«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione
dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Paolo Persichetti
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021)
condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio
archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della
lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione
digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché
l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei
figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione
firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica
Eugenio Albamonte.
Comportamenti privi di rilevanza penale
Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia
di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la
condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto
d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli
elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio».
Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia
intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura
delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della
commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad
Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato
in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro
ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare
avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori
incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro,
quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese
pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione.
Reati prescritti
Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato
[favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto
d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi
prescritti o prossimi alla prescrizione».
Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione:
l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era
stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo
stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico
poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi
qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la
scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente
invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla
prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché
priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere
dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse
senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero
materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche
una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto
del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di
notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi
d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia
al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era.
Le ragioni dell’inchiesta
Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava
la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di
Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo
a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno
coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per
una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio
lavoro di ricerca storica?
Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip
per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle
cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm
Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine
arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la
legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria
internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio
Casimmirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli
Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale
della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex
brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e
Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail
dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg
della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava
a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa
pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare.
Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro:
stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del
mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro
pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla
campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo
inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito
delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza
perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi
avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze
preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei
fatti di via Fani.
Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre
anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel
fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici
e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli
inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia
l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di
capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente
rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non
ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella
vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli
scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non
cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta
improvvisamente rotta.
Cosa era successo?
L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore
consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della
commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza»
delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione)
era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel
breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea
lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso
Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto
da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti
fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla
Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di
Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale
(perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei
consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della
Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto
potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi».
Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo,
in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della
riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri:
commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato
l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del
segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine.
La velenosa insinuazione
Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di
prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex
presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe
raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e
via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni
80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non
hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata
un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e
allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il
cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla
volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio
convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività
di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui
l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione
sovversiva.
Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti!
Un grave precedente
Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla
sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà
della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore,
l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero
dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di
stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di
recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il
cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo.
Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e
addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente
del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse
confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale
cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro.
Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi
sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il
loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno.
La decisione finale spetta al Gip
Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione.
Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine
sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non
si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora
non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche
sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e
tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di
prevenzione.
> Se fare storia è un reato
> Lo storico Marco Clementi: «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è
> un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»
> La scongiura del discorso. Il caso Persichetti
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Tag - brigate rosse
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino nell’inchiesta contro i
quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le
indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina
Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono
l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate
rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di
Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro
Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987.
La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti
nella discussione, di cui è stata resa nota la trascrizione, che si è tenuta lo
scorso 24 ottobre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti
dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate
rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha
portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata,
come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, ha
commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie
di irregolarità, abusi, sotterfugi ed escamotage vari, tutti finalizzati ad
aggirare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come
ostacoli frapposti all’azione penale.
Il tranello complottista
Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto depose, per
conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che
chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre
una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti
(Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato
agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei
decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta
eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi,
brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima
dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue
ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità
di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito
solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista
di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre
nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un
complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e
brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini
su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli
stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è
andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di
Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la
stretta regia dei Servizi. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i
carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti
civili tenteranno di reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in
porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha
dichiarato di essere entrato nell’inchiesta come legale della parte civile per
dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del
complotto, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di
colpevolezza e sprezzanti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle
fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta
l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle
indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei
quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari,
al punto che i pm torinesi, presi nel ruolo di novelli riparatori delle
ingiustizie della storia, si sono lanciati come Robin Hood nelle foresta di
Sherwood incappando in una imbarazzante disavventura.
L’inchiesta nascosta
Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una
procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex
brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia
investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare»
le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura
della nuova inchiesta. Scriverà il responsabile della indagine, comandante dei
carabinieri Pierluigi Brogliaccino, «L’attività di intercettazione consente
l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine
all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri
avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con
Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma
nonostante questo specifico attenzionamento, il fascicolo non muterà
l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona
intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza
della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987,
dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una
sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al
gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa
strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione
telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa
dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine.
Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si
trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato
l’archivio del tribunale di Alessandria.
Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza
della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei
confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso
l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione
di totale illegalità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre
2022, invece di sanare l’illeicità dell’inchiesta, la procura raddoppia l’abuso
e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore
ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il
gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento.
Indagato senza essere prosciolto
Nel 2023 la situazione non cambia, anzi assistiamo ai tentativi surreali della
procura che cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il
sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, improvvisamente, dopo cinque giorni i pm
rinunciano a questo sotterfugio. Lo iscrivono finalmente nel registro degli
indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento
tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento
acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la
versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un
proprio perito. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia
cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni, da loro ritenute delle
«sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante»
occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi
fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del
proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova –
quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era
sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle
perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i
mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una
riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini
non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali,
che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale
autorizzazione da tempo illecita.
Le intercettazioni non bastano
A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le
intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti
“captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti
con Azzolini. In questo modo cercano di trasformare in dichiarazioni d’accusa
verbalizzate i contenuti delle intercettazioni dal valore legale traballante. Ma
si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio
Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza
di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa
notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la
qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima.
L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni
70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex
Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a
contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo
sull’avviso. Irritata per l’atteggiamento del teste, a giugno la procura
ripropone l’arresto di Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza
di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente
le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni
ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura
delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una batosta enorme per i
pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta
dell’inchiesta imbastita con mille sotterfugi ormai da 17 mesi. Davanti al gup,
lo scorso 24 ottobre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati
dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste
distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati,
le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano
comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga.
Il teste braccato
A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il
testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta
i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio
di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a
persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più
pressanti e riguardano anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, accusato
di aver subornato il testimone durante un incontro che PB aveva chiesto al
legale e nel quale aveva domandato lumi sulle ragioni dell’interessamento della
procura nei suoi confronti nonostante nulla c’entrasse con i fatti della Spiotta
di cinquant’anni prima.
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa
dell’imputato Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre
coimputati, e il tentativo fare la stesa cosa con il suo avvocato, circostanza
che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e
liquidare il suo difensore.
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L'articolo Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino sembra
essere il primo su Osservatorio Repressione.
Il ventennio agitato che si dilunga dalla metà degli anni 60 alla metà degli
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non ha più una sua narrazione. Per questo può esser facilmente raccontato,
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denunciare il presunto ruolo avuto da Servizi segreti occidentali, insieme a
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essere il primo su Osservatorio Repressione.
Lettera aperta al sostituto procuratore della repubblica di Roma
Eugenio Albamonte di Paolo Persichetti Il 9 giugno del 2020 su mandato del
procuratore di Roma Eugenio Albamonte e dell’allora Procuratore capo Michele
Prestipino, la polizia di prevenzione ha sequestrato il mio archivio di lavoro
raccolto in anni di ricerca storica, l’intero materiale digitale presente in
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L'articolo Il favoreggiamento c’è o non c’è? sembra essere il primo su
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