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Il diritto di restare: espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia. Un estratto dal libro di Stefano Portelli
(disegno di bambi kramer) Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia (Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.  A seguire ne pubblichiamo un estratto.  *     *     *  È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre 1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di movimenti per la casa e per i servizi. Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono – compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue. La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa. Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale, anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le istituzioni. Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato, minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera” inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un “residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle case da cui furono mandate via quindici anni fa. Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di altri a una continua peregrinazione intorno alla città. Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità” rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale. Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici, oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al displacement. Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati, come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli sgomberi, e che li ricordava così: «Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la sua organizzazione». Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […] Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire, Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti. Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa, Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze. Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti. Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una città diversa. Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum: l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”, nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati” dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo collettivo creato nel vecchio quartiere. «La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto della scavatrice di Pasolini, Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch’è spento dolore. In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e politica. Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex “baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti, che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati. All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni (2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere. Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti, sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e colpevole per natura. Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni, sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e culturali. Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata, prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo in gioco gli stessi corpi. Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun). Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte», dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita: come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in affitto. L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini: «Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa; l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali, smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia. Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi. Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere. Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato immutabile. Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
November 15, 2024 / NapoliMONiTOR
Rewind Roma, ottobre # Lacrimogeni, hotel abbandonati e lucchetti sfondati
(disegno di peppe cerillo) Il 2 ottobre un dipendente di una ditta privata sotto contratto delle Ferrovie dello Stato pianta un chiodo per errore nel cavo di una centralina, causando il blocco di tutto il traffico ferroviario della costa tirrenica; alcuni treni fanno fino a dieci ore di ritardo: inizia l’ottobrata romana. Il 3 ricomincia a piovere, mentre sale la tensione per la giornata del 5, quando è prevista la manifestazione nazionale per la Palestina a piazzale Ostiense. Centinaia di gruppi politici e associazioni confermano l’adesione nonostante il divieto della Questura, infine costretta ad autorizzare il presidio. Lo sciopero dei mezzi, il diluvio, il terrorismo mediatico, i fogli di via, i blocchi nelle stazioni, ai caselli autostradali e agli autogrill, nonché i controlli a tappeto in zone anche lontanissime da Piramide impediscono la partecipazione a centinaia di persone; eppure oltre quindicimila manifestanti (forse anche di più) si radunano per quattro ore nel grande piazzale, da dove però viene vietato di partire in corteo. L’esasperazione di alcune tra queste dà la scusa alla polizia per tirare lacrimogeni sulla folla e attaccare il presidio con le idropompe: a Roma non succedeva da circa un decennio. La sera un ragazzo del liceo Righi viene aggredito su via Marmorata perché portava la bandiera palestinese. Il 7 ottobre un centinaio di persone presidia il tribunale durante il processo per direttissima alla persona fermata sabato, accusata di resistenza e lesioni. Intanto il rabbino capo di Roma tiene un discorso alla sinagoga sostenendo che “le istituzioni internazionali che dovrebbero essere super partes si sono fatte cassa di risonanza dei più biechi pregiudizi antisemiti”. Nel pomeriggio a Ostiense un ragazzo di diciassette anni su un motorino rubato viene inseguito dai Carabinieri: durante l’inseguimento si schianta contro un muro e muore. L’8 alla Nuvola di Fuksas (il centro congressi per cui la Corte dei Conti aveva chiesto al Comune tre milioni di euro di danno erariale) si inaugura il Cybertech Europe, vetrina dell’industria delle armi e dello spionaggio promossa da Leonardo Spa in stretto contatto con le industrie militari israeliane. Un corteo di contestazione parte da metro Laurentina verso la Nuvola. A poca distanza, la brigata “Genio” dell’Esercito si esercita sul Tevere, per la prima volta in vent’anni: montano un ponte galleggiante per “prepararsi a un evento bellico”. La sera scoppia un ordigno sulla porta del centro sociale La Strada di Garbatella. Il 9 Sinistra Italiana scrive una lettera al sindaco, chiedendo di sospendere gli sfratti per tutto il 2025 in occasione del Giubileo. Il 10 al consiglio del VI municipio, il più popolato e etnicamente eterogeneo della capitale, passa una risoluzione perché le scuole rimettano il crocifisso nelle aule: la vota il centrodestra, con l’astensione di tutte le opposizioni (Pd e Movimento 5 Stelle). L’11 vengono a Roma sia Zelensky che Pedro Sánchez, entrambi ricevuti dal Papa; Zelensky anche dalla Meloni. Il 12 a Testaccio c’è il funerale del diciassettenne morto durante l’inseguimento dei Carabinieri. Ad Albano si manifesta contro l’inceneritore; e da Piramide a piazza Vittorio sfila un nuovo grande corteo per la Palestina, con oltre diecimila persone. Per la seconda volta scende in piazza anche il Jewish Block, la sezione romana della rete European Jews for Palestine: il loro volantino spiega che il 13 è Yom Kippur, giorno ebraico del digiuno, con cui “elaborare il lutto, le orrende immagini di distruzione e genocidio che ci attanagliano da un anno a questa parte ma che vanno avanti da settantasei anni”. Il 14 un operaio nigeriano di diciassette anni che viveva nell’occupazione Spin Time Labs muore schiacciato da un ascensore in un cantiere del centro storico. Intanto il sindaco presenta in Campidoglio il progetto dell’inceneritore, sostenendo che inquinerà meno di un caminetto. Nel frattempo a San Paolo alcuni attivisti e attiviste restaurano il murale per Shineen Abu Aqleh, reporter palestinese di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano: il murale era stato vandalizzato per la sesta volta. Il 15 a Guidonia un adolescente viene ucciso da un’auto che non si ferma alle strisce. Il 16 c’è un nuovo sgombero per gli ex occupanti dell’Hotel Cinecittà, che avevano occupato un altro hotel a Torre Maura; dopo lo sgombero occupano subito di nuovo un hotel abbandonato, questa volta alla Romanina. Nessuno si chiede se va bene avere tutti questi hotel vuoti, con così tante persone che hanno bisogno di un tetto. Incendio doloso al Liceo Gullace: alcuni giornali provano a incolpare l’occupazione studentesca. Il 17 il consiglio comunale discute una proposta della minoranza, cioè che Gualtieri chieda al governo di fermare gli sfratti l’anno del Giubileo. L’esito era scontato: la proposta viene bocciata. Nel frattempo alla Camera il Pd, in appena sei ore di dibattito parlamentare, si astiene sulla sospensione dell’accordo tra Unione Europea e Israele, si astiene sulle sanzioni per ottenere un cessate il fuoco, si astiene sulla richiesta di non investire in armi, si astiene sul segreto di stato alle armi all’Ucraina, e vota a favore dell’invio di queste armi. Il 19, manifestazione contro il DDL 1660, il nuovo strumento della “guerra interna” contro la dissidenza politica, anche pacifica.  Il 21 il Terzo Municipio annuncia l’apertura di uno “sportello casa” gestito dall’associazione Nonna Roma con fondi del Giubileo, coordinato dalla Fondazione Charlemagne; il progetto aprirà nel 2026 e prevederà uno sportello di ascolto e un co-housing con quattro posti, con un finanziamento di un milione di euro. Il 22 vengono sgomberati per la terza volta i latinos che avevano occupato l’Hotel Petra alla Romanina; cinque di loro vengono rimpatriati, o mandati in un carcere per gente da rimpatriare, mentre quelli considerati “vulnerabili” vengono infilati in strutture di emergenza. Gli altri rimangono per strada. Il 23 alcuni bed and breakfast intorno al Circo Massimo (San Teodoro, via dei Fienili, via dei Foraggi) si svegliano con gli smart locker sfondati; è un’azione diretta di sabotaggio contro la turistificazione di massa e il Giubileo, rivendicata in un video anonimo che si conclude così: “Questa è solamente la prima azione che facciamo contro il vostro Giubileo dei ricchi”. Il 24 c’è un nuovo processo a Stella, arrestata per le manifestazioni studentesche per la Palestina, che si conclude di nuovo con un rinvio. Piove: la Metro B chiude per un blackout, il traffico è bloccato in tutta Roma. Il 25 presidio davanti all’ambasciata Usa contro l’escalation del genocidio in Palestina e in Libano, in risposta alla chiamata internazionale #BlocktheEmbassies; intanto, un gruppo di studenti e studentesse del liceo Righi (il migliore della capitale secondo le statistiche europee) espone trentotto bandiere palestinesi dalle finestre della scuola su via Campania. Invece di premiarli, la preside scrive alle famiglie minacciando sanzioni disciplinari, e reinterpretando a suo modo il senso dell’istituzione culturale: “Qui si fa lezione, non si fa politica”. Ma qual è il confine tra studio e politica?  Il 26 vicino Termini un gruppo di attivisti occupa la sede di Booking, agenzia di appartamenti turistici; domenica 27 al Forte Prenestino c’è una assemblea pubblica contro i nuovi OGM. Un altro ragazzo minorenne viene ucciso da un’auto, stavolta ad Ardea; il giorno prima c’era stato un altro morto all’Eur, il giorno prima ancora un altro alla Romanina. Il 28, anniversario della marcia su Roma, è un’altra giornata di scioperi dei trasporti: chiude la metro, il traffico va in tilt; il mese finisce come era iniziato. La sera la Rete associazioni per una città vivibile organizza un sit-in a Campo de’ Fiori con striscioni “Siamo residenti, non fantasmi”. Il 30 il Comune pubblica il bando per il contributo all’affitto, finora a carico dello stato, adesso “generosamente offerto dalla Fondazione Roma” con un milione di euro (se ci sono mille famiglie, avranno mille euro ciascuna). Lo stesso giorno il Sole 24 ore annuncia che il governo ha ceduto all’Esercito 4,6 miliardi di euro stanziati per la transizione ecologica: siccome i soldi pubblici vanno alla guerra e alle armi, i servizi per la popolazione si reggono sulle briciole dei grandi investitori finanziari. Si va a marcia forzata verso il Medioevo, per creare il setting adatto al “Giubileo dei poveri”. Mancano due mesi all’apertura della Porta Santa: si apre una porta, si chiudono mille portoni. (stefano portelli)
October 31, 2024 / NapoliMONiTOR
Involuzione assistita, un’assemblea a Roma contro i nuovi Ogm
(collage di stefania spinelli) Domenica 27 ottobre si terrà a Roma (CSOA Forte Prenestino, alle ore 10) un’assemblea indetta dal gruppo No Ogm del collettivo Cambiare il campo. Il confronto pubblico è pensato per organizzare una mobilitazione nazionale contro i nuovi organismi geneticamente modificati e una loro possibile deregolamentazione che cambierebbe drasticamente l’agricoltura, i territori e quello che mangiamo, con la consapevolezza che ogni atto eticamente condiviso possa essere utilizzato per fermare la loro introduzione in Italia. Tecniche di evoluzione assistita (Tea) è il nome scelto dalla Società italiana di genetica agraria per gli organismi geneticamente modificati che nel resto del mondo vengono definiti New genomic techniques (Ngt). Soltanto in Italia si è scelto un nome più digeribile che non facesse pensare alle mobilitazioni che, tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, hanno impedito agli Ogm di arrivare nei nostri campi e sulle nostre tavole. Finora vendere Ogm è stato possibile solo garantendo tracciabilità, etichettatura e valutazione del rischio secondo il principio di precauzione. Adesso invece, politici, impresari, scienziati e lobbisti spingono per la deregolamentazione dei nuovi Ogm e in nome della sostenibilità cercano di accrescere consensi. A settembre durante il G7 Agricoltura a Siracusa, Giuseppe Perrone, leader della consulenza per l’innovazione della società Ernst & Young, proclama che “l’innovazione nel settore agrifood non è solo una questione di progresso tecnologico, ma una necessità per garantire un futuro sostenibile per noi e per il nostro pianeta”. I Tea sono di fatto organismi alterati aggiungendo sequenze di Dna prelevate da altri organismi della stessa specie o da specie compatibili, oppure modificando dei geni per amplificare o silenziare alcune funzioni. Con i Tea, la novità rispetto agli Ogm di trent’anni fa è la presunta riproduzione in laboratorio di ciò che accade in natura. In virtù di questa ipotetica somiglianza, le associazioni di categoria come Coldiretti, Cia e Confagricoltura accolgono i nuovi Ogm, mentre voltano le spalle ai contadini che dicono di rappresentare. Stupisce tanta certezza nello sbandierare queste tecniche come sicure e precise, vista la parziale conoscenza del funzionamento e della struttura del Dna che abbiamo a oggi. Infatti, alla messa in guardia da parte di molti scienziati indipendenti si aggiungono numerose ricerche che rilevano effetti collaterali dovuti a mutazioni non volute nei siti bersaglio. Secondo l’Agenzia per la salute e la sicurezza alimentare francese, questi errori possono comportare l’emergere di tossine e allergeni potenzialmente dannosi nella progenie degli organismi modificati con Ngt. Ora che gli ingranaggi del sistema relazionale tra industria, ricerca pubblica e privata e politica sono stati meglio oliati, si cerca di introdurre questi organismi prima che i loro rischi siano effettivamente accertati. Sebbene la Corte di giustizia europea nel 2018 abbia stabilito che le Ngt devono essere sottoposte alla stessa regolamentazione degli Ogm di prima generazione, a luglio 2023 la Commissione europea ne ha proposto la deregolamentazione, eliminando le misure di tracciabilità, etichettatura e valutazione del rischio per i nuovi organismi ottenuti con Ngt. La proposta di liberalizzazione, approvata dal parlamento e ora al vaglio degli stati membri, non era ancora stata formulata che le quattro più grandi multinazionali agrochimiche e sementiere (Bayer-Monsanto, Basf, Corteva e Syngenta) avevano già richiesto 139 brevetti relativi alle nuove biotecnologie per l’editing genomico sulle piante. Multinazionali che da sole governano quasi il settanta per cento del mercato sementiero mondiale e con esso la vita delle persone che se ne devono servire. Il grimaldello per la deregolamentazione delle Ngt è la loro presunta importanza per fronteggiare la crisi climatica e sfamare il mondo: rendere il sistema alimentare più sostenibile e resiliente grazie allo sviluppo di varietà vegetali migliorate, resistenti al cambiamento climatico e ai parassiti, atte a garantire rese più elevate e richiedere meno fertilizzanti e agro-farmaci. Eppure, delle novanta sperimentazioni svolte in Europa soltanto sei riguardano tratti resistenti alla siccità. SELEZIONE INNATURALE L’Italia inaugura la stagione delle sperimentazioni in campo di piante sviluppate con le Tea ancora prima che l’iter a livello europeo sia concluso. Senza lo spazio per un dibattito pubblico, senza valutazione dei rischi e senza contare i danni economici al settore bio, a giugno 2023 viene approvato un emendamento al Decreto siccità che semplifica le regole per le sperimentazioni in campo in deroga alla normativa Ue sugli Ogm. Questa mossa ha fatto guadagnare all’Italia il primato di paese europeo più attivo nel testare colture prodotte con tecniche genomiche. Nel 2022 in India viene introdotto il cotone Ogm Bollgard di Monsanto per rimediare l’attacco del verme del cotone, ma le promesse di maggiore produttività sono state disattese. Ne è seguita una crisi economica con effetti drammatici, impatto negativo sull’ecosistema e perdita di varietà locali. Come per il cotone indiano, anche in Italia le Tea sarebbero l’antidoto ai danni del brusone per il riso e della peronospora per la vite, per i quali sono state avviate le sperimentazioni in campo. Lo scorso settembre è stato inaugurato in provincia di Verona il primo vigneto sperimentale in Europa ottenuto con Tea, un campo di circa duecentocinquanta metri quadri delimitato da una rete metallica accessibile solo al personale autorizzato e sottoposto a sorveglianza ventiquattro ore al giorno. Questo per evitare che si ripeta quanto è successo a giugno in provincia di Pavia, dove è stato completamente distrutto un campo sperimentale di riso. Meno di un mese fa è stata rivelata l’esistenza di un social network privato che profila e segue attivisti, giornalisti e ricercatori che hanno criticato i pesticidi e gli Ogm. Il portale sarebbe gestito da una società fondata da Jay Byrne, ex dirigente di Monsanto. A sconfessare l’utilità di sementi geneticamente modificate in risposta ai cambiamenti climatici è la loro vocazione alla monocoltura e all’omogeneità genetica. Esemplificando, se viene inserito il gene della resistenza alla siccità, le sementi non saranno in grado di adattarsi ad altre condizioni meteorologiche legate. È l’eterogeneità delle sementi contadine co-evolute nei territori in migliaia di anni a presentarsi come la soluzione più naturale e sostenibile ai cambiamenti. Pensare di risolvere la crisi ambientale e alimentare con l’agricoltura industriale (che ne è una delle cause) è quanto di più illogico si possa fare, visto l’impoverimento del suolo risultato della meccanizzazione e di pratiche agricole intensive che non rispettano l’equilibrio degli ecosistemi. Invece che tecniche di evoluzione, le Tea nascondono tecniche di eliminazione avanzata della biodiversità. Per fare luce sulla questione e valutare la bontà delle promesse di soluzioni semplici a problemi complessi, Stefano Mori e Francesco Panié hanno scritto Perché fermare i nuovi Ogm, edito da Terra Nuova. Gli autori sono rispettivamente coordinatore e campaigner di Crocevia, Ong che da anni sostiene progetti per l’agro-ecologia e la sovranità alimentare, parte del coordinamento europeo di via Campesina. Per genetisti e multinazionali biotech, l’alterazione dei genomi delle piante in laboratorio sarebbe talmente piccola da essere equiparata a quello che gli esseri umani hanno fatto fin dal Neolitico selezionando le varietà in campo. Questa semplificazione all’ennesima potenza cancella il rapporto di relazione che si crea in natura tra la pianta e l’ambiente e tra essi e chi le coltiva. Nel corso di un parlamento rurale sul diritto ai semi, Francesco riflette: “Io vorrei utilizzare più semi locali perché vedo che le piante resistono meglio, ma ormai è sempre più difficile trovarli perché chi se li riproduceva non c’è più. E poi è complicato introdurli nella mia azienda e commercializzare liberamente quello che produco”. LA POLIZIA DEI SEMI Contro chi sostiene che l’alterazione dei genomi sarebbe talmente “naturale” da rendere difficile la distinzione tra piante Ogm e non, Panié e Mori evidenziano come “il mito della neutralità delle modifiche crolla davanti alla ragion pratica della privatizzazione”. “Rintracciare le Ngt è possibile e si fa già da tempo, perché serve a chi le vende”, per dimostrare la contraffazione da parte di altre aziende o degli agricoltori. Gli autori del libro prendono atto di come negli Stati Uniti, dove gli Ogm sono presenti da tre decenni, sono numerosi i contadini portati in tribunale e ricattati dalle grandi multinazionali sementiere. I ruoli si ribaltano: un contadino a cui è stato contaminato il campo può essere accusato di furto di proprietà intellettuale dall’azienda proprietaria del brevetto e non avrà vita facile nel dimostrare di non aver rubato niente, anzi di essere parte lesa. Con lo sdoganamento delle Ngt si innesca un meccanismo di dipendenza dalle sementi brevettate, i cui prezzi sono stabiliti dalle multinazionali che ne detengono i brevetti. Il pericolo da cui mettono in guardia gli autori del libro è la transizione verso il modello di brevetto industriale: chi controlla i semi, controlla tutta la filiera. La direttrice dell’African Center for Biodiversity, organizzazione che da vent’anni si batte per la sovranità alimentare nel continente africano, ha definito i nuovi Ogm come “meccanismi coloniali per intrappolare i sistemi agricoli e alimentari e assicurare nuovi mercati per le sementi riprodotte industrialmente dalle aziende”. Con la promessa di una vita più facile ci stanno espropriando dei saperi legati alla terra e con essi della libertà. Franco per anni ha lavorato nell’agroindustria, ma ora recupera semi per riprodurli e distribuirli in giro insieme alle sue conoscenze. Ha in mano un pomodoro Ciettaicale, una varietà locale lucana che necessita di poca acqua, e ricorda che “tra i corsi di agraria all’università ce ne sono di tutti i tipi: meccanizzazione, coltura fuori suolo, come far crescere le piante sulla luna. Ma per quanto riguarda la riproduzione di semi, niente. Sono vent’anni che cerco un corso e non ho trovato nulla. Mi sono formato da solo, cercando ovunque, presso gli anziani, i monaci, nei vecchi documenti”. Il fatto che il punto di vista dei movimenti contadini, delle organizzazioni ambientaliste e dei consumatori venga invisibilizzato e delegittimato, non vuol dire che ci sia accordo unanime alla deregolamentazione. Sono state diverse le occasioni in cui il mondo agricolo ha espresso il suo malcontento: dalle proteste dei trattori a quelle contro i nuovi Ogm, con iniziative di controinformazione per fare chiarezza sull’attuale sistema agroindustriale del cibo, che è causa di cambiamenti climatici, distruzione dei territori, sfruttamento di lavoratori e scomparsa di una prospettiva di vita sana. A marzo si è tenuta a Roma la conferenza contadina di Cambiare il campo, collettivo per una convergenza agro-ecologica e sociale. Quest’incontro ha avviato un dialogo tra movimento rurale e cittadino che si riconosce nelle pratiche agro-ecologiche come alternativa alla filiera del cibo industriale. Un’alternativa valida e sostenibile agli Ogm già c’è (anche se poco diffusa): sono le case delle sementi, in cui fare conservazione dinamica della biodiversità attraverso la selezione e lo scambio di semi delle varietà che meglio si adattano ai cambiamenti climatici. Guy Kastler, contadino e attivista per i diritti degli agricoltori, ricorda che “per sensibilizzare l’opinione pubblica, è essenziale l’azione diretta, la disobbedienza civile, le petizioni e tutto il resto. Se non si agisce, si finisce per non avere nulla. Ma l’azione senza una lotta legale non sempre diventa legge”. Per questo Mori e Panié si propongono di lottare affinché “la regolamentazione venga usata come argine all’agroindustria e agli Ogm, invece che cooptare le pratiche contadine nello stesso quadro normativo” e perché “le pratiche di selezione, utilizzo, scambio e vendita delle sementi da contadino a contadino vengano consentite senza restrizioni e la brevettazione sia vietata”. Se i semi saranno controllati dalle “big four” dell’agroindustria, non possono che esserci all’orizzonte campagne senza contadini, sfruttamento delle risorse, dei territori e delle persone che li vivono. (gabriella patera)
October 20, 2024 / NapoliMONiTOR
No allo sgombero dello spazio anarchico “19 luglio”!
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April 13, 2024 / Anarres