Universale singolare. Transfemminismo e anarchia
I percorsi di libertà tracciati dalle soggettività tenute ai margini dalla
cultura patriarcale hanno scosso dalle fondamenta un ordine che pareva
immutabile arrivando a spezzarne la logica binaria ed essenzialista.
La logica binaria è quella che divide le persone in base al sesso attribuito
alla nascita cui si pretende corrispondano precise caratteristiche di genere.
Il binarismo implica uno iato tra il più ed il meno, il pieno e il vuoto, il
vaso e il seme, lo spazio dei sentimenti e quello della ragione. Questa logica,
che si pretende naturale, fonda l’ordine patriarcale.
L’universale umano nasce e resta a lungo saldamente maschile. Un maschile cui
vengono iscritte le qualità intrinseche che “giustificano” la gerarchia tra i
generi, all’interno della gabbia normativa familiare e nella lunga esclusione
delle donne dalla vita pubblica.
L’ordine patriarcale si fonda sulla pretesa che la gerarchia sia biologicamente
fondata e su questa costruisce una cultura in cui si danno identità costanti,
fisse, socialmente definite.
La servitù femminile non è stata caratteristica di tutte le culture umane, ma è
stata ed è prevalente a tutte le latitudini.
La dinamica patriarcale fa si che la gerarchia si riproduca in ogni relazione
umana. Spezzare l’ordine patriarcale è necessario ad una trasformazione sociale
di segno libertario.
Essenzialismo, decostruzione queer e approccio anarchico
Con essenzialismo intendiamo la scelta di considerare giuste ed immutabili
tipizzazioni di genere del tutto culturali.
La critica all’essenzialismo si nutre della decostruzione delle identità di
genere. Concepire l’identità, ogni identità, come costruzione sociale, confine
mobile tra inclusione ed esclusione, è un approdo teorico che si alimenta della
rottura operata dal femminismo e dai movimenti lgbtqia+.
La sfida è su più fronti. Sfida allo Stato (etico), al patriarcato reattivo e al
capitalismo. Una sfida che non è mera astrazione o suggestione filosofica, ma si
attua nel convergere delle lotte, delle prospettive e degli immaginari capaci di
dar vita ad una prospettiva inedita.
Il sommarsi di diverse cesure identitarie, che spesso coincidono con varie forme
di esclusione, permette una contestazione permanente del privilegio nei
confronti delle gerarchie di potere.
Le “identità sessuali”, anche nel loro farsi storico, non sono un conglomerato
concettuale da cui partire, ma semmai la questione stessa. Oltrepassarle per
cancellarle è un percorso complesso, perché investe una dimensione del sé che,
pur squisitamente culturale, è tanto forte ed introiettata sin dalla nascita da
parerci naturale. Al punto che gli stereotipi di genere finiscono con l’essere
fatti propri persino da chi rifiuta quello che gli/le è stato assegnato alla
nascita.
Il costruzionismo queer attua la strategia di decostruire le identità che
passano come naturali considerandole invece come complesse formazioni
socio-culturali in cui si intrecciano discorsi diversi.
Un approccio libertario deve e può andare oltre la decostruzione delle
narrazioni che costituiscono le identità di genere, perché vi innesta l’elemento
di rottura rappresentato dall’agire politico e sociale di soggetti, che si
costituiscono a partire dalle proprie molteplici alterità, rivendicate ed
esperite sul piano della lotta. Soggetti capaci di una autonoma produzione di
senso, di relazioni, di pratiche sovversive rispetto all’ordine patriarcale,
alla logica binaria, alla naturalizzazione delle relazioni sociali.
Un percorso importante ma delicato, perché, in modo del tutto paradossale,
talora la spinta ad aprire spazi che aspirano al riconoscimento delle cesure
discriminanti che segnano le vite di tante persone, finisce con il produrre un
cortocircuito identitario.
Proviamo a spiegarci meglio.
Nessuno meglio di chi vive una discriminazione può renderla intelleggibile a
tutt* e promuovere istanze che consentano un percorso di liberazione.
Il movimento femminista, quello LGBTQIA+, prendono le mosse dalla presa di
parola autonoma, dalla contestazione del linguaggio che marca la gerarchia,
dalla frantumazione della materialità dell’oppressione. Se l’universale è
maschile, europeo, ricco, eterosessuale, il resto è margine inessenziale, che va
sottomesso, negato, asservito e, spesso anche eliminato. Quindi la parola libera
di chi era (ed è) la striscia bianca ai lati del grande libro della storia umana
è intrisecamente sovversiva. Quando questa parola entra nel discorso pubblico lo
modifica in modo radicale: ha un ruolo cruciale nel frantumare ogni logica
escludente ed oppressiva.
I processi di soggettivazione degli esclusi dall’astratto universale illuminista
hanno innescato percorsi trasformativi, in cui le differenze e, quindi, il
frantumarsi del soggetto politico borghese, maschio, eterosessuale, ricco, di
cultura europea hanno aperto un orizzonte di lotta inedito. Si è trattato di un
percorso lungo, non terminato, che purtroppo oggi rischia di perdersi in mille
rivoli identitari chiusi in se stessi, incapaci di aspirare collettivamente ad
un universale includente.
In certi ambiti di movimento la presa di parola ed iniziativa degl* esclus* si
declina nella pretesa che la sola parola legittima sia quella di chi vive una
discriminazione. Agl* altr* è concesso solo “mettersi in ascolto”. Da qui al
negoziare il proprio diritto all’alterità con il riconoscimento acritico di
qualsiasi altro percorso identitario, il percorso è breve. Il rischio, evidente,
è l’affermarsi di una nuova, più subdola, forma di essenzialismo, che spesso si
interseca con una lettura distorta dei percorsi decoloniali, che finisce con il
legittimare nazionalismi, comunitarismi, identitarismi religiosi.
Su questo terreno è necessario un lungo lavoro di elaborazione teorica e,
insieme, una capacità di attraversare gli ambiti transfemministi e queer con
proposte e orizzonti di lotta di segno libertario.
Femminismi della differenza e transfemminismo
I femminismi della differenza sono lo specchio capovolto del dominio maschile.
Binarismo ed essenzialismo permangono in questi femminismi, che, pur negando il
disvalore delle donne, riproducono al femminile le gerarchie tipiche delle
culture fondate sul dominio maschile ed eterosessuale.
Il mero afflato paritario sul piano dei diritti si limita a riempire il vuoto,
inserire l’eguale, dare corpo al vaso, attenuare la dicotomia tra ragione e
sentimento, senza spezzare la logica binaria.
Sono femminismi incapaci di cogliere come il patriarcato sia uno dei tasselli
che disegnano il mosaico di società basate sulla competizione, lo sfruttamento,
la violenza sistemica nei confronti di chi è posto ai margini.
Questi femminismi sono facilmente riassorbibili nell’ordine statale e
capitalista.
Al contrario il transfemminismo all’alba del terzo decennio del secolo esperisce
la possibilità di passare dal genere all’individuo, dalla gerarchia
sessualizzata alla molteplicità.
È un femminismo che, in ogni angolo del pianeta, si deve confrontare con
l’estrema violenza della reazione patriarcale, che si traduce sia in gabbie
normative, sia in violenza sistemica nei confronti delle identità mobili,
irriducibili ad ogni logica binaria.
Chi vive al di là e contro i generi, i ruoli, le maschere ha una forza
dirompente, perché sbriciola il binarismo e l’essenzialismo.
All’interno delle nostre società questi percorsi fanno paura. Per le destre e
per le religioni la difesa di identità rigide ed escludenti diviene il centro
nevralgico dell’azione politica. Il piedistallo “identitario” è la base che
regge la pretesa di disciplinare identità e corpi non conformi.
Sanno bene che l’ordine del padre si incrina di fronte alle donne ribelli, alle
identità ibride, transeunti, fluide, in viaggio, mutanti, quando l’io diviene
approdo di percorsi irriducibilmente individuali ma esperiti nella forza di
lotte collettive.
La reazione patriarcale
Le destre identitarie e sovraniste, sostengono il capitalismo e la divisione in
classi, ma li vorrebbero mitigati da un forte stato etico, saldamente fondato
sulla famiglia, sulla nazione, sulla religione. Dio, patria, famiglia, un
assioma che non disturba gli affari ma rimette in ordine il mondo.
A tutte le latitudini del pianeta si attacca la materialità dei percorsi di
liberazione che hanno segnato il secolo scorso. La libertà di decidere sulla
maternità, l’uso normalizzante della psichiatria, sino alla negazione
dell’accesso all’istruzione, al lavoro, alla stessa possibilità di muoversi in
autonomia segnano le vite di tanta parte delle donne e delle persone non
conformi che vivono su questo pianeta. Vi è profonda assonanza tra le politiche
delle destre dell’Occidente “democratico” e quelle dei paesi dove si sono
imposte varie forme di fondamentalismo religioso.
La “famiglia” come nucleo etico rappresenta l’elemento normalizzatore di
“anomalie”, che le lotte delle donne, delle persone omosessuali, asessuali,
transgender, hanno reso visibili e pericolose per ogni pretesa di
socializzazione autoritaria dei bambini, delle bambine, dei bambinu.
Non solo. Oggi il disciplinamento delle donne, specie di quelle povere, è parte
del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. Ne è uno
dei cardini, perché il lavoro di cura non retribuito è fondamentale per
garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale.
Un “sinistro” essenzialismo
Il lutto per le identità forti, smarrite e da ritrovare, attraversa anche certa
sinistra, orfana di una narrazione che dia senso al proprio mondo.
La deriva identitaria non è mero patrimonio delle destre sovraniste, localiste,
fasciste, misogine, omofobe, razziste, perché sfiora anche ambiti di movimento,
che si pretendono distanti dall’approccio essenzialista della destra.
La reazione alla violenza del capitalismo, all’anomia della merce, alla feroce
logica del profitto, alla paura dell’onnipotenza della tecnica rischiano di
produrre mostri peggiori di quelli da cui si fugge.
L’anarchismo si sta confrontando con un mondo dove ci sono stati cambiamenti
epocali. Nel giro di pochi decenni siamo passati dal pallottoliere al web, dalla
macchina fotografica alle immagini satellitari, dalle lettere alle chat, dai
sorveglianti umani agli occhi elettronici, dal posto fisso alla precarietà
strutturale, dal lavoro alla catena alle catene del telelavoro.
Un lungo processo di straniamento.
Il moloch tecnologico, assunto come nemico totale, ha aperto la strada ad un
anarchismo che fugge in un passato immaginario, dove germogli un futuro che nega
l’umano, così come si è costruito nel processo di civilizzazione, identificato
tout court con la nascita e il consolidarsi della gerarchia, del dominio, della
violenza dei pochi sui molti. Il futuro diviene “primitivo”, nel senso
etimologico del termine, un tempo-spazio dove si torna al primus, ad una
dimensione in cui l’umano si (ri)naturalizza, in una concezione essenzialista e
non culturale della “natura”.
Una fuga nichilista che riflette l’impotenza di fronte ad una complessità che
non si riesce a capire né a controllare: il moloch può essere distrutto solo a
prezzo di rinunciare alla libertà, per rifugiarci tra le braccia esigenti e
soffocanti della natura-madre.
Il processo di rinaturalizzazione dell’umano operato da queste correnti nega i
percorsi costruiti dalle identità fluide, disancorate, in viaggio che si
reinventano fuori e contro la logica binaria dei generi.
Fuggire al dominio della merce, al controllo dello stato, alla paura della
tecnica che si ritiene impossibile controllare, porta a negare la diversità e
pluralità dei percorsi individuali. Manca la gerarchia formale ma non c’è
traccia di libertà. L’unica libertà è quella di adeguarsi ad essere quello che
“spontaneamente” saremmo, se le incrostazioni della “civiltà” non si avessero
snaturat*.
Da qui a negare l’aborto, le tecniche contraccettive non “naturali”, l’utilizzo
di ormoni e tecniche chirurgiche per modificare il proprio corpo, il passo è
stato breve.
La negazione dei percorsi di decostruzione del genere conduce ad approdi non
troppo distanti da quelli delle religioni e delle destre fasciste.
Le questioni di genere vengono relegate ai margini di un discorso di
trasformazione sociale, che, nella migliore delle ipotesi, le considera
inessenziali.
Universale plurale
I corpi fuori norma, i corpi fuori luogo, che scientemente si sottraggono alla
logica identitaria, per fare i conti con le cesure che il genere, la classe, la
razza hanno imposto ai singoli, sono pericolosamente sovversivi.
Le dislocazioni, i transiti e le ricombinazioni che rompono con qualsiasi
pretesa di pietrificare le identità, frantumano l’essenzialismo ed aprono una
sfida radicale, insuscettibile di riassorbimento in logiche gerarchiche e
capitaliste.
Lo scarto degl* esclus* non è iscritto nella natura ma nemmeno nella cultura, è
solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le
radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi
percorsi.
Nessuna posizione può pretendere di riassumere in se l’oppressione e i relativi
percorsi di liberazione, se non divenendo, a sua volta, escludente.
In questa prospettiva il relativismo dei posizionamenti, viene superato
dall’universalismo della spinta ad una radicale trasformazione della società.
L’universale occidentale, costitutivamente escludente e marginalizzante nei
confronti di tutt* coloro che non sono considerat* pienamente cittadini (poveri,
migranti, donne, soggettività non conformi alla norma etero-cispatriarcale,
ecc.), e il relativismo assoluto, sostanzialmente acritico nei confronti di
usanze e pratiche spesso pesantemente oppressive, sono due facce della stessa
medaglia. Si pongono in posizione equidistante rispetto alla concreta
prospettiva di un universale plurale in via di costruzione, che scaturisce dai
percorsi di lotta intrapresi dai movimenti. Movimenti in cui hanno un ruolo
importante coloro che si soggettivano a partire dalla consapevolezza della
propria condizione e sanno, insieme, sperimentare strade in cui ogni gabbia
identitaria viene spezzata.
Non è mera astrazione, ma la prospettiva concreta del pluriverso, un mondo nel
quale convivono più mondi, nel quale sia possibile valorizzare al massimo la
diversità nell’uguaglianza, la libertà di tutt* e di ciascun*.
Il femminismo libertario e anarchico pone al centro una critica radicale
dell’istituito, perché ciascun* attraversi la propria vita con la forza di chi
si scioglie da vincoli e lacci.
Lo sguardo transfemminista è imprescindibile per un processo rivoluzionario che
miri al sovvertimento in senso anarchico dell’ordine sociale e politico in cui
siamo forzat* tutt* a vivere.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione
conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La
solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni
libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.
(questo testo è frtto del confronto tra le compagne e i compagni della FAT)
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Torino. Vetrina per turisti e città delle armi
Introduzione
Era la capitale dell’auto. L’industria automobilistica era indicata tra le
eccellenze cittadine nei cartelli di ingresso alla città.
Torino è stata attraversata da due processi trasformativi paralleli: la città
vetrina e la città delle armi. Il primo è il fulcro della narrazione pubblica,
il secondo viene occultato tra satelliti ed esplorazioni spaziali.
La lenta ma inesorabile fuga della Fiat, ormai solo più un marchio per le auto,
ha decretato la decadenza e l’impoverimento della città. Sulle macerie di quella
storia le amministrazioni comunali degli ultimi vent’anni, hanno provato a
costruire, con alterna fortuna, “la città vetrina per i grandi eventi”, una
scelta dalle conseguenze politiche e sociali devastanti, perché si è basata su
violente dinamiche di controllo sociale ed interventi di riqualificazione
escludente, una sempre più netta dinamica di gentrification.
Riqualificazione escludente
La gentrification è una trasformazione fisica, sociale, economica che per la
prima volta è stata osservata a Londra negli anni ’60. All’epoca era un fenomeno
sporadico e spontaneo, oggi, a varie latitudini, è una scelta strategica degli
attori politici ed economici che governano le città. La gentrification avviene
nelle aree urbane, in quartieri centrali o limitrofi al centro città
generalmente occupati da fasce popolari.
La riqualificazione dell’ambiente urbano e degli edifici rende queste zone
appetibili per i ricchi, innescando un aumento dei prezzi degli immobili, degli
affitti, dei bar e dei negozi, che provoca l’allontanamento dei poveri che ci
abitavano in precedenza. In alcuni casi “l’avanguardia” del cambiamento è
costituita da una popolazione di giovani creativi attratti dalla vivacità di
certe periferie, la cui stessa presenza accelera la trasformazione dei pezzi di
città in cui abitano. Spesso finiscono con il divenire catalizzatori delle
scelte di gentrification per poi venire a loro volta espulsi, se non si adattano
al ruolo di alternativi da vetrina, utili a mantenere un’aura “esotica”,
vagamente bohémienne alle aree investite. Tra loro vengono reclutati i “giovani
imprenditori” che si aggiudicano i lavori di restyling e adattamento culturale
necessari sia a rendere più “morbida” la transizione, sia a proporre una
narrazione più accattivante.
Negli anni abbiamo assistito ad un progressivo accrescimento del ruolo
dell’attore pubblico e ad un’espansione tanto orizzontale (ovvero la diffusione
del fenomeno a livello globale) quanto verticale (la gentrification infatti non
investe solo più la dimensione metropolitana ma anche le aree urbane di minore
dimensione). Dagli anni ’90 in poi, con la globalizzazione e la fine del sistema
fordista, il governo delle città riduce drasticamente il proprio ruolo nella
promozione e gestione di servizi pubblici e basa il proprio intervento su
logiche orientate principalmente al profitto. Questo scopo viene perseguito sia
attraverso gli strumenti urbanistici e la pianificazione, sia attraverso
strategie di produzione di beni simbolici quali cultura, intrattenimento e
svago.
Nei crateri delle grandi fabbriche
A Torino il processo di trasformazione, inizialmente molto lento, ha avuto un
impatto sociale che è stato possibile percepire solo a posteriori in aree come
il quadrilatero romano e, in certa misura, anche San Salvario.
Nell’ultimo decennio c’è stata una brusca accelerazione.
Le riqualificazioni escludenti che hanno investito alcune zone della città,
socialmente periferiche, ma geograficamente vicine al centro, derivano sia dal
“vuoto” urbano, dagli immensi crateri lasciati dall’abbandono delle grandi
fabbriche, sia dalla spinta alla turistificazione e studentizzazione di intere
aree cittadine. Al posto delle fabbriche sono sorti centri commerciali, spazi
culturali, centri per esposizioni e congressi, strutture dedicate allo sport.
L’emblema del cambiamento è stata la Spina 3, realizzata tra il 1995 e il 2013.
Il nuovo “quartiere” è sorto sui terreni occupati fino a due decenni prima dalle
Ferriere Fiat, dagli stabilimenti Michelin, Savigliano, Paracchi.
L’area ha una superficie di 1.002.956 metri quadrati e rappresenta il principale
ambito di trasformazione del Piano regolatore del 1995. Dopo la chiusura delle
industrie, che occupavano circa 20.000 operai, il Comune di Torino ha attivato
un programma di investimenti per 800 milioni di euro con l’utilizzo di ingenti
fondi nazionali ed europei.
Il progetto di trasformazione di Spina 3, iniziato con la realizzazione
dell’Environment Park su una parte dei terreni delle ex Ferriere Fiat
(1997-2005), ha portato alla nascita di un vasto mix funzionale – comprendente
residenze, spazi commerciali, uffici, laboratori, centri di ricerca e produzione
e spazi per attività ricreative – insieme al recupero e alla
rifunzionalizzazione delle Officine Savigliano e degli stabilimenti della
Società Paracchi.
Numerosi gli interventi e le architetture realizzate nell’area, come il Parco
commerciale Dora (Studio Granma, PromoGeCo, 1999-2003) o la chiesa del Santo
Volto di Mario Botta (2003-2006).
Il cuore dell’operazione su Spina 3 è il Parco della Dora, esito di un concorso
internazionale sulla base dei masterplan di Jean-Pierre Buffi e Andreas Kipar.
Di quest’operazione hanno goduto soprattutto i privati proprietari delle ex
fabbriche. Per l’edilizia abitativa, sacrificata dal consumo di suolo dedicato
alle attività commerciali, hanno puntato sulla verticalità, costruendo torri
verticali con 4.000 alloggi per circa 12.000 abitanti.
Nessun intervento utile alla popolazione residente è stato realizzato. L’unico
previsto, un asilo, è stato aperto solo per la pressione attiva della
popolazione. Mancano scuole, ambulatori, uffici postali.
La trasformazione urbana non risparmia le aree verdi, investite da colate di
cemento. Si va dalla Pellerina, dove verrà edificato il nuovo ospedale per
l’area nord-ovest della città, agli spazi verdi destinati all’ennesimo
supermercato all’ex caserma La Marmora, sino alla costruzione del “Parco dello
Sport” al Meisino.
Studenti e turisti
Un’altra pietra miliare della trasformazione cittadina è il Campus Einaudi
inaugurato il 22 settembre del 2012.
La nuova struttura universitaria sorta lungo le sponde della Dora ha determinato
cambiamenti molto rapidi: i costi di locazione delle case, affittate a student*
a prezzi altissimi, la nascita di locali dedicati alla movida giovane, hanno
scatenato una reazione a catena che ha investito inizialmente i quartieri
Vanchiglia e Aurora, per estendersi a macchia d’olio anche a Barriera di Milano.
L’apertura nel 2013 dell’università privata IAAD – Istituto dell’arte applicata
e del Design – e, nella medesima area, della Nuvola Lavazza inaugurata nel
giugno del 2018, ha impresso una nuova accelerazione alle dinamiche di
gentrification di Aurora, secondo una tendenza che vede le amministrazioni
comunali arare il terreno che viene poi messo a valore dall’imprenditoria
privata.
Questo fenomeno non è specifico di Torino. David Harvey, studioso di geografia
urbana, ha descritto il passaggio da una città manageriale, che gestisce un
budget e lo amministra, a una città imprenditoriale che prepara il tessuto
urbano per i vari Combo, Student Hotel, Mercato centrale… Non è più un governo
della città che semplicemente gestisce, ma che facilita e apre la strada ad
altri attori.
L’attuazione di questo tipo di strategie crea polarizzazioni sociali e veri e
propri processi di esclusione sociale.
La trasformazione urbana sta investendo sia aree ex industriali, sia quartieri
abitati in modo significativo da una popolazione razzializzata e povera.
Il governo della città ha scelto di non approntare strumenti di attenuazione
dell’impatto sociale delle scelte operate, demandandone la gestione alla polizia
e ai militari.
La violenza istituzionale, la militarizzazione dei quartieri “difficili” diviene
sistematica e costantemente narrata secondo gli stilemi “dell’emergenza”, della
“sicurezza”, della “paura”.
Pulizia urbana
Alcune operazioni di “pulizia urbana” sono emblematiche delle scelte operate
dalla governance subalpina.
Si comincia nel 2005 con lo sgombero di Fenix, Alcova e Rrosalia, piccole
palazzine ai giardini Reali, occupate da tempo e luogo di incontro, socialità ed
organizzazione politica di diverse aree anarchiche.
Le Olimpiadi invernali erano alle porte ed il comune di Torino non poteva
permettere che quei posti sporcassero la vetrina che, ogni sera, nel febbraio
del 2006, ha scintillato in mondovisione dalla limitrofa piazza Castello.
Le operazioni di pulizia politica e sociale non si sono mai interrotte.
In quegli stessi anni parte il progetto di “riqualificazione” del Balon, il
mercato degli stracci della città, che all’epoca non aveva nessun tipo di
regolamentazione. I venditori, alcuni occasionali, ma tanti fissi da decenni,
arrivavano nel cuore della notte a piazzare le plance e pezzi di stoffa che
delimitavano il “loro” spazio. Qualche volta c’erano contrasti anche duri, ma
nessuno coinvolgeva mai la polizia.
La “riqualificazione” è stata attuata secondo la regola del divide et impera,
cacciando i meno presentabili, quelli che esponevano le loro merci lungo le
sponde fangose e sporche della Dora, spostando i fricchettoni nell’allora poco
appetibile canale Molassi, ed imponendo a tutt* regole, affitti e controlli
sugli spazi.
Non fu un’operazione indolore. Molti venditori si organizzarono dando vita a
proteste in Comune, intralciando attivamente le operazioni di normalizzazione
violenta di uno spazio libero, luogo di aggregazione e socialità informale anche
per la sinistra radicale e gli anarchici della città.
I venditori più poveri, quelli che vendono merci recuperate nei cassonetti,
vennero successivamente relegati all’ex Cimitero degli impiccati, in via San
Pietro in Vincoli, un’area isolata ma limitrofa al Balon “storico”.
Anche da qui, nel 2019, dopo nove mesi di resistenza allo sgombero, gli
straccivendoli vengono cacciati e spostati in un piazzale recintato in via
Carcano, un nulla urbano nei pressi del cimitero.
Presto anche quest’area potrebbe essere chiusa, segnando l’ultimo capitolo di
una guerra ai poveri fatta all’insegna di una riqualificazione urbana, che
considera indecorosa la loro presenza.
I tanti spazi abitativi e politici occupati nella zona nord della città vengono
sgomberati uno dopo l’altro tra il 2019 e il 2023. Stessa sorte capita a tutti
gli spazi autogestiti occupati successivamente, cancellati dalla polizia in
breve tempo.
Lo sgombero delle baraccopoli
Tra il 2016 e il 2021 il comune ha sgomberato e distrutto le baraccopoli dove
vivevano migliaia di rom, in buona parte immigrati dalla Romania.
La violenza istituzionale, di cui sono stati protagonisti, oltre alla polizia, i
vigili urbani del nucleo “nomadi” della Città di Torino, è stata “temperata” da
associazioni del terzo settore che, lautamente pagate, hanno tentato ed in parte
realizzato lo sgombero “dolce” dei baraccati, promettendo case e soldi a chi
avesse accettato di andarsene, distruggendo le casette autocostruite in cui
vivevano.
Il nome evocativo del progetto dedicato alla baraccopoli di Lungo Stura Lazio
era “la Città Possibile”. Questo progetto, costato 5 milioni di euro, ha
arricchito la cordata guidata da Valdocco, era una truffa. I pochi che
riuscirono ad avere una casa a basso prezzo, dopo pochi mesi la dovettero
abbandonare perché non potevano pagare i fitti aumentati, altri finirono in
luoghi malsani di proprietà del raiss delle soffitte Molino, affittati per i rom
dall’associazione AIZO, altri ancora, illusi dalla promessa di denaro, tornarono
temporaneamente in Romania.
Nel caso di lungo Stura Lazio l’operazione venne rallentata ed in parte
inceppata da diverse centinaia di baraccati che scesero in piazza, e infine
occuparono una ex caserma in via Asti in parte gestita da Terra del Fuoco, una
delle associazioni che aveva gestito e lucrato sullo sgombero della baraccopoli
dove vivevano.
Nel giro di pochi anni sono stati cacciati e sospinti ancora di più ai margini
persone che, in parte vivevano raccogliendo roba vecchia rovistando tra
l’immondizia, tra gli scarti ancora utili del capitalismo usa e getta, per
venderla al Balon.
Privati di un tetto e della possibilità di ricavare un reddito sono stati
sospinti più lontano. Invisibili nel grande teatro della città vetrina.
I militari per le strade
Barriera di Milano, ormai da anni, è divenuta un laboratorio dove sperimentare
tecniche di controllo sociale prima impensabili, pur di non spendere un soldo
per la casa, la sanità, i trasporti, le scuole.
Da gennaio 2024, su richiesta della circoscrizione di destra, parte dei 6.500
militari dell’operazione “Strade Sicure”, è stata destinata in Barriera di
Milano, dove attuano un controllo etnicamente mirato del territorio a fianco di
polizia e carabinieri.
Da aprile, dopo le pressanti richieste delle circoscrizioni di sinistra, i
militari dell’operazione “strade sicure” sono anche ad Aurora e San Salvario. Ad
Aurora stazionano sul ponte Mosca, a due passi dal Balon, di fronte al cantiere
dello Student Hotel, albergo/studentato di lusso, vicino alla scuola Holden,
scrittura creativa a svariate migliaia di euro al mese di retta.
Ed il cerchio si chiude.
Operazioni cosmetiche
La violenza poliziesca che investe gli indesiderabili politici e sociali non è
accompagnata da investimenti che attenuino le difficoltà di chi vive nei
quartieri in corso di trasformazione e non riesce a pagare fitti, mutui,
bollette, e non può neppure permettersi di tutelare la propria salute, messa a
repentaglio dai processi di privatizzazione, che hanno trasformato la salute in
merce a caro prezzo.
Semmai si foraggiano associazioni e cooperative “amiche” perché trasformino la
povertà in esotismo per turisti, intercettando e trovando complicità tra la
nascente borghesia immigrata e nel fitto sottobosco clientelare delle
associazioni e delle cooperative del sociale.
Non solo. Vengono promossi progetti che, sotto il cappello della
riqualificazione, hanno come obiettivo il controllo del territorio. É stato il
caso di ToNite. Un’iniziativa del comune di Torino nell’ambito del programma
“European Urban Initiative”, che, utilizzando il Fondo Europeo di sviluppo
regionale, ha messo insieme progetti diversi diretti alla vita notturna lungo la
Dora tutti accomunati dall’intento esplicito di “aumentare la sicurezza
percepita” da parte dei nuovi abitanti della zona, che – per ora – devono
convivere con i vecchi residenti.
Bene comune
Torino, da decenni, a parte la parentesi pentastellata, è governata dalla
sinistra, che sul piano nazionale si trova all’opposizione con scarse chance di
uscirne presto.
Da qui operazioni di restyling di immagine come quella recentemente promossa
dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. La Fondazione, uno dei soggetti
più attivi tra Barriera ed Aurora, ha di recente promosso un Community Land
Trust in una palazzina di corso Giulio Cesare, al numero 34.
I promotori del progetto scrivono, “Il Community Land Trust (CLT) è un modello
di gestione della proprietà immobiliare che sottrae le unità abitative dal
mercato speculativo per creare un mercato immobiliare sociale e fare del suolo
un bene comune. L’obiettivo è facilitare l’accesso all’abitazione per persone o
famiglie con bambinə a basso reddito o con difficoltà nell’ottenere prestiti
bancari, contrastando la gentrificazione del quartiere.”
Apparentemente un progetto dal sapore accattivante.
Peccato che i soggetti coinvolti siano sottoposti ad una serie di obblighi e
ricatti, in nome del “bene comune”. Chi vivrà in quella palazzina avrà la
proprietà della casa ma non dei terreni: sarà ostaggio del trust, cui è
obbligato a vendere se non riesce a pagare il mutuo.
Un esempio della pericolosa contaminazione tra la dolce narrativa della sinistra
istituzionale ed operazioni dall’agro sapore del business e del controllo
sociale.
Innegabilmente, a differenza di altre, questa è un’operazione abile.
Un’operazione che dichiara esplicitamente di voler contrastare la
gentrification, realizzando una riqualificazione includente. Peccato che per
poter essere inclusi nel recinto dorato del Bene Comune occorra essere
disponibili ed esservi reclusi.
Una vetrina incrinata
Torino, al contrario di Milano, che ha oltrepassato brillantemente i processi di
deindustrializzazione della fine del secolo scorso, non riesce ad uscire dal
pantano del dopo Fiat. I grandi eventi come il salone del libro, l’Eurocontest
di tre anni fa, le ATP Finals, etc, attraggono migliaia di visitatori, riempiono
alberghi e ristoranti ma sinora non sono stati la chiave destinata ad aprire una
porta sul futuro immaginato dai padroni della città.
“Always on the move” “sempre in movimento”, lo slogan coniato
dall’amministrazione Chiamparino per le olimpiadi invernali del 2006, finite con
impianti abbandonati e debiti, è l’emblema di una città dove, always on the move
ci sono le migliaia di lavoratori precari sempre in moto per mettere insieme il
pranzo con la cena.
Industria bellica
Torino è uno dei centri dell’industria bellica aerospaziale.
Sono 350 le aziende grandi e piccole con un fatturato di circa 8 miliardi di
euro.
Il settore delle armi è un importante cavallo di battaglia sul quale scommettono
le amministrazioni locali e l’imprenditoria subalpina.
Il progetto di Città dell’Aerospazio e l’approdo in città di un acceleratore di
innovazione della NATO ne sono l’indicatore più chiaro.
Il definitivo declino del settore dell’automotive ha innescato un processo di
riconversione che si è indirizzato verso l’industria bellica. Il passaggio da 20
a 35mila addetti non ha aumentato l’occupazione, ma è frutto del travaso
dall’industria dell’auto a quella delle armi.
Travaso destinato ad aumentare dopo il taglio dei finanziamenti all’automotive
deciso dal governo nel 2024.
La nascita, nel 2019, del Distretto Aerospaziale Piemontese ha segnato
un’accelerazione per l’industria bellica aerospaziale nella nostra regione.
Il Distretto Aerospaziale Piemontese svolge un compito di promozione,
coordinamento ed affiancamento delle attività delle industrie del settore. Sino
alla sua promozione a ministro della Difesa il DAP era guidato da Guido
Crosetto: oggi a suo posto c’è Fulvia Quagliotti che ne sta ricalcando le orme.
Per cogliere l’importanza di questo organismo di governance è sufficiente dare
un’occhiata alla lista dei soci del DAP, in cui spiccano attori politici,
industriali e poli della ricerca e della formazione.
Nel consiglio direttivo del DAP, oltre alla presidente Quagliotti, designata
dalla Regione Piemonte, e ai due vicepresidenti Giacomo Martinotti (in quota
Regione), e Marco Silvano (per le aziende associate) ciascuno degli altri membri
è stato indicato da industrie del settore o associazioni industriali.
Mercato delle armi
A Torino, ogni due anni si tiene l’Aerospace and defence meetings, che nel 2023
è arrivato alla nona edizione, con un incremento di scambi e partecipazioni
rispetto all’edizione record del 2021.
La convention si è tenuta dal 28 al 30 novembre 2023, come di consueto negli
spazi dell’Oval Ligotto. centro congressi facente parte delle strutture nate
sulle ceneri del complesso industriale dell’ex Fiat.
La mostra-mercato è un evento chiuso riservato agli addetti ai lavori: fabbriche
del settore, esponenti delle forze armate, organizzazioni internazionali,
rappresentanti dei governi e compagnie di contractor.
All’edizione del 2023 hanno partecipato 400 aziende, 1400 tra acquirenti,
venditori e rappresentanti di governi. Il vero fulcro della convention sono
stati gli incontri bilaterali per stringere accordi di cooperazione e vendita:
nel 2021 ce ne furono oltre 7.500, lo scorso anno sono saliti a 9.000.
All’Oval sono stati allestiti alveari di uffici, dove sono stati sottoscritti
accordi commerciali per le armi che distruggono intere città, massacrano civili,
avvelenano terre e fiumi. L’industria aerospaziale produce cacciabombardieri,
missili balistici, sistemi di controllo satellitare, elicotteri da
combattimento, droni armati per azioni a distanza.
All’Aerospace and defence meetings si giocano partite mortali per milioni di
persone in ogni dove.
Tra gli sponsor ospiti del meeting spiccano la Regione Piemonte e la Camera di
Commercio subalpina.
Settima nel mondo e quarta in Europa, con un giro d’affari di oltre 16.4
miliardi di euro, 47.274 addetti l’industria aerospaziale è un enorme business
di morte.
Buona parte delle aziende italiane dell’aerospazio si trova in Piemonte. I
settori produttivi sono strettamente connessi con le università, in primis il
Politecnico, e altri settori della formazione.
In Piemonte, ci sono ben cinque attori internazionali di primo piano: Leonardo,
Avio Aero, Collins Aerospace, Thales Alenia Space, ALTEC.
Gran parte delle industrie mondiali di prima grandezza hanno partecipato alla
biennale dell’aerospazio: Airbus, Avic, Aernnova Aerospace, Boeing, Comac, Dell,
Embraer, IHI Corporation, Lockheed Martin, Mahindra Aerostuctures, MBDA,
Mitsubishi, Nanoracks Europe, Nikon, Northrop Grumman, SAAB, Poeton Polska, SKF
Industrie, Superjet International, Tei-Tusas Engine Industries. Erano presenti
tutti i 7 cluster aerospaziali italiani: la Lombardia, la Campania, il Lazio,
l’Umbria, la Puglia e il Veneto e il Piemonte, la cui delegazione era la più
ampia con 75 imprese e 11 startup.
Nel testo di presentazione la Camera di Commercio scriveva che l’industria
bellica aerospaziale “è un comparto strategico, grazie a un ecosistema
caratterizzato da una forte collaborazione tra enti, mondo imprenditoriale e
ricerca scientifica e a una filiera completa composta da grandi player e oltre
450 PMI che registra un fatturato complessivo che supera 8 miliardi di euro e
impiega oltre 35.000 addetti”. Nonostante questo le “supply chain” sono ancora
un anello debole di Leonardo,
I ricavi globali della vendita di armi sono in costante aumento.
La produzione di armi non riesce a stare dietro all’aumento della domanda.
Nel 2022, con l’attacco russo all’Ucraina, la domanda globale di armi e
dispositivi d’arma ha registrato un forte aumento e le aziende europee e
statunitensi non sono riuscite a stare al passo. La guerra stessa ha determinato
la crescita dei costi di produzione e numerose interruzioni della catena di
approvvigionamento.
É stata, purtroppo, una crisi di crescita, che Leonardo, per quanto riguarda il
settore dei velivoli da guerra, affronta puntando sull’innovazione tecnologica,
sulla ricerca e sul rinnovamento dei siti produttivi.
Città dell’aerospazio
La Città dell’aerospazio, un centro di eccellenza per l’industria bellica
aerospaziale promosso dal colosso armiero Leonardo e dal Politecnico subalpino,
sorgerà tra corso Francia e corso Marche.
Nell’ottobre del 2022 Leonardo ha ceduto in comodato d’uso al Politecnico gli
spazi della palazzina 37 dell’ex Alenia. Una foglia di fico per salvare la
faccia al Politecnico che, nei fatti, accelera il processo di integrazione nel
complesso militare industriale accingendosi a trasferire parte della ricerca in
una struttura di proprietà di Leonardo.
Nei fatti quest’impresa è rimasta ferma ai blocchi di partenza dal novembre
2021, quando ne venne annunciata la costruzione all’ottavo Aerospace and Defence
Meetings.
La campagna di informazione e lotta fatta negli ultimi anni dall’Assemblea
Antimilitarista è riuscita a far emergere dall’opacità un progetto che mira a
trasformare la nostra città in polo ad alta tecnologia per lo sviluppo
dell’industria bellica.
Il focus della ricerca è il miglioramento dell’efficienza dei micidiali
strumenti già oggi capaci di distruggere il pianeta.
Gli attori istituzionali, in primis la Regione Piemonte, ed i rappresentanti
delle principali industrie hanno provato a minimizzare la vocazione
squisitamente bellica della Città dell’Aerospazio.
Ma non saranno certo le nebbie del “dual use” (militare e civile) o
l’immaginario dei viaggi spaziali a nascondere la realtà.
Lo dimostrano le dichiarazioni di Marco Zoff, capo divisione velivoli di
Leonardo: «Siamo qui per condividere una ambizione, vogliamo portare in questi
spazi la ricerca e lo sviluppo di alcuni dei programmi industriali nei quali
Leonardo è impegnato, l’Eurodrone, le tecnologie dei sistemi senza pilota e il
caccia del futuro. Per farlo abbiamo bisogno di uno spazio dove fare ricerca e
sviluppo e questo della Città dell’aerospazio è un tassello fondamentale sulla
strada che ci porterà a sviluppare nuovi progetti su questo territorio».
Non è detto che questa ambizione sarà facilmente soddisfatta.
Il 28 novembre 2023, mentre gli antimilitaristi bloccavano l’ingresso dell’Oval
ai partecipanti all’Aerospace and defence meetings, clandestinamente, nell’area
dell’ex Alenia una ruspa abbatteva un pezzo di muro. Secondo i media questo
sarebbe stato il segnale di avvio della costruzione della Città dell’Aerospazio.
Nessuna traccia del ministro Crosetto che un mese prima aveva annunciato la
propria presenza. Un segno delle incertezze che ancora gravano sul progetto:
Leonardo non trova privati disposti ad investire.
Non per caso nelle ultime dichiarazioni fatte alla stampa emerge che il
Politecnico sarà il “soggetto attuatore del progetto” che, assicura Cingolani,
amministratore delegato di Leonardo, il suo Gruppo “sosterrà”. Da protagonista a
sostenitore? Cingolani appare decisamente prudente. Per ora di certo ci sono
soltanto i 12mila mq di laboratori che saranno di pertinenza del Politecnico, un
intervento da poco più di 40 milioni finanziato dalla Regione (15 milioni) e dai
fondi del Pnrr (17 milioni), col sostegno del Politecnico di Torino per coprire
gli extracosti. Siamo ben lontani dal budget necessario a coprire l’intera
operazione.
Un anno dopo, nell’autunno del 2024, è stato nuovamente annunciato l’avvio dei
lavori in corso Marche, facendo comunque riferimento alla demolizione della
palazzina la cui area è destinata al Politecnico.
La NATO a Torino
La Città dell’Aerospazio ospiterà anche un acceleratore d’innovazione nel campo
della Difesa, uno dei nove nodi europei del Defence Innovation Accelerator for
the North Atlantic (D.I.A.N.A), una struttura della NATO.
Questo progetto, partito nel giugno 2021 a Bruxelles, si inserisce nel programmi
di innovazione tecnologica della NATO per il 2030. Compito del polo di Torino è
quello di coordinare e gestire, attraverso bandi e fondi messi a disposizione
dai Paesi alleati, una rete di aziende e start up italiane, per metterla al
servizio delle necessità dell’Alleanza. In attesa della costruzione della Città
dell’aerospazio l’acceleratore di innovazione ha sede alle OGR.
In questo progetto la NATO investe un miliardo di dollari. Una montagna di soldi
utilizzati per produrre tecnologie sempre più sofisticate, sempre più mortali.
L’Alleanza Atlantica seleziona aziende e start up che hanno il compito di
concretizzare i programmi di innovazione tecnologica della NATO per il 2030.
Le OGR
OGR Torino è stato aperto nel 2019: la ristrutturazione delle ex Officine Grandi
Riparazioni è costata 100 milioni di euro. OGR è un grande spazio di 35 mila
metri quadri a forma di “H” in corso Castelfidardo con con due missioni: da una
parte ospitare mostre ed eventi di arte contemporanea, dall’altra diventare un
luogo dell’innovazione.
In questo la Torino vetrina e la Torino delle armi entrano in contatto,
condividendo il medesimo cortile.
Se una delle due “gambe” dell’H si chiama OGR Cult, l’altra è OGR Tech, un
salone di 200 metri di lunghezza e 13 di altezza attraversato dal cosiddetto
“boulevard”, che ai suoi lati ospita 14 programmi di accelerazione.
Tra questi c’è uno dei Leonardo Labs, che effettuano ricerche in ambito bellico.
Si tratta, scrive Leonardo, di “Hub tecnologici dedicati alla ricerca e allo
sviluppo delle tecnologie di frontiera e breakthrough. Una rete di laboratori di
ricerca e sviluppo interconnessa con università, politecnici, centri di ricerca
e imprese partner, per un ecosistema dell’innovazione in costante evoluzione. I
laboratori sono il motore propulsivo dell’innovazione, massimizzando la
prossimità con i principali siti industriali di Leonardo e con i territori di
riferimento.”
Alle OGR si incontrano la città della tecnologia bellica e quella degli eventi
artistici.
Tempest, il nuovo cacciabombardiere
Dulcis in fundo. il 14 dicembre 2023 i governi italiano, giapponese e britannico
hanno sottoscritto l’accordo sul Global Combat Air Programme, che prevede la
progettazione e realizzazione, da parte di Leonardo, Mitsubishi e BAE Systems,
di un nuovo cacciabombardiere, destinato a sostituire l’Eurofighter e l’F35.
In questo modo viene garantito un futuro anche allo stabilimento Alenia di
Caselle Torinese, che terminate le commesse per gli Eurofighter, si rinnoverà
per i nuovi, ancor più mortali, velivoli da guerra.
La Città dell’Aerospazio e l’acceleratore di innovazione della NATO sono
appoggiate attivamente dal governo della città, da quello della Regione e da
Confindustria.
I diversi attori imprenditoriali e politici sostengono il progetto giocando la
carta del ricatto occupazionale, in una città sempre più povera, dove arrivare a
fine mese è ancora più difficile, dove salute, istruzione, trasporti sono sempre
più un privilegio per chi può pagare.
É una logica perversa quella che vede nell’industria bellica il motore che
renderà più prospera la nostra città. Un’economia di guerra produce solo altra
guerra.
Contrastare la nascita del nuovo polo bellico a Torino non è mera opposizione
etica alle guerre capitaliste ed imperialiste, ma anche un passaggio necessario
a ripensare lo spazio urbano e chi ci vive, come luogo di negazione delle
dinamiche gerarchiche sottese all’opaca città dell’aerospazio ed alla
scintillante vetrina dei grandi eventi.
Federazione Anarchica Tprinese
Assemblea Antimilitarista – Torino
I quaderni di Anarres
Novembre 2024
Scarica qui il pdf:
opuscolo always on the move
La stretta securitaria imposta dal DDL 1660 è un ulteriore tassello nel mosaico
repressivo del governo. Colpi sempre più duri a chi lotta nei CPR e nelle
carceri, a chi si batte contro gli sfratti, a chi occupa, a chi fa scritte su
caserme e commissariati, a chi fa un blocco stradale, a chi fa azioni di
picchetto e blocco sui luoghi di lavoro, a chi sostiene e diffonde idee
sovversive.
La logica di classe e di repressione verso chi lotta è connaturata con
l’ordinamento giudiziario democratico: i provvedimenti adottati da questo
governo la rendono sempre più spudorata e violenta.
Questo ddl si inserisce nel solco già aperto da altri provvedimenti (i decreti
rave, Cutro, immigrazione, Caivano) che mirano a colpire i poveri, gli stili di
vita non conformi, gli stranieri senza documenti. Le misure contro la socialità
non mercificata, quelle contro i profughi e i migranti, l’affondo verso i
giovani, la repressione dei movimenti di lotta sono le architravi del progetto
repressivo del governo.
Quest’insieme di nuove leggi rende sempre più forti i poteri di polizia,
riducendo le pur esili tutele alla libertà di espressione, movimento,
opposizione sociale.
Il grosso aumento delle pene, la meticolosa scelta dei soggetti da colpire e di
quelli da tutelare ne sono il segno distintivo. Più galera per molti, ma non per
tutti, perché la trama dei vari provvedimenti di Meloni è esplicitamente
politica e di classe.
Non solo. Molte misure sono ritagliate su misura su soggetti specifici,
individuati come nemici da colpire.
Si passa dallo stereotipo razzista della borseggiatrice rom sempre incinta alla
legge che impedisce di usufruire della sospensione della pena fino al compimento
del primo anno di età del bambino o della bambina.
Si parte dalla criminalizzazione dei movimenti climatici, sociali e sindacali e
si stabilisce la galera per chi fa un blocco stradale non violento, per chi
traccia scritte su edifici istituzionali, per chi resiste ad uno sfratto.
Le lotte nelle carceri e nei CPR vengono perseguite in modo più duro perché chi
le attua è dipinto come costitutivamente criminale, illegale, fuori norma. A
questo governo non basta massacrare di botte, privare di ogni dignità,
seppellire in carcere chi da vita a rivolte nei luoghi di reclusione.
Questo governo vuole mettere a tacere qualunque protesta, introducendo
nell’ordinamento un reato collettivo, equiparato a quelli di mafia e terrorismo,
che persegue anche le azioni non violente come lo sciopero della fame.
Si alimenta l’allarme sociale contro chi occupa o resiste ad uno sfratto e poi
si disegna una legge per reprimere chi cerca di prendersi un posto dove vivere.
Dalla criminalizzazione pubblica dell’opposizione politica e sociale scaturisce
il reato di “terrorismo della parola”.
L’opposizione parlamentare, che vede scendere in piazza anche settori spesso
conniventi con pratiche repressive, alla Camera si è limitata a proporre di
assumere più poliziotti e secondini.
Evidentemente, più della sostanza del provvedimento, alla “sinistra”
parlamentare interessa intercettare il consenso delle forze dell’ordine, che
grazie al DDL 1660 stanno per acquisire nuovi privilegi e tutele.
Questi dispositivi si configurano come diritto penale del nemico, pur
mantenendosi in una cornice universalista.
Il diritto penale del nemico è informato ad una logica di guerra. In guerra i
nemici vanno annientati, ridotti a nulla, privati di vita, libertà e dignità.
Per il nemico non valgono le tutele formali riservate ai cittadini.
Quando la logica bellica si applica al diritto, alcuni gruppi umani vengono
repressi per quello che sono più che per quello che fanno. L’intera azione
dell’esecutivo è informata a questo principio. Un principio sulle cui fondamenta
sono stati costruiti i lager nazisti e i gulag staliniani. La definizione del
“nemico” interno è squisitamente politica ed è appannaggio di chi detiene il
potere di decidere chi mantiene le prerogative del “cittadino” e chi ne è
privato perché considerato individualmente e collettivamente incompatibile con
il nuovo ordine che il governo sta costruendo.
Un ordine che non ha neppure bisogno delle famigerate “leggi eccezionali” del
1926 per colpire la libertà di scioperare, di scrivere e dire la propria, di
lottare per casa, salute, libertà, dignità.
Le leggi sono il precipitato normativo dei rapporti di forza all’interno di una
società. Oggi i fascisti al governo si sentono forti e giocano tutte le carte a
loro disposizione per assicurarsi il totale controllo politico e il
disciplinamento sociale.
Il governo effettua una manovra a tenaglia, muovendosi contemporaneamente su più
fronti. Oltre al piano squisitamente repressivo, Meloni punta ad una riforma
istituzionale che renda ancora più forte l’esecutivo, e persegue un’egemonia
culturale, che vede la scuola, i media e il territorio come spazi di conquista.
Il fascismo sta tornando. Usano la cornice democratica per dare una secca svolta
autoritaria al paese: segno che la democrazia è solo illusione di libertà e
giustizia sociale.
Fermarli è possibile. Occorre rinforzare le reti ed i movimenti che si battono
contro la svolta autoritaria e, insieme, mantenere fermo l’impegno contro la
guerra, il militarismo, il patriarcato, le frontiere, lo sfruttamento, la
devastazione ambientale, il nazionalismo.
Il tempo è ora.
La Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana
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Dall’Ucraina a Gaza, dal Sudan all’Armenia, dal mar Rosso a Taiwan Il video
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da […]