Riceviamo e diffondiamo:
Qui in pdf: prepariamoci-impaginato
Tag - Materiali
SORPRESA!
Sono le tre di mattina, il 15 ottobre, quando a Castel D’Azzano, sud di Verona,
decine di carabinieri irrompono in una cascina abitata da due fratelli e una
sorella. Una storia di debiti e pignoramenti. Già espropriati delle loro terre,
ora è la volta della casa. Ma i tre hanno riempito la casa di gas e – come
avevano promesso – fanno saltare tutto. Il boato, le fiamme, il crollo.
Risultato, tre carabinieri morti e una trentina feriti. Anche la sorella rimane
gravemente ferita. Tutti e tre vengono arrestati. Titoloni: «La più grande
strage di carabinieri dai tempi di Nassiriya in Iraq».
Franco Ramponi era nato nel 1960, Dino nel 1962, Maria Luisa nel 1965. Sentite
cosa ne dicono i giornali, non importa quali, sono tutti così: «Erano venuti giù
dalla montagna ed erano strani. Come i loro genitori». «I campi da coltivare, le
mucche da mungere all’alba. Finiva lì il mondo di questi fratelli, ancora più
uniti dopo la morte del padre e della madre». «“Una vita grama”, ripetono qui.
Chi vive a Castel D’Azzano addirittura sostiene che nemmeno andassero a fare la
spesa, Franco, Dino e Maria Luisa». «Non si erano mai rivolti al Comune per
chiedere aiuto, – racconta la sindaca del borgo, – e dopo l’eventuale sgombero
avevamo proposto di assisterli in prima ospitalità in un hotel o un B&B. Hanno
rifiutato tutto». Questo il tono dei commentatori: «Uno spaccato di vita
contadina sopravvissuto alla modernità e che ha portato a questa tragedia». «Un
attaccamento alla casa e alla terra che era diventato un’ossessione, una
patologia, fino a portarli a questo gesto estremo». Avete sentito bene,
difendere la propria casa e la propria terra sarebbe una “patologia” agli occhi
del giornalista che, immaginiamo, dal suo appartamentino di Milano scende tutti
i giorni a far la spesa. Mentre quei montanari sradicati e sfollati in pianura
“non volevano andare ospiti in un B&B” e “non andavano neanche a fare la
spesa”!!! Eccolo l’atavico disprezzo che il cittadino borghese moderno e
sofisticato cova per il contadino, peggio ancora se montanaro, il rustico rozzo,
ignorante, sporco perché legato alla terra e agli animali. Un disprezzo
antropologico per questi “sopravvissuti alla modernità”, che emerge in tutto il
suo livore quando la rabbia contadina esplode, ma che rimane sottotraccia fino a
quando il burino se ne sta buono e zitto a sgobbare a testa bassa per riempire
gli scaffali dei loro maledetti supermercati o negozietti bio.
I dettagli legali all’origine dei pignoramenti sono poco interessanti, le
ragioni sono sociali, e chi vive in aree montane e rurali sa bene che non sono
niente di eccezionale. Anzi. Famiglie di agricoltori, aziende agricole, piccole
imprese artigianali strozzate dai debiti e ridotte, fin che ce la fanno, a
lavorare per arricchire le banche, è quasi la norma. Questa è la vera tragedia,
oltre al fatto che tre poveracci passeranno – temiamo – il resto dei loro giorni
in galera. L’unica cosa eccezionale è il fatto che questi fratelli hanno avuto
il coraggio, la lucida follia se volete, di resistere a ogni costo, invece di
suicidarsi impiccandosi in garage o lasciandosi morire di psicofarmaci e
televisione (come dovrebbero fare tutti i cittadini onesti e rispettosi della
legge, vero?). E hanno avuto anche la sfrontatezza – questi cafoni – di tener
fede alla parola data: sia al patto di non mollare mai che, a quanto pare,
avevano stretto tra di loro; sia alla promessa fatta pubblicamente durante il
precedente tentativo di sgombero: «Se tornate facciamo saltare tutto». Bum.
Detto fatto. Che sorpresa, neh? Che qualcuno, nella modernità, possa ancora dare
valore alla parola data, evidentemente è qualcosa di incredibile per i nostri
contemporanei (sicuramente lo è, o meglio lo era, per quegli “espertissimi”
carabinieri che sono andati a spiaccicarsi sotto le macerie della cascina). In
questo senso è davvero “uno spaccato di vita contadina sopravvissuto alla
modernità”, perché nel mondo contadino la parola data era sacra. Mentre oggi non
vale più niente, valgono solo distintivi e scartoffie, nella modernità. Quella
modernità che per affermarsi, e portarci dove siamo, ha espropriato, sradicato,
umiliato e disgregato ogni tessuto comunitario, ogni rete di vicinato, ogni
sentimento di umana solidarietà. E che ha lasciato tutti isolati e disarmati
davanti a un potere spietato, implacabile, burocratico, disumano. E che oggi si
sorprende e piange lacrime di coccodrillo quando qualcuno sente di non aver più
nulla da perdere e non prova pietà per quegli eroici servitori dello Stato che
vengono nel buio della notte a sfondargli la porta per portargli via la casa
dopo avergli portato via tutto il resto. Guarda un po’!
’Fanculo. Se c’è qualcosa di sorprendente è che non succeda ogni santo giorno.
TABOR, 17 ottobre 2025
Qui in PDF: sorpresa
Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi?
Qui in PDF: Luci da dietro la scena (XXXI)
C’è resistenza e «resistenza»
Sulle pagine del New York Times, «La resistenza in Ucraina si sta
intensificando», mentre «I combattenti di Hamas si nascondono sotto i quartieri
residenziali». «I combattenti ucraini lottano in clandestinità nelle periferie
che conoscono a fondo, usando auto-bombe e trappole esplosive, oltre a omicidi
mirati con le pistole», invece i combattenti di Hamas «nascondono le loro armi
in tunnel lunghi chilometri, e nelle case, nelle moschee e nei divani». Sulle
pagine del Times, entrambe le resistenze si stanno «mescolando alla popolazione
locale», «confondendo il confine tra civili e combattenti». Il giornale
dichiara: «operando in questa maniera, Hamas è responsabile di tanti morti tra i
civili, secondo la legge internazionale». Ma lo stesso giornale si compiace
quando il rapporto di Amnesty International, in cui si accusano i militari
ucraini di violare le leggi internazionali e di mettere a rischio le vite dei
civili perché agiscono negli ospedali, nei quartieri residenziali e nelle
scuole, «è stato accolto da una condanna diffusa e quasi universale».
Se leggi il Times, finisci per concludere che gli ucraini vanno in guerra nella
giungla di cemento perché, a differenza dei palestinesi, «hanno sempre meno
scelta quando si tratta di posizionare i loro soldati». L’Ucraina «si sta
difendendo dall’esercito russo che ha una potenza di fuoco largamente maggiore».
Ma «le tattiche di Hamas [in uno dei posti più densamente popolati della terra]
spiegano perché Israele è stato costretto a colpire così tante infrastrutture
civili, uccidere così tanti palestinesi e incarcerare così tanti civili».
La resistenza, nella mente occidentale, è un concetto mutante. Mentre la
resistenza ucraina è elogiata per le sue tattiche di guerriglia, la resistenza
palestinese – definita «terrorismo» – è sconcertante, perversa e patologica. I
media istituzionali non insistono su queste caratteristiche perché sussistono
differenze fondamentali nel modo in cui entrambe le resistenze esercitano
violenza. Né questo atteggiamento dipende interamente dal colore della pelle
degli ucraini: basta considerare l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) per
vedere che la pelle bianca da sola non è un biglietto vincente, per lo meno non
in una guerra contro il colonialismo britannico.
Piuttosto, i media utilizzano toni diversi perché sono a servizio degli
interessi strategici dell’Occidente. Mentre il regime colonialista
d’insediamento di Israele è l’alleato più importante degli Stati Uniti in Medio
Oriente, e praticamente una branca dell’Europa per proteggere l’imperialismo
occidentale, la Russia rappresenta una minaccia «esistenziale» per l’Occidente.
Perciò, non è certo una sorpresa che i giornali di proprietà delle classi
dominanti, e da esse manovrati, delegittimano la ribellione palestinese nelle
stesse pagine in cui celebrano quella degli ucraini. Per sostenere il progetto
sionista in Palestina, per proteggere le imprese militaristiche e capitalistiche
dell’impero nella regione, il combattente per la libertà palestinese deve
cadere. E di conseguenza, gli stenografi dell’impero normalizzano la
deumanizzazione dei palestinesi e demonizzano la loro resistenza. Quanti
palestinesi sono stati uccisi proprio da quelle stesse forze e istituzioni che
esigono «neutralità» e «imparzialità» da loro per poterne asserire
l’«innocenza»? In un modo o nell’altro, siamo tutti terroristi agli occhi dei
giornali più letti.
[…] Se vuoi umanizzare il palestinese, devi renderlo innocuo: ecco qual è il
problema.
[…] Quando l’esercito di occupazione israeliana ha ucciso il quindicenne Adam
Ayyad nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme, le domande sono state: Ha
lanciato veramente una bomba molotov contro i soldati? Non è risaputo che gli
israeliani inventano storie del genere? Quando invece avrebbero dovuto essere:
Perché ci sono truppe israeliane a Betlemme, tanto per cominciare? Perché Adam
Ayyad è nato in un campo profughi? Perché c’è “molotov” nel titolo di un
articolo sui soldati che uccidono un ragazzino? E allora, se lancia una bomba
molotov? Chi non lo farebbe?
[…] L’invenzione del civile come figura “imparziale”, “neutrale” ha esacerbato
la depoliticizzazione della causa palestinese. Essere ritenuto un civile
significa esistere in una dimensione mitologica in cui siamo senza prospettiva.
La nostra causa, così com’è immaginata in questa mitologia, non è più percepita
come una lotta di liberazione, ma come una “crisi umanitaria”, in cui i
rivoluzionari non sono parte integrante della nostra nazione, motivati da
aspirazione politica e sogni di emancipazione. Vengono invece interpretati come
banditi che senza motivo causano scompiglio e lasciano sgomenti i passanti
indifesi: le donne e i bambini disinteressati, i paramedici e i giornalisti
imparziali.
Se questo è un bambino
Nel momento esatto in cui il palestinese esce dall’utero, viene privato
dell’infanzia – scaraventato via dall’infanzia da un «macchinario che esiste
sempre e ovunque» e trattato come uno zero buono a nulla e, allo stesso tempo,
come una pericolosa bomba a orologeria. Il palestinese è privato dell’infanzia
la prima volta che parla con suo zio dietro il vetro divisorio della prigione, o
chiede a sua zia perché vivono sotto i tetti in lamiera, o cerca di decifrare
che cosa è stato cancellato dalle insegne delle vie. O quando abbraccia suo
padre accanto a un blocco di cemento, dicendo a se stesso che le esplosioni che
sente sono soltanto fuochi d’artificio. O quando gioca a calcio sulla spiaggia.
Da qualche parte, lungo la stessa linea, il bambino palestinese s’imbatterà
nell’espressione «bambino ucciso illegalmente», usato per descrivere i suoi
coetanei ammazzati; un professore di Yale scriverà un articolo sull’Atlatic su
come «sia possibile ammazzare legalmente i bambini». E il cecchino eseguirà gli
ordini.
La palestinese è privata dell’infanzia la prima volta che supera un checkpoint e
sente la mano pesante di un estraneo sotto la sua camicetta, la prima volta che
si siede accanto al banco vuoto della sua compagna di classe. O quando prende
l’autobus per tornare a casa e guarda fuori dal finestrino e vede un’altra
studentessa in una pozza di sangue. Viene esiliata dalla sua infanzia la prima
volta che chiede perché sulla foto di sua madre c’è un nastro nero, o perché i
vicini piangono quando si congratulano con lei. La prima volta che lancia i
sassi su un mare di divise verde militare o imbeve uno straccio prima di
cacciarlo in un collo di bottiglia, o quando sente il bozzolo d’acciaio che
diventa una farfalla dentro il suo ginocchio [riferimento alle “pallottole a
farfalla” progettate per espandersi nel corpo al momento dell’impatto]. La prima
volta che un ragazzino palestinese sente la botta del martelletto del giudice, o
l’acciaio freddo sui polsi minuti, è costretto a diventare adulto. Osserva il
suo riflesso in una pozza di sputi; scopre di avere già i capelli grigi. Cresce
sotto la luna del neon, diventa grande nella sala degli interrogatori.
Siamo davvero tutti palestinesi? *
Noi, a migliaia e a milioni, mentre protestiamo in coro per le strade di New
York e Londra? Mi faccio questa domanda in modo incessante, con ossessione. Due
anni fa, avrei detto, dichiarato addirittura, che il cemento delle barriere
israeliane è proprio questo, cemento, e ha soltanto un peso simbolico. I loro
confini coloniali, per quanto ci provino, non recidono, e non potranno recidere
i legami sociali e nazionali che tengono insieme le nostre città isolate. I
nostri documenti diversi – documenti di viaggio, passaporti, lasciapassare o la
mancanza di questi – sono soltanto parole su una pagina, incapaci di dividerci.
Quelli che sono dispersi dietro i muri e il filo spinato, avrei detto, possono
comunque unirsi nei loro cuori. Eppure, io cammino per queste metropoli,
protestando – c’è repressione, ma ancora niente lacrimogeni – e Omar è in cella
in una prigione dell’Occupazione, in cui almeno sessanta prigionieri politici
palestinesi sono stati martirizzati dal 7 ottobre. A Khan Yunis, uomini in tuta
da ginnastica vengono uccisi con colmi di arma da fuoco al petto, alla testa,
nel coraggio della loro ultima azione, sia che stiano correndo verso un Merkava
corazzato [carro armato usato esclusivamente dall’esercito israeliano] o verso
una relativa sicurezza. Nel campo profughi di Shatila a Beirut, un nonno vive e
muore tormentato dalle visioni della sua vecchia casa sulla spiaggia, un ricordo
così viscerale che quasi riusciva a sentire il profumo del mare. A Gerusalemme,
mi preoccupo della casa della mia famiglia, di mio fratello che fa il pendolare
per andare al lavoro e dei poliziotti con il grilletto facile. Altri posti
potrebbero essere altri pianeti, ognuno con le proprie principali cause di
morte.
Nel Naqab i beduini palestinesi vengono sradicati e rimpiazzati da alberi di
pino tedeschi. A Silwan, le forze di occupazione demoliscono case per realizzare
una fantasia biblica. A Sheikh Jarrah, la pulizia etnica viene mascherata da
«disputa immobiliare». A Beita, i coloni costruiscono avamposti in cima alle
colline, i soldati assieme a loro. A Masafer Yatta, un giudice della Corte
Suprema israeliana – lui stesso un colono della Cisgiordania occupata – delibera
di espellere alcune migliaia di palestinesi dalle loro terre ancestrali, che
abitano e coltivano da generazioni. Di tutti i beni saccheggiati, la terra
rimane – senza ombra di dubbio – il più prezioso.
[…]
Per i palestinesi, la Nakba è implacabile e ricorrente. Succede al presente – e
succede ovunque sulla mappa. Non un solo angolo della nostra geografia viene
risparmiato, non una generazione sin dagli anni Quaranta. Per la mia famiglia,
la Nakba è stata l’esperienza di mia nonna, espulsa da Haifa dall’Haganah [«La
Difesa», organizzazione paramilitare sionista creata durante il mandato
britannico e poi integrata nell’IDF] nel 1948 – ma anche i suoi racconti che mi
avvisavano di quello che sarebbe stato inevitabilmente il mio destino quando i
coloni con l’accento di Brooklyn, protetti dall’esercito israeliano, hanno
occupato metà della mia casa a Sheikh Jarrah nel 2009, dichiarandola loro
proprietà per diritto divino. Per altre famiglie, la Nakba è cominciata quando
un’amata nonna è stata espulsa da Giaffa e ha cercato rifugio a Gaza, dove la
Nakba continua nel rombo degli aerei militari che sganciamo bombe sui campi
profughi sovraffollati, facendo conoscere ai suoi nipoti la loro prima (o forse
terza o sesta) guerra. Ci sono le facce di quei nipoti sui poster che non sono
ancora stati stampati.
[…] Una volta, riuscivo a separarmi con facilità dalle classi che a lungo ho
disprezzato, le élite, i borghesi, e quelle per cui la Palestina è una metafora
estetica. Ma una nuova classe è emersa nell’inferno angusto della Striscia di
Gaza: gli affamati e i reietti, cacciati più volte, senza fine, in maniera
implacabile, ed è impossibile essere qualcosa di più di uno spettatore
impotente, impossibile appartenere a quella classe, non senza lividi, non senza
sacrificio.
È una tentazione, quasi una consolazione, in particolare quando guardo il cibo
sulla mia tavola e il tetto sopra la mia testa, concedersi la colpa, ma è un
sentimento improduttivo: non dà vita alle rivoluzioni. […]
In questi giorni sono tormentato da un ritornello meno vistoso, ma più mortale,
una consapevolezza non voluta: Gaza ha il diritto di dimenticarci, di non
perdonarci mai, di sputarci in faccia. Quante guerre ha subìto? Quanti martiri
ha dato? Quanti corpi le sono stati rubati, strappati dall’abbraccio dei loro
padri? E quanti di noi balbettano quando ci viene chiesto della resistenza, o
quanti di noi rinnegano il nostro diritto a resistere, il nostro bisogno di
resistere?
Dal 7 ottobre, molti personaggi pubblici, molti di loro palestinesi, soprattutto
in Occidente, hanno riconsiderato, addirittura rinnegato, la catarsi che hanno
provato vedendo le immagini delle “ruspe palestinesi” che abbattevano pezzi del
muro israeliano di filo spinato che circonda Gaza. (Ho messo “ruspe palestinesi”
tra virgolette perché è una frase incredibile). Molti si sono pentiti di aver
festeggiato i deltaplani a motore che sfuggivano dal loro campo di
concentramento.
[…]
Lo slogan Siamo tutti palestinesi deve abbandonare la metafora e manifestarsi
materialmente. Significa che tutti noi – palestinesi e non palestinesi –
dobbiamo incarnare la condizione palestinese, la condizione di resistenza e
rifiuto, nelle vite che conduciamo e nelle compagnie che frequentiamo. Significa
che respingiamo la nostra complicità in questo bagno di sangue e la nostra
inerzia davanti a tutto quel sangue. Significa che Gaza non può stare da sola
nel sacrificio.
* Non ho alcun problema con il canto di protesta in sé; penso che sia piuttosto
bello.
Una nuova alba
Il sionismo, al di là della facciata della superpotenza impenetrabile che
afferma di essere, oggi è più vulnerabile che mai. E non lo dico ingenuamente:
non chiedo di glissare sulle capacità del nostro nemico o sul potere degli
imperi e dei mercenari che lo sostengono. Né chiedo di banalizzare il peso
schiacciante di centinaia di migliaia di martiri o di rendere glamour gli uomini
che affrontano i carri armati in tuta da ginnastica gravandoli con un peso
maggiore di quello che riescono a gestire. I combattenti per la libertà sanno
che il loro avversario è Golia, che le probabilità giocano a loro sfavore, che
non hanno scelta se non prendere la pietra. Ma questa è una nuova alba. Tramite
un’analisi approfondita – guardando i media di stato, ascoltando la narrazione
globale che sta cambiando, assistendo al rinascimento dei movimenti radicali,
persino leggendo le scritte nei bagni degli aeroporti – scopriamo che questa è
una nuova alba. Il sionismo può restare un avversario formidabile, ma è anche
una bestia tremante, una bestia che sta invecchiando, accecata dal suo stesso
significato, per quanto sia imprevedibile. A volte ti piomba addosso e affonda
le zanne nella tua carne. Altre volte, non è altro che una tigre di carta.
E questa scoperta non soltanto infrange il mito dell’invincibilità coloniale, ma
ci ricorda che la libertà è ottenibile, che il futuro è alla nostra portata. In
mezzo alle incessanti incursioni aeree e al caos delle città demolite, potrebbe
sembrare fatuo concentrare l’attenzione sul gelsomino in fiore. Ma ci meritiamo
di guardare ogni cosa, di cercare ogni cosa. Vedere il quadro con tutti i
particolari. Per quanto sia mortale e infida e inarrestabile, la Nakba non
durerà in eterno. Il mondo sta cambiando, perché deve cambiare. Se i semi sono
in grado di germogliare all’inferno, così fa la rivoluzione.
Non è teocrazia: è il sospiro della creatura oppressa
Al telefono, mia madre mi dice, la pioggia sta arrivando e Dio è onnipotente.
(Brani tratti da Mohammed El-Kurd, Vittime perfette e la politica del
gradimento, Fandango, Roma, 2025)
Pubblichiamo la raccolta di alcuni testi scritti dal carcere come contributo al
dibattito per la l’iniziativa “Incarcerati in un mondo in guerra”, tenutasi al
Terreno Notav di Trento il 27 e 28 settembre:
PDF scaricabile: Opuscolo incarcerati contributi
Riceviamo e diffondiamo questa nuova versione aggiornata dell’opuscolo da
battaglia che segue la vicenda processuale di Anan, Alì e Mansour:
opuscolo anan 1 copia 2_senza foto
Riceviamo e diffondiamo con solidarietà e complicità:
Care compagne e cari compagni,
il giorno 30 /09 si terrà presso il tribunale di Brescia una delle
udienze del processo contro il compagno anarchico Juan Sorroche,
accusato di attentato con finalità di terrorismo per l’azione
rivoluzionaria alla Polgai di Brescia. In questa occasione Juan leggerà
una sua dichiarazione.
Già precedentemente condannato per altri reati come un attacco contro la
sede della Lega a Treviso ed uno contro il Tribunale di sorveglianza di
Trento, ora si trova con un definitivo di 28 anni da scontare con due
processi ancora da chiudere, uno quello di Brescia ed uno più recente
per 270 bis notificato dalla procura di Trento.
Riteniamo necessario rinnovare oggi la solidarietà a questo compagno che
si trova a sostenere una lunga pena e concretizzarla con un percorso di
sostegno solidale internazionalista, come lo sono l’analisi sociale e la lotta
che caratterizza l’anarchismo.
Per rendere concreto il nostro appoggio a Juan vogliamo intanto proporre a
tutti/e i/le compagni/e di sottoscrivere il manifesto di solidarietà in
allegato, invitarvi alle iniziative in suo sostegno per l’udienza del 30
settembre e, quando sapremo la data, per l’udienza della sentenza, e ad
esprimere solidarietà con le pratiche che riterrete opportune nei vostri
territori o nel mondo intero, in particolare nelle settimane a venire, da qui
alla sentenza.
Le pratiche di cui è accusato Juan sono le pratiche dell’anarchismo:
salutiamo con gioia le azioni di liberazione di cui lui è accusato, facendo
nostra la lotta.
Palestina libera! Juan libero! Tutte e tutti libere/i!
Per chi volesse sottoscrivere e ricevere copie del manifesto l’indirizzo mail a
cui scrivere è
edera@canaglie.net
Qui il manifesto in pdf: Nostra patria manif.
Riceviamo e diffondiamo:
Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Torniamo in piazza contro il rinnovo
del 41 bis ad Alfredo Cospito!
Da maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel
regime detentivo di 41 bis. Il carcere duro che prevede una socialità
estremamente ristretta, la censura permanente sulla posta e svariati divieti per
l’accesso ai libri. Colloqui previsti rigorosamente per familiari autorizzati,
separati da un vetro divisorio. Un’area di passeggio volta a limitarti lo
sguardo con mura alte fino al cielo e una rete come soffitto. Una pressione
costante dello Stato sul detenuto, i suoi familiari, i suoi avvocati. Un
messaggio unico per tutti coloro che sono costretti a orbitare intorno a questo
universo: quello che succede al 41 bis non può essere comunicato. L’obbiettivo è
distruggere il prigioniero, torturarlo fino al punto di spingerlo alla
collaborazione. Un dogma intoccabile che non viene messo in discussione nemmeno
di fronte alla morte.
Un regime – visto dallo stesso diritto borghese che l’ha creato come
un’eccezione a sé stesso – il cui rinnovo deve per forza essere avallato dal
Ministro della cosiddetta “Grazia e Giustizia”, con decreto motivato in cui si
giustifica la sua proroga. Questo iter amministrativo, suonerebbe come una buona
notizia considerando che il preposto a tale dicastero è Carlo Nordio. Un uomo
affetto da una sbadataggine cronica, preda di amnesie folgoranti che lo portano
a rimpatriare in terra d’origine, con voli di Stato, noti torturatori come il
generale libico Almasri, dimentico, improvvisamente, dei mandati d’arresto
pendenti su di lui da parte di corti internazionali.
Purtroppo la patologia di cui è affetto il ministro risulta oggettivamente
selettiva e colpisce solo quando qualche potente ha qualcosa da perdere. Quindi,
per le sorti detentive del compagno Alfredo Cospito, c’è poco da sperare nella
malattia di Nordio. D’altronde Alfredo non è ricercato per reati di
pluriomicidio su persone in condizione di minorata difesa (detenuti nelle
carceri che il generale amministrava, reclusi principalmente per aver tentato
clandestinamente la fuga dagli orrori e dalla miseria dei luoghi d’origine), non
è accusato di sevizie e stupri, praticati con maggior sadismo su prigionieri
accusati d’ateismo od omosessualità, finalizzati all’estorsione, non è capo di
bande di miliziani al soldo di potere e denaro. Soprattutto, non è accusato di
aver fatto questo e altro al servizio dell’imperialismo italiano, internando e
torturando i rifugiati in nostra vece e combattendo la propria parte di guerra
civile per le fazioni sponsorizzate dal nostro Paese e dall’Eni.
Alfredo è, invece, un anarchico che crede, come credono gli anarchici, che un
po’ di giustizia, differente da quella comunemente chiamata legge, si possa
realmente portare in questo mondo dannato, affetto da logiche di predominio. Per
questo ha rivendicato di aver gambizzato, in una splendida mattina di maggio del
2012, uno tra i massimi dirigenti del nucleare in Italia. Alfredo è un anarchico
e come gli anarchici, come la compagna Anna Beniamino, non si fanno piegare da
uno Stato che prima li accusa e poi li condanna con capi d’imputazione
totalmente sproporzionati, come quello di “strage politica”, rimanendo a testa
alta e, seppur sottoposti a un processo farlocco, ribadendo attraverso
dichiarazioni spontanee la vera natura stragista dello Stato italiano.
Alfredo, quindi, non è un leader e non ricopre ruoli apicali. Gli anarchici capi
e gerarchie non ne hanno. È solo un uomo coerente in un mondo nel quale la
coerenza fa paura.
Per questo Alfredo non godrà delle amnesie selettive dei potenti. Per tirarlo
fuori dal 41 bis serve la nostra determinazione.
Riceviamo e diffondiamo:
Solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari nel mondo. Sostegno alle lotte
sociali con la lotta rivoluzionaria. Manifesto sull’operazione “Delivery”
dell’11 settembre
Diffondiamo un manifesto sull’operazione repressiva dell’11 settembre 2025,
goffamente chiamata “Delivery”. L’operazione, imbastita dalla DDAA di Firenze e
condotta dalla DIGOS, ha comportato due arresti e sei perquisizioni domiciliari
nei comuni di Carrara, Montignoso, Pisa e Sarzana. Un compagno e una compagna si
trovano agli arresti domiciliari restrittivi (ossia con divieto di comunicazioni
e visite), in quanto indagati per “atto di terrorismo con ordigni micidiali o
esplosivi” (art. 280 bis c. p.) e altri reati connessi, in riferimento
all’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023 (rivendicata dal
Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio, aderente alla
FAI-FRI). Per quanto riguarda l’operazione di polizia, invitiamo a leggere il
testo “Arresti e perquisizioni tra Pisa e le Alpi Apuane in relazione
all’attacco contro il tribunale di Pisa nel 2023”, a firma Un paio di
perquisiti, e i seguenti comunicati in solidarietà da parte di vari spazi,
circoli e collettivi.
Sotto i file pdf e png: il formato consigliato per la stampa del manifesto è
l’A3, ma è eventualmente possibile riprodurlo anche in A4 a mo’ di volantino:
PDF: solidarieta-sostegno-manif-delivery
Questo il testo del manifesto:
SOLIDARIETÀ CON TUTTI I PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI NEL MONDO
SOSTEGNO ALLE LOTTE SOCIALI CON LA LOTTA RIVOLUZIONARIA
«Lo Stato, compreso quello democratico, è il più grande pericolo per la vita e
la libertà di tutto il vivente. Permette il fiorire del capitalismo garantendo
la stabilità di cui ha bisogno attraverso il sistema punitivo e repressivo.
Tutto e tutti devono sottostare alle sue regole per la difesa del padronato».
Così scriveva il Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio nel
comunicato sull’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023. Un
piccolo ordigno collocato a ridosso di un ingresso secondario del palazzo di
giustizia. Non innescatosi, l’oggetto veniva successivamente disinnescato dalle
forze di polizia. «Non sappiamo se la deflagrazione sia avvenuta, ma ci teniamo
a sottolineare che quest’azione assume un’importanza non da poco: abbiamo
dimostrato che è possibile avvicinarsi ai palazzi del potere e colpire». In
questi casi è il messaggio ciò che conta.
In quei mesi si manifestava impetuoso un intenso movimento di solidarietà
internazionale contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Alfredo Cospito si
trovava a oltre 120 giorni di sciopero della fame. Inquisitori e polizia
giudiziaria erano al lavoro per ottenere l’ergastolo per lui e per sbarazzarsi
nel lungo periodo di tanti altri anarchici. In quel contesto si pone quanto
avvenuto a Pisa.
In una realtà sociale dove ci si strappa le vesti per sostenere che l’unico
orizzonte possibile è quello degli Stati, del capitalismo e dei loro spaventosi
massacri, c’è ancora chi si batte per una lotta radicale contro lo sfruttamento,
per il disfattismo contro le guerre dei padroni, per l’autonomia di pensiero e
d’azione dell’individuo contro la società della subordinazione e coercizione
tecnologica, per l’abbattimento di ogni potere politico ed economico in favore
della libertà integrale di ciascuno.
«La possibilità di confliggere con questo sistema di oppressione e sfruttamento
viene arginata attraverso la prevenzione, tenendo d’occhio e inserendo in un
sistema di reinserimento sociale asfissiante chiunque non si adegui, e
attraverso i tribunali quando il pensiero si fa azione». Cosa fare contro un
nemico che spontaneamente non farà mai alcun passo indietro? Una cosa almeno ci
appare chiara. Non ci facciamo imbrogliare dai sostenitori della non-violenza e
del pacifismo. Gli oppressi sono sempre in stato di legittima difesa e la
violenza rivoluzionaria è necessaria, indispensabile per aprire delle
possibilità di liberazione, prefigurando la vita senza più padroni e tribunali
per cui ci battiamo.
L’11 settembre un’operazione repressiva si è dispiegata tra le Alpi Apuane e
Pisa: sei perquisizioni e due arresti domiciliari restrittivi, senza possibilità
di comunicazioni o visite. La richiesta della procura era della custodia
cautelare in carcere. Siamo al fianco di Luigi e Veronica, indagati e arrestati
per l’azione contro il tribunale di Pisa e già inquisiti in una precedente
operazione della polizia di prevenzione contro un quindicinale anarchico.
Rendiamo disponibile una versione impaginata dell’articolo Dal Metodo Giacarta
al Metodo Gaza, incoraggiandone riproduzione e distribuzione:
Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza pieghevole
Riceviamo e diffondiamo:
altro che eccellenza def lettura