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Processo Askatasuna: cade l’associazione a delinquere. una vittoria per le lotte sociali e per chi resiste in questo paese!
Processo Askatasuna. Alle 15.15 è arrivata la sentenza di primo grado: caduta per tutti 16 gli imputati l’accusa di associazione a delinquere“ perché il fatto non sussiste”. Condanne invece per le singole condotte e ipotesi: sono 18 su 28  ed alcune molto pesanti. Il commento a caldo a Radio Onda d’Urto dell’avvocato Claudio Novaro legale degli imputati e imputate Ascolta o scarica e di Ermelinda del Movimento No TavAscolta o scarica seguiranno aggiornamenti   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Una volta si tiravano i sabot
Émile Pouget ci spiega che, grazie al sabotaggio, il lavoratore dispone di un’arma di resistenza efficace per tener testa allo sfruttatore di Marco Sommariva* È da fine anno scorso che, spesso, mi torna in mente una mia vecchia lettura: Il sabotaggio di Émile Pouget. Per sabotaggio s’intende un’azione volta a ostacolare o ritardare la realizzazione di un progetto o l’effettuazione di un’attività; è un termine che risale alla rivoluzione industriale, a quando i tessitori licenziati danneggiavano i telai a vapore, gettando negli ingranaggi i loro zoccoli di legno, i sabot, appunto. La lettura mi è tornata in mente quando, per esempio, il 20 dicembre dello scorso anno ho letto su L’indipendente che il nuovo Ddl Sicurezza 1660 che il governo italiano aveva fatto approvare alla Camera, restringeva “il diritto a manifestare e a esprimersi pacificamente”; oppure quando, lo scorso gennaio, il Fatto Quotidiano titolava “Il chiodo, il vento e ora l’ombra del sabotaggio: tutte le giustificazioni di Salvini e Fs per tre mesi di guasti alla linea e ritardi dei treni” un pezzo  in cui, fra le altre cose, si scriveva che “Trenitalia rompe gli indugi e presenta un esposto superando a destra qualsiasi spiegazione fornita finora: orari e tipologie di guasti fanno pensare a circostanze altamente sospette”; oppure quando, giorni fa, la rivista Jacobin parlava della mobilitazione di lavoratori e lavoratrici che, il 17 marzo scorso, “hanno organizzato il loro primo sciopero nazionale, particolarmente riuscito. Una lotta atipica, non si vedono molti dipendenti delle catene librarie scendere in piazza contro l’azienda. Anche perché il settore non è particolarmente in forma, i libri hanno un andamento fluttuante ma da qualche anno, dopo il Covid, hanno iniziato a segnare una discesa costante”, uno sciopero nato “per ottenere 1,50 euro di aumento del buono pasto”. Mi fermo qui ma avrei altri articoli, episodi che, negli ultimi mesi, mi hanno riportato alla mente lo scritto di Pouget. Mi fermo qui e vi racconto qualcosa di questo volumetto edito nel 1913 – Il sabotaggio, appunto – opera di uno dei militanti anarchici più rappresentativi del movimento operaio francese, colui che per primo definì l’idea di sabotaggio, un concetto che, sin dal 1897, la Confédération Générale du Travail definirà “ufficialmente” un metodo di lotta sindacale. Pouget ci spiega che, grazie al sabotaggio, il lavoratore è in grado di resistere, non è più alla mercé del capitale, dispone di un’arma di resistenza efficace per tener testa allo sfruttatore: “Con il “boicottaggio” e il suo indispensabile complemento, il “sabotaggio”, disponiamo di un’arma di resistenza efficace che, in attesa del giorno in cui i lavoratori saranno abbastanza forti da emanciparsi completamente, ci consentirà di tenere testa allo sfruttamento di cui siamo vittime. I capitalisti lo devono sapere: il lavoratore rispetterà la macchina solo quando questa sarà diventata per lui un’amica che riduce il lavoro, anziché essere come oggi la nemica, la ruba-pane, l’ammazza-lavoratori”. Il militante anarchico ci ricorda che “la minaccia del sabotaggio spesso può dare risultati altrettanto utili del sabotaggio stesso”, auspica che “il sabotaggio entri a far parte dell’arsenale delle armi di lotta dei proletari contro i capitalisti, allo stesso titolo dello sciopero, e che l’orientamento del movimento sociale abbia sempre più la tendenza all’“azione diretta” degli individui e una maggiore consapevolezza della loro personalità” e ha una certezza, quella che “tutto andrebbe a meraviglia nel mondo capitalistico se gli operai avessero la stessa incoscienza delle macchine di ferro e di acciaio di cui sono i servi e se, come queste, avessero a mo’ di cuore e di cervello una semplice caldaia a vapore o una dinamo”. Pouget riporta un episodio accaduto nel 1908 a Beaford, nell’Indiana (Stati Uniti), che la dice lunga su come l’essere umano può reagire ai soprusi e alle ingiustizie, se si mantiene lucido, se non si lascia addomesticare dai media, anestetizzare dai Social: “[…] un centinaio di operai ai quali avevano appena comunicato che era stata imposta loro una riduzione di salario che ammontava a una dozzina di centesimi l’ora. Senza profferire parola, si recarono in una vicina officina e fecero rifilare i loro badili di due pollici e mezzo. Dopodiché, se ne tornarono al cantiere e risposero al padrone: A paga ridotta, badili ridotti!” Più o meno nello stesso periodo, a Lione “gli addetti ai tram […], per rendere impossibile la circolazione delle vetture con crumiri come conducenti, colavano cemento negli scambi delle rotaie”. Ci sono casi in cui non val la pena ridurre la quantità del prodotto, ma la qualità: “[…] quelli che lavorano a cottimo, se rallentassero la loro produzione, sarebbero le prime vittime della loro stessa rivolta passiva, perché saboterebbero il loro stesso salario. Devono quindi ricorrere ad altri mezzi e devono preoccuparsi di ridurre la qualità e non la quantità del loro prodotto”. Se si tace, si resta passivi di fronte a falsificazioni, sofisticazioni, inganni, menzogne, furti e truffe che costituiscono la trama della società capitalistica, saremmo complici: “È ben certo […] che tante fortune si sono costruite solo grazie al silenzio sulle piraterie padronali mantenuto dagli sfruttati che vi hanno collaborato. Senza il loro mutismo, sarebbe stato difficile, se non impossibile, per gli sfruttatori condurre in porto i loro affari; se ci sono riusciti, se la clientela è caduta nelle loro reti, se i loro profitti sono aumentati a valanga, è grazie al silenzio dei loro salariati”. È necessaria, quindi, la pratica dell’aprir bocca; ci racconta Émile Pouget: “[…] alla pratica dell’“aprire bocca” […] hanno deciso di ricorrere gli impiegati delle società bancarie e della Borsa. In un’assemblea generale […] il loro sindacato ha deciso di adottare un ordine del giorno in cui si minacciava che, se i padroni avessero fatto orecchio da mercante di fronte alle rivendicazioni avanzate, si sarebbe infranto il silenzio professionale, rivelando al pubblico quanto accadeva in quelle tane di ladri che sono le società finanziarie”. Sia chiaro che “il sabotaggio operaio si ispira a princìpi generali e altruistici: è un mezzo di difesa e di protezione contro le estorsioni padronali; è l’arma del diseredato che lotta per la propria esistenza e quella della sua famiglia; mira a migliorare le condizioni sociali delle masse operaie e a liberarle dallo sfruttamento che le soffoca e schiaccia”. Non va dimenticata un’altra pratica spesso sottovalutata, che andrebbe attuata più spesso, l’ostruzionismo: “L’“ostruzionismo” è una tecnica di sabotaggio a rovescio, consistente nell’applicare scrupolosamente i regolamenti, nello svolgere ciascuno la mansione assegnatagli con sapiente lentezza e un’attenzione esagerata”. Questa azione diretta proclama “il senso e l’orientamento dello sforzo che compie la classe operaia nell’assalto che essa conduce, senza tregua, contro il capitalismo” – il virgolettato è un estratto da L’action directe, un testo di Pouget pubblicato nel 1910. Anche se, al giorno d’oggi, lasciare tutta questa responsabilità alla sola classe operaia ha il sapore di un’ingiustizia. Sempre da L’action directe: “L’azione diretta è un concetto di una tale chiarezza, di una limpidezza così evidente, che essa si definisce e si spiega già con la sua enunciazione. Essa significa che la classe operaia, in reazione costante contro l’ambiente attuale, non si aspetta alcunché dagli uomini, dai poteri o dalle forze che le sono esterne, ma che essa crea le proprie condizioni di lotta e trova in se stessa i propri mezzi di azione”. Giustamente, potrebbe essere che qualcuno si stia domandando cosa c’entra questa specie di riassunto de Il sabotaggio e quest’ultimi estratti con gli articoli da me citati a inizio pezzo. Mi credete se vi dico che non ricordo più i corto circuiti che hanno collegato il tutto? Sarà l’età. Fate vobis.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Processo Spiotta, la storia fa paura alla pubblica accusa e alle parti civili
Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà nei giorni successivi. Processo ribaltato Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili». In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua» e «oscura». La storia non deve entrare in aula Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte. Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso. Un pm senza storia Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna, inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada. Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”». Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani. Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore giudiziario. Il consulente non verrà ascoltato Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra storia ma soprattutto una altro processo. da insorgenze.net > “Mara gridava ‘Non sparate’”     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
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brigate rosse
Francesco Romeo
anni 70
Verso uno Stato di polizia: ai servizi segreti la licenza di controllare le università
L’articolo 31 del ddl sicurezza in esame al Senato obbliga «le pubbliche amministrazioni e i soggetti che erogano servizi di pubblica utilità» alla collaborazione con i servizi segreti e permette alle agenzie di intelligence italiane (Dis, Aise e Aisi) di stipulare anche con le università e gli enti di ricerca «convenzioni» che prevedano l’accesso ai dati personali ancorché protetti da accordi di riservatezza di Eleonora Martini da il manifesto A poche settimane dall’approdo in Aula al Senato del ddl Sicurezza, le opposizioni unite promettono una «battaglia durissima» contro l’articolo 31 del testo che obbliga «le pubbliche amministrazioni e i soggetti che erogano servizi di pubblica utilità» alla collaborazione con i servizi segreti e permette alle agenzie di intelligence italiane (Dis, Aise e Aisi) di stipulare anche con le università e gli enti di ricerca «convenzioni» che prevedano l’accesso ai dati personali ancorché protetti da accordi di riservatezza. Per i senatori del M5S e di Avs, che ieri hanno organizzato una apposita conferenza stampa a cui hanno partecipato anche Pd e Italia Viva, l’articolo 31 «va stralciato» dal testo perché apre alla «schedatura di massa» e costituisce «un attacco ai diritti fondamentali». Mentre si attende – a questo punto forse in Aula – l’annunciato emendamento governativo per correggere le più evidenti incostituzionalità del ddl Sicurezza, e che riporterebbe il testo alla Camera in terza lettura, ieri sera si è concluso l’esame degli emendamenti nelle commissioni in seduta congiunta Affari Costituzionali e Giustizia, dove la prossima settimana ci saranno le dichiarazioni di voto. Poi il testo andrà in Aula, ma probabilmente non prima di aprile. Il provvedimento, che per la senatrice Maiorino (M5S) si dovrebbe chiamare «ddl Repressione», nella norma specifica contenuta nell’articolo 31 permette agli 007 «di spiare chiunque senza garanzie e senza dare adeguati poteri di controllo al Copasir, cioè al Parlamento. Ospedali, scuole e università, solo per fare tre esempi, saranno costretti a fornire ogni dato che venga richiesto dai servizi. Chi controllerà questi agenti segreti?», è la domanda della pentastellata. Per la senatriceIlaria Cucchi (Avs), si tratta di «una norma inaccettabile che minaccia la libertà accademica, il pensiero critico e il diritto al dissenso nelle università italiane». Mentre il suo capogruppo, De Cristofaro, sottolinea che «dopo la vicenda dello spionaggio ai danni di attivisti e giornalisti con lo spyware di Paragon Solution questo provvedimento appare ancora più pericoloso». Il dem Bazoli, membro della commissione Giustizia, avverte che, se l’intero ddl «garantisce tutto, la repressione e l’intimidazione, tranne la Sicurezza», è comunque l’articolo 31 «la norma forse più grave e pericolosa» che «va assolutamente stralciata se non si vuole arrivare davvero ad uno Stato di polizia». Anche perché, fa notare Dafne Musolino (Iv), «crea questa figura dell’agente provocatore che agisce senza nessun controllo democratico. E in un Paese che patisce ancora le ferite della stagione delle stragi, del terrorismo, dei servizi deviati, è qualcosa di molto pericoloso». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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USA: Caccia agli studenti proPal alla Columbia University di New York
Columbia University di New York ancora nel mirino. Dopo la sospensione di 400 milioni di fondi federali, arrestato senza accuse Mahmoud Khalil, studente pro palestinese tra i più noti dell’ateneo, che ora rischia l’espulsione forzata dal paese nonostante la sua green card e la moglie incinta di Marina Catucci da il manifesto La notizia si è sparsa domenica, ma Mahmoud Khalil, studente palestinese laureato alla Columbia University, è stato arrestato sabato mattina dalle autorità federali per l’immigrazione Khalil, che è sposato con una donna americana attualmente incinta di otto mesi, lo scorso aprile ha avuto un ruolo di primo piano nelle proteste pro-palestina cominciate alla Columbia. Sabato gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement, Ice, lo hanno prelevato dalla sua residenza universitaria e lo hanno preso in custodia, come ha dichiarato all’Associated Press la sua avvocatessa, Amy Greer. Dopo l’arresto, lo studente ha potuto chiamare la legale che a sua volta ha potuto parlare con uno degli agenti, il quale ha affermato di agire in base agli ordini del Dipartimento di Stato, e che il visto studentesco di Khalil era stato revocato. Informato dall’avvocatessa che Khalil si trova negli Stati Uniti non con un visto ma come residente permanente grazie a una green card, l’agente ha risposto che stavano revocando anche quelle. L’arresto di Khalil è avvenuto il giorno dopo l’annuncio dell’amministrazione Trump di avere tagliato circa 400 milioni di dollari in contratti e sovvenzioni governative alla Columbia University “per non aver protetto i suoi studenti ebrei”. Quando gli agenti dell’Ice sono arrivati all’edificio del campus hanno inizialmente minacciato di arrestare anche la moglie di Khalil, ha detto Greer, e le autorità inizialmente hanno rifiutato di dire perché l’uomo venisse arrestato. È stato necessario aspettare il giorno successivo per avere una risposta, quando la portavoce del Dipartimento della Sicurezza Interna, Tricia McLaughlin, ha confermato l’arresto descrivendolo come “a sostegno degli ordini esecutivi del presidente Trump che proibiscono l’antisemitismo”, per cui chi ha partecipato alle proteste, per l’amministrazione Trump, ha perso il diritto di rimanere nel Paese, in quanto sostenitore di Hamas. Da quando è stato arrestato dello studente non se ne è saputo più nulla. L’avvocato di Khalil ha riferito che inizialmente le era stato detto che  era trattenuto in un centro di detenzione per immigrati ad Elizabeth, nel New Jersey, ma quando sua moglie ha cercato di fargli visita, domenica, ha scoperto che non era lì. Domenica sera Greer ha dichiarato di non sapere ancora dove si trovi il suo assistito. “Si tratta di una chiara escalation – ha detto Greer all’Ap – L’amministrazione ha iniziato a dare seguito alle minacce”. Dall’ateneo non sembra arrivare alcun aiuto: un portavoce della Columbia University ha dichiarato che gli agenti delle forze dell’ordine prima di entrare nella proprietà dell’università devono esibire un mandato, ma si è rifiutato di dire se la Columbia ne avesse ricevuto uno prima dell’arresto di Khalil, e si è poi rifiutato di commentare sia l’arresto che la scomparsa del loro studente. In un messaggio postato domenica sera su X, il Segretario di Stato Marco Rubio ha affermato che ora l’amministrazione “revocherà i visti e/o le green card dei sostenitori di Hamas in America in modo che possano essere espulsi”.   > We will be revoking the visas and/or green cards of Hamas supporters in > America so they can be deported https://t.co/oKba2Mmi3C > > — Marco Rubio (@marcorubio) March 9, 2025 La legge Usa ha sempre previsto che il Department of Homeland Security, per un’ampia gamma di presunte attività criminali, incluso il sostegno a un gruppo terroristico, potesse avviare procedimenti di espulsione anche per  i titolari di green card, ma la detenzione di un residente permanente legale, che non è stato accusato di alcun crimine, segna una mossa straordinaria che ha un fondamento giuridico traballante. Khalil, che lo scorso semestre ha conseguito il master presso la facoltà di affari internazionali della Columbia, durante le proteste aveva svolto il ruolo di negoziatore fra gli studenti e i funzionari universitari, riguardo lo smantellamento  dell’accampamento di tende. Questo ruolo lo aveva reso uno degli attivisti più visibili nel movimento universitario proPal. L’università lo aveva poi accusato a causa del suo coinvolgimento nel gruppo Columbia University Apartheid Divest, e Khalil aveva dovuto affrontare delle sanzioni “per aver aiutato a organizzare un corteo non autorizzato” in cui i partecipanti avevano glorificato l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, e per aver svolto un “ruolo sostanziale” nella circolazione di post sui social media in cui si criticava il sionismo. “Ho circa 13 accuse contro di me, la maggior parte delle quali sono post sui social media con cui non ho avuto nulla a che fare – aveva detto Khalil all’Ap la scorsa settimana – Vogliono solo dimostrare al Congresso e ai politici di destra che come università stanno facendo qualcosa, indipendentemente dalla posta in gioco per gli studenti”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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La continua riproduzione degli affari sporchi italo-libici
Il recente crimine del governo italiano con la liberazione del boia Almastri accompagnato a casa sua con un volo di stato fa ricordare i vecchi e orribili rapporti tra Italia e Libia di Salvatore Palidda Come tutti i paesi colonizzatori, l’Italia continua a fare affari sporchi con la Libia. Massacri di migranti, accaparramento di petrolio, terre rare ecc. Dopo Gheddafi, l’accordo con i criminali diventati i padroni della loro sicurezza è sacro per qualsiasi governo italiano, a sbafo di ogni legalità nazionale e internazionale, inchinandosi persino al boia Almastri. Il recente crimine del governo italiano con la liberazione del boia Almastri accompagnato a casa sua con un volo di stato fa ricordare i vecchi e orribili rapporti tra Italia e Libia. La colonizzazione italiana della Libia fu l’ultima grande guerra di Mussolini, i cui crimini di guerra furono insabbiati dagli inglesi e dagli americani e poi, per molto tempo, dalle autorità italiane, dopo la seconda guerra mondiale. Il più coraggioso e importante storico delle vicende coloniali italiane, Angelo Del Boca, fu a lungo bandito perché rivelò crimini di guerra che l’Italia non voleva riconoscere e pagare. Fu Berlusconi a stabilire nel 2008 con Gheddafi un trattato “dopo 40 anni di incomprensioni” … per “Meno immigrati clandestini sulle nostre coste e più petrolio” e per “Amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”. Gheddafi fu accolto a Roma con tutti i più grandi onori, offrendogli ampi spazi per allestire il suo accampamento e quello del suo foltissimo seguito. L’Italia accettò di risarcire l’ex colonia con cinque miliardi di dollari in vent’anni. Ricordiamo che l’Italia era contraria all’eliminazione di Gheddafi, ma poi ha sperimentato ogni sorta di stratagemmi incredibili per mantenere relazioni privilegiate con la Libia, in dura competizione con la Francia, gli inglesi e altre potenze neocoloniali. Fu l’allora ministro dell’Interno Minniti del Partito Democratico (PD, ex-sinistra) a perseguire nel 2010 l’intesa a tutti i costi con i libici (vedi anche Carine Fouteau, e anche qui). Con l’opera dell’altro importante dirigente del PD Violante e di D’Alema, questo partito è diventato il primo referente politico della lobby militare e di polizia in Italia; oggi Minniti e Violante sono diventati alti dirigenti della Leonardo, la multinazionale italiana degli armamenti e anche i nuovi grandi amici della duce Meloni. Fu Minniti lui ad inviare agenti dei servizi segreti italiani all’hotel Gammarth di Tunisi (si veda questo video-reportage) per consegnare 10 milioni di dollari al fratello del criminale (vedi anche un altro reportage di Lorenzo Cremonesi). Non è un caso che Minniti sia stato definito dal New York Times “Lord of the spies”. Secondo le testimonianze di alcuni migranti e della presidente di Medici senza Frontiere, Joanne Liu (cfr. la sua lettera inviata alle autorità europee), e anche secondo la commissaria europea Cecilia Malmström, i migranti arrestati da tale milizia erano alla mercé di rapine, brutalità, torture, schiavitù e violenze sessuali. I reportage di Lorenzo Cremonesi, dal 2010, sono preziosi (qui un dei primi). “Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato … si prestava per lavoretti a ore di ogni tipo, trasportava cassette della frutta, scaricava camion e aiutava anche nei traslochi … ‘Un poveraccio a cui non avresti dato un soldo … Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi in poliziotto anti-migranti che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?’. Sono le parole di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. Nel caos seguito alla rivoluzione ‘assistita’ dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi, ha prosperato. … La Reuters e della Associated Press ha raccontato come Dabbashi sia diventato collaboratore di primo piano nel progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Un agente dell’intelligence locale dice ‘ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj’. … Questa è la realtà della Libia. … Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito (è quanto asserisce Hussein Dhwadi, sindaco di Sabratha). … ‘È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato’, dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. … Nel 2014 Al Ammu comanda la «Brigata Anis Dabbashi» e un’altra Brigata, la «48», diretta dal fratello più giovane, Mehemmed con la partecipazione dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 hanno il monopolio dei movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. … e anche la protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: le attività dell’Eni. … Probabilmente è lui che ha i primi contatti con gli 007 italiani. … che poi si approfondiscono a seguito del rapimento di 4 tecnici italiani della Bonatti (di cui due assassinati) … I Dabbashi sono una garanzia. … ‘efficienti nel traffico di esseri umani e tanto bravi nel bloccarlo. … si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan rivolto ai migranti africani era che si doveva pagare almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. … avevano contatti anche con organizzazioni criminali italiane. … Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano”. Da dopo la fine di Gheddafi il controllo dei siti della multinazionale italiana del petrolio ENI è in mano alle bande criminali libiche che gestiscono anche la tratta dei migranti, hanno pervaso tutto l’apparato statale libico e hanno stabilito accordi ben pagati con l’Italia. Nella sua intervista con il Corriere della sera, Minniti afferma: “La Libia è strategica; è giusto fare accordi. Sul caso Almasri il governo avrebbe dovuto parlare di sicurezza nazionale”. Ciò perché, secondo lui, si tratta dell’“incolumità anche fisica di ogni cittadino italiano. Un grande pezzo della sicurezza nazionale si gioca fuori dalle frontiere nazionali poiché è la base la più avanzata dei trafficanti. Secondo, vi si gioca una partita energetica essenziale ». Allude all’interesse dell’Eni che lui -come tante altre figure istituzionali- considera interesse nazionale al pari della produzione e esportazione di armi per cui si giustificano le decine di missioni militari all’estero. A proposito del caso Almastri, il boia di cui la Corte Internazionale aveva chiesto l’arresto e che invece il governo italiano ha liberato e accompagnato a casa sua con un volo di stato, Minniti ha detto: “Sin dall’inizio avrei utilizzato il tema della sicurezza nazionale: è netto. … » E ha aggiunti : « No, il caso di Bija non ha niente a che vedere .. Non l’ho mai incontrato”. La biografia di questo altro trafficante di migranti è assai simile a quella di Almastri. Nel 2017 fu invitato dall’OIM in Italia, per trattare un accordo alfine di ‘fermare le migrazioni dalla Libia. Il celebre giornalista dell’Osservatore romano, Nello Scavo, racconta qui la riunione al cara di Mineo alla quale Bija aveva partecipato. Malgrado decine di reportage su questo criminale in tanti importanti media europei, Bija fu presentato in Italia come “uno dei comandanti della Guardia costiera libica (ibidem). E’ a tale riunione che i libici chiesero: “Quanto spende il governo italiano per ospitare qui ogni migrante?” E fecero capire che il “modello del Cara di Mineo poteva essere esportato in Libia se l’Italia l’avrebbe finanziato risparmiando così soldi e problemi” (ibidem). E’ il suggerimento che Minniti ha fatto suo e che oggi Meloni difende a spada tratta con in più la reverenza vergognosa per il boia Almastri. Ma, Minniti, con l’aria di grande esperto, afferma “Lo stato non è una ONG” e quindi attacca chi osa denigrare il governo Meloni. Da notare che il senso dello stato di mister Minniti include il baratto con le bande criminali che, al pari delle mafie, rubano, saccheggiano, sabotano, uccidono per imporsi come protettori, come garanti di una sicurezza che solo loro possono assicurare. Quindi secondo questa logica lo stato italiano avrebbe dovuto sempre negoziare con le mafie. Ma Minniti pensa all’interesse dell’ENI e della vendita degli armamenti di Leonardo, ergo business is business e bisogna farlo passare per «interesse nazionale» (il neoliberismo del capitalismo assoluto lo impone più che mai). Nel suo nuovo reportage, Lorenzo Cremonesi scrive pezzi di biografia del criminale Almastri che oggi ha il titolo di generale capo della polizia giudiziaria libica! Nel 2014 Almasri si fece reclutare nella Rada, la milizia emanazione del fronte islamico e contribuì a arrestare le truppe del generale Haftar. “La Rada utilizza Almastri per le operazioni sporche. Lui è un killer, è incaricato di eliminare gli indesiderati e per far ciò assume sicari e uomini disposti a tutto reclutati tra i carcerati nelle prigioni che controlla lui stesso”. Le vite di circa 15.000 carcerati nelle tre prigioni sono alla sua mercé. Nella prigione di Jedaida ci sono soprattutto dei trafficanti di droga e criminali accusati di delitti gravi. In quella di Rueni ci sono i migranti africani e arabi dei paesi vicini (tunisini e egiziani). Tutte le più alte autorità libiche -scrive Cremonesi- hanno fatto pressione sull’Italia per ottenere il ritorno rapido di Almasri in Libia. Se l’Italia non l’avesse fatto ci sarebbe stato un grave rischio immediato per le strutture dell’Eni, i lavoratori e tutti gli italiani in Libia e l’ambasciata italiana. L’Italia non aveva alternative e peraltro Turchia, Francia, Egitto e Russia avrebbero subito potuto dividersi i contratti italo-libici e i cittadini italiani in Libia sarebbero stati sequestrati per imporre lo scambio con Almastri. Centinaia di messaggi libici sono apparsi su TikTok e Facebook dicendo: “Dite a Roma che ha 48 ore per restituirci Almasri, poi attaccheremo l’Eni … La loro ambasciata sarà distrutta”. Ecco quindi le vere ragioni che hanno costretto il governo italiano alla grave operazione di reverenza inaudita per i criminali libici mentre Meloni si nasconde e sbraita che lei non subisce alcun ricatto. La sicurezza dell’attuale primo ministro libico Abdul Hamid Dbeibeh e del suo governo è garantita dagli uomini armati di tre milizie, tra cui quelle controllate da Almastri. “Le milizie e in particolare la Rada sono veri e propri stati nello stato. Nessuno può toccarli. Hanno sovranità e autonomia proporzionali alla loro forza militare e alla debolezza dell’autorità centrale. Chiunque voglia trattare con la Libia e agire sul suo territorio deve negoziare con queste milizie”. Il caso Almastri è ormai diventato un grave caso di abuso di potere da parte del governo italiano anche a causa di maldestri errori della Corte di giustizia di Roma, del Ministro Nordio e sicuramente anche del sottosegretario Mantovano, del ministro Piantedosi e della duce Meloni.  Come scrive il magistrato Aniello Nappi, già consigliere della Corte di cassazione italiana, la CPI ha trasmesso la richiesta di arresto di Almastri all’Interpol tramite una ‘notifica rossa’, che legittima l’arresto diretto della polizia giudiziaria. I magistrati romani commisero quindi un grave errore di diritto rifiutando di convalidare l’arresto e l’incarcerazione di Almasri. Da parte sua, il Ministro della Giustizia italiano avrebbe dovuto comunicare di non essere legittimato a intervenire in un procedimento di competenza esclusiva del Procuratore Generale di Roma, poiché la legge non gli attribuisce alcuna autorità in materia. La Corte penale internazionale (CPI) ha pertanto aperto un’indagine nei confronti del governo italiano per determinare se l’espulsione del funzionario libico Osama Almasri Najim da parte dell’Italia costituisca un ostacolo alla giustizia. Da parte sua, il governo italiano ha respinto l’indagine della CPI, ha messo in dubbio la condotta della corte internazionale e ha suggerito che la Corte stessa dovrebbe essere indagata (Meloni imita Trump). È chiaro che Almastri è senza dubbio un criminale non meno orribile di un Riina.  Un paese che lo libera dall’arresto legittimo e lo accompagna a casa con un volo di Stato è complice di un boia accusato di omicidio, tortura, stupro, ecc. L’atteggiamento di questo governo neofascista italiano non può che ricordare quello di Mussolini che, dopo l’assassinio del leader socialista Matteotti, dichiarò davanti al Parlamento di essere stato lui a darne l’ordine.   l’articolo è stato pubblicato in francese su mediapart.fr   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Lancet: 70mila, le vittime a Gaza
I morti a Gaza sono molti più di quelli ufficiali. «Lancet» alza il totale a oltre 70mila. Ma sono numeri che non smuovono i governi occidentali. Che ignorano la Corte penale internazionale di Andrea Capocci da il manifesto Il numero di oltre 45mila vittime riportato dal ministero della sanità di Gaza è una notevole sottostima delle perdite palestinesi causate della guerra di Israele. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet, a causa delle difficili condizioni in cui versano le strutture di soccorso della Striscia il 40% dei morti potrebbe mancare dai registri. L’analisi, coordinata dalla ricercatrice Zeina Jamaluddine della prestigiosa London School of Hygiene & Tropical Medicine, calcola che già a giugno del 2024 una ragionevole stima dei morti causati da bombardamenti e raid israeliani è di 64mila vittime, e con buona certezza compresa tra le 55 mila e le 78 mila. Alla data del 30 giugno, il ministero di Hamas parlava di 38mila vittime, di cui diecimila non identificate. Cioè, poco più della metà della cifra reale. Oggi, trascorsi altri sei mesi, i ricercatori ritengono che siano morti sotto le bombe già più di settantamila palestinesi. I MESI PEGGIORI sono stati i primi: circa la metà delle vittime sono state registrate tra ottobre e dicembre 2023, facendo aumentare di ben quattordici volte il tasso di mortalità nella Striscia rispetto al 2022. «I dati – spiegano gli autori dello studio – evidenziano la necessità urgente di allargare l’accesso umanitario a tutta la Striscia di Gaza e di proteggere il personale, le ambulanze e le strutture sanitarie in modo che le persone colpite possano ricevere cure tempestive e adeguate, riducendo così la mortalità». E «sottolineano la necessità di iniziative diplomatiche immediate per raggiungere una tregua rapida e duratura e un accordo a lungo termine che comprenda il rilascio degli ostaggi e delle migliaia di civili palestinesi imprigionate da Israele». PER ARRIVARE alla loro stima, Jamaluddine e i suoi colleghi hanno utilizzato tre fonti diverse. La prima è la lista delle vittime identificate con nome e cognome dagli ospedali di Gaza, che ormai funzionano a singhiozzo. La seconda contiene i dati raccolti dal ministero della sanità attraverso un questionario online a cui le autorità di Gaza hanno invitato tutta la popolazione a partecipare. La terza è rappresentata dai necrologi e da altri messaggi relativi alle vittime diffusi su social media e siti specializzati. Si tratta evidentemente di liste parziali e che contengono moltissime sovrapposizioni. Rimuovere i doppioni ha richiesto mesi di lavoro e ha condotto a un elenco di circa 30mila vittime identificate. MA OGNUNA delle tre fonti è incompleta e una vittima può rimanere fuori da tutti e tre i conteggi. Tenendo conto anche di questa possibilità – e applicando metodi diversi per una maggiore affidabilità – il team dell’istituto londinese è giunto alla risultato di 64mila morti. È il metodo capture–recapture «già impiegato per calcolare la mortalità in zone di conflitto armato come Kosovo, Colombia e Sudan». Lo studio di The Lancet suddivide le vittime anche per genere e fascia di età. Donne, bambini e anziani rappresentano quasi il 60% dei morti, e circa il 38% di loro sono donne, colpite indiscriminatamente dalle armi israeliane. Infatti, mentre la fascia d’età più colpita tra i maschi è compresa tra i 15 e i 45 anni (quella dominante tra i militanti più direttamente impegnati nel conflitti), bambine, donne e anziane hanno pagato lo stesso tributo di sangue: sintomo che le operazioni israeliane colpiscono nel mucchio pur usando le tecnologie militari più sofisticate. «Sia la scala che la distribuzione di genere e per età delle vittime – scrivono gli autori della ricerca – sollevano gravi preoccupazioni sulla condotta delle operazioni militari a Gaza, nonostante Israele affermi di minimizzare le perdite civili». LO STUDIO mostrerebbe che nei primi nove mesi la guerra ha ucciso il 3% degli abitanti di Gaza. Se si somma la percentuale degli abitanti che hanno lasciato la Striscia o sono detenuti, nel complesso l’enclave ha perso il 6% della sua popolazione pre-bellica. ANCHE l’accuratezza di questo studio non taciterà la battaglia intorno ai numeri. Tuttavia, gli inviti a non prendere per buone le cifre fornite dai sanitari di Gaza sono arrivate finora soprattutto dagli alleati di Israele, mentre i militari di Tel Aviv che conoscono meglio la realtà sul campo non hanno mai contestato l’affidabilità di questi numeri. Nel futuro, il conto esatto dei morti diventerà però sempre più difficile per il progressivo disfacimento del sistema sanitario della Striscia. IERI LA ONG Medici Senza Frontiere ha lanciato l’allarme: altri tre degli ospedali ancora attivi (Nasser, Al Aqsa e European Hospital) sono prossimi alla chiusura per mancanza di carburante necessario per i generatori. «Nel dicembre 2024 – spiegano i portavoce della ong – sono entrati in media al giorno a Gaza solo 59 camion con rifornimenti vitali», invece dei 500 dell’era pre-7 ottobre 2023.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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Tiziano è libero!
Tiziano è tornato in libertà. Il Tribunale di Roma ha infatti deciso oggi, martedì 10 dicembre, di condannare a due anni, con pena sospesa, il compagno marchigiano arrestato a Roma lo scorso 5 ottobre – durante la manifestazione nazionale per la Palestina e il Libano – con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Dopo ben due rinvii, il processo – che si è svolto con rito abbreviato – si è quindi chiuso con una sentenza che vede riconosciute a Tiziano le attenuanti generiche, cosa che ha permesso la revoca dei domiciliari e una notevole riduzione di pena rispetto a quella chiesta dal PM, ovvero di 3 anni e 4 mesi. Resta il foglio di via di un anno. “È una vittoria a metà” – ha commentato Tiziano ai nostri microfoni all’uscita dal Tribunale, mentre raggiungeva il presidio solidale chiamato come ormai consuetudine in concomitanza dell’udienza – “probabilmente faremo appello per cercare di andare verso l’assoluzione, ma vedremo, ora voglio solo ringraziare tutte e tutti per la grande solidarietà dimostrata”. I commenti a caldo di Tiziano e Yasmine, compagna di Tiziano che dal 5 ottobre anima e supporta le diverse iniziative solidali per la sua liberazione. Ascolta o scarica   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Milano: due carabinieri indagati per falso, frode processuale e depistaggio per la morte di Ramy Elgaml
La Procura ha iscritto nel registro degli indagati almeno due carabinieri nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Ramy Elgaml, il 19enne deceduto durante un inseguimento avvenuto il 24 novembre scorso. Ai militari vengono contestati, a vario titolo, i reati di falso, frode processuale e depistaggio. Il giovane si trovava a bordo di uno scooter guidato dal 22enne Fares Bouzidi, tamponato dai carabinieri al termine di una fuga durata circa 8 chilometri. Il carabiniere che si trovava alla guida dell’auto è già indagato per omicidio stradale, così come Bouzidi. Nel mirino degli inquirenti è finito anche il verbale d’arresto per resistenza a pubblico ufficiale nei confronti di Bouzidi, in cui non si farebbe alcun riferimento all’impatto tra l’auto dei carabinieri e lo scooter. Inoltre, si indaga per depistaggio, legato alla presunta cancellazione di alcuni video dello schianto in viale Ripamonti, girati da un testimone e successivamente denunciati dallo stesso giovane alla trasmissione Le Iene. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuto Marco Romagnoli, uno dei legali di Fares Bouzidi, per commentare gli sviluppi della vicenda Ascolta o scarica     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Sardegna: sgomberato il presidio “la rivolta degli ulivi”
Sgombero di polizia in corso questa mattina (20 novembre) a Selargius, nel Cagliaritano, del presidio permanente “La rivolta degli ulivi” sorto per contestare il cavidotto elettrico “Tyrrhenian Link” tra Sardegna e Sicilia. Da mesi un gruppo di attivisti protesta contro gli espropri e in difesa degli ulivi che sorgono nell’area dove Terna s.p.a. vuole invece costruire la futura stazione di conversione elettrica legata al progetto dei cavi sottomarini tra le due isole. Dal presidio “La Rivolta degli ulivi” Radio Onda d’Urto ha sentito Robi Ladu Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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