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La plastificazione delle città, un libro sul turismo nei Paesi Baschi
(disegno di otarebill) “Era una città di plastica / di quelle che non voglio vedere / con edifici cancerogeni / e un cuore di paccottiglia / dove invece del sole sorge un dollaro / dove nessuno ride, dove nessuno piange / con gente dalle facce di polistirolo / che sentono senza ascoltare e guardano senza vedere / gente che ha venduto per la sua comodità / la sua ragion d’essere e la sua libertà”. Poteva essere questa strofa di Rubén Blades e Willie Colon l’epigrafe del libro La rivolta nella città di plastica, di Marco Santopadre, una breve inchiesta sulla turistificazione estrema della città basca di Donostia (San Sebastián) pubblicato qualche mese fa dalla Red Star Press di Roma. La mitica canzone Plástico del 1978, un capolavoro della salsa, è un’invettiva ironica contro la superficialità delle donne, degli uomini e delle città del continente americano. Negli anni Settanta questi musicisti latinos di New York vedevano come il modello urbano consumista statunitense si riproduceva anche nei loro paesi d’origine. Mezzo secolo dopo questa plastificazione ha raggiunto tutte le città del mondo: le capitali, come Roma, che con il Giubileo è stata finalmente consegnata alla grande finanza internazionale; ma anche le città meno centrali. Una è sicuramente Donostia (è il nome basco: in castigliano è San Sebastián), la “perla del Cantabrico”, nel nord della penisola iberica. Santopadre, che conosce bene il paese basco, e che per questo libro ha svolto dieci interviste ad attivisti, sindacalisti, consiglieri comunali, portavoce delle associazioni di quartiere, racconta di un passato recente in cui la città aveva due facce: la San Sebastián “turistica, godereccia, dai tratti raffinati, un po’ snob e un po’ retrò”; e la Donostia “estremamente popolare, combattiva, impegnata, verace, dai modi diretti e informali” (p.14). Per decenni questi due mondi hanno condiviso lo stesso territorio, forse ignorandosi, o disturbandosi tra loro poco più delle due città di The city and the city di China Mieville. Ultimamente, però, ed è il tema del libro, la prima ha “fagocitato” la seconda. Come nel libro di Mieville, si parla di classi sociali: la città borghese ha sconfitto la città popolare, divorando anche il suo mondo vitale, la sua lingua indigena (l’Euskera o basco), le sue mobilitazioni politiche. Lo strumento di questa vittoria è il turismo; o meglio, la trasformazione della città in una monocultura turistica. A differenza della vicina Bilbo (Bilbao), città operaia e industriale che si è aperta al turismo solo dopo la costruzione del museo Guggenheim a fine anni Novanta, con il “recupero” delle zone abbandonate dalla deindustrializzazione,  Donostia ha alle spalle due secoli di turismo: perciò la tipica risposta alle critiche al turismo è che Donostia “è sempre stata turistica” (p.31). Per il suo clima e la sua posizione, era meta di vacanze termali per l’aristocrazia già nell’Ottocento; e anche il dittatore Francisco Franco vi passò le estati dal 1940 fino alla morte, nel 1975. Ma per quarant’anni tutta la regione basca, Euskadi, è stata lo scenario della conflittualità indipendentista dell’ETA, di enormi mobilitazioni contro lo stato spagnolo, e della kale borroka, la guerriglia urbana dei giovani. Forse queste grandi mobilitazioni sono riuscite a tenere alla larga non tanto lo stato, quanto la massificazione turistica che incombeva sulla regione (della turistificazione di Bilbao parla anche l’ultimo capitolo del libro di Santopadre, a partire dal lavoro di Adriano Cirulli, altro grande conoscitore del país vasco). Santopadre spiega infatti che la deposizione delle armi di ETA ha segnato l’inizio del nuovo ciclo di turistificazione. Nello stesso anno dell’annuncio di ETA, il 2011, Donostia fu candidata a “Capitale europea della cultura” per il 2016 (l’anno in cui si seppe che il dubbio privilegio sarebbe stato riservato anche a Matera; pochi anni dopo a Procida). Queste grandi celebrazioni cementificano nuove alleanze nelle élite: come le Olimpiadi di Barcellona del 1992, annunciate dall’ex ministro franchista Jose Antonio Samaranch, che sancirono la ritrovata unità economica di destra e sinistra sotto il vessillo dell’impresa e della gentrificazione, così Donostia 2016 è diventata subito il paradiso dell’industria turistica. Non passa neanche un anno dal “grande evento”, che già la turistificazione è estrema; nascono le organizzazioni contro l’overtourism – un termine che il libro giustamente critica, perché la questione non riguarda la quantità di turisti; e neanche la “qualità” (pp. 100-110). Subito dopo la pandemia del 2020 già un quinto dei posti letto nelle zone centrali sono per il turismo (p.49), con il conseguente calo dei residenti (non pronunciatissimo: nel quartiere centrale le statistiche registrano il dieci per cento in meno in venti anni, anche se probabilmente esponenziale; p.51). “Siamo in pericolo”, dichiara un’intervistata (l’unica donna). Quella di Donostia, per uno degli intervistati, sarebbe una “gentrificazione con caratteristiche proprie” (p.51). Eppure – circondata dagli aeroporti, funestata dal lavoro precario e stagionale, satura di bar e bnb (per lo più gestiti da gruppi imprenditoriali), inzeppata di installazioni artistiche, svuotata dall’aumento degli affitti, con il conseguente “sradicamento di un’intera generazione […] oltre all’indebolimento delle reti comunitarie e perdita dell’identità locale” (p.58) – si fatica a vedere in cosa sia diversa dalle migliaia di altre città gentrificate. Il libro ripercorre tutte le politiche con cui l’amministrazione ha favorito la turistificazione estrema: dalla concessione di licenze per hotel in deroga alle norme edilizie, alla demolizione di edifici storici di cui si mantengono solo le facciate, fino agli “errori” intenzionali che hanno accelerato la distruzione della città; e anche le denunce dei numerosi collettivi, studiosi e associazioni di abitanti, quasi sempre senza risultati, almeno nei tribunali. Al di là della forma specifica di vendere Donostia come capitale enogastronomica, una narrativa di cui Santopadre ripercorre lo sviluppo – dal 2009 che si fonda il Basque Culinary Center, si celebra la fiera San Sebastian Gastronomika, si trasformano le sidrerie in ristoranti brandizzati, fino all’assurdità dell’Instituto del Pintxo (p.83) – è evidente che i processi descritti nel libro sono proprio esempi da manuale. Le città gentrificate non si distinguono per forma, storia e vita, ma per il tipo di offerta che propongono ai nuovi arrivati – turisti o gentrificatori. Ed ecco la plastica! È il packaging che trasforma la città in un pacchetto che i visitatori possano consumare rapidamente. Ma è anche una metafora dell’abbellimento superficiale, della ripulitura frettolosa, del consumo in serie, colori e forme attraenti ma identiche ovunque. Il simulacro si moltiplica al punto di sostituirsi alla città. Anche questo processo è standard: lo descriveva Harvey in The Art of Rent ventitré anni fa, spiegando che le città per farsi “globali” sono costrette a distruggere ciò che le rende uniche. Donostia oggi è analoga alla Cappuccino city di Derek Hyra, ma anche alla città di Santa Chiara, le cui mirabolanti avventure racconta Diego Miedo; di fatto, a tutte le altre città turistificate del mondo. Tutte in mano ai city killers, come li chiama Lucia Tozzi. Quello che manca in questo racconto però è la rivolta del titolo. In questa città di plastica, dov’è l’abitante di Zerocalcare che esce col fucile gridando “Rebibbia non sarà mai il nuovo Pigneto! Le vostre apericene fatele da un’altra parte”? O quello di Diego Miedo che grida “Americani di merda non saremo mai il vostro zoo”? Dopo lo scioglimento dell’ETA forse è fuori luogo invocare le armi. Ma è vero anche che l’invasione turistica attuale, soprattutto dopo la pandemia, non ha mai prodotto niente di simile alle proteste anti-gentrificazione degli anni Ottanta, come la rivolta fondativa di Tompkins Square nel 1988. Ci sono gruppi di abitanti critici, reti internazionali come SET, libri ed eventi contro il turismo – ma pochissime rivolte. Un’eccezione forse è stata quest’estate a Città del Messico contro i turisti statunitensi, che le autorità hanno rapidamente definito violenza xenofoba. Le rivolte contro la plastica sono nella nostra immaginazione, sono prefigurazioni, dei simulacri, plastica anche loro. Rivolte vere, per ora, né a Donostia né altrove. Anche perché sarebbe assurdo prendersela con i turisti, ingranaggi della macchina, quasi sempre inconsapevoli. Ma anche sul campo della consapevolezza non siamo avanzati molto. Nel 1979 Ruben Blades e Willie Colon spiegavano chiaramente la strada contro la plastificazione: “Senti latino, senti fratello, senti amico – dice l’ultima strofa della canzone Plástico – non lasciarti confondere / dall’oro o dalla comodità! / Andiamo tutti sempre avanti / c’è ancora molta strada da fare / per farla finita tutti insieme / con l’ignoranza che ci mantiene suggestionati / con modelli importati / che non sono la soluzione. / Non lasciarti confondere / cerca il fondo e la sua ragione / e ricorda: si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Studiare, lavorare, andare sempre avanti, contro i modelli statunitensi di plastica: “Ricordati che la plastica si scioglie / quando la illumina il sole” canta Ruben Blades mentre il coro ripete “si vedono le facce, si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Questa era la strada con cui “vinceremo insieme”. Per il momento, la vittoria non è arrivata. Cosa vuol dire “cercare il fondo e la sua ragione” nella città di plastica? Le facce di plastica hanno un retro, un fondo, dove si vede la filettatura, il segno della fusione, che ne rivela la natura artificiale, prestampata. Turistificazione e gentrificazione sembrano un pezzo unico, da prendere o rifiutare in blocco, magari regolando quantità e qualità. Il punto di fusione, nascosto, mostra invece che questi fenomeni sono un’accozzaglia di eventi disparati – dai finanziamenti pubblici alle low cost, alla mancanza di regolazioni sugli affitti brevi – fusi insieme da un discorso pubblico che li presenta come solidi e coerenti. E invece sono le forme del momento, che possono cambiare anche all’improvviso. Santopadre, per esempio, spiega il moltiplicarsi degli immobili di lusso (p.119-125), come un nuovo ciclo di valorizzazione (anche se secondo me sbaglia nel considerarla un “dopo” la gentrificazione). A Roma, per esempio, la fase non è più quella puramente turistica: abbiamo il lusso e i maxi studentati (ne parla Chiara Davoli nel numero dello Stato delle città di prossima uscita); altrove le politiche urbane portano tutt’altro, dall’abbandono di Detroit ai massacri di Rio de Janeiro. Dipende da come reagisce la società. Di fronte alla città di plastica, la ricerca dovrebbe fare come il sole della canzone: scioglierla. Scomporne i fattori, capirne gli equilibri, cosa tenere e cosa respingere, quali forze si legano a ogni pezzo; smentire sistematicamente il simulacro, la performance scintillante. Francesco Migliaccio ipotizza che la stessa idea di gentrificazione contribuisce a nascondere le diverse tendenze che influenzano la vita urbana, togliendoci lucidità. Un’altra metafora utile è quella di Mike Davis, Città di quarzo: gli aspetti apparentemente inconciliabili della vita urbana si riflettono tra loro come in un cristallo. Anche Marco D’Eramo in un gran libro su Chicago mostra come la città tiene insieme elementi diversissimi: Il maiale e il grattacielo. La metafora ci serve anche per la struttura politica che promuove questi processi, cioè lo stato. David Graeber ha spiegato che lo stato è un’accozzaglia di elementi inconciliabili tenuti insieme da una retorica convincente, ma che possono sciogliersi in qualunque momento. Anche a Roma dobbiamo capire come si interfacciano le scenette del sindaco con il giubbetto catarifrangente, le parate militari, la vendita di un appartamento per sedici milioni di euro, la Royal Caribbean che si prende Fiumicino. Senza farci confondere dai giornali che ci mostrano un progetto unico e coerente da accettare o rifiutare. “La strategia di orientare il dibattito politico verso l’antinomia ‘turismo sì-turismo no’ – scrive Santopadre – serve a coprire le responsabilità politiche e istituzionali nei cambiamenti strutturali imposti ai nostri quartieri”. Inchieste come questa ci aiutano a sciogliere tutta questa plastica, e a cercare il fondo. (stefano portelli)
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Potere e resistenza nei territori acquatici@0
I conflitti attorno all’acqua sono più che mai evidenti, ma da sempre i regimi e i governi cercano di controllare l’aspetto del territorio attraverso lavori idraulici come dighe o bonifiche per controllare la popolazione, sia locale, sia nazionale attraverso la propaganda. Modificare il territorio significa espropriare intere comunità delle loro ricchezze naturali e dell’economia consuetudinaria su cui si reggono e portano sempre a una militarizzazione e ad un accentramento del potere che difficilmente potrebbe imporsi in territori impervi come le montagne o le paludi. Prendiamo ad esempio l’abbassamento del lago di Sevan riportato da Giulio Burroni nell’articolo “acqua sovrane, di guerra e di propaganda” uscito su Il Tascabile (https://www.iltascabile.com/scienze/acque-sovrane-guerra-propaganda/) Il libro “gli uomini pesce” ed. Einaudi vede protagonisti Antonia e Sonic alla scoperta dei segreti lasciati da Ilario Nevi, partigiano regista e attivista ambientale, nonchè nonno di Antonia. Nell’estate della più grande siccità degli ultimi anni, il Po si è ritirato fino a diventare un rigagnolo, mentre la stagione estiva impazzava nel vicino litorale ferrarese, l’ambiente paludoso del Delta ha mostrato tutta la sua fondamentale importanza. Un territorio difficile, costretto a ritardatarie bonifiche e che ha visto uno dei pochissimi casi di guerra partigiana combattuta su barche. La storia di Ilario racconta tutto questo: la resistenza, ambientale e antifascista, di un territorio unico. Gli uomini pesce, disegnati come mostri, sono in realtà i difensori popolari dei territori, mostri che preservavano le acque e che hanno limitato l’espansione antropologica in territori difficilmente accessibili. Ne parliamo con l’autore Wu ming1 (e ci scusiamo per la qualità della diretta) Qualche lettura tratta da “addio alle valli” di Francesco Seratini, poeta romagnolo che racconta la vita delle genti e dell’ambiente del Delta del po.
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Neanche un filo d’erba. Il carcere minorile in un libro di Curcio e Bellati
(disegno di dalila amendola) Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile è un bel libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti. Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini – ora hanno rispettivamente sedici e diciassette anni – e li ho seguiti come educatore per buona parte della loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori. M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto, connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi, hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla sperimentata, di stare in una comunità. Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”, la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che, nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per i maltrattamenti aggravati – si legge nel volume – esercitati tra il 2021 e il 2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024 vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno però aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico, due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”. Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee generali, ragionando – sempre a partire dalle parole dei ragazzi – sul (non) funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”, invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie. Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti. Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”. Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali, compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più – mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture. Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale, che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia, di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità; preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi. Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. (riccardo rosa)
libri
culture
detenzioni
Il destino della merce
(disegno di otarebill) Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci, Roma, 2025, pagg.119, euro 14. Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti, seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica (soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale – diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore. E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto subisce. Bottalico propone innanzitutto  una perimetrazione – non scontata né semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola, di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione, espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9) Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce quanto le  trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso” integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni. La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”, rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti. Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci. Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento  del margine di profitto. “L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11) Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che caratterizzava le diverse fasi storiche.  La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale – è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui territori. “La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce. In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di trasferimento di una merce”. (pag. 10) L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di “delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i luoghi “centrali” del processo produttivo.  Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà, sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube. Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato – anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)  
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Futuro presente: Amazon e il suo dominio globale
(archivio disegni napolimonitor) Oggi, giovedì 29 maggio, alle ore 17:30, presso Zero81 – Laboratorio di mutuo soccorso (largo Banchi Nuovi, 10), sarà presentato il nuovo volume del collettivo Into the Black Box, intitolato Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon. Il dibattito vedrà la partecipazione di Niccolò Cuppini e Maurilio Pirone. *     *     * Il caso Amazon ha generato un vasto dibattito a livello internazionale. Anche in Italia, in questi anni, non sono mancate pubblicazioni, traduzioni e analisi critiche. Altre ricerche promettenti sono tuttora in corso, e contribuiranno a delineare un quadro complesso. Tra le numerose pubblicazioni che hanno affrontato l’argomento, tre volumi meritano di essere menzionati. Il costo della spedizione gratuita. Amazon nell’economia globale, curato da Jake Alimahomed-Wilson ed Ellen Reese, è un testo fondamentale per comprendere le molteplici caratteristiche di questa multinazionale. Il Magazzino di Alessandro Delfanti offre invece un’indagine puntuale sulla vita all’interno dell’hub logistico Amazon di Piacenza. Infine, Conflitto di classe e sindacato in Amazon, curato da Marco Veruggio, è un volume agile che raccoglie i contributi di alcuni collaboratori di Amazonians United (questo volume lo abbiamo presentato di fronte ai lavoratori della logistica distributiva napoletana in stato d’agitazione da oltre un anno). A questa ricca letteratura si aggiunge ora Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon (Red Star Press, 194 pagine, 20 euro), curato dal gruppo di ricerca Into The Black Box. Questo collettivo, nato dalle esperienze di lotta nell’area metropolitana di Bologna, si è distinto negli ultimi anni per la capacità di elaborare riflessioni teoriche di ampio respiro sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Trovare un minimo comune denominatore tra questi testi non è facile, ma in ognuno si percepisce lo sforzo, declinato in modi diversi, di comprendere una fase storica definita dalla personalizzazione di massa, un fenomeno scaturito dalla coniugazione tra mondo logistico e digitalizzazione. L’ultimo lavoro di Into the Black Box nasce da un’inchiesta territoriale sulla logistica, che ha presto dovuto confrontarsi con dinamiche che andavano oltre il territorio d’indagine. E il nesso tra il locale e il globale, in questo contesto, non poteva che essere il colosso multiforme di Jeff Bezos. Come sottolinea Sandro Mezzadra nella prefazione, l’intento non è ridurre il capitalismo a una semplificazione su Amazon (dato che sul mercato globale operano anche altri attori simili come Mercadolibre e Alibaba). Si tratta piuttosto di analizzare un modello di integrazione di diversi piani di azione economica che, nel loro insieme, manifestano “un potere infrastrutturale che mira a egemonizzare le relazioni socio-economiche”. Amazon non si limita a invertire il rapporto tra circolazione e produzione, ma esemplifica e condiziona le operazioni del capitale, colonizzando e privatizzando il futuro. Da qui il titolo del volume. Il collettivo dimostra come Amazon sia molto più che semplice logistica, evidenziando che l’irrompere del digitale ha ibridato la materialità stessa delle infrastrutture. In quest’ottica, Amazon si configura come “capitale costituente”, capace di agire come un ecosistema espanso e gerarchico che si allarga in altri settori, influenzando la sfera sociale e politica. Il volume analizza e mette in relazione molteplici dimensioni. Amazon funge da punto di accesso per indagare l’intreccio tra salto tecnologico, relazioni socio-economiche e questioni politiche. La sfida è comprendere a fondo il paradigma Amazon: un’azienda partita come startup e cresciuta fino a valere miliardi di dollari, che si struttura come un impero commerciale con una proiezione globale. Un gigante che si caratterizza per la sua aspirazione a dettare standard e regole del mercato, monopolizzando ambiti cruciali attraverso specifiche politiche di sviluppo, un assemblaggio spregiudicato di giochi finanziari, uso di nuove tecnologie, modalità originali di organizzazione della forza lavoro e una spiccata capacità di influenzare il potere politico dello stato. Secondo questa interpretazione, Amazon agisce come soggetto politico in un doppio senso: sia come un’infrastruttura dotata di un potere di indirizzo dei flussi di merci, informazioni, saperi e capitali, sia come un vero e proprio attore politico che si sovrappone alle prerogative che in precedenza appartenevano alla sfera pubblica. Unendo razionalità logistica, innovazione tecnologica e servizi digitali, Amazon gioca un ruolo determinante nell’espansione del capitalismo contemporaneo, arrivando a indirizzarne lo sviluppo e incidendo tanto sulla dimensione territoriale della metropoli planetaria quanto sull’immaginario collettivo, fondato sulla fusione tra tecnologia e lavoro umano. Di fronte a questo scenario, una prima risposta che emerge dal volume sembra essere la critica all’ineluttabilità di queste dinamiche. L’analisi di Amazon non si limita a descrivere un impoverimento dell’esperienza umana, ma suggerisce altre possibilità di azione dall’esito non prevedibile. Si intravede quindi un’ambivalenza, secondo gli autori del volume. Il ruolo sempre più “infrastrutturale” di colossi come Amazon nella riproduzione sociale e nella gestione della macchina statale ci pone dinanzi a nuove sfide, che possono essere affrontate con gli strumenti che questi stessi processi mettono in circolazione. L’enorme quantità di dati accumulati, elaborati e utilizzati dalle Big Tech, conferisce loro un potere che si dirama in tutte le nostre interazioni sociali e che non si limita a fotografare l’esistente, ma delinea il campo di possibilità del nostro agire. Questo punto merita attenzione. Se è vero che siamo davanti a una “amazonizzazione della società”, se il dominio globale del mondo secondo Amazon è dettato dalla capacità di sintetizzare diverse operazioni del capitale, di costruire immaginari e di esercitare un potere governamentale, e se in definitiva questo paradigma ingabbia e al contempo sprigiona energie vitali, è importante riconoscere che la diffusione di queste dinamiche non è omogenea. Nelle società avanzate persiste un divario significativo tra tecnologia potenziale e quella effettivamente applicata, sia nel progresso tecnologico in sé che nelle sue applicazioni ai processi produttivi e distributivi. Accanto a risorse inutilizzate come valore non impiegato nella produzione, forza lavoro disoccupata, risorse naturali non sfruttate e capacità produttiva latente, esiste anche una plustecnica potenziale: uno scarto ben superiore al semplice ritardo applicativo, tra ciò che la tecnologia potrebbe fare e ciò che fa realmente. Questo suggerisce sia una certa fragilità del potere infrastrutturale che una non linearità dello sviluppo che il paradigma Amazon potrebbe indirizzare. Se questa premessa è corretta, si può ipotizzare l’intima irrazionalità del capitalismo di cui Amazon è una diretta espressione. Il suo potere infrastrutturale potrebbe essere più debole di quanto non sembri, e di pari passo, il dominio delle Big Tech su economia, politica, società e immaginari rischia di essere sovrastimato. Sebbene Amazon stia costruendo una realtà malleabile e riprogrammabile a suo piacimento, questa stessa realtà è sovvertibile in una pluralità di modi tutti da sperimentare o, meglio, che si stanno già sperimentando. Il lavoro di ricerca collettivo di Into the Black Box getta una luce sulle dinamiche di espansione e colonizzazione di un colosso che è molto più di un e-commerce, indagandone ramificazioni e forme del potere e stimolando una riflessione sulle pratiche di conflitto da escogitare per il futuro. (andrea bottalico)
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Come Cristo in croce. Da un libro sulla contenzione uno spiraglio per la sua abolizione
(disegno di ginevra naviglio) Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione, di Antonio Esposito, è un libro politico, di testimonianza e denuncia. L’autore ci mette in dialogo con chi la contenzione meccanica l’ha vissuta e con chi lavora quotidianamente per superarla, consentendoci di vedere oltre l’apparente stato di necessità che ancora legittimerebbe le violenze di cui racconta. In tradimento al lavoro e alle aspettative del gruppo Basaglia, la contenzione meccanica è tutt’oggi una prassi nelle strutture di assistenza psichiatrica. Per contenzione meccanica, scrive Mauro Palma, “si intende l’utilizzo di dispositivi applicabili al corpo e allo spazio circostante la persona, per limitare la libertà dei movimenti volontari; in particolare, i mezzi applicati al paziente allettato o seduto, i mezzi di contenzione di segmenti corporei e quelli che determinano una postura obbligata”. Dichiarata già con la sentenza Mastrogiovanni “un presidio restrittivo della libertà personale con una mera funzione cautelare” e non una prassi terapeutica, la contenzione continua tuttavia a essere utilizzata, perché considerata inevitabile per far fronte alle situazioni d’urgenza. L’urgenza: è l’abusata logica dell’emergenza che, anche in ambito psichiatrico, non solo consente di aggirare i limiti normativi e utilizzare una tecnica che tradisce i principi della legge 180, ma impedisce anche di destituire quel paradigma manicomialista che sopravvive, subdolo, alla sua formale abolizione. Che sia perché ancora condiviso dalla forma mentis del sistema medico di cura, o perché passivamente reiterato nell’abitudine di una prassi routinaria, il dispositivo si conserva nelle maglie di una narrazione che poggia sull’impossibilità di gestire altrimenti l’escalation dello stato d’alterazione mentale. Mostrandoci invece la possibilità concreta di prassi alternative, e condividendo con noi l’esperienza di medici che operano in reparti no-restraint, Esposito riesce a spezzare la linearità dello schema causa-effetto che giustifica il ricorso alla contenzione: se è possibile fare altrimenti, legare diventa una scelta di cui doversi assumere la responsabilità. Fuori dallo stato di necessità, gli abusi psichiatrici possono finalmente dichiararsi tali e i racconti di chi li ha subiti diventano denuncia immediata di un sistema che avrebbe dovuto mettersi nella condizione di non attuarli. Le storie che intessono le trame del libro restituiscono alle persone che le hanno vissute l’ascolto di cui il sistema sanitario le ha private. Wissem, Francesca, Elena, Bruno, Alice, Elio, Mariarosaria: da pazienti scorporati, succubi di decisioni altrui, tornano soggetti di vissuti che, direttamente o indirettamente raccontatici, possono mettere in crisi quello sguardo stigmatizzante che si è fatto complice delle loro crocifissioni. La “banalità del male” della contenzione meccanica si reitera, infatti, inosservata, solo finché non si interrompe il processo di spersonalizzazione che reifica a oggetti i soggetti psichiatrizzati. Non appena cambia il focus della prospettiva, a emergere è l’asimmetria di potere che si cela dietro il paternalistico “è per il suo bene”; da camuffata, risulta a quel punto esplicita l’ingiustizia costitutiva della contenzione – una violenza subdola, ci dice Esposito, “agita a parte dalla sottrazione delle parole della relazione e dell’imposizione di un vocabolario di comando”. Il ribaltamento del punto di vista crea una frattura che è, insieme, rottura e spiraglio: restituita alle persone la propria centralità, non solo crolla l’impalcatura retorica che giustifica i nodi della custodia psichiatrica, ma apre alla possibilità di ripartire da fondamenta diverse per costruire una salute mentale di comunità. Marga Romagnoni, intervistata da Esposito, spiega: “Affinché i processi di deistituzionalizzazione siano pienamente realizzati, perché si smetta di legare le persone, è necessario il riconosciuto protagonismo delle persone con esperienza di sofferenza psichica, accompagnato, certamente, dal sostegno di tutti gli altri”. È solo tornando alle persone che si può smettere di ricondurre a false interpretazioni e categorie nosografiche l’esigenza di assistenza e di cura, unico modo per dare priorità alla flessibilità, ai tempi della relazione, non più subordinati alle esigenze di sicurezza e tranquillità interna delle istituzioni sanitarie. È tornando alle persone che si può costruire uno spazio terapeutico in cui, in sinergia tra diversi attori e saperi, è possibile prevenire e affrontare le crisi senza che raggiungano il picco dell’emergenzialità, rispettando la corporalità di chi vive la condizione psichiatrica e assumendosi la responsabilità di accogliere e riconoscere il suo dolore. Ponendo al centro la “rincontrattazione”, l’assistenza pubblica può concepirsi dinamica e in continua revisione: può farsi coraggiosa, fuori dagli schemi, anarchica, erogatrice di un servizio non-violento perché strutturato nella relazione, tanto con le persone alle quali si rivolge, quanto con i membri dell’equipe, con il privato e il pubblico sociali. Le esperienze del Csm di Gorizia, dell’Spdc di Ravenna e dell’Ausl della Romagna ci insegnano proprio questo nei loro tentativi di dare forma concreta all’immaginario proposto da Sergio Pirro già nel 1994: un servizio territoriale che sia armonicamente composito di strutture differenziate che si coordinano tra loro, dando vita a una salute mentale multiordinale e pluriqualitativa, reperibile, tempestiva e non selettiva. Accompagnandoci oltre lo specialismo disciplinare e le porte chiuse dei reparti psichiatrici, Esposito ci permette, quindi, non solo di vedere i limiti di un’assistenza sanitaria degradata in custodia costrittiva, ma di superarli all’interno del percorso da lui stesso tracciato, facendoci immergere nella prospettiva di una cura che si esprime nel contatto di un abbraccio comprensivo. È questo il profondo potenziale del suo lavoro: ripartendo dai “sommersi” e dai “salvati” e dalle loro voci dissonanti, ci consegna un orizzonte abolizionista che già attraverso le sue parole inizia a prendere realtà. (zoe ermini)
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La malattia contro il potere. Giovanna Ferrara e l’innocenza dei dinosauri
(disegno di escif) Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna Ferrara) Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara (edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura affascinante, lieve e delicato.    L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante” giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una prospettiva di futuro. Tutto il respiro che avevo era pianto Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al racconto,  l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si conquistano con una lotta personale. Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo. L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente. Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”. Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere […] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.  Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo” senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li chiamavi”. Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.: “Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio e pratica e approfondimento”. G. non  contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto urgentissimo”. “Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […] come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per morire)?”. “Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità avevo?”. La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica. Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica, a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”. Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai avuta Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia. La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri, nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella sera di morti che cadevano senza numero”. L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi politica è profonda perché si fonda  sulla sofferenza personale e sulla conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è una condizione umana e politica. L’oro tra le macerie “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto, “si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa. Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente, entrambe abbiamo avuto molto”.  In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi […] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il mondo non lo vuole cambiare”. Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”. Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole. Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici, alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”. (dario stefano dell’aquila)
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Vivere in un mondo nuovo. Il confine immaginario tra Oriente e Occidente in un libro di Renata Pepicelli
(disegno di marco di pietro) Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente. Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche, ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono quasi profetici se si considera la  data di uscita del libro (28 febbraio) e quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto irriducibili semplificazioni? Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità, rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente. Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento, sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali. Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo, doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi, immutabili e neutrali. La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa, dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi. Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura, per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi. Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali, finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta neutralità e omogeneità nazionali. Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
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Un compagno. Storia di Ettore Davoli
(disegno di copertina da lo stato delle città) È appena uscito per le edizioni Monitor il volume Un compagno. Storia di Ettore Davoli (a cura di Chiara Davoli), che racconta la vita del sindacalista e militante politico di origini calabresi e attivo a Roma, attraverso le sue parole e quelle di chi ha condiviso un tratto di strada con lui. Pubblichiamo di seguito la testimonianza che apre il volume: “Il mio cugino di campagna” di Giancarlo Davoli. *   *   * Nessuna battuta, tanto meno allusione rispetto al titolo di questo racconto: era letteralmente così che definivo mio cugino Ettore. Anche se poi la sua vita è andata in tutt’altra maniera. La prima volta che lo vidi avevo, sì e no, nove anni. Approfittando di un parente che scendeva da Torino, i miei quell’estate mi mandarono in Calabria. Era pure la prima volta che uscivo da Roma. Della Calabria e di Taverna avevo solo i racconti di mio padre e di mia madre e, soprattutto, quelli terrorizzanti di mia zia Vittoria, fatti di fantasmi inquieti che comparivano in alcune notti e in alcuni luoghi precisi del paese. La casa di Ettore si trovava su una piazzetta davanti alla chiesa di Santa Barbara. Aveva una particolarità, dovuta alla sua collocazione: si elevava su due piani, ma non vi si accedeva dal primo bensì dal secondo. Comunque, io la trovai accogliente e piena di vita. La famiglia di mio cugino era, per usare un eufemismo, numerosa; lui era l’ultimo di dodici figli e, in quella casa, anche se alcuni dei fratelli se n’erano già andati – chi era emigrato e chi s’era fatto una famiglia –, si stava abbastanza stretti. Io fui messo con i piccoli, che dormivano al primo piano, senza distinzione di genere, su due letti che li contenevano tutti. Ettore aveva uno sguardo pulito, spavaldo e diffidente, che mi rendeva inquieto; mi studiava e cercava di capire quale differenza ci potesse essere tra di noi. Io, forte del fatto che avevo un anno più di lui, che venivo da Roma e che ero cresciuto tra i prati e le strade di Centocelle, un po’ me la tiravo. Ma lui, a scanso di equivoci, mise subito tra di noi una distanza, dandomi un soprannome: “il romano”. Ero “il romano” quando facevo qualcosa fatta bene ed ero “il romano” pure quando facevo qualcosa che non andava bene, e diciamo che erano più le volte che mi muovevo in maniera impacciata in quel nuovo contesto che altro. La mattina ci si svegliava che era ancora buio, tra le cinque e le sei; ci si lavava sommariamente, si beveva in fretta una tazza di latte freddo in cui lui inzuppava un pane che chiamava pitta e che io evitavo con cura; poi, silenziosamente, per non svegliare gli altri, uscivamo per andare all’orto. In famiglia tutti lavoravano, ma la cura quotidiana dell’orto toccava al più piccolo e, visto che io avevo quasi la stessa età di Ettore, toccava pure a me. L’orto era diviso in fasce o terrazzamenti che scendevano verso il fondo valle: alcune erano sostenute dalle radici dei vari alberi da frutta, altre erano invece sorrette da rinforzi di legno che ne definivano il perimetro. Uno stradello in discesa le percorreva tutte, congiungendo le une alle altre. Bisognava essere agili e avere forza nelle gambe per fare su e giù a chiudere e aprire i vari sbarramenti che permettevano all’acqua di scorrere nei solchi e irrigare zucchine, pomodori, cetrioli, insalata, radicchio e tante altre verdure. Fare ciò per me era divertente, anche se faticoso, mentre Ettore era come se facesse parte di quel paesaggio: si muoveva tra ortaggi e canali con grazia, velocità e senza alcuno sforzo, almeno così mi sembrava. Là, tra quelle timpe, Ettore era un re: ne conosceva ogni curva, ogni avvallamento, ogni scorciatoia. Usava il falcetto e la zappa, che era quasi più grande di lui, con maestria e perizia: uno per tagliare le erbacce, l’altra per rendere più profondi i solchi dove scorreva l’acqua. Il mio battesimo dell’orto avvenne una mattina mentre risalivamo per tornare a casa per il pranzo. Una delle cose che avevo notato quasi subito in quella campagna era che là tutto era più grande e anche i colori erano diversi; per esempio, le lucertole erano di un verde vivo che, nelle mie scorribande nei prati di Centocelle, mai avevo visto; e anche le serpi, che io pensavo fossero grigio-verdi, lì avevano un altro colore: erano nere. Comunque, stavo bene attento a non dire a Ettore queste mie osservazioni: rimanevo sempre un “romano”. Ma lui, quasi intuendo questi miei stupori e, in qualche modo, anche paure, ogni tanto mi rassicurava dandomi dei suggerimenti. Ma, come dicevo: stiamo risalendo su per lo stradello carichi di frutta e di verdure dentro cesti di vimini; nei pressi di un piccolo slargo, una grossa macchia nera attira la mia attenzione. Ettore è dietro di me; quando risaliamo si posiziona sempre così, forse per proteggermi. Attratto da quella macchia, mi avvicino e, come per magia, in un attimo quella si disunisce in mille rivoli quasi scomparendo; metto meglio a fuoco e capisco: sono serpi. Ne rimangono tre, una completamente srotolata al centro e le altre due di fianco che si stanno arrotolando assumendo la forma di una molla; mi sento toccare: è mio cugino che mi supera gridando “corri in salita”; io capisco in prima battuta solo “corri”, mollo il cesto e mi giro correndo verso la discesa; e mentre mi rendo conto che la frase di Ettore finisce con “salita”, sento arrivare prima una e poi un’altra frustata sulla schiena. Goffamente inverto la marcia e correndo lo raggiungo. Lui, appoggiato a un albero, è là che se la ride di cuore; le due frustate pizzicano da morire, ma quello che fa veramente male è la figura che ho fatto: “il romano” di Roma, cresciuto tra gli sterminati prati di Centocelle, messo in fuga e, per di più, colpito da due serpi innamorate. La sera si andava a letto presto; la mattina dovevamo svegliarci all’alba, ma in realtà erano più le volte che questo non accadeva e così, quando tutta la casa dormiva, Ettore mi faceva un cenno e, vestendoci rapidamente, saltavamo dalla finestra; poi, evitando i vicoli più battuti per non fare incontri non voluti, arrivavamo nel corso del paese e, dopo un breve tratto, nella piazza; lì, sotto la statua di Mattia Preti, trovavamo altri fuggiaschi. Dopo un po’ di battute in dialetto stretto, di cui non capivo molto, usciva fuori il pallone e, subito, dopo una strana conta, si formavano le squadre. In quelle accanite partite uscivano chiari i modi di essere di ognuno di noi. Mio cugino non aveva molta tecnica, ma si buttava nella mischia con coraggio, aiutando il compagno in difficoltà; generoso fino all’estremo, aveva una naturale propensione per il gioco collettivo. In una di queste sfide senza esclusione di colpi, avvenne qualcosa che poi fece interrogare l’intero paese per diverso tempo e che, in qualche modo, mi vide protagonista, anche se involontario. Un avversario dribbla senza esitazione un mio compagno; gli vado incontro per fermarlo, ma lui, cercando di sorprendermi, fa partire un tiro che io, con la forza della disperazione, intercetto con il piede; la palla impazzita schizza in alto e va a sbattere violentemente contro la punta della spada del povero Mattia Preti, spezzandola. Un silenzio irreale cala sulla piazza; ci guardiamo senza parlare, poi scoppia all’unisono una fragorosa risata; qualcuno raccoglie il pezzo e, senza dircelo, sigilliamo un segreto che forse rivelo per la prima volta. Per mesi l’intero paese e le sue istituzioni si interrogarono su chi potesse essere stato. Mattia Preti, pittore caravaggesco detto “il cavaliere calabrese”, era nato a Taverna ed era un vanto, un segno identitario per l’intero paese: la sua statua era considerata sacra o giù di lì. Le supposizioni furono molte e di diversa natura, e solo il tempo le fece sfumare, mitigando l’affronto. C’è un gesto di mio cugino che è rimasto indelebile nella mia memoria, che mi diede la dimensione del suo altruismo e che vorrei fosse chiaro che non ha né connotati ideologici né tanto meno religiosi; credo che facesse parte della sua natura, se non altro perché è un gesto che risale a una fase della sua vita che potremmo definire, per economia di discorso, “prepolitica”. L’orto per la famiglia di Ettore era il maggiore mezzo di sostentamento, le altre entrate erano misere e saltuarie. Questo lui lo sapeva perfettamente perché lo viveva sulla sua pelle. Più volte notai che il suo umore cambiava a seconda di quanta frutta e ortaggi riportavamo a casa alla fine della mattinata; per me, quando i cesti erano scarsi, era meglio perché si faceva meno fatica; per lui era il contrario: si scuriva e diventava intrattabile. Per arrivare a casa c’era un’unica strada che passava sotto una specie di torre, affiancata a un palazzo antico che, senza un perché, a me metteva tristezza. Quella mattina, passando lì accanto, sentimmo delle voci che attrassero la nostra attenzione; in un attimo mio cugino capì, andò sotto la torre e, guardando in alto, fece un cenno. Dopo poco, vidi calare un piccolo cesto da una finestra piena di sbarre che si trovava nel punto più alto; non capivo e lo guardavo interrogativo, poi mi disse: “Sono carcerati” e, senza altre parole né esitazione, nonostante le nostre ceste quella mattina fossero parecchio scarse, prese della frutta e della verdura e le mise nel cestino, tirando poi la corda per far capire che potevano recuperarlo. In una delle ultime telefonate, forse l’ultima, quando ormai la fase degli esami medici e delle diagnosi era diventata inutile, lui mi disse che la cosa che lo affliggeva di più, oltre al fatto di dover lasciare moglie, figlie, nipoti, amici e compagni, era quella impari partita che lui stava giocando con la morte; non capiva perché, se era ormai prossima, non si affrettasse ad arrivare; e, anche se ammetteva senza problemi di averne paura, aveva una voglia sfrenata di anticiparla, di chiudere quella partita, di non aspettarla più. Mi hanno detto che Ettore non è morto a letto. A me piace immaginare che lui, un attimo prima, l’abbia sentita arrivare, si sia alzato e le sia andato incontro con quel suo sguardo pulito, spavaldo e, forse, anche un po’ diffidente.
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Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa
(disegno di ottoeffe) Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano. Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso, rileggere la proposta di adrienne maree brown. Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte. “La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità. Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti” (nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”). Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze, consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità. Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza: privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che anzi si rafforzano della sua esclusione. Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non privarla della sua autonomia, non renderla subalterna? Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè, rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così come quella della soggettività “offensore” (etero-normata). Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza, trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti – compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione. Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo, che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere, delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
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