Archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione
dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Paolo Persichetti
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021)
condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio
archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della
lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione
digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché
l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei
figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione
firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica
Eugenio Albamonte.
Comportamenti privi di rilevanza penale
Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia
di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la
condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto
d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli
elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio».
Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia
intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura
delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della
commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad
Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato
in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro
ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare
avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori
incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro,
quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese
pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione.
Reati prescritti
Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato
[favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto
d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi
prescritti o prossimi alla prescrizione».
Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione:
l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era
stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo
stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico
poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi
qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la
scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente
invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla
prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché
priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere
dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse
senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero
materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche
una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto
del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di
notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi
d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia
al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era.
Le ragioni dell’inchiesta
Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava
la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di
Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo
a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno
coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per
una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio
lavoro di ricerca storica?
Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip
per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle
cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm
Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine
arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la
legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria
internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio
Casimmirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli
Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale
della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex
brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e
Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail
dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg
della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava
a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa
pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare.
Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro:
stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del
mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro
pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla
campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo
inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito
delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza
perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi
avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze
preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei
fatti di via Fani.
Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre
anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel
fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici
e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli
inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia
l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di
capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente
rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non
ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella
vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli
scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non
cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta
improvvisamente rotta.
Cosa era successo?
L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore
consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della
commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza»
delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione)
era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel
breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea
lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso
Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto
da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti
fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla
Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di
Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale
(perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei
consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della
Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto
potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi».
Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo,
in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della
riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri:
commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato
l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del
segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine.
La velenosa insinuazione
Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di
prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex
presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe
raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e
via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni
80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non
hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata
un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e
allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il
cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla
volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio
convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività
di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui
l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione
sovversiva.
Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti!
Un grave precedente
Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla
sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà
della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore,
l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero
dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di
stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di
recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il
cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo.
Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e
addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente
del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse
confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale
cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro.
Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi
sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il
loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno.
La decisione finale spetta al Gip
Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione.
Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine
sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non
si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora
non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche
sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e
tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di
prevenzione.
> Se fare storia è un reato
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> un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»
> La scongiura del discorso. Il caso Persichetti
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