Tag - anni '70

Processo Spiotta, versioni contrastanti dei carabinieri sulla morte di Mara Cagol
Carabinieri in difficoltà di fronte alla versione ufficiale sulla morte della Cagol, tanti non ricordo, dinieghi e versioni contrastanti. Le difese ribaltano il processo per i fatti della Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze La quarta udienza del nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria per la sparatoria nella quale morì il 5 giugno del 1975 Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate rosse, e rimase mortalmente ferito l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, ha messo in luce profonde contraddizioni e smentite reciproche tra i carabinieri coinvolti. Quattro ex membri del nucleo speciale anti-Br, istituito dal generale Dalla Chiesa nel maggio del 1974, e due carabinieri in congedo delle sezioni territoriali di Canelli e Acqui Terme hanno deposto dando vita a un intreccio di versioni contrastanti, dinieghi imbarazzanti e giravolte. Si è assistito a un vero e proprio “carabinieri contro carabinieri”, senza distinzioni di grado, anzianità o competenze. Il servizio del Tgr Rainews Piemonte https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2025/05/le-drammatiche-testimonianze-di-chi-cera-sfilano-in-aula–135b6a06-3f9f-439a-a1a2-f66cc3e36b8.html Le critiche del generale Sechi L’allora braccio destro del generale Dalla Chiesa ha apertamente criticato l’operato della tenenza di Acqui Terme. Le sue censure si sono concentrate in particolare sull’operato del maresciallo Rocca, il quale, secondo la versione consolidatasi nelle carte giudiziarie, dopo aver racimolato tre uomini si sarebbe lanciato in una azzardata perlustrazione tra ruderi e cascine della zona. Sortita che culminò sul cortile della cascina Spiotta, quando la pattuglia insospettita dalla presenza di due auto e da rumori provenienti all’interno bussò alla porta, innescando (ancora oggi le versioni su su chi abbia esploso i primi colpi sono contrastanti) il sanguinoso conflitto a fuoco. 
Sechi ha spiegato che il nucleo speciale avrebbe agito in tutt’altro modo: accerchiando la zona, controllandola a distanza con uomini camuffati e apparecchi fotografici per identificare gli occupanti, seguirli e catturarli quando sarebbero usciti singolarmente. Solo in seguito, e con tutte le precauzioni del caso, si sarebbe proceduto a un’eventuale irruzione: precauzioni che sarebbero mancate nella “sconsiderata sortita” di Rocca. Il generale Sechi ha negato di aver avuto informazioni, il giorno prima della sparatoria, riguardo a irregolarità nei documenti d’identità usati per l’acquisto della cascina Spiotta. Ha anche negato che qualcuno dei suoi uomini si fosse recato a Canelli, luogo del rapimento di Vallarino Gancia da parte delle Br. Incalzato dalle difese e messo di fronte all’ispezione giudiziale del 20 giugno (con la sua firma in calce insieme a quella del pm titolare dell’indagine) in cui fu trovato un bossolo dell’arma dei carabinieri accanto al corpo della Cagol, documento richiamato dal legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani, Sechi ha detto di non ricordare l’episodio e di non sapere il motivo di quelle ricerche a distanza di 15 giorni: «doveTe chiederlo al pm, non a me» – ha replicato con fare indispettito. “Non ricordo”, dinieghi imbarazzanti e versioni contrapposte Un atteggiamento increscioso quella tenuto dal generale in congedo che tra “non ricordo” e dinieghi aggressivi ha opposto una difesa a riccio. A supportare questa posizione è intervenuta la deposizione del colonnello Seno, suo collega nel nucleo speciale. Sebbene abbia ammesso (smentendo quanto aveva appena detto Sechi) di essersi portato nella caserma di Canelli nel tardo pomeriggio del 4 giugno, dopo l’arresto di Massimo Maraschi sospettato di essere coinvolto nel rapimento, ha ostinatamente sconfessato le affermazioni del suo sottoposto dell’epoca, il vicebrigadiere Bosso. Quest’ultimo, invece, ha ricostruito in modo dettagliato la sequenza logica dei loro movimenti sul posto: l’arrivo nella caserma di Canelli per interrogare Maraschi già all’attenzione del nucleo speciale, il sopraggiungere della notizia che nella zona di Acqui Terme era stato rinvenuto il furgone abbandonato dai rapitori di Gancia nel primo tratto di fuga, lo spostamento nella caserma di Acqui dove apprese di una indagine catastale di circa 15 giorni prima che aveva rilevato la natura fittizia dei documenti d’identità usati per l’acquisto della Spiotta. Si trattava di una tecnica d’indagine adottata dagli uomini di Dalla Chiesa per smantellare la logistica brigatista. La cerimonia che interruppe l’indagine Bosso ha descritto con nitidezza la cartellina gialla dove erano riposti i fogli dell’indagine. Ha poi spiegato che, ricevuta l’informazione, con un carabiniere del posto (Lucio Prati) si recò subito a effettuare una perlustrazione a distanza della Spiotta, osservandola da un’altra cascina a circa 200 metri, per poi rientrare a Canelli in tarda serata, interrogare Maraschi “fino a estenuarlo” e tornare a Torino nella notte. Seno ha negato che tutto ciò sia avvenuto, sostenendo che Bosso si fosse confuso con il giorno successivo. Tuttavia, di fronte alla contestazione dell’avvocato di Moretti, Francesco Romeo, riguardo l’inutilità di un sopralluogo la sera successiva, a sparatoria avvenuta e morti sul terreno, Seno è rimasto in silenzio. A questo punto è emersa un ulteriore sconcertante circostanza: secondo Bosso, dal comando centrale di Torino sarebbe giunta l’indicazione di sospendere l’indagine e rientrare, perché il mattino successivo era prevista una cerimonia per la festa dell’Arma, durante la quale diversi membri del nucleo (che avevano partecipato all’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974) dovevano essere premiati. L’attività operativa sarebbe ripresa nel pomeriggio del 5. Questa circostanza, concordata tra il maresciallo Rocca e il colonnello Seno secondo Bosso, è stata negata da Seno. Il confronto negato e i punti fermi emersi dall’udienza I pubblici ministeri, che non hanno lesinato domande per appurare i fatti, hanno chiesto un confronto tra Seno e Bosso, ritenendo che uno dei due stesse mentendo o non ricordando correttamente. La corte, tuttavia, ha respinto la richiesta, ritenendola superflua. Una decisione che non aiuta la chiarezza ma sembra voler tutelare l’apparato. 
La mattina successiva è avvenuto il fatto drammatico con l’improvvida decisione di Rocca che, all’insaputa del Nucleo, ha deciso di partire con una sua pattuglia alla volta della Spiotta per condurre un’ispezione culminata nello scontro a fuoco. I membri del nucleo speciale, secondo le testimonianze in aula di Bosso e Pedini Boni, altro ex carabiniere del nucleo speciale, sarebbero giunti sul posto solo nel primo pomeriggio, a disastro avvenuto. Le testimonianze non hanno chiarito l’esistenza di una scala gerarchica tra nucleo speciale e sezioni territoriali in caso di indagini per terrorismo, lasciando irrisolto chi dovesse prendere in mano le operazioni e stabilire tempi e modi dell’inchiesta. Il capitano Aragno (caserma di Canelli) e il vicebrigadiere Villani (polizia giudiziaria della procura di Acqui) hanno risposto che le indagini erano state subito prese in carico dal nucleo speciale, alimentando un infinito “scaricabarile”. Nonostante ciò, l’udienza ha fissato dei punti fermi importanti: si è compreso che il vero arcano della vicenda ruota attorno alle circostanze dell’uccisione di Margherita Cagol. Le dichiarazioni del carabiniere Villani sulle perplessità del medico che condusse l’autopsia riguardo alla versione ufficiale della sua morte, i dubbi e le domande poste all’appuntato Barberis (che disse di averle sparato a distanza mentre evitava la Srcm lanciata da Azzolini) e l’incredulità degli altri colleghi rispetto a questo racconto, hanno ulteriormente incrinato la versione data per vera sulla sua morte. Chi è dalla parte della verità? I punti oscuri, le reticenze, i silenzi, le indagini carenti (i bossoli esplosi dai carabinieri scomparsi e le loro armi mai periziate), e il silenziamento della vicenda, inducono a pensare che l’atteggiamento tenuto dai diversi corpi dell’Arma sia stata la diretta conseguenza delle modalità con cui venne uccisa la Cagol. Con le sue dichiarazioni il brigatista Azzolini ha riempito uno dei tasselli mancanti di quella giornata, compiendo un passo chiarificatore verso la verità. A distanza di 50 anni i carabinieri sollevano ancora cortine fumogene, fuggendo le loro responsabilità. A cosa serve questo processo, a comminare i soliti ergastoli ai brigatisti, colpevoli a priori, o a cercare la verità fino in fondo sull’accaduto? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
brigate rosse
Francesco Romeo
lotta armata
anni '70
Prove fatte sparire per coprire la verità sull’omicidio di Mara Cagol
Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso di Paolo Persichetti da Insorgenze Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere» di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito scomparso dall’indagine. La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto meno conosciute ed applicate». I bossoli scomparsi Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso. Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone. In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…) Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era sentito». Un vuoto di mezz’ora
 Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo? Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad ora non hanno ricostruito questi momenti. Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili. L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi. Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra». Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per giunta in un’area ispezionabile. Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma sembra un po’ tardi per lamentarsene). La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il vero arcano del nuovo processo in corso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
brigate rosse
anni 70
lotta armata
anni '70
Processo Spiotta, riappare il bossolo dei carabinieri che prova l’esecuzione di Mara Cagol
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta antistante la cascina. di Paolo Persichetti da Insorgenze L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con una improvvida iniziativa che terminò in tragedia. La nuova perlustrazione del 20 giugno Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975, ovvero 15 giorni la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente. Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali? I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via. L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato. Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli. Parlare di una indagine lacunosa è dire poco. Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
 Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. E’ in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché? Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa. Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate in aria in segno di resa. Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol. Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata accanto allo sportello completamente scarica. Il duello con l’appuntato D’Alfonso Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza ravvicinata: nell’ordine di pochi metri». Chi ha ucciso Mara Cagol? Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis, D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita. Fantasmi come il proiettile scomparso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
brigate rosse
anni 70
lotta armata
anni '70
Il silenzio di Sabina
La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici, da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni di Roberta Cospito da Carmilla Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza. La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene (de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni, formalità e rispetto per i più elementari diritti umani. Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky. Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori. Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore – sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di quel periodo. Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri. Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale, perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo, è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi, con le mani pulite. Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci – le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità. Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si può prospettare a chi ha vissuto “al limite”? Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni. In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati, emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di “carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero. Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”. Il silenzio di Sabina  invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane: “Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue parole”. Barilli riporta un’osservazione di  Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
recensioni
anni '70
Processo Spiotta, la storia fa paura alla pubblica accusa e alle parti civili
Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà nei giorni successivi. Processo ribaltato Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili». In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua» e «oscura». La storia non deve entrare in aula Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte. Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso. Un pm senza storia Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna, inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada. Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”». Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani. Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore giudiziario. Il consulente non verrà ascoltato Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra storia ma soprattutto una altro processo. da insorgenze.net > “Mara gridava ‘Non sparate’”     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
Uncategorized
brigate rosse
Francesco Romeo
anni 70
La Cassazione argentina: «Bertulazzi è un rifugiato»
Per la seconda volta la Cassazione federale dell’Argentina ha ribadito che l’ex Br Leonardo Bertulazzi, attualmente ai domiciliari con un bracciale elettronico, deve essere liberato perché non ha perso lo status di rifugiato politico. L’ultima parola spetta di nuovo al primo grado di Mario di Vito da il manifesto Per la seconda volta la Cassazione federale dell’Argentina ha ribadito che l’ex Br Leonardo Bertulazzi, attualmente ai domiciliari con un bracciale elettronico, deve essere liberato perché non ha perso lo status di rifugiato politico. Adesso la palla torna ai giudici di prima istanza, che dovranno rispondere alla richiesta di scarcerazione avanzata dai legali del 73enne italiano tenendo conto di quanto evidenziato dalla massima autorità giuridica del paese. Il rimpallo va avanti dallo scorso agosto, quando lo status di rifugiato politico ottenuto nel 2002 da Bertulazzi era stato revocato ed erano scattati gli arresti perché su di lui pende una richiesta di estradizione dall’Italia, dove deve scontare una pena a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e banda armata. Già alla fine di novembre la Cassazione aveva evidenziato che, essendoci un ricorso pendente davanti al Conare (il Consiglio nazionale per i rifugiati), non si può ancora dare alcun consenso all’estradizione, ma il primo grado aveva lo stesso detto no alla liberazione. Su tutto questo pende una riforma varata dal presidente Javier Milei lo scorso ottobre, che prevede la revoca dell’asilo a chi è accusato di terrorismo. Il caso di Bertulazzi, però, è in discussione da prima e quindi la norma non dovrebbe riguardarlo. Almeno in linea teorica, perché il Conare non si è ancora espresso e non ci sono tempi certi su quando lo farà. Parallelamente corre anche il ricorso sull’estradizione: la difesa dell’italiano ha tempo fino al primo di aprile per presentarlo alla Cassazione. Tre settimane fa, il tribunale di primo grado aveva detto sì alla richiesta italiana soprattutto sulla base del fatto che il pm di Genova Enrico Zucca, il 9 settembre scorso, ha fatto arrivare a Buenos Aires una lettera in cui afferma che non si opporrà nel caso in cui Bertulazzi chiedesse un nuovo processo. Il dettaglio è decisivo: la giustizia argentina non riconosce i processi che si sono svolti in contumacia e questa assicurazione avrebbe persuaso i giudici argentini a dare il loro assenso al rimpatrio dell’ex Br fuggito dall’Italia nel 1980, prima cioè che le sue vicende arrivassero in tribunale. Il problema è che, al netto della posizione che prenderà la procura, la decisione finale sul nuovo giudizio spetterà a un giudice. E su questo non possono esistere garanzie. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
anni '70
“Mara gridava ‘Non sparate’”
L’ex brigatista, oggi ottantaduenne,  Lauro Azzolini a sorpresa in aula della corte di appello di Alessandria per il processo per i fatti accaduti a Cascina Spiotta 50 anni fà. «Io c’ero fu l’inferno. Curcio e Moretti non sapevano. Mara Cagol aveva le mani in alto e urlava ‘non sparate’» “Io c’ero quel giorno di 50 anni fa”. È cominciata così in corte d’Assise ad Alessandria la dichiarazione spontanea di Lauro Azzolini, 82 anni, ex militante delle BR, nel processo per la sparatoria di Cascina Spiotta del 1975. Azzolini ha detto che nella sparatoria “morirono due persone che non avrebbero dovuto morire”, il carabiniere Giovanni D’Alfonso (per il quale risponde di omicidio) e la brigatista Mara Cagol, per la quale nessuno è chiamato a rispondere, nonostante quel giorno sia stata di fatto giustiziata. “L’ultima immagine che ho di Mara Cagol e che non dimenticherò mai – ha detto Azzolini – è di lei con entrambe le braccia alzate, disarmata, che urlava di non sparare“. Dopo le dichiarazioni di Azzolini, per i pm rimangono ancora “alcuni coni d’ombra”. Per questo insistono affinché vengano sentiti i coimputati Renato Curcio e Mario Moretti, anche loro ex militanti delle Br, oggi assenti in aula. In una memoria depositata, Curcio (all’epoca dei fatti latitante e spostatosi a Milano) nega ogni coinvolgimento. Per il collegio difensivo, le parole di Azzolini scagionano proprio Curcio, oltre allo stesso Moretti. Su Radio Onda d’Urto la corrispondenza di Paolo Persichetti. Ascolta o scarica Qui di seguito il testo della lettera presentata da Azzolini ***** Per la Corte d’Assise di Alessandria C’ero io quel giorno di 50 anni fa alla Spiotta! In un minuto breve di 50 anni fa quando tutto precipitò, un inferno che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo rivivere, al termine del quale sono morte due persone che non avrebbero dovuto morire, il padre di Bruno D’Alfonso e Mara. Mara, una donna eccezionale, una compagna generosa, e la morte di una persona cara è un dolore incancellabile che ti porti dentro per tutta la vita, per tutti e senza distinzioni. Un giorno maledetto che non dimenticherò mai, ma visto che a distanza di 50 anni si è deciso di portarlo in un processo pubblico, oggi che di anni ne ho 82, e tutto intorno a me è cambiato rispetto a quando ne avevo meno di 30, quando, nel contesto delle lotte di classe, nel duro conflitto sociale, insieme a tanti altri compagni pensavamo di poter fare la rivoluzione, perché allora il mondo che ci circondava era molto diverso da quello di oggi, seppur in questo presente quotidiano assistiamo a violenze, povertà, sfruttamento, milioni di morti in guerre terribili tra poteri, operai uccisi dal lavoro, una umanità dispersa, ho deciso di raccontare quello che quel giorno è successo. Prima che questo processo abbia inizio, e prima che lo facciano altri, perché io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo. Cioè che quel giorno è successo quello che avevo scritto allora, in quella ricostruzione fatta per tutti gli altri compagni delle BR, trovata dai carabinieri mesi dopo a Milano e che è stata nominata più volte dalla pubblica accusa. Voi la leggerete, io non ci riesco, neppure a distanza di 50 anni, perché mi fa rivivere i dettagli di una prolungata sofferenza, per cui vi dirò quello che oggi ricordo di quel giorno di così tanti anni fa e che non avrebbe dovuto succedere. Da pochi mesi ero arrivato a Torino e da operaio mi ero impegnato al lavoro di coordinamento delle avanguardie nelle fabbriche torinesi; dopo l’arresto di due compagni della Colonna torinese entro anch’io nella clandestinità proprio nel momento in cui per necessità di autofinanziamento la Organizzazione  decise di sequestrare un ricco imprenditore. Era la prima volta e io vi partecipai, il tutto avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni senza conseguenze nè per il sequestrato nè per noi. Invece già il giorno stesso del sequestro venne arrestato un nostro compagno che si dichiarò ‘prigioniero politico’ e l’indomani successe l’impensabile che stravolse tutto, perchè a causa del fatto e della nostra impreparazione ci facemmo prendere alla sprovvista. Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo di accesso alla cascina, ma d’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere. Ad entrambi ci cadde il mondo addosso e ci prese il panico. Ho sentito dire che saremmo stati istruiti e addestrati per cosa fare in quei casi e altre cose del genere, ma non è vero, non sapevamo assolutamente cosa fare perché non era mai successo, vi fu una improvvisazione di tutto sul momento, quel che ricordo è che decidemmo di fuggire abbandonando l’ostaggio. La confusione era assoluta, sapevamo che fuori ad attenderci c’erano i carabinieri. Ne avevamo visti due forse tre ma quanti di preciso fossero non lo sapevamo. Raccogliemmo carte e bagagli frastornati cercando di capire come da lì uscirne. Si decise di usare le due piccole ‘SRCM’, quelle considerate di addestramento, lanciate senza mira alcuna avrebbero prodotto una esplosione tale da disorientare gli stessi CC e così avere lo spazio necessario per aprirci la fuga verso le nostre due auto che erano appena fuori. Ma tutto precipitò, sentimmo colpi di arma verso di noi, rispondemmo con qualche colpo nel caos di una frazione di secondi. Prese le nostre auto pensammo di esserci riusciti, ma la carreggiata era sbarrata dall’auto dei CC, io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso. Vi fu la resa nostra. Uscito dall’auto mi affiancai a Mara che era già sul prato. Notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita. Mi disse di sì ma che non era niente e che se c’era la occasione di tentare ancora di fuggire e risposi che avevo ancora una ‘srcm’. D’accordo, al suo cenno, la lanciai e mi misi a correre verso il bosco, convinto che Mara mi avrebbe seguito. Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era e allora guardai verso il prato della cascina e l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare… Ho continuato a correre a piedi senza guardarmi indietro fino a raggiungere una zona distante, ben oltre il bosco, quando sentii due spari. Continuai a correre per ore cercando un nascondiglio sicuro per aspettare la notte. Ero solo. Il giorno dopo quando raggiunsi un Paese sulle prime pagine dei giornali seppi di feriti e vidi che Mara era morta distesa su quel prato dove l’avevo lasciata viva. Lo sconcerto, il dolore mi ha attraversato la carne come una lama. Poi il bilancio finale: un’altra morte come tragico epilogo di quella giornata. Con rispetto dovuto, è anche per quei due morti che non avrebbero dovuto esserci che non ho più potuto tornare indietro. Capisco che OGGI questo sembrerà paradossale, ma ALLORA per la mia coscienza di classe ha significato assumermi la responsabilità della scelta fatta. Lauro Azzolini 11 marzo 2025 > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
anni '70
Primo sì dei giudici argentini alla estradizione dell’ex Br Bertulazzi
Milei cambia legge sui rifugiati e si aggiudica la prima manche della lunga battaglia legale  per l’estradizione dell’ex Br Leonardo Bertulazzi di Paolo Persichetti da Insorgenze Anche se nessuna agenzia lo ha ancora scritto, giunge dall’Argentina la notizia del parere favorevole alla estradizione dell’ex brigatista della colonna genovese, oggi settantacinquenne, Leonardo Bertulazzi, concesso dai giudici di Buonos Aires stanotte (ora italiana). Dopo una udienza lampo è stata accolta la richiesta proveniente da parte italiana. Il contenuto giuridico del provvedimento sarà noto solo nei prossimi giorni, sapremo così come i giudici hanno risolto, forse è meglio dire aggirato, il problema della contumacia. Entrato nella colonna genovese quasi alla sua nascita, fu arrestato e condannato nel 1976 per un episodio minore. Scarcerato nel 1979, dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito entrato nelle Br solo più tardi, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era fuggiasco. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così quarantanove anni dopo è arrivato il primo sì alla estradizione. Milei si è dunque aggiudicato, come era nelle previsioni, questa prima partita. La strettissima intesa con il governo di Giorgia Meloni che in cambio ha rinunciato ad estradare il sacerdote torturatore Franco Reverberi (leggi qui), tanto che pochi giorni fa il ministro della giustizia argentino ha concordato con Nordio i passaggi della estradizione e quest’ultimo si recherà nei prossimi giorni i Argentina, e la necessità dello stesso MIlei di ottenere una vittoria simbolica nella speranza di riuscire ad incarcerare, prima o poi, gli esponenti della vecchia resistenza armata degli anni 70 e primi anni 80 al regime militare fascista argentino di cui si proclama il naturale erede, hanno fatto il resto. La partita tuttavia non è ancora conclusa. La decisione di ieri notte può essere appellata davanti alla corte suprema federale (equivalente della nostra cassazione), prima che sia definitiva. Ma soprattutto è ancora aperto il ricorso di fronte al Conare, l’organo federale che decide sulla concessione dell’asilo politico e che bloccherebbe l’estradizione. Bertulazzi aveva già ottenuto questo beneficio nel 2004 ma con una decisione arbitraria la protezione gli è stata tolta lo scorso agosto, quando venne arrestato. La procedura davanti al Conare è stata più vote rinviata e alla fine ritardata: probabilmente per consentire alla procedura di estradizione di fare passi avanti e creare una situazione che renda più difficile concedere l’asilo. Milei sta barando in tutti i modi cercando di accomodare una situazione che altrimenti giuridicamente gli sarebbe andata contro. Mentre il Conare rinvia, Milei sta cambiando i vecchi giudici con uomini di fiducia ed ha varato un decreto che impedisce la concessione dell’asilo a chi ha ottenuto un avviso favorevole alla estradizione, circostanza che tuttavia non dovrebbe valere per Bertulazzi. Il suo ricorso infatti è precedente al decreto del presidente e soprattutto Bertulazzi non è alla sua prima richiesta di protezione. Ma la partita giuridica sembra sempre più truccata. > Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo > Bertulazzi in Argentina > L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex > brigatista Leonardo Bertulazzi > Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente > Milei   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
giorgia meloni
brigate rosse
argentina
anni 70
Appello: Vogliamo rompere un tabù
Riceviamo e pubblichiamo, l’appello dal blog della campagna Vogliamo rompere un tabù. Vogliamo rompere un tabù, rompere il silenzio sul fatto che lo Stato italiano tiene in carcere da quarant’anni 16 militanti delle Brigate Rosse e ne ha sottoposti altri tre, da oltre 20 anni, al regime dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Il regime speciale dell’art.41 bis è finalizzato all’annientamento psico-fisico del detenuto, che viene tenuto in isolamento quasi totale: ventidue ore al giorno in isolamento, due ore d’aria al giorno, una breve visita mensile per i familiari dietro una parete di vetro, nessun libro o giornale dall’esterno del carcere… Questo regime carcerario è uno dei più intollerabili in Europa. Ha due obiettivi: tagliare ogni comunicazione con il mondo esterno e costringere i detenuti a diventare “pentiti”, collaboratori di giustizia. Alcuni opinionisti sostengono che questi prigionieri preferiscono rimanere in carcere, rifiutando ostinatamente di beneficiare di misure alternative alla detenzione o della liberazione condizionale. Ma queste affermazioni non menzionano il fatto che, queste misure alternative, sono soggette ad una logica di scambio: si concedono solo in cambio della messa in discussione del proprio passato politico, di un’autocritica formale, che verrà amplificata dai media; si richiede loro quindi di rinnegare, in modo puro e semplice, la propria storia politica e il proprio passato rivoluzionario. Non si tratta di una questione astratta: a questi militanti si chiede di rinunciare a un’identità che per loro è la scelta di una vita, il che spiega la loro incredibile resistenza a quarant’anni di privazione della libertà; si chiede loro di rinunciare a convinzioni che corrispondono a correnti di pensiero profondamente radicate nella storia universale, in più di un secolo di lotta di classe, una lotta che è stata internazionale. Che si condividano o meno queste idee, è questa lotta-identità che è in gioco e nient’altro. Ma mentre lo Stato si vanta per la sua fermezza nel perseguire l’annientamento dei prigionieri, alcuni pretendono di ridurre la loro lotta a una semplice questione di principio che i prigionieri difenderebbero con eccessiva ostinazione. Come se alla base della loro resistenza non ci fosse una profonda coerenza, il rifiuto di mercanteggiare e mercificare il loro pensiero politico. Ma per capire meglio perché è importante rompere questo tabù, dobbiamo anche chiederci quali sono le ragioni fondamentali per cui lo Stato italiano ancora oggi, mantiene una feroce linea di condotta nei loro confronti, perché persiste in questa linea d’azione implacabile. Stiamo vivendo una fase storica caratterizzata dalla crescita sfrenata delle disuguaglianze, da un susseguirsi di crisi e da una forte intensificazione del confronto tra gli Stati che dominano il mondo. Un confronto che sta diventando sempre più pericoloso e globalizzato. In questo contesto, la crisi del sistema politico si sta intensificando, come in altre fasi storiche, come negli anni tra le due guerre o durante le guerre coloniali. Queste tensioni rendono la democrazia rappresentativa sempre più “inadatta” alla gestione delle crisi, tanto che le classi dirigenti sembrano ogni giorno più inclini a cercare soluzioni autoritarie e a liquidare le conquiste sociali. Di questa tendenza ne sono prova,per esempio, la violenta repressione da parte dello Stato francese contro i Gilets jaunes o durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni, rifiutata dalla stragrande maggioranza della popolazione; ma anche la repressione in Germania e in Francia del movimento ambientalista, le leggi antisciopero nel Regno Unito, nonché le misure senza precedenti contro i migranti. In Italia si è assistito a una massiccia criminalizzazione dei movimenti sociali: attacchi ai sindacati, agli studenti, a coloro che lottano per il diritto alla casa, al movimento dei disoccupati, alle ONG che cercano di difendere la vita degli immigrati e agli stessi immigrati, privati della protezione preventiva di pregresse tutele e attaccati violentemente nei loro lavori precari. Allo stesso tempo, il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero viene costantemente limitato: diventa compromettente difendere i palestinesi e chi denuncia il massacro in atto nei confronti del popolo gazawi è messo all’indice. Qualsiasi discussione sulla guerra in Ucraina che non adotti immediatamente e senza discussioni il punto di vista della NATO viene vista come sostegno alla Russia e tradimento. In generale, stiamo assistendo alla graduale criminalizzazione di tutta l’opposizione, non solo di quella radicale. Infine, dopo innumerevoli processi e incarcerazioni di manifestanti, attivisti antiglobalizzazione e anarchici, la repressione in Italia ha raggiunto il suo culmine quando, su ordine del Ministro della Giustizia, Alfredo Cospito è stato sottoposto al regime del 41 bis. È stato il primo anarchico a essere sottoposto a questo spietato regime di detenzione. Così, la repressione sempre più severa dei movimenti sociali, delle manifestazioni, dei militanti e degli attivisti, a prescindere dalle loro convinzioni e azioni, sta gradualmente creando un clima che ricorda la “strategia della tensione” che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Allora, questa strategia mirava a soffocare un forte movimento di protesta che stava attraversando l’intera società. Oggi, questa strategia della tensione vorrebbe impedire che il crescente malcontento e il disorientamento ideologico trovino un’espressione politica, si trasformino in una vera contestazione. In questo contesto si inserisce la “guerra” che da tempo viene condotta contro la memoria delle lotte degli anni Settanta. In quegli anni, le classi subalterne erano portatrici ed espressione di un importante processo di trasformazione sociale, di un vero e proprio “assalto al cielo”. Ecco perché questo periodo è sistematicamente oggetto di analisi riduttive o mistificatorie da parte del potere.  Negando l’esistenza della lotta di classe, si ostinano a fingere che il mondo possa essere ridotto a un’opposizione tra i sostenitori delle democrazie liberali e gli altri. È solo nel contesto di questa “guerra” alla memoria che possiamo comprendere la politica silenziosa di annientamento dei prigionieri. Lo Stato vede questi prigionieri come una sorta di trofeo e, facendo della loro prigionia un esempio e uno spauracchio, mira a scoraggiare qualsiasi lotta, nella speranza di soffocare lo sviluppo delle contraddizioni attuali, che potrebbero portare a un ribaltamento della situazione, a un nuovo “assalto al cielo”. Rompere il tabù, rompere il silenzio su questi prigionieri, sulle condizioni della loro detenzione, sulla loro durata infinita, non può essere ridotto a una reazione umanitaria. È un passo necessario per liberarci dalle nostre paure, per sciogliere il cappio delle costrizioni, dell’ingabbiamento in cui vorrebbero richiudere le lotte e i movimenti. Questo inaccettabile regime carcerario, il rinnegamento che si richiede ai prigionieri per poter sfuggire a questo regime è un ulteriore modo per soffocare tutte le lotte. Quindi, rompere questo tabù è interesse innanzitutto di coloro che subiscono le conseguenze delle disastrose condizioni economiche e politiche della società nel suo complesso,che possono essere trasformate solo da un cambiamento radicale delle strutture sociali e politiche esistenti. Rompere questo silenzio è anche un modo per riappropriarci di una libertà e di un pensiero critico, in modo da poter trovare liberamente delle possibilità di soluzione e per interrompere la spirale mortale in cui i potenti ci stanno trascinando con le loro politiche sempre più repressive, classiste e guerrafondaie. per aderire all’appello clicca qui   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
41bis
carcere
appello
anni '70