Carabinieri in difficoltà di fronte alla versione ufficiale sulla morte della
Cagol, tanti non ricordo, dinieghi e versioni contrastanti. Le difese ribaltano
il processo per i fatti della Spiotta
di Paolo Persichetti da Insorgenze
La quarta udienza del nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria
per la sparatoria nella quale morì il 5 giugno del 1975 Margherita Cagol,
fondatrice delle Brigate rosse, e rimase mortalmente ferito l’appuntato dei
carabinieri Giovanni D’Alfonso, ha messo in luce profonde contraddizioni e
smentite reciproche tra i carabinieri coinvolti.
Quattro ex membri del nucleo speciale anti-Br, istituito dal generale Dalla
Chiesa nel maggio del 1974, e due carabinieri in congedo delle sezioni
territoriali di Canelli e Acqui Terme hanno deposto dando vita a un intreccio di
versioni contrastanti, dinieghi imbarazzanti e giravolte. Si è assistito a un
vero e proprio “carabinieri contro carabinieri”, senza distinzioni di grado,
anzianità o competenze.
Il servizio del Tgr Rainews
Piemonte https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2025/05/le-drammatiche-testimonianze-di-chi-cera-sfilano-in-aula–135b6a06-3f9f-439a-a1a2-f66cc3e36b8.html
Le critiche del generale Sechi
L’allora braccio destro del generale Dalla Chiesa ha apertamente criticato
l’operato della tenenza di Acqui Terme. Le sue censure si sono concentrate in
particolare sull’operato del maresciallo Rocca, il quale, secondo la versione
consolidatasi nelle carte giudiziarie, dopo aver racimolato tre uomini si
sarebbe lanciato in una azzardata perlustrazione tra ruderi e cascine della
zona.
Sortita che culminò sul cortile della cascina Spiotta, quando la pattuglia
insospettita dalla presenza di due auto e da rumori provenienti all’interno
bussò alla porta, innescando (ancora oggi le versioni su su chi abbia esploso i
primi colpi sono contrastanti) il sanguinoso conflitto a fuoco.
Sechi ha spiegato che il nucleo speciale avrebbe agito in tutt’altro modo:
accerchiando la zona, controllandola a distanza con uomini camuffati e
apparecchi fotografici per identificare gli occupanti, seguirli e catturarli
quando sarebbero usciti singolarmente. Solo in seguito, e con tutte le
precauzioni del caso, si sarebbe proceduto a un’eventuale irruzione: precauzioni
che sarebbero mancate nella “sconsiderata sortita” di Rocca.
Il generale Sechi ha negato di aver avuto informazioni, il giorno prima della
sparatoria, riguardo a irregolarità nei documenti d’identità usati per
l’acquisto della cascina Spiotta. Ha anche negato che qualcuno dei suoi uomini
si fosse recato a Canelli, luogo del rapimento di Vallarino Gancia da parte
delle Br.
Incalzato dalle difese e messo di fronte all’ispezione giudiziale del 20 giugno
(con la sua firma in calce insieme a quella del pm titolare dell’indagine) in
cui fu trovato un bossolo dell’arma dei carabinieri accanto al corpo della
Cagol, documento richiamato dal legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani,
Sechi ha detto di non ricordare l’episodio e di non sapere il motivo di quelle
ricerche a distanza di 15 giorni: «doveTe chiederlo al pm, non a me» – ha
replicato con fare indispettito.
“Non ricordo”, dinieghi imbarazzanti e versioni contrapposte
Un atteggiamento increscioso quella tenuto dal generale in congedo che tra “non
ricordo” e dinieghi aggressivi ha opposto una difesa a riccio. A supportare
questa posizione è intervenuta la deposizione del colonnello Seno, suo collega
nel nucleo speciale.
Sebbene abbia ammesso (smentendo quanto aveva appena detto Sechi) di essersi
portato nella caserma di Canelli nel tardo pomeriggio del 4 giugno, dopo
l’arresto di Massimo Maraschi sospettato di essere coinvolto nel rapimento, ha
ostinatamente sconfessato le affermazioni del suo sottoposto dell’epoca, il
vicebrigadiere Bosso.
Quest’ultimo, invece, ha ricostruito in modo dettagliato la sequenza logica dei
loro movimenti sul posto: l’arrivo nella caserma di Canelli per interrogare
Maraschi già all’attenzione del nucleo speciale, il sopraggiungere della notizia
che nella zona di Acqui Terme era stato rinvenuto il furgone abbandonato dai
rapitori di Gancia nel primo tratto di fuga, lo spostamento nella caserma di
Acqui dove apprese di una indagine catastale di circa 15 giorni prima che aveva
rilevato la natura fittizia dei documenti d’identità usati per l’acquisto della
Spiotta.
Si trattava di una tecnica d’indagine adottata dagli uomini di Dalla Chiesa per
smantellare la logistica brigatista.
La cerimonia che interruppe l’indagine
Bosso ha descritto con nitidezza la cartellina gialla dove erano riposti i fogli
dell’indagine. Ha poi spiegato che, ricevuta l’informazione, con un carabiniere
del posto (Lucio Prati) si recò subito a effettuare una perlustrazione a
distanza della Spiotta, osservandola da un’altra cascina a circa 200 metri, per
poi rientrare a Canelli in tarda serata, interrogare Maraschi “fino a
estenuarlo” e tornare a Torino nella notte.
Seno ha negato che tutto ciò sia avvenuto, sostenendo che Bosso si fosse confuso
con il giorno successivo. Tuttavia, di fronte alla contestazione dell’avvocato
di Moretti, Francesco Romeo, riguardo l’inutilità di un sopralluogo la sera
successiva, a sparatoria avvenuta e morti sul terreno, Seno è rimasto in
silenzio.
A questo punto è emersa un ulteriore sconcertante circostanza: secondo Bosso,
dal comando centrale di Torino sarebbe giunta l’indicazione di sospendere
l’indagine e rientrare, perché il mattino successivo era prevista una cerimonia
per la festa dell’Arma, durante la quale diversi membri del nucleo (che avevano
partecipato all’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974) dovevano
essere premiati.
L’attività operativa sarebbe ripresa nel pomeriggio del 5. Questa circostanza,
concordata tra il maresciallo Rocca e il colonnello Seno secondo Bosso, è stata
negata da Seno.
Il confronto negato e i punti fermi emersi dall’udienza
I pubblici ministeri, che non hanno lesinato domande per appurare i fatti, hanno
chiesto un confronto tra Seno e Bosso, ritenendo che uno dei due stesse mentendo
o non ricordando correttamente. La corte, tuttavia, ha respinto la richiesta,
ritenendola superflua. Una decisione che non aiuta la chiarezza ma sembra voler
tutelare l’apparato.
La mattina successiva è avvenuto il fatto drammatico con l’improvvida decisione
di Rocca che, all’insaputa del Nucleo, ha deciso di partire con una sua
pattuglia alla volta della Spiotta per condurre un’ispezione culminata nello
scontro a fuoco. I membri del nucleo speciale, secondo le testimonianze in aula
di Bosso e Pedini Boni, altro ex carabiniere del nucleo speciale, sarebbero
giunti sul posto solo nel primo pomeriggio, a disastro avvenuto.
Le testimonianze non hanno chiarito l’esistenza di una scala gerarchica tra
nucleo speciale e sezioni territoriali in caso di indagini per terrorismo,
lasciando irrisolto chi dovesse prendere in mano le operazioni e stabilire tempi
e modi dell’inchiesta. Il capitano Aragno (caserma di Canelli) e il
vicebrigadiere Villani (polizia giudiziaria della procura di Acqui) hanno
risposto che le indagini erano state subito prese in carico dal nucleo speciale,
alimentando un infinito “scaricabarile”.
Nonostante ciò, l’udienza ha fissato dei punti fermi importanti: si è compreso
che il vero arcano della vicenda ruota attorno alle circostanze dell’uccisione
di Margherita Cagol.
Le dichiarazioni del carabiniere Villani sulle perplessità del medico che
condusse l’autopsia riguardo alla versione ufficiale della sua morte, i dubbi e
le domande poste all’appuntato Barberis (che disse di averle sparato a distanza
mentre evitava la Srcm lanciata da Azzolini) e l’incredulità degli altri
colleghi rispetto a questo racconto, hanno ulteriormente incrinato la versione
data per vera sulla sua morte.
Chi è dalla parte della verità?
I punti oscuri, le reticenze, i silenzi, le indagini carenti (i bossoli esplosi
dai carabinieri scomparsi e le loro armi mai periziate), e il silenziamento
della vicenda, inducono a pensare che l’atteggiamento tenuto dai diversi corpi
dell’Arma sia stata la diretta conseguenza delle modalità con cui venne uccisa
la Cagol.
Con le sue dichiarazioni il brigatista Azzolini ha riempito uno dei tasselli
mancanti di quella giornata, compiendo un passo chiarificatore verso la verità.
A distanza di 50 anni i carabinieri sollevano ancora cortine fumogene, fuggendo
le loro responsabilità.
A cosa serve questo processo, a comminare i soliti ergastoli ai brigatisti,
colpevoli a priori, o a cercare la verità fino in fondo sull’accaduto?
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Tag - Pietro Barberis
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte
del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per
la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di
Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente
ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può
riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una
delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta
antistante la cascina.
di Paolo Persichetti da Insorgenze
L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme
Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti
che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla
colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul
posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da
spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano
indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e
originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione
del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse
discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta
Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da
tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali
più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano
immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un
paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo
Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito
prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal
pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa
dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il
tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con
una improvvida iniziativa che terminò in tragedia.
La nuova perlustrazione del 20 giugno
Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol
Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975,
ovvero 15 giorni la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le
due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento
della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro
il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione
dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato
fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che
si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben
sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto
avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel
successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò
nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina
alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa
comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del
carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente.
Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due
brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe
Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli
esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali?
I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso
Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo
esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi
ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era
affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a
mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita
soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso
petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi
dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona
antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito
tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via.
L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla
stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore
contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga
tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato.
Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al
luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in
dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di
effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le
armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli
calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua
arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli.
Parlare di una indagine lacunosa è dire poco.
Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese
per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo
Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del
generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un
apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a
causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. E’ in quel momento
che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol
viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a
causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio
rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e
rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non
arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini.
Perché?
Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione
Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica
sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un
colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa.
Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo
dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima
volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate
in aria in segno di resa.
Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono
chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza
molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con
andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte
pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita
dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza
di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal
terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol.
Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi
spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era
posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato
a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta
probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che
centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo
sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa
la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio
ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla
macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata
accanto allo sportello completamente scarica.
Il duello con l’appuntato D’Alfonso
Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato
destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le
macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto
leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente
dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei
due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente
Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima
costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima
volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo
toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della
Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al
fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro
colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni
dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza
ravvicinata: nell’ordine di pochi metri».
Chi ha ucciso Mara Cagol?
Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un
terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il
corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da
un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia
chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché
fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto
c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis,
D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i
sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita.
Fantasmi come il proiettile scomparso.
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