di Frank Cimini* Tortura europea. Per i giudici europei il carcere duro è
compatibile con lo stato di salute del detenuto, il deterioramento delle sue
condizioni è stato attribuito al …
Tag - Uncategorized
Dopo lo sciopero generale per la Palestina del 22 settembre 2025 Il diritto di
manifestare, di dissentire, di schierarsi di fronte a un genocidio in corso non
può e non …
di Eliana Riva* I tank israeliani avanzano insieme alle carneficine, i raid
spengono internet I palestinesi colpiti per strada dai droni, 98 uccisi in un
solo giorno Tutto è diventato …
Pubblicata la sentenza d’appello contro i due ufficiali imputati per il
“naufragio dei bambini”. L’11 ottobre 2013 morirono oltre 260 persone, 60 i
minori. I reati sono prescritti, ma il secondo grado conferma le responsabilità.
di Giansandro Merli da il manifesto «L’impostazione giuridica seguita dagli
appellanti (…) appare gravemente viziata da una prospettiva per così […]
Decine di avvisi di fine indagine per le/gli attiviste/i bolognesi scese/i in
piazza contro l’offensiva israeliana su Gaza: ma “la repressione non ci ferma,
il silenzio è complice”, è la risposta delle realtà cittadine che ieri hanno
parlato sotto al Nettuno e issato i colori palestinesi sul simbolo della città.
da Zic.it La bandiere palestinese […]
Nel quartiere Esquilino di Roma un uomo, senza fissa dimora, è stato fermato,
picchiato, preso a calci e pugni e posto in stato di fermo dai carabinieri con
l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Il giorno precedente in
un’operazione del comune erano state requisite e buttate coperte e materassi dei
senza fissa dimora del quartiere
«Nacol stava facendo pipì dietro un albero quando due carabinieri lo hanno
afferrato e strattonato, lui si è divincolato e di risposta ha ricevuto un pugno
in testa, è stato scaraventato a terra e un carabiniere gli ha dato un calcio.
Poi lo hanno caricato violentemente all’interno di una volante». A raccontare i
fatti è Tommaso Monni, attivista di Spin Time Labs, che ha assistito
direttamente alla scena avvenuta ieri mattina a Roma, in via Statilia. Il
protagonista è un uomo senza fissa dimora, di età avanzata, che staziona
abitualmente nella zona. «Nacol è un signore con evidenti difficoltà, la maggior
parte del tempo è non verbale, ma non è assolutamente violento. Le azioni dei
carabinieri mi hanno fatto molta paura», spiega ancora Monni, che ha costruito
un rapporto privilegiato con l’uomo insieme ad altri attivisti dello spazio
sociale.
I PRESENTI hanno registrato la scena chiedendo alle forze dell’ordine dove
avrebbero portato Nacol, «ma abbiamo ricevuto solo risposte aggressive che ci
intimavano di smettere di riprendere e di allontanarci, accusandoci di star
intralciando la giustizia», racconta l’attivista. Dopo l’arresto i presenti sono
rimasti sul posto, e hanno chiesto informazioni ad un’altra volante dei
carabinieri su quanto sarebbe accaduto all’uomo.«Ci hanno detto che oggi andrà a
processo in direttissima per resistenza a pubblico ufficiale, una ragazza è
andata alla caserma di Piazza Dante ma non le hanno voluto dire nient’altro».
L’operazione si inserisce all’interno di un più ampio quadro di «bonifica
anti-clochard» del territorio: il giorno precedente, in tutto il quadrante
Esquilino, sono stati requisiti e gettati tutti i materassi e le coperte
appartenenti ai senza fissa dimora della zona. Monni, che ha divulgato
l’accaduto, ha contattato la Sala Operativa Sociale del comune di Roma chiedendo
che venissero distribuite nuove coperte e denunciando l’evento. «Mi hanno
risposto che avrebbero monitorato e che la requisizione rientrava in
un’operazione pubblica».
LA SALA OPERATIVA non ha però confermato al Manifesto che fosse coinvolto il
comune. In un’operazione simile, avvenuta qualche mese fa a viale Pretoriano,
erano intervenuti Ama e Polizia municipale. «La soluzione al fenomeno dei senza
fissa dimora non è buttare via le loro coperte, e soprattutto non riguarda il
decoro cittadino ma la sicurezza sociale. Bisognerebbe fornire soluzioni
abitative concrete, non esasperare la marginalità», conclude l’attivista. (fonte
il manifesto)
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
La Wbo Italcables festeggia dieci anni come cooperativa. L’azienda che produce
cavi d’acciaio era fallita ma l’hanno rimessa in piedi i lavoratori, all’inizio
rinunciando a metà stipendio. In un luogo che è diventato il simbolo delle
politiche securitarie del governo Meloni, una storia di riscatto reso possibile
dalla solidarietà
di Luciana Cimino da il manifesto
Ha appena festeggiato i dieci anni. Il 23 aprile del 2015 la Wbo Italcables di
Caivano si è costituita in cooperativa di lavoratori, rilevando la fabbrica
siderurgica in fallimento. Wbo sta per infatti per workers buyout e cioè
dipendenti che impegnano i propri risparmi per salvare l’azienda in cui
lavorano. Mentre Italcables si legge come è scritto perché «negli anni ‘60 il
fondatore non conosceva la pronuncia corretta in inglese», raccontano oggi gli
operai.
Il decennale non è la sola data che festeggiano con le loro famiglie: c’è
l’anniversario della prima bobina lavorata, «il 19 settembre, a San Gennaro e
non è un caso, abbiamo comprato lo spumante al centro commerciale qui vicino –
racconta Gaetano Esposito – un momento che ancora mi commuove». C’è anche la
data che ricorda «la copertura della cicatrice». Racconta Luigi Posillipo, che
oggi guida il reparto manutenzione, «la macchina principale, al centro dello
stabilimento, era stata venduta e per noi i solchi sul pavimento che aveva
lasciato rappresentavano una cicatrice.
Dovevamo ricomprarla e metterla nello stesso posto: è stato un traguardo
simbolico». E poi il giorno in cui sono tornati a lavorare tutti per l’intera
settimana lavorativa. «Non abbiamo fatto alcuna selezione tra i lavoratori –
spiega Matteo Potenzieri, presidente della cooperativa – anche se i primi tempi
non c’era lavoro per tutti. Una volta partiti con il contratto di solidarietà
abbiamo fatto un accordo interno: lavoriamo meno per lavorare tutti.
Abbiamo cominciato con tre giorni a settimana, tagliandoci lo stipendio, poi
siamo passati a quattro e ci sembrava già una conquista». Il segno che
finalmente potevano tirare un sospiro di sollievo e, guardandosi indietro, dirsi
che ne era valsa la pena. La scommessa era di quelle ad alto rischio, «se il
progetto fosse andato male non si saremmo potuti tornare in mobilità, anzi, se
non fosse rimasto in piedi almeno due anni avremmo dovuto restituire il prestito
– spiega il presidente – ci stavamo giocando tutto, anche l’assegno per vivere».
La crisi della Italcables, che produce cavi d’acciaio per cemento armato e
trefoli per l’Alta velocità, non era di prodotto ma finanziaria. Le commesse
c’erano, l’azienda era stabile e con i conti in ordine, ma non immune alla crisi
del 2008. Lo stabilimento siderurgico era stato realizzato dalla Redaelli Tecna
a Napoli a inizio ‘900, Gianluca Naldi ha cominciato a lavorare lì a fine anni
70 e oggi è la memoria storica dello stabilimento. E non c’è memoria campana che
non si riferisca in qualche modo alla convivenza con il Vesuvio e con i
terremoti. «Dopo quello del 23 novembre 1980 che fece danni importanti alla
fabbrica, l’azienda decise di trasferirsi su questo terreno, che ora fa parte
del distretto industriale di Caivano». A giugno 2008 la Radaelli viene assorbita
dalla Companhia Previdente, società portoghese proprietaria anche l’Italcables
di Brescia. La materia prima che usa, l’acciaio ad alto tenore di carbonio, è
costosissima, per acquistarla servono scorte monetarie adeguate che, quando
arriva la crisi dei crediti, le banche non concedono più, mentre per lo stesso
motivo fallivano i loro fornitori e i loro clienti. «Era la tempesta perfetta»,
spiega Potenzieri. Chiude prima lo stabilimento bresciano, dove resta solo la
sede operativa, poi, nel 2013 anche quello di Caivano va in liquidazione.
«Quell’anno ogni giorno sotto il ministero per l’Industria c’erano
manifestazioni con centinaia e centinaia di lavoratori di grandi fabbriche a
rischio chiusura, noi eravamo solo 60, chi ci avrebbe ascoltati?». Decidono
comunque di presidiare la fabbrica giorno e notte per «evitare che qualcuno
rubasse o danneggiasse le macchine e per non dare l’idea ai possibili acquirenti
di uno stabilimento in abbandono», spiegano i lavoratori della cooperativa.
Tuttavia le aziende interessate all’acquisto non si palesano: «Chi voleva solo
terreno, chi solo i macchinari, si prospettava una vendita a pezzettini e
abbiamo capito che non sarebbe arrivato nessun cavaliere bianco a salvarci»,
racconta ancora il presidente. Potenzieri frequenta la sede dell’Azione
cattolica, lì viene a conoscenza delle cooperative dei lavoratori e della
Legacoop che le aiuta a nascere. Condivide lo spunto solo con pochi colleghi
(«non volevamo illudere tutti per una cosa che neanche sapevamo fosse
possibile»), poi cominciano «a fare assemblee con chi ci stava – ricorda Luigi –
siamo partiti in 67 portando solo una piccola sintesi del progetto, poi man mano
abbiamo cominciato a costruirlo insieme».
Alla fine del percorso erano 51: qualcuno era stato assunto altrove, qualcuno
aveva maturato la pensione, «qualcuno non se l’è sentita, era una decisione
difficile che coinvolgeva le famiglie». «Ci siamo impegnati, abbiamo studiato
tutti a fondo per capire come salvare l’azienda, subendo anche lo stigma di
essere meridionali, ci dicevano che volevamo vivere di assistenzialismo solo
perché avevamo bisogno della proroga della cassa integrazione». Nel 2015, grazie
all’aiuto di Banca Etica e LegaCoop, e alla fine di un lungo percorso con le
istituzioni, accompagnati dai sindacati, riescono a rilevare la fabbrica.
«Quell’anno aspettavo una bambina, è stata una rinascita completa – racconta
Luigi – ma è successo perché eravamo una famiglia e avevamo enorme fiducia nei
compagni che avevano avuto l’idea». Gli uffici li hanno messi nello stabilimento
e non nell’edificio di fronte, «così non c’è separazione, prima davamo il 100
per cento ora il 115 perché abbiamo la responsabilità delle nostre famiglie e di
quelle degli altri». «Quando sono entrata nello stabilimento per la prima volta
ho avuto un colpo di fulmine – dice oggi Anna Ceprano, presidente di Legacoop
Campania- avevano una forte determinazione a riprendersi la dignità del lavoro
che gli era stata tolta e c’era una sinergia straordinaria tra colletti bianchi
e base operaia».
Le palazzine del Parco Verde si scorgono dalla strada per arrivare alla zona
industriale. «È questo il vero modello Caivano – nota Ceprano – quello della
centralità del lavoro, della possibilità di riscatto, non quello della
militarizzazione delle periferie». In questi 10 anni gli operai della Wbo
Italcable non hanno mai smesso di diminuire l’impatto ambientale e migliorare la
qualità del prodotto, «stiamo investendo, l’età avanza e noi speriamo di andare
in pensione, qualcuno dovrà prendere in mano questo stabilimento e andare avanti
per altri 40 anni, speriamo che ci ricordino come persone che qualcosa di buono
per gli altri l’hanno fatta». Nei mesi scorsi Matteo Potenzieri è stato
candidato a Cavaliere del lavoro dai suoi compagni :«Chi più di lui si merita
questo titolo».
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Quante sono, in Italia, le persone morte durante fermi, controlli o altre
operazioni condotte dalle forze dell’ordine?
Al netto dei casi più eclatanti, è difficile dirlo perché, a differenza di altri
paesi europei, in Italia le autorità si sono sempre rifiutate di rendere
disponibili questi dati.
Per provare a far luce sulla situazione, “colmare il vuoto istituzionale sul
tema e favorire un dibattito a proposito degli abusi in divisa”, il giornalista
Luigi Mastrodonato ha ideato Malapolizia, la prima mappatura online dei decessi
occorsi in Italia durante le operazioni condotte delle forze dell’ordine. Una
mappatura, in continuo aggiornamento, che in molti paesi dell’Unione europea è
già realtà, anche in rispetto alle prescrizioni dell’Onu.
“Dal 2000 a oggi sono circa 70 i decessi rilevati – scrive sui propri profili
social Mastrodonato – un numero enorme in confronto alle poche storie diventate
di dominio pubblico, come quelle di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Molti
dei decessi riguardano persone di origine straniera, sintomo del problema già
più volte denunciato anche a livello internazionale della profilazione razziale
delle forze dell’ordine italiane”.
Il progetto – che si basa sull’analisi di articoli di giornale, battaglie legali
e mobilitazioni sociali – coinvolge realtà e associazioni che si occupano da
tempo di abusi in divisa, ma lascia volutamente da parte le morti sospette nelle
carceri, offrendo uno strumento di analisi specifica “proprio mentre aumenta la
stretta repressiva dell’attuale governo”.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Luigi Mastrodonato, giornalista esperto di
carcere e abusi di potere, collaboratore di Internazionale e altre testate,
nonché ideatore di Malapolizia Ascolta o scarica
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Processo Askatasuna. Alle 15.15 è arrivata la sentenza di primo grado: caduta
per tutti 16 gli imputati l’accusa di associazione a delinquere“ perché il fatto
non sussiste”. Condanne invece per le singole condotte e ipotesi: sono 18 su 28
ed alcune molto pesanti.
Il commento a caldo a Radio Onda d’Urto dell’avvocato Claudio Novaro legale
degli imputati e imputate Ascolta o scarica e di Ermelinda del Movimento No
TavAscolta o scarica
seguiranno aggiornamenti
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Émile Pouget ci spiega che, grazie al sabotaggio, il lavoratore dispone di
un’arma di resistenza efficace per tener testa allo sfruttatore
di Marco Sommariva*
È da fine anno scorso che, spesso, mi torna in mente una mia vecchia lettura: Il
sabotaggio di Émile Pouget.
Per sabotaggio s’intende un’azione volta a ostacolare o ritardare la
realizzazione di un progetto o l’effettuazione di un’attività; è un termine che
risale alla rivoluzione industriale, a quando i tessitori licenziati
danneggiavano i telai a vapore, gettando negli ingranaggi i loro zoccoli di
legno, i sabot, appunto.
La lettura mi è tornata in mente quando, per esempio, il 20 dicembre dello
scorso anno ho letto su L’indipendente che il nuovo Ddl Sicurezza 1660 che il
governo italiano aveva fatto approvare alla Camera, restringeva “il diritto a
manifestare e a esprimersi pacificamente”; oppure quando, lo scorso gennaio, il
Fatto Quotidiano titolava “Il chiodo, il vento e ora l’ombra del sabotaggio:
tutte le giustificazioni di Salvini e Fs per tre mesi di guasti alla linea e
ritardi dei treni” un pezzo in cui, fra le altre cose, si scriveva che
“Trenitalia rompe gli indugi e presenta un esposto superando a destra qualsiasi
spiegazione fornita finora: orari e tipologie di guasti fanno pensare
a circostanze altamente sospette”; oppure quando, giorni fa, la rivista Jacobin
parlava della mobilitazione di lavoratori e lavoratrici che, il 17 marzo scorso,
“hanno organizzato il loro primo sciopero nazionale, particolarmente riuscito.
Una lotta atipica, non si vedono molti dipendenti delle catene librarie scendere
in piazza contro l’azienda. Anche perché il settore non è particolarmente in
forma, i libri hanno un andamento fluttuante ma da qualche anno, dopo il Covid,
hanno iniziato a segnare una discesa costante”, uno sciopero nato “per ottenere
1,50 euro di aumento del buono pasto”.
Mi fermo qui ma avrei altri articoli, episodi che, negli ultimi mesi, mi hanno
riportato alla mente lo scritto di Pouget.
Mi fermo qui e vi racconto qualcosa di questo volumetto edito nel 1913 – Il
sabotaggio, appunto – opera di uno dei militanti anarchici più rappresentativi
del movimento operaio francese, colui che per primo definì l’idea di sabotaggio,
un concetto che, sin dal 1897, la Confédération Générale du Travail definirà
“ufficialmente” un metodo di lotta sindacale.
Pouget ci spiega che, grazie al sabotaggio, il lavoratore è in grado di
resistere, non è più alla mercé del capitale, dispone di un’arma di resistenza
efficace per tener testa allo sfruttatore: “Con il “boicottaggio” e il suo
indispensabile complemento, il “sabotaggio”, disponiamo di un’arma di resistenza
efficace che, in attesa del giorno in cui i lavoratori saranno abbastanza forti
da emanciparsi completamente, ci consentirà di tenere testa allo sfruttamento di
cui siamo vittime. I capitalisti lo devono sapere: il lavoratore rispetterà la
macchina solo quando questa sarà diventata per lui un’amica che riduce il
lavoro, anziché essere come oggi la nemica, la ruba-pane, l’ammazza-lavoratori”.
Il militante anarchico ci ricorda che “la minaccia del sabotaggio spesso può
dare risultati altrettanto utili del sabotaggio stesso”, auspica che “il
sabotaggio entri a far parte dell’arsenale delle armi di lotta dei proletari
contro i capitalisti, allo stesso titolo dello sciopero, e che l’orientamento
del movimento sociale abbia sempre più la tendenza all’“azione diretta” degli
individui e una maggiore consapevolezza della loro personalità” e ha una
certezza, quella che “tutto andrebbe a meraviglia nel mondo capitalistico se gli
operai avessero la stessa incoscienza delle macchine di ferro e di acciaio di
cui sono i servi e se, come queste, avessero a mo’ di cuore e di cervello una
semplice caldaia a vapore o una dinamo”.
Pouget riporta un episodio accaduto nel 1908 a Beaford, nell’Indiana (Stati
Uniti), che la dice lunga su come l’essere umano può reagire ai soprusi e alle
ingiustizie, se si mantiene lucido, se non si lascia addomesticare dai media,
anestetizzare dai Social: “[…] un centinaio di operai ai quali avevano appena
comunicato che era stata imposta loro una riduzione di salario che ammontava a
una dozzina di centesimi l’ora. Senza profferire parola, si recarono in una
vicina officina e fecero rifilare i loro badili di due pollici e mezzo.
Dopodiché, se ne tornarono al cantiere e risposero al padrone: A paga ridotta,
badili ridotti!”
Più o meno nello stesso periodo, a Lione “gli addetti ai tram […], per rendere
impossibile la circolazione delle vetture con crumiri come conducenti, colavano
cemento negli scambi delle rotaie”.
Ci sono casi in cui non val la pena ridurre la quantità del prodotto, ma la
qualità: “[…] quelli che lavorano a cottimo, se rallentassero la loro
produzione, sarebbero le prime vittime della loro stessa rivolta passiva, perché
saboterebbero il loro stesso salario. Devono quindi ricorrere ad altri mezzi e
devono preoccuparsi di ridurre la qualità e non la quantità del loro prodotto”.
Se si tace, si resta passivi di fronte a falsificazioni, sofisticazioni,
inganni, menzogne, furti e truffe che costituiscono la trama della società
capitalistica, saremmo complici: “È ben certo […] che tante fortune si sono
costruite solo grazie al silenzio sulle piraterie padronali mantenuto dagli
sfruttati che vi hanno collaborato. Senza il loro mutismo, sarebbe stato
difficile, se non impossibile, per gli sfruttatori condurre in porto i loro
affari; se ci sono riusciti, se la clientela è caduta nelle loro reti, se i loro
profitti sono aumentati a valanga, è grazie al silenzio dei loro salariati”.
È necessaria, quindi, la pratica dell’aprir bocca; ci racconta Émile Pouget:
“[…] alla pratica dell’“aprire bocca” […] hanno deciso di ricorrere gli
impiegati delle società bancarie e della Borsa. In un’assemblea generale […] il
loro sindacato ha deciso di adottare un ordine del giorno in cui si minacciava
che, se i padroni avessero fatto orecchio da mercante di fronte alle
rivendicazioni avanzate, si sarebbe infranto il silenzio professionale,
rivelando al pubblico quanto accadeva in quelle tane di ladri che sono le
società finanziarie”.
Sia chiaro che “il sabotaggio operaio si ispira a princìpi generali e
altruistici: è un mezzo di difesa e di protezione contro le estorsioni
padronali; è l’arma del diseredato che lotta per la propria esistenza e quella
della sua famiglia; mira a migliorare le condizioni sociali delle masse operaie
e a liberarle dallo sfruttamento che le soffoca e schiaccia”.
Non va dimenticata un’altra pratica spesso sottovalutata, che andrebbe attuata
più spesso, l’ostruzionismo: “L’“ostruzionismo” è una tecnica di sabotaggio a
rovescio, consistente nell’applicare scrupolosamente i regolamenti, nello
svolgere ciascuno la mansione assegnatagli con sapiente lentezza e un’attenzione
esagerata”.
Questa azione diretta proclama “il senso e l’orientamento dello sforzo che
compie la classe operaia nell’assalto che essa conduce, senza tregua, contro il
capitalismo” – il virgolettato è un estratto da L’action directe, un testo di
Pouget pubblicato nel 1910.
Anche se, al giorno d’oggi, lasciare tutta questa responsabilità alla sola
classe operaia ha il sapore di un’ingiustizia.
Sempre da L’action directe: “L’azione diretta è un concetto di una tale
chiarezza, di una limpidezza così evidente, che essa si definisce e si spiega
già con la sua enunciazione. Essa significa che la classe operaia, in reazione
costante contro l’ambiente attuale, non si aspetta alcunché dagli uomini, dai
poteri o dalle forze che le sono esterne, ma che essa crea le proprie condizioni
di lotta e trova in se stessa i propri mezzi di azione”.
Giustamente, potrebbe essere che qualcuno si stia domandando cosa c’entra questa
specie di riassunto de Il sabotaggio e quest’ultimi estratti con gli articoli da
me citati a inizio pezzo. Mi credete se vi dico che non ricordo più i corto
circuiti che hanno collegato il tutto? Sarà l’età. Fate vobis.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp