Il recente crimine del governo italiano con la liberazione del boia Almastri
accompagnato a casa sua con un volo di stato fa ricordare i vecchi e orribili
rapporti tra Italia e Libia
di Salvatore Palidda
Come tutti i paesi colonizzatori, l’Italia continua a fare affari sporchi con la
Libia. Massacri di migranti, accaparramento di petrolio, terre rare ecc. Dopo
Gheddafi, l’accordo con i criminali diventati i padroni della loro sicurezza è
sacro per qualsiasi governo italiano, a sbafo di ogni legalità nazionale e
internazionale, inchinandosi persino al boia Almastri.
Il recente crimine del governo italiano con la liberazione del boia Almastri
accompagnato a casa sua con un volo di stato fa ricordare i vecchi e orribili
rapporti tra Italia e Libia.
La colonizzazione italiana della Libia fu l’ultima grande guerra di Mussolini, i
cui crimini di guerra furono insabbiati dagli inglesi e dagli americani e poi,
per molto tempo, dalle autorità italiane, dopo la seconda guerra mondiale. Il
più coraggioso e importante storico delle vicende coloniali italiane, Angelo Del
Boca, fu a lungo bandito perché rivelò crimini di guerra che l’Italia non voleva
riconoscere e pagare.
Fu Berlusconi a stabilire nel 2008 con Gheddafi un trattato “dopo 40 anni di
incomprensioni” … per “Meno immigrati clandestini sulle nostre coste e più
petrolio” e per “Amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”.
Gheddafi fu accolto a Roma con tutti i più grandi onori, offrendogli ampi spazi
per allestire il suo accampamento e quello del suo foltissimo seguito. L’Italia
accettò di risarcire l’ex colonia con cinque miliardi di dollari in vent’anni.
Ricordiamo che l’Italia era contraria all’eliminazione di Gheddafi, ma poi ha
sperimentato ogni sorta di stratagemmi incredibili per mantenere relazioni
privilegiate con la Libia, in dura competizione con la Francia, gli inglesi e
altre potenze neocoloniali.
Fu l’allora ministro dell’Interno Minniti del Partito Democratico (PD,
ex-sinistra) a perseguire nel 2010 l’intesa a tutti i costi con i libici (vedi
anche Carine Fouteau, e anche qui). Con l’opera dell’altro importante dirigente
del PD Violante e di D’Alema, questo partito è diventato il primo referente
politico della lobby militare e di polizia in Italia; oggi Minniti e Violante
sono diventati alti dirigenti della Leonardo, la multinazionale italiana degli
armamenti e anche i nuovi grandi amici della duce Meloni.
Fu Minniti lui ad inviare agenti dei servizi segreti italiani all’hotel Gammarth
di Tunisi (si veda questo video-reportage) per consegnare 10 milioni di dollari
al fratello del criminale (vedi anche un altro reportage di Lorenzo
Cremonesi). Non è un caso che Minniti sia stato definito dal New York Times
“Lord of the spies”. Secondo le testimonianze di alcuni migranti e della
presidente di Medici senza Frontiere, Joanne Liu (cfr. la sua lettera inviata
alle autorità europee), e anche secondo la commissaria europea
Cecilia Malmström, i migranti arrestati da tale milizia erano alla mercé di
rapine, brutalità, torture, schiavitù e violenze sessuali.
I reportage di Lorenzo Cremonesi, dal 2010, sono preziosi (qui un dei primi).
“Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato … si
prestava per lavoretti a ore di ogni tipo, trasportava cassette della frutta,
scaricava camion e aiutava anche nei traslochi … ‘Un poveraccio a cui non
avresti dato un soldo … Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe
diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e
trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi in poliziotto anti-migranti che
tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?’. Sono le parole
di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. Nel caos seguito alla rivoluzione
‘assistita’ dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi, ha prosperato.
…
La Reuters e della Associated Press ha raccontato come Dabbashi sia diventato
collaboratore di primo piano nel progetto del governo italiano per il blocco dei
flussi migratori. Un agente dell’intelligence locale dice ‘ultimamente avrebbe
ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena
collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu,
Fayez Sarraj’. …
Questa è la realtà della Libia. … Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare.
Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna
prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa
che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato
più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito (è quanto asserisce Hussein
Dhwadi, sindaco di Sabratha). … ‘È un mafioso, un bandito, che sino a poche
settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità,
nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato’, dice Basel Algrabli, 36
anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. …
Nel 2014 Al Ammu comanda la «Brigata Anis Dabbashi» e un’altra Brigata, la «48»,
diretta dal fratello più giovane, Mehemmed con la partecipazione dei cugini
Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 hanno il monopolio dei movimenti dei
camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al
porticciolo di Zawiya. … e anche la protezione dei cantieri e terminali di
petrolio e gas a Mellitah: le attività dell’Eni. … Probabilmente è lui che ha i
primi contatti con gli 007 italiani. … che poi si approfondiscono a seguito del
rapimento di 4 tecnici italiani della Bonatti (di cui due assassinati) …
I Dabbashi sono una garanzia. … ‘efficienti nel traffico di esseri umani e tanto
bravi nel bloccarlo. … si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre
coste, un affare milionario. Il loro slogan rivolto ai migranti africani era che
si doveva pagare almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più
certi. … avevano contatti anche con organizzazioni criminali italiane. …
Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. Le storie di
persecuzione, terrore e disperazione non si contano”.
Da dopo la fine di Gheddafi il controllo dei siti della multinazionale italiana
del petrolio ENI è in mano alle bande criminali libiche che gestiscono anche la
tratta dei migranti, hanno pervaso tutto l’apparato statale libico e hanno
stabilito accordi ben pagati con l’Italia.
Nella sua intervista con il Corriere della sera, Minniti afferma: “La Libia è
strategica; è giusto fare accordi. Sul caso Almasri il governo avrebbe dovuto
parlare di sicurezza nazionale”. Ciò perché, secondo lui, si tratta
dell’“incolumità anche fisica di ogni cittadino italiano. Un grande pezzo della
sicurezza nazionale si gioca fuori dalle frontiere nazionali poiché è la base la
più avanzata dei trafficanti. Secondo, vi si gioca una partita energetica
essenziale ». Allude all’interesse dell’Eni che lui -come tante altre figure
istituzionali- considera interesse nazionale al pari della produzione e
esportazione di armi per cui si giustificano le decine di missioni militari
all’estero.
A proposito del caso Almastri, il boia di cui la Corte Internazionale aveva
chiesto l’arresto e che invece il governo italiano ha liberato e accompagnato a
casa sua con un volo di stato, Minniti ha detto: “Sin dall’inizio avrei
utilizzato il tema della sicurezza nazionale: è netto. … » E ha aggiunti : « No,
il caso di Bija non ha niente a che vedere .. Non l’ho mai incontrato”. La
biografia di questo altro trafficante di migranti è assai simile a quella di
Almastri. Nel 2017 fu invitato dall’OIM in Italia, per trattare un accordo
alfine di ‘fermare le migrazioni dalla Libia. Il celebre giornalista
dell’Osservatore romano, Nello Scavo, racconta qui la riunione al cara di Mineo
alla quale Bija aveva partecipato. Malgrado decine di reportage su questo
criminale in tanti importanti media europei, Bija fu presentato in Italia come
“uno dei comandanti della Guardia costiera libica (ibidem). E’ a tale riunione
che i libici chiesero: “Quanto spende il governo italiano per ospitare qui ogni
migrante?” E fecero capire che il “modello del Cara di Mineo poteva essere
esportato in Libia se l’Italia l’avrebbe finanziato risparmiando così soldi e
problemi” (ibidem). E’ il suggerimento che Minniti ha fatto suo e che oggi
Meloni difende a spada tratta con in più la reverenza vergognosa per il boia
Almastri.
Ma, Minniti, con l’aria di grande esperto, afferma “Lo stato non è una ONG” e
quindi attacca chi osa denigrare il governo Meloni. Da notare che il senso dello
stato di mister Minniti include il baratto con le bande criminali che, al pari
delle mafie, rubano, saccheggiano, sabotano, uccidono per imporsi come
protettori, come garanti di una sicurezza che solo loro possono assicurare.
Quindi secondo questa logica lo stato italiano avrebbe dovuto sempre negoziare
con le mafie. Ma Minniti pensa all’interesse dell’ENI e della vendita degli
armamenti di Leonardo, ergo business is business e bisogna farlo passare per
«interesse nazionale» (il neoliberismo del capitalismo assoluto lo impone più
che mai).
Nel suo nuovo reportage, Lorenzo Cremonesi scrive pezzi di biografia del
criminale Almastri che oggi ha il titolo di generale capo della polizia
giudiziaria libica!
Nel 2014 Almasri si fece reclutare nella Rada, la milizia emanazione del fronte
islamico e contribuì a arrestare le truppe del generale Haftar. “La Rada
utilizza Almastri per le operazioni sporche. Lui è un killer, è incaricato di
eliminare gli indesiderati e per far ciò assume sicari e uomini disposti a tutto
reclutati tra i carcerati nelle prigioni che controlla lui stesso”. Le vite di
circa 15.000 carcerati nelle tre prigioni sono alla sua mercé. Nella prigione di
Jedaida ci sono soprattutto dei trafficanti di droga e criminali accusati di
delitti gravi. In quella di Rueni ci sono i migranti africani e arabi dei paesi
vicini (tunisini e egiziani).
Tutte le più alte autorità libiche -scrive Cremonesi- hanno fatto pressione
sull’Italia per ottenere il ritorno rapido di Almasri in Libia. Se l’Italia non
l’avesse fatto ci sarebbe stato un grave rischio immediato per le strutture
dell’Eni, i lavoratori e tutti gli italiani in Libia e l’ambasciata italiana.
L’Italia non aveva alternative e peraltro Turchia, Francia, Egitto e Russia
avrebbero subito potuto dividersi i contratti italo-libici e i cittadini
italiani in Libia sarebbero stati sequestrati per imporre lo scambio con
Almastri. Centinaia di messaggi libici sono apparsi su TikTok e Facebook
dicendo: “Dite a Roma che ha 48 ore per restituirci Almasri, poi attaccheremo
l’Eni … La loro ambasciata sarà distrutta”.
Ecco quindi le vere ragioni che hanno costretto il governo italiano alla grave
operazione di reverenza inaudita per i criminali libici mentre Meloni si
nasconde e sbraita che lei non subisce alcun ricatto.
La sicurezza dell’attuale primo ministro libico Abdul Hamid Dbeibeh e del suo
governo è garantita dagli uomini armati di tre milizie, tra cui quelle
controllate da Almastri. “Le milizie e in particolare la Rada sono veri e propri
stati nello stato. Nessuno può toccarli. Hanno sovranità e autonomia
proporzionali alla loro forza militare e alla debolezza dell’autorità centrale.
Chiunque voglia trattare con la Libia e agire sul suo territorio deve negoziare
con queste milizie”.
Il caso Almastri è ormai diventato un grave caso di abuso di potere da parte del
governo italiano anche a causa di maldestri errori della Corte di giustizia di
Roma, del Ministro Nordio e sicuramente anche del sottosegretario Mantovano, del
ministro Piantedosi e della duce Meloni. Come scrive il magistrato Aniello
Nappi, già consigliere della Corte di cassazione italiana, la CPI ha trasmesso
la richiesta di arresto di Almastri all’Interpol tramite una ‘notifica rossa’,
che legittima l’arresto diretto della polizia giudiziaria. I magistrati romani
commisero quindi un grave errore di diritto rifiutando di convalidare l’arresto
e l’incarcerazione di Almasri. Da parte sua, il Ministro della Giustizia
italiano avrebbe dovuto comunicare di non essere legittimato a intervenire in un
procedimento di competenza esclusiva del Procuratore Generale di Roma, poiché la
legge non gli attribuisce alcuna autorità in materia.
La Corte penale internazionale (CPI) ha pertanto aperto un’indagine nei
confronti del governo italiano per determinare se l’espulsione del funzionario
libico Osama Almasri Najim da parte dell’Italia costituisca un ostacolo alla
giustizia.
Da parte sua, il governo italiano ha respinto l’indagine della CPI, ha messo in
dubbio la condotta della corte internazionale e ha suggerito che la Corte stessa
dovrebbe essere indagata (Meloni imita Trump).
È chiaro che Almastri è senza dubbio un criminale non meno orribile di un
Riina. Un paese che lo libera dall’arresto legittimo e lo accompagna a casa con
un volo di Stato è complice di un boia accusato di omicidio, tortura, stupro,
ecc.
L’atteggiamento di questo governo neofascista italiano non può che ricordare
quello di Mussolini che, dopo l’assassinio del leader socialista Matteotti,
dichiarò davanti al Parlamento di essere stato lui a darne l’ordine.
l’articolo è stato pubblicato in francese su mediapart.fr
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I morti a Gaza sono molti più di quelli ufficiali. «Lancet» alza il totale a
oltre 70mila. Ma sono numeri che non smuovono i governi occidentali. Che
ignorano la Corte penale internazionale
di Andrea Capocci da il manifesto
Il numero di oltre 45mila vittime riportato dal ministero della sanità di Gaza è
una notevole sottostima delle perdite palestinesi causate della guerra di
Israele. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet, a
causa delle difficili condizioni in cui versano le strutture di soccorso della
Striscia il 40% dei morti potrebbe mancare dai registri.
L’analisi, coordinata dalla ricercatrice Zeina Jamaluddine della prestigiosa
London School of Hygiene & Tropical Medicine, calcola che già a giugno del 2024
una ragionevole stima dei morti causati da bombardamenti e raid israeliani è di
64mila vittime, e con buona certezza compresa tra le 55 mila e le 78 mila. Alla
data del 30 giugno, il ministero di Hamas parlava di 38mila vittime, di cui
diecimila non identificate. Cioè, poco più della metà della cifra reale. Oggi,
trascorsi altri sei mesi, i ricercatori ritengono che siano morti sotto le bombe
già più di settantamila palestinesi.
I MESI PEGGIORI sono stati i primi: circa la metà delle vittime sono state
registrate tra ottobre e dicembre 2023, facendo aumentare di ben quattordici
volte il tasso di mortalità nella Striscia rispetto al 2022. «I dati – spiegano
gli autori dello studio – evidenziano la necessità urgente di allargare
l’accesso umanitario a tutta la Striscia di Gaza e di proteggere il personale,
le ambulanze e le strutture sanitarie in modo che le persone colpite possano
ricevere cure tempestive e adeguate, riducendo così la mortalità». E
«sottolineano la necessità di iniziative diplomatiche immediate per raggiungere
una tregua rapida e duratura e un accordo a lungo termine che comprenda il
rilascio degli ostaggi e delle migliaia di civili palestinesi imprigionate da
Israele».
PER ARRIVARE alla loro stima, Jamaluddine e i suoi colleghi hanno utilizzato tre
fonti diverse. La prima è la lista delle vittime identificate con nome e cognome
dagli ospedali di Gaza, che ormai funzionano a singhiozzo. La seconda contiene i
dati raccolti dal ministero della sanità attraverso un questionario online a cui
le autorità di Gaza hanno invitato tutta la popolazione a partecipare. La terza
è rappresentata dai necrologi e da altri messaggi relativi alle vittime diffusi
su social media e siti specializzati. Si tratta evidentemente di liste parziali
e che contengono moltissime sovrapposizioni. Rimuovere i doppioni ha richiesto
mesi di lavoro e ha condotto a un elenco di circa 30mila vittime identificate.
MA OGNUNA delle tre fonti è incompleta e una vittima può rimanere fuori da tutti
e tre i conteggi. Tenendo conto anche di questa possibilità – e applicando
metodi diversi per una maggiore affidabilità – il team dell’istituto londinese è
giunto alla risultato di 64mila morti. È il metodo capture–recapture «già
impiegato per calcolare la mortalità in zone di conflitto armato come Kosovo,
Colombia e Sudan».
Lo studio di The Lancet suddivide le vittime anche per genere e fascia di età.
Donne, bambini e anziani rappresentano quasi il 60% dei morti, e circa il 38% di
loro sono donne, colpite indiscriminatamente dalle armi israeliane. Infatti,
mentre la fascia d’età più colpita tra i maschi è compresa tra i 15 e i 45 anni
(quella dominante tra i militanti più direttamente impegnati nel conflitti),
bambine, donne e anziane hanno pagato lo stesso tributo di sangue: sintomo che
le operazioni israeliane colpiscono nel mucchio pur usando le tecnologie
militari più sofisticate. «Sia la scala che la distribuzione di genere e per età
delle vittime – scrivono gli autori della ricerca – sollevano gravi
preoccupazioni sulla condotta delle operazioni militari a Gaza, nonostante
Israele affermi di minimizzare le perdite civili».
LO STUDIO mostrerebbe che nei primi nove mesi la guerra ha ucciso il 3% degli
abitanti di Gaza. Se si somma la percentuale degli abitanti che hanno lasciato
la Striscia o sono detenuti, nel complesso l’enclave ha perso il 6% della sua
popolazione pre-bellica.
ANCHE l’accuratezza di questo studio non taciterà la battaglia intorno ai
numeri. Tuttavia, gli inviti a non prendere per buone le cifre fornite dai
sanitari di Gaza sono arrivate finora soprattutto dagli alleati di Israele,
mentre i militari di Tel Aviv che conoscono meglio la realtà sul campo non hanno
mai contestato l’affidabilità di questi numeri. Nel futuro, il conto esatto dei
morti diventerà però sempre più difficile per il progressivo disfacimento del
sistema sanitario della Striscia.
IERI LA ONG Medici Senza Frontiere ha lanciato l’allarme: altri tre degli
ospedali ancora attivi (Nasser, Al Aqsa e European Hospital) sono prossimi alla
chiusura per mancanza di carburante necessario per i generatori. «Nel dicembre
2024 – spiegano i portavoce della ong – sono entrati in media al giorno a Gaza
solo 59 camion con rifornimenti vitali», invece dei 500 dell’era pre-7 ottobre
2023.
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Tiziano è tornato in libertà. Il Tribunale di Roma ha infatti deciso oggi,
martedì 10 dicembre, di condannare a due anni, con pena sospesa, il compagno
marchigiano arrestato a Roma lo scorso 5 ottobre – durante la manifestazione
nazionale per la Palestina e il Libano – con l’accusa di resistenza a pubblico
ufficiale.
Dopo ben due rinvii, il processo – che si è svolto con rito abbreviato – si è
quindi chiuso con una sentenza che vede riconosciute a Tiziano le attenuanti
generiche, cosa che ha permesso la revoca dei domiciliari e una notevole
riduzione di pena rispetto a quella chiesta dal PM, ovvero di 3 anni e 4 mesi.
Resta il foglio di via di un anno.
“È una vittoria a metà” – ha commentato Tiziano ai nostri microfoni all’uscita
dal Tribunale, mentre raggiungeva il presidio solidale chiamato come ormai
consuetudine in concomitanza dell’udienza – “probabilmente faremo appello per
cercare di andare verso l’assoluzione, ma vedremo, ora voglio solo ringraziare
tutte e tutti per la grande solidarietà dimostrata”.
I commenti a caldo di Tiziano e Yasmine, compagna di Tiziano che dal 5 ottobre
anima e supporta le diverse iniziative solidali per la sua liberazione. Ascolta
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La Procura ha iscritto nel registro degli indagati almeno due carabinieri
nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Ramy Elgaml, il 19enne deceduto
durante un inseguimento avvenuto il 24 novembre scorso. Ai militari vengono
contestati, a vario titolo, i reati di falso, frode processuale e depistaggio.
Il giovane si trovava a bordo di uno scooter guidato dal 22enne Fares Bouzidi,
tamponato dai carabinieri al termine di una fuga durata circa 8 chilometri.
Il carabiniere che si trovava alla guida dell’auto è già indagato per omicidio
stradale, così come Bouzidi. Nel mirino degli inquirenti è finito anche il
verbale d’arresto per resistenza a pubblico ufficiale nei confronti di Bouzidi,
in cui non si farebbe alcun riferimento all’impatto tra l’auto dei carabinieri e
lo scooter. Inoltre, si indaga per depistaggio, legato alla presunta
cancellazione di alcuni video dello schianto in viale Ripamonti, girati da un
testimone e successivamente denunciati dallo stesso giovane alla trasmissione Le
Iene.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuto Marco Romagnoli, uno dei legali
di Fares Bouzidi, per commentare gli sviluppi della vicenda Ascolta o scarica
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Sgombero di polizia in corso questa mattina (20 novembre) a Selargius, nel
Cagliaritano, del presidio permanente “La rivolta degli ulivi” sorto per
contestare il cavidotto elettrico “Tyrrhenian Link” tra Sardegna e Sicilia. Da
mesi un gruppo di attivisti protesta contro gli espropri e in difesa degli ulivi
che sorgono nell’area dove Terna s.p.a. vuole invece costruire la futura
stazione di conversione elettrica legata al progetto dei cavi sottomarini tra le
due isole.
Dal presidio “La Rivolta degli ulivi” Radio Onda d’Urto ha sentito Robi Ladu
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Christian Raimo insegnante e scrittore, è stato sospeso per tre mesi
dall’insegnamento, con una decurtazione del 50% dello stipendio, per aver
criticato il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara.
Il provvedimento disciplinare dell’Ufficio Scolastico Regionale, è stato preso
per le critiche di Raimo fatte al ministro del governo, in un dibattito pubblico
sulla scuola, alla festa nazionale di Avs.
Le studentesse e studenti del liceo Archimede, dove Raimo insegna, hanno deciso
di mobilitarsi in difesa del professore: All’ingresso dell’istituto affisso uno
striscione con scritto “tre mesi di sospensione per un’opinione“.
In questa vicenda si legge con nitidezza tutta la pericolosità della deriva
politica reazionaria che stiamo vivendo.
> Critica il ministro Valditara, provvedimento disciplinare per Christian Raimo
> La libertà di dissentire è a rischio: solidarietà con Christian Raimo
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Un aspetto rilevante di come la guerra si sia propagata in questi anni non è
solo dato dal numero dei conflitti bellici e dall’aumento dei morti civili con
l’uso di nuove tecnologie e della intelligenza artificiale, a partire dagli anni
novanta è avvenuta una sorta di privatizzazione della guerra con ampio utilizzo
di militari di professione al soldo di multinazionali e singoli stati
di Federico Giusti
Nel corso del tempo, dagli anni novanta in poi, il ricorso a contractors ha
rappresentato una via di uscita per affrontare guerre scomode che in seno ai
singoli paesi avrebbero creato, utilizzando eserciti regolari, una profonda
avversione e per difendere le multinazionali nell’opera di sfruttamento delle
risorse depredate nei paesi sottosviluppati.
Non è casuale l’accrescimento non solo dei profitti dell’industria securitaria
ma anche il diffondersi di sistemi duali nel campo della videosorveglianza dei
quali Israele è tra i principali produttori ed esportatori.
Gli eserciti privati non sono solo un retaggio della storia medievale ma anche
la conferma che l’utilizzo mercantile della violenza istituzionale ha saputo nel
tempo adeguarsi ai diversi contesti storici optando all’occorrenza per
molteplici tipologie belliche.
Si rende necessaria una analisi diffusa delle numerose aziende di mercenari e
dei loro accordi con multinazionali e stati, la esternalizzazione delle funzioni
securitarie ha permesso il progressivo ampliamento delle guerre specie laddove
ad esempio le compagnie marittime si sono avvalse di contractors per
accompagnare navi mercantili nonostante l’Onu vieti espressamente a società
private di intervenire nei conflitti o di essere utilizzati contro altri
governi.
Negli ultimi 40 anni l’agenda neoliberista delle privatizzazioni ha alimentato
il ricorso alla guerra e allo stesso tempo gli Stati hanno risparmiato risorse
economiche salvando la loro residua credibilità con la delega di interventi
militari ad imprese private, esponenti di governo poi, una volta terminati i
loro mandati, sono passati alle dirette dipendenze delle multinazionali
produttrici di sistemi bellici. In altri casi dirigenti di queste società sono
stati chiamati in importanti dicasteri ministeriali
Allo stesso tempo c’è stato un vero e proprio esodo di personale formato e
addestrato, con elevate competenze verso imprese private favorendo la fuga dal
pubblico in cambio di lauti compensi, da qui nasce la volontà dei principali
paesi occidentali di riscrivere il sistema delle regole alimentando il ricorso
strutturale alla guerra, sia la guerra tradizionale che la guerra affidata a
società private
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La procura di Torino non è solita indagare sulle violenze della polizia nelle
piazze e contro i dissenzienti, ma quando è costretta a farlo in seguito a
denunce personali archivia. Ha sempre archiviato. E’ vero mancano i codici
identificativi degli agenti. Ma evidentemente manca anche la volontà, visto il
numero di archiviazioni che da sempre caratterizzano queste inchieste. Le mamme
in piazza per il diritto al dissenso si chiede da quale parte sta la procura
torinese, perché una parte l’ha scelta
Rita Rapisardi da il manifesto
«Il codice identificativo è inutile perché l’identificazione di chi ha commesso
violazioni è sempre avvenuta», così parlava Matteo Piantedosi in un’intervista a
giugno 2023. Ma forse il ministro non sa ciò che avviene in molte delle
richieste di archiviazione riguardanti le violenze in piazza contro i
manifestanti. Facciamo un passo indietro.
È il 5 dicembre 2023, il gruppo studentesco di destra decide di fare
volantinaggio al Campus Einaudi a Torino, sede delle facoltà giuridiche.
Un’azione annunciata, motivo per cui le forze dell’ordine quel giorno si fanno
trovare, a loro difesa, numerose fuori dall’università: tre gruppi da trenta
poliziotti l’uno, trenta carabinieri, più vari agenti della Digos. Centotrenta
persone a fronte di cento studenti che erano accorsi pacificamente. Strada
bloccata, impedimento per studenti e docenti di recarsi nelle aule. Tutto fila
liscio. Gli studenti di destra abbandonano l’università e la tensione sembra
scendere, quando parte una carica forte da parte della polizia. Due docenti,
Alessandra Algostino e Alice Caudurovengono colpite dai manganelli, in testa e
sulle spalle, finiscono in ospedale con sette giorni di prognosi. Con loro
un’altra manifestante di 26 anni con un braccio rotto che per i medici è
guaribile in trenta giorni. Decidono tutte di denunciare lesioni personali e
violenza privata. Ora la Procura chiede l’archiviazione: non è possibile
identificare gli autori delle violenze.
«Mentre mi recavo al campus trovavo uno schieramento di polizia che sbarrava la
via, mi sono resa conto che era per un presidio antifascista e mi sono fermata,
cercando di fare, insieme alla collega Cauduro, intermediazione con la polizia»,
racconta Algostino ricordando gli avvenimenti del 27 ottobre 2023, quando gli
agenti entrarono all’università durante una conferenza del Fuan e volarono
manganellate all’interno dei locali. «Abbiamo parlato con chi dirigeva la
piazza, perché le cose si svolgessero in maniera pacifica. Io e la mia collega
ci siamo messe in mezzo tenendoci per mano, forse ingenuamente, per fare in modo
che non ci fossero cariche. Gli studenti erano dietro di noi». Nelle carte
invece si suppone che le due docenti guidassero gli studenti.
La carica, che nel gergo delle forze dell’ordine è definita azione di
alleggerimento, non è stata ordinata da nessuno, come conferma la procura
stessa. In quel momento la dirigente di piazza stava accompagnando gli studenti
di destra lontano dal Campus. Ma allora di chi è stata l’iniziativa? Della prima
fila degli agenti in antisommossa? Anche questo la procura non lo sa, come non
sa chi ha preso le redini della gestione dopo che la dirigente si è allontanata.
Eppure tra le prove ci sono quattro filmati, diverse ore di registrazione da cui
però non si riesce a capire chi sono i dieci poliziotti in prima fila che hanno
usato i manganelli. Nei video inoltre manca il frame che immortala la
manifestante 26enne colpita al braccio (fratturato, secondo il referto
ospedaliero di quella sera). La carica sarebbe giustificata però, dicono le
carte, forse da calci sferrati dagli studenti. I calci non si vedono nei
filmati, ma secondo le carte, dall’inclinazione dei busti degli studenti.
Per le due docenti la violenza, che quindi c’è, «secondo la richiesta di
archiviazione è motivata in due modi: “L’uso legittimo delle armi” e
“l’adempimento del dovere”. Per la manifestante si tratta al massimo di un
eccesso colposo di uso legittimo delle armi. Motivo per cui chiedono
l’archiviazione», spiega Roberto Brizio, avvocato della professoressa Algostino.
Ma se le due professoresse non sono state indagate, la manifestante lo è,
insieme ad altri 28 studenti antifascisti e un minorenne per resistenza a
pubblico ufficiale: avrebbero tirato dei calci mentre subivano la carica della
polizia. In sintesi, non è possibile risalire ai responsabili delle violenze di
quella sera. E con il ddl sicurezza per queste azioni, docenti e manifestanti
pacifici saranno sempre più criminalizzati.
> Picchiata dalla polizia insieme ai miei studenti
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Questa notte la polizia ha sgomberato lo storico presidio No Tav di San Giuliano
in Val di Susa. Copioso il lancio di lacrimogeni anche ad altezza uomo.
Nonostante la tenacia dei No Tav il presidio è attualmente nelle mani della
polizia.
Corrispondenza di Radio Onda Rossa con un compagno Notav sullo sgombero
violento che c’è stato questa notte del presidio a San Giuliano contro
l’esproprio dei terreni. Ascolta o Scarica
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