(disegno di peppe cerillo)
Il primo dicembre la preside del Liceo Virgilio organizza una manifestazione
contro l’occupazione della scuola (sic!) in piazza Santi Apostoli, convocando
insegnanti, studenti e genitori contrari. Il due il tribunale rinvia di un’altra
settimana l’udienza per Tiziano L., dopo due mesi di arresti domiciliari per
presunta aggressione a un poliziotto che stava caricando contro la
manifestazione per la Palestina del 5 ottobre (nonostante i video dimostrino
chiaramente che l’accusa è falsa). Due ladri entrano nella villa di Berlusconi
sull’Appia antica. Il tre il Movimento per l’abitare manifesta per il blocco
degli sfratti sotto la sede di Confedilizia, dietro via Condotti. Nel
pomeriggio, a piazza Vittorio, si inaugura la trasformazione degli storici
Magazzini Allo Statuto (MAS) in un Museo della Moda. Il cinque maxi operazione
di polizia al Quarticciolo, dove a ottobre c’era stata una manifestazione
“contro le occupazioni”. Polizia, carabinieri, vigili, uniti per sgomberare le
case popolari occupate. Intanto, alla celebrazione per i centoventi anni della
sinagoga, il rabbino capo di Roma insiste sull’antisemitismo “in crescita dal 7
ottobre”.
Il sei l’Atac inaugura una nuova pensilina “smart” per l’attesa degli autobus:
il nome ufficiale è “eterna”, sembra uno scherzo. Condannato a sei anni di
carcere l’imprenditore Ricucci per una truffa immobiliare. Sempre il sei,
conferenza nazionale autogestita per la salute mentale a San Lorenzo. Il sette
un uomo viene ucciso a coltellate durante una lite nell’androne di un palazzo
sul litorale, a Nettuno. Manifestazione studentesca verso il Campidoglio contro
il Giubileo, contro il caro affitti e contro il sindaco: “Nessuna indulgenza per
Gualtieri”, è lo slogan. L’otto a piazza di Spagna un’attivista animalista
spagnola si avventa sul Papa con un cartello “Basta benedire le corride”. Il
nove a Ostia le onde raggiungono i due metri di altezza, infliggendo il colpo di
grazia allo storico stabilimento Kursaal, già danneggiato. Il dieci nuova
udienza in tribunale e presidio per Tiziano L., finalmente libero. Arrivano a
Roma il re e la regina di Spagna, che dopo una grande festa all’Accademia sul
Gianicolo, l’undici partecipano a un’offerta propiziatoria all’Altare della
Patria a piazza Venezia. Durante il festeggiamento con Mattarella al Quirinale,
la regina rimarrà senza corona per non umiliare il suo omologo repubblicano.
Negli stessi giorni gira per Roma anche Thom Yorke, che ha comprato un attico in
Campo Marzio; il dodici arriva il presidente argentino Milei, a cui viene
regalata la cittadinanza, negata a migliaia di persone nate in Italia.
Il tredici sciopero di USB e corteo studentesco da piazzale Aldo Moro; sciopera
anche la Rete Università e Ricerca per la Palestina. Sabato quattordici c’è
un’enorme manifestazione nazionale contro il DDL 1660: si muovono cento pullman
da tutta Italia, il corteo attraversa Villa Borghese, riesce a entrare in centro
e riempie tutta piazza del Popolo. Per la questura c’erano solo settemila
persone: ma non ci credono neanche loro, visto che la capienza della piazza è di
sessantamila. La notte un ragazzo che probabilmente usciva dal lavoro viene
investito e lasciato agonizzante sulla Tiburtina, è il cinquantesimo pedone
ucciso con una macchina nel 2024. Il sedici l’Università Roma Tre conferisce una
laurea honoris causa a una magistrata della Corte Suprema israeliana,
confermandosi come l’università della capitale più legata al sionismo e ai suoi
tentativi di riscrivere il diritto internazionale. Intanto, dibattiti sulla
presenza del trapper Tony F. al concerto di Capodanno. Il diciassette il
Prefetto annuncia settecento nuovi agenti per Roma durante il Giubileo. Gli
artificieri recuperano una bomba inesplosa a San Lorenzo, un residuo dei
bombardamenti statunitensi del 1943, vicino alla sede dei Cavalieri di Colombo.
Il diciotto una settantina di manifestanti entrano nella sede romana di Leonardo
S.p.A. sulla Tiburtina, in protesta contro l’attacco alla rivoluzione curda in
Rojava e al popolo palestinese a Gaza, con armi, elicotteri e dispositivi
prodotti anche da Leonardo.
Il diciannove si celebra l’ennesimo processo a Stella B. per le manifestazioni
studentesche contro la Palestina: la sentenza arriverà a gennaio. Sabato ventuno
ancora manifestazione per la Palestina a piazza Vittorio; e il ventidue diverse
attiviste e attivisti srotolano una grande bandiera palestinese a piazza del
Pantheon. Il ventitre crolla un albero in un parco sulla Tiburtina, uccidendo
una donna davanti ai suoi tre figli; nei giorni precedenti c’erano già stati
morti sulle strade (a Velletri, a San Basilio) e due pescatori erano annegati
davanti a Focene.
Il ventiquattro sera arriva l’agognata apertura dell’Anno Santo e della Porta
Santa: migliaia di persone si affollano a piazza San Pietro e all’inizio di via
della Conciliazione, senza incidenti notevoli, anche grazie alla presenza
massiccia di forze dell’ordine dello stato italiano; fermato un gruppo di sette
persone “di nazionalità straniera” secondo i giornali, che portavano uno
striscione con scritto “Cancellate il debito”. Eppure cancellare i debiti era
proprio il senso del Giubileo. Durante la notte, una donna senza casa muore di
freddo, proprio lì su via della Conciliazione. Anche il giorno di Natale, il
venticinque, muore di freddo un uomo di cinquanta anni che viveva in una tenda a
Ostia.
Il ventisei il papa apre simbolicamente la porta della cappella del carcere di
Rebibbia, che definisce “una cattedrale del dolore e della speranza”. La
speranza, filo conduttore di questo Giubileo, la ritroviamo anche nel motto
della polizia penitenziaria: diffondere speranza è il nostro dovere. Il
ventisette un altro morto in strada, a San Basilio, un altro ancora il ventinove
alla Borghesiana, mentre si apre la seconda porta santa, quella della basilica
di San Giovanni, ma questa volta il Papa non è presente. Il trenta mattina
violento sgombero al ForteLaurentino: poliziotti antisommossa caricano sulla
folla che protesta, due feriti, due fermati processati per direttissima (il
trentuno presidio davanti al tribunale in solidarietà con i processati).
L’anno finisce con la manifestazione intorno al carcere di Rebibbia; perché
mentre fuori si celebra, si protesta, si discute, si posta, si twitta, si
sparla, si scrive, si scrocca, si specula, si sfratta, si perde, si guadagna, si
ride e si scherza, più di sessantamila persone sono tagliate fuori da tutto
questo, chi per qualche tempo, chi per anni, chi per sempre. Per chi è rinchiuso
in carcere, per chi non ha neanche la libertà di scegliere dove stare, non
bastano la speranza nell’anno nuovo, nel Giubileo, nel futuro: ci vuole qualcosa
di molto diverso. E finché non si liberano loro, non ci liberiamo neanche noi.
(stefano portelli)
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(archivio disegni napolimonitor)
Sono arrivato a Roma il 16 novembre per partecipare a un’assemblea nazionale
alla Sapienza, indetta per rispondere all’eventuale approvazione del decreto
sicurezza 1660. In un’aula magna stracolma, l’assemblea si è svolta attraverso
brevi interventi in cui esponenti di varie realtà politiche, associative,
sindacali e di movimento, hanno portato il proprio punto di vista sulla
questione del decreto. A essere sottolineata è stata soprattutto la necessità di
organizzarsi e scendere in piazza coesi, poiché l’attacco del governo potrebbe
cambiare la storia giuridica e sociale del nostro paese. La criminalizzazione
del dissenso che viene proposta, ha affermato un professore dell’Università
romana, è forse peggiore delle misure repressive degli anni Settanta, quando
c’era la lotta armata. Ora a essere puniti e considerati criminali e terroristi
sono gli attivisti per il clima, le persone migranti, chi rivendica il diritto
alla casa, chi lotta per i diritti sul lavoro, chi si oppone a trattamenti
degradanti nelle carceri. E a essere tutelate e difese sono le forze
dell’ordine. C’è evidentemente un cortocircuito tra ciò che il governo Meloni
intende per sicurezza, e quello che il concetto di sicurezza significa in una
democrazia.
L’assemblea è stata seguita nel pomeriggio dal Climate Pride, una parata
colorata e pacifica che ha percorso il centro di Roma in nome della giustizia
climatica, per fare pressione nei confronti di chi nelle stesse ore si trovava a
Baku, in Azerbaijan, dove si è svolta la COP29. Qualche giorno dopo, all’interno
di questo fermento collettivo, è successo qualcosa di diverso al centro della
Capitale. Questo è il mio racconto “dal di dentro” con Extinction Rebellion
Italia.
* * *
La sera del 21 novembre partecipo a un briefing per l’azione del giorno
seguente. Durante quattro ore di riunione ci vengono spiegati i possibili
scenari, i livelli di rischio, il funzionamento della comunicazione, e ci viene
impartito un breve addestramento sulle azioni di disobbedienza civile non
violenta. Il numero di informazioni è copioso. La preparazione dettagliata.
Il giorno dopo arrivo a Termini leggermente in ritardo e incontro i
miei buddies per la giornata. Siamo nel gruppo benessere, che durante le azioni
si assicura che tutte stiano bene, e provvede con cibo, coperte e acqua ai
bisogni primari. Nell’attesa di un messaggio dalla nostra referente ci mettiamo
a fare colazione in un bar lì vicino. Sono le 9:30 circa.
Con una mezzora di attesa in più del previsto riceviamo la comunicazione che gli
altri gruppi stanno procedendo con il piano A. Dopo il segnale di conferma ci
dirigiamo nel luogo dell’azione, che si rivela essere piazza del Viminale.
Guidate da una crescente puzza di sterco arriviamo in piazza. Il letame portato
dal camioncino delle attiviste – circa sei quintali – è già stato scaricato. Di
fronte alle tende aperte per occupare la piazza, si schierano i poliziotti a
presidio dell’ingresso del palazzo.
Agenti in borghese iniziano a rimuovere le attiviste dalle tende, la situazione
diventa tesa e concitata. Mentre trascinano fuori le persone sono ripresi da
molte telecamere e anche per questo sembrano agire con cautela, anche se c’è chi
ha preso qualche calcio e qualche botta in testa.
La presenza della polizia sembra aumentare con il passare dei minuti. Quando mi
volto, dalla schiera di poliziotti dietro di me sento le parole: “Da qui non
esce nessuno”. Dopo poco, la polizia decide di sgomberare l’intera piazza. Le
attiviste intonano cori, suonano tamburi e fanno discorsi ad alta voce,
raccontando perché sono lì. Mi viene da chiedermi per chi, visto che non ci sono
rappresentati politici e le persone comuni che passano, anche volendo assistere
non possono perché la polizia ha “chiuso” la piazza. Nemmeno i giornalisti posso
entrare, ma ci sono i social.
I due police contact discutono animatamente con gli agenti della Digos per
arrivare a un accordo e permettere a chi vuole di lasciare la piazza e non
finire in questura. È una trattativa laboriosa, perché la polizia sembra non
voler far uscire nessuno, senza offrire ragioni. Ma si arriva a un compromesso.
Tutte identificate, fotografate, e poi fuori. Le persone che decidono di
rimanere dentro la piazza vengono prese una a una e portate come “sacchi di
patate” dentro due autobus della polizia, che ricordano quelli delle gite
scolastiche. Un poliziotto ci dice che non andranno in questura, ma all’ufficio
immigrazione, perché c’è più spazio, a un’ora dal centro, lontano dai palazzi
della politica.
Alcune di noi intanto si dirigono al bar mentre fuori inizia a piovere forte.
Quando spiove, passeggiamo tra i Fori imperiali e il Colosseo per prendere la
metro verso l’ufficio immigrazione. Il contrasto tra la bellezza del centro di
Roma e il luogo che ci attende è straniante. Saliamo sulla metro B, scendiamo a
Rebibbia. Dopo la metro, altri venti minuti di autobus lungo una strada piena di
rifiuti per arrivare in una desolante zona industriale: Tor Sapienza.
Fuori dall’uscita ma dentro i cancelli, ci sono delle panchine sulle quali ci
sediamo. Vengono posizionate cassette con il pranzo che era stato preparato per
la giornata e una cassa di arance. Poco dopo escono due militari di turno. Uno
di loro, un giovane, ha un atteggiamento amichevole. Chiede cosa abbiamo
combinato, ci dice che capisce ma non è d’accordo con gli eccessi e accetta di
mangiare un’arancia che gli viene offerta. Poco dopo esce una donna che lavora
in questa sede della questura e ci invita ad allontanarci, dicendo che
disturbiamo e che non è mica un luogo pubblico (ah no?).
Ci mettiamo all’ingresso della strada, di fianco all’entrata. Alcune persone
hanno tamburi e suonano, altre danzano. Io chiacchiero con due attivisti, uno di
Venezia l’altro emiliano. Sono colpito nel notare il forte senso di comunità che
caratterizza questo gruppo di XR, con persone da parti diverse d’Italia.
Percepisco una forte condivisione di valori, linguaggi, pratiche. A questo
proposito N. mi dice che lui non capisce chi non va a votare, ma che allo stesso
tempo il voto rappresenta una parte minoritaria della vita politica in una
democrazia, che è fatta invece di queste cose. M. parla di suoi trascorsi in
altri cortei, in cui la polizia ha un atteggiamento più violento rispetto a
quello che vediamo con le azioni di XR. È un tema che ritorna in varie
conversazioni. La polizia li vede come nemici? Io credo che li vedano più come
un fastidio, come un problema da risolvere. Parlando con loro mi rendo sempre
più conto di quanto il movimento sia fatto di persone “ordinarie”, di varie
generazioni e con diverse identità politiche. Sono persone che, stufe o
disorientate dal panorama politico, hanno trovato una famiglia dentro questa
realtà; ma sono anche persone che lavorano, che pagano le multe, che magari
fanno parte di altre realtà sociali e politiche. È necessario decostruire la
retorica mediatica dei “ragazzini” che non sanno cosa vuol dire vivere in
società, o quella ancora peggiore dei “terroristi”.
Le ore passano, il freddo aumenta, da dentro nessuna notizia. Non si può
comunicare con le persone detenute né con chi le detiene. Sono più di cinquanta,
il numero esatto non si sa. Chiediamo che gli venga dato il cibo che abbiamo
preparato, ma non è possibile far entrare nulla. Ci viene detto di aspettare e
che le persone non sono né in stato di arresto né di fermo, che si stanno
svolgendo “normali” procedure identificative, che richiedono tempo.
Intorno alle dieci di sera, dopo circa nove ore, quando il timore che si dovesse
passare la notte lì iniziava a farsi concreto, vengono rilasciate le attiviste
in gruppi di quattro o cinque. Alcune hanno fogli di via, tutti con durate
diverse e completamente arbitrarie. Saranno trentadue in totale, per molti con
l’obbligo di lasciare Roma entro due ore. Altre, tutte le restanti, vengono
rilasciate senza nulla in mano, come se fosse normale trattenere le persone in
questura. Alcune attiviste rientrano dal cancello pretendendo che gli venga
rilasciata almeno una dichiarazione sul perché sono state trattenute e
rilasciate.
Il momento dell’uscita dalla questura è caratterizzato da emozioni contrastanti.
Gli abbracci sono intensi. C’è chi ride, chi piange di gioia per rilasciare lo
stress accumulato. C’è chi cerca cibo, che è pronto e caldo anche per la cena.
La cucina e la logistica del movimento in queste giornate sono state
formidabili. Sono arrivati pasti in qualsiasi situazione e in qualunque luogo.
Alla fine il conto dei danni “legali” è impressionante. Centosei persone
identificate, settantadue trattenute in questura per otto-nove ore, trentadue
fogli di via, alcuni anche per persone che vivono, studiano e lavorano a Roma.
Dai tre mesi ai due anni e mezzo. È finalmente il momento di tornare a Roma. Il
viaggio in autobus è divertente. Il bus che porta a Rebibbia passa dopo poco, ma
è la direzione sbagliata della circolare. Lo prendiamo lo stesso, ci faremo il
giro dentro per riscaldarci anziché aspettare il prossimo. Quando ripassa dalla
fermata più vicina all’ufficio della questura, si aggiungono quelle che
aspettavano il successivo, e così un autobus solitario nella borgata sperduta si
riempie improvvisamente di vita.
Il giorno dopo a mezzogiorno c’è una conferenza stampa indetta in nottata da XR,
dopo quanto accaduto il giorno precedente. La conferenza stampa al parco è un
momento importante per XR. Oltre a raccontare cos’è successo il giorno prima, a
turno alcune tra chi ha ricevuto un foglio di via si presentano e annunciano di
volerlo violare pubblicamente in quanto misura illegittima. Una ragazza che
lavora come ricercatrice a Venezia tiene un discorso molto chiaro ed elaborato,
spiegando i motivi per cui l’azione è stata fatta e rimarcando la questione
della sicurezza, al centro della retorica del governo che si accinge ad
approvare il famigerato decreto 1660. Spiega che in questa situazione politica e
climatica, con queste misure securitarie e questo atteggiamento della questura e
delle forze dell’ordine, ci si sente tutt’altro che sicure.
Alla conferenza stampa si vedono pochi giornalisti, ma è comunque un momento
significativo. Un gruppo di attiviste sta decidendo di violare pubblicamente
delle misure cautelari (i fogli di via) pensate per colpire la libertà di
movimento di individui considerati socialmente pericolosi. Lo fanno per
l’illegittimità giuridica e morale di queste misure. È un gesto forte di
disobbedienza, considerando che rischiano denunce penali. Ci sono vari modi per
affrontare queste misure, e una di queste è fregarsene, non rispettandole.
Questo non vuol dire che sia facile. Non ci riescono tutte, alcune sono
preoccupate per il loro posto di lavoro, altre non se la sentono emotivamente.
Sono molteplici le facce della repressione, quella preventiva agisce in maniera
subdola, fa sentire le persone insicure e impaurite, e spesso le paralizza. Ma è
una giornata a suo modo splendida. Il parco è illuminato dal sole, e poco dopo
il gruppo cucina dimostra ancora una volta costanza e dedizione, arrivando con
un pranzo pronto per essere consumato, anche camminando. È ora di unirci al
corteo nazionale di Non Una di Meno nella giornata contro la violenza sulle
donne, di marciare e occupare lo spazio pubblico per un’altra giusta causa,
nonostante tutto. (francesco dal cerro)
(disegno di peppe cerillo)
Il primo novembre al Circo Massimo apre il Villaggio della Difesa, enorme fiera
dell’Esercito, con zone in cui, per esempio, i bambini possono giocare a stanare
mine antiuomo. Nel ponte del 2, mentre le piogge torrenziali provocano centinaia
di morti intorno a Valencia, le spiagge di Ostia si riempiono di bagnanti. Il 4
è la giornata delle forze armate, in memoria dei massacri della Prima guerra
mondiale, di cui la capa del governo fa apologia nel suo discorso ufficiale. La
Rete universitaria per la Palestina celebra uno “Stop genocide day”: centinaia
di persone lasciano aule e insegnamento per seguire un seminario di Omar
Barghouti, fondatore del movimento di boicottaggio a Israele, altri fanno gesti
di disobbedienza contro la militarizzazione di scuole e università; il
Laboratorio ebraico antirazzista protesta davanti al Villaggio della Difesa. La
notte un gruppo di abitanti di Rocca Cencia blocca i camion diretti
all’inceneritore, preoccupati per l’aumento dei miasmi. Martedì 5 studenti e
studentesse del Liceo Albertelli (di fronte a Santa Maria Maggiore) occupano la
scuola in solidarietà con la Palestina e “per cambiare tutto”. È la prima
occupazione della stagione. Il 6 grossi controlli polizieschi tra Centocelle e
Quarticciolo, un elicottero sorvola la Togliatti per ore. Sulla Tiburtina,
altezza GRA, un carabiniere pesantemente ubriaco alla guida travolge una
macchina dei vigili: uno di loro perde una gamba. Mancano cinquanta giorni
all’apertura della Porta Santa che segna l’inizio del Giubileo 2025: ma su
duecentoquattro cantieri aperti a Roma, solo cinque sono stati terminati.
Il 7 presidio per la Palestina davanti alla rappresentanza UE in via Quattro
Novembre. Il ministro Valditara sospende un insegnante di Roma, reo di averlo
attaccato politicamente: per tre mesi sarà fuori servizio, a metà stipendio. I
suoi studenti al Liceo Archimede manifestano in solidarietà. Nel pomeriggio don
Coluccia, “prete antimafia”, guida una fiaccolata “contro il degrado” al
Quarticciolo: partecipano esponenti di Fratelli d’Italia, oltre al commissario
dell’Ater, i funzionari dell’ufficio sgomberi e il presidente della Regione. I
residenti naturalmente sbroccano, visto che sono proprio questi personaggi a
spingere per la svendita delle case popolari.
L’8 notte maxi-rapina al negozio di Valentino a piazza di Spagna: i ladri
portano via centoquarantamila euro di borse, senza lasciare tracce. Alcune
attiviste di Non Una di Meno aprono striscioni e bandiere per la Palestina sul
balcone della stazione Termini. Il 9 la preside del Liceo Albertelli convoca
docenti e genitori davanti alla scuola per manifestare contro l’occupazione
(sarebbe manifestazione non autorizzata!); studenti e studentesse decidono
comunque di mantenere l’occupazione. Intanto: assemblea di preparazione alla
manifestazione per la Palestina al cinema L’Aquila e nuova protesta intorno
all’inceneritore di Rocca Cencia. La sera un gruppo di fascisti entra al cinema
Atlantic dove si proiettava il film su Berlinguer, insultando i comunisti e
sputando per terra; per i carabinieri sono “ragazzate”. Il 10 è una domenica
ecologica, con eventi e spettacoli in centro: ma tutto il guadagno in CO2 è
annullato da un aereo per Shenzen costretto a tornare in emergenza a Fiumicino
dopo aver scaricato il carburante in mare. Gli scoppi del motore si sentono da
Ostia a Casal Palocco. A Torre Angela un gruppo di fascisti contesta
l’intitolazione di un parco ai partigiani, chiedendolo per i morti nelle foibe.
Il 12 il Comune annuncia l’apertura di un “Punto abitare” al Dipartimento
politiche abitative, esternalizzato a una cooperativa sociale (Azzurra 84): dopo
il servizio informazioni, forse affideranno ai privati anche la porta, le scale,
il corrimano.
Il 13 perquisizione della Guardia di Finanza in Campidoglio: diversi funzionari
sarebbero coinvolti in una rete di corruzione per accaparrarsi appalti per il
manto stradale, forse anche con fondi del Giubileo, concessi a un imprenditore
di Frascati in cambio di favori e regali. A corso Francia una cinquantina di
studenti occupa la sede di Leonardo, una delle principali aziende europee che
forniscono armi al genocidio in Palestina. Il 14 muore Franco Ferrarotti, padre
fondatore della sociologia italiana, attento studioso delle periferie romane sin
dagli anni Sessanta. Accordo tra Airbnb e Parco del Colosseo per permettere a
turisti facoltosi di simulare un incontro tra gladiatori in mezzo all’arena.
Presidio per Tiziano L., accusato di aver picchiato un agente alla
manifestazione per la Palestina del 5 ottobre, nonostante una ricostruzione
video mostri chiaramente che non è vero. Il 15 sciopero della scuola e corteo
studentesco in centro. Il 16 migliaia di persone sfilano per la Palestina a
Centocelle. La notte una studentessa fuori sede di ventun’anni muore in un
incidente a Portonaccio; il giorno prima un anziano era stato ucciso da un’auto
sulla Prenestina; a Roma ci sono due morti al giorno, in Italia oltre tremila
l’anno. Il 17 a largo Argentina c’è un presidio contro le morti in strada e il
nuovo codice della strada. Apre una sede di Forza Nuova a via Genzano
(Tuscolano).
Il 18 l’Eni denuncia un attivista di ReCommon per diffamazione, dopo
un’intervista in cui metteva in relazione la corporazione petrolifera con
l’uccisione di Giulio Regeni: è una SLAPP, una “azione strategica contro la
partecipazione pubblica”. Al Quarticciolo apre uno sportello sanitario gestito
dall’università La Sapienza e dall’associazione Nonna Roma (che già ne gestisce
uno per l’assegno d’inclusione e uno per la casa con la fondazione Charlemagne).
Intanto però nel quartiere ha chiuso il consultorio, che invece era pubblico. La
notte a Torrevecchia grosso scontro tra tre volanti della polizia: muore un
agente, quartiere bloccato fino al pomeriggio. Il 19 tentativo di sfratto di una
signora di sessantacinque anni da via dei Gonfaloni, dietro via Giulia: a
ordinarlo è l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (APSA) – il
Vaticano insomma. Il 20 all’alba venti arresti a Ostia per una rete di traffico
di cocaina dall’Olanda. Mareggiate e vento forte. Il sindaco tira fuori un video
in cui annuncia l’installazione di venti apparati tecnologici sopra le macchine
dei vigili, per multare più velocemente le macchine parcheggiate.
Il 21 a Ostia chiude il pontile per il vento e pioggia. Il 22 durante la
presentazione annuale del rapporto Caritas il sindaco annuncia che chiederà al
governo Meloni una moratoria degli sfratti durante il Giubileo. Un gruppo di
fascisti manifesta dentro la città universitaria al grido di “Fuori i rossi
dall’università”, ma viene respinto. Corteo contro la violenza di genere il 23.
La notte del 24 brucia un capannone abitato a Tor Cervara, il fumo inonda un
intero quadrante; cinquanta famiglie sfollate.
Lunedì 25 inizia l’occupazione del Liceo Cavour, accanto al Colosseo.
L’assessore alla casa del III municipio dichiara che almeno novecento famiglie
nelle case popolari di Donna Olimpia, Tufello, Vignenuove e Val Melaina sono
ancora al freddo, ma il problema riguarda anche Alessandrino e forse altri
quartieri. Vandalizzata la corona d’alloro in via Rasella, in ricordo delle
persone che nel 1944 furono rastrellate e fucilate alle FosseArdeatine: in
quella strada il giorno prima un gruppo partigiano aveva attaccato una colonna
occupante nazista. Il 26 muore un motociclista in uno scontro con uno scuolabus;
la notte alcuni sconosciuti incappucciati bruciano a sedici auto in un
parcheggio a Colli Aniene. Il 27 inizia l’occupazione del Liceo Cavour, la
quarta scuola a mobilitarsi dopo Albertelli, Plinio e Enzo Rossi; nel pomeriggio
viene occupato anche il tetto della facoltà di Lettere della Sapienza, contro i
tagli all’istruzione e l’aumento delle spese militari. Il 29 sciopero generale
contro la guerra e contro il governo: la mattina ci sono due cortei, uno della
Cgil e uno dei comitati di base. Il 30 un grandissimo corteo per la Palestina –
ventimila, forse trentamila persone – chiude il mese di mobilitazioni.
Tralasciamo cosa è successo dentro al corteo. Meglio ricordare solo la musica, i
carri, la murga, gli slogan, i canti, e tutta quella gente che si riprende le
strade. (stefano portelli)
LA VARIANTE UMANA. ASSEMBLEA CONTRO LA GUERRA
Roma, Università la Sapienza, Aula Autogestita VI - Facoltà di Lettere e
Filosofia
(venerdì, 29 novembre 16:30)
LA VARIANTE UMANA.
GIORNATE DI LOTTA A ROMA.
29 NOVEMBRE, LA SAPIENZA, AULA VI AUTOGESTITA, FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
ASSEMBLEA PUBBLICA "BLOCCHIAMO GLI INGRANAGGI DELLA GUERRA"
ORE 16.30
LA VARIANTE UMANA. SPEZZONE DISFATTISTA AL CORTEO
Roma, Parco Schuster - Quartiere San Paolo
(sabato, 30 novembre 14:00)
LA VARIANTE UMANA.
GIORNATE DI LOTTA A ROMA
30 NOVEMBRE, SPEZZONE INTERNAZIONALISTA, ANTIMILITARISTA E DISFATTISTA AL CORTEO
"FERMIAMO LA GUERRA CON LA RESISTENZA"
ORE 14 PARCO SCHUSTER (QUARTIERE SAN PAOLO)
(disegno di bambi kramer)
Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani
e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano
Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia
(Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria
Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.
A seguire ne pubblichiamo un estratto.
* * *
È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre
1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono
fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli
anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri
autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di
movimenti per la casa e per i servizi.
Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e
dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa
diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano
borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che
oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità
pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo
sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono –
compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo
termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro
conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche
quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue.
La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa.
Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle
risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano
costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale,
anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono
forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli
abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste
e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le
istituzioni.
Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato,
minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera”
inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente
segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze
dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito
trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero
non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un
“residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle
case da cui furono mandate via quindici anni fa.
Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi
vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta
disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e
tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno
raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni
e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di
altri a una continua peregrinazione intorno alla città.
Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità”
rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non
solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale.
Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra
epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in
quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito
ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici,
oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e
familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che
incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un
odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal
cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter
out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o
affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al
displacement.
Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella
capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più
gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a
Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono
chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati,
come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di
concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova
addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima
della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli
sgomberi, e che li ricordava così:
«Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le
SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la
polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si
riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli
archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase
al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono
tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da
rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla
polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e
demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la
sua organizzazione».
Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e
dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri
autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si
descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione
non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui
fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista
coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in
Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando
colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […]
Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del
borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri
abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di
Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli
prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni
precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove
la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli
abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune
tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con
Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola
popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire,
Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che
a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti.
Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi
fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle
associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del
Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa,
Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua
famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di
Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze.
Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla
trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti
dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una
trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo
tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel
frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende
del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti.
Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora
erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora
considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una
città diversa.
Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la
casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum:
l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”,
nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che
aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati”
dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una
mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo
collettivo creato nel vecchio quartiere.
«La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava
che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse
insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che
faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto
della scavatrice di Pasolini,
Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.
In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme
di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di
convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche
i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili
solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree
autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e
disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che
vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra
forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno
prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e
politica.
Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è
difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex
“baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di
quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti
nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti
cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che
avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora
rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti,
che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati.
All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte
contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni
(2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere.
Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti,
sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e
colpevole per natura.
Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni,
sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla
vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone
a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il
passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni
attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è
l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre
inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e
culturali.
Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui
postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di
sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano
espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata,
prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione
nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto
della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in
Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di
opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo
in gioco gli stessi corpi.
Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme
cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più
piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre
vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti
di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro
diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli
abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono
a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che
demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la
primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun).
Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un
anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del
loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte»,
dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna
no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un
gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si
costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita:
come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o
Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di
Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un
bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con
cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in
affitto.
L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello
sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini:
«Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi
da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa;
l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di
molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche
degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada
al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare
strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali,
smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro
che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia.
Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può
giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo
rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per
la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal
punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una
realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive
Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che
portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli
abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento
come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro
sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di
società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle
rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro
che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi.
Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si
basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo
positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando
le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che
trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico
esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere.
Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche
essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della
storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato
immutabile.
Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche
casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce
n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora
realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
(disegno di peppe cerillo)
Il 2 ottobre un dipendente di una ditta privata sotto contratto delle Ferrovie
dello Stato pianta un chiodo per errore nel cavo di una centralina, causando il
blocco di tutto il traffico ferroviario della costa tirrenica; alcuni treni
fanno fino a dieci ore di ritardo: inizia l’ottobrata romana. Il 3 ricomincia a
piovere, mentre sale la tensione per la giornata del 5, quando è prevista la
manifestazione nazionale per la Palestina a piazzale Ostiense. Centinaia di
gruppi politici e associazioni confermano l’adesione nonostante il divieto della
Questura, infine costretta ad autorizzare il presidio. Lo sciopero dei mezzi, il
diluvio, il terrorismo mediatico, i fogli di via, i blocchi nelle stazioni, ai
caselli autostradali e agli autogrill, nonché i controlli a tappeto in zone
anche lontanissime da Piramide impediscono la partecipazione a centinaia di
persone; eppure oltre quindicimila manifestanti (forse anche di più) si radunano
per quattro ore nel grande piazzale, da dove però viene vietato di partire in
corteo. L’esasperazione di alcune tra queste dà la scusa alla polizia per tirare
lacrimogeni sulla folla e attaccare il presidio con le idropompe: a Roma non
succedeva da circa un decennio. La sera un ragazzo del liceo Righi viene
aggredito su via Marmorata perché portava la bandiera palestinese.
Il 7 ottobre un centinaio di persone presidia il tribunale durante il processo
per direttissima alla persona fermata sabato, accusata di resistenza e lesioni.
Intanto il rabbino capo di Roma tiene un discorso alla sinagoga sostenendo che
“le istituzioni internazionali che dovrebbero essere super partes si sono fatte
cassa di risonanza dei più biechi pregiudizi antisemiti”. Nel pomeriggio a
Ostiense un ragazzo di diciassette anni su un motorino rubato viene inseguito
dai Carabinieri: durante l’inseguimento si schianta contro un muro e muore.
L’8 alla Nuvola di Fuksas (il centro congressi per cui la Corte dei Conti aveva
chiesto al Comune tre milioni di euro di danno erariale) si inaugura il
Cybertech Europe, vetrina dell’industria delle armi e dello spionaggio promossa
da Leonardo Spa in stretto contatto con le industrie militari israeliane. Un
corteo di contestazione parte da metro Laurentina verso la Nuvola. A poca
distanza, la brigata “Genio” dell’Esercito si esercita sul Tevere, per la prima
volta in vent’anni: montano un ponte galleggiante per “prepararsi a un evento
bellico”. La sera scoppia un ordigno sulla porta del centro sociale La Strada di
Garbatella. Il 9 Sinistra Italiana scrive una lettera al sindaco, chiedendo di
sospendere gli sfratti per tutto il 2025 in occasione del Giubileo. Il 10 al
consiglio del VI municipio, il più popolato e etnicamente eterogeneo della
capitale, passa una risoluzione perché le scuole rimettano il crocifisso nelle
aule: la vota il centrodestra, con l’astensione di tutte le opposizioni (Pd e
Movimento 5 Stelle). L’11 vengono a Roma sia Zelensky che Pedro Sánchez,
entrambi ricevuti dal Papa; Zelensky anche dalla Meloni.
Il 12 a Testaccio c’è il funerale del diciassettenne morto durante
l’inseguimento dei Carabinieri. Ad Albano si manifesta contro l’inceneritore; e
da Piramide a piazza Vittorio sfila un nuovo grande corteo per la Palestina, con
oltre diecimila persone. Per la seconda volta scende in piazza anche il Jewish
Block, la sezione romana della rete European Jews for Palestine: il loro
volantino spiega che il 13 è Yom Kippur, giorno ebraico del digiuno, con cui
“elaborare il lutto, le orrende immagini di distruzione e genocidio che ci
attanagliano da un anno a questa parte ma che vanno avanti da settantasei anni”.
Il 14 un operaio nigeriano di diciassette anni che viveva nell’occupazione Spin
Time Labs muore schiacciato da un ascensore in un cantiere del centro storico.
Intanto il sindaco presenta in Campidoglio il progetto dell’inceneritore,
sostenendo che inquinerà meno di un caminetto. Nel frattempo a San Paolo alcuni
attivisti e attiviste restaurano il murale per Shineen Abu Aqleh, reporter
palestinese di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano: il murale era stato
vandalizzato per la sesta volta. Il 15 a Guidonia un adolescente viene ucciso da
un’auto che non si ferma alle strisce. Il 16 c’è un nuovo sgombero per gli ex
occupanti dell’Hotel Cinecittà, che avevano occupato un altro hotel a Torre
Maura; dopo lo sgombero occupano subito di nuovo un hotel abbandonato, questa
volta alla Romanina. Nessuno si chiede se va bene avere tutti questi hotel
vuoti, con così tante persone che hanno bisogno di un tetto. Incendio doloso al
Liceo Gullace: alcuni giornali provano a incolpare l’occupazione studentesca. Il
17 il consiglio comunale discute una proposta della minoranza, cioè che
Gualtieri chieda al governo di fermare gli sfratti l’anno del Giubileo. L’esito
era scontato: la proposta viene bocciata. Nel frattempo alla Camera il Pd, in
appena sei ore di dibattito parlamentare, si astiene sulla sospensione
dell’accordo tra Unione Europea e Israele, si astiene sulle sanzioni per
ottenere un cessate il fuoco, si astiene sulla richiesta di non investire in
armi, si astiene sul segreto di stato alle armi all’Ucraina, e vota a favore
dell’invio di queste armi. Il 19, manifestazione contro il DDL 1660, il nuovo
strumento della “guerra interna” contro la dissidenza politica, anche pacifica.
Il 21 il Terzo Municipio annuncia l’apertura di uno “sportello casa” gestito
dall’associazione Nonna Roma con fondi del Giubileo, coordinato dalla Fondazione
Charlemagne; il progetto aprirà nel 2026 e prevederà uno sportello di ascolto e
un co-housing con quattro posti, con un finanziamento di un milione di euro. Il
22 vengono sgomberati per la terza volta i latinos che avevano occupato l’Hotel
Petra alla Romanina; cinque di loro vengono rimpatriati, o mandati in un carcere
per gente da rimpatriare, mentre quelli considerati “vulnerabili” vengono
infilati in strutture di emergenza. Gli altri rimangono per strada. Il 23 alcuni
bed and breakfast intorno al Circo Massimo (San Teodoro, via dei Fienili, via
dei Foraggi) si svegliano con gli smart locker sfondati; è un’azione diretta di
sabotaggio contro la turistificazione di massa e il Giubileo, rivendicata in un
video anonimo che si conclude così: “Questa è solamente la prima azione che
facciamo contro il vostro Giubileo dei ricchi”.
Il 24 c’è un nuovo processo a Stella, arrestata per le manifestazioni
studentesche per la Palestina, che si conclude di nuovo con un rinvio. Piove: la
Metro B chiude per un blackout, il traffico è bloccato in tutta Roma. Il 25
presidio davanti all’ambasciata Usa contro l’escalation del genocidio in
Palestina e in Libano, in risposta alla chiamata internazionale
#BlocktheEmbassies; intanto, un gruppo di studenti e studentesse del liceo Righi
(il migliore della capitale secondo le statistiche europee) espone trentotto
bandiere palestinesi dalle finestre della scuola su via Campania. Invece di
premiarli, la preside scrive alle famiglie minacciando sanzioni disciplinari, e
reinterpretando a suo modo il senso dell’istituzione culturale: “Qui si fa
lezione, non si fa politica”. Ma qual è il confine tra studio e politica?
Il 26 vicino Termini un gruppo di attivisti occupa la sede di Booking, agenzia
di appartamenti turistici; domenica 27 al Forte Prenestino c’è una assemblea
pubblica contro i nuovi OGM. Un altro ragazzo minorenne viene ucciso da un’auto,
stavolta ad Ardea; il giorno prima c’era stato un altro morto all’Eur, il giorno
prima ancora un altro alla Romanina. Il 28, anniversario della marcia su Roma, è
un’altra giornata di scioperi dei trasporti: chiude la metro, il traffico va in
tilt; il mese finisce come era iniziato. La sera la Rete associazioni per una
città vivibile organizza un sit-in a Campo de’ Fiori con striscioni “Siamo
residenti, non fantasmi”. Il 30 il Comune pubblica il bando per il contributo
all’affitto, finora a carico dello stato, adesso “generosamente offerto dalla
Fondazione Roma” con un milione di euro (se ci sono mille famiglie, avranno
mille euro ciascuna). Lo stesso giorno il Sole 24 ore annuncia che il governo ha
ceduto all’Esercito 4,6 miliardi di euro stanziati per la transizione ecologica:
siccome i soldi pubblici vanno alla guerra e alle armi, i servizi per la
popolazione si reggono sulle briciole dei grandi investitori finanziari. Si va a
marcia forzata verso il Medioevo, per creare il setting adatto al “Giubileo dei
poveri”. Mancano due mesi all’apertura della Porta Santa: si apre una porta, si
chiudono mille portoni. (stefano portelli)
(collage di stefania spinelli)
Domenica 27 ottobre si terrà a Roma (CSOA Forte Prenestino, alle ore 10)
un’assemblea indetta dal gruppo No Ogm del collettivo Cambiare il campo. Il
confronto pubblico è pensato per organizzare una mobilitazione nazionale contro
i nuovi organismi geneticamente modificati e una loro possibile
deregolamentazione che cambierebbe drasticamente l’agricoltura, i territori e
quello che mangiamo, con la consapevolezza che ogni atto eticamente condiviso
possa essere utilizzato per fermare la loro introduzione in Italia.
Tecniche di evoluzione assistita (Tea) è il nome scelto dalla Società italiana
di genetica agraria per gli organismi geneticamente modificati che nel resto del
mondo vengono definiti New genomic techniques (Ngt). Soltanto in Italia si è
scelto un nome più digeribile che non facesse pensare alle mobilitazioni che,
tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, hanno impedito agli Ogm
di arrivare nei nostri campi e sulle nostre tavole. Finora vendere Ogm è stato
possibile solo garantendo tracciabilità, etichettatura e valutazione del rischio
secondo il principio di precauzione. Adesso invece, politici, impresari,
scienziati e lobbisti spingono per la deregolamentazione dei nuovi Ogm e in nome
della sostenibilità cercano di accrescere consensi. A settembre durante il G7
Agricoltura a Siracusa, Giuseppe Perrone, leader della consulenza per
l’innovazione della società Ernst & Young, proclama che “l’innovazione nel
settore agrifood non è solo una questione di progresso tecnologico, ma una
necessità per garantire un futuro sostenibile per noi e per il nostro pianeta”.
I Tea sono di fatto organismi alterati aggiungendo sequenze di Dna prelevate da
altri organismi della stessa specie o da specie compatibili, oppure modificando
dei geni per amplificare o silenziare alcune funzioni. Con i Tea, la novità
rispetto agli Ogm di trent’anni fa è la presunta riproduzione in laboratorio di
ciò che accade in natura. In virtù di questa ipotetica somiglianza, le
associazioni di categoria come Coldiretti, Cia e Confagricoltura accolgono i
nuovi Ogm, mentre voltano le spalle ai contadini che dicono di rappresentare.
Stupisce tanta certezza nello sbandierare queste tecniche come sicure e precise,
vista la parziale conoscenza del funzionamento e della struttura del Dna che
abbiamo a oggi. Infatti, alla messa in guardia da parte di molti scienziati
indipendenti si aggiungono numerose ricerche che rilevano effetti collaterali
dovuti a mutazioni non volute nei siti bersaglio. Secondo l’Agenzia per la
salute e la sicurezza alimentare francese, questi errori possono comportare
l’emergere di tossine e allergeni potenzialmente dannosi nella progenie degli
organismi modificati con Ngt.
Ora che gli ingranaggi del sistema relazionale tra industria, ricerca pubblica e
privata e politica sono stati meglio oliati, si cerca di introdurre questi
organismi prima che i loro rischi siano effettivamente accertati. Sebbene
la Corte di giustizia europea nel 2018 abbia stabilito che le Ngt devono essere
sottoposte alla stessa regolamentazione degli Ogm di prima generazione, a luglio
2023 la Commissione europea ne ha proposto la deregolamentazione, eliminando le
misure di tracciabilità, etichettatura e valutazione del rischio per i nuovi
organismi ottenuti con Ngt. La proposta di liberalizzazione, approvata dal
parlamento e ora al vaglio degli stati membri, non era ancora stata formulata
che le quattro più grandi multinazionali agrochimiche e
sementiere (Bayer-Monsanto, Basf, Corteva e Syngenta) avevano già richiesto 139
brevetti relativi alle nuove biotecnologie per l’editing genomico sulle piante.
Multinazionali che da sole governano quasi il settanta per cento del mercato
sementiero mondiale e con esso la vita delle persone che se ne devono servire.
Il grimaldello per la deregolamentazione delle Ngt è la loro presunta importanza
per fronteggiare la crisi climatica e sfamare il mondo: rendere il sistema
alimentare più sostenibile e resiliente grazie allo sviluppo di varietà vegetali
migliorate, resistenti al cambiamento climatico e ai parassiti, atte a garantire
rese più elevate e richiedere meno fertilizzanti e agro-farmaci. Eppure, delle
novanta sperimentazioni svolte in Europa soltanto sei riguardano tratti
resistenti alla siccità.
SELEZIONE INNATURALE
L’Italia inaugura la stagione delle sperimentazioni in campo di piante
sviluppate con le Tea ancora prima che l’iter a livello europeo sia concluso.
Senza lo spazio per un dibattito pubblico, senza valutazione dei rischi e senza
contare i danni economici al settore bio, a giugno 2023 viene approvato un
emendamento al Decreto siccità che semplifica le regole per
le sperimentazioni in campo in deroga alla normativa Ue sugli Ogm. Questa mossa
ha fatto guadagnare all’Italia il primato di paese europeo più attivo nel
testare colture prodotte con tecniche genomiche.
Nel 2022 in India viene introdotto il cotone Ogm Bollgard di Monsanto per
rimediare l’attacco del verme del cotone, ma le promesse di maggiore
produttività sono state disattese. Ne è seguita una crisi economica con effetti
drammatici, impatto negativo sull’ecosistema e perdita di varietà locali. Come
per il cotone indiano, anche in Italia le Tea sarebbero l’antidoto ai danni del
brusone per il riso e della peronospora per la vite, per i quali sono state
avviate le sperimentazioni in campo. Lo scorso settembre è stato inaugurato in
provincia di Verona il primo vigneto sperimentale in Europa ottenuto con Tea, un
campo di circa duecentocinquanta metri quadri delimitato da una rete metallica
accessibile solo al personale autorizzato e sottoposto a sorveglianza
ventiquattro ore al giorno. Questo per evitare che si ripeta quanto è successo a
giugno in provincia di Pavia, dove è stato completamente distrutto un campo
sperimentale di riso. Meno di un mese fa è stata rivelata l’esistenza di
un social network privato che profila e segue attivisti, giornalisti e
ricercatori che hanno criticato i pesticidi e gli Ogm. Il portale sarebbe
gestito da una società fondata da Jay Byrne, ex dirigente di Monsanto.
A sconfessare l’utilità di sementi geneticamente modificate in risposta ai
cambiamenti climatici è la loro vocazione alla monocoltura e all’omogeneità
genetica. Esemplificando, se viene inserito il gene della resistenza alla
siccità, le sementi non saranno in grado di adattarsi ad altre condizioni
meteorologiche legate. È l’eterogeneità delle sementi contadine co-evolute nei
territori in migliaia di anni a presentarsi come la soluzione più naturale e
sostenibile ai cambiamenti. Pensare di risolvere la crisi ambientale e
alimentare con l’agricoltura industriale (che ne è una delle cause) è quanto di
più illogico si possa fare, visto l’impoverimento del suolo risultato della
meccanizzazione e di pratiche agricole intensive che non rispettano l’equilibrio
degli ecosistemi. Invece che tecniche di evoluzione, le Tea nascondono tecniche
di eliminazione avanzata della biodiversità.
Per fare luce sulla questione e valutare la bontà delle promesse di soluzioni
semplici a problemi complessi, Stefano Mori e Francesco Panié hanno
scritto Perché fermare i nuovi Ogm, edito da Terra Nuova. Gli autori sono
rispettivamente coordinatore e campaigner di Crocevia, Ong che da anni sostiene
progetti per l’agro-ecologia e la sovranità alimentare, parte del coordinamento
europeo di via Campesina. Per genetisti e multinazionali biotech, l’alterazione
dei genomi delle piante in laboratorio sarebbe talmente piccola da essere
equiparata a quello che gli esseri umani hanno fatto fin
dal Neolitico selezionando le varietà in campo. Questa semplificazione
all’ennesima potenza cancella il rapporto di relazione che si crea in natura tra
la pianta e l’ambiente e tra essi e chi le coltiva. Nel corso di un parlamento
rurale sul diritto ai semi, Francesco riflette: “Io vorrei utilizzare più semi
locali perché vedo che le piante resistono meglio, ma ormai è sempre più
difficile trovarli perché chi se li riproduceva non c’è più. E poi è complicato
introdurli nella mia azienda e commercializzare liberamente quello che produco”.
LA POLIZIA DEI SEMI
Contro chi sostiene che l’alterazione dei genomi sarebbe talmente “naturale” da
rendere difficile la distinzione tra piante Ogm e non, Panié e Mori evidenziano
come “il mito della neutralità delle modifiche crolla davanti alla ragion
pratica della privatizzazione”. “Rintracciare le Ngt è possibile e si fa già da
tempo, perché serve a chi le vende”, per dimostrare la contraffazione da parte
di altre aziende o degli agricoltori. Gli autori del libro prendono atto di come
negli Stati Uniti, dove gli Ogm sono presenti da tre decenni, sono numerosi i
contadini portati in tribunale e ricattati dalle grandi multinazionali
sementiere. I ruoli si ribaltano: un contadino a cui è stato contaminato il
campo può essere accusato di furto di proprietà intellettuale dall’azienda
proprietaria del brevetto e non avrà vita facile nel dimostrare di non aver
rubato niente, anzi di essere parte lesa.
Con lo sdoganamento delle Ngt si innesca un meccanismo di dipendenza
dalle sementi brevettate, i cui prezzi sono stabiliti dalle multinazionali che
ne detengono i brevetti. Il pericolo da cui mettono in guardia gli autori del
libro è la transizione verso il modello di brevetto industriale: chi controlla i
semi, controlla tutta la filiera. La direttrice dell’African Center for
Biodiversity, organizzazione che da vent’anni si batte per la sovranità
alimentare nel continente africano, ha definito i nuovi Ogm come “meccanismi
coloniali per intrappolare i sistemi agricoli e alimentari e assicurare nuovi
mercati per le sementi riprodotte industrialmente dalle aziende”. Con la
promessa di una vita più facile ci stanno espropriando dei saperi legati alla
terra e con essi della libertà.
Franco per anni ha lavorato nell’agroindustria, ma ora recupera semi per
riprodurli e distribuirli in giro insieme alle sue conoscenze. Ha in mano un
pomodoro Ciettaicale, una varietà locale lucana che necessita di poca acqua, e
ricorda che “tra i corsi di agraria all’università ce ne sono di tutti i tipi:
meccanizzazione, coltura fuori suolo, come far crescere le piante sulla luna. Ma
per quanto riguarda la riproduzione di semi, niente. Sono vent’anni che cerco un
corso e non ho trovato nulla. Mi sono formato da solo, cercando ovunque, presso
gli anziani, i monaci, nei vecchi documenti”.
Il fatto che il punto di vista dei movimenti contadini, delle organizzazioni
ambientaliste e dei consumatori venga invisibilizzato e delegittimato, non vuol
dire che ci sia accordo unanime alla deregolamentazione. Sono state diverse le
occasioni in cui il mondo agricolo ha espresso il suo malcontento:
dalle proteste dei trattori a quelle contro i nuovi Ogm, con iniziative di
controinformazione per fare chiarezza sull’attuale sistema agroindustriale del
cibo, che è causa di cambiamenti climatici, distruzione dei territori,
sfruttamento di lavoratori e scomparsa di una prospettiva di vita sana. A marzo
si è tenuta a Roma la conferenza contadina di Cambiare il campo, collettivo per
una convergenza agro-ecologica e sociale. Quest’incontro ha avviato un dialogo
tra movimento rurale e cittadino che si riconosce nelle pratiche agro-ecologiche
come alternativa alla filiera del cibo industriale. Un’alternativa valida e
sostenibile agli Ogm già c’è (anche se poco diffusa): sono le case delle
sementi, in cui fare conservazione dinamica della biodiversità attraverso la
selezione e lo scambio di semi delle varietà che meglio si adattano ai
cambiamenti climatici.
Guy Kastler, contadino e attivista per i diritti degli agricoltori, ricorda che
“per sensibilizzare l’opinione pubblica, è essenziale l’azione diretta, la
disobbedienza civile, le petizioni e tutto il resto. Se non si agisce, si
finisce per non avere nulla. Ma l’azione senza una lotta legale non sempre
diventa legge”. Per questo Mori e Panié si propongono di lottare affinché “la
regolamentazione venga usata come argine all’agroindustria e agli Ogm, invece
che cooptare le pratiche contadine nello stesso quadro normativo” e perché “le
pratiche di selezione, utilizzo, scambio e vendita delle sementi da contadino a
contadino vengano consentite senza restrizioni e la brevettazione sia vietata”.
Se i semi saranno controllati dalle “big four” dell’agroindustria, non possono
che esserci all’orizzonte campagne senza contadini, sfruttamento delle risorse,
dei territori e delle persone che li vivono. (gabriella patera)
Lo Spazio Anarchico “19 luglio” è sotto sgombero. Da diversi anni i compagne e
le compagne hanno trasformato un locale abbandonato per decenni in un luogo di
incontro, socialità, autoorganizzazione politica e sociale. Ristrutturati
totalmente i locali grazie al lavoro volontario di compagne, compagni e solidali
il luogo è divenuto punto di riferimento per tante […]