Segnaliamo l’uscita del racconto di Giulio Berdusco, Storia di un gabbiano e del
drone che smise di volare, delle nuove edizioni Fuochi s’inverno.
Per richieste di copie (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a:
fuochidinverno@autistici.org
Qui potete ascoltare la lettura del
racconto: https://radioblackout.org/podcast/storia-di-un-gabbiano/
(Da ottobre 2024 Giulio Berdusco si trova detenuto nel carcere delle Vallette di
Torino. Dovrà scontare 4 anni e 3 mesi per un cumulo di condanne relative alla
giornata di lotta al Brennero del 2016 e agli scontri con la polizia avvenuti
qualche anno più tardi, a Rovereto, durante la contestazione a Salvini in tour
elettorale.)
Prefazione
Chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà
Stig Dagerman
Secondo l’interpretazione arendtiana, “azione” e “discorso” sono ciò che
cominciano, a fondamento di ciò che dà inizio al nuovo. Sono dunque atto di
affermazione della libertà, la quale, di conseguenza, evoca automaticamente la
possibilità del rischio. Per questo entrambe queste qualità che fanno di un
individuo un essere-nel-mondo richiedono coraggio, una virtù che «è praticamente
già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di
iniziare una propria storia». Azione e discorso – ma per essere più precisi
potremmo dire pensiero e azione – vivono dunque l’una dell’altro, si richiamano.
In alternativa si apre il sipario a quella spettacolarizzazione del pronunciato
che trasforma la parola in semplice strumento, uccidendo la cosa viva che le dà
significato; che la rende, appunto, ciò che può contenere il potenziale di
essere inter-azione. Un’attitudine, questa, che non solo va svanendo
implicitamente nell’èra della Tecnica, ma anche esplicitamente nell’atmosfera
repressiva che ci circonda.
Ecco perché le edizioni Fuochi d’inverno nascono già all’angolo. Vedono la luce
di già (e per nulla metaforicamente) dal buco di una serratura, la quale però
shakespearianamente («potrei essere rinchiuso nel guscio di una noce e tuttavia
ritenermi re di uno spazio infinito») ancora si apre sull’esistente.
Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che chi sta dietro alla cura e alla
pubblicazione di questo libretto, come di quelli che verranno, non è solito
scrivere di cose inventate. Per una serie di circostanze, e soprattutto per una
serie di scelte, ciò in cui le nostre vite si sono imbattute – lo dico per me
stesso, sapendo quasi per certo di poterlo dire anche per l’autore –, è stato un
accumularsi di esigenze diverse da quelle di cui possono essere espressione i
romanzi. Esigenze che hanno fatto (o hanno provato a fare) del connubio
pensiero-azione una questione imprescindibile. Dettate forse da qualcosa di
simile a quella che un pensatore di qualche decennio fa chiamava “filosofia
d’occasione”. Ma non è affatto detto che l’urgenza di esistere che sta dietro
anche a queste parole non possa trovare la sua espressione in forme diverse.
Il libretto che avete tra le mani, il primo racconto che viene dato alle stampe
dalle edizioni, è una storia semplice. Tanto semplice da riuscire a cogliere la
complessità del mondo: la Tecnica e la sua efficacia, l’industrialismo e il suo
progredire sopra corpi e menti, la politica e il suo privilegio, la natura e la
sua inarrestabile espressione di resistenza.
Non di meno, l’inizio di questo piccolo progetto è anche il frutto dell’esigenza
di colmare una distanza obbligata. Una distanza imposta a quella che, per chi
scrive, è qualche cosa di più di un’amicizia, un’affinità particolare di quelle
che forse, per l’appunto, si trovano solo nei romanzi.
Perché forse è vero che solo attraverso il cominciamento dell’azione anche la
vita inizia ad assumere le caratteristiche del romanzo. Che inizia ad uscire
dall’ordinario della logica dell’efficacia e della produzione, per diventare
qualcosa da scrivere, da inventare, da vivere fino all’ultima goccia.
Ottobre 2024
RB
Tag - Materiali
Segnaliamo il libretto Tra la vita e la morte, prima uscita delle edizioni i
giorni e le notti.
Per richieste (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a:
navedeifolli@gmail.com
NOTA INTRODUTTIVA
Le pagine che avete tra le mani non hanno certo la pretesa di avere una qualche
funzione rivelatrice. Le idee che gli danno forma sono ispirate da riflessioni
ben più ampie e sviluppate fino al dettaglio. Qui, in una forma forse singolare
e probabilmente addirittura poco adatta a ciò che rappresenta l’urgenza del
presente, possono apparire quasi vivisezionate. Mi perdoneranno perciò gli
autori (per lo più defunti) delle opere fondamentali che hanno dato le note a
questo confuso e apparentemente irrazionale tentativo di racchiudere in qualche
riga pensieri che avrebbero la necessità di prendersi ben più ampio spazio. Ma
al di là di questo mi sembra utile sottolineare il fatto che quello che qui
vuole arrivare alla luce è non tanto una critica strutturata del sistema
tecnico, nel quale siamo ormai imprigionate e imprigionati in maniera quasi
totale, quanto piuttosto una ricerca necessaria di che cosa ci rende essere
umani e perché. Questo per un motivo semplice: le caratteristiche fondamentali
che ci rendono umani e quelle che costituiscono le basi del sistema sono del
tutto incompatibili. Andare alla ricerca dello sviluppo delle nostre
possibilità, caratteristiche in via di estinzione in favore di un nuovo concetto
di esistenza sponsorizzata come aumentata, significa di conseguenza considerare
seriamente le vie della rivolta. Non si faccia l’errore di credere che una
critica radicale all’incarcerazione tecnologica che avanza si nutra di un
conservatorismo bigotto, del tipo “tutte le rivoluzioni della scienza sono state
viste dai loro contemporanei con diffidenza, come un attacco alle proprie
certezze”. La paura del cambiamento qui non c’entra nulla, anzi, al contrario, è
la certezza di un vecchio che ritorna ad animare la necessità di combattere il
Mondo Nuovo. Il fatto che la realtà possa essere “aumentata” solamente al prezzo
della diminuzione della vita. E che il procedere tecnico dell’organizzazione
sociale non è affatto composto di scelte individuali (se per esempio decido di
non possedere uno smartphone non significa affatto che io possa ritenermi
estraneo alle sue influenze sociali) ma si impone a tutti i viventi, se pur in
maniera differente in base alla classe, al genere, alla specie… Oltre,
indubbiamente, ad una sorveglianza sempre più pervasiva, è di queste imposizioni
tacite che oggi vive una parte significativa del potere; di quelli che Ivan
Illich aveva puntualmente definito «monopòli radicali», o che Günther Anders
descriveva come «obblighi e divieti segreti».
È ovvio che certe “utopie” transumaniste, come quella di raggiungere
l’immortalità (la cui via più probabile ad oggi sembra essere, in parole povere,
quella del backup di ciò che viene definito coscienza di sé su un disco rigido)
siano per ora fuori portata. Ma è l’immaginario che vi sta dietro che deve
essere preso sul serio, perché l’idea di una razza superiore, prodotto anche di
un darwinismo sociale che sta alla base storica dell’eugenetica, è del tutto
viva e dominante. L’idea stessa che motiva i dominatori a costituire niente meno
che una nuova religione, animata dalla prospettiva di un’interazione
uomo-macchina sempre più consolidata, deve essere riportata nella realtà dalle
espressioni di un ateismo di nuovo tipo. Oggi, mentre il pianeta che abitiamo
viene quotidianamente violentato e milioni di proletari muoiono sotto le bombe
della civiltà non solo per motivazioni politiche, ma anche di territorio e di
conquista di quelle materie che sono necessarie al complesso
scientifico-militare-industriale, la upper class tecnocratica «spende milioni di
dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con
l’idea di vivere fino a 120 anni».
Per questo forse le carte che abbiamo da giocare non sono rimaste molte, ma tra
queste, ancora per qualche mano, resta l’asso che può lasciare attònito il
banco: le profonde ragioni di vita per cui non abbiamo alcuna intenzione di
farci strappare le qualità che ci rendono esseri umani unici, ognuno e ognuna di
noi. La nostra naturale capacità di essere imprevedibili, di sorprenderci e di
sorprendere, di prendere in mano la vita e di scagliarla con tutta la forza che
abbiamo in corpo contro chi la vuole rendere una sua proprietà. L’inafferrabile
«possibilità che ci rende più liberi degli dèi» dalla quale, come recita un
folgorante libretto anonimo di qualche anno fa, possono nascere le ragioni «per
andare armati all’assalto di un ordine che ci soffoca».
Dicembre 2024
Rupert
Riceviamo e diffondiamo la notizia di questa pubblicazione, con un interessante
brano dell’introduzione di che da un lato ripercorre la vicenda del compagno
Marcelo Villaroel, e dall’altra mostra come il modello di segregazione e tortura
del 41 bis italiano sia guardato con sempre più interesse da diversi Stati
dell’Occidente globale:
Qui la presentazione del libro in pdf: kl web
È uscito il libro “Alcuni scritti su Kamina Libre, identità irriducibili di una
lotta anticarceraria”. Il libro, nato dalla tesi di laurea del compagno
prigioniero Francisco Solar e poi ampliato, racconta l’esperienza del collettivo
di prigionieri Kamina Libre nato nel 1995 nel carcere di Santiago del Cile, che
per anni ha portato avanti uno scontro permanente all’interno del Carcere di
Alta Sicurezza (CAS) cileno fino ad ottenere il “ritorno in strada” di tutti i
suoi membri. La prima presentazione è avvenuta all’interno della sedicesima
Tatoo Circus benefit per prigionier* a El Paso (Torino). Nella discussione di
sabato 15 l’esperienza di lotta del Kolektivo Kamina Libre tra gli anni Novanta
e i Duemila nelle carceri cilene è stata messa a confronto con altre esperienze
di lotta dei/delle detenuti/e, come la COPEL in Spagna negli anni Settanta, per
riflettere da differenti prospettive sull’autorganizzazione dei/delle
prigionieri/e e sul rapporto dentro-fuori dalle mura del carcere. Perché parlare
di Kamina Libre oggi? Come espresso da Francisco nella sua prefazione al testo
“l’esperienza di Kamina Libre ci mostra l’importanza di portare avanti un
atteggiamento combattivo in carcere, di portare avanti in modo autonomo giornate
di lotta al suo interno, così come di generare legami di complicità con ambienti
solidali, sostenendo una pratica reale di attacco. Scrivere oggi di Kamina Libre
significa parlare di scontro e autonomia”.
Dall’introduzione italiana:
Identità irriducibili. Contributo alla traduzione italiana
Oggi attraversiamo un momento cruciale della situazione giuridica del compagno
Marcelo Villarroel Sepúlveda nelle carceri cilene, da qualche mese è iniziato un
ricorso per cercare di annullare le condanne inflitte dalla giustizia militare
durante il periodo di Pinochet che persistono sul compagno.
Marcelo fu arrestato per la prima volta nel novembre 1987, all’età di 14 anni,
accusato di aver svolto attività di propaganda armata contro la dittatura
all’interno di un liceo di Santiago e per la sua militanza nel MAPU-LAUTARO,
un’organizzazione politico-militare marxista-leninista attiva contro la
dittatura di Pinochet e nella successiva transizione democratica. Nel 1992 venne
di nuovo arrestato dopo due anni di clandestinità nei quali fu ricercato sempre
per la sua militanza nel MAPU-LAUTARO, che intanto, dopo la fine della dittatura
di Pinochet nel 1990, aveva deciso di continuare la lotta armata “contro il
riposizionamento capitalista mascherato da democrazia”. L’operazione
antiterrorismo coinvolse trenta agenti e culminò in uno scontro armato che
procurò a Marcelo tre ferite di arma da fuoco. Nel 1994 fu inaugurato in Cile il
regime di alta sicurezza nel quale Marcelo fu trasferito insieme ad altri 33
prigionieri. In questo primo periodo di detenzione a partire dal 1995 prese
parte al Kolektivo Kamina Libre. Successivamente è stato accusato di aver preso
parte alla rapina al Banco Santander del settembre 2007 a Valparaíso e alla
rapina al Banco Security dell’ottobre 2007 a Santiago, durante la quale l’agente
Luis Moyano è morto in una sparatoria. Dopo un periodo di clandestinità, Marcelo
fu arrestato il 15 marzo 2008 insieme a Freddy Fuentevilla a Neuquen, in
Argentina. Furono poi estradati in Cile il 15 dicembre 2009. Il 2 luglio 2014 il
tribunale cileno lo ha condannato a 14 anni di carcere per le due rapine,
successivamente si sono poi aggiunte altre accuse, arrivando a un totale di 46
anni di carcere:
-Associazione terroristica: 10 anni e 1 giorno.
-Danneggiamento di un’auto della polizia con gravi lesioni ai carabinieri: 3
anni + 541 giorni.
-Coautore dell’omicidio qualificato come terrorista: 15 anni e 1 giorno.
-Furto con intimidazione, legge 18.314: 10 anni e 1 giorno.
-Attentato esplosivo contro l’ambasciata spagnola: 8 anni.
Lo Stato, i suoi meccanismi ideologici e il capitale tentano ancora una volta di
seppellire le fila del movimento combattente, di fare calare il silenzio sui
contenuti politici, le scelte di lotta e i decenni di tradizione rivoluzionaria.
Compagni in ogni dove (Cile, Italia, Grecia, Spagna ecc…) hanno dedicato, oggi
come ieri, la loro vita alla lotta contro l’oppressione per costruire un mondo
di uguaglianza e libertà, assumendosi le responsabilità e compiendo scelte che
hanno portato alla prigionia o alla morte, dando anima, corpo e pensiero alla
causa rivoluzionaria. Tali scelte sono parte integrante di una continuità
storica insurrezionale che mantiene viva nei nostri cuori e nelle menti la
visione della rivoluzione sociale.
Esportare l’isolamento
Già da fine Ottocento le polizie europee stavano cercando un coordinamento per
reprimere il movimento anarchico (le leggi antianarchiche approvate a partire
dal 1890 in vari Stati europei e la sistematizzazione della pratica della
schedatura politica prendendo a modello la polizia asburgica ne sono un
esempio), oggi siamo davanti a una vera e propria globalizzazione della
repressione e della controrivoluzione. In questo contesto di coordinamento
repressivo tra Stati, l’Italia si sta ponendo come modello nella
differenziazione carceraria e nell’isolamento dei prigionieri. Soltanto
nell’ultimo anno le democrazie francese e cilena hanno avviato interlocuzioni
con i professionisti dell’antimafia e dell’antiterrorismo italiani per esportare
nei loro paesi, entrambi attraversati negli ultimi anni da un forte livello di
conflittualità sociale, il modello del 41bis.
“Al mattino il Ministro Darmanin e la delegazione sono stati ricevuti alla casa
circondariale di Roma Rebibbia dalla capo Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria facente funzioni, Lina Di Domenico, e guidati dal Direttore del
Gom – Gruppo operativo mobile, hanno visitato la sezione destinata ai detenuti
sottoposti al regime del 41bis. […] A seguire, hanno incontrato il Procuratore
Nazionale antimafia, Giovanni Melillo, presso Palazzo Farnese, sede
dell’ambasciata di Francia.”[1]
Secondo le dichiarazioni di Darmanin la prima struttura di alta sicurezza
ispirata al modello italiano dovrebbe essere completata a fine luglio 2025, con
almeno altre due a seguire negli anni successivi. Se in Francia il 41bis è
tornato solo oggi un tema della discussione politica nazionale, giustificato
anche in questo caso dalla lotta alle mafie e al narcotraffico[2], da oltre un
anno nel nuovo Cile democratico di Boric è in corso un dibattito
sull’opportunità di implementare il regime del 41-bis, nel contesto più ampio di
una riforma della gendarmeria e del regime penitenziario. Per il procuratore
nazionale cileno Angél Valencia “È importante guardare all’esperienza italiana,
gli italiani hanno ottimizzato i loro sforzi per combattere la criminalità
organizzata, hanno creato nuove carceri rispettando gli standard europei sui
diritti umani”[3]. Nel settembre 2024 l’ambasciata d’Italia a Santiago ha
organizzato un incontro per presentale alla Corte costituzionale cilena il
modello del 41-bis e la sua storia[4], tenuto dal Professor Antonello Canzano
dell’Università Roma Tre il quale ha sottolineato come la sua genesi si trovi in
ben trent’anni di storia repressiva dello Stato italiano.
“Questo quadro non è il risultato di un singolo intervento, ma di una graduale
evoluzione normativa nel corso di 30 anni, continuamente adattata in base alla
sua efficacia”, ha affermato il professore durante la sua esposizione in Aula,
al termine della quale si è generato un interessante dialogo in chiave comparata
a cui hanno partecipato anche i ministri Miguel Ángel Fernández, Nancy Yáñez,
Héctor Mery e Marcela Peredo. Ampia attenzione è stata dedicata al cosiddetto
“modello italiano” di lotta al crimine organizzato, di cui parte integrante
rappresenta il regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis
dell’ordinamento penitenziario italiano, volto a neutralizzare la possibilità
che gli autori di reati più gravi, soprattutto legati alla criminalità
organizzata, possano condurre attività illecite dal carcere.”[5]
La visita di Canzano in Cile, lungi dall’essere un evento isolato è stata
preceduta pochi mesi prima da quella del magistrato Giovanni Tartaglia Polcini,
Consigliere del Ministero degli affari Esteri e vicedirettore del programma
europeo EL PACCTO 2.0[6], il programma europeo di cooperazione con il Sud
America per la lotta alla criminalità organizzata, non a caso con L’Italia come
paese coordinatore. Degna di menzione è anche la nuova legge antiterrorismo
cilena approvata a inizio febbraio 2025, più “moderna, efficace e democratica”
che andrà ad ampliare il reato di associazione terroristica, permettendo la
detenzione anche in assenza di reati specifici per chi all’occorrenza ne sarà
considerato membro o anche solo “finanziatore” di un’associazione terroristica,
andando a colpire in maniera più efficace anche la solidarietà fatta di benefit
per i prigionieri.
L’inasprirsi delle tensioni internazionali, sociali e politiche dovute alla
tendenza alla guerra e alle contraddizioni insite a questo sistema capitalista
richiedono agli Stati un’azione sempre più preventiva, una contro-insurrezione
in assenza di insurrezione, per garantire la tenuta del fronte interno in un
periodo storico in cui il recupero delle lotte da parte dello Stato portato
avanti tramite welfare e piccole concessioni non è ormai più sostenibile. Il
carcere distilla “la quintessenza delle pratiche repressive legate alla
ristrutturazione sociale e politica, in forme più palesemente autoritarie
(quelle più asettiche dell’UE e quelle più becere dei sovranismi nazionali sono
equivalenti da questo punto di vista, si vedano le politiche antimmigrazione e
la propaganda di guerra in corso) in un occidente che ancora non si capacita di
essere in piena crisi e cerca con una mano di arginare con manie securitarie le
falle di una nave che affonda e con l’altra di arraffare quanto più possibile
per riempirsi le tasche prima del naufragio.”[7] È in questo contesto che la
guerra sul fronte interno si allarga e accelera il consolidamento di un diritto
penale del nemico, con gli ultimi sviluppi repressivi come il DDL 1660 in Italia
il quale prevede l’introduzione del reato di “terrorismo della parola”, fino ad
ora non codificato ma comunque utilizzato nelle varie operazioni repressive
contro la stampa anarchica come Sibilla e Scripta Scelera. Il DDL 1660 non si
risparmia inasprimenti di pena anche sul fronte del carcere, aumentando le pene
per rivolte e prevedendo un’aggravante per il reato di “istigazione a
disobbedire alle leggi” se il fatto è commesso “all’interno di un istituto
penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone
detenute”[8].
I regimi di alta sorveglianza e di isolamento diffusi nel mondo, con apice nel
41bis, puntano a rompere la solidarietà tra il dentro e il fuori del carcere e
tra gli stessi prigionieri attraverso la differenziazione carceraria, anche per
questo riteniamo che sia importante tornare a riflettere sulle esperienze di
chi, come il Kolektivo Kamina Libre, sia sotto la dittatura, sia nel periodo di
transizione alla democrazia, ha continuato a lottare sia all’esterno che
all’interno del carcere contro l’oppressione e per una società radicalmente
diversa, rompendo la divisione dentro/fuori per ottenere il ritorno in strada
dei suoi membri, ma anche inserendosi, con le riflessioni sui prigionieri
sociali, in un dibattito che in quegli anni sembrava schiacciato
dall’opposizione prigionieri comuni versus prigionieri politici.
Marcelo Villarroel in strada!
Tuttx liberx!
Indice:
-Identità irriducibili
-Intervento di Claudio Lavazza per l’edizione in italiano
-Nota delle Ediciones Abandijas
-Come prologo
-Prologo II
-Introduzione
-Antecedenti generali
-Organizzazione ed espressione nel carcere di alta sicurezza
-L’uso del corpo come simbolo di espressione
-Conclusioni
-Allegati
La gabbia d’oro
Gli echi delle eliche
Pensando, pensando
La lotta dentro e al di fuori
Intervista a Kamina Libre
Detenuti sociali
-Alcuni poster e immagini
-Bibliografia
-Qualche domanda a Marcelo Villarroel
-Poche parole su Edizioni El Buen Trato
-Contributo di Marcelo Villarroel alle Edizioni El Buen Trato
Totale 210 pagine
Per contatti: presospolitico@anche.no
[1]
https://ambparigi.esteri.it/it/news/dall_ambasciata/2025/02/italia-francia-nordio-incontra-lomologo-darmanin-3-febbraio/
[2]
https://www.lefigaro.fr/actualite-france/gerald-darmanin-justifie-les-prisons-haute-securite-pour-les-narcotrafiquants-pour-affirmer-l-autorite-de-l-etat-20250203
[3]
https://www.emol.com/noticias/Nacional/2024/04/22/1128642/carcel-italianas-modelo-chile-crimen.html
[4]
https://ansabrasil.com.br/english/news/news_from_embassies/2024/09/06/italy-and-chile-united-in-the-fight-against-organised-crime_3ef7f9a4-9206-42ac-9a7b-3d89dad8b577.html
[5]
https://ambsantiago.esteri.it/it/news/dall_ambasciata/2024/09/lambasciatrice-valeria-biagiotti-e-il-professor-antonello-canzano-in-visita-protocollare-al-tribunale-costituzionale/
[6]
https://iila.org/it/al-via-la-seconda-fase-del-programma-el-paccto-di-lotta-alla-criminalita-organizzata-transnazionale-panama-11-13-marzo-2024/
[7]
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/02/03/anna-beniamino-fisiopatologia-del-mostro-carcerario-veleni-e-antidoti-ottobre-2024/
[8] Opuscolo “Lo Stato è guerra. Il Fronte interno della guerra. Diritto penale
del nemico”
Luci da dietro la scena (XXIV) – Con largo anticipo (su «Federazione europea»,
militarizzazione delle scuole, regime tecnocratico…)
Qui il PDF:
Luci da dietro la scena (XXIV)
Corteo funebre
[…] L’idea di una Federazione europea non ha alcun rapporto con la pace.
L’unificazione della Francia ha posto fine alla guerra tra province, ma non è
stata in alcun modo un progresso in direzione della pace: alle guerre
provinciali furono semplicemente sostituite le guerre nazionali, che, com’è
noto, furono ancora più sanguinose. Analogamente, la Federazione europea
finirebbe con il sostituire alle guerre nazionali quelle continentali. […]
L’ostilità tra la Francia e la Germania non è che la sopravvivenza di un’epoca
ormai estinta. L’Europa è passata in secondo piano: tre nuovi colossi –
l’America, l’Asia, la Russia sovietica – minacciano l’esistenza stessa
dell’Europa. La Federazione europea sarebbe l’unica salvezza, anche se – com’è
evidente – gli apparati nazionali ne rendono impossibile la realizzazione;
nondimeno ogni nazione europea si sforzerà sempre, quale che sia il suo governo,
di creare l’intesa più stretta possibile all’interno dell’Europa, ma sotto la
propria egemonia. Ben inteso, questi tentativi d’accordo saranno essi stessi
fonte di conflitto. Briand [Auguste Briand: passato dal sindacalismo
rivoluzionario al Partito socialista francese, fu prima ministro dell’istruzione
e poi degli esteri fino alla sua morte, nel 1932] non ha fatto altra cosa che
rappresentare in Francia questo nuovo orientamento della politica estera. […] Ha
condotto milioni di francesi sinceramente desiderosi di pace a collaborare a un
tentativo il cui successo non farebbe che creare condizioni sempre più ampie di
conflitto. Ha banalmente confuso il patriottismo europeo, che corrisponde
all’equilibrio attuale di forze nel mondo, con questo spirito internazionale che
è radicalmente contrario a ogni forma di patriottismo. Ha gridato «Indietro i
cannoni, i fucili e le mitragliatrici!», ma non ha mai fatto la minima pressione
sui governi di cui faceva parte per ottenere una diminuzione effettiva degli
armamenti; mai ha denunciato all’opinione pubblica l’incremento del bilancio di
guerra in Francia, le trattative scandalose tra il governo francese e i mercanti
di cannoni. Ha fatto credere ai sostenitori del disarmo che la migliore azione
possibile consisteva nel gridare insieme a lui. Egli ha reso inefficace tutto
ciò che, data la grande diffusione dopo il 1918 di un vivo amore per la pace,
poteva servire a rendere inefficace la nuova forma assunta dal nazionalismo e
dal militarismo. Questo ruolo è stato da lui giocato ancora nel momento della
sua morte, meglio di quanto avesse fatto durante la sua vita. Il governo,
fregiandosi del suo nome, ha potuto così dare ordine al corpo insegnante
d’esporre ai ragazzi il carattere pacifico della politica estera francese, vale
a dire della politica più brutale, più arrogante e più aggressiva che si conosca
attualmente nel mondo. E, grazie al carattere magico del nome di Briand, questo
ordine scandaloso è stato eseguito, negli ambienti della sinistra, senza alcuna
protesta, ma addirittura con entusiasmo. […] Ha avuto i funerali che si
meritava. La Chiesa, l’esercito, lo Stato erano al posto giusto dietro il suo
corteo funebre. E i socialisti erano anch’essi nel posto giusto; Briand,
lasciando il loro partito, non aveva fatto altro che anticiparli di otto anni
sul cammino del tradimento.
Simone Weil, Dopo Briand, 1932
Sinistre asinerie e carne da cannone
Da parte nostra, difendiamo la laicità della suola. Ma non ne difendiamo la
versione ufficiale. Difendiamo invece la possibilità che essa ci permette di
essere nei limiti stretti e a nostro rischio e pericolo […] degli educatori e
non degli imbonitori.
Quanto alla concezione ufficiale della laicità, noi sappiamo che, secondo quelli
che hanno creato la scuola laica e coloro che la dirigono, il loro scopo è
l’imbonimento più avvilente e più funesto, l’imbonimento patriottico. Di questo
imbonimento noi rifiutiamo di essere complici, quand’anche si trattasse di
combattere i preti.
[…] Il patriottismo non è mai stato fattore di progresso; non ha prodotto altro
che sinistre asinerie; è radicalmente inumano; mira esclusivamente a trasformare
gli uomini in carne da cannone. Se la scuola laica ha un qualche valore ai
nostri occhi, lo ha soltanto nella misura in cui, eludendo le intenzioni
espresse dei suoi fondatori, ci liberiamo di questo imbonimento soffocante.
Simone Weil, Il centenario di Paul Bert, 1933
Dominati da un residuo morto
Una volta ammesso che si tratta di liberare l’uomo, l’uomo individuale, cioè lo
spirito, gli autori si rendono conto che ciò che ostacola lo spirito umano non è
altra cosa che il residuo morto delle sue creazioni. Questo punto di vista sulla
nostra epoca è giusto e illuminante; l’intelligenza è schiava di una scienza
«finita», l’attività è schiava degli strumenti meccanici e degli apparati di
coordinamento che si è data. Il vero problema della rivoluzione sarebbe quello
di pervenire al punto in cui gli uomini cessino di essere posti al servizio
degli oggetti stessi che hanno inventato e creato per il loro uso. Marx aveva
già espresso questa idea con un vigore ammirevole. Posta in questi termini la
questione, si è solo sollevato il problema, ma non inaugurato un inizio di
soluzione.
[…] Ai loro occhi [dei redattori dell’“Ordine Nuovo”] è sufficiente separare
completamente la sfera dell’attività automatica da quella dell’attività
creatrice, prospettiva che risulta ai loro occhi facile dal momento che la
prima, grazie al progresso tecnico, può essere ridotta a ben poca cosa. Il
lavoro non qualificato potrebbe essere eseguito non più da parte di alcuni
diseredati durante l’intero corso della loro vita, ma da tutti i giovani durante
gli anni del «servizio civile»; il resto dell’esistenza sarà invece consacrato
al lavoro qualificato e soprattutto al tempo libero. […] Questo lavoro non
qualificato sarà organizzato in modo fortemente centralizzato, e il credito, in
questo ambito, sarà affidato esclusivamente allo Stato. Invece, nel campo
dell’attività creatrice – cioè dell’organizzazione e del credito a essa
attinente – tutto verrà estremamente decentralizzato, e a quest’ultimo verrà
restituita la sua vera funzione di stimolare l’iniziativa e lo spirito di
rischio.
[…] Ma quand’anche un «servizio civile» di questo genere fosse realizzato,
finirebbe esclusivamente per consegnare allo Stato una potenza inaudita sulla
vita economica; e dal momento che una parte assai limitata della popolazione
sarebbe investita di funzioni responsabili nel campo della produzione, tutti gli
altri cittadini, lasciati in una condizione di demoralizzante inazione, sarebbe
ridotti allo stato di semplice bestiame. In sintesi, se si trattasse realmente
di applicare una simile concezione, si giungerebbe a unificare i poteri
economici e politici, cioè a uno «Stato totalitario» o a un regime tecnocratico.
Il problema essenziale della nostra epoca è facile da porre per poco che si
vogliano aprire gli occhi, benché non sia affatto agevole da risolvere. La
produzione è sempre più centralizzata e burocratizzata; l’incremento continuo
delle spese generali impedisce alle imprese di bastare a se stesse; gli scambi,
regolati un tempo quasi automaticamente dalla legge della domanda e
dell’offerta, esigono attualmente anch’essi un coordinamento burocratico; il
ruolo degli operai nelle imprese è sempre meno attivo; tutto contribuisce a
creare una centralizzazione crescente dell’economia e un avvicinamento sempre
più stretto tra il potere economico e il potere politico. La sola salvaguardia
della libertà sarà la decentralizzazione della vita economica, il controllo del
funzionamento delle imprese da parte delle masse, la qualificazione del lavoro;
ma tutto ciò suppone una trasformazione totale della struttura stessa delle
aziende e, di conseguenza, della tecnica.
[…] Ai giorni nostri, tutto ciò che è pieno di confusione e di oscurità è
destinato a essere trascinato dalla forza delle cose nella nuova forma di
oppressione, quella dello Stato totalitario. La sola arma di cui possiamo essere
sicuri che non si rivolgerà contro di noi è quella delle idee chiare.
Simone Weil, Il raggruppamento dell’“Ordine Nuovo”, 1934
La sventura più grave
Non si dà alcuna contraddizione tra un obiettivo di chiarificazione teorica e i
fini che pone la lotta effettiva; si dà invece correlazione, dal momento che non
si può agire senza sapere ciò che si vuole e quali ostacoli devono essere
superati. Nondimeno, poiché il tempo di cui disponiamo è assolutamente limitato,
siamo costretti a ripartirlo tra la riflessione e l’azione. Una simile
ripartizione non può essere sottoposta ad alcuna regola, ma soltanto al
temperamento, alla forma mentis, ai doni naturali di ciascuno, alle congetture
che ciascuno formula riguardo all’avvenire, alla casualità delle circostanze. In
ogni caso, la più grave sventura per noi sarebbe quella di perire incapaci sia
di vincere sia di capire.
Simone Weil, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, 1933
Riceviamo e diffondiamo:
Breve opuscolo presentato durante una giornata di discussione a Lecco
https://leccoriot.noblogs.org/post/2025/02/25/9-marzo-allarrotino/
IL SERVIZIO DI LEVA IN EUROPA
Non sarò carne da cannone!
A partire dal 1992, il servizio di leva obbligatorio è stato sospeso o abolito
in buona parte degli Stati europei. Ciò è accaduto per varie ragioni, che
concernono sia la temporanea assenza di possibili conflitti “vicini”, sia il
fattore tecnologico delle nuove guerre.
Infatti pensando a nuove modalità di guerra più tecnologiche che “umane”, i vari
Stati sono passati ad una leva professionale volontaria, credendo bastassero
militari ben preparati e specializzati anche se in numero più esiguo. Per questo
si sono sviluppate campagne di arruolamento volte a ricercare persone che
volessero fare una carriera militare e a selezionarle in base alle loro qualità.
L’esercito di naja pareva inutile o addirittura controproducente in conflitti
affrontati con tecnologie e tattiche sempre più complesse da apprendere e
gestire. Al tempo stesso, lo spostamento dell’attenzione su missioni di
“peacekeeping” all’estero o interventi comunque lontani dal territorio nazionale
favoriva allo stesso modo l’impiego di un ridotto esercito di professionisti ben
addestrati e motivati.
A partire dal 2015 però, col conflitto divenuto più caldo in Ucraina, molti
Stati hanno iniziato a reinserire la leva obbligatoria, rendendosi conto che il
numero di militari era troppo basso. Il tutto si è poi velocizzato a partire
dallo scoppio del vero e proprio conflitto tra Federazione Russa e Nato in
Ucraina. Questo, nonostante le sempre più moderne tecnologie, ha anche visto il
ritorno di una guerra d’attrito, spesso combattuta in trincea, facendo
riscoprire a molti governi europei la necessità di avere una riserva di carne da
cannone da mandare al fronte.
Per questo abbiamo voluto sintetizzare in questo opuscolo cosa sta avvenendo nei
vari paesi europei, partendo da come funzionava l’esercito in Russia e Ucraina
prima della guerra.
Qui l’opuscolo scaricabile: SERVIZIO DI LEVA IN EUROPA def.docx
Riceviamo e pubblichiamo:
Riccardo d’Este, La guerra come operazione di polizia internazionale, Terra e
Libertà, Rovereto, pp. 34, 2 euro
«Perché ripubblicare, a oltre trent’anni dalla sua prima uscita, questo articolo
sulla prima guerra del Golfo? Non si tratta, in fondo, di analisi datate e dal
sapore un po’ rétro, oggi che il Nuovo Ordine Mondiale a trazione statunitense
di cui ci parla Riccardo d’Este appare in disfacimento, incalzato da vecchi e
nuovi mostri alla riscossa «multipolare», e che la categoria di Governo Mondiale
è stata recuperata da paranoici e reazionari di vario pelo?
Secondo la notissima formula di Hegel, la nottola di Minerva spicca sempre il
volo sul far della sera: è solo alla fine di un’epoca che la si comprende,
divenendo consapevoli di un mondo che ci è passato accanto. Da questo punto di
vista, i fatti degli ultimi anni illuminano queste bellissime pagine, e il tempo
trascorso in mezzo, di una cruda luce retrospettiva» (dalla postfazione Sul far
della sera).
Indice
Una vita rivoluzionata. Nota su Riccardo d’Este
La guerra come operazione di polizia internazionale
Sul far della sera
Per richiedere delle copie (2 euro l’una, 1 euro dalle 3 copie in su), scrivete
a: terraeliberta@inventati.org
Una vita rivoluzionata. Nota su Riccardo d’Este
Benché sia tutt’altro che agevole inquadrare in qualche formula una figura come
quella di Riccardo, può essere utile, soprattutto per le compagne e i compagni
più giovani, collocare la sua parabola teorica, esistenziale ed umana nello
sfondo storico della “critica radicale”, in cui l’esperienza della lotta di
classe in Italia s’intreccia con i contributi di alcune correnti rivoluzionarie
internazionali (francesi e spagnole soprattutto).
Nato a Trieste nel 1944 e maturato dentro il contesto torinese di “Classe
operaia”, Riccardo di quell’esperienza rappresentava allo stesso tempo la
componente più radicale (raccolta attorno al supplemento “Gatti selvaggi”) e il
punto di rottura. In una tensione non comune a fondere teoria e pratica,
prospettiva rivoluzionaria e critica della vita quotidiana, Riccardo è stato una
sorta di “molino delle armi” affilato grazie alla ricezione delle elaborazioni
più eretiche del comunismo. In Spagna, il crogiuolo tra guerriglia libertaria
antifranchista e offensiva proletaria organizzata nelle Commissioni e nelle
Assemblee operaie. In Francia, la riattivazione della tradizione consiliare
operata da “Socialisme ou Barbarie”, la critica della società
mercantil-spettacolare condotta dall’Internazionale Situazionista, il suo
superamento in senso anti-industriale tentato dall’Éncyclopédie des Nuisances,
la sua traduzione più “teppistica” rappresentata da Os Cangaceiros.
I raggruppamenti a cui Riccardo ha partecipato negli anni Settanta-Ottanta –
Organizzazione Consiliare, Comontismo, Collettivo Proletario Libertà – hanno
portato all’estremo (anche in senso autodistruttivo) la critica pratica del
lavoro, della militanza, dei ruoli, della politica, dell’ideologia, del
sacrificio, senza mai rinunciare né alla prospettiva storica né alla ricerca del
piacere come verifica della coerenza tra idee e vissuto. Se la prima gli
derivava da una certa lettura di Bordiga e della sinistra comunista (incentrata
sull’opposizione irreconciliabile tra Comunità-Gemeinwesen e Capitale, “eredità”
raccolta attraverso Jacques Camatte e Giorgio Cesarano), la seconda era
decisamente situazionista. Tenendo insieme specie, classe e individuo, Riccardo
rifiutava sia il neo-leninismo sia, più tardi, le tante mode post-classiste.
Comunista libertario (o acrata, come amava definirsi), ha praticato la lotta
armata senza essere lottarmatista, la rivolta in carcere senza distinzione tra
prigionieri “comuni” e “politici” (decisiva, anche se poco nota, la sua
influenza in tal senso su Sante Notarnicola), il consumo di ogni genere di
sostanza senza cedere alle illusioni mercantil-spettacolari. Dalla sua
partecipazione al progetto di Nautilus fino alla creazione del collettivo 415,
le riflessioni di Riccardo negli anni Ottanta-Novanta hanno suscitato – sulla
droga, sull’AIDS, sul frontismo antifascista o antileghista, sulla medicina,
sulla tecnologia – vivi dibattiti e scontri, sia per la sua inconfondibile verve
provocatoria sia per il suo rifiuto di ogni settarismo. Nell’avventura di
costruire “situazioni” e di fare della propria vita un’opera d’arte, Riccardo
era egli stesso un “personaggio” (la “erre” moscia, un occhio di vetro –
“regalo” delle guardie spagnole durante una rivolta in carcere –, un eloquio in
cui si mescolavano raffinatezze linguistiche e sboccate volgarità, una grande
simpatia e una proverbiale pigrizia).
Qualcuno di noi lo conobbe nel 1990, in occasione di una presentazione de
Intorno al drago. La droga e il suo spettacolo sociale al Parco Lambro di
Milano, durante lo storico appuntamento estivo dell’autonomia. In quel libro –
curato e in buona parte scritto da Riccardo per Nautilus – si criticavano
radicalmente tutte le idee che sulla droga circolavano negli ambienti
antagonisti (basti pensare che l’edizione precedente del Parco Lambro aveva per
titolo “Né eroina né polizia”). Lo invitammo a Rovereto (Riccardo era ancora in
semilibertà), dando così inizio a una collaborazione durata anni. Per noi,
giovanissimi compagni, fu un incontro stimolante e prezioso, anche perché
Riccardo, sferzante nella critica verso tutte le forme di militanza, nel modo di
rapportarsi con i giovani era invece estremamente aperto, disponibile al
confronto e tutt’altro che supponente, al punto che casa sua era a Torino una
sorta di “albergo” anche per alcuni studenti medi che saltavano la scuola…
Riccardo te lo trovavi in vestaglia, a bere fin dal mattino, conversatore
impareggiabile, curioso verso chiunque ambisse a quel crimine chiamato libertà.
Oltre a una discreta produzione teorica, gli si deve l’“invenzione” – di cui
andava piuttosto fiero – delle rapine in taxi. Uno dei suoi motti preferiti era
quello di Oscar Wilde: «si può resistere a tutto, tranne alle tentazioni». Che
non si trattasse solo di un motto è dimostrato dal fatto che Riccardo, latitante
in Francia, rientrò in Italia perché a Parigi c’era magari Debord, ma non si
trovava il Campari…
Riccardo è morto a Torino nel 1996, senza mai smettere di bere né di fumare,
preferendo giocarsela fino alla fine a modo suo, piuttosto che consegnarsi a
medici e ospedali. «Meglio una fine nell’abisso che un abisso senza fine» –
altro motto radicalmente vissuto.
Questa pubblicazione è anche un modo per continuare a dialogare con le sue idee.
Riceviamo e diffondiamo:
Questi pannelli della mostra rappresentano un tentativo di provare ad articolare
una possibilità rivoluzionaria in territori specifici, in prevalenza rurali, ove
insistono dinamiche di “colonialismo interno” da parte degli Stati e del
capitale, come ad esempio per le società del sud europa.
Ѐ un modo per cercare di intrecciare la distruzione necessaria dell’esistente
con la costruzione di spazi di autonomia e di saperi, e con spazi di “comunità
reali” fra gli individui nell’epoca dell’isolamento e della solitudine digitale,
affinché lo spazio di organizzazione e di lotta venga a coincidere con lo spazio
conosciuto in cui si esplicano le nostre relazioni della “vita associata” per la
riproduzione delle proprie condizioni di esistenza, delle relazioni materiali di
produzione, scambio e sussistenza, non mediate da istituzioni statali o
commerciali.
La prospettiva auspicabile a lungo termine su un territorio specifico sarebbe
quella della “federazione”, ovviamente informale, di lotte e di spazi di
autonomia, di strutture di base e di mutuo appoggio nei borghi come nelle
piccole citta, di autonomia materiale e di saperi, di culture di resistenza e di
cosmovisioni altre della realtà.
Delle CLR (Collettività locali di resistenza) contro tutte le separazioni, che
si prefigurino sin da ora nel conflitto sociale e di classe la qualità della
vita per cui ci battiamo, e che diano strumenti e possibilità concrete per
finirla con la concezione dopolavoristica delle lotte e delle nostre vite.
Per provare ad uscire dall’angolo in cui ci stanno cacciando, non si inventa dal
nulla l’attacco a questo mondo, così come l’autogestione generalizzata della
vita sociale.
Estos paneles de la exposición representan un intento de tratar de articular una
posibilidad revolucionaria en territorios concretos, predominantemente rurales,
donde insisten dinámicas de “colonialismo interno” por parte de los estados y el
capital, como por ejemplo, las sociedades del sur de Europa.
Es una forma de intentar entrelazar la necesaria destrucción de lo existente con
la construcción de espacios de autonomía y conocimiento, y con espacios de
“comunidad real” entre individuos en la era del aislamiento y la soledad
digital, para que el espaciov de organización y lucha coincida con el espacio
conocido en el que se llevan a cabo nuestras relaciones de “vida asociada” para
la reproducción de nuestras condiciones de existencia, de relaciones materiales
de producción, intercambio y subsistencia, no mediadas por instituciones
estatales o mercantiles. La perspectiva deseable a largo plazo en un territorio
concreto sería la de una «federación», obviamente informal, de luchas y espacios
de autonomía, de estructuras de base y apoyo mutuo en aldeas y pequeñas
ciudades, de autonomía material y conocimiento, de culturas de resistencia y
otras cosmovisiones de la cosmovisión. obviamente informal, de luchas y espacios
de autonomía, de estructuras de base y apoyo mutuo en aldeas y pequeñas
ciudades, de autonomía material y conocimiento, de culturas de resistencia y
otras cosmovisiones de la realidad.
CLRs (Colectividades Locales de Resistencia) contra toda separación, que
prefiguran desde ahora en el conflicto social y de clase la calidad de vida por
la que luchamos, y que nos dan herramientas y posibilidades concretas para
acabar con la concepción post-laboral de las luchas y de nuestras vidas. Para
intentar salir del rincón al que nos están empujando, el ataque a este mundo no
se inventa de la nada, como la autogestión generalizada de la vida social.
Riceviamo e diffondiamo:
Questi pannelli della mostra sono il frutto delle esperienze e delle riflessioni
di svariati individui a diverse latitudini geografiche della vecchia europa
elaborate negli ultimi anni. Parlano di storie di classe. Di proletari che, per
condizione e per scelta, decidono di rendere abitabile un mezzo e di spostarsi
all’interno degli stati Ue seguendo le loro pulsioni e i lavori stagionali.
Parlano di un nomadismo specifico e di sfruttati, di storie di un “esercito
industriale di riserva” che per la maggior parte dei casi arriva dalle società
del sud e dell’est del vecchio continente che, come sempre nella storia dei
capitalismi europei, son servite come “serbatoio” di manodopera a basso costo.
In un’epoca contrassegnata dalla guerra e dalla trasformazione del modo di
produzione capitalistico e della società verso la fase digitale, è un tentativo
di ri-trovarsi come classe sociale, con le nostre lotte, i nostri approdi e
accampamenti, e i nostri spazi di agibilità da creare e da difendere, e le
cosmovisioni del nostro mondo e le variegate culture di resistenza che lo
compongono.
Ѐ una mostra che parla di vita, di lotta e di viaggio, e che sbircia il modo e
le forme con le quali già gli sfruttati del secolo passato, come nel ‘900 gli
hobos negli Stati Uniti, hanno vissuto e si sono organizzati.
Non è un caso che, dopo la “grande depressione” del 1929, buona parte degli
scioperi selvaggi furono propri del movimento Hobo, cosi come le prime
contro-culture furono sviluppate negli accampamenti “hobo-jungle” alle periferie
proletarie delle grandi metropoli.
Contro la gravita sociale dell’ordinarieta, degli Stati e del capitale.
Contro la società dei varchi, delle recinzioni e delle separazioni.
Sempre contro tutte le vecchie e le nuove “enclosures”.
NOMADISMO
Estos paneles de la exposición son fruto de las experiencias y reflexiones de
varios individuos en distintas latitudes geográficas de la vieja Europa que se
han ido elaborando a lo largo de los últimos años. Hablan de historias de clase.
De proletarios que, por condición y por elección, deciden habitar un medio y
desplazarse dentro de los Estados de la UE siguiendo sus pulsiones y trabajos
estacionales. Hablan de un nomadismo específico y de los explotados, de
historias de un «ejército industrial de reserva» que en su mayoría procede de
las sociedades del sur y del este del viejo continente que, como siempre en la
historia de los capitalismos europeos, han servido de «reserva» de mano de obra
barata. En una época marcada por la guerra y la transformación del modo de
producción capitalista y de la sociedad hacia la fase digital, es un intento de
reencontrarnos como clase social, con nuestras luchas, nuestros desembarcos y
campamentos, y nuestros espacios de viabilidad para crear y defender, y las
cosmovisiones de nuestro mundo y las abigarradas culturas de resistencia que lo
conforman.Es una exposición que habla de vida, lucha y viajes, y que se asoma al
modo y las formas en que vivían y se organizaban los explotados del siglo
pasado, como los «hoboes» en los Estados Unidos del siglo XX.No es casualidad
que, tras la «Gran Depresión» de 1929, gran parte de las huelgas salvajes fueran
propias del movimiento “hobo”, del mismo modo que las primeras contraculturas se
desarrollaron en los campamentos de la «hobo-jungle» en la periferia proletaria
de las grandes metrópolis.
Contra la gravedad social de la ordinariez, los estados y el capital.
Contra la sociedad de las puertas, las vallas y las separaciones.
Siempre contra todos los viejos y nuevos «recintos».
Riceviamo e diffondiamo:
È uscito il secondo numero di “Lahar”
“In questo secondo numero abbiamo provato ad approfondire alcune dinamiche
sociali, politiche ed economiche che hanno stimolato all’interno della redazione
una serie di riflessioni. Guerre, estrattivismo, PNRR, nuovi “decreti sicurezza”
e l’implementazione delle nuove tecnologie, associate all’intelligenza
artificiale utilizzata in funzione investigativa e repressiva sono i temi
trattati in questo numero. Lo spirito che muove questi ragionamenti parte dalla
volontà di andare quanto più a fondo possibile nelle analisi e dalla necessita
di confrontarsi anche partendo da punti di vista e livelli di approfondimento
diversi. Non abbiamo risposte preconfezionate e tantomeno ci piace l’utilizzo di
slogan roboanti che hanno il solo scopo di riempire vuoti di analisi e di
ragionamento. La storia corre più veloce di noi, specialmente negli ultimi
tempi, e avere la capacità di analizzare e capire le dinamiche con cui ci
dobbiamo raffrontare nel nostro percorso di lotta diventa sempre più arduo.
Siamo convinti che confrontare analisi e metodologie sia uno strumento basilare
per raggiungere gli obiettivi preposti. In questo mondo social e
ipertecnologico, crediamo che resti fondamentale discutere guardandosi negli
occhi per tenere vive le nostre idee.”
PER INFO E RICHIESTA COPIE: louisemichel@autistici.org
Riceviamo e diffondiamo:
NUOVA USCITA TREMENDE EDIZIONI
COLLANA LA VITA NON ATTENDE: LE NICHILISTE RUSSE
“Il principio fondamentale del nichilismo propriamente detto, fu
l’individualismo assoluto. Era la negazione, in nome della libertà individuale,
di tutti gli obblighi imposti all’individuo dalla società, dalla famiglia, dalla
religione. Il nichilismo fu una reazione appassionata e potente, non contro il
dispotismo politico, ma contro il dispotismo morale, che pesa sopra la vita
privata ed intima dell’individuo”.
da La Russia sotteranea, Syepniak S. (1882)
“Potete perseguitarci fin quando avrete la forza materiale, ma noi abbiamo la
forza morale, la forza del progresso storico, la forza delle idee, e le idee non
possono essere fermate dalle baionette. […] Se quella società ideale che noi
sogniamo si potesse realizzare senza alcun rivolgimento violento, ne saremmo
felici con tutta l’anima. Penso unicamente che in determinate circostanze la
rivoluzione violenta è un male inevitabile…”.
Dichiarazione di Sof’ja Bardina al Processo dei Cinquanta (1877)
Nelle nostre intenzioni questo libro vuole essere il primo contributo di una
ricerca più ampia, che ci ha appassionate, sulle vicende delle rivoluzionarie
russe tra la seconda metà dell’Ottocentoe i primi del Novecento.
Affinché la memoria dei loro gesti non rimanga una mera opera celebrativa ma
possa fornire validi spunti di riflessione per chi ancora oggi sceglie di agire,
animata da una sincera idea di libertà. Sono storie di donne, centinaia, che
hanno scelto tanto di non piegarsi al modello che la società aveva stabilito per
loro – prima di signorine esemplari poi di mogli devote ed infine di madri
diligenti – quanto di rifiutare il privilegio derivante dalla loro classe di
appartenenza in nome di un’idea pagata in alcuni casi anche con la vita.
Non vogliamo dipingerle come eroine né martirizzarle ma solo restituire il posto
che spetta loro.
COLLANA LA VITA NON ATTENDE: LE NICHILISTE RUSSE. PAGINE 192.
Prezzo di copertina 8 euro, 6 euro dalle 5 copie.
Spese di spedizione 1,50 euro piego libri non tracciabile, 5 euro tracciabile.
Per richieste e info tremendedizioni@canaglie.org