Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo
scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero
io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha
visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di
trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi
delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta
ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti
di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita
Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni
D’Alfonso, morirà nei giorni successivi.
Processo ribaltato
Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie
e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la
strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla
inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La
testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non
dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia
alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo
le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è
stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse
parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili».
In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura
delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura
indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio
dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due
giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel
quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si
accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di
sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due
giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid
di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il
tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di
Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta
delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice
del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due
volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al
momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private
abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della
vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido
Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il
suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua»
e «oscura».
La storia non deve entrare in aula
Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è
discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e
dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo
dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in
qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario
Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate
rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto
aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto
che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla
Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò
importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un
processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante
della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena
mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una
vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se
avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori
pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi
perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso
per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi
segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione
dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova
sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è
una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato
e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra
stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte.
Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di
cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti
scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle
Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è
sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa
difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso.
Un pm senza storia
Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero
Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha
sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa
di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non
vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una
rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto
a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna,
inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo
storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di
ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si
limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro
fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non
sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli
storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada.
Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica
accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti
quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una
interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata
dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle
Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno
sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve
giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della
pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo
cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”».
Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma
Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale
davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva
producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del
processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato
omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani.
Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda
commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo
motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di
una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di
arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle
perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora
di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere
rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento
delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi
di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per
ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore
giudiziario.
Il consulente non verrà ascoltato
Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne
riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa
dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è
chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita
in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava
ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa
narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che
qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che
nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la
circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte
politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di
autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu
collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono
demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra
storia ma soprattutto una altro processo.
da insorgenze.net
> “Mara gridava ‘Non sparate’”
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