(disegno di otarebill)
“Era una città di plastica / di quelle che non voglio vedere / con edifici
cancerogeni / e un cuore di paccottiglia / dove invece del sole sorge un dollaro
/ dove nessuno ride, dove nessuno piange / con gente dalle facce di polistirolo
/ che sentono senza ascoltare e guardano senza vedere / gente che ha venduto per
la sua comodità / la sua ragion d’essere e la sua libertà”.
Poteva essere questa strofa di Rubén Blades e Willie Colon l’epigrafe del
libro La rivolta nella città di plastica, di Marco Santopadre, una breve
inchiesta sulla turistificazione estrema della città basca di Donostia (San
Sebastián) pubblicato qualche mese fa dalla Red Star Press di Roma. La mitica
canzone Plástico del 1978, un capolavoro della salsa, è un’invettiva ironica
contro la superficialità delle donne, degli uomini e delle città del continente
americano. Negli anni Settanta questi musicisti latinos di New York vedevano
come il modello urbano consumista statunitense si riproduceva anche nei loro
paesi d’origine. Mezzo secolo dopo questa plastificazione ha raggiunto tutte le
città del mondo: le capitali, come Roma, che con il Giubileo è stata finalmente
consegnata alla grande finanza internazionale; ma anche le città meno
centrali. Una è sicuramente Donostia (è il nome basco: in castigliano è San
Sebastián), la “perla del Cantabrico”, nel nord della penisola iberica.
Santopadre, che conosce bene il paese basco, e che per questo libro ha svolto
dieci interviste ad attivisti, sindacalisti, consiglieri comunali, portavoce
delle associazioni di quartiere, racconta di un passato recente in cui la città
aveva due facce: la San Sebastián “turistica, godereccia, dai tratti raffinati,
un po’ snob e un po’ retrò”; e la Donostia “estremamente popolare, combattiva,
impegnata, verace, dai modi diretti e informali” (p.14). Per decenni questi due
mondi hanno condiviso lo stesso territorio, forse ignorandosi, o disturbandosi
tra loro poco più delle due città di The city and the city di China Mieville.
Ultimamente, però, ed è il tema del libro, la prima ha “fagocitato” la seconda.
Come nel libro di Mieville, si parla di classi sociali: la città borghese ha
sconfitto la città popolare, divorando anche il suo mondo vitale, la sua lingua
indigena (l’Euskera o basco), le sue mobilitazioni politiche. Lo strumento di
questa vittoria è il turismo; o meglio, la trasformazione della città in una
monocultura turistica.
A differenza della vicina Bilbo (Bilbao), città operaia e industriale che si è
aperta al turismo solo dopo la costruzione del museo Guggenheim a fine anni
Novanta, con il “recupero” delle zone abbandonate dalla deindustrializzazione,
Donostia ha alle spalle due secoli di turismo: perciò la tipica risposta alle
critiche al turismo è che Donostia “è sempre stata turistica” (p.31). Per il suo
clima e la sua posizione, era meta di vacanze termali per l’aristocrazia già
nell’Ottocento; e anche il dittatore Francisco Franco vi passò le estati dal
1940 fino alla morte, nel 1975. Ma per quarant’anni tutta la regione
basca, Euskadi, è stata lo scenario della conflittualità indipendentista
dell’ETA, di enormi mobilitazioni contro lo stato spagnolo, e della kale
borroka, la guerriglia urbana dei giovani. Forse queste grandi mobilitazioni
sono riuscite a tenere alla larga non tanto lo stato, quanto la massificazione
turistica che incombeva sulla regione (della turistificazione di Bilbao parla
anche l’ultimo capitolo del libro di Santopadre, a partire dal lavoro di Adriano
Cirulli, altro grande conoscitore del país vasco).
Santopadre spiega infatti che la deposizione delle armi di ETA ha segnato
l’inizio del nuovo ciclo di turistificazione. Nello stesso anno dell’annuncio
di ETA, il 2011, Donostia fu candidata a “Capitale europea della cultura” per il
2016 (l’anno in cui si seppe che il dubbio privilegio sarebbe stato riservato
anche a Matera; pochi anni dopo a Procida). Queste grandi celebrazioni
cementificano nuove alleanze nelle élite: come le Olimpiadi di Barcellona del
1992, annunciate dall’ex ministro franchista Jose Antonio Samaranch, che
sancirono la ritrovata unità economica di destra e sinistra sotto il vessillo
dell’impresa e della gentrificazione, così Donostia 2016 è diventata subito il
paradiso dell’industria turistica. Non passa neanche un anno dal “grande
evento”, che già la turistificazione è estrema; nascono le organizzazioni contro
l’overtourism – un termine che il libro giustamente critica, perché la questione
non riguarda la quantità di turisti; e neanche la “qualità” (pp. 100-110).
Subito dopo la pandemia del 2020 già un quinto dei posti letto nelle zone
centrali sono per il turismo (p.49), con il conseguente calo dei residenti (non
pronunciatissimo: nel quartiere centrale le statistiche registrano il dieci per
cento in meno in venti anni, anche se probabilmente esponenziale; p.51). “Siamo
in pericolo”, dichiara un’intervistata (l’unica donna).
Quella di Donostia, per uno degli intervistati, sarebbe una “gentrificazione con
caratteristiche proprie” (p.51). Eppure – circondata dagli aeroporti, funestata
dal lavoro precario e stagionale, satura di bar e bnb (per lo più gestiti da
gruppi imprenditoriali), inzeppata di installazioni artistiche, svuotata
dall’aumento degli affitti, con il conseguente “sradicamento di un’intera
generazione […] oltre all’indebolimento delle reti comunitarie e perdita
dell’identità locale” (p.58) – si fatica a vedere in cosa sia diversa dalle
migliaia di altre città gentrificate. Il libro ripercorre tutte le politiche con
cui l’amministrazione ha favorito la turistificazione estrema: dalla concessione
di licenze per hotel in deroga alle norme edilizie, alla demolizione di edifici
storici di cui si mantengono solo le facciate, fino agli “errori” intenzionali
che hanno accelerato la distruzione della città; e anche le denunce dei numerosi
collettivi, studiosi e associazioni di abitanti, quasi sempre senza risultati,
almeno nei tribunali.
Al di là della forma specifica di vendere Donostia come capitale
enogastronomica, una narrativa di cui Santopadre ripercorre lo sviluppo – dal
2009 che si fonda il Basque Culinary Center, si celebra la fiera San Sebastian
Gastronomika, si trasformano le sidrerie in ristoranti brandizzati, fino
all’assurdità dell’Instituto del Pintxo (p.83) – è evidente che i processi
descritti nel libro sono proprio esempi da manuale. Le città gentrificate non si
distinguono per forma, storia e vita, ma per il tipo di offerta che propongono
ai nuovi arrivati – turisti o gentrificatori. Ed ecco la plastica! È
il packaging che trasforma la città in un pacchetto che i visitatori possano
consumare rapidamente. Ma è anche una metafora dell’abbellimento superficiale,
della ripulitura frettolosa, del consumo in serie, colori e forme attraenti ma
identiche ovunque. Il simulacro si moltiplica al punto di sostituirsi alla
città. Anche questo processo è standard: lo descriveva Harvey in The Art of
Rent ventitré anni fa, spiegando che le città per farsi “globali” sono costrette
a distruggere ciò che le rende uniche. Donostia oggi è analoga alla Cappuccino
city di Derek Hyra, ma anche alla città di Santa Chiara, le cui mirabolanti
avventure racconta Diego Miedo; di fatto, a tutte le altre città turistificate
del mondo. Tutte in mano ai city killers, come li chiama Lucia Tozzi.
Quello che manca in questo racconto però è la rivolta del titolo. In questa
città di plastica, dov’è l’abitante di Zerocalcare che esce col fucile gridando
“Rebibbia non sarà mai il nuovo Pigneto! Le vostre apericene fatele da un’altra
parte”? O quello di Diego Miedo che grida “Americani di merda non saremo mai il
vostro zoo”? Dopo lo scioglimento dell’ETA forse è fuori luogo invocare le armi.
Ma è vero anche che l’invasione turistica attuale, soprattutto dopo la pandemia,
non ha mai prodotto niente di simile alle proteste anti-gentrificazione degli
anni Ottanta, come la rivolta fondativa di Tompkins Square nel 1988. Ci sono
gruppi di abitanti critici, reti internazionali come SET, libri ed eventi contro
il turismo – ma pochissime rivolte. Un’eccezione forse è stata quest’estate
a Città del Messico contro i turisti statunitensi, che le autorità hanno
rapidamente definito violenza xenofoba. Le rivolte contro la plastica sono nella
nostra immaginazione, sono prefigurazioni, dei simulacri, plastica anche loro.
Rivolte vere, per ora, né a Donostia né altrove. Anche perché sarebbe assurdo
prendersela con i turisti, ingranaggi della macchina, quasi sempre
inconsapevoli.
Ma anche sul campo della consapevolezza non siamo avanzati molto. Nel 1979 Ruben
Blades e Willie Colon spiegavano chiaramente la strada contro la
plastificazione: “Senti latino, senti fratello, senti amico – dice l’ultima
strofa della canzone Plástico – non lasciarti confondere / dall’oro o dalla
comodità! / Andiamo tutti sempre avanti / c’è ancora molta strada da fare / per
farla finita tutti insieme / con l’ignoranza che ci mantiene suggestionati / con
modelli importati / che non sono la soluzione. / Non lasciarti confondere /
cerca il fondo e la sua ragione / e ricorda: si vedono le facce / ma non si vede
mai il cuore”. Studiare, lavorare, andare sempre avanti, contro i modelli
statunitensi di plastica: “Ricordati che la plastica si scioglie / quando
la illumina il sole” canta Ruben Blades mentre il coro ripete “si vedono le
facce, si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Questa era la strada
con cui “vinceremo insieme”. Per il momento, la vittoria non è arrivata.
Cosa vuol dire “cercare il fondo e la sua ragione” nella città di plastica? Le
facce di plastica hanno un retro, un fondo, dove si vede la filettatura, il
segno della fusione, che ne rivela la natura artificiale, prestampata.
Turistificazione e gentrificazione sembrano un pezzo unico, da prendere o
rifiutare in blocco, magari regolando quantità e qualità. Il punto di
fusione, nascosto, mostra invece che questi fenomeni sono un’accozzaglia di
eventi disparati – dai finanziamenti pubblici alle low cost, alla mancanza di
regolazioni sugli affitti brevi – fusi insieme da un discorso pubblico che li
presenta come solidi e coerenti. E invece sono le forme del momento, che
possono cambiare anche all’improvviso. Santopadre, per esempio, spiega il
moltiplicarsi degli immobili di lusso (p.119-125), come un nuovo ciclo di
valorizzazione (anche se secondo me sbaglia nel considerarla un “dopo” la
gentrificazione). A Roma, per esempio, la fase non è più quella puramente
turistica: abbiamo il lusso e i maxi studentati (ne parla Chiara Davoli nel
numero dello Stato delle città di prossima uscita); altrove le politiche urbane
portano tutt’altro, dall’abbandono di Detroit ai massacri di Rio de Janeiro.
Dipende da come reagisce la società.
Di fronte alla città di plastica, la ricerca dovrebbe fare come il sole della
canzone: scioglierla. Scomporne i fattori, capirne gli equilibri, cosa tenere e
cosa respingere, quali forze si legano a ogni pezzo; smentire sistematicamente
il simulacro, la performance scintillante. Francesco Migliaccio ipotizza che la
stessa idea di gentrificazione contribuisce a nascondere le diverse tendenze che
influenzano la vita urbana, togliendoci lucidità. Un’altra metafora utile è
quella di Mike Davis, Città di quarzo: gli aspetti apparentemente inconciliabili
della vita urbana si riflettono tra loro come in un cristallo. Anche Marco
D’Eramo in un gran libro su Chicago mostra come la città tiene insieme elementi
diversissimi: Il maiale e il grattacielo. La metafora ci serve anche per la
struttura politica che promuove questi processi, cioè lo stato. David Graeber ha
spiegato che lo stato è un’accozzaglia di elementi inconciliabili tenuti insieme
da una retorica convincente, ma che possono sciogliersi in qualunque momento.
Anche a Roma dobbiamo capire come si interfacciano le scenette del sindaco con
il giubbetto catarifrangente, le parate militari, la vendita di un appartamento
per sedici milioni di euro, la Royal Caribbean che si prende Fiumicino. Senza
farci confondere dai giornali che ci mostrano un progetto unico e coerente da
accettare o rifiutare. “La strategia di orientare il dibattito politico verso
l’antinomia ‘turismo sì-turismo no’ – scrive Santopadre – serve a coprire le
responsabilità politiche e istituzionali nei cambiamenti strutturali imposti ai
nostri quartieri”. Inchieste come questa ci aiutano a sciogliere tutta questa
plastica, e a cercare il fondo. (stefano portelli)
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I conflitti attorno all’acqua sono più che mai evidenti, ma da sempre i regimi e
i governi cercano di controllare l’aspetto del territorio attraverso lavori
idraulici come dighe o bonifiche per controllare la popolazione, sia locale, sia
nazionale attraverso la propaganda. Modificare il territorio significa
espropriare intere comunità delle loro ricchezze naturali e dell’economia
consuetudinaria su cui si reggono e portano sempre a una militarizzazione e ad
un accentramento del potere che difficilmente potrebbe imporsi in territori
impervi come le montagne o le paludi. Prendiamo ad esempio l’abbassamento del
lago di Sevan riportato da Giulio Burroni nell’articolo “acqua sovrane, di
guerra e di propaganda” uscito su Il Tascabile
(https://www.iltascabile.com/scienze/acque-sovrane-guerra-propaganda/)
Il libro “gli uomini pesce” ed. Einaudi vede protagonisti Antonia e Sonic alla
scoperta dei segreti lasciati da Ilario Nevi, partigiano regista e attivista
ambientale, nonchè nonno di Antonia. Nell’estate della più grande siccità degli
ultimi anni, il Po si è ritirato fino a diventare un rigagnolo, mentre la
stagione estiva impazzava nel vicino litorale ferrarese, l’ambiente paludoso del
Delta ha mostrato tutta la sua fondamentale importanza. Un territorio difficile,
costretto a ritardatarie bonifiche e che ha visto uno dei pochissimi casi di
guerra partigiana combattuta su barche. La storia di Ilario racconta tutto
questo: la resistenza, ambientale e antifascista, di un territorio unico. Gli
uomini pesce, disegnati come mostri, sono in realtà i difensori popolari dei
territori, mostri che preservavano le acque e che hanno limitato l’espansione
antropologica in territori difficilmente accessibili.
Ne parliamo con l’autore Wu ming1 (e ci scusiamo per la qualità della diretta)
Qualche lettura tratta da “addio alle valli” di Francesco Seratini, poeta
romagnolo che racconta la vita delle genti e dell’ambiente del Delta del po.
(disegno di dalila amendola)
Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile è un bel
libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i
Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume
costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di
giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un
quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario
nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in
vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore
di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei
penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo
arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti.
Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le
storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili
campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini – ora hanno rispettivamente
sedici e diciassette anni – e li ho seguiti come educatore per buona parte della
loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e
le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori.
M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto,
connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le
proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e
irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e
probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del
calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli
suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi,
hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla
sperimentata, di stare in una comunità.
Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente
raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di
violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del
libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a
chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di
volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e
quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni
fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se
non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti
costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per
istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”,
la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato
sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che,
nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che
hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per
i maltrattamenti aggravati – si legge nel volume – esercitati tra il 2021 e il
2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti
subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente
nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto
inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024
vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono
anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno però
aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico,
due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”.
Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee
generali, ragionando – sempre a partire dalle parole dei ragazzi – sul (non)
funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli
più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria
della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi
e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che
istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della
renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano
senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi
migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue
evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni
tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di
alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”,
invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie.
Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire
spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è
quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del
sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di
detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna
calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti.
Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di
momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle
possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei
ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la
maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento
psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria
della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza
dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un
qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”.
Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con
cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del
progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata
alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del
complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali,
compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli
adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a
pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più –
mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di
scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le
sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro
stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture.
Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella
brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la
repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale,
che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso
la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di
crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia,
di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura
verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la
chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità;
preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino
le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è
indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere
una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche
vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi
necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il
rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto
assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi.
Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana
avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo
modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che
possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite
istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. (riccardo rosa)
(disegno di otarebill)
Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci,
Roma, 2025, pagg.119, euro 14.
Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una
ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti,
seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica
(soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la
dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale
sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La
conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare
oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze
del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe
operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale
– diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore.
E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto
subisce.
Bottalico propone innanzitutto una perimetrazione – non scontata né
semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un
qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è
affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente
impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i
lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti
si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da
molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono
le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene
generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine
chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola,
di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica
significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una
scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti
nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione,
espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che
hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come
Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9)
Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce
quanto le trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione
di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso”
integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano
sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale
sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni
tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la
logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni.
La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”,
rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta
intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di
esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate
quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti.
Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la
costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire
questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci.
Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la
precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di
molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il
loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento del margine di profitto.
“L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come
l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti
sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo
sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le
precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in
Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono
stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello
logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli
ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il
mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si
sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11)
Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi
storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la
ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel
mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete
ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità
integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi
corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura
sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei
binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori
portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli
anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede
una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre
figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e
sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che
caratterizzava le diverse fasi storiche.
La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di
professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale –
è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito
nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la
manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro
dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in
cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento
esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui
territori.
“La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La
storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia
della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di
usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce.
In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed
utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi
e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale
che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato
da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o
committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla
destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per
investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma
di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica
prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di
trasferimento di una merce”. (pag. 10)
L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui
fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce
dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da
indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella
definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il
processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a
isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso
cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al
committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di
“delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni
contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i
luoghi “centrali” del processo produttivo.
Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche
per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della
logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo
italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto
produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà,
sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha
riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del
legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore
logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali
anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone
industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre
alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube.
Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato –
anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia
pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di
base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un
pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto
Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di
questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei
picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)
(archivio disegni napolimonitor)
Oggi, giovedì 29 maggio, alle ore 17:30, presso Zero81 – Laboratorio di mutuo
soccorso (largo Banchi Nuovi, 10), sarà presentato il nuovo volume del
collettivo Into the Black Box, intitolato Futuro presente. Il dominio globale
del mondo secondo Amazon. Il dibattito vedrà la partecipazione di Niccolò
Cuppini e Maurilio Pirone.
* * *
Il caso Amazon ha generato un vasto dibattito a livello internazionale. Anche in
Italia, in questi anni, non sono mancate pubblicazioni, traduzioni e analisi
critiche. Altre ricerche promettenti sono tuttora in corso, e contribuiranno a
delineare un quadro complesso. Tra le numerose pubblicazioni che hanno
affrontato l’argomento, tre volumi meritano di essere menzionati. Il costo della
spedizione gratuita. Amazon nell’economia globale, curato da Jake
Alimahomed-Wilson ed Ellen Reese, è un testo fondamentale per comprendere le
molteplici caratteristiche di questa multinazionale. Il Magazzino di Alessandro
Delfanti offre invece un’indagine puntuale sulla vita all’interno dell’hub
logistico Amazon di Piacenza. Infine, Conflitto di classe e sindacato in Amazon,
curato da Marco Veruggio, è un volume agile che raccoglie i contributi di alcuni
collaboratori di Amazonians United (questo volume lo abbiamo presentato di
fronte ai lavoratori della logistica distributiva napoletana in stato
d’agitazione da oltre un anno).
A questa ricca letteratura si aggiunge ora Futuro presente. Il dominio globale
del mondo secondo Amazon (Red Star Press, 194 pagine, 20 euro), curato dal
gruppo di ricerca Into The Black Box. Questo collettivo, nato dalle esperienze
di lotta nell’area metropolitana di Bologna, si è distinto negli ultimi anni per
la capacità di elaborare riflessioni teoriche di ampio respiro sulle
trasformazioni del capitalismo contemporaneo.
Trovare un minimo comune denominatore tra questi testi non è facile, ma in
ognuno si percepisce lo sforzo, declinato in modi diversi, di comprendere una
fase storica definita dalla personalizzazione di massa, un fenomeno scaturito
dalla coniugazione tra mondo logistico e digitalizzazione. L’ultimo lavoro di
Into the Black Box nasce da un’inchiesta territoriale sulla logistica, che ha
presto dovuto confrontarsi con dinamiche che andavano oltre il territorio
d’indagine. E il nesso tra il locale e il globale, in questo contesto, non
poteva che essere il colosso multiforme di Jeff Bezos.
Come sottolinea Sandro Mezzadra nella prefazione, l’intento non è ridurre il
capitalismo a una semplificazione su Amazon (dato che sul mercato globale
operano anche altri attori simili come Mercadolibre e Alibaba). Si tratta
piuttosto di analizzare un modello di integrazione di diversi piani di azione
economica che, nel loro insieme, manifestano “un potere infrastrutturale che
mira a egemonizzare le relazioni socio-economiche”. Amazon non si limita a
invertire il rapporto tra circolazione e produzione, ma esemplifica e condiziona
le operazioni del capitale, colonizzando e privatizzando il futuro. Da qui il
titolo del volume. Il collettivo dimostra come Amazon sia molto più che semplice
logistica, evidenziando che l’irrompere del digitale ha ibridato la materialità
stessa delle infrastrutture. In quest’ottica, Amazon si configura come “capitale
costituente”, capace di agire come un ecosistema espanso e gerarchico che si
allarga in altri settori, influenzando la sfera sociale e politica.
Il volume analizza e mette in relazione molteplici dimensioni. Amazon funge da
punto di accesso per indagare l’intreccio tra salto tecnologico, relazioni
socio-economiche e questioni politiche. La sfida è comprendere a fondo il
paradigma Amazon: un’azienda partita come startup e cresciuta fino a valere
miliardi di dollari, che si struttura come un impero commerciale con una
proiezione globale. Un gigante che si caratterizza per la sua aspirazione a
dettare standard e regole del mercato, monopolizzando ambiti cruciali attraverso
specifiche politiche di sviluppo, un assemblaggio spregiudicato di giochi
finanziari, uso di nuove tecnologie, modalità originali di organizzazione della
forza lavoro e una spiccata capacità di influenzare il potere politico dello
stato.
Secondo questa interpretazione, Amazon agisce come soggetto politico in un
doppio senso: sia come un’infrastruttura dotata di un potere di indirizzo dei
flussi di merci, informazioni, saperi e capitali, sia come un vero e proprio
attore politico che si sovrappone alle prerogative che in precedenza
appartenevano alla sfera pubblica. Unendo razionalità logistica, innovazione
tecnologica e servizi digitali, Amazon gioca un ruolo determinante
nell’espansione del capitalismo contemporaneo, arrivando a indirizzarne lo
sviluppo e incidendo tanto sulla dimensione territoriale della metropoli
planetaria quanto sull’immaginario collettivo, fondato sulla fusione tra
tecnologia e lavoro umano.
Di fronte a questo scenario, una prima risposta che emerge dal volume sembra
essere la critica all’ineluttabilità di queste dinamiche. L’analisi di Amazon
non si limita a descrivere un impoverimento dell’esperienza umana, ma suggerisce
altre possibilità di azione dall’esito non prevedibile. Si intravede quindi
un’ambivalenza, secondo gli autori del volume. Il ruolo sempre più
“infrastrutturale” di colossi come Amazon nella riproduzione sociale e nella
gestione della macchina statale ci pone dinanzi a nuove sfide, che possono
essere affrontate con gli strumenti che questi stessi processi mettono in
circolazione. L’enorme quantità di dati accumulati, elaborati e utilizzati dalle
Big Tech, conferisce loro un potere che si dirama in tutte le nostre interazioni
sociali e che non si limita a fotografare l’esistente, ma delinea il campo di
possibilità del nostro agire.
Questo punto merita attenzione. Se è vero che siamo davanti a una
“amazonizzazione della società”, se il dominio globale del mondo secondo Amazon
è dettato dalla capacità di sintetizzare diverse operazioni del capitale, di
costruire immaginari e di esercitare un potere governamentale, e se in
definitiva questo paradigma ingabbia e al contempo sprigiona energie vitali, è
importante riconoscere che la diffusione di queste dinamiche non è omogenea.
Nelle società avanzate persiste un divario significativo tra tecnologia
potenziale e quella effettivamente applicata, sia nel progresso tecnologico in
sé che nelle sue applicazioni ai processi produttivi e distributivi. Accanto a
risorse inutilizzate come valore non impiegato nella produzione, forza lavoro
disoccupata, risorse naturali non sfruttate e capacità produttiva latente,
esiste anche una plustecnica potenziale: uno scarto ben superiore al semplice
ritardo applicativo, tra ciò che la tecnologia potrebbe fare e ciò che fa
realmente.
Questo suggerisce sia una certa fragilità del potere infrastrutturale che una
non linearità dello sviluppo che il paradigma Amazon potrebbe indirizzare. Se
questa premessa è corretta, si può ipotizzare l’intima irrazionalità del
capitalismo di cui Amazon è una diretta espressione. Il suo potere
infrastrutturale potrebbe essere più debole di quanto non sembri, e di pari
passo, il dominio delle Big Tech su economia, politica, società e immaginari
rischia di essere sovrastimato. Sebbene Amazon stia costruendo una realtà
malleabile e riprogrammabile a suo piacimento, questa stessa realtà è
sovvertibile in una pluralità di modi tutti da sperimentare o, meglio, che si
stanno già sperimentando.
Il lavoro di ricerca collettivo di Into the Black Box getta una luce sulle
dinamiche di espansione e colonizzazione di un colosso che è molto più di un
e-commerce, indagandone ramificazioni e forme del potere e stimolando una
riflessione sulle pratiche di conflitto da escogitare per il futuro. (andrea
bottalico)
(disegno di ginevra naviglio)
Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione, di
Antonio Esposito, è un libro politico, di testimonianza e denuncia. L’autore ci
mette in dialogo con chi la contenzione meccanica l’ha vissuta e con chi lavora
quotidianamente per superarla, consentendoci di vedere oltre l’apparente stato
di necessità che ancora legittimerebbe le violenze di cui racconta.
In tradimento al lavoro e alle aspettative del gruppo Basaglia, la contenzione
meccanica è tutt’oggi una prassi nelle strutture di assistenza psichiatrica. Per
contenzione meccanica, scrive Mauro Palma, “si intende l’utilizzo di dispositivi
applicabili al corpo e allo spazio circostante la persona, per limitare la
libertà dei movimenti volontari; in particolare, i mezzi applicati al paziente
allettato o seduto, i mezzi di contenzione di segmenti corporei e quelli che
determinano una postura obbligata”. Dichiarata già con la sentenza
Mastrogiovanni “un presidio restrittivo della libertà personale con una mera
funzione cautelare” e non una prassi terapeutica, la contenzione continua
tuttavia a essere utilizzata, perché considerata inevitabile per far fronte alle
situazioni d’urgenza.
L’urgenza: è l’abusata logica dell’emergenza che, anche in ambito psichiatrico,
non solo consente di aggirare i limiti normativi e utilizzare una tecnica che
tradisce i principi della legge 180, ma impedisce anche di destituire quel
paradigma manicomialista che sopravvive, subdolo, alla sua formale abolizione.
Che sia perché ancora condiviso dalla forma mentis del sistema medico di cura, o
perché passivamente reiterato nell’abitudine di una prassi routinaria, il
dispositivo si conserva nelle maglie di una narrazione che poggia
sull’impossibilità di gestire altrimenti l’escalation dello stato d’alterazione
mentale. Mostrandoci invece la possibilità concreta di prassi alternative, e
condividendo con noi l’esperienza di medici che operano in reparti no-restraint,
Esposito riesce a spezzare la linearità dello schema causa-effetto che
giustifica il ricorso alla contenzione: se è possibile fare altrimenti, legare
diventa una scelta di cui doversi assumere la responsabilità. Fuori dallo stato
di necessità, gli abusi psichiatrici possono finalmente dichiararsi tali e i
racconti di chi li ha subiti diventano denuncia immediata di un sistema che
avrebbe dovuto mettersi nella condizione di non attuarli.
Le storie che intessono le trame del libro restituiscono alle persone che le
hanno vissute l’ascolto di cui il sistema sanitario le ha private. Wissem,
Francesca, Elena, Bruno, Alice, Elio, Mariarosaria: da pazienti scorporati,
succubi di decisioni altrui, tornano soggetti di vissuti che, direttamente o
indirettamente raccontatici, possono mettere in crisi quello sguardo
stigmatizzante che si è fatto complice delle loro crocifissioni. La “banalità
del male” della contenzione meccanica si reitera, infatti, inosservata, solo
finché non si interrompe il processo di spersonalizzazione che reifica a oggetti
i soggetti psichiatrizzati. Non appena cambia il focus della prospettiva, a
emergere è l’asimmetria di potere che si cela dietro il paternalistico “è per il
suo bene”; da camuffata, risulta a quel punto esplicita l’ingiustizia
costitutiva della contenzione – una violenza subdola, ci dice Esposito, “agita a
parte dalla sottrazione delle parole della relazione e dell’imposizione di un
vocabolario di comando”.
Il ribaltamento del punto di vista crea una frattura che è, insieme, rottura e
spiraglio: restituita alle persone la propria centralità, non solo crolla
l’impalcatura retorica che giustifica i nodi della custodia psichiatrica, ma
apre alla possibilità di ripartire da fondamenta diverse per costruire una
salute mentale di comunità. Marga Romagnoni, intervistata da Esposito, spiega:
“Affinché i processi di deistituzionalizzazione siano pienamente realizzati,
perché si smetta di legare le persone, è necessario il riconosciuto protagonismo
delle persone con esperienza di sofferenza psichica, accompagnato, certamente,
dal sostegno di tutti gli altri”.
È solo tornando alle persone che si può smettere di ricondurre a false
interpretazioni e categorie nosografiche l’esigenza di assistenza e di cura,
unico modo per dare priorità alla flessibilità, ai tempi della relazione, non
più subordinati alle esigenze di sicurezza e tranquillità interna delle
istituzioni sanitarie. È tornando alle persone che si può costruire uno spazio
terapeutico in cui, in sinergia tra diversi attori e saperi, è possibile
prevenire e affrontare le crisi senza che raggiungano il picco
dell’emergenzialità, rispettando la corporalità di chi vive la condizione
psichiatrica e assumendosi la responsabilità di accogliere e riconoscere il suo
dolore. Ponendo al centro la “rincontrattazione”, l’assistenza pubblica può
concepirsi dinamica e in continua revisione: può farsi coraggiosa, fuori dagli
schemi, anarchica, erogatrice di un servizio non-violento perché strutturato
nella relazione, tanto con le persone alle quali si rivolge, quanto con i membri
dell’equipe, con il privato e il pubblico sociali. Le esperienze del Csm di
Gorizia, dell’Spdc di Ravenna e dell’Ausl della Romagna ci insegnano proprio
questo nei loro tentativi di dare forma concreta all’immaginario proposto da
Sergio Pirro già nel 1994: un servizio territoriale che sia armonicamente
composito di strutture differenziate che si coordinano tra loro, dando vita a
una salute mentale multiordinale e pluriqualitativa, reperibile, tempestiva e
non selettiva.
Accompagnandoci oltre lo specialismo disciplinare e le porte chiuse dei reparti
psichiatrici, Esposito ci permette, quindi, non solo di vedere i limiti di
un’assistenza sanitaria degradata in custodia costrittiva, ma di superarli
all’interno del percorso da lui stesso tracciato, facendoci immergere nella
prospettiva di una cura che si esprime nel contatto di un abbraccio comprensivo.
È questo il profondo potenziale del suo lavoro: ripartendo dai “sommersi” e dai
“salvati” e dalle loro voci dissonanti, ci consegna un orizzonte abolizionista
che già attraverso le sue parole inizia a prendere realtà. (zoe ermini)
(disegno di escif)
Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in
questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la
distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei
migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La
prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto
della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il
malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si
può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che
la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna
Ferrara)
Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di
analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara
(edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è
possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura
affascinante, lieve e delicato.
L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di
dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo
specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante”
giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a
Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una
prospettiva di futuro.
Tutto il respiro che avevo era pianto
Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia
polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in
modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che
peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i
fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a
corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in
affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La
pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al
racconto, l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere
davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i
gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più
cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si
conquistano con una lotta personale.
Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto
con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La
lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il
sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo.
L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello
della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie
dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di
emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro
lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale
sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente.
Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili
gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”.
Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro
la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle
misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che
segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per
il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre
di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è
possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino
l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere
[…] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che
erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era
sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando
stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle
sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero
perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.
Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo”
senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È
fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli
ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese
interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere
chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un
controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da
fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho
pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo
Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle
un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le
tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno
entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li
chiamavi”.
Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e
stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.:
“Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi
di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in
queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia
conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico
paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla
dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio
e pratica e approfondimento”.
G. non contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel
sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo
stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al
primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della
paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto
urgentissimo”.
“Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […]
come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida
e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il
nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per
morire)?”.
“Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed
eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo
fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa
che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna
barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova
per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava
tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità
avevo?”.
La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica.
Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e
oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti
costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere
ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica,
a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco
analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante
tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di
ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”.
Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai
avuta
Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire
dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal
neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei
vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione
delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che
lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda
personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia.
La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico
progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa
chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a
lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più
complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e
incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha
fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era
chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca
pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente
della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle
autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri,
nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del
mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna
intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la
pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito
minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it
takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella
sera di morti che cadevano senza numero”.
L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi
politica è profonda perché si fonda sulla sofferenza personale e sulla
conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una
dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la
semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto
tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è
una condizione umana e politica.
L’oro tra le macerie
“Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini
di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio
mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che
riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho
trovato in queste macerie”.
Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna
racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la
sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto
inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in
sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere
riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai
limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono
le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e
dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola
incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto,
“si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo
fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti
e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da
essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità
e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa.
Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel
cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da
vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se
lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle
ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio
ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente,
entrambe abbiamo avuto molto”.
In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio
il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in
grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione
delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi
[…] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il
mondo non lo vuole cambiare”.
Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di
condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al
sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee
e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”.
Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose
quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con
i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole.
Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una
cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia
cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male.
Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno
viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di
quell’altro paese”.
Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come
parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci
obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che
siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia
che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici,
alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di
cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta
felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”.
(dario stefano dell’aquila)
(disegno di marco di pietro)
Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume
agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il
quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo
contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di
mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor
di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente
sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i
continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una
dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello
che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo
nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente.
Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere
che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle
rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche,
ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo
dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono
quasi profetici se si considera la data di uscita del libro (28 febbraio) e
quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle
quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci
dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume
di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito
educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è
proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile
complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto
irriducibili semplificazioni?
Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità,
rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia
che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che
più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile
forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi
può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo
subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è
e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una
bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani
studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente.
Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di
conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando
questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe
essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso
vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento,
sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale
durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel
nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un
esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia
spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e
sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali.
Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre
stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle
rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del
mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo,
doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti
culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi,
immutabili e neutrali.
La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e
territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno
assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello
dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente
comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare
di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti
nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema
frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul
quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della
superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali
viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non
ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole
l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa
parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere
a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo
contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale
fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama
immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato
e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo
caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa,
dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera
critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza
dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi.
Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano
presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e
sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura,
per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O
meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e
assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei
banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi.
Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio
alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai
quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per
la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La
scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta
contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e
intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi
farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni
autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle
migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità
presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali,
finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta
neutralità e omogeneità nazionali.
Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in
meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza
incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e
complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in
maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna
l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in
voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
(disegno di copertina da lo stato delle città)
È appena uscito per le edizioni Monitor il volume Un compagno. Storia di Ettore
Davoli (a cura di Chiara Davoli), che racconta la vita del sindacalista e
militante politico di origini calabresi e attivo a Roma, attraverso le sue
parole e quelle di chi ha condiviso un tratto di strada con lui. Pubblichiamo di
seguito la testimonianza che apre il volume: “Il mio cugino di campagna” di
Giancarlo Davoli.
* * *
Nessuna battuta, tanto meno allusione rispetto al titolo di questo racconto: era
letteralmente così che definivo mio cugino Ettore. Anche se poi la sua vita è
andata in tutt’altra maniera.
La prima volta che lo vidi avevo, sì e no, nove anni. Approfittando di un
parente che scendeva da Torino, i miei quell’estate mi mandarono in Calabria.
Era pure la prima volta che uscivo da Roma. Della Calabria e di Taverna avevo
solo i racconti di mio padre e di mia madre e, soprattutto, quelli terrorizzanti
di mia zia Vittoria, fatti di fantasmi inquieti che comparivano in alcune notti
e in alcuni luoghi precisi del paese.
La casa di Ettore si trovava su una piazzetta davanti alla chiesa di Santa
Barbara. Aveva una particolarità, dovuta alla sua collocazione: si elevava su
due piani, ma non vi si accedeva dal primo bensì dal secondo. Comunque, io la
trovai accogliente e piena di vita. La famiglia di mio cugino era, per usare un
eufemismo, numerosa; lui era l’ultimo di dodici figli e, in quella casa, anche
se alcuni dei fratelli se n’erano già andati – chi era emigrato e chi s’era
fatto una famiglia –, si stava abbastanza stretti. Io fui messo con i piccoli,
che dormivano al primo piano, senza distinzione di genere, su due letti che li
contenevano tutti.
Ettore aveva uno sguardo pulito, spavaldo e diffidente, che mi rendeva inquieto;
mi studiava e cercava di capire quale differenza ci potesse essere tra di noi.
Io, forte del fatto che avevo un anno più di lui, che venivo da Roma e che ero
cresciuto tra i prati e le strade di Centocelle, un po’ me la tiravo. Ma lui, a
scanso di equivoci, mise subito tra di noi una distanza, dandomi un soprannome:
“il romano”. Ero “il romano” quando facevo qualcosa fatta bene ed ero “il
romano” pure quando facevo qualcosa che non andava bene, e diciamo che erano più
le volte che mi muovevo in maniera impacciata in quel nuovo contesto che altro.
La mattina ci si svegliava che era ancora buio, tra le cinque e le sei; ci si
lavava sommariamente, si beveva in fretta una tazza di latte freddo in cui lui
inzuppava un pane che chiamava pitta e che io evitavo con cura; poi,
silenziosamente, per non svegliare gli altri, uscivamo per andare all’orto. In
famiglia tutti lavoravano, ma la cura quotidiana dell’orto toccava al più
piccolo e, visto che io avevo quasi la stessa età di Ettore, toccava pure a me.
L’orto era diviso in fasce o terrazzamenti che scendevano verso il fondo valle:
alcune erano sostenute dalle radici dei vari alberi da frutta, altre erano
invece sorrette da rinforzi di legno che ne definivano il perimetro. Uno
stradello in discesa le percorreva tutte, congiungendo le une alle altre.
Bisognava essere agili e avere forza nelle gambe per fare su e giù a chiudere e
aprire i vari sbarramenti che permettevano all’acqua di scorrere nei solchi e
irrigare zucchine, pomodori, cetrioli, insalata, radicchio e tante altre
verdure. Fare ciò per me era divertente, anche se faticoso, mentre Ettore era
come se facesse parte di quel paesaggio: si muoveva tra ortaggi e canali con
grazia, velocità e senza alcuno sforzo, almeno così mi sembrava. Là, tra
quelle timpe, Ettore era un re: ne conosceva ogni curva, ogni avvallamento, ogni
scorciatoia. Usava il falcetto e la zappa, che era quasi più grande di lui, con
maestria e perizia: uno per tagliare le erbacce, l’altra per rendere più
profondi i solchi dove scorreva l’acqua.
Il mio battesimo dell’orto avvenne una mattina mentre risalivamo per tornare a
casa per il pranzo. Una delle cose che avevo notato quasi subito in quella
campagna era che là tutto era più grande e anche i colori erano diversi; per
esempio, le lucertole erano di un verde vivo che, nelle mie scorribande nei
prati di Centocelle, mai avevo visto; e anche le serpi, che io pensavo fossero
grigio-verdi, lì avevano un altro colore: erano nere. Comunque, stavo bene
attento a non dire a Ettore queste mie osservazioni: rimanevo sempre un
“romano”. Ma lui, quasi intuendo questi miei stupori e, in qualche modo, anche
paure, ogni tanto mi rassicurava dandomi dei suggerimenti.
Ma, come dicevo: stiamo risalendo su per lo stradello carichi di frutta e di
verdure dentro cesti di vimini; nei pressi di un piccolo slargo, una grossa
macchia nera attira la mia attenzione. Ettore è dietro di me; quando risaliamo
si posiziona sempre così, forse per proteggermi. Attratto da quella macchia, mi
avvicino e, come per magia, in un attimo quella si disunisce in mille rivoli
quasi scomparendo; metto meglio a fuoco e capisco: sono serpi. Ne rimangono tre,
una completamente srotolata al centro e le altre due di fianco che si stanno
arrotolando assumendo la forma di una molla; mi sento toccare: è mio cugino che
mi supera gridando “corri in salita”; io capisco in prima battuta solo “corri”,
mollo il cesto e mi giro correndo verso la discesa; e mentre mi rendo conto che
la frase di Ettore finisce con “salita”, sento arrivare prima una e poi un’altra
frustata sulla schiena. Goffamente inverto la marcia e correndo lo raggiungo.
Lui, appoggiato a un albero, è là che se la ride di cuore; le due frustate
pizzicano da morire, ma quello che fa veramente male è la figura che ho fatto:
“il romano” di Roma, cresciuto tra gli sterminati prati di Centocelle, messo in
fuga e, per di più, colpito da due serpi innamorate.
La sera si andava a letto presto; la mattina dovevamo svegliarci all’alba, ma in
realtà erano più le volte che questo non accadeva e così, quando tutta la casa
dormiva, Ettore mi faceva un cenno e, vestendoci rapidamente, saltavamo dalla
finestra; poi, evitando i vicoli più battuti per non fare incontri non voluti,
arrivavamo nel corso del paese e, dopo un breve tratto, nella piazza; lì, sotto
la statua di Mattia Preti, trovavamo altri fuggiaschi. Dopo un po’ di battute in
dialetto stretto, di cui non capivo molto, usciva fuori il pallone e, subito,
dopo una strana conta, si formavano le squadre.
In quelle accanite partite uscivano chiari i modi di essere di ognuno di noi.
Mio cugino non aveva molta tecnica, ma si buttava nella mischia con coraggio,
aiutando il compagno in difficoltà; generoso fino all’estremo, aveva una
naturale propensione per il gioco collettivo.
In una di queste sfide senza esclusione di colpi, avvenne qualcosa che poi fece
interrogare l’intero paese per diverso tempo e che, in qualche modo, mi vide
protagonista, anche se involontario. Un avversario dribbla senza esitazione un
mio compagno; gli vado incontro per fermarlo, ma lui, cercando di sorprendermi,
fa partire un tiro che io, con la forza della disperazione, intercetto con il
piede; la palla impazzita schizza in alto e va a sbattere violentemente contro
la punta della spada del povero Mattia Preti, spezzandola. Un silenzio irreale
cala sulla piazza; ci guardiamo senza parlare, poi scoppia all’unisono una
fragorosa risata; qualcuno raccoglie il pezzo e, senza dircelo, sigilliamo un
segreto che forse rivelo per la prima volta.
Per mesi l’intero paese e le sue istituzioni si interrogarono su chi potesse
essere stato. Mattia Preti, pittore caravaggesco detto “il cavaliere calabrese”,
era nato a Taverna ed era un vanto, un segno identitario per l’intero paese: la
sua statua era considerata sacra o giù di lì. Le supposizioni furono molte e di
diversa natura, e solo il tempo le fece sfumare, mitigando l’affronto.
C’è un gesto di mio cugino che è rimasto indelebile nella mia memoria, che mi
diede la dimensione del suo altruismo e che vorrei fosse chiaro che non ha né
connotati ideologici né tanto meno religiosi; credo che facesse parte della sua
natura, se non altro perché è un gesto che risale a una fase della sua vita che
potremmo definire, per economia di discorso, “prepolitica”.
L’orto per la famiglia di Ettore era il maggiore mezzo di sostentamento, le
altre entrate erano misere e saltuarie. Questo lui lo sapeva perfettamente
perché lo viveva sulla sua pelle. Più volte notai che il suo umore cambiava a
seconda di quanta frutta e ortaggi riportavamo a casa alla fine della mattinata;
per me, quando i cesti erano scarsi, era meglio perché si faceva meno fatica;
per lui era il contrario: si scuriva e diventava intrattabile.
Per arrivare a casa c’era un’unica strada che passava sotto una specie di torre,
affiancata a un palazzo antico che, senza un perché, a me metteva tristezza.
Quella mattina, passando lì accanto, sentimmo delle voci che attrassero la
nostra attenzione; in un attimo mio cugino capì, andò sotto la torre e,
guardando in alto, fece un cenno. Dopo poco, vidi calare un piccolo cesto da una
finestra piena di sbarre che si trovava nel punto più alto; non capivo e lo
guardavo interrogativo, poi mi disse: “Sono carcerati” e, senza altre parole né
esitazione, nonostante le nostre ceste quella mattina fossero parecchio scarse,
prese della frutta e della verdura e le mise nel cestino, tirando poi la corda
per far capire che potevano recuperarlo.
In una delle ultime telefonate, forse l’ultima, quando ormai la fase degli esami
medici e delle diagnosi era diventata inutile, lui mi disse che la cosa che lo
affliggeva di più, oltre al fatto di dover lasciare moglie, figlie, nipoti,
amici e compagni, era quella impari partita che lui stava giocando con la morte;
non capiva perché, se era ormai prossima, non si affrettasse ad arrivare; e,
anche se ammetteva senza problemi di averne paura, aveva una voglia sfrenata di
anticiparla, di chiudere quella partita, di non aspettarla più. Mi hanno detto
che Ettore non è morto a letto. A me piace immaginare che lui, un attimo prima,
l’abbia sentita arrivare, si sia alzato e le sia andato incontro con quel suo
sguardo pulito, spavaldo e, forse, anche un po’ diffidente.
(disegno di ottoeffe)
Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla
Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel
culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo
dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal
titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e
soggettivazione vittimaria nel contesto italiano.
Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della
giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria
all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a
uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica
securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia
punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso,
rileggere la proposta di adrienne maree brown.
Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta
individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia
trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a
un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che
ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire
individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia
trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva
che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo
sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di
affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle
situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento
problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci
invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce
centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle
persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte.
“La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive
l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui
verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione
di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità.
Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della
gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire
necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di
giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere
anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla
radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e
sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi
problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del
complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne
giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche
dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi
dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non
realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del
predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti”
(nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non
ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la
gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”).
Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e
della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle
norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze,
consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio
e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene
il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere
giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e
Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema
securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato
patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di
oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la
legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di
una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità.
Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità
non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza:
privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite
conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che
anzi si rafforzano della sua esclusione.
Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella
ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei
conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un
processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non
privarla della sua autonomia, non renderla subalterna?
Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile
riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente
alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere
le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella
della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in
un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o
l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività
ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la
responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento
privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano
quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo
ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo
abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che
proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e
la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o
responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè,
rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la
possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere
in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si
legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la
responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione
ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così
come quella della soggettività “offensore” (etero-normata).
Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza,
trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano
parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti –
compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione.
Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è
forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo,
che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse
aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò
che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere,
delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)