(disegno di peppe cerillo)
Il 4 luglio alle otto di mattina un enorme boato scuote la città: è l’esplosione
di un distributore Gpl a Torpignattara – tra la piscina di Villa de Sanctis e la
scuola materna Romolo Balzani, a ridosso del quartiere di case cooperative
Casilino 23 e a due passi dalla via Casilina. Prima dell’esplosione avevano
preso fuoco anche un deposito di bombole di ossigeno della Croce Rossa e uno
sfasciacarrozze, creando una nube tossica di diossina; miracolosamente, la zona
non si era ancora riempita dei bambini che frequentano i campi estivi. Questa
parte di Roma fin dagli anni Sessanta doveva essere una zona per la logistica. I
proprietari dei terreni l’hanno però riempita di palazzine residenziali e così
oggi le industrie pericolose e inquinanti convivono con scuole, asili nido,
centri sportivi, zone archeologiche e quartieri densissimi (si veda qui). La
sera divampa un altro incendio nel parco del Forte Prenestino.
Il 6 a Parioli esercitazione antiterrorismo della polizia italiana intorno
all’ambasciata israeliana (non nei confronti di militari e civili israeliani
attivi nel terrorismo contro la popolazione di Gaza). Scendono le temperature:
l’8 luglio fa quasi freddo. Il Tar boccia le opposizioni della fu giunta Raggi a
un grande progetto di settemila metri quadri residenziali intorno alla Vela di
Tor Vergata, che quindi inizierà a breve, sempre giustificato dell’idea che
costruire nuove case fa sempre bene, anche in una città con centomila
appartamenti vuoti.
Il 9 alla manifestazione Sports beats borders dell’Esquilino partecipa una
squadra di bambini palestinesi arrivati dal campo profughi di Chatila. Muore
l’ispettore ustionato dall’esplosione del deposito di Gpl del 4 luglio:
fortunatamente è l’unica vittima mortale, ma ci sono decine di ustionati gravi,
centinaia di feriti, e un migliaio di bambini senza scuola. Il 10 al centro
congressi La Nuvola (Eur) si celebra una Conferenza sulla ricostruzione
dell’Ucraina, che blocca il traffico del centro: tra i partecipanti anche
l’attore Zelensky. Nel frattempo, a Torbellamonaca prende fuoco un palazzo:
settantadue nuclei familiari vengono evacuati. L’11 un aereo della polizia porta
a Roma dalla Grecia un uomo statunitense, accusato del duplice femminicidio
della moglie e della figlia trovate morte a inizio giugno a Villa Pamphili.
All’Idroscalo di Ostia inizia il festival del cinema Alice nella Città: il
maxischermo è montato proprio dove c’erano le case rase al suolo da Alemanno nel
2010. Un motociclista muore in incidente vicino Ostia Antica. Domenica 13 un
forte nubifragio spazza Roma con vento e pioggia: l’acqua entra anche
nell’ospedale Grassi di Ostia.
Lunedì 14 arrivano a Roma i familiari di Satnam Singh, il bracciante sikh di
Latina mutilato sul lavoro e lasciato morire dissanguato dal suo padrone. Una
consigliera Pd di Garbatella dichiara il passaggio a Fratelli d’Italia. Il
Tribunale di Roma sospende quattro poliziotti implicati nel traffico di droga di
San Lorenzo: anche loro erano strumenti della gentrificazione del quartiere, che
estrae valore dal territorio rendendo impossibile la vita a chi lo abita. Muore
un operaio kurdo investito da un’auto a Centocelle: è la settantottesima vittima
delle strade a Roma dall’inizio dell’anno. Il 15 il Comune stanzia due milioni
per riaprire la scuola Romolo Balzani, devastata dall’esplosione del deposito di
Gpl. Il 17 la polizia irrompe in casa di Chef Rubio e sequestra computer e Usb,
trattenendolo nel commissariato di Frascati fino a sera. Intanto, retata
razzista a piazza Vittorio: la Celere circonda un gruppo di migranti africani,
chiede documenti a tutti, li carica sul furgone e se li porta via. Il sindaco di
Roma è agli Stati generali della bellezza, nell’incantevole location di Cava de’
Tirreni, impegnato a dichiarare che “le periferie di Roma fanno schifo”.
Venerdì 18 il Tar respinge il ricorso contro l’abbattimento del bosco di
Pietralata per la costruzione dello stadio privato dell’imprenditore Friedkin,
mentre un picchetto antisfratto evita l’espulsione di un’anziana da un palazzo
di proprietà dell’Inps occupato da decenni. La guardia di finanza mette i
sigilli allo stabilimento balneare per vip V-Lounge di Ostia, che disponeva di
ottocento lettini. Il 19 un gruppo di attivisti di Ostia manifesta sulla
spiaggia, rivendicando il “mare libero” dalla privatizzazione rappresentata
dalle concessioni balneari. A Ostia tutta la parte centrale della spiaggia è
privatizzata, e le spiagge libere sono solo a molti chilometri dal centro,
difficili da raggiungere e mal collegate con i mezzi pubblici. Il 20 un passante
trova il cadavere di una donna al Mandrione, vicino ai binari del treno: era
scomparsa cinque giorni prima dalla zona di Ponte Mammolo.
Il 21 un gruppo di lavoratrici dello spettacolo occupa simbolicamente il Circolo
degli Artisti, chiuso dal commissario Tronca nel 2015 e mai più riaperto. Chiude
per una settimana la linea C della metropolitana, per i test delle nuove
stazioni di Colosseo e Porta Metronia. Il 22 alla Camera dei deputati si
inaugura un congresso sul Nuovo ruolo geopolitico di Israele: Maccabi World
Forum, Istituto Milton Friedman, Unione delle Associazioni Italia-Israele
(UAII), Israel’s Defend & Security Forum (ISDF) e Alleanza per Israele premiano
Matteo Salvini davanti a militari e deputati italiani, soprattutto della Lega,
con importanti rappresentanti dello stato genocida. Presidio intanto in piazza
Capranica contro l’assedio della fame a Gaza.
Il 23 il Comune annuncia l’acquisto del palazzo occupato in via Bibulo, a
Cinecittà-Don Bosco, che era stato già requisito anni fa dall’allora presidente
del municipio Sandro Medici: i proprietari erano un monsignore, un camorrista e
una contessa che lo tenevano vuoto. Il 24 un uomo incendia due macchine della
polizia davanti al commissariato di via Farini; un altro spara contro il
buttafuori di una discoteca all’Eur, ferendolo alla testa; un incendio distrugge
il chioschetto di piazza Vittorio. Intanto il Comune approva la qualifica di
“interesse pubblico” per uno studentato privato da seicento euro al mese su
terreni pubblici dei mercati generali di Ostiense: la corporazione immobiliare
Hines lo avrà in concessione per sessant’anni senza neanche un limite ai canoni
d’affitto. La “città dei giovani” immaginata da Veltroni è un regalo ai privati
ancora più grande dei vecchi piani di zona. Il 25 presidio solidale davanti al
Cpr di Ponte Galeria, dove continuano a essere rinchiuse persone che non hanno
commesso alcun crimine: l’anno scorso un ragazzo di vent’anni rinchiuso lì
dentro si era suicidato.
Il 28 luglio inizia il temuto giubileo dei giovani, il grande evento estivo per
il quale si attendono decine di migliaia di giovani pellegrini da tutto il
mondo: all’evento analogo del Duemila, oltre due milioni di ragazzi e ragazze
cattoliche avevano inondato la zona di Tor Vergata che il Comune aveva costruito
con novantuno miliardi di vecchie lire. L’area è la stessa oggi. Nella stessa
giornata spari a Cinecittà, e anche ad Acilia, dove una ragazza egiziana viene
colpita per errore ad una gamba. Il 29 otto attiviste e attivisti del movimento
per il diritto all’abitare subiscono perquisizioni domiciliari e il sequestro
dei dispositivi elettronici da parte di carabinieri e digos: ennesima operazione
di criminalizzazione legittimata con un’inchiesta sui “contributi da 3/5 euro”
(cit.) per le spese di manutenzione delle occupazioni abitative in cui vivono.
Il 30 un incendio distrugge uno stabilimento balneare a Maccarese. Il 31 inizia
la demolizione dell’ex Fiera di Roma: il progetto prevede di trasformarla in una
Città della gioia: né più né meno che trentacinquemila metri quadri di nuove
palazzine di proprietà del Fondo Orchidea di Banca Finint, e intorno la zona
verde obbligatoria per gli standard urbanistici. (stefano portelli)
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(disegno di peppe cerillo)
Il 1 giugno il Giro d’Italia raggiunge la capitale: sia a Roma che a Ostia la
popolazione accoglie i ciclisti israeliani sventolando bandiere della Palestina.
Il 2 le frecce tricolori sorvolano il centro della capitale, e le parate
annunciano la nuova militarizzazione della vita pubblica, l’entrata in guerra,
l’aumento della spesa militare, la difesa di uno stato genocida. Il 5, mentre in
Senato si approva il Decreto Sicurezza (poi fortemente messo in discussione
dalla Corte di Cassazione), c’è un tentativo di sgombero nel residence per
l’emergenza abitativa di Val Cannuta: le famiglie che lo abitano occupano la
strada e affrontano la polizia. Il 7 giugno scende in piazza per Gaza
addirittura il Pd: è la più grande manifestazione dall’inizio del genocidio, ma
dal palco parla anche chi si definisce “orgogliosamente sionista”. Nel
frattempo, a Villa Pamphili viene trovato il cadavere di una bambina neonata, e
il corpo di una donna rinchiuso in un sacco nero.
Referendum dell’8 e 9, al seggio si presentano meno del venticinque per cento
dei votanti romani, anche se le periferie danno miglior prova del centro. Lunedì
9 dei picchetti fermano due sfratti a Cinecittà Don Bosco e a Casalbruciato.
Pomeriggio al Pantheon: presidio di solidarietà con la Freedom Flotilla,
bloccata da Israele in acque internazionali. Il 10 il Comune annuncia l’acquisto
futuro di ben mille e trecento case, di cui mille da Enasarco, ente
previdenziale privatizzato che ne aveva più di diciassettemila a Roma. L’11
grande manifestazione antisionista a Garbatella. Nel frattempo, la giunta
regionale approva l’ennesimo piano di sblocco della cementificazione. Sabato 14
un corteo di centinaia di migliaia di persone, forse un milione, sfila per il
Pride, da piazza della Repubblica a Terme di Caracalla, anche con tante bandiere
palestinesi: alle cinque si sospende la musica per cinque minuti, in ricordo
delle vittime del genocidio. Nel pomeriggio c’è un presidio di solidarietà di
alcune decine di persone davanti all’ambasciata iraniana a Roma, dopo i
bombardamenti israeliani sull’Iran. Circa cinquecento persone manifestano per la
Palestina anche in Tuscia, a Orvieto.
Il 17 un nubifragio si abbatte su tutta Roma. Il 19 a Ostia va a fuoco il
Village, lo stabilimento “sottratto ai clan”. Sempre a Ostia c’è un incidente
mortale tra una moto, una smart e un motorino: i familiari delle persone
coinvolte aggrediscono i medici dell’ospedale Grassi. Il 20 bruciano otto
macchine sul lungotevere in zona Marconi. Sciopero generale: proteste sotto la
sede di Leonardo sulla Tiburtina. Sabato 21 due grandi cortei contro guerra e
riarmo, uno da piazza Vittorio, l’altro da Porta San Paolo. Il 23, alla vigilia
di San Giovanni, cade una banda di trafficanti marocchini che spacciava il fumo
per le strade di San Lorenzo: la banda contava sulla complicità di ben sette
poliziotti del commissariato di zona, che da anni restituivano loro l’hashish
sequestrato, falsificavano i documenti, e naturalmente incassavano i proventi.
Due sono arrestati e gli altri cinque indagati. Il 24 il sindaco annuncia un
“rimpasto di giunta” che riequilibra le varie correnti Pd: a guidare i progetti
Pnrr per Torbellamonaca e Corviale mette una vecchia guardia del partito;
l’assessore al personale diventa vice-capo di gabinetto; una consigliera (e
presidente del Pd romano) si dimette per diventare capa della segreteria del
sindaco, in barba a chi l’aveva votata per esercitare un altro ruolo. La notte
un ragazzo di trentacinque anni in scooter viene travolto e ucciso da un’auto
rubata, su viale Kant.
Il 25 notte una bomba carta devasta una palestra di boxe a Ostia, forse una
ritorsione dopo la sentenza del processo dell’ultrà Diabolik. Il 26 inizia il
caldo estremo, e con il caldo gli incendi: brucia il pratone di Torrespaccata,
una grossa area verde della periferia est, su cui ci sono forti mire
speculative. Due incidenti durante la notte: muoiono un cinquantenne sullo
scooter a Torvaianica e un motociclista di quarant’anni sulla Lauentina:
diciassette morti sulle strade dall’inizio di giugno. Il 27 il Comune annuncia
l’installazione di una ruota panoramica sul lungomare di Ostia. La Regione
intanto approva una variazione del bilancio di oltre dodici milioni di euro, che
però andranno solo all’efficientamento energetico delle proprietà Ater (non si
sa se le case popolari, o solo gli uffici), per il trasporto disabili su gomma,
e per la partecipazione all’iniziativa “Vie e cammini di San Francesco”. Il 28
pomeriggio un ragazzo del Bangladesh di ventisette anni viene accoltellato e
ucciso durante un picnic, forse da un ladro, al parco della Montagnola.
In tutto ciò, in Vaticano si continua a giubilare: tra il 23 e il 28 si
celebrano il giubileo dei seminaristi, dei vescovi, dei presbiteri e delle
Chiese Orientali. (stefano portelli)
(disegno di elena mistrello)
Qualche anno fa, in una concitata assemblea di lavoratori sociali, qualcuno
suggeriva ai presenti di guardare al sociale come un laboratorio dove il sistema
neoliberale sperimenta processi di sfruttamento, e di auto-sfruttamento, che nel
tempo, a macchia d’olio, si consolidano in altri settori del mercato del lavoro.
In questo settore, a fronte della crescita del fatturato e dell’organico
dell’impresa sociale, si mantiene una struttura apparentemente orizzontale, che
attraverso la permanenza delle figure dei soci lavoratori diffonde un’idea di
cooperativa come famiglia, funzionale in realtà alla cancellazione dei diritti
residuali sanciti dal contratto collettivo nazionale. In questo scenario si
colloca la storia che vogliamo raccontare.
L’Apriti Sesamo, accreditata al servizio di inclusione scolastica di Roma
Capitale, nel 2023 vantava un fatturato di circa quattro milioni e un organico
di centosettanta persone tra soci e dipendenti; ma nell’ottobre 2024 ratificava
nell’assemblea tagli sugli stipendi per i soci: 85 euro lordi sulla retribuzione
lorda, sulla quattordicesima, sui permessi retribuiti, le ferie, la malattia, e
inoltre formazione pagata al cinquanta per cento, con una riduzione dello
stipendio, per ogni lavoratore, tra i duecento e i trecento euro al mese.
L’8 aprile 2025, Apriti Sesamo invia una email ai lavoratori non soci, dove a
seguito di motivazioni legate alla pandemia, li convoca per discutere
sull’applicazione dei tagli. Il 22 aprile, i dipendenti vengono chiamati in
un’assemblea, alla presenza dei sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil), dove i
dirigenti della cooperativa illustrano il quadro economico e chiedono di fare
sacrifici facendo leva sul solito schema familistico. La cooperativa informa poi
i dipendenti sulla decisione di indire un referendum, il 23, 24 e 28 aprile, per
“decidere” se accettare o meno i tagli.
Ai sindacati di base (Usb e Cub) viene preclusa la possibilità di partecipare,
negando di fatto una discussione sulla vicenda. Il 21 aprile l’Usb, il sindacato
della lavoratrice che intervistiamo, e la Cub, proclamano lo stato di agitazione
e inviano due lettere di diffida: una il 30 aprile e l’altra il 5 maggio, contro
l’applicazione dei tagli ai loro iscritti. Il 30 aprile vengono pubblicati i
risultati del referendum: su 99 aventi diritto, il sì prevale di 62 voti, mentre
il no si ferma a 14. Mentre sono 23 le persone che si astengono. I tagli partono
dal primo maggio, ma i lavoratori li vedranno applicati in busta paga solo a
luglio, poiché lo stipendio viene erogato abitualmente con due mesi di ritardo.
Il 12 maggio, i consiglieri dell’assemblea capitolina, Antonio De Santis e
Flavia De Gregorio, chiedono la convocazione urgente della commissione scuola di
Roma Capitale, per analizzare la situazione della cooperativa Apriti Sesamo. Un
passaggio importante, quest’ultimo, visto che secondo la legge 104/92, il Comune
è titolare del servizio di assistenza scolastica che supporta i ragazzi con
disabilità nelle scuole di ogni ordine e grado.
A partire dall’anno scolastico 2022-23, l’erogazione del servizio avviene
tramite il sistema dell’accreditamento. Al momento in cui intervistiamo la
lavoratrice, i dipendenti Apriti Sesamo attendono risposte ufficiali dal comune
di Roma Capitale.
Che è successo l’8 aprile?
«Quel giorno ricevo una mail in cui vengo convocata dalla cooperativa insieme ai
miei colleghi, dipendenti non soci, per parlare di un piano di tagli che sarebbe
stato approvato qualora i dipendenti avessero votato sì. Leggo la mail e penso:
parlerò con i sindacati di base. È una questione collettiva e non ho pensato di
agire da sola, non ho nemmeno risposto alla mail. Il risultato è stato che il
sindacato ha dichiarato lo stato di agitazione dei suoi iscritti. Sono andata
all’assemblea con questa consapevolezza. Ma soprattutto non ero preoccupata
perché ho pensato: ti pare che una persona va a votare per il taglio del proprio
stipendio? Ho avuto fiducia nelle persone e come sempre ho sbagliato.
Quando hai capito che la situazione avrebbe preso una brutta piega?
«Il giorno dopo aver ricevuto la mail sono andata a parlare con le poche
colleghe che lavorano con me a scuola, pensando che fossimo tutte d’accordo. In
particolare una ragazza mi dice: “Non abbiamo altra scelta, io con loro mi trovo
bene, ci lavoro da anni, perché dobbiamo votare no? Sono sacrifici che dobbiamo
fare tutti quanti!”. Quando anche le altre colleghe mi hanno detto che avrebbero
votato sì, mi è salita una rabbia incredibile. Ho dormito male e ho provato a
immaginare quello che i miei colleghi avrebbero potuto dire e quello che avrei
potuto rispondere. Iniziavo a pensare che saremmo stati una minoranza. In
assemblea c’erano una cinquantina di persone, tutte silenti, pendevano dalle
labbra del presidente della cooperativa, ascoltavano, annuivano. Avevano già
accettato i tagli. Io e una collega che la pensava come me, ci siamo messe in
fondo alla sala. Allora una delle lavoratrici storiche della cooperativa si è
messa dietro di noi per vedere se stavamo registrando la riunione. Quando ho
chiesto il microfono, ho detto una cosa molto semplice: “Come alcuni di voi
sapranno è stato dichiarato lo stato di agitazione dei dipendenti iscritti a
Usb. Noi non siamo d’accordo rispetto ai tagli e faremo tutto quello che è in
nostro potere per impedire che venga applicata una cosa del genere”. Mi tolgono
il microfono dalle mani e vengo attaccata da una lavoratrice per una questione
personale: tempo prima mi ero confidata con una collega della scuola, dicendo
che volevo cambiare lavoro e questa è andata a raccontarlo alla cooperativa. Lei
mi ha urlato in faccia e io mi sono un po’ spaventata. Ero sola, non avevo il
mio sindacato di riferimento, erano tutti palesemente contrari a quello che
stavo dicendo. Ho iniziato a tremare, non ho vissuto bene l’aggressione, me ne
sono andata via. Sono tornata a casa e sono rimasta per tutto il fine settimana
a letto, non sono riuscita a studiare, non ho visto nessuno. Mi sentivo l’ansia,
il mal di stomaco, non riuscivo a dormire al pensiero di tornare al lavoro. A
scuola non mi sono esposta.
Che significa per te lavorare nel sociale?
«Quando inizi sei contenta perché pensi di stare facendo qualcosa di utile. Nel
momento in cui ti rendi conto che vai a lavorare per il benessere altrui, ma che
il tuo benessere è messo da parte, questo ti lascia svuotato. E quella
motivazione che avevi nello svegliarti la mattina viene meno. Per citare Freire,
l’educazione deve servire alle persone per liberarsi dalla loro condizione di
oppressi. Ma nel momento in cui tu stesso sei oppresso dal sistema, c’è un
meccanismo che si inceppa. Lavorare nel sociale ti sfinisce: sai che vieni
sfruttato fino all’osso, che vieni pagato poco, che il tuo lavoro è invisibile.
E quello che ti viene a mancare è l’umanità. Parlando di scuola, quest’anno, non
ho avuto una parola di conforto da parte di nessuna insegnante. Colleghe che
fanno un lavoro assimilabile al mio, ma lavorano quattro ore al giorno. Tu sei
vista come quella che deve lavorare otto ore al giorno. C’è qualcosa che non
funziona. E il prezzo di tutto questo lo pagano non gli imprenditori sociali, ma
le persone fragili e quelle che lavorano.
Che idea ti sei fatta dei sindacati?
«I sindacati confederali rappresentano il fallimento dei sindacati. Hanno una
struttura profondamente gerarchica, sono lì a parlare in rappresentanza dei
lavoratori, ma hanno mai parlato con i lavoratori? Se, come in questo caso,
difendi datori di lavoro che avallano il taglio allo stipendio di chi svolge un
lavoro povero, significa che non stai facendo il tuo lavoro. Io mi chiedo come
fanno a potersi definire sindacato. Hanno fortemente voluto il sistema
dell’accreditamento. Il contratto collettivo nazionale l’anno scorso lo hanno
firmato loro.
Come ti senti a essere una lavoratrice sospesa?
«Ho un rapporto ambivalente: c’è una parte di me che vive i tre mesi di
disoccupazione quasi come una liberazione dal lavoro, e dall’idea di essere
sfruttata. Nonostante a livello economico sia molto duro sopravvivere, visto che
pago l’affitto e vivo in una città molto cara, in qualche modo lo percepisco
come un tempo per liberarmi dalle pressioni, quasi come se preferissi percepire
un reddito più basso piuttosto che sentirmi sfruttata. Avere tre mesi di libertà
è un pensiero che mi aiuta ad arrivare viva a giugno. Trovo assurda la questione
del part-time ciclico verticale, perché i colleghi e le colleghe che hanno
dovuto firmare un contratto a tempo indeterminato, per quei tre mesi non hanno
accesso alla disoccupazione, quindi devono continuare a lavorare nei centri
estivi in cui vengono sfruttati di più rispetto alle scuole, perché ti pagano
cinque euro l’ora. E soprattutto il lavoro di educatore è usurante, anche noi
come i docenti dovremmo avere dei mesi per riprenderci. Viviamo in un ambiente
lavorativo talmente precario e ingiusto, che sono arrivata a considerare la
disoccupazione come una manna dal cielo. Io non firmerò mai un contratto a tempo
indeterminato con una cooperativa. Non lo farò mai, e questo mi aiuta a
percepire questo lavoro come temporaneo, perché non lo puoi fare tutta la vita».
(giuseppe mammana)
(disegno di peppe cerillo)
Il primo dicembre la preside del Liceo Virgilio organizza una manifestazione
contro l’occupazione della scuola (sic!) in piazza Santi Apostoli, convocando
insegnanti, studenti e genitori contrari. Il due il tribunale rinvia di un’altra
settimana l’udienza per Tiziano L., dopo due mesi di arresti domiciliari per
presunta aggressione a un poliziotto che stava caricando contro la
manifestazione per la Palestina del 5 ottobre (nonostante i video dimostrino
chiaramente che l’accusa è falsa). Due ladri entrano nella villa di Berlusconi
sull’Appia antica. Il tre il Movimento per l’abitare manifesta per il blocco
degli sfratti sotto la sede di Confedilizia, dietro via Condotti. Nel
pomeriggio, a piazza Vittorio, si inaugura la trasformazione degli storici
Magazzini Allo Statuto (MAS) in un Museo della Moda. Il cinque maxi operazione
di polizia al Quarticciolo, dove a ottobre c’era stata una manifestazione
“contro le occupazioni”. Polizia, carabinieri, vigili, uniti per sgomberare le
case popolari occupate. Intanto, alla celebrazione per i centoventi anni della
sinagoga, il rabbino capo di Roma insiste sull’antisemitismo “in crescita dal 7
ottobre”.
Il sei l’Atac inaugura una nuova pensilina “smart” per l’attesa degli autobus:
il nome ufficiale è “eterna”, sembra uno scherzo. Condannato a sei anni di
carcere l’imprenditore Ricucci per una truffa immobiliare. Sempre il sei,
conferenza nazionale autogestita per la salute mentale a San Lorenzo. Il sette
un uomo viene ucciso a coltellate durante una lite nell’androne di un palazzo
sul litorale, a Nettuno. Manifestazione studentesca verso il Campidoglio contro
il Giubileo, contro il caro affitti e contro il sindaco: “Nessuna indulgenza per
Gualtieri”, è lo slogan. L’otto a piazza di Spagna un’attivista animalista
spagnola si avventa sul Papa con un cartello “Basta benedire le corride”. Il
nove a Ostia le onde raggiungono i due metri di altezza, infliggendo il colpo di
grazia allo storico stabilimento Kursaal, già danneggiato. Il dieci nuova
udienza in tribunale e presidio per Tiziano L., finalmente libero. Arrivano a
Roma il re e la regina di Spagna, che dopo una grande festa all’Accademia sul
Gianicolo, l’undici partecipano a un’offerta propiziatoria all’Altare della
Patria a piazza Venezia. Durante il festeggiamento con Mattarella al Quirinale,
la regina rimarrà senza corona per non umiliare il suo omologo repubblicano.
Negli stessi giorni gira per Roma anche Thom Yorke, che ha comprato un attico in
Campo Marzio; il dodici arriva il presidente argentino Milei, a cui viene
regalata la cittadinanza, negata a migliaia di persone nate in Italia.
Il tredici sciopero di USB e corteo studentesco da piazzale Aldo Moro; sciopera
anche la Rete Università e Ricerca per la Palestina. Sabato quattordici c’è
un’enorme manifestazione nazionale contro il DDL 1660: si muovono cento pullman
da tutta Italia, il corteo attraversa Villa Borghese, riesce a entrare in centro
e riempie tutta piazza del Popolo. Per la questura c’erano solo settemila
persone: ma non ci credono neanche loro, visto che la capienza della piazza è di
sessantamila. La notte un ragazzo che probabilmente usciva dal lavoro viene
investito e lasciato agonizzante sulla Tiburtina, è il cinquantesimo pedone
ucciso con una macchina nel 2024. Il sedici l’Università Roma Tre conferisce una
laurea honoris causa a una magistrata della Corte Suprema israeliana,
confermandosi come l’università della capitale più legata al sionismo e ai suoi
tentativi di riscrivere il diritto internazionale. Intanto, dibattiti sulla
presenza del trapper Tony F. al concerto di Capodanno. Il diciassette il
Prefetto annuncia settecento nuovi agenti per Roma durante il Giubileo. Gli
artificieri recuperano una bomba inesplosa a San Lorenzo, un residuo dei
bombardamenti statunitensi del 1943, vicino alla sede dei Cavalieri di Colombo.
Il diciotto una settantina di manifestanti entrano nella sede romana di Leonardo
S.p.A. sulla Tiburtina, in protesta contro l’attacco alla rivoluzione curda in
Rojava e al popolo palestinese a Gaza, con armi, elicotteri e dispositivi
prodotti anche da Leonardo.
Il diciannove si celebra l’ennesimo processo a Stella B. per le manifestazioni
studentesche contro la Palestina: la sentenza arriverà a gennaio. Sabato ventuno
ancora manifestazione per la Palestina a piazza Vittorio; e il ventidue diverse
attiviste e attivisti srotolano una grande bandiera palestinese a piazza del
Pantheon. Il ventitre crolla un albero in un parco sulla Tiburtina, uccidendo
una donna davanti ai suoi tre figli; nei giorni precedenti c’erano già stati
morti sulle strade (a Velletri, a San Basilio) e due pescatori erano annegati
davanti a Focene.
Il ventiquattro sera arriva l’agognata apertura dell’Anno Santo e della Porta
Santa: migliaia di persone si affollano a piazza San Pietro e all’inizio di via
della Conciliazione, senza incidenti notevoli, anche grazie alla presenza
massiccia di forze dell’ordine dello stato italiano; fermato un gruppo di sette
persone “di nazionalità straniera” secondo i giornali, che portavano uno
striscione con scritto “Cancellate il debito”. Eppure cancellare i debiti era
proprio il senso del Giubileo. Durante la notte, una donna senza casa muore di
freddo, proprio lì su via della Conciliazione. Anche il giorno di Natale, il
venticinque, muore di freddo un uomo di cinquanta anni che viveva in una tenda a
Ostia.
Il ventisei il papa apre simbolicamente la porta della cappella del carcere di
Rebibbia, che definisce “una cattedrale del dolore e della speranza”. La
speranza, filo conduttore di questo Giubileo, la ritroviamo anche nel motto
della polizia penitenziaria: diffondere speranza è il nostro dovere. Il
ventisette un altro morto in strada, a San Basilio, un altro ancora il ventinove
alla Borghesiana, mentre si apre la seconda porta santa, quella della basilica
di San Giovanni, ma questa volta il Papa non è presente. Il trenta mattina
violento sgombero al ForteLaurentino: poliziotti antisommossa caricano sulla
folla che protesta, due feriti, due fermati processati per direttissima (il
trentuno presidio davanti al tribunale in solidarietà con i processati).
L’anno finisce con la manifestazione intorno al carcere di Rebibbia; perché
mentre fuori si celebra, si protesta, si discute, si posta, si twitta, si
sparla, si scrive, si scrocca, si specula, si sfratta, si perde, si guadagna, si
ride e si scherza, più di sessantamila persone sono tagliate fuori da tutto
questo, chi per qualche tempo, chi per anni, chi per sempre. Per chi è rinchiuso
in carcere, per chi non ha neanche la libertà di scegliere dove stare, non
bastano la speranza nell’anno nuovo, nel Giubileo, nel futuro: ci vuole qualcosa
di molto diverso. E finché non si liberano loro, non ci liberiamo neanche noi.
(stefano portelli)
(archivio disegni napolimonitor)
Sono arrivato a Roma il 16 novembre per partecipare a un’assemblea nazionale
alla Sapienza, indetta per rispondere all’eventuale approvazione del decreto
sicurezza 1660. In un’aula magna stracolma, l’assemblea si è svolta attraverso
brevi interventi in cui esponenti di varie realtà politiche, associative,
sindacali e di movimento, hanno portato il proprio punto di vista sulla
questione del decreto. A essere sottolineata è stata soprattutto la necessità di
organizzarsi e scendere in piazza coesi, poiché l’attacco del governo potrebbe
cambiare la storia giuridica e sociale del nostro paese. La criminalizzazione
del dissenso che viene proposta, ha affermato un professore dell’Università
romana, è forse peggiore delle misure repressive degli anni Settanta, quando
c’era la lotta armata. Ora a essere puniti e considerati criminali e terroristi
sono gli attivisti per il clima, le persone migranti, chi rivendica il diritto
alla casa, chi lotta per i diritti sul lavoro, chi si oppone a trattamenti
degradanti nelle carceri. E a essere tutelate e difese sono le forze
dell’ordine. C’è evidentemente un cortocircuito tra ciò che il governo Meloni
intende per sicurezza, e quello che il concetto di sicurezza significa in una
democrazia.
L’assemblea è stata seguita nel pomeriggio dal Climate Pride, una parata
colorata e pacifica che ha percorso il centro di Roma in nome della giustizia
climatica, per fare pressione nei confronti di chi nelle stesse ore si trovava a
Baku, in Azerbaijan, dove si è svolta la COP29. Qualche giorno dopo, all’interno
di questo fermento collettivo, è successo qualcosa di diverso al centro della
Capitale. Questo è il mio racconto “dal di dentro” con Extinction Rebellion
Italia.
* * *
La sera del 21 novembre partecipo a un briefing per l’azione del giorno
seguente. Durante quattro ore di riunione ci vengono spiegati i possibili
scenari, i livelli di rischio, il funzionamento della comunicazione, e ci viene
impartito un breve addestramento sulle azioni di disobbedienza civile non
violenta. Il numero di informazioni è copioso. La preparazione dettagliata.
Il giorno dopo arrivo a Termini leggermente in ritardo e incontro i
miei buddies per la giornata. Siamo nel gruppo benessere, che durante le azioni
si assicura che tutte stiano bene, e provvede con cibo, coperte e acqua ai
bisogni primari. Nell’attesa di un messaggio dalla nostra referente ci mettiamo
a fare colazione in un bar lì vicino. Sono le 9:30 circa.
Con una mezzora di attesa in più del previsto riceviamo la comunicazione che gli
altri gruppi stanno procedendo con il piano A. Dopo il segnale di conferma ci
dirigiamo nel luogo dell’azione, che si rivela essere piazza del Viminale.
Guidate da una crescente puzza di sterco arriviamo in piazza. Il letame portato
dal camioncino delle attiviste – circa sei quintali – è già stato scaricato. Di
fronte alle tende aperte per occupare la piazza, si schierano i poliziotti a
presidio dell’ingresso del palazzo.
Agenti in borghese iniziano a rimuovere le attiviste dalle tende, la situazione
diventa tesa e concitata. Mentre trascinano fuori le persone sono ripresi da
molte telecamere e anche per questo sembrano agire con cautela, anche se c’è chi
ha preso qualche calcio e qualche botta in testa.
La presenza della polizia sembra aumentare con il passare dei minuti. Quando mi
volto, dalla schiera di poliziotti dietro di me sento le parole: “Da qui non
esce nessuno”. Dopo poco, la polizia decide di sgomberare l’intera piazza. Le
attiviste intonano cori, suonano tamburi e fanno discorsi ad alta voce,
raccontando perché sono lì. Mi viene da chiedermi per chi, visto che non ci sono
rappresentati politici e le persone comuni che passano, anche volendo assistere
non possono perché la polizia ha “chiuso” la piazza. Nemmeno i giornalisti posso
entrare, ma ci sono i social.
I due police contact discutono animatamente con gli agenti della Digos per
arrivare a un accordo e permettere a chi vuole di lasciare la piazza e non
finire in questura. È una trattativa laboriosa, perché la polizia sembra non
voler far uscire nessuno, senza offrire ragioni. Ma si arriva a un compromesso.
Tutte identificate, fotografate, e poi fuori. Le persone che decidono di
rimanere dentro la piazza vengono prese una a una e portate come “sacchi di
patate” dentro due autobus della polizia, che ricordano quelli delle gite
scolastiche. Un poliziotto ci dice che non andranno in questura, ma all’ufficio
immigrazione, perché c’è più spazio, a un’ora dal centro, lontano dai palazzi
della politica.
Alcune di noi intanto si dirigono al bar mentre fuori inizia a piovere forte.
Quando spiove, passeggiamo tra i Fori imperiali e il Colosseo per prendere la
metro verso l’ufficio immigrazione. Il contrasto tra la bellezza del centro di
Roma e il luogo che ci attende è straniante. Saliamo sulla metro B, scendiamo a
Rebibbia. Dopo la metro, altri venti minuti di autobus lungo una strada piena di
rifiuti per arrivare in una desolante zona industriale: Tor Sapienza.
Fuori dall’uscita ma dentro i cancelli, ci sono delle panchine sulle quali ci
sediamo. Vengono posizionate cassette con il pranzo che era stato preparato per
la giornata e una cassa di arance. Poco dopo escono due militari di turno. Uno
di loro, un giovane, ha un atteggiamento amichevole. Chiede cosa abbiamo
combinato, ci dice che capisce ma non è d’accordo con gli eccessi e accetta di
mangiare un’arancia che gli viene offerta. Poco dopo esce una donna che lavora
in questa sede della questura e ci invita ad allontanarci, dicendo che
disturbiamo e che non è mica un luogo pubblico (ah no?).
Ci mettiamo all’ingresso della strada, di fianco all’entrata. Alcune persone
hanno tamburi e suonano, altre danzano. Io chiacchiero con due attivisti, uno di
Venezia l’altro emiliano. Sono colpito nel notare il forte senso di comunità che
caratterizza questo gruppo di XR, con persone da parti diverse d’Italia.
Percepisco una forte condivisione di valori, linguaggi, pratiche. A questo
proposito N. mi dice che lui non capisce chi non va a votare, ma che allo stesso
tempo il voto rappresenta una parte minoritaria della vita politica in una
democrazia, che è fatta invece di queste cose. M. parla di suoi trascorsi in
altri cortei, in cui la polizia ha un atteggiamento più violento rispetto a
quello che vediamo con le azioni di XR. È un tema che ritorna in varie
conversazioni. La polizia li vede come nemici? Io credo che li vedano più come
un fastidio, come un problema da risolvere. Parlando con loro mi rendo sempre
più conto di quanto il movimento sia fatto di persone “ordinarie”, di varie
generazioni e con diverse identità politiche. Sono persone che, stufe o
disorientate dal panorama politico, hanno trovato una famiglia dentro questa
realtà; ma sono anche persone che lavorano, che pagano le multe, che magari
fanno parte di altre realtà sociali e politiche. È necessario decostruire la
retorica mediatica dei “ragazzini” che non sanno cosa vuol dire vivere in
società, o quella ancora peggiore dei “terroristi”.
Le ore passano, il freddo aumenta, da dentro nessuna notizia. Non si può
comunicare con le persone detenute né con chi le detiene. Sono più di cinquanta,
il numero esatto non si sa. Chiediamo che gli venga dato il cibo che abbiamo
preparato, ma non è possibile far entrare nulla. Ci viene detto di aspettare e
che le persone non sono né in stato di arresto né di fermo, che si stanno
svolgendo “normali” procedure identificative, che richiedono tempo.
Intorno alle dieci di sera, dopo circa nove ore, quando il timore che si dovesse
passare la notte lì iniziava a farsi concreto, vengono rilasciate le attiviste
in gruppi di quattro o cinque. Alcune hanno fogli di via, tutti con durate
diverse e completamente arbitrarie. Saranno trentadue in totale, per molti con
l’obbligo di lasciare Roma entro due ore. Altre, tutte le restanti, vengono
rilasciate senza nulla in mano, come se fosse normale trattenere le persone in
questura. Alcune attiviste rientrano dal cancello pretendendo che gli venga
rilasciata almeno una dichiarazione sul perché sono state trattenute e
rilasciate.
Il momento dell’uscita dalla questura è caratterizzato da emozioni contrastanti.
Gli abbracci sono intensi. C’è chi ride, chi piange di gioia per rilasciare lo
stress accumulato. C’è chi cerca cibo, che è pronto e caldo anche per la cena.
La cucina e la logistica del movimento in queste giornate sono state
formidabili. Sono arrivati pasti in qualsiasi situazione e in qualunque luogo.
Alla fine il conto dei danni “legali” è impressionante. Centosei persone
identificate, settantadue trattenute in questura per otto-nove ore, trentadue
fogli di via, alcuni anche per persone che vivono, studiano e lavorano a Roma.
Dai tre mesi ai due anni e mezzo. È finalmente il momento di tornare a Roma. Il
viaggio in autobus è divertente. Il bus che porta a Rebibbia passa dopo poco, ma
è la direzione sbagliata della circolare. Lo prendiamo lo stesso, ci faremo il
giro dentro per riscaldarci anziché aspettare il prossimo. Quando ripassa dalla
fermata più vicina all’ufficio della questura, si aggiungono quelle che
aspettavano il successivo, e così un autobus solitario nella borgata sperduta si
riempie improvvisamente di vita.
Il giorno dopo a mezzogiorno c’è una conferenza stampa indetta in nottata da XR,
dopo quanto accaduto il giorno precedente. La conferenza stampa al parco è un
momento importante per XR. Oltre a raccontare cos’è successo il giorno prima, a
turno alcune tra chi ha ricevuto un foglio di via si presentano e annunciano di
volerlo violare pubblicamente in quanto misura illegittima. Una ragazza che
lavora come ricercatrice a Venezia tiene un discorso molto chiaro ed elaborato,
spiegando i motivi per cui l’azione è stata fatta e rimarcando la questione
della sicurezza, al centro della retorica del governo che si accinge ad
approvare il famigerato decreto 1660. Spiega che in questa situazione politica e
climatica, con queste misure securitarie e questo atteggiamento della questura e
delle forze dell’ordine, ci si sente tutt’altro che sicure.
Alla conferenza stampa si vedono pochi giornalisti, ma è comunque un momento
significativo. Un gruppo di attiviste sta decidendo di violare pubblicamente
delle misure cautelari (i fogli di via) pensate per colpire la libertà di
movimento di individui considerati socialmente pericolosi. Lo fanno per
l’illegittimità giuridica e morale di queste misure. È un gesto forte di
disobbedienza, considerando che rischiano denunce penali. Ci sono vari modi per
affrontare queste misure, e una di queste è fregarsene, non rispettandole.
Questo non vuol dire che sia facile. Non ci riescono tutte, alcune sono
preoccupate per il loro posto di lavoro, altre non se la sentono emotivamente.
Sono molteplici le facce della repressione, quella preventiva agisce in maniera
subdola, fa sentire le persone insicure e impaurite, e spesso le paralizza. Ma è
una giornata a suo modo splendida. Il parco è illuminato dal sole, e poco dopo
il gruppo cucina dimostra ancora una volta costanza e dedizione, arrivando con
un pranzo pronto per essere consumato, anche camminando. È ora di unirci al
corteo nazionale di Non Una di Meno nella giornata contro la violenza sulle
donne, di marciare e occupare lo spazio pubblico per un’altra giusta causa,
nonostante tutto. (francesco dal cerro)
(disegno di peppe cerillo)
Il primo novembre al Circo Massimo apre il Villaggio della Difesa, enorme fiera
dell’Esercito, con zone in cui, per esempio, i bambini possono giocare a stanare
mine antiuomo. Nel ponte del 2, mentre le piogge torrenziali provocano centinaia
di morti intorno a Valencia, le spiagge di Ostia si riempiono di bagnanti. Il 4
è la giornata delle forze armate, in memoria dei massacri della Prima guerra
mondiale, di cui la capa del governo fa apologia nel suo discorso ufficiale. La
Rete universitaria per la Palestina celebra uno “Stop genocide day”: centinaia
di persone lasciano aule e insegnamento per seguire un seminario di Omar
Barghouti, fondatore del movimento di boicottaggio a Israele, altri fanno gesti
di disobbedienza contro la militarizzazione di scuole e università; il
Laboratorio ebraico antirazzista protesta davanti al Villaggio della Difesa. La
notte un gruppo di abitanti di Rocca Cencia blocca i camion diretti
all’inceneritore, preoccupati per l’aumento dei miasmi. Martedì 5 studenti e
studentesse del Liceo Albertelli (di fronte a Santa Maria Maggiore) occupano la
scuola in solidarietà con la Palestina e “per cambiare tutto”. È la prima
occupazione della stagione. Il 6 grossi controlli polizieschi tra Centocelle e
Quarticciolo, un elicottero sorvola la Togliatti per ore. Sulla Tiburtina,
altezza GRA, un carabiniere pesantemente ubriaco alla guida travolge una
macchina dei vigili: uno di loro perde una gamba. Mancano cinquanta giorni
all’apertura della Porta Santa che segna l’inizio del Giubileo 2025: ma su
duecentoquattro cantieri aperti a Roma, solo cinque sono stati terminati.
Il 7 presidio per la Palestina davanti alla rappresentanza UE in via Quattro
Novembre. Il ministro Valditara sospende un insegnante di Roma, reo di averlo
attaccato politicamente: per tre mesi sarà fuori servizio, a metà stipendio. I
suoi studenti al Liceo Archimede manifestano in solidarietà. Nel pomeriggio don
Coluccia, “prete antimafia”, guida una fiaccolata “contro il degrado” al
Quarticciolo: partecipano esponenti di Fratelli d’Italia, oltre al commissario
dell’Ater, i funzionari dell’ufficio sgomberi e il presidente della Regione. I
residenti naturalmente sbroccano, visto che sono proprio questi personaggi a
spingere per la svendita delle case popolari.
L’8 notte maxi-rapina al negozio di Valentino a piazza di Spagna: i ladri
portano via centoquarantamila euro di borse, senza lasciare tracce. Alcune
attiviste di Non Una di Meno aprono striscioni e bandiere per la Palestina sul
balcone della stazione Termini. Il 9 la preside del Liceo Albertelli convoca
docenti e genitori davanti alla scuola per manifestare contro l’occupazione
(sarebbe manifestazione non autorizzata!); studenti e studentesse decidono
comunque di mantenere l’occupazione. Intanto: assemblea di preparazione alla
manifestazione per la Palestina al cinema L’Aquila e nuova protesta intorno
all’inceneritore di Rocca Cencia. La sera un gruppo di fascisti entra al cinema
Atlantic dove si proiettava il film su Berlinguer, insultando i comunisti e
sputando per terra; per i carabinieri sono “ragazzate”. Il 10 è una domenica
ecologica, con eventi e spettacoli in centro: ma tutto il guadagno in CO2 è
annullato da un aereo per Shenzen costretto a tornare in emergenza a Fiumicino
dopo aver scaricato il carburante in mare. Gli scoppi del motore si sentono da
Ostia a Casal Palocco. A Torre Angela un gruppo di fascisti contesta
l’intitolazione di un parco ai partigiani, chiedendolo per i morti nelle foibe.
Il 12 il Comune annuncia l’apertura di un “Punto abitare” al Dipartimento
politiche abitative, esternalizzato a una cooperativa sociale (Azzurra 84): dopo
il servizio informazioni, forse affideranno ai privati anche la porta, le scale,
il corrimano.
Il 13 perquisizione della Guardia di Finanza in Campidoglio: diversi funzionari
sarebbero coinvolti in una rete di corruzione per accaparrarsi appalti per il
manto stradale, forse anche con fondi del Giubileo, concessi a un imprenditore
di Frascati in cambio di favori e regali. A corso Francia una cinquantina di
studenti occupa la sede di Leonardo, una delle principali aziende europee che
forniscono armi al genocidio in Palestina. Il 14 muore Franco Ferrarotti, padre
fondatore della sociologia italiana, attento studioso delle periferie romane sin
dagli anni Sessanta. Accordo tra Airbnb e Parco del Colosseo per permettere a
turisti facoltosi di simulare un incontro tra gladiatori in mezzo all’arena.
Presidio per Tiziano L., accusato di aver picchiato un agente alla
manifestazione per la Palestina del 5 ottobre, nonostante una ricostruzione
video mostri chiaramente che non è vero. Il 15 sciopero della scuola e corteo
studentesco in centro. Il 16 migliaia di persone sfilano per la Palestina a
Centocelle. La notte una studentessa fuori sede di ventun’anni muore in un
incidente a Portonaccio; il giorno prima un anziano era stato ucciso da un’auto
sulla Prenestina; a Roma ci sono due morti al giorno, in Italia oltre tremila
l’anno. Il 17 a largo Argentina c’è un presidio contro le morti in strada e il
nuovo codice della strada. Apre una sede di Forza Nuova a via Genzano
(Tuscolano).
Il 18 l’Eni denuncia un attivista di ReCommon per diffamazione, dopo
un’intervista in cui metteva in relazione la corporazione petrolifera con
l’uccisione di Giulio Regeni: è una SLAPP, una “azione strategica contro la
partecipazione pubblica”. Al Quarticciolo apre uno sportello sanitario gestito
dall’università La Sapienza e dall’associazione Nonna Roma (che già ne gestisce
uno per l’assegno d’inclusione e uno per la casa con la fondazione Charlemagne).
Intanto però nel quartiere ha chiuso il consultorio, che invece era pubblico. La
notte a Torrevecchia grosso scontro tra tre volanti della polizia: muore un
agente, quartiere bloccato fino al pomeriggio. Il 19 tentativo di sfratto di una
signora di sessantacinque anni da via dei Gonfaloni, dietro via Giulia: a
ordinarlo è l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (APSA) – il
Vaticano insomma. Il 20 all’alba venti arresti a Ostia per una rete di traffico
di cocaina dall’Olanda. Mareggiate e vento forte. Il sindaco tira fuori un video
in cui annuncia l’installazione di venti apparati tecnologici sopra le macchine
dei vigili, per multare più velocemente le macchine parcheggiate.
Il 21 a Ostia chiude il pontile per il vento e pioggia. Il 22 durante la
presentazione annuale del rapporto Caritas il sindaco annuncia che chiederà al
governo Meloni una moratoria degli sfratti durante il Giubileo. Un gruppo di
fascisti manifesta dentro la città universitaria al grido di “Fuori i rossi
dall’università”, ma viene respinto. Corteo contro la violenza di genere il 23.
La notte del 24 brucia un capannone abitato a Tor Cervara, il fumo inonda un
intero quadrante; cinquanta famiglie sfollate.
Lunedì 25 inizia l’occupazione del Liceo Cavour, accanto al Colosseo.
L’assessore alla casa del III municipio dichiara che almeno novecento famiglie
nelle case popolari di Donna Olimpia, Tufello, Vignenuove e Val Melaina sono
ancora al freddo, ma il problema riguarda anche Alessandrino e forse altri
quartieri. Vandalizzata la corona d’alloro in via Rasella, in ricordo delle
persone che nel 1944 furono rastrellate e fucilate alle FosseArdeatine: in
quella strada il giorno prima un gruppo partigiano aveva attaccato una colonna
occupante nazista. Il 26 muore un motociclista in uno scontro con uno scuolabus;
la notte alcuni sconosciuti incappucciati bruciano a sedici auto in un
parcheggio a Colli Aniene. Il 27 inizia l’occupazione del Liceo Cavour, la
quarta scuola a mobilitarsi dopo Albertelli, Plinio e Enzo Rossi; nel pomeriggio
viene occupato anche il tetto della facoltà di Lettere della Sapienza, contro i
tagli all’istruzione e l’aumento delle spese militari. Il 29 sciopero generale
contro la guerra e contro il governo: la mattina ci sono due cortei, uno della
Cgil e uno dei comitati di base. Il 30 un grandissimo corteo per la Palestina –
ventimila, forse trentamila persone – chiude il mese di mobilitazioni.
Tralasciamo cosa è successo dentro al corteo. Meglio ricordare solo la musica, i
carri, la murga, gli slogan, i canti, e tutta quella gente che si riprende le
strade. (stefano portelli)
LA VARIANTE UMANA. ASSEMBLEA CONTRO LA GUERRA
Roma, Università la Sapienza, Aula Autogestita VI - Facoltà di Lettere e
Filosofia
(venerdì, 29 novembre 16:30)
LA VARIANTE UMANA.
GIORNATE DI LOTTA A ROMA.
29 NOVEMBRE, LA SAPIENZA, AULA VI AUTOGESTITA, FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
ASSEMBLEA PUBBLICA "BLOCCHIAMO GLI INGRANAGGI DELLA GUERRA"
ORE 16.30
LA VARIANTE UMANA. SPEZZONE DISFATTISTA AL CORTEO
Roma, Parco Schuster - Quartiere San Paolo
(sabato, 30 novembre 14:00)
LA VARIANTE UMANA.
GIORNATE DI LOTTA A ROMA
30 NOVEMBRE, SPEZZONE INTERNAZIONALISTA, ANTIMILITARISTA E DISFATTISTA AL CORTEO
"FERMIAMO LA GUERRA CON LA RESISTENZA"
ORE 14 PARCO SCHUSTER (QUARTIERE SAN PAOLO)
(disegno di bambi kramer)
Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani
e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano
Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia
(Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria
Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.
A seguire ne pubblichiamo un estratto.
* * *
È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre
1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono
fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli
anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri
autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di
movimenti per la casa e per i servizi.
Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e
dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa
diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano
borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che
oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità
pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo
sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono –
compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo
termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro
conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche
quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue.
La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa.
Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle
risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano
costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale,
anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono
forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli
abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste
e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le
istituzioni.
Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato,
minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera”
inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente
segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze
dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito
trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero
non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un
“residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle
case da cui furono mandate via quindici anni fa.
Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi
vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta
disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e
tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno
raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni
e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di
altri a una continua peregrinazione intorno alla città.
Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità”
rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non
solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale.
Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra
epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in
quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito
ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici,
oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e
familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che
incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un
odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal
cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter
out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o
affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al
displacement.
Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella
capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più
gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a
Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono
chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati,
come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di
concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova
addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima
della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli
sgomberi, e che li ricordava così:
«Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le
SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la
polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si
riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli
archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase
al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono
tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da
rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla
polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e
demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la
sua organizzazione».
Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e
dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri
autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si
descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione
non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui
fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista
coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in
Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando
colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […]
Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del
borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri
abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di
Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli
prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni
precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove
la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli
abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune
tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con
Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola
popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire,
Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che
a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti.
Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi
fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle
associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del
Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa,
Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua
famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di
Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze.
Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla
trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti
dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una
trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo
tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel
frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende
del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti.
Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora
erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora
considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una
città diversa.
Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la
casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum:
l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”,
nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che
aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati”
dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una
mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo
collettivo creato nel vecchio quartiere.
«La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava
che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse
insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che
faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto
della scavatrice di Pasolini,
Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.
In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme
di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di
convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche
i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili
solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree
autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e
disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che
vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra
forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno
prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e
politica.
Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è
difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex
“baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di
quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti
nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti
cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che
avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora
rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti,
che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati.
All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte
contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni
(2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere.
Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti,
sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e
colpevole per natura.
Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni,
sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla
vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone
a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il
passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni
attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è
l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre
inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e
culturali.
Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui
postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di
sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano
espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata,
prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione
nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto
della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in
Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di
opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo
in gioco gli stessi corpi.
Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme
cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più
piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre
vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti
di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro
diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli
abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono
a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che
demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la
primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun).
Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un
anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del
loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte»,
dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna
no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un
gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si
costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita:
come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o
Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di
Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un
bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con
cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in
affitto.
L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello
sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini:
«Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi
da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa;
l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di
molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche
degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada
al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare
strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali,
smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro
che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia.
Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può
giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo
rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per
la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal
punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una
realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive
Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che
portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli
abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento
come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro
sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di
società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle
rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro
che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi.
Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si
basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo
positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando
le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che
trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico
esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere.
Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche
essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della
storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato
immutabile.
Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche
casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce
n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora
realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
(disegno di peppe cerillo)
Il 2 ottobre un dipendente di una ditta privata sotto contratto delle Ferrovie
dello Stato pianta un chiodo per errore nel cavo di una centralina, causando il
blocco di tutto il traffico ferroviario della costa tirrenica; alcuni treni
fanno fino a dieci ore di ritardo: inizia l’ottobrata romana. Il 3 ricomincia a
piovere, mentre sale la tensione per la giornata del 5, quando è prevista la
manifestazione nazionale per la Palestina a piazzale Ostiense. Centinaia di
gruppi politici e associazioni confermano l’adesione nonostante il divieto della
Questura, infine costretta ad autorizzare il presidio. Lo sciopero dei mezzi, il
diluvio, il terrorismo mediatico, i fogli di via, i blocchi nelle stazioni, ai
caselli autostradali e agli autogrill, nonché i controlli a tappeto in zone
anche lontanissime da Piramide impediscono la partecipazione a centinaia di
persone; eppure oltre quindicimila manifestanti (forse anche di più) si radunano
per quattro ore nel grande piazzale, da dove però viene vietato di partire in
corteo. L’esasperazione di alcune tra queste dà la scusa alla polizia per tirare
lacrimogeni sulla folla e attaccare il presidio con le idropompe: a Roma non
succedeva da circa un decennio. La sera un ragazzo del liceo Righi viene
aggredito su via Marmorata perché portava la bandiera palestinese.
Il 7 ottobre un centinaio di persone presidia il tribunale durante il processo
per direttissima alla persona fermata sabato, accusata di resistenza e lesioni.
Intanto il rabbino capo di Roma tiene un discorso alla sinagoga sostenendo che
“le istituzioni internazionali che dovrebbero essere super partes si sono fatte
cassa di risonanza dei più biechi pregiudizi antisemiti”. Nel pomeriggio a
Ostiense un ragazzo di diciassette anni su un motorino rubato viene inseguito
dai Carabinieri: durante l’inseguimento si schianta contro un muro e muore.
L’8 alla Nuvola di Fuksas (il centro congressi per cui la Corte dei Conti aveva
chiesto al Comune tre milioni di euro di danno erariale) si inaugura il
Cybertech Europe, vetrina dell’industria delle armi e dello spionaggio promossa
da Leonardo Spa in stretto contatto con le industrie militari israeliane. Un
corteo di contestazione parte da metro Laurentina verso la Nuvola. A poca
distanza, la brigata “Genio” dell’Esercito si esercita sul Tevere, per la prima
volta in vent’anni: montano un ponte galleggiante per “prepararsi a un evento
bellico”. La sera scoppia un ordigno sulla porta del centro sociale La Strada di
Garbatella. Il 9 Sinistra Italiana scrive una lettera al sindaco, chiedendo di
sospendere gli sfratti per tutto il 2025 in occasione del Giubileo. Il 10 al
consiglio del VI municipio, il più popolato e etnicamente eterogeneo della
capitale, passa una risoluzione perché le scuole rimettano il crocifisso nelle
aule: la vota il centrodestra, con l’astensione di tutte le opposizioni (Pd e
Movimento 5 Stelle). L’11 vengono a Roma sia Zelensky che Pedro Sánchez,
entrambi ricevuti dal Papa; Zelensky anche dalla Meloni.
Il 12 a Testaccio c’è il funerale del diciassettenne morto durante
l’inseguimento dei Carabinieri. Ad Albano si manifesta contro l’inceneritore; e
da Piramide a piazza Vittorio sfila un nuovo grande corteo per la Palestina, con
oltre diecimila persone. Per la seconda volta scende in piazza anche il Jewish
Block, la sezione romana della rete European Jews for Palestine: il loro
volantino spiega che il 13 è Yom Kippur, giorno ebraico del digiuno, con cui
“elaborare il lutto, le orrende immagini di distruzione e genocidio che ci
attanagliano da un anno a questa parte ma che vanno avanti da settantasei anni”.
Il 14 un operaio nigeriano di diciassette anni che viveva nell’occupazione Spin
Time Labs muore schiacciato da un ascensore in un cantiere del centro storico.
Intanto il sindaco presenta in Campidoglio il progetto dell’inceneritore,
sostenendo che inquinerà meno di un caminetto. Nel frattempo a San Paolo alcuni
attivisti e attiviste restaurano il murale per Shineen Abu Aqleh, reporter
palestinese di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano: il murale era stato
vandalizzato per la sesta volta. Il 15 a Guidonia un adolescente viene ucciso da
un’auto che non si ferma alle strisce. Il 16 c’è un nuovo sgombero per gli ex
occupanti dell’Hotel Cinecittà, che avevano occupato un altro hotel a Torre
Maura; dopo lo sgombero occupano subito di nuovo un hotel abbandonato, questa
volta alla Romanina. Nessuno si chiede se va bene avere tutti questi hotel
vuoti, con così tante persone che hanno bisogno di un tetto. Incendio doloso al
Liceo Gullace: alcuni giornali provano a incolpare l’occupazione studentesca. Il
17 il consiglio comunale discute una proposta della minoranza, cioè che
Gualtieri chieda al governo di fermare gli sfratti l’anno del Giubileo. L’esito
era scontato: la proposta viene bocciata. Nel frattempo alla Camera il Pd, in
appena sei ore di dibattito parlamentare, si astiene sulla sospensione
dell’accordo tra Unione Europea e Israele, si astiene sulle sanzioni per
ottenere un cessate il fuoco, si astiene sulla richiesta di non investire in
armi, si astiene sul segreto di stato alle armi all’Ucraina, e vota a favore
dell’invio di queste armi. Il 19, manifestazione contro il DDL 1660, il nuovo
strumento della “guerra interna” contro la dissidenza politica, anche pacifica.
Il 21 il Terzo Municipio annuncia l’apertura di uno “sportello casa” gestito
dall’associazione Nonna Roma con fondi del Giubileo, coordinato dalla Fondazione
Charlemagne; il progetto aprirà nel 2026 e prevederà uno sportello di ascolto e
un co-housing con quattro posti, con un finanziamento di un milione di euro. Il
22 vengono sgomberati per la terza volta i latinos che avevano occupato l’Hotel
Petra alla Romanina; cinque di loro vengono rimpatriati, o mandati in un carcere
per gente da rimpatriare, mentre quelli considerati “vulnerabili” vengono
infilati in strutture di emergenza. Gli altri rimangono per strada. Il 23 alcuni
bed and breakfast intorno al Circo Massimo (San Teodoro, via dei Fienili, via
dei Foraggi) si svegliano con gli smart locker sfondati; è un’azione diretta di
sabotaggio contro la turistificazione di massa e il Giubileo, rivendicata in un
video anonimo che si conclude così: “Questa è solamente la prima azione che
facciamo contro il vostro Giubileo dei ricchi”.
Il 24 c’è un nuovo processo a Stella, arrestata per le manifestazioni
studentesche per la Palestina, che si conclude di nuovo con un rinvio. Piove: la
Metro B chiude per un blackout, il traffico è bloccato in tutta Roma. Il 25
presidio davanti all’ambasciata Usa contro l’escalation del genocidio in
Palestina e in Libano, in risposta alla chiamata internazionale
#BlocktheEmbassies; intanto, un gruppo di studenti e studentesse del liceo Righi
(il migliore della capitale secondo le statistiche europee) espone trentotto
bandiere palestinesi dalle finestre della scuola su via Campania. Invece di
premiarli, la preside scrive alle famiglie minacciando sanzioni disciplinari, e
reinterpretando a suo modo il senso dell’istituzione culturale: “Qui si fa
lezione, non si fa politica”. Ma qual è il confine tra studio e politica?
Il 26 vicino Termini un gruppo di attivisti occupa la sede di Booking, agenzia
di appartamenti turistici; domenica 27 al Forte Prenestino c’è una assemblea
pubblica contro i nuovi OGM. Un altro ragazzo minorenne viene ucciso da un’auto,
stavolta ad Ardea; il giorno prima c’era stato un altro morto all’Eur, il giorno
prima ancora un altro alla Romanina. Il 28, anniversario della marcia su Roma, è
un’altra giornata di scioperi dei trasporti: chiude la metro, il traffico va in
tilt; il mese finisce come era iniziato. La sera la Rete associazioni per una
città vivibile organizza un sit-in a Campo de’ Fiori con striscioni “Siamo
residenti, non fantasmi”. Il 30 il Comune pubblica il bando per il contributo
all’affitto, finora a carico dello stato, adesso “generosamente offerto dalla
Fondazione Roma” con un milione di euro (se ci sono mille famiglie, avranno
mille euro ciascuna). Lo stesso giorno il Sole 24 ore annuncia che il governo ha
ceduto all’Esercito 4,6 miliardi di euro stanziati per la transizione ecologica:
siccome i soldi pubblici vanno alla guerra e alle armi, i servizi per la
popolazione si reggono sulle briciole dei grandi investitori finanziari. Si va a
marcia forzata verso il Medioevo, per creare il setting adatto al “Giubileo dei
poveri”. Mancano due mesi all’apertura della Porta Santa: si apre una porta, si
chiudono mille portoni. (stefano portelli)