“Daspo fuori contesto” l’ultimo strumento giuridico divenuto operativo contro il
tifo organizzato
di Federico Rucco da Contropiano
Cos’è il “Daspo fuori contesto”
La misura, introdotta nel 2019 e legittimata da una sentenza della Cassazione
nel 2021, impedisce l’accesso agli impianti sportivi ai soggetti responsabili
nell’ultimo quinquennio di alcune tipologie di reati, anche se realizzati fuori
da un impianto o da un contesto sportivo.
Tali reati comprendono quelli connessi allo spaccio di droga o al possesso di
armi, contro il patrimonio o la persona, ma anche – attenzione n.1 – per
incidenti di piazza (atti contro l’ordine e l’incolumità pubblica).
Inoltre, per la legittimità del provvedimento, non è necessaria la condanna del
soggetto, ma – attenzione n.2 – basta la denuncia per uno dei reati indicati nel
dispositivo. In questo caso, ad essere sanzionata sarebbe la “presunta”
responsabilità del soggetto, a cui può essere impedito di accedere alle
manifestazioni sportive o a una zona della città, come previsto dal “daspo
urbano”.
Una misura sempre più impiegata dalle questure
Il “daspo fuori contesto” sta conoscendo un’impennata di popolarità tra le
questore delle maggiori città del Paese.
Il 15 ottobre 2024, a Padova la misura è stata emessa contro 10 tifosi, di cui
sei minorenni, per una durata da uno a tre anni ciascuna, a causa della loro
pericolosità sociale, definita in base ai precedenti.
Il 30 dicembre, a Bologna il provvedimento è scattato contro 3 tifosi per aver
partecipato alla difesa del parco Don Bosco, oggetto di un’operazione di
speculazione edilizia da parte del Comune guidato da Matteo Lepore (Pd).
Il 5 febbraio 2025, a Como la misura ha colpito 9 tifosi, di cui tre minorenni e
un egiziano.
L’ultimo caso di Roma
In ultimo, il 7 febbraio la stangata è arrivata per 16 tifosi, provenienti dalle
province di Milano, Roma, Caserta, Napoli, Avellino e Salerno, “resisi
responsabili con reiterazione della violazione delle norme che vietano
comportamenti apologetici del fascismo”.
I soggetti, si legge nella nota della Questura di Roma, “sono tutte persone
denunciate negli ultimi due anni in occasione della commemorazione di Acca
Larentia”. Tre dei provvedimenti hanno una durata di sei anni con obbligo di
firma, per gli altri varia da uno a due anni.
Fa un po’ “sorridere” che ai fascisti sia permesso, oltre che di truccarsi per
andare al governo, di radunarsi invece senza veli ogni anno per i fatti di Acca
Larentia, ben scortati dalla polizia per “garantire l’ordine pubblico”, ma gli
sia poi impedito di entrare in uno stadio. Sembra in effetti un classico
“buffetto amichevole” verso dei complici, da poter usare come “prova di
imparzialità” nella repressione di ben altri soggetti sociali o politici. Ossia
come “esibizione di antifascismo di Stato” nel mentre si lavora contro
l’opposizione antifascista.
La pericolosità del provvedimento
Ma oltre al caso in questione, il “salto di specie” del provvedimento emerge nel
giudizio sulla pericolosità del soggetto: questa può essere sganciata dalla
certezza del fatto compiuto per essere spostata sull’unico presupposto della
denuncia, bastevole per sancire il rischio per l’ordine pubblico.
Traslando questa visione dallo stadio alle piazze o ai quartieri popolari, come
spesso è avvenuto con le sperimentazioni che hanno interessato il tifo
organizzato, l’ennesimo dispositivo repressivo manifesta tutta la sua
pericolosità per l’espressione del dissenso e delle lotte sociali, come avviene
con il Ddl 1660.
“Oggi per gli ultras, domani in tutta la città”
Pertanto, non sorprende – attenzione n.3 – che, scrive la Questura di Roma,
“sono in valutazione le posizioni di oltre 200 soggetti resisi responsabili di
altre ipotesi delittuose […] già denunciate per reati connessi alla droga, risse
ed altri episodi di violenza nonché per incidenti di piazza, che li hanno visti
coinvolti, non da ultimo, lo scorso 11 gennaio a San Lorenzo” (manifestazione
contro l’assassinio di Ramy da parte dei Carabinieri).
L’equivalenza è presto fatta, protestare in piazza diviene una “ipotesi
delittuosa”, per cui meglio evitare che tali soggetti possano operare in uno dei
pochi ambiti di massa rimasti nella società, com’è uno stadio o un palazzetto.
Questo è il motivo per cui soprattutto gli stadi di calcio sono diventati un
terreno privilegiato della sperimentazione repressiva operata contro il tifo
organizzato, dai tornelli stile carcere al biglietto nominale fino all’ultima
trovata del riconoscimento facciale.
“Leggi speciali, oggi per gli ultras, domani in tutta la città”, si scriveva
negli anni Ottanta, allora meglio provare a trasformare lo sport in uno
strumento di propaganda, con scarsi risultati evidentemente.
La vera paura di chi governa
Le curve e i settori popolari non sono che l’espressione di quello passa tra le
strade di un territorio, con tutto il suo portato di contraddizioni e
difficoltà. Di certo non il rifugio degli angeli, ma neanche il parco giochi dei
diavoli, come viene rappresentato nei media mainstream.
Oggi, la paura di chi governa e dei pennivendoli al loro servizio è la presa di
coscienza da parte della popolazione di chi la sfrutta, la deruba e in ultimo la
reprime.
Per loro, le voci del dissenso organizzato allora devono stare fuori dalle
curve, sia mai che migliaia di persone, tutte insieme, possano riconoscersi in
una parola che grida al cambiamento. Anzi, che si alzino i prezzi dei biglietti
e si trasformino gli stadi in un teatro moderno! Seduti, buoni e muti… e
applausi a comando.
Il “daspo fuori contesto” ai fascisti servirà solo alla logica del doppio
estremismo, per schiacciare chi lotta per i propri diritti su chi si rifà al
ventennio. Meglio organizzarsi per tempo.
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Tag - ultras
La vicenda giudiziaria che riguarda le curve di Inter e Milan riporta
nell’agenda del dibattito pubblico il tema del rapporto fra gruppi ultras e
criminalità. Un rapporto che già nell’enunciazione risulta di declinazione
complessa, poiché la composizione delle parole rischia di essere una trappola e
di fuorviare l’analisi a causa di un’imprecisa individuazione di categorie. Tale
rischio d’interpretazione è aggravato dalla tendenza a portare, sempre e
comunque, sul terreno dell’ordine pubblico la questione ultras.
di Pippo Russo e Vincenzo Scalia – Università degli Studi di Firenze da Studi
Questione Criminale
La vicenda giudiziaria che riguarda le curve di Inter e Milan riporta
nell’agenda del dibattito pubblico il tema del rapporto fra gruppi ultras e
criminalità. Un rapporto che già nell’enunciazione risulta di declinazione
complessa, poiché la composizione delle parole rischia di essere una trappola e
di fuorviare l’analisi a causa di un’imprecisa individuazione di categorie. Tale
rischio d’interpretazione è aggravato dalla tendenza a portare, sempre e
comunque, sul terreno dell’ordine pubblico la questione ultras.
Tutto quanto è stato premesso chiama una necessità di chiarezza. Bisogna
innanzitutto precisare che il fenomeno ultras, di per sé, non è automaticamente
un fenomeno di devianza né tantomeno un fenomeno criminale. I gruppi ultras
vanno piuttosto inquadrati come gruppi dell’antagonismo sociale, che si muovono
dentro un ecosistema (la curva da stadio) governato da regole proprie (Dal Lago
1990, De Biasi [a cura di] 2008). Questa struttura della situazione pone le
condizioni per cui i gruppi ultras si trovino sovente sul confine fra legalità e
illegalità. Ma può succedere anche che, lungo quel confine, alcune frange delle
curve decidano di installarsi e di attraversarlo volontariamente, facendo della
violazione della legalità un’attività consapevole e strutturata. È a partire da
questo attraversamento di soglia che i gruppi ultras possono diventare
organizzazioni criminali. E che, dopo avere assunto questo profilo, prendono a
interagire con altre organizzazioni criminali, strutturate fuori dall’ecosistema
della curva.
Il tema al centro dell’attenzione in questi giorni è proprio quello delle
relazioni fra le organizzazioni criminali nate nelle curve da stadio (a opera di
frange ultras che si trasformano in agenzie per l’esercizio di violenza e la
conduzione di pratiche economiche illegali), e le organizzazioni criminali
radicate nella società.
Comunità, territorio, potere politico e potere economico
Lo stadio è al tempo stesso territorio e comunità. Che sono due elementi la cui
connessione, in termini analitici, è indispensabile. Ogni comunità ha un
territorio di riferimento. E questo principio vale anche per quelle comunità
che, nei termini concreti di insediamento e radicamento, un territorio di
riferimento non ce l’hanno (perché ne sono state espulse, o perché hanno dovuto
allontanarsene per qualsiasi ragione, o perché un territorio non lo hanno mai
avuto e allora è proprio la sua assenza a costituire una dimensione territoriale
immaginata).
Nel caso della curva e della sua comunità, si tratta di una territorialità
rituale e intermittente. La curva è abitata durante la partita di calcio
(dimensione rituale) e in circostanze ben circoscritte dal calendario della
stagione agonistica (dimensione intermittente). Questo complesso di elementi che
fra loro interagiscono (comunità, territorio, ritualità, intermittenza) ha come
conseguenza una serie di combinazioni da cui deriva una membership di comunità
fortemente differenziata. Chi nello stadio frequenta i settori di tribuna, o
quello dei distinti, tende a mostrare una fortissima intermittenza nel senso che
la sua membership di comunità si attiva entro lo spazio (fisico e temporale)
della partita. Rispetto a questa linea di tendenza, la curva è una realtà a sé.
I gruppi strutturati che la abitano sono caratterizzati da una membership che
oltrepassa la spazialità e la temporalità della curva e della singola partita.
Per i loro membri, tanto la ritualità quanto l’intermittenza vengono annullate
perché la curva diventa una dimensione mobile, una matrice dell’agire sociale
che determina identità, ruoli, strategie di azione e una disciplina individuale
e di gruppo che vengono esportati nel tempo feriale (esterno alla dimensione
rituale) e negli spazi della socialità ordinaria (esterni allo stadio). Ha
dunque un senso parlare di eccezionalismo della curva, tanto più che senza la
presa in considerazione di questa dimensione non sarebbe possibile analizzare le
derive criminali di alcuni fra i gruppi organizzati che la popolano.
Questi ultimi vanno inquadrati come gruppi di interesse che si muovono per
appropriarsi di risorse. Volendo procedere a una semplificazione, sono due i
tipi di risorse che questi gruppi cercano di acquisire: risorse di tipo politico
e risorse di tipo economico.
Per quanto riguarda le risorse di tipo politico, esse ruotano intorno al potere.
E dunque rientrano in questo ambito tutte quelle attività che costruiscono la
legittimazione di un gruppo all’interno della curva: conquista di una posizione
centrale nella topografia della curva, leadership nelle coreografie, primazia
rispetto agli altri gruppi della curva, relazioni con la società calcistica, ma
soprattutto, gestione della violenza come risorsa esterna e interna. Per quanto
riguarda la dimensione esterna, il riferimento è all’esercizio di violenza negli
scontri con le tifoserie rivali ma anche nella dialettica con le forze di
polizia e nella relazione intimidatoria con altri soggetti (giornalisti,
intellettuali, esponenti politici, soggetti della società civile) che vengano
percepiti come nemici del gruppo. Per quanto riguarda il versante interno, la
violenza viene esercitata, sia in potenza che in azione, sia verso gli altri
gruppi che popolano la curva che verso i singoli spettatori. Lo scopo è ribadire
che al gruppo leader della curva spetta stabilire cosa si può fare e cosa non si
può fare all’interno della curva medesima. Di fatto, e per quanto possa apparire
paradossale alla lettura, si tratta dell’esercizio di un monopolio di violenza
legittima, laddove la legittimità cui si fa riferimento è quella riconosciuta,
in modo più o meno esplicito, dalla comunità che popola la curva.
Con riferimento alle risorse di tipo economico, esse diventano cruciali quando i
gruppi che assumono il controllo della curva scoprono che, oltre a monopolizzare
il modo in cui si esprime il tifo nello spazio sottoposto al loro controllo,
capiscono che possono sfruttare in termini commerciali la passione calcistica.
Il primo passo viene compiuto con la commercializzazione di gadget, fatta quasi
sempre al di fuori dei circuiti commerciali legali. Ma poco a poco il business
si allarga verso altri beni e servizi: food & drink, ticketing, logistica,
parcheggi, pulizie, sicurezza. Anche questi servizi vengono svolti quasi sempre
al di fuori degli ordinari (e legali) circuiti della commercializzazione.
Inoltre, si tratta di segmenti economici sui quali (come segnala proprio il caso
recente delle curve milanesi) i gruppi mettono le mani grazie all’esercizio
dell’intimidazione, o della violenza esplicita, effettuata sui soggetti che in
quei segmenti economici si muovono seguendo pienamente i criteri della legalità.
Criminalità endogena, criminalità esogena, criminalità mista
Si crea così una situazione tipica delle organizzazioni criminali avanzate:
infiltrarsi con metodi illegali nell’economia legale e sfruttarla in modo
parassitario. E proprio di organizzazioni criminali ha senso parlare poiché, fra
esercizio di violenza e creazione di circuiti economici illegali, è questo il
profilo che tali gruppi assumono. Inoltre, il modo in cui essi gestiscono il
proprio business comporta che le loro attività siano altamente remunerative. La
conseguenza di tutto ciò è che forme di business così efficaci non possono non
attirare l’interesse delle organizzazioni criminali esterne allo stadio: sia le
piccole organizzazioni locali, sia le grandi organizzazioni criminali come le
mafie. Esse tentano di radicarsi in qualsiasi business altamente remunerativo e
questo è il motivo per cui guardano al giro d’affari realizzato dai gruppi
ultras che controllano le curve da stadio delle principali piazze italiane.
L’ingresso in scena da parte delle organizzazioni criminali esterne allo stadio
comporta la ricerca di un nuovo equilibrio, che ridisegna l’ecosistema criminale
delle curve. Per le mafie si tratta di infiltrare un territorio che fin lì è
stato presidiato in modo discontinuo e molto relativo. È comunque un territorio
presidiato da altri soggetti nonché governato da regole proprie anche per quanto
riguarda i meccanismi dell’illegalità. Dunque, le grandi organizzazioni
criminali devono affrontare quantomeno una fase di adattamento alle logiche e ai
meccanismi della curva. La soluzione che scelgono dipende dai casi singoli;
cioè, dai contesti locali, dalle leadership esistenti in curva e dalle
circostanze in cui avviene il tentativo di infiltrarsi. In questo senso, e
mantenendosi su un piano analitico, bisogna distinguere tre tipi di leadership
nelle curve.
Il primo tipo è quello della leadership endogena e fa riferimento ai casi in cui
il comando sulla curva si strutturi all’interno della curva medesima. Il secondo
tipo è quello della leadership esogena, con la costituzione di gruppo per mano
di una regia esterna (che può essere quella di una grande organizzazione
criminale) da infiltrare nell’ecosistema della curva e consolidare in termini di
leadership e partecipazione al business. E c’è in fine la modalità di terzo
tipo, quella che possiamo etichettare come mista. Si tratta della soluzione che
vede un patto fra i gruppi ultras che regolano la vita delle curve e i gruppi di
criminalità organizzata che dall’esterno intendono partecipare al business.
Questo terzo tipo di leadership è anche il più complesso, poiché può esprimersi
in forme diverse: l’ammissione in curva di un nuovo gruppo, o l’inserimento di
rappresentanti dell’organizzazione nel gruppo dominante della curva, o la mera
attuazione di un principio di divisione del lavoro che lascia al gruppo
dominante della curva la piena gestione del proprio ambito (con possibilità di
espansione all’esterno) in cambio di una partecipazione ai profitti. Ovviamente
si tratta di una tipologia che non ha alcuna pretesa di essere esaustiva, ma che
può essere uno strumento utile per la lettura dei processi in corso e della loro
complessità.
Quante suburre da studiare
La tipologia appena illustrata ha comunque il pregio di fare intravedere quali
siano la varietà e la complessità delle strutture di potere nelle curve e la
loro propensione a contaminarsi con le organizzazioni criminali esterne.
Infatti, se si compie una panoramica di massima, si scopre che in ogni realtà
locale viene adottata una soluzione specifica. Tale soluzione tiene conto della
storia della singola curva, delle leadership attuali e del loro profilo, ma
anche delle culture criminali radicate nel territorio oltreché delle condizioni
di apertura/chiusura rispetto alle influenze delle grandi organizzazioni
criminali. Se il modello è quello di Suburra, allora è necessario declinarlo al
plurale e studiare ogni caso nella sua individualità per poi procedere a
generalizzazioni molto caute.
Riferimenti bibliografici
Dal Lago, A., 1990, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Bologna,
Il Mulino.
De Biasi, R. (a cura di), 2008, You’ll never walk alone. Mito e realtà del tifo
inglese, Milano, Shake.
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In occasione della gara casalinga tra la Cavese e il Potenza giocata il 26
ottobre, gli ultrà della Cavese hanno lanciato dagli spalti un forte messaggio
sociale, ricordando l’omicidio di Stefano Cucchi e sottolineando la necessità
dei codici identificativi per le forze dell’ordine: «Numeri identificativi nel
dimenticatoio… per chi come Stefano Cucchi ha subito la vostra repressione
l’unica via è la ribellione!». L’azione non è piaciuta al giudice sportivo, che
ha multato la Cavese con una sanzione da 200 euro per oltraggio nei confronti
delle istituzioni
di Salvatore Toscano da L’indipendente
In occasione del match casalingo con il Potenza, gli ultrà della Cavese hanno
lanciato dagli spalti un forte messaggio sociale, ricordando l’omicidio di
Stefano Cucchi e sottolineando la necessità dei codici identificativi per le
forze dell’ordine: «Numeri identificativi nel dimenticatoio… per chi come
Stefano Cucchi ha subito la vostra repressione l’unica via è la ribellione!».
L’azione non è piaciuta al giudice sportivo, che ha multato la Cavese con una
sanzione da 200 euro per oltraggio nei confronti delle istituzioni. La multa non
intaccherà l’impegno sociale dei tifosi; a metà ottobre il mondo ultrà ha
registrato un nuovo punto di rottura con la sovrastruttura calcistica italiana.
Il 13 ottobre in un incidente stradale hanno perso la vita tre giovani tifosi
del Foggia, di ritorno da una trasferta. I gruppi organizzati di tutta Italia
hanno messo da parte le rivalità e mostrato vicinanza alla Foggia calcistica.
Duro l’attacco unitario mosso nei confronti della FIGC e delle varie Leghe che
hanno deciso di non dare voce alla vicenda attraverso un minuto di silenzio
prima delle partite. «13-10-2024: la morte non è uguale per tutti!», hanno
scritto i tifosi della Cavese in uno striscione che ha accompagnato quello in
ricordo di Stefano Cucchi.
A mostrare solidarietà ai supporter biancoblu è stata la senatrice Ilaria
Cucchi: «Voglio ringraziare i tifosi della Cavese ed esprimere la mia vicinanza
a loro e alla società. Multata per uno striscione che ricorda non solo mio
fratello, Stefano, ma quanta strada abbiamo ancora da fare per dirci un Paese
davvero civile. Non so cosa sia stato considerato “oltraggioso nei confronti
delle istituzioni dello Stato” di queste parole. Però so perfettamente che un
oltraggio enorme è quello che fa la maggioranza rimandando continuamente
l’introduzione dei codici identificativi». Della necessità della misura si è
iniziato a parlare con insistenza a seguito del macello alla messicana messo in
atto dalle forze dell’ordine contro i manifestanti del G8 di Genova, nel 2001.
Negli anni gli appelli, interni e internazionali, si sono sprecati. Anche
l’Unione europea e le Nazioni Unite si sono espresse a favore dei codici
identificativi per gli agenti. Nel 2022 Amnesty International ha consegnato al
Capo della Polizia circa 150mila firme frutto della campagna “Codici
identificativi subito”. A mancare, dunque, nel nostro Paese è la volontà
politica, complice la levata sugli scudi dei sindacati di polizia.
Nel contestato disegno di legge 1660, caratterizzato per un forte impianto
repressivo, la maggioranza ha provato a dare un contentino alla società civile,
prevedendo che le forze dell’ordine “possano usare le bodycam in situazioni di
ordine pubblico e nei luoghi di trattenimento”. Possano, non debbano. La misura
sarà quindi facoltativa e le telecamere potranno essere riposte o spente quando
gli agenti lo riterranno opportuno. Oltre a bluffare sulle bodycam, la
coalizione guidata da Fratelli d’Italia ha glissato sui codici identificativi,
lasciando l’Italia tra gli ultimi Paesi europei a esserne priva.
«Lo sport è fondamentale anche per trasmettere un messaggio di civiltà. Spero
che siano tanti e tante, sempre di più, a condividerlo. E la politica a quel
punto non lo potrà più ignorare», ha concluso Ilaria Cucchi, sottolineando la
dimensione sociale che il calcio continua a veicolare, nonostante le continue
strette repressive mosse da più fronti.
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Come i media raccontano l’inchiesta di Milano con l’arresto di capi della
tifoseria: ultrà, mafiosi, trappers in un sottobosco lombrosiano, uniti contro
il «civile mondo calcistico»
di Vincenzo Scalia da il manifesto
L’inchiesta della procura milanese, culminata con l’arresto di alcuni capi
ultras, alimenta un nuovo filone della narrazione complottista. Gli inquirenti
meneghini avrebbero aperto il vaso di Pandora di un nuovo mondo di mezzo, dove
allignerebbe un’alleanza tra capi ultrà, criminalità organizzata, organizzazioni
di destra, trappers, rappers, che inquinerebbe il mondo del calcio, altrimenti
pulito e guidato dalla sportività decoubertiniana. Da qui al levarsi di voci
moralizzatrici a mezzo di repressione penale, il passo è breve. Ignorando che si
tratta di un’inchiesta ancora in corso, e che in fase processuale le posizioni
degli imputati spesso si ridimensionano. Si rende perciò necessaria una
riflessione che restituisca la contraddittorietà dei fatti.
Innanzitutto, è bene specificare che non ci troviamo di fronte ad una
trasformazione della tifoseria organizzata milanese in un’appendice della
‘ndrangheta. Alcuni membri della ‘ndrangheta sono tra gli ultrà, ma l’inchiesta
non fa emergere un rapporto di dipendenza. La tifoseria organizzata è dotata di
una struttura paramilitare, di una propria subcultura, e le utilizza per
controllare il territorio dello stadio. Le attività di cui si occupa, quali la
vendita dei replica kit, dei gadgets, il controllo dei parcheggi e degli stand,
vengono svolte con forme estorsive, da quel che traspare.
Insomma, si tratta di organizzazioni che, per struttura e finalità, competono
sul territorio con la criminalità organizzata, ma non ne dipendono. Esistono
forme di conflitto (come l’omicidio Bellocco) e di cooperazione, come spesso
avviene, ma non di organicità e di dipendenza.
Quanto al rapporto tra società e ultrà, si tratta di un terreno spesso paludoso.
I calciatori, i dirigenti, presenziano a svariate iniziative organizzate dalle
tifoserie organizzate, e non necessariamente conoscono in dettaglio i
particolari della vita delle persone da cui sono invitate e che gli chiedono i
selfie. Certo, c’è la parte relativa ai biglietti, ma anche nei periodi
anteriori al calcio globalizzato odierno i canali di conoscenza personale
funzionavano per ottenere i tagliandi per assistere al match. È vero che oggi la
tessera del tifoso rende tutto più difficile, ma ci sarebbe semmai da riflettere
sull’utilità di questo istituto.
L’operazione che va fatta è semmai quella di togliere il velo di ipocrisia in
merito ai rapporti tra società calcistiche e tifoserie organizzate. Gli ultrà,
col loro presidio e controllo del territorio, rappresentano per un verso un male
necessario, con cui le dirigenze debbono fare i conti. Dall’altro lato, però, la
loro mobilitazione, rappresenta spesso una risorsa a cui i vertici attingono per
dirimere conflittualità interne, per liberarsi di allenatori o calciatori
scomodi, per fare pressione sugli organismi direttivi nazionali. Ancora
ricordiamo il 2003, quando la tifoseria laziale aiutò la dirigenza biancoceleste
a risolvere la controversia col fisco, o quella dei tifosi catanesi per ottenere
la riammissione in serie B, con alla testa personalità politiche di spicco.
Se qualche sospetto affiora, riguarda il modo in cui la vicenda rappresentata a
livello mediatico. Ultrà, mafiosi, trappers, vengono ammucchiati in un unico
sottobosco lombrosiano, pronti a sferrare la minaccia sul civile mondo
calcistico. Una lettura facile, ad uso dei benpensanti di ogni colore politico,
che però sortisce due risultati immediati. Il primo è quello di distogliere
ulteriormente l’attenzione su passaggi di proprietà, investimenti e crisi
finanziarie che investono il calcio italiano, che vedono all’opera personaggi su
cui non ci si interroga fino in fondo. In secondo luogo, l’inchiesta cade a
fagiolo proprio quando entra nel vivo la questione sul nuovo stadio di Milano.
Le dirigenze delle squadre milanesi, come le altre, smaniano per devitalizzare
gli stadi, rimasti l’uno luogo di aggregazione di massa, per trasformarli nella
brutta copia di centri commerciali. Questa inchiesta può aiutare ad accelerare
il processo di bonifica auspicato. È vero, gli ultrà sono egemonizzati dalla
destra. Ma non è solo colpa loro, ma anche di chi ha scelto di abbandonare il
territorio. E di chi traveste il business da De Coubertin.
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Osservatorio Repressione.
Storia di una verità scritta dal basso
di Claudio Dionesalvi da il manifesto
Sono trascorse poche ore dalla morte di Denis Bergamini. È il 18 novembre del
1989. Il suo corpo senza vita è sdraiato nell’obitorio dell’ospedale di
Trebisacce, sulla costa jonica cosentina. Nella camera mortuaria entrano quattro
persone: un frate e tre giovani. Sono ultrà del Cosenza Calcio. A guidarli è
Piero Romeo, un leader della tifoseria, ma guai a chiamarlo capo, perché “il
gregge ha un capo, il branco no”. Piero è fondatore, insieme a Padre Fedele
Bisceglia, della Mensa dei Poveri, dove ogni giorno mangiano 40 diseredati.
Bisceglia è un missionario francescano. In curva lo chiamano “Il Monaco”. La
Mensa è pure il covo degli ultrà cosentini, nel centro della città. Del
quartetto fanno parte anche Vincenzo Speziale, detto “Pasta china” (pasta
ripiena –Ndr) e Sergio Crocco “Canaletta” che tanti anni dopo diverrà influencer
e poeta vernacolare.
I quattro entrano nella camera mortuaria. Denis è solo. I familiari sono stati
informati della tragedia; stanno viaggiando, devono arrivare da Argenta, in
provincia di Ferrara. Il Monaco solleva il lenzuolo. Piangono tutti e quattro,
ma c’è qualcosa che non torna. Il corpo di Denis non è straziato dalle ferite
riportate nell’investimento. “Sembrava stesse dormendo”, dirà Vincenzo. Il volto
è immacolato, il torace e le braccia senza un graffio. Il primo ad aggrottare le
sopracciglia è Piero. Conosce la città fino alle sue zone più ombrose. Gliela
raccontano i “matti”, i senza-fissa-dimora, che lo adorano, perché lui è il
primo cittadino laico ad averli accolti. Inoltre Piero ha una singolare capacità
di cogliere le perversioni, il disagio psichico malcelato, le manie in voga
negli ambienti borghesi che conosce e frequenta perché sono gli stessi a
contribuire volontariamente, mediante donazioni, al funzionamento della Mensa.
Tra i suoi più stretti collaboratori c’è Pasta China che è il custode dei
segreti della squadra, l’emissario degli allenatori del Cosenza, che lo hanno
incaricato di tenere d’occhio i calciatori e badare che non si lascino andare a
vizi e distrazioni.
Il giorno dopo, Piero e gli altri tornano in quello che per loro non è più il
teatro di un suicidio, bensì il luogo di un delitto. Sono loro i primi ad
indagare sulla morte di Denis. Lo fanno con grande discrezione, in silenzio,
perché non hanno prove e temono di sollevare uno tsunami di sospetti. Sulla SS
106 eseguono rilievi, misurazioni. Piero disegna un bozzetto planimetrico che 30
anni dopo finirà agli atti del processo giunto poche ore fa a sentenza con la
condanna a 16 anni di reclusione per l’ex fidanzata di Denis, Isabella Internò.
A due giorni dalla tragedia, nella sua trasmissione “Il Processo del Lunedì”, è
Aldo Biscardi a chiedere all’autorevolissimo telecronista Emanuele Giacoia come
mai sia stata già scartata l’ipotesi di omicidio. Negli anni successivi,
Oliviero Beha, Santi Trimboli e altre grandi firme del giornalismo torneranno a
porre la medesima domanda, con insistenza.
Eppure, un velo di oblio calerà per qualche tempo, fino a quando Carlo Petrini,
ex calciatore, poi divenuto scrittore ed autore di libri che denunciano il
malaffare nel sistema calcio, nel 2001 pubblicò “Il calciatore suicidato” (Kaos
Edizioni). Per conoscere la storia di Petrini bisogna vedere il docufilm
“Centravanti nato”. Dovrebbero proiettarlo in tutte le scuole calcio. Lessi il
suo libro sulla morte di Denis e rimasi turbato. Non era la ricostruzione dei
fatti a inquietarmi, bensì la descrizione dell’ambiente sportivo e sociale della
città in cui sono nato e vivo. Secondo Petrini, non c’erano dubbi: Denis sarebbe
stato ucciso perché coinvolto in affari illeciti della malavita locale.
All’epoca collaboravo con Il Quotidiano della Calabria. Scrissi una recensione,
il giornale la pubblicò e mi impressionò molto il nervosismo che quella pagina
scatenò. Qualcuno chiamò in redazione per lamentarsi. Allora rimasi ancor più
convinto del valore di quel libro, ma c’erano due dettagli che mi lasciavano
perplesso: la mancanza di un movente chiaro ed il presunto ruolo della
‘ndrangheta. In Calabria come altrove, la mafia è una calamità, ma troppo spesso
funge da spaventapasseri e da parafulmini. Quando non si possono o non si
vogliono additare i veri responsabili di certe malefatte, si dice che è stata la
‘ndrangheta. Come sparare verso il cielo. Così però rimangono impuniti uomini
corrotti nelle istituzioni ed un’intera classe politica che della malavita è
guida, protezione, complemento. Mi misi in contatto con Carlo Petrini, gli
riferii le mie perplessità e gli proposi di scendere a Cosenza per presentare il
suo libro. Al telefono, mi disse che per il momento non sarebbe potuto venire,
perché le sue condizioni di salute non glielo permettevano. Infine mi sfidò:
“Facciamo così, se lei mi risponde ad una domanda, quando verrò a Cosenza le
dirò perché è stato ucciso Bergamini”.
Bisognerà aspettare il deposito delle motivazioni della sentenza emessa dalla
corte d’Assise di Cosenza poche ore fa, prima di rivelare quale fu il quesito
postomi da Petrini. Comunque era sin troppo chiaro che mi stava provocando e che
la sua era una domanda retorica. All’epoca, il mio oracolo si chiamava Piero
Romeo. Lui non mi aveva mai parlato dei suoi sospetti sulla morte di Denis. Del
bozzetto planimetrico, da lui disegnato, sono venuto a conoscenza solo di
recente. Mi precipitai da Piero. Aveva una personalità magnetica, viveva a
stretto contatto con la città, ma a volte non disdegnava la solitudine. Il poeta
Arthur Rimbaud se ne andò in Africa a vendere armi. Piero si rifugiò a Rende,
vicino Cosenza, dove aprì un ristorantino. Gli girai la domanda che Petrini mi
aveva posto pochi minuti prima al telefono. Piero rimase in silenzio per qualche
secondo, poi rispose. E un istante dopo, ammonì: “Non chiedermi più nulla”. Mai
sentito il suo tono di voce così rabbioso ed impotente! Mi convinsi allora che
qualcosa di brutale doveva essere avvenuto davvero quella sera di novembre, nel
1989, sulla strada statale 106.
Trascorre ancora qualche anno. Il tam tam riparte dai social. Nel 2009 il
ternano Alessandro Piersigilli, dipendente pubblico ed appassionato di inchieste
giornalistiche, apre il gruppo “Giustizia per Donato Denis Bergamini”. A Cosenza
nasce un’associazione che chiede verità. Il fotoreporter cosentino Luigi Celebre
scava tra i materiali delle indagini archiviate, contatta testimoni, recupera ed
analizza le fotografie della tragica sera in cui perse la vita Denis. E si rende
conto che ritraggono la scena di un crimine. Con lui, ad indagare nell’ombra, ci
sono dei ragazzi dei Cosenza Supporters. Su una testata locale, Cosenza Sport,
il giornalista Gabriele Carchidi è il primo ad ipotizzare il movente
“passionale”. Da questo momento, scatena una guerra personale contro gli
insabbiatori e quelli che individua come gli assassini del calciatore. Nel 2013,
davanti al tribunale di Cosenza, centinaia di persone chiedono verità e
giustizia. Si pubblicano libri. Programmi televisivi e rotocalchi ricostruiscono
l’intera vicenda.
Dal 2015 il blog iacchite’, di cui Carchidi è direttore e Michele Santagata
redattore, conduce una campagna ostinata per giungere alla riapertura del caso.
Riceve querele e minacce, però non si ferma. Ed affianca una persona che in
questa tragedia lunga 35 anni, sin dall’inizio, non ha mai ceduto. Neanche per
un istante. Così ha costretto la giustizia a fare i conti con sé stessa. Si
chiama Donata ed è la sorella di Denis. È rimbalzata da un capo all’altro di
questo Paese, ottenendo solidarietà; ha rinunciato alla propria esistenza,
affrontando spese immani e notevoli ostacoli. È soprattutto merito suo se oggi
abbiamo una risposta alla domanda che milioni di persone ponevano. E poi ci sono
loro, gli ultrà. Non solo quelli di Cosenza, ma anche gli altri. In tutto questo
tempo, hanno esposto striscioni, lanciato cori, sostenuto in ogni modo la
battaglia per l’accertamento dei fatti. Sino a domenica scorsa, quando in
diversi stadi d’Italia e d’Europa sono apparsi striscioni imploranti verità per
Denis. Perché gli ultrà si affezionano alle proprie “bandiere” fino a vivere in
simbiosi con esse. E se una mano assassina le recide, sono i primi ad
accorgersene.
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