Riceviamo e diffondiamo:
Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Torniamo in piazza contro il rinnovo
del 41 bis ad Alfredo Cospito!
Da maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel
regime detentivo di 41 bis. Il carcere duro che prevede una socialità
estremamente ristretta, la censura permanente sulla posta e svariati divieti per
l’accesso ai libri. Colloqui previsti rigorosamente per familiari autorizzati,
separati da un vetro divisorio. Un’area di passeggio volta a limitarti lo
sguardo con mura alte fino al cielo e una rete come soffitto. Una pressione
costante dello Stato sul detenuto, i suoi familiari, i suoi avvocati. Un
messaggio unico per tutti coloro che sono costretti a orbitare intorno a questo
universo: quello che succede al 41 bis non può essere comunicato. L’obbiettivo è
distruggere il prigioniero, torturarlo fino al punto di spingerlo alla
collaborazione. Un dogma intoccabile che non viene messo in discussione nemmeno
di fronte alla morte.
Un regime – visto dallo stesso diritto borghese che l’ha creato come
un’eccezione a sé stesso – il cui rinnovo deve per forza essere avallato dal
Ministro della cosiddetta “Grazia e Giustizia”, con decreto motivato in cui si
giustifica la sua proroga. Questo iter amministrativo, suonerebbe come una buona
notizia considerando che il preposto a tale dicastero è Carlo Nordio. Un uomo
affetto da una sbadataggine cronica, preda di amnesie folgoranti che lo portano
a rimpatriare in terra d’origine, con voli di Stato, noti torturatori come il
generale libico Almasri, dimentico, improvvisamente, dei mandati d’arresto
pendenti su di lui da parte di corti internazionali.
Purtroppo la patologia di cui è affetto il ministro risulta oggettivamente
selettiva e colpisce solo quando qualche potente ha qualcosa da perdere. Quindi,
per le sorti detentive del compagno Alfredo Cospito, c’è poco da sperare nella
malattia di Nordio. D’altronde Alfredo non è ricercato per reati di
pluriomicidio su persone in condizione di minorata difesa (detenuti nelle
carceri che il generale amministrava, reclusi principalmente per aver tentato
clandestinamente la fuga dagli orrori e dalla miseria dei luoghi d’origine), non
è accusato di sevizie e stupri, praticati con maggior sadismo su prigionieri
accusati d’ateismo od omosessualità, finalizzati all’estorsione, non è capo di
bande di miliziani al soldo di potere e denaro. Soprattutto, non è accusato di
aver fatto questo e altro al servizio dell’imperialismo italiano, internando e
torturando i rifugiati in nostra vece e combattendo la propria parte di guerra
civile per le fazioni sponsorizzate dal nostro Paese e dall’Eni.
Alfredo è, invece, un anarchico che crede, come credono gli anarchici, che un
po’ di giustizia, differente da quella comunemente chiamata legge, si possa
realmente portare in questo mondo dannato, affetto da logiche di predominio. Per
questo ha rivendicato di aver gambizzato, in una splendida mattina di maggio del
2012, uno tra i massimi dirigenti del nucleare in Italia. Alfredo è un anarchico
e come gli anarchici, come la compagna Anna Beniamino, non si fanno piegare da
uno Stato che prima li accusa e poi li condanna con capi d’imputazione
totalmente sproporzionati, come quello di “strage politica”, rimanendo a testa
alta e, seppur sottoposti a un processo farlocco, ribadendo attraverso
dichiarazioni spontanee la vera natura stragista dello Stato italiano.
Alfredo, quindi, non è un leader e non ricopre ruoli apicali. Gli anarchici capi
e gerarchie non ne hanno. È solo un uomo coerente in un mondo nel quale la
coerenza fa paura.
Per questo Alfredo non godrà delle amnesie selettive dei potenti. Per tirarlo
fuori dal 41 bis serve la nostra determinazione.
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Riceviamo e diffondiamo:
Solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari nel mondo. Sostegno alle lotte
sociali con la lotta rivoluzionaria. Manifesto sull’operazione “Delivery”
dell’11 settembre
Diffondiamo un manifesto sull’operazione repressiva dell’11 settembre 2025,
goffamente chiamata “Delivery”. L’operazione, imbastita dalla DDAA di Firenze e
condotta dalla DIGOS, ha comportato due arresti e sei perquisizioni domiciliari
nei comuni di Carrara, Montignoso, Pisa e Sarzana. Un compagno e una compagna si
trovano agli arresti domiciliari restrittivi (ossia con divieto di comunicazioni
e visite), in quanto indagati per “atto di terrorismo con ordigni micidiali o
esplosivi” (art. 280 bis c. p.) e altri reati connessi, in riferimento
all’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023 (rivendicata dal
Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio, aderente alla
FAI-FRI). Per quanto riguarda l’operazione di polizia, invitiamo a leggere il
testo “Arresti e perquisizioni tra Pisa e le Alpi Apuane in relazione
all’attacco contro il tribunale di Pisa nel 2023”, a firma Un paio di
perquisiti, e i seguenti comunicati in solidarietà da parte di vari spazi,
circoli e collettivi.
Sotto i file pdf e png: il formato consigliato per la stampa del manifesto è
l’A3, ma è eventualmente possibile riprodurlo anche in A4 a mo’ di volantino:
PDF: solidarieta-sostegno-manif-delivery
Questo il testo del manifesto:
SOLIDARIETÀ CON TUTTI I PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI NEL MONDO
SOSTEGNO ALLE LOTTE SOCIALI CON LA LOTTA RIVOLUZIONARIA
«Lo Stato, compreso quello democratico, è il più grande pericolo per la vita e
la libertà di tutto il vivente. Permette il fiorire del capitalismo garantendo
la stabilità di cui ha bisogno attraverso il sistema punitivo e repressivo.
Tutto e tutti devono sottostare alle sue regole per la difesa del padronato».
Così scriveva il Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio nel
comunicato sull’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023. Un
piccolo ordigno collocato a ridosso di un ingresso secondario del palazzo di
giustizia. Non innescatosi, l’oggetto veniva successivamente disinnescato dalle
forze di polizia. «Non sappiamo se la deflagrazione sia avvenuta, ma ci teniamo
a sottolineare che quest’azione assume un’importanza non da poco: abbiamo
dimostrato che è possibile avvicinarsi ai palazzi del potere e colpire». In
questi casi è il messaggio ciò che conta.
In quei mesi si manifestava impetuoso un intenso movimento di solidarietà
internazionale contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Alfredo Cospito si
trovava a oltre 120 giorni di sciopero della fame. Inquisitori e polizia
giudiziaria erano al lavoro per ottenere l’ergastolo per lui e per sbarazzarsi
nel lungo periodo di tanti altri anarchici. In quel contesto si pone quanto
avvenuto a Pisa.
In una realtà sociale dove ci si strappa le vesti per sostenere che l’unico
orizzonte possibile è quello degli Stati, del capitalismo e dei loro spaventosi
massacri, c’è ancora chi si batte per una lotta radicale contro lo sfruttamento,
per il disfattismo contro le guerre dei padroni, per l’autonomia di pensiero e
d’azione dell’individuo contro la società della subordinazione e coercizione
tecnologica, per l’abbattimento di ogni potere politico ed economico in favore
della libertà integrale di ciascuno.
«La possibilità di confliggere con questo sistema di oppressione e sfruttamento
viene arginata attraverso la prevenzione, tenendo d’occhio e inserendo in un
sistema di reinserimento sociale asfissiante chiunque non si adegui, e
attraverso i tribunali quando il pensiero si fa azione». Cosa fare contro un
nemico che spontaneamente non farà mai alcun passo indietro? Una cosa almeno ci
appare chiara. Non ci facciamo imbrogliare dai sostenitori della non-violenza e
del pacifismo. Gli oppressi sono sempre in stato di legittima difesa e la
violenza rivoluzionaria è necessaria, indispensabile per aprire delle
possibilità di liberazione, prefigurando la vita senza più padroni e tribunali
per cui ci battiamo.
L’11 settembre un’operazione repressiva si è dispiegata tra le Alpi Apuane e
Pisa: sei perquisizioni e due arresti domiciliari restrittivi, senza possibilità
di comunicazioni o visite. La richiesta della procura era della custodia
cautelare in carcere. Siamo al fianco di Luigi e Veronica, indagati e arrestati
per l’azione contro il tribunale di Pisa e già inquisiti in una precedente
operazione della polizia di prevenzione contro un quindicinale anarchico.
Rendiamo disponibile una versione impaginata dell’articolo Dal Metodo Giacarta
al Metodo Gaza, incoraggiandone riproduzione e distribuzione:
Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza pieghevole
Riceviamo e diffondiamo:
altro che eccellenza def lettura
Qui in pdf: Luci da dietro la scena (XXX)
Luci da dietro la scena (XXX) – Il nodo-guerra e la linea disfattista
Tagliare il nodo
Il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita
civile si calpesta la dignità di coloro che un giorno verranno mandati a morire
per la dignità della nazione, ma che proprio quando la loro vita è così
sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai
più dure che in precedenza. Che cosa sono le offese considerate nei vari paesi
motivi di guerra di fronte a quello che un ufficiale può impunemente infliggere
a un soldato? Può insultarlo, e senza che sia ammessa replica alcuna; può dargli
pedate – un autore di ricordi di guerra non si è forse vantato d’averlo fatto?
Può impartirgli qualunque ordine sotto la minaccia del revolver, compreso quello
di sparare a un compagno. Può infliggergli, a titolo di punizione, le angherie
più meschine. Può quasi tutto, e ogni disobbedienza è punita con la morte o
potrebbe esserlo. Coloro che, nella retrovia, sono ipocritamente celebrati come
eroi, sono in realtà trattati come schiavi. E, tra i soldati sopravvissuti,
quelli poveri, liberati dalla schiavitù militare, ricadono in quella civile,
dove più d’uno è costretto a subire le insolenze di coloro che si sono
arricchiti senza rischi.
L’umiliazione continua e quasi metodica è un fattore essenziale della nostra
organizzazione sociale, in pace come in guerra. Ma in guerra è portato a un
grado più elevato. Se fosse applicato all’interno del proprio paese il principio
in base al quale si dovrebbe respingere l’umiliazione al prezzo della vita
stessa, si sovvertirebbe tutto l’ordine sociale, e, in particolare, la
disciplina indispensabile per portare avanti la guerra. Che qualcuno osi, in
queste condizioni, fare di questo stesso principio una regola della politica
internazionale è veramente il colmo dell’incoscienza. […] Certo, ci sono sempre
state delle guerre; ma l’elemento che caratterizza la nostra epoca è che sono
fatte dagli schiavi. E, per di più, queste guerre in cui gli schiavi sono
mandati a morire in nome di una dignità che non viene mai loro accordata, queste
stesse guerre costituiscono l’ingranaggio essenziale del meccanismo
dell’oppressione. Tutte le volte in cui esaminiamo da vicino e in maniera
concreta i mezzi per diminuire effettivamente l’oppressione e la disuguaglianza,
ci si scontra sempre con la guerra, con le conseguenze della guerra, con le
necessità imposte dalla preparazione alla guerra. Non si scioglierà mai questo
nodo, bisogna tagliarlo.
(da un progetto di articolo scritto da Simone Weil nel marzo 1936)
Circolo vizioso
Viviamo in un’epoca in cui la relativa sicurezza, che un certo dominio tecnico
sulla natura dà agli uomini, è ampiamente controbilanciata dai pericoli di
rovine e massacri che i conflitti tra i gruppi umani provocano. […] I conflitti
più minacciosi hanno un carattere comune che potrebbe rassicurare gli animi
superficiali, ma che, malgrado l’apparenza, ne costituisce il vero pericolo: non
hanno un obiettivo definito.
[…]
La nostra sedicente epoca tecnologica si batte soltanto contro i mulini a vento.
[…]
Così, quando si fa la guerra è per conservare o accrescere i mezzi per farla.
Tutta la politica internazionale ruota attorno a questo circolo vizioso.
Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, 1937
Nella quiete dei magazzini
Ora siamo anche noi una entità maneggiabile, che può magari sopravvivere a lungo
nella quiete dei magazzini, ma in qualunque momento deve aspettarsi di essere
chiamata a contribuire a un riequilibrante massacro.
[…]
Tutto ormai va più in là di qualsiasi previsione, di qualsiasi intenzione,
eppure tutto obbedisce a una sua consequenzialità, lavora sul corpo e sulla
psiche delle vittime, non fa in tempo a impacchettare un’impresa che già si
accinge a nuove confezioni, non lascia finire una guerra senza gettare le basi
dei campi di concentramento che fioriranno nelle successive.
Roberto Calasso, La guerra perpetua (in Karl Kraus, Gli ultimi giorni
dell’umanità, Adelphi, Milano, 1980)
“Viva Menelik!”, “Abbasso Crispi!”, “Via dall’Africa!”
[…] Crispi aveva mandato [nel 1894] contro il movimento contadino dei fasci
siciliani un vero e proprio corpo di spedizione di cinquantamila uomini, e
contro l’agitazione dei cavatori della Lunigiana aveva fatto intervenire
l’esercito, proclamato lo stato d’assedio e affidato ai tribunali militari
l’incarico di riportare l’ordine e di reprimere ogni agitazione sociale.
[…]
L’avventura africana finisce con il disastro di Adua [il 1° marzo 1896,
l’esercito italiano viene pesantemente sconfitto nella città etiope
dall’esercito abissino del negus Menelik]: per Umberto I, che “giocava a fare
l’imperatore”, si tratterà di far rifondere le monete con la corona imperiale
che già aveva fatto coniare dalla zecca. Per Crispi significa dover abbandonare
per sempre il potere.
“Viva Menelik!”, “Abbasso Crispi!”, “Via dall’Africa!” grida, la sera del 3
marzo 1896, una folla eterogenea e fittissima […] ammassata in piazza del Duomo,
sotto la Galleria, in piazza della Scala a Milano, per esprimere lo sdegno
popolare e chiedere le dimissioni del governo e la fine della guerra d’Africa,
dopo la notizia della sconfitta di Adua.
Davanti al municipio il sindaco moderato si affaccia per parlare alla folla, ma
è accolto da bordate di fischi, mentre «volano sassate contro le guardie di
pubblica sicurezza e i soldati inviati in servizio d’ordine vengono abbracciati,
issati sulle spalle e portati in trionfo al grido di “viva l’esercito”, “viva i
nostri fratelli”, frammisto al canto dell’Inno dei Lavoratori».
«Poco dopo la mezzanotte la manifestazione è soffocata e sciolta dalle cariche
brutali della cavalleria: sul terreno rimane un morto, un tipografo di
diciannove anni trapassato da parte a parte da un colpo di baionetta; i feriti
gravi sono sette, ottanta gli arrestati […] Una rabbia cupa, una tensione
preinsurrezionale che [esplode] in manifestazioni di piazza spontanee […] A
Pavia e Cremona migliaia di dimostranti invadono la stazione ferroviaria da dove
sono in partenza contingenti di soldati per l’Africa, occupano i binari, si
stringono intorno alla truppa per impedirne la partenza […]
«Nelle città dell’Emilia e della Romagna sono presi d’assalto i palazzi comunali
e le prefetture per imporre le dimissioni di Crispi […] Nel cuore di Torino, in
piazza Castello, dinanzi al palazzo reale […] il presidente del Consiglio è
bruciato in effigie» [per queste cronache vedi: Umberto Levra, Colpo di Stato
della borghesia, Feltrinelli, Milano, 1975].
Le manifestazioni contro Crispi continuano a Bergamo, Genova, Bologna, Massa e
Carrara, Macerata, Verona, Venezia, Monza, Ferrara, Padova, Pesaro, Fano,
Firenze, Napoli. La popolazione scende nelle strade a chiedere il lutto
nazionale, costringendo alla chiusura teatri, ritrovi, negozi.
A Milano le manifestazioni riprendono il giorno dopo più violente; sono divelti
i binari sul ponte Ticino per impedire la partenza di un contingente di soldati
per l’Africa; a Parma, nel popolare quartiere dell’Oltretorrente compaiono le
barricate.
Circolano voci di indisciplina anche fra le truppe; manifestazioni si sarebbero
avute nelle caserme di Milano; a Napoli molti alpini, in procinto di partire per
le colonie, avrebbero disertato; molti coscritti, di fronte agli ufficiali,
avrebbero gridato: “abbasso il re”.
Crispi non vuole cedere. Da Roma chiede alla magistratura severi provvedimenti e
ordina ai prefetti di prendere accordi con le autorità militari per stroncare la
“rivoluzione”.
Ma il suo governo è divenuto ormai insostenibile. La crisi di un gabinetto non
deve trasformarsi in crisi dell’istituzione. Il re è costretto a intervenire. Le
camere sono chiuse, ma a Crispi vengono imposte le dimissioni prima ancora
dell’apertura delle camere.
[…]
All’esterno, quando vengono annunciate le dimissioni del “dittatore” e del suo
ministero, da una folla di diecimila persone che avevano sostato per ore sotto
la pioggia in piazza Colonna, si levano applausi e grida […].
(brani estratti da Massimo Felisatti, Un delitto di polizia? Morte
dell’anarchico Romeo Frezzi, Bompiani, Milano, 1975)
Dice Ottolenghi
Dice Ottolenghi: “Io preferisco essere ufficiale e non soldato… io voglio avere
in mano una forza con cui agire…”.
– Comandante della 11°: “Contro chi vuole impugnare quelle armi?”.
– Ottolenghi: “Contro tutti i comandi”.
– Comandante della 11°: “E dopo? Aspireresti tu ad essere il comandante
supremo?”.
– Ottolenghi: Io aspiro solo a comandare il fuoco. Il giorno X, alzo battuto,
fuoco a volontà! E vorrei cominciare dal comandante di Divisione, chiunque esso
sia, perché tutti, regolarmente, sono uno peggio dell’altro.
– Comandante della 11°: “E dopo?”.
– Ottolenghi: “Sempre avanti, seguendo la scala gerarchica. Avanti sempre, con
ordine e disciplina. Cioè, avanti per modo di dire, perché i nostri nemici non
sono oltre le nostre trincee. Prima, quindi, dietro front, poi avanti, avanti
sempre”.
– Un sottotenente: “Cioè indietro”.
– Ottolenghi: “Naturalmente. Avanti sempre, avanti, fino a Roma. Là è il
quartier generale nemico”.
– Comandante della 11°: “E dopo?”.
– Ottolenghi: “Ti pare poco. Il governo andrà al popolo”.
– Comandante della 10°: “Se tu farai marciare l’esercito su Roma, credi tu che
l’esercito tedesco e quello austriaco resteranno fermi in trincea? O credi che,
per far piacere al nostro governo del popolo, i tedeschi rientreranno a Berlino
e gli austro-ungarici a Vienna e a Budapest?”.
– Ottolenghi: “A me non interessa conoscere quello che fanno gli altri. A me
basta sapere ciò che io voglio… questa guerra non è altro che una miserabile
strage”.
– Comandante della 10°: “E la tua rivoluzione non è anch’essa una strage? Non è
anch’essa una guerra, la guerra civile?”.
– Ottolenghi: “Nella rivoluzione, io vedo il progresso del popolo e di tutti gli
oppressi. Nella guerra, non vi è nient’altro che strage inutile”.
(tratto da Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino, 1938)
La continuità di una linea
«L’interventismo nel movimento anarchico» ha scritto Pier Carlo Masini «non fu
un fenomeno, non fu una corrente, non fu neppure il tema di un dibattito o il
termine di una scissione, ma solo una serie di sporadici e slegati casi
personali, qualcuno di rilievo, qualcun altro di nessun rilievo». La quasi
compatta opposizione degli anarchici alla guerra ne fece dei protagonisti di
quello che fu chiamato «disfattismo», rendendoli comodi bersagli della
repressione militarista. Molti disertarono, scegliendo l’esilio svizzero o
americano. Molti furono arrestati, processati, internati. […]
Alla formula «neomalthusiana» dei socialisti – «né aderire né sabotare» – gli
anarchici italiani ne avevano opposta un’altra, assai più chiara: «guerra alla
guerra». Né prima né durante il conflitto essi avevano infatti sposato la tesi
della neutralità. Neutri non erano ma ostili a tutti gli stati, a quello in cui
vivevano non meno che agli altri. E per questa ostilità antistatale e
antiborghese, per l’intransigente antibellicismo, per la volontà di trasformare
la guerra tra gli stati in guerra di classe, non avevano potuto riconoscere
tregue o patteggiamenti, né in nome della neutralità né in nome della guerra.
La continuità di questa linea viene ribadita subito dopo la fine del conflitto.
Non si può accantonare la sfiducia nei segreti intrallazzi delle vecchie volpi
della diplomazia militarista e capitalista solo perché si incontrano in nome
della pace. Scrive Volontà riprendendo le pubblicazioni:
Non crediamo al ramoscello d’ulivo agitato sui popoli da coloro che hanno ancora
al fianco una spada insanguinata. Come ieri dicevano «questa guerra non è la
nostra guerra» oggi diciamo: questa pace non è la nostra pace. Se anche sarà
sincera (del che dubitiamo, anzi siamo certi che non sarà), la pace fra i
dominatori e gli sfruttatori dei popoli non sarà la pace dei popoli.
(tratto da Vincenzo Mantovani, Mazurka blu. La strage del Diana, Rusconi,
Milano, 1979)
Nuova pubblicazione: “La Faglia”, numero unico scaricabile
Rendiamo disponibile e liberamente scaricabile il numero unico “La Faglia”
contenente vari articoli tramite i quali si è voluto sviluppare alcune delle
riflessioni affrontate durante gli incontri del circolo del quale siamo parte e
dal quale questo numero prende il nome. La pubblicazione è stata divisa in tre
diverse sezioni:
“Faccia a faccia”, in cui abbiamo dato spazio alle dichiarazioni spontanee rese
in aula il 15 gennaio 2025 durante l’udienza preliminare del processo Sibilla
che ha visto coinvolti, oltre al compagno Alfredo Cospito, alcuni di noi e
conclusosi con il non luogo a procedere; “Contro ogni Stato…” contenente due
testi dedicati a questioni oltreconfine, uno incentrato sulla crisi
economico-politica del sistema tedesco (testo con il quale si è inteso, tra
l’altro, espandere e consolidare una parte degli argomenti discussi in occasione
della due giorni di gennaio 2025 al circolo “A che punto stiamo della notte”) e
uno sulla questione curda in seguito alla smobilitazione e capitolazione del PKK
annunciata e disposta dal leader Abdullah Öcalan; l’ultima sezione “…a partire
dal nostro”, incentrata principalmente su tematiche locali, include, oltre a due
volantini redatti e distribuiti in occasioni differenti, un testo riguardante la
questione sociale nell’epoca del governo Meloni e uno relativo al gasdotto Snam
alla luce dell’odierno orizzonte di guerra.
Le pagine che seguono non sono certo un esercizio di vuoto autocompiacimento.
Men che meno vengono da noi considerate un fine. Costituiscono piuttosto uno
strumento di approfondimento, di agitazione; una fotografia della dura realtà di
questo sciagurato contesto storico plasmato da guerre capitaliste, avvitamenti
repressivi, taglieggi padronali e vessazioni sociali.
Se editare un giornale è sicuramente troppo poco, continuare a usare le nostre
facoltà critiche è premessa quanto meno necessaria, sebbene insufficiente, a
rovesciare un mondo che in ogni ambito somiglia sempre di più a una caserma.
Circolo anarchico “La Faglia”,
Estate 2025
* * *
All’interno:
Introduzione
“Questa è la lebbra che chiamate civiltà”
Dichiarazioni spontanee di Alfredo, Francesco, Michele, Matteo, Sara e Paolo
rese durante l’udienza preliminare del procedimento Sibilla il 15 gennaio a
Perugia
È una forte pioggia quella che cadrà
Stato di salute del sistema Germania e prospettive destabilizzanti
Soluzione politica ricetta curda
[volantino] Il nemico è in casa nostra
Nessuna arma per le guerre della NATO
Guadagnare meno, lavorare tutti
Il segreto del «successo» economico del governo Meloni
[volantino] Votare non serve, non votare non basta!
Il Gasdotto Snam avanza ai ritmi della guerra di posizione
* * *
Contatti:
Indirizzo: Circolo Anarchico “La Faglia”, via Monte Bianco 23, Foligno.
E-mail: circoloanarchicolafaglia@inventati.org
Canale telegram: t.me/circoloanarchicolafaglia
Qui di seguito i file in formato pdf per la stampa e per la lettura: La
Faglia_numero unico_stampaA3
La Faglia_numero unico_lettura
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXIX)
Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima
sicurezza e “genocidio incrementale”
Le due versioni del mega-carcere
Le odierne prigioni assomigliano al Panopticon originariamente concepito da
Jeremy Bentham, il primo filosofo moderno a giustificare la logica della
reclusione all’interno di un nuovo sistema penale coercitivo. Il Panopticon, un
carcere tristemente celebre all’inizio del XIX secolo, era progettato in modo da
consentire alle guardie di osservare i prigionieri ma non viceversa. L’edificio
era circolare, con le celle dei carcerati disposte lungo il perimetro esterno,
mentre al centro del cerchio si trovava una grande torre di osservazione. In
qualsiasi momento le guardie potevano guardare giù nella cella di ciascun
detenuto – e quindi sorvegliarne il comportamento potenzialmente riottoso –,
laddove delle tende accuratamente disposte impedivano ai carcerati di scorgere
le guardie, così che non sapessero se e quando venivano monitorati. La
convinzione di Bentham era che lo “sguardo” del Panopticon avrebbe costretto i
prigionieri a comportarsi in modo virtuoso. Trovandosi come sotto l’occhio
veggente di Dio, essi avrebbero dunque provato vergogna per i loro comportamenti
malvagi.
Sostituiamo alla condotta morale il collaborare con l’occupante, cambiamo la
struttura circolare del Panopticon con una serie di criteri geometrici di
imprigionamento, ed ecco che la decisione israeliana del 1967 appare proprio
quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza. […]
Nel 1967 la rotta ufficiale tracciata da Israele, tra impossibili ambizioni
nazionalistiche e colonialiste, trasformò un milione e mezzo di individui in
detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a
pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a un società
nella sua interezza. Era, ed è tutt’ora, un sistema crudele creato per la più
vile delle ragioni, ma non solo. Nell’edificarla, alcuni architetti cercarono
davvero di ispirarsi a un modello il più umano possibile, probabilmente perché
consapevoli che si trattava di una pena collettiva inflitta per un crimine mai
commesso. Altri, invece, non si curarono nemmeno di concepire una versione più
blanda e umana. Giacché erano presenti queste due linee di pensiero, il governo
offrì alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ambedue le
versioni del mega-carcere. Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon,
l’altra un carcere di massima sicurezza. E se non avesse accettato la prima
versione, le sarebbe stata riservata la seconda. […] La verità è che la prigione
a cielo aperto era già abbastanza dura e disumana da scatenare la resistenza
della popolazione lì rinchiusa, per cui la variante di massima sicurezza veniva
inflitta come rappresaglia a tale resistenza.
[…]
I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari
contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la
rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della
Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da
questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità
era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi dura da oltre
cinquant’anni [il testo è del 2017].
Il partito laburista e la sinistra sionista
La responsabilità di aver ingannato il mondo durante quel decennio [1967-1977]
ricade unicamente sul Partito Laburista (e, al suo interno, anche sul defunto
Shimon Peres che, dopo la sua morte avvenuta nel 2016, è stato acclamato come un
campione di pace). […]
Nel 1969 il movimento laburista, che ancora si chiamava Mapai, attraversò una
fase di ristrutturazione da cui uscì con un nuovo nome: divenne il Ma’arach
(‘Alleanza’). Si trattava infatti di una coalizione formata dal Mapai, il Rafi
(un gruppo parlamentare guidato da David Ben-Gurion) e l’Ahdut HaAvoda, il
partito di Ygal Alon. L’ultimo gruppo a aderirvi fu quello della sinistra
sionista, il Mapam. L’“Alleanza” rimase intatta fino alla sua sconfitta alle
elezioni del 1977 contro il Likud, lo schieramento di Menachem Benin [poi di
Sharon e di Netanyahu].
[…] già nel 1967, al fine di mantenere un controllo strategico sui Territori
Occupati, il governo unificato aveva concordato di stabilire coloni e soldati in
alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A complicare il piano
furono però due circostanze: una delle quali [l’altra è la resistenza
palestinese] fu l’emergere del movimento messianico Gush Emunim, che inviò i
propri seguaci a colonizzare quelli che consideravano antichi siti biblici,
molto spesso proprio in mezzo alla popolazione palestinese della Cisgiordania.
Il governo voleva invece insediare gli ebrei in aree meno densamente abitate dai
palestinesi.
Tra i responsabili politici era presente un numero davvero significativo di
reduci del 1948, i quali credevano di aver riscattato per sempre l’antica Terra
d’Israele nel 1967. In qualità di ministri del governo, essi chiusero un occhio
quando, la notte del 12 aprile 1968, il primo gruppo di coloni ebrei si trasferì
a Hahil, Hebron e in Cisgiordania. Il gruppo si installò al Park Hotel, proprio
nel cuore della città, e poche settimane dopo il governo autorizzò la creazione
della città ebraica di Qiryat Arba, che dominava su Hebron. La comunità
internazionale rimase indifferente mentre, a quanto pare, in quel particolare
frangente storico gli Stati Uniti decisero di inaugurare una nuova e potenziata
fase del proprio rapporto con Israele: vollero infatti dotare lo Stato ebraico
delle armi più avanzate e all’avanguardia in loro possesso (alla fine del 1968,
furono consegnati a Israele cinquanta caccia Phantom).
Il sostegno ai primi coloni da parte del governo laburista, rimasto al potere
fino al 1977, passò del tutto inosservato sotto gli occhi di un mondo che,
cinquant’anni dopo, avrebbe considerato gli insediamenti ebraici il primo
ostacolo alla pace.
Il sindacato
La prigione aperta sembrava funzionare. Da quel momento in poi non ci fu più
bisogno del coinvolgimento diretto del Comitato dei Direttori generali o del
Ministero della Difesa. L’esercito attuava il suo dominio su ogni aspetto della
vita, ma fin dall’inizio fu assistito da altri enti israeliani. Uno di questi
era il sindacato generale, l’Histadrut. Questa organizzazione pre-statale era
già stata molto efficiente nell’estromettere i palestinesi dal mercato del
lavoro mandatario, e ciò a dispetto del fatto che veniva vista dal mondo
occidentale – compreso il movimento sindacale britannico – come un esempio di
organizzazione socialista votata al benessere dei lavoratori. Nel 1967, a
partire dalla seconda settima di giugno [cioè dopo la Guerra dei Sei giorni e
l’inizio dell’occupazione del restante 22% della Palestina storica], l’Histadrut
fu incorporato nel meccanismo di occupazione. Il governo gli concesse il
monopolio del commercio e dell’industria: e sul campo non agì come un sindacato,
ma come un mastodontico complesso industriale.
Il movimento “messianico” dei coloni
Il movimento era già attivo nel 1968, ben prima di essere formalmente
istituzionalizzato nel 1974 da Kook, il quale gli diede anche il nome di Gush
Emunim (‘Il blocco dei fedeli’). […]
Il primo atto ufficiale del movimento (da distinguere rispetto alle azioni
intraprese dai coloni già presenti a Hebron e Gush Etzion) ebbe luogo alla fine
del 1974. Fu il tentativo di insediarsi nella zona di Nablus, nella vecchia
stazione ferroviaria ottomana di Sebastia, allo scopo di creare due stanziamenti
ancora oggi presenti: Alon Moreh e Qadum. Anche se inizialmente essi vennero
sfrattati, alla fine il governo laburista concesse loro il permesso di restare,
tramite un accordo che suggellava l’integrazione degli sforzi compiuti dal
governo con quelli dei coloni.
Fu così che nel 1974 il movimento dei coloni divenne una lobby ideologica che
influenzava le politiche governative riguardanti la colonizzazione e che godeva
di una presenza sempre maggiore nella Knesset [il parlamento israeliano] e nella
sfera pubblica in generale. Ma se per un verso i coloni erano dei manipolatori,
per l’altro loro stessi venivano manipolati. Erano infatti usati come arma, e
molto spesso come scusa, per giustificare la confisca di terre, e lo Stato
ricorreva a loro come strumento demografico per effettuare una pulizia etnica
con mezzi alternativi.
Il movimento era un comodo canale per implementare quegli aspetti della politica
di colonizzazione ai quali il governo laburista non voleva essere direttamente
associato; specialmente le politiche che contraddicevano apertamente il diritto
e le convenzioni internazionali. Anziché sullo Stato, infatti, la responsabilità
veniva fatta ricadere su presunti gruppi di parte. Perciò, dopo che la
mega-prigione, a prescindere dalla sua versione, fu delineata geograficamente e
attivamente mediante il saccheggio delle terre, venne ulteriormente ristretta e
modellata in forza della mappa delle colonie ebraiche. La vita in prossimità
delle due comunità, quella dei palestinesi occupati e dei coloni, non faceva
altro che accentuare l’immagine di un carcere. Ogni colonia, e ogni blocco di
colonie, era circondato da una recinzione elettrica e da un muro che chiudevano
i coloni al loro interno, ma che combinate tra loro rinchiudevano i palestinesi
in decine di mini-prigioni dentro l’enorme complesso della Cisgiordania e della
Striscia di Gaza.
Il Likud, o dell’indistinzione tra colono e soldato
Il maggiore cambiamento rispetto al decennio precedente [1967-1977] fu la
licenza di agire liberamente che il governo del Likud concesse ai coloni
religiosi più ideologizzati. Dover integrare l’attività più violenta dei coloni
all’interno della struttura generale di controllo non era un aspetto che tutti,
nella burocrazia dell’occupazione, accolsero con favore. Tuttavia, i facinorosi
e i vigilantes presenti tra i coloni, i quali spesso eseguivano azioni punitive
come sradicare alberi, bruciare campi o, in generale, molestare i palestinesi,
venivano tollerate perché la loro attività accresceva ulteriormente il controllo
e la presenza di Israele, specialmente lungo i confini tra le enclavi
palestinesi “pure” e le nuove “aree interdette” a chiunque non fosse ebreo.
Nel 1982, Yitzhak Mordechai, il comandante della regione centrale, decise di
impiegare nella zona di Hebron una compagnia di riserva composta da coloni in
qualità di “unità di difesa regionale”. Anche altrove fu adottato questo
sistema, in cui i coloni venivano usati come soldati nei pressi dei propri
insediamenti, molto spesso con l’autorizzazione a intimidire e compiere ancora
più abusi sulla popolazione locale.
Un piano per Gaza del 1967
Complessivamente, secondo fonti dell’ONU, in quei primi giorni [di giugno del
1967] Israele espulse in totale quasi 180.000 palestinesi. Nel riassumere questo
periodo di pulizia etnica della Palestina, vorrei tornare ad alcuni dei piani
che non furono adottati, o quantomeno a uno che, purtroppo, in futuro potrebbe
ancora avere una certa rilevanza, qualora Israele avesse mai il potere, la
volontà o la necessità di allontanare in massa la popolazione occupata al fine
di soddisfare le sue esigenze strategiche fondamentali. Parliamo dell’idea di
trasferire la gente della Striscia di Gaza, o quantomeno gli esuli che lì
vivono, in Cisgiordania.
Ciò fu discusso seriamente, per la prima volta, nel luglio 1967 da uno dei più
rispettati e alti ufficiali dell’esercito, Mordechai Gur, il quale fu invitato
dal governo [ripetiamo: laburista] a presentare il suo piano. Egli propose di
inglobare i profughi di Gaza a quelli in Cisgiordania:
Dobbiamo creare le condizioni che inducano le persone ad andare via. Dobbiamo
fare pressione su di loro, ma in modo da indurle a non resistere, bensì a
partire. Dovrebbe essere incoraggiati a farlo sia i profughi [del 1948] sia i
residenti in pianta stabile, così che questi sentano che non ci sono speranze
nella Striscia [di Gaza] dal punto di vista agricolo […]. Inoltre, quando
l’UNRWA completerà un nuovo censimento, sarà chiaro che essa non disporrà di
razioni di cibo sufficienti per tutti i rifugiati […] questo potrebbe avere
gravi implicazioni per la sicurezza […] dovremmo bloccare ogni sviluppo laggiù
[in modo da incoraggiare il trasferimento].
La prova generale
Nel 2004 l’esercito israeliano cominciò a costruire una città araba fittizia nel
deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con
strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili.
Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città
fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l’esercito israeliano,
vista la battuta d’arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse
preparare a combattare a sud una “guerra migliore” con Hamas.
Dopo aver visitato il sito all’indomani della guerra in Libano, il capo di stato
maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano
«preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City».
Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak [l’allora presidente di
Israele] assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe
televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra
conquistare la città fittizia, prendendo d’assalto le case vuote e uccidendo
senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano.
[…]
Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i
palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i
responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello
della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuta
essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell’A[utorità]P[alestinese] [il
famoso “Stato palestinese” sul cui riconoscimento i governi europei fanno finta
di litigare] era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia,
neppure la ritorsione per mezzo dell’assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla
arrendere al modello voluto dagli israeliani.
[…]
È così che è avvenuto il fiasco generale israeliano del 2005, trasformatosi poi
in quello che altrove ho definito “genocidio incrementale della Palestina”. Gli
israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima
pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal
cielo.
(brani tratti da Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei
territori occupati, Fazi, Roma, 2022 [ed. originale 2017] )
Riceviamo e diffondiamo questo opuscolo, che raccoglie gli scritti in
solidarietà a imputati e imputate per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano
in solidarietà ad Alfredo Cospito e contro 41-bis ed ergastolo ostativo. Il
primo grado di questo processo si è concluso con pesanti condanne contro 10
compagni e compagne, a cui mandiamo tutta la nostra solidarietà.
Qui l’opuscolo: prova opuscolo 2
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: ristampa di foc al foc goliardo fiaschi una vita per lanarchia
È disponibile la ristampa del libro “Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per
l’anarchia”
Alberto [Josep Lluís Facerías] era un grande e valido organizzatore, nelle
riunioni ci diceva che portare avanti un campeggio era come portare avanti un
paese, quindi il buon funzionamento dello stesso poteva rappresentare una prova
che noi anarchici, un giorno, saremmo stati in grado di gestire nel miglior modo
possibile una città. Sicché dovevamo occuparci con attenzione del rifornimento e
della distribuzione dei viveri, curare l’igiene in tutti i suoi aspetti,
organizzare e programmare le varie conferenze di propaganda, le esposizioni di
manifesti e le mostre fotografiche, gli spazi dedicati ai libri ed alle riviste,
i concerti di musica. Tutti i compagni dovevano svolgere dei turni di lavoro in
ogni settore del campeggio, in modo che ognuno potesse impratichirsi un po’ su
tutto, così da non rimanere sempre impiegato in un solo tipo di attività. Fu una
grandissima esperienza!
Di soldi, per organizzare al meglio tutte queste attività, ne servivano molti,
ma nel nostro movimento non ne giravano un granché. Sì, c’era sempre la cassetta
per le sottoscrizioni, ma la maggior parte delle volte rimaneva vuota. E senza
mezzi, i campeggi o i giornali e gli opuscoli di propaganda non si potevano
fare. Quindi, Alberto doveva, assieme a compagni di volta in volta diversi, fare
necessariamente dei prelievi nelle banche, nelle oreficerie o in altre attività
commerciali. Erano azioni di esproprio e di autofinanziamento indispensabili al
buon funzionamento delle varie attività e iniziative anarchiche. A Carrara, ma
anche altrove, alcuni compagni, soprattutto quelli più anziani, avevano una
mentalità un po’ particolare. Se venivi arrestato per aver rubato qualcosa,
diventavi una vergogna per l’onorabilità del movimento. È un reato comune,
dicevano, non ha niente a che vedere con la politica. E quindi ti veniva a
mancare la loro solidarietà, e a poco a poco anche altri “compagni” cominciavano
a mollarti: «Sono azioni da ladri comuni! L’anarchia non c’entra nulla con
queste cose…». E invece c’entrava eccome!
È finalmente disponibile la ristampa dell’unica edizione di Fòc al fòc! Goliardo
Fiaschi: una vita per l’anarchia, di Gino Vatteroni, editata nel 2012 dal
Circolo Culturale Anarchico di Carrara, intitolato proprio a Gogliardo Fiaschi
dopo la sua morte avvenuta il 29 luglio 2000. La ristampa, limitata a 100 copie
e identica all’edizione pubblicata 13 anni fa, è disponibile in distribuzione
presso il circolo in via Ulivi 8/B a Carrara o è richiedibile in spedizione
rivolgendosi all’indirizzo e-mail circolofiaschi@canaglie.org.
Ne abbiamo deciso la ristampa, oltre che per rendere nuovamente disponibile un
libro da tempo esaurito, anche perché quest’anno ricorrono i cinquant’anni
dall’apertura del circolo, avvenuta nel 1975 grazie all’impegno di numerosi
compagni anarchici, tra cui Gogliardo.
Così come resta testardamente immutata la nostra esigenza di libertà integrale,
così continua l’attività di distribuzione di testi e pubblicazioni che alla
realizzazione possibile di questa libertà intendono contribuire.
Carrara, luglio 2025
Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi”
* * *
Gino Vatteroni
Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia
Edizione curata dal Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” e stampata
presso la Cooperativa Tipolitografica, Carrara, 2012.
368 pp., nota introduttiva di G. Vatteroni, prefazione di M. Guastini.
Edito in proprio senza contributi di Stato o di qualsiasi istituzione.
Ristampa identica alla prima edizione, Carrara, 2025.
Per richieste rivolgersi all’indirizzo e-mail: circolofiaschi@canaglie.org
Prezzo di copertina: 20,00 euro.
Per la distribuzione (ordini di almeno cinque copie):
40% di sconto sul prezzo di copertina (12,00 euro a copia).
Tutte le entrate dal libro andranno a sostegno delle attività e delle iniziative
del Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi”.
Indice:
Nota introduttiva, p. 5
Prefazione, p. 7
Prologo – Ricordi d’infanzia, p. 11
1 – Adolescenza partigiana, p. 16
2 – Le stragi dei nazifascisti, p. 35
3 – Ricordi su Giovanni Mariga, p. 39
4 – Il passaggio del fronte, p. 44
5 – Partigiano nel modenese, p. 51
6 – Ritorno a Carrara, p. 65
7 – Il dopoguerra, p. 70
8 – Con la Spagna nel cuore, p. 100
9 – Villanova Monferrato, p. 129
10 – In Francia, p. 149
11 – In Spagna, p. 159
12 – In carcere a Barcellona, p. 178
13 – Guadalajara, p. 207
14 – Da Alcalà de Henares a Gijon, da Cuellar a Teruel, passando per Madrid, p.
228
15 – Alicante, p. 237
16 – Burgos, passando per Guijuelo, Carabanchel e Avila, p. 245
17 – Logroño, di nuovo Burgos e l’estradizione in Italia, p. 263
18 – Da Genova a Porto Azzurro, passando per Casale e Firenze, p. 270
19 – Da Fossombrone a Spoleto, da Viterbo a Parma, fino a giungere a Lucca, p.
287
20 – Da Pisa a Lecce, passando per Massa, p. 314
Epilogo – Di nuovo a Carrara, p. 333
Appendice, p. 337
Riceviamo e diffondiamo:
È disponibile il numero 1 di “Senza”, pagine anarchiche (luglio 2025)
Segnaliamo l’uscita della nuova pubblicazione “Senza”, un foglio di quattro
pagine di cui riportiamo di seguito il sommario e il testo di presentazione.
In questo numero:
— Radici
— Contro la guerra dei padroni, per la guerra sociale
— Il salto (indietro). Non la massima distruzione, ma il minimo danno
— La nostra fiamma che non si spegne
Per richieste di copie rivolgersi all’e-mail: senza@logorroici.org
Stampato in proprio, fine luglio 2025. Il foglio naturalmente è senza prezzo,
tuttavia per quanto riguarda l’invio di copie in distribuzione (almeno 10 copie)
viene richiesto un minimo di contributo anzitutto a sostegno delle spese di
spedizione.
* * *
Radici
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
Alejandra Pizarnik
Per sua natura un pezzo di carta come questo non può essere una spinta di
coraggio. Nonostante ciò, può pur sempre avere l’ambizione di diventare uno
strumento che rifletta, che dia spazio agli slanci rivoluzionari esistenti oggi:
uno strumento che possa (contribuire ad) accendere, a ravvivare quella fiamma
oggi sempre più flebile a causa di quella lebbra che chiamate civiltà.
Con la fine dell’epoca delle mediazioni e dei riformismi, gli Stati e il
capitalismo hanno dichiarato una guerra aperta – per il momento perlopiù a senso
unico – contro gli sfruttati, gli esclusi; allo stesso tempo tanti segnali
positivi e incoraggianti si manifestano sul terreno della rivolta. È ambizione
di questo foglio riuscire ad amplificare (a suo modo e nei limiti esistenti)
questi fatti, non tanto per un bisogno di “controinformazione” bensì per darci
uno strumento di agitazione.
Crediamo di trovarci in un momento di attenuazione della pace sociale: al netto
dell’intensificarsi dell’attacco padronale, in questi anni stanno emergendo
anche delle risposte da parte degli esclusi. Manifestazioni di insubordinazione
e di resistenza spesse volte embrionali e contraddittorie secondo i canoni e le
“convenzioni” cui siamo abituati, che però rendono appieno la cifra di
quest’epoca dove, quantomeno a partire dagli anni del Covid-19, è evidente un
cambio di passo nell’incalzare degli eventi.
Rinchiusi nella tana della nostra eterna disillusione, amareggiati dallo
scoramento generalizzato, incupiti per esserci arenati nelle sabbie mobili del
disincanto, eccoci qui, apparentemente nella condizione di non poter fare altro
che appellarci alla volontà. Come a dire: se le idee per sconvolgere questo
mondo non ci sono mai mancate, ciò che oggi manca sono la volontà e il coraggio
– quindi la necessaria coerenza – di essere questo sconvolgimento. Tuttavia di
esortazioni come questa, di appelli alle buone intenzioni (o forse sarebbe
meglio dire allo scatenamento delle cattive passioni) ne sono piene le fosse.
Se le condizioni oggettive ci sono tutte, è la disponibilità soggettiva a
mancare enormemente. Può un pezzo di carta come questo, nel contesto appena
delineato a grandi linee, contribuire a maturare questa disponibilità? Certo, un
foglio redatto da anarchici è pur sempre un insieme di pagine, imbrattato di
inchiostro. Esaltarne un’inesistente funzione di grimaldello nel terreno dello
scontro sociale e di classe sarebbe una ben misera operazione. Tuttavia
l’anarchismo non può prescindere dalla critica sociale, e questo è sicuramente
un primo scopo di pagine come queste. Non un luogo di sedimentazione della
teoria, o di illustrazione di una deliziosa condizione ideale di un mondo senza
padroni e poliziotti, bensì uno strumento di propaganda anarchica come occasione
di riflessione, suggerimento di lotta, coinvolgimento nell’azione.
Riteniamo occorra oggi più che mai scardinare ogni autocompiaciuto avvitamento
su sé stessi. In quanto anarchici non ci riteniamo qualcosa di più, non siamo
portatori di una radicale alterità rispetto agli altri proletari. È semmai il
connubio teorico-pratico dell’anarchismo, quindi la capacità propulsiva
dell’azione, a prefigurare con i fatti quest’alterità. Non ci riteniamo
depositari del verbo della violenza così come altri sono depositari del verbo
del pacifismo. Non ci è mai bastata – o non ci basta più – la strenua
rivendicazione della giustezza della violenza rivoluzionaria contro lo Stato e
il capitale. Sottolineare l’importanza dell’azione, ribadirne la capacità
discriminante, non basta a tirarci fuori dalle secche della mancanza di
prospettive. Ecco allora che, più che affermare il valore di determinati mezzi e
strumenti, è essenziale per noi oggi suggerire l’importanza del metodo, perché
non crediamo che darsi degli atteggiamenti o dei vestiti nuovi ci possa
consentire di raggiungere ciò che invece ci può dare l’impiego dei metodi di
sempre.
Cauti nei riguardi delle novità teoriche e scettici nei confronti dei
fabbricanti di queste novità, restiamo fautori di un metodo, quello anarchico e
rivoluzionario, con cui intervenire nella realtà sociale e nello scontro di
classe. Perché le classi – così come i padroni – esistono ancora e la concezione
anarchica della lotta di classe non può essere messa sotto il tappeto. Lo
diciamo chiaramente: diffidiamo di quanti tentano di presentare il concetto di
classe come una sorta di manipolazione teorica di estrazione marxista.
Negli ultimi decenni, ovunque in tutto il mondo, le più recenti generazioni
approcciatesi alla lotta fanno propria una concezione libertaria della lotta
stessa e della vita, anche se con un moto dell’animo per certi versi
comprensibile – ma non condivisibile – non fanno propri i caratteri e i concetti
dell’anarchismo. Non riteniamo sia nostro compito “capitalizzare” in termini
quantitativi questa tensione, bensì coglierne i caratteri qualitativi nella
direzione di uno sviluppo dello scontro sociale in senso antiautoritario. Parole
altisonanti? Forse. In ogni caso, proprio nella direzione di uno sviluppo in
questo senso, e in critica alle sempreverdi sirene della resa e della
desistenza, riteniamo non sia affatto anacronistico perseverare nel considerare
discriminanti l’attacco, la conflittualità permanente, l’autorganizzazione della
lotta.
Non abbiamo scordato che l’anarchismo è per sua natura rivoluzionario, ossia
tendente a porre in essere e a consolidare le condizioni per cui – senza fasi
transitorie, attaccando il possibile sviluppo di qualsiasi centro di potere – si
possa avere un processo rivoluzionario, o affinché a partire da lotte specifiche
o da determinate circostanze storiche si possano dare degli sbocchi
insurrezionali, per loro natura preparatori della rivoluzione sociale. Queste
sono le nostre radici di anarchici, che affondano nella necessità e nella
volontà di arrischiarsi su strade non ancora battute, di azzerare il nemico di
sempre in favore di un vita radicalmente libera, senza Stato e capitale.
Queste pagine nascono quindi con la presunzione di dire qualcosa su questa
necessità e su questa volontà di sconvolgimento, e nel segno di un’assenza, di
un’urgenza che avvertiamo, ossia nel solco di una continuità con alcune
precedenti pubblicazioni anarchiche rivoluzionarie. Non si tratta però della
riesumazione di un cadavere – considerata anzitutto la diversità nel formato e
nel “taglio” di queste pagine –, ma dell’avvio di un nuovo strumento di cui
pensiamo ci sia bisogno. Con questa pubblicazione (per il momento) irregolare
vorremmo raccogliere sia degli “elementi” che consentano di cogliere cosa
significano pensiero e azione per l’anarchismo, sia delle occasioni di
riflessione su fatti “grandi e piccoli” a partire dai quali delineare la nostra
visione del mondo, risalendo quindi alle motivazioni della nostra lotta, alle
ragioni dell’anarchismo. Allora, come rendere comprensibili queste ragioni, e la
fame di libertà integrale – spesse volte intuita, altre volte mal compresa – che
portano con sé, a fronte di una realtà sociale dove si punta unicamente a
rendere spendibili delle opinioni usa e getta?
Questa pubblicazione non sarà un contenitore, incapace di dire di no,
disponibile a tutti i vezzi retorici o velleità letterarie (oggigiorno perlopiù
improbabili). Saranno delle pagine talvolta a loro modo polemiche, corrosive, ma
non inutilmente polemiche, adagiate nel livore. Occorrerà quindi una scelta nel
taglio degli argomenti, nella consapevolezza che questo resta uno strumento, non
una palestra per esercitazioni retoriche. Quanti di noi si sono avvicinati alle
idee anarchiche perché, un giorno tra i tanti, si sono trovati tra le mani un
giornale, una rivista, un libro? Siamo ancora disposti a scommettere sulla
scoperta e sull’approfondimento delle potenzialità proprie della nostra
individualità.
Desideriamo che queste poche pagine mantengano una tensione costante nell’essere
uno strumento (ancorché minimale) per attrezzarci a fronte dei tentativi dello
Stato di metterci all’angolo, di liquidare la prospettiva rivoluzionaria
dell’anarchismo. Una scommessa che nel suo complesso si pone decisamente al di
fuori della portata delle nostre attuali capacità. Tuttavia, inguaribilmente
ottimisti, niente e nessuno potrà impedirci di perseverare nell’illimitatezza
dei nostri sogni.