di guardarlo per farsi un’idea di un’altra Italia, di un’altra stoffa di militanti, di un altro giornalismo rispetto a quello che oggi ci passa il convento. E a chi in questi giorni continua a reclamare sui social presunte verità nascoste di Piperno sul sequestro Moro e sul suo tentativo di sondare, su richiesta del PSI craxiano, la possibilità di una trattativa con le BR, consiglio di leggere il testo della sua audizione del 18 maggio 2000 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo. La verità è che in Italia più passa il tempo più la narrativa mainstream della nebbia che ancora avvolgerebbe gli anni Settanta serve non per scoprire ciò che non si sa, ma per non fare i conti con ciò che si sa. All’epoca, peraltro, io non vivevo a Roma, non simpatizzavo né per Potere operaio né per Autonomia e da femminista contestavo vibratamente l’uso politico della violenza come risvolto dell’ordine patriarcale e di una virilità malintesa. Delle vicende degli anni Settanta ho discusso con Franco in anni più recenti, quando lui, influenzato dall’esperienza del comunitarismo nordamericano e calato nell’esperienza dell’amministrazione di Cosenza di Giacomo Mancini e di Eva Catizone, parlava più di autogoverno, autogestione, municipalismo e genius loci che di strategie insurrezionali e rivoluzionarie. Di quelle conversazioni è impossibile restituire la densità, che faceva tutt’uno con la densità del personaggio e con la sua ineguagliabile eloquenza. Colpivano però l’ampiezza della prospettiva unita all’analisi minuta e dettagliata dei fatti, l’intreccio fra vissuto personale e storia e fra razionalità e sensorialità, le cicatrici di ferite mai rimarginate come il rogo di Primavalle (che nel 1973 lo risolse a sciogliere Potere operaio, non perché l’organizzazione fosse coinvolta in quei fatti ma proprio perché non essendolo non era riuscita a evitarli) e ovviamente il processo 7 aprile e relativo carcere preventivo (una cinquantina di capi d’imputazione tutti caduti per assoluzione, salvo quello, giuridicamente controverso, di partecipazione ad associazione sovversiva). Come in altri casi, anche nel caso di Piperno l’etichetta di “cattivo maestro” tanto abusata nel dibattito pubblico italiano serve in realtà a rinchiudere nella condanna morale e nel minoritarismo politico percorsi politici e intellettuali che andrebbero restituiti alla loro emblematicità del “lungo Sessantotto” italiano e del Novecento non solo italiano. Aldilà della leadership di Potere operaio, Franco Piperno è stato un politico di spessore, contrassegnato da un intreccio di visionarietà e realismo che forse, per restare nel campo dell’operaismo in cui si era formato dopo la precoce e traumatica espulsione dal Pci per “deviazionismo” nel 1967, lo avvicinava malgrado le apparenze più a Mario Tronti che a Toni Negri. Ed è stato un intellettuale di spessore, contrassegnato da un intreccio di cultura scientifica e umanistica che lo rendeva capace di continui spiazzamenti dal conformismo, anche e soprattutto di sinistra. Quando parlava di fisica entrava in un’altra dimensione, inaccessibile ai più, ma era proprio, o anche, la “fisica della materia” a preservarlo dalle derive dogmatiche del materialismo marxista. Mentre vedevano la luce tre libri (Elogio dello spirito pubblico meridionale, Roma 1997; Lo spettacolo cosmico, Roma 2007; Sessantotto. L’anno che ritorna, Milano 2008), è rimasto a lungo nel cassetto come una sorta di atto mancato un libro sul tempo, perorazione fisico-filosofica a favore del “qui e ora” contro il gradualismo e della ciclicità ritornante contro la linea retta del progressismo. Ciclico, si sa, è anche il moto rotatorio della rivoluzione. E ciclica è stata anche la dimensione della vita di Franco, dove le stesse cose ritornavano sempre. A un certo punto però anche il tempo ciclico si interrompe. Colpisce, o forse va preso come un segno di kairós, che il suo si sia interrotto proprio mentre la combriccola nera che ci governa sta facendo di tutto per ribaltare il Sessantotto e gli anni Settanta nel loro contrario e trascinarci tutti e tutte dalla parte sbagliata della storia. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
riflessioni
anni '70
Archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti
«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Paolo Persichetti di Paolo Persichetti da Insorgenze Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte. Comportamenti privi di rilevanza penale Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio». Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione. Reati prescritti
 Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione». Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era. Le ragioni dell’inchiesta Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica? Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimmirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare. Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani. Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta. Cosa era successo? L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza» delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi». Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine. La velenosa insinuazione Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti! Un grave precedente Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo. Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro. Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno. La decisione finale spetta al Gip
 Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di prevenzione. > Se fare storia è un reato > Lo storico Marco Clementi: «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è > un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70» > La scongiura del discorso. Il caso Persichetti > Kafka e l’archivio di Persichetti > il passato continua a chiedere il conto a Paolo Persichetti > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Eugenio Albamonte
Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente Milei
Arriva un altro stop dall’Argentina dove la sezione istruttoria della Cassazione la magistratura più alta ha ribadito che Leonardo Bertulazzi è un rifugiato politico. A questo punto difficilmente sarà estradato nonostante le pressioni sicuramente esercitate da Giorgia Meloni nel recente incontro con Milei a Buenos Aires. di Paolo Persichetti da Insorgenze Con una decisione dai contenuti durissimi la corte di Cassazione argentina ha censurato l’operato del governo Milei che aveva arbitrariamente revocato lo statuto di rifugiato politico a Leonardo Bertulazzi, l’ex Br della colonna genovese riparato da quattro decenni in America Latina e da 20 anni residente a Buenos Aires. I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere. L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione. Un arresto arbitrario e una revoca illegittima I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche». I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei correti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale governo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui MIlei si rivendica erede. Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo step, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia. Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda. > Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo > Bertulazzi in Argentina > La caccia ai sovversivi, così la destra insegue i fantasmi > Lo accusano di aver partecipato alla logistica del sequestro Moro, ma era già > in carcere > L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex > brigatista Leonardo Bertulazzi       Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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