Gaza. Da un orrore senza fine per la fine dell’orrore

Anarres - Saturday, October 14, 2023

Eredi della Prima Internazionale continuiamo a proclamarci internazionalisti. In un mondo dove i nazionalismi, gli identitarismi, i particolarismi, i sovranismi dilagano scatenando guerre e distruzioni seguitiamo a pensare che solo l’unità di tutto il proletariato mondiale possa aprire la strada ad un mondo di liberx ed eguali.
Ed è per questo che ci impegniamo e lavoriamo con tuttx coloro che si mobilitano contro il militarismo, il riarmo generalizzato, il complesso militare-industriale e contro le frontiere e gli Stati che le garantiscono per il rilancio della lotta di classe su scala mondiale.
E mentre sosteniamo i disertori, i renitenti, gli oppositori incarcerati che in Russia e in Ucraina con i loro corpi manifestano tutto il loro rifiuto della guerra in corso, lo stesso facciamo con quanto succede in Israele.
In una lettera ricevuta in questi giorni un esponente dei refusenik (gli obiettori israeliani al servizio militare) dice:

“Un amico mi ha appena scritto che due dei suoi cugini adolescenti sono tra i civili israeliani portati nella Striscia di Gaza e dichiarati ostaggi da Hamas. Lo stesso amico ha trascorso 21 mesi in prigione con me quando avevamo 18 anni ed entrambi ci siamo rifiutati di arruolarci nell’esercito israeliano come resistenti all’occupazione. Sono giorni terribili: centinaia di israeliani e centinaia di palestinesi sono già morti. Molte delle nostre famiglie e dei nostri amici sono direttamente colpite, e questo è solo l’inizio poiché il governo israeliano ha già dichiarato guerra. Ma questa crisi rappresenta anche un’enorme opportunità: nelle prossime settimane gli oppositori israeliani alla guerra potranno trasformare questa guerra senza precedenti in un punto di svolta. In tempi come questi, è nostro ruolo come resistenti israeliani alla guerra fare tutto il possibile per prevenire un’escalation mortale, una guerra totale e la rioccupazione della Striscia di Gaza. È anche nostro ruolo dire forte e chiaro, in Medio Oriente e a livello internazionale, che non esiste una soluzione militare al conflitto israelo-palestinese: questa crisi di Gaza ci sta dando ragione. L’unica soluzione stabile al conflitto è una pace giusta tra israeliani e palestinesi. Questo è ciò su cui lavoreremo nei prossimi giorni e settimane noi del Refuser Solidarity Network e i gruppi israeliani di renitenti e resistenti alla guerra con cui lavoriamo. I nostri partner israeliani stanno già pubblicando messaggi chiari sui social media e sulla stampa contro l’escalation violenta e per utilizzare questa crisi come punto di svolta. Stanno sostenendo coloro che rifiutano il richiamo come riservisti alla guerra. Stanno pianificando e guidando proteste nelle strade. Stanno prendendo parte alla creazione di squadre civili d’intervento diretto per la riduzione dell’escalation, per pattugliare le città miste arabo-ebraiche, dove in situazioni simili in passato è esplosa la violenza tra bande di nazionalisti.”

In un manifesto diffuso da un gruppo di giovani palestinesi della striscia di Gaza all’indomani dell’operazione “Piombo Fuso” – che aveva provocato nell’arco di tre settimane 1400 morti, di cui oltre 300 bambini, e 5000 feriti – si può leggere:

“Fanculo Hamas. Fanculo Israele. Fanculo Fatah. Fanculo Nazioni Unite. Fanculo Unwra. Fanculo Usa! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Hamas, dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell’indifferenza della comunità internazionale! (…)Siamo stufi di essere vittime di questa lotta politica; stufi di notti al buio con aerei che volteggiano sopra le nostre case; stufi di contadini innocenti uccisi nella zona cuscinetto, perché si prendono cura delle loro terre; stufi di ragazzi barbuti in giro con i loro fucili che abusano del loro potere, picchiando o incarcerando i giovani che manifestano per ciò in cui credono; stufi del muro della vergogna che ci separa dal resto del nostro paese e ci imprigiona in un pezzo di terra dalle dimensioni di un francobollo; stufi di essere dipinti come terroristi, fanatici, che vivono in casa con esplosivi nelle nostre tasche e il male nei nostri occhi; stufi dell’indifferenza che incontriamo da parte della comunità internazionale, i cosiddetti esperti pronti a esprimere preoccupazioni e scrivere risoluzioni, ma codardi nel far rispettare tutto quello su cui si dicono d’accordo; siamo stanchi di vivere una vita di merda, essere tenuti in carcere da Israele, picchiati da Hamas e completamente ignorati dal resto del mondo.

C’è una rivoluzione che cresce dentro di noi, un immenso sentimento di insoddisfazione e di frustrazione che ci distruggerà a meno che non troviamo un modo di canalizzare questa energia in qualcosa che possa sfidare lo status quo e darci qualche tipo di speranza. Siamo appena sopravvissuti all’operazione Piombo Fuso in cui Israele ha bombardato in modo molto efficace la merda fuori di noi, distruggendo migliaia di case e ancora di più la vita e i sogni. Durante la guerra abbiamo avuto la sensazione inconfondibile che Israele voleva cancellare noi dalla faccia della Terra. Nel corso degli ultimi anni, Hamas ha fatto di tutto per controllare i nostri pensieri, comportamenti e aspirazioni. Qui a Gaza abbiamo paura di essere incarcerati, interrogati, picchiati, torturati, bombardati, uccisi. Non possiamo muoverci come vogliamo, dire quello che vogliamo, fare ciò che vogliamo. Ne abbiamo abbastanza! Basta dolore basta, basta lacrime, basta sofferenza, basta controlli, limiti, giustificazioni ingiuste, terrore, torture, scuse, bombardamenti, notti insonni, civili morti, ricordi neri, futuro tetro, presente di sofferenza, politica vigliacca, politici fanatici, stronzate religiose, arresti continui. DICIAMO STOP! Questo non è il futuro che vogliamo! Vogliamo essere liberi. Vogliamo essere in grado di vivere una vita normale. Noi vogliamo la pace. È chiedere troppo?”

Sentire le voci che provengono dal territorio della Palestina e da Israele è importante perché al di là di tutte le analisi geopolitiche, di tutte le reazioni di pancia che i terribili avvenimenti suscitano in chiunque conservi ancora un minimo di umanità, scorgere volontà di fuori uscita da questa situazione di morte e distruzione, ci da più forza per esigere la cessazione dei combattimenti e dei massacri e per delineare un futuro che possa costruire una relazione tra il proletariato dell’area, libero da nazionalismi etnici e appartenenze religiose.

Fermare i crimini contro l’umanità, fermare la barbarie che si è compiuta nei kibbutz e che si sta compiendo, con bombardamenti e taglio dei rifornimenti, prima che raggiunga livelli inimmaginabili credo sia l’imperativo di chiunque voglia impedire l’allargamento di un conflitto dalle dimensioni ben più grandi di quelli già in corso.

Detto questo abbiamo ben chiaro di chi sono le principali responsabilità della situazione che affonda le sue radici nel processo.

Fu facile profeta Judah Magnes, presidente dell’Università ebraica di Gerusalemme, che all’indomani della fondazione di Israele nel 1948 mise in guardia il movimento sionista “Uno stato ebraico significa, per definizione, che gli ebrei governano altra gente abitante in questo stato”, dando per scontato che questa imposizione non potesse essere accettata tranquillamente. E rafforzava la sua opinione citando un altro pensatore ebreo, Jabotinsky “Si è mai visto un popolo offrire il proprio territorio di propria volontà? Così anche gli arabi palestinesi non rinunzieranno allo loro sovranità senza violenza”. Ilan Pappé, lo storico israeliano, ha poi definito questa operazione di insediamento “pulizia etnica”.

Dal 1948 ad oggi, in seguito all’insediamento dello Stato ebraico, l’area compresa tra il Mediterraneo ed il Giordano è stata teatro di numerose guerre, che hanno lanciato i loro tragici riverberi in tutta l’area circostante, diventando nei fatti uno dei principali punti di conflitto mondiale, nonostante il numero limitato dei suoi abitanti – 11 milioni tra arabi ed ebrei – le ridotte dimensioni del territorio – simili a quelle della Lombardia – e le scarse risorse del territorio. Il fatto è che nel suo sviluppo storico, a partire dalla sconfitta dell’impero ottomano, tale territorio è diventato un baluardo fondamentale nelle politiche di conquista e di controllo coloniale dell’area. Nella spartizione del Medio Oriente tra Francia e Gran Bretagna la preoccupazione costante delle grandi potenze occidentali è sempre stata quella di garantirsi l’approvvigionamento energetico ed impedire la saldatura tra le popolazioni arabe la cui unità politica è sempre stata vista come una minaccia. Ben note, a questo riguardo, sono le responsabilità dello Stato britannico nell’aver favorito l’insediamento ebraico dando vita ad una miscela talmente esplosiva che le tragiche vicende dello sterminio ebraico da parte nazista e l’affermarsi di un nazionalismo, estremista e aggressivo come tutti i nazionalismi, tra gli ebrei hanno poi portato a drammatica maturazione.
Di fatto dal 1948 due popoli si affrontano sullo stesso territorio, l’uno, l’ebraico, per affermare il proprio Stato, l’altro, l’arabo, per difendere il proprio spazio vitale. In questo affrontarsi, facile gioco hanno le potenze imperialistiche mondiali e regionali che utilizzano le aspirazioni dei popoli per affermare i propri interessi strategici in un’area, come quella mediorientale, ricca di risorse energetiche e trasformando Israele in un baluardo in loro difesa.
75 anni di guerre e conflitti che hanno aumentato considerevolmente la percentuale del territorio destinato nel 1948 dall’ONU a Israele con l’occupazione di Gaza e Cisgiordania nel 1967; con la conseguente espulsione di masse enormi di arabi dai loro territori, la creazione di campi profughi nei paesi circostanti e i contraccolpi nei confronti dei paesi ospitanti, come Giordania e Libano, i cui governi si sono successivamente resi responsabili di massacri nei confronti dei palestinesi per contenerne l’azione destabilizzante per i loro regimi.
Dopo 75 anni la situazione non è sostanzialmente cambiata e siamo sempre qui a fare il conto dei morti, dei bambini uccisi dalle bombe degli aerei israeliani e dalle incursioni di Hamas, delle case distrutte dai bulldozer di Tel Aviv, della quantità delle terre arabe confiscate, della crescita inarrestabile delle colonie e così via. Una contabilità insopportabile di cui non si vede la fine, come non si vede la fine della politica di emarginazione e di apartheid praticata dal governo israeliano nei confronti della componente araba residente e dello sfruttamento intensivo della manodopera palestinese.
Quello che è certo è che la capacità di resistenza dimostrata dagli arabi di Palestina è andata oltre ogni previsione iniziale da parte sia degli strateghi dell’ONU del 1948 sia del movimento sionista che, ai suoi albori alla fine del 1800, pensava di costruire il proprio Stato con l’acquisto delle terre dei latifondisti arabi da popolare con gli esuli europei delle persecuzioni antiebraiche.
Una resistenza popolare che pone i dirigenti dello Stato israeliano di fronte ad un problema che sta diventando di impossibile soluzione: come garantire e rafforzare il carattere originario dello Stato e nel contempo mantenere il controllo dei territori palestinesi occupati nel 1967. La crescita demografica della popolazione araba nel territorio che va dal Mediterraneo al fiume Giordano ha un tasso superiore a quella ebraica, e non sono sufficienti gli immigrati soprattutto russi (ora il 20% della popolazione) a compensarne il calo. Se si esclude, come fanno i dirigenti di Tel Aviv per non rinnegare il fondamento sionista all’origine della fondazione di Israele, l’ipotesi di uno Stato binazionale ove le due componenti abbiano stessi doveri e stessi diritti, non rimane altra soluzione per loro che quella di premere ulteriormente sugli arabi per ‘convincerli’ a rinchiudersi in spazi angusti ristretti dal muro in costruzione oppure ad andare a costruirsi il loro Stato oltre il Giordano, come vorrebbero i falchi ultranazionalisti e religiosi che identificano il regno di Giordania come il “luogo” dei palestinesi. Per far questo però dovrebbero non solo agire globalmente sui palestinesi come stanno facendo i coloni in Cisgiordania prendendoli a fucilate o a sassate per espellerli dai loro villaggi ma dovrebbero convincere i giordani che hanno dato prova di grande solidarietà sia nei confronti degli esuli della Palestina che di quelli iracheni – purché siano docili e mansueti – ma che hanno ormai pagato un prezzo troppo alto in termini di crisi economica e di disoccupazione per accettare un altro esodo biblico dalla Cisgiordania. Lo stesso vale per il governo egiziano preoccupato della pressione al varco tra Gaza e il Sinai di quanti stanno cercando di sfuggire ai massicci bombardamenti israeliani che stanno provocando migliaia di morti e feriti. E’ evidente per tutti che queste non sono soluzioni ma ulteriori elementi di imbarbarimento di una politica colonialista ed oppressiva, che continua ad essere sostenuta a livello internazionale dagli USA e dai suoi alleati.
E intanto l’orrore non ha fine. Non abbiamo bisogno del bilancino per capire quale delle due parti sta pagando il prezzo più alto, in termini di lutti e di sofferenze, nonostante la retorica di una stampa e di una televisione sfacciatamente di parte, che continua ad utilizzare l’orrore dell’olocausto per farci digerire il suo sostegno a politiche insopportabili di stampo coloniale, degna rappresentazione di un paese che non ha mai voluto fare i conti con i suoi massacri colonialisti in Libia ed Etiopia, con le sue politiche di italianizzazione forzata come in Slovenia e Tirolo, con le sue persecuzioni razziali, i suoi campi di concentramento. L’ipocrisia e l’opportunismo che trasudano dalle pagine dei giornali, dagli schermi televisivi sono assolutamente insopportabili. La gerarchia del dolore che vogliono imporci, la diversità di peso e di sostanza dei morti che ci descrivono, la costruzione dei mostri al di fuori di ogni contesto non ci sorprendono: l’apparato della propaganda è sempre in azione e concentrarsi sul particolare invece che sul generale è il modo preferito per non risolvere i problemi e mantenere lo status quo. Dobbiamo continuamente denunciare il doppio standard che viene applicato a situazioni sostanzialmente simili dove la cosiddetta ‘legalità’ internazionale è manipolata a piacimento degli interessi delle potenze imperialistiche.
Il superamento dello stato di guerra che insanguina quella regione si potrà avere o con l’annichilimento e la distruzione di una delle due parti – e si può facilmente immaginare quale, visti i rapporti di forza e la potenza militare israeliana – o con la distruzione definitiva delle barriere artificiali, etniche, politiche e religiose, imposte ai popoli per la costruzione di una società più giusta e umana. Purtroppo oggi appare evidente che è la prima opzione che Israele sta perseguendo.
Sorpresa e colpita dall’azione di Hamas che per la prima volta è riuscita a sfondare l’assedio e a prendere provvisoriamente il controllo di alcuni insediamenti israeliani già appartenenti al distretto storico di cui oggi la striscia di Gaza rappresenta solo una porzione; porzione tra l’altro abitata per l’80% da rifugiati ed espulsi dai loro territori nel corso della Nakba.
Ma la risposta di Israele (“occhio per occhio, dente per dente” secondo il dettame biblico che tante sofferenze ha causato al genere umano spinto in una spirale di odio senza fine): bloccare i rifornimenti di acqua, di cibo, di carburante, di elettricità alla Striscia, distruggere sistematicamente strutture civili, colpire ospedali e autoambulanze non è una “giusta” reazione ai brutali e criminali omicidi di Hamas come ci vogliono far digerire ma il tentativo estremo di fare terra bruciata al popolo di Gaza per espellerlo definitivamente da quel territorio; poi verrà la volta della Cisgiordania sotto il tallone di ferro dell’occupazione (5200 prigionieri politici dei quali 1264 non hanno mai subito un processo).
E’ così che risolve la “questione” palestinese? Per questo è servito il Patto di Abramo?
Oggi dobbiamo mobilitarci per impedire che questo accada, che Gaza diventi un cimitero a cielo aperto. La ripresa della lotta di classe in quell’area del mondo può esserci solo se finiscono massacri e pogrom, solo se si riconoscono gli effetti deleteri delle gerarchie sociali, dell’esistenza delle borghesie e delle caste religiose.
L’esistenza di collettivi congiunti di palestinesi e di israeliani che si oppongono ai muri eretti, sostengono i disertori israeliani al servizio militare, si mobilitano contro il militarismo, difendono le libertà e i diritti civili per tuttx, prova una volta di più che quello che ci può unire, con la solidarietà e la lotta, è più forte di quello che ci divide, nella consapevolezza che la proposta del federalismo libertario, fondamentalmente egualitario, è quella che più si adatta a regioni come quella del Medio oriente, costituite da un mosaico di popoli e di culture, con la sua pratica della libera associazione su basi egualitarie tra individui e gruppi sociali.
La ripartizione delle ricchezze e l’autogestione generalizzata sono le tappe fondamentali per dare forza alla proposta federalista in un territorio dove ricchezza e miseria s’intrecciano, dove il tema della distribuzione dell’acqua, del petrolio e delle terre fertili, riveste un’importanza nodale.
La proposta di un nuovo stato palestinese, tra l’altro dalle dimensioni più che ridotte, a chiazze di leopardo separate le une dalle altre, se apparentemente sembra un passo in avanti nella liberazione di un popolo oppresso e sfruttato, in realtà è una nuova gabbia che rafforzerà i sentimenti nazionalisti facendo perdere la consapevolezza degli interessi di classe e dell’importanza della lotta sociale contro i dominatori e gli sfruttatori di ogni tipo e di ogni etnia. Non esiste liberazione economica e sociale del proletariato al di fuori dalla sua autorganizzazione in classe; la sua cristallizzazione nelle comunità nazionali interclassiste è la tomba di ogni progetto di rivoluzione sociale. Ma per rendere credibile questa impostazione occorre mobilitarsi per fare cessare questa guerra, gli attacchi alla popolazione civile israeliana e palestinese, la situazione intollerabile nella quale si trovano i lavoratori, le donne, gli uomini, i bambini a Gaza e in Cisgiordania, affinché tacciano le armi, cessi il regime di occupazione militare israeliana, finisca il regime di apartheid, di oppressione e di emarginazione della popolazione araba, sconfiggendo nel contempo i rigurgiti antiebraici sempre dormienti e mai sopiti.
Massimo Varengo (quest’articolo uscirà sul prossimo numero di Umanità Nova)