Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo
scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero
io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha
visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di
trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi
delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta
ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti
di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita
Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni
D’Alfonso, morirà nei giorni successivi.
Processo ribaltato
Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie
e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la
strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla
inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La
testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non
dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia
alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo
le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è
stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse
parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili».
In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura
delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura
indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio
dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due
giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel
quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si
accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di
sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due
giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid
di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il
tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di
Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta
delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice
del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due
volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al
momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private
abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della
vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido
Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il
suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua»
e «oscura».
La storia non deve entrare in aula
Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è
discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e
dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo
dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in
qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario
Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate
rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto
aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto
che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla
Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò
importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un
processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante
della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena
mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una
vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se
avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori
pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi
perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso
per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi
segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione
dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova
sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è
una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato
e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra
stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte.
Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di
cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti
scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle
Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è
sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa
difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso.
Un pm senza storia
Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero
Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha
sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa
di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non
vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una
rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto
a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna,
inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo
storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di
ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si
limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro
fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non
sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli
storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada.
Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica
accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti
quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una
interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata
dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle
Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno
sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve
giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della
pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo
cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”».
Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma
Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale
davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva
producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del
processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato
omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani.
Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda
commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo
motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di
una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di
arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle
perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora
di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere
rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento
delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi
di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per
ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore
giudiziario.
Il consulente non verrà ascoltato
Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne
riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa
dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è
chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita
in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava
ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa
narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che
qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che
nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la
circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte
politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di
autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu
collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono
demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra
storia ma soprattutto una altro processo.
da insorgenze.net
> “Mara gridava ‘Non sparate’”
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Tag - brigate rosse
Milei cambia legge sui rifugiati e si aggiudica la prima manche della lunga
battaglia legale per l’estradizione dell’ex Br Leonardo Bertulazzi
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Anche se nessuna agenzia lo ha ancora scritto, giunge dall’Argentina la notizia
del parere favorevole alla estradizione dell’ex brigatista della colonna
genovese, oggi settantacinquenne, Leonardo Bertulazzi, concesso dai giudici di
Buonos Aires stanotte (ora italiana).
Dopo una udienza lampo è stata accolta la richiesta proveniente da parte
italiana. Il contenuto giuridico del provvedimento sarà noto solo nei prossimi
giorni, sapremo così come i giudici hanno risolto, forse è meglio dire aggirato,
il problema della contumacia.
Entrato nella colonna genovese quasi alla sua nascita, fu arrestato e condannato
nel 1976 per un episodio minore. Scarcerato nel 1979, dopo un periodo di
congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al settembre 1980, quando
incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire.
Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale
nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito entrato nelle Br solo più
tardi, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente
sanzionato dalla giustizia genovese perché era fuggiasco. Una volta cumulate le
condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di
reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di
pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in
Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire
d’accapo con il conteggio. E così quarantanove anni dopo è arrivato il primo sì
alla estradizione.
Milei si è dunque aggiudicato, come era nelle previsioni, questa prima partita.
La strettissima intesa con il governo di Giorgia Meloni che in cambio ha
rinunciato ad estradare il sacerdote torturatore Franco Reverberi (leggi qui),
tanto che pochi giorni fa il ministro della giustizia argentino ha concordato
con Nordio i passaggi della estradizione e quest’ultimo si recherà nei prossimi
giorni i Argentina, e la necessità dello stesso MIlei di ottenere una vittoria
simbolica nella speranza di riuscire ad incarcerare, prima o poi, gli esponenti
della vecchia resistenza armata degli anni 70 e primi anni 80 al regime militare
fascista argentino di cui si proclama il naturale erede, hanno fatto il resto.
La partita tuttavia non è ancora conclusa. La decisione di ieri notte può essere
appellata davanti alla corte suprema federale (equivalente della nostra
cassazione), prima che sia definitiva. Ma soprattutto è ancora aperto il ricorso
di fronte al Conare, l’organo federale che decide sulla concessione dell’asilo
politico e che bloccherebbe l’estradizione. Bertulazzi aveva già ottenuto questo
beneficio nel 2004 ma con una decisione arbitraria la protezione gli è stata
tolta lo scorso agosto, quando venne arrestato. La procedura davanti al Conare è
stata più vote rinviata e alla fine ritardata: probabilmente per consentire alla
procedura di estradizione di fare passi avanti e creare una situazione che renda
più difficile concedere l’asilo. Milei sta barando in tutti i modi cercando di
accomodare una situazione che altrimenti giuridicamente gli sarebbe andata
contro. Mentre il Conare rinvia, Milei sta cambiando i vecchi giudici con uomini
di fiducia ed ha varato un decreto che impedisce la concessione dell’asilo a chi
ha ottenuto un avviso favorevole alla estradizione, circostanza che tuttavia non
dovrebbe valere per Bertulazzi. Il suo ricorso infatti è precedente al decreto
del presidente e soprattutto Bertulazzi non è alla sua prima richiesta di
protezione. Ma la partita giuridica sembra sempre più truccata.
> Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo
> Bertulazzi in Argentina
> L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex
> brigatista Leonardo Bertulazzi
> Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente
> Milei
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione
dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Paolo Persichetti
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021)
condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio
archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della
lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione
digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché
l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei
figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione
firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica
Eugenio Albamonte.
Comportamenti privi di rilevanza penale
Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia
di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la
condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto
d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli
elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio».
Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia
intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura
delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della
commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad
Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato
in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro
ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare
avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori
incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro,
quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese
pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione.
Reati prescritti
Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato
[favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto
d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi
prescritti o prossimi alla prescrizione».
Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione:
l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era
stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo
stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico
poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi
qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la
scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente
invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla
prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché
priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere
dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse
senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero
materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche
una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto
del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di
notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi
d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia
al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era.
Le ragioni dell’inchiesta
Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava
la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di
Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo
a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno
coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per
una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio
lavoro di ricerca storica?
Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip
per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle
cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm
Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine
arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la
legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria
internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio
Casimmirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli
Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale
della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex
brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e
Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail
dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg
della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava
a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa
pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare.
Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro:
stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del
mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro
pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla
campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo
inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito
delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza
perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi
avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze
preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei
fatti di via Fani.
Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre
anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel
fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici
e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli
inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia
l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di
capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente
rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non
ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella
vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli
scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non
cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta
improvvisamente rotta.
Cosa era successo?
L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore
consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della
commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza»
delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione)
era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel
breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea
lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso
Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto
da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti
fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla
Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di
Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale
(perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei
consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della
Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto
potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi».
Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo,
in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della
riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri:
commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato
l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del
segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine.
La velenosa insinuazione
Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di
prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex
presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe
raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e
via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni
80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non
hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata
un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e
allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il
cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla
volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio
convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività
di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui
l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione
sovversiva.
Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti!
Un grave precedente
Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla
sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà
della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore,
l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero
dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di
stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di
recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il
cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo.
Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e
addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente
del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse
confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale
cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro.
Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi
sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il
loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno.
La decisione finale spetta al Gip
Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione.
Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine
sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non
si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora
non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche
sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e
tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di
prevenzione.
> Se fare storia è un reato
> Lo storico Marco Clementi: «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è
> un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»
> La scongiura del discorso. Il caso Persichetti
> Kafka e l’archivio di Persichetti
> il passato continua a chiedere il conto a Paolo Persichetti
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino nell’inchiesta contro i
quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le
indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina
Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono
l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate
rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di
Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro
Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987.
La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti
nella discussione, di cui è stata resa nota la trascrizione, che si è tenuta lo
scorso 24 ottobre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti
dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate
rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha
portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata,
come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, ha
commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie
di irregolarità, abusi, sotterfugi ed escamotage vari, tutti finalizzati ad
aggirare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come
ostacoli frapposti all’azione penale.
Il tranello complottista
Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto depose, per
conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che
chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre
una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti
(Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato
agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei
decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta
eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi,
brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima
dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue
ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità
di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito
solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista
di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre
nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un
complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e
brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini
su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli
stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è
andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di
Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la
stretta regia dei Servizi. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i
carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti
civili tenteranno di reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in
porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha
dichiarato di essere entrato nell’inchiesta come legale della parte civile per
dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del
complotto, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di
colpevolezza e sprezzanti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle
fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta
l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle
indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei
quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari,
al punto che i pm torinesi, presi nel ruolo di novelli riparatori delle
ingiustizie della storia, si sono lanciati come Robin Hood nelle foresta di
Sherwood incappando in una imbarazzante disavventura.
L’inchiesta nascosta
Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una
procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex
brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia
investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare»
le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura
della nuova inchiesta. Scriverà il responsabile della indagine, comandante dei
carabinieri Pierluigi Brogliaccino, «L’attività di intercettazione consente
l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine
all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri
avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con
Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma
nonostante questo specifico attenzionamento, il fascicolo non muterà
l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona
intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza
della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987,
dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una
sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al
gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa
strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione
telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa
dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine.
Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si
trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato
l’archivio del tribunale di Alessandria.
Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza
della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei
confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso
l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione
di totale illegalità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre
2022, invece di sanare l’illeicità dell’inchiesta, la procura raddoppia l’abuso
e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore
ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il
gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento.
Indagato senza essere prosciolto
Nel 2023 la situazione non cambia, anzi assistiamo ai tentativi surreali della
procura che cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il
sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, improvvisamente, dopo cinque giorni i pm
rinunciano a questo sotterfugio. Lo iscrivono finalmente nel registro degli
indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento
tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento
acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la
versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un
proprio perito. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia
cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni, da loro ritenute delle
«sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante»
occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi
fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del
proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova –
quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era
sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle
perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i
mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una
riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini
non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali,
che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale
autorizzazione da tempo illecita.
Le intercettazioni non bastano
A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le
intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti
“captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti
con Azzolini. In questo modo cercano di trasformare in dichiarazioni d’accusa
verbalizzate i contenuti delle intercettazioni dal valore legale traballante. Ma
si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio
Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza
di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa
notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la
qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima.
L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni
70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex
Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a
contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo
sull’avviso. Irritata per l’atteggiamento del teste, a giugno la procura
ripropone l’arresto di Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza
di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente
le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni
ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura
delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una batosta enorme per i
pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta
dell’inchiesta imbastita con mille sotterfugi ormai da 17 mesi. Davanti al gup,
lo scorso 24 ottobre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati
dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste
distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati,
le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano
comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga.
Il teste braccato
A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il
testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta
i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio
di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a
persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più
pressanti e riguardano anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, accusato
di aver subornato il testimone durante un incontro che PB aveva chiesto al
legale e nel quale aveva domandato lumi sulle ragioni dell’interessamento della
procura nei suoi confronti nonostante nulla c’entrasse con i fatti della Spiotta
di cinquant’anni prima.
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa
dell’imputato Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre
coimputati, e il tentativo fare la stesa cosa con il suo avvocato, circostanza
che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e
liquidare il suo difensore.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
L'articolo Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino sembra
essere il primo su Osservatorio Repressione.
Il ventennio agitato che si dilunga dalla metà degli anni 60 alla metà degli
anni 80 del Novecento italiano, ricco di veloci rivolgimenti, colpi di scena,
conflitti durissimi, rapide mutazioni, grandi avanzamenti, repressioni feroci,
non ha più una sua narrazione. Per questo può esser facilmente raccontato,
meglio sarebbe dire reinventato, come continuum criminale traversato da […]
L'articolo Report e la Repubblica fondata sul complotto sembra essere il primo
su Osservatorio Repressione.
Rivelazioni – Per denunciare un depistaggio è opportuno rivolgersi a un
depistatore di professione, condannato per questo dalla giustizia?
Per
denunciare il presunto ruolo avuto da Servizi segreti occidentali, insieme a
massonerie e consorterie varie, è normale chiedere l’aiuto di colui che è
ritenuto una delle figure apicali del cosiddetto «Sismi parallelo», stretto
collaboratore del […]
L'articolo Depistaggi e depistatori, Sigfrido Ranucci ha chiesto l’aiuto di
Francesco Pazienza per realizzare la puntata di Report sul sequestro Moro sembra
essere il primo su Osservatorio Repressione.
Lettera aperta al sostituto procuratore della repubblica di Roma
Eugenio Albamonte di Paolo Persichetti Il 9 giugno del 2020 su mandato del
procuratore di Roma Eugenio Albamonte e dell’allora Procuratore capo Michele
Prestipino, la polizia di prevenzione ha sequestrato il mio archivio di lavoro
raccolto in anni di ricerca storica, l’intero materiale digitale presente in
casa […]
L'articolo Il favoreggiamento c’è o non c’è? sembra essere il primo su
Osservatorio Repressione.