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SORPRESA!
SORPRESA! Sono le tre di mattina, il 15 ottobre, quando a Castel D’Azzano, sud di Verona, decine di carabinieri irrompono in una cascina abitata da due fratelli e una sorella. Una storia di debiti e pignoramenti. Già espropriati delle loro terre, ora è la volta della casa. Ma i tre hanno riempito la casa di gas e – come avevano promesso – fanno saltare tutto. Il boato, le fiamme, il crollo. Risultato, tre carabinieri morti e una trentina feriti. Anche la sorella rimane gravemente ferita. Tutti e tre vengono arrestati. Titoloni: «La più grande strage di carabinieri dai tempi di Nassiriya in Iraq». Franco Ramponi era nato nel 1960, Dino nel 1962, Maria Luisa nel 1965. Sentite cosa ne dicono i giornali, non importa quali, sono tutti così: «Erano venuti giù dalla montagna ed erano strani. Come i loro genitori». «I campi da coltivare, le mucche da mungere all’alba. Finiva lì il mondo di questi fratelli, ancora più uniti dopo la morte del padre e della madre». «“Una vita grama”, ripetono qui. Chi vive a Castel D’Azzano addirittura sostiene che nemmeno andassero a fare la spesa, Franco, Dino e Maria Luisa». «Non si erano mai rivolti al Comune per chiedere aiuto, – racconta la sindaca del borgo, – e dopo l’eventuale sgombero avevamo proposto di assisterli in prima ospitalità in un hotel o un B&B. Hanno rifiutato tutto». Questo il tono dei commentatori: «Uno spaccato di vita contadina sopravvissuto alla modernità e che ha portato a questa tragedia». «Un attaccamento alla casa e alla terra che era diventato un’ossessione, una patologia, fino a portarli a questo gesto estremo». Avete sentito bene, difendere la propria casa e la propria terra sarebbe una “patologia” agli occhi del giornalista che, immaginiamo, dal suo appartamentino di Milano scende tutti i giorni a far la spesa. Mentre quei montanari sradicati e sfollati in pianura “non volevano andare ospiti in un B&B” e “non andavano neanche a fare la spesa”!!! Eccolo l’atavico disprezzo che il cittadino borghese moderno e sofisticato cova per il contadino, peggio ancora se montanaro, il rustico rozzo, ignorante, sporco perché legato alla terra e agli animali. Un disprezzo antropologico per questi “sopravvissuti alla modernità”, che emerge in tutto il suo livore quando la rabbia contadina esplode, ma che rimane sottotraccia fino a quando il burino se ne sta buono e zitto a sgobbare a testa bassa per riempire gli scaffali dei loro maledetti supermercati o negozietti bio. I dettagli legali all’origine dei pignoramenti sono poco interessanti, le ragioni sono sociali, e chi vive in aree montane e rurali sa bene che non sono niente di eccezionale. Anzi. Famiglie di agricoltori, aziende agricole, piccole imprese artigianali strozzate dai debiti e ridotte, fin che ce la fanno, a lavorare per arricchire le banche, è quasi la norma. Questa è la vera tragedia, oltre al fatto che tre poveracci passeranno – temiamo – il resto dei loro giorni in galera. L’unica cosa eccezionale è il fatto che questi fratelli hanno avuto il coraggio, la lucida follia se volete, di resistere a ogni costo, invece di suicidarsi impiccandosi in garage o lasciandosi morire di psicofarmaci e televisione (come dovrebbero fare tutti i cittadini onesti e rispettosi della legge, vero?). E hanno avuto anche la sfrontatezza – questi cafoni – di tener fede alla parola data: sia al patto di non mollare mai che, a quanto pare, avevano stretto tra di loro; sia alla promessa fatta pubblicamente durante il precedente tentativo di sgombero: «Se tornate facciamo saltare tutto». Bum. Detto fatto. Che sorpresa, neh? Che qualcuno, nella modernità, possa ancora dare valore alla parola data, evidentemente è qualcosa di incredibile per i nostri contemporanei (sicuramente lo è, o meglio lo era, per quegli “espertissimi” carabinieri che sono andati a spiaccicarsi sotto le macerie della cascina). In questo senso è davvero “uno spaccato di vita contadina sopravvissuto alla modernità”, perché nel mondo contadino la parola data era sacra. Mentre oggi non vale più niente, valgono solo distintivi e scartoffie, nella modernità. Quella modernità che per affermarsi, e portarci dove siamo, ha espropriato, sradicato, umiliato e disgregato ogni tessuto comunitario, ogni rete di vicinato, ogni sentimento di umana solidarietà. E che ha lasciato tutti isolati e disarmati davanti a un potere spietato, implacabile, burocratico, disumano. E che oggi si sorprende e piange lacrime di coccodrillo quando qualcuno sente di non aver più nulla da perdere e non prova pietà per quegli eroici servitori dello Stato che vengono nel buio della notte a sfondargli la porta per portargli via la casa dopo avergli portato via tutto il resto. Guarda un po’! ’Fanculo. Se c’è qualcosa di sorprendente è che non succeda ogni santo giorno. TABOR, 17 ottobre 2025 Qui in PDF: sorpresa
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Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi?
Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi? Qui in PDF: Luci da dietro la scena (XXXI) C’è resistenza e «resistenza» Sulle pagine del New York Times, «La resistenza in Ucraina si sta intensificando», mentre «I combattenti di Hamas si nascondono sotto i quartieri residenziali». «I combattenti ucraini lottano in clandestinità nelle periferie che conoscono a fondo, usando auto-bombe e trappole esplosive, oltre a omicidi mirati con le pistole», invece i combattenti di Hamas «nascondono le loro armi in tunnel lunghi chilometri, e nelle case, nelle moschee e nei divani». Sulle pagine del Times, entrambe le resistenze si stanno «mescolando alla popolazione locale», «confondendo il confine tra civili e combattenti». Il giornale dichiara: «operando in questa maniera, Hamas è responsabile di tanti morti tra i civili, secondo la legge internazionale». Ma lo stesso giornale si compiace quando il rapporto di Amnesty International, in cui si accusano i militari ucraini di violare le leggi internazionali e di mettere a rischio le vite dei civili perché agiscono negli ospedali, nei quartieri residenziali e nelle scuole, «è stato accolto da una condanna diffusa e quasi universale». Se leggi il Times, finisci per concludere che gli ucraini vanno in guerra nella giungla di cemento perché, a differenza dei palestinesi, «hanno sempre meno scelta quando si tratta di posizionare i loro soldati». L’Ucraina «si sta difendendo dall’esercito russo che ha una potenza di fuoco largamente maggiore». Ma «le tattiche di Hamas [in uno dei posti più densamente popolati della terra] spiegano perché Israele è stato costretto a colpire così tante infrastrutture civili, uccidere così tanti palestinesi e incarcerare così tanti civili». La resistenza, nella mente occidentale, è un concetto mutante. Mentre la resistenza ucraina è elogiata per le sue tattiche di guerriglia, la resistenza palestinese – definita «terrorismo» – è sconcertante, perversa e patologica. I media istituzionali non insistono su queste caratteristiche perché sussistono differenze fondamentali nel modo in cui entrambe le resistenze esercitano violenza. Né questo atteggiamento dipende interamente dal colore della pelle degli ucraini: basta considerare l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) per vedere che la pelle bianca da sola non è un biglietto vincente, per lo meno non in una guerra contro il colonialismo britannico. Piuttosto, i media utilizzano toni diversi perché sono a servizio degli interessi strategici dell’Occidente. Mentre il regime colonialista d’insediamento di Israele è l’alleato più importante degli Stati Uniti in Medio Oriente, e praticamente una branca dell’Europa per proteggere l’imperialismo occidentale, la Russia rappresenta una minaccia «esistenziale» per l’Occidente. Perciò, non è certo una sorpresa che i giornali di proprietà delle classi dominanti, e da esse manovrati, delegittimano la ribellione palestinese nelle stesse pagine in cui celebrano quella degli ucraini. Per sostenere il progetto sionista in Palestina, per proteggere le imprese militaristiche e capitalistiche dell’impero nella regione, il combattente per la libertà palestinese deve cadere. E di conseguenza, gli stenografi dell’impero normalizzano la deumanizzazione dei palestinesi e demonizzano la loro resistenza. Quanti palestinesi sono stati uccisi proprio da quelle stesse forze e istituzioni che esigono «neutralità» e «imparzialità» da loro per poterne asserire l’«innocenza»? In un modo o nell’altro, siamo tutti terroristi agli occhi dei giornali più letti. […] Se vuoi umanizzare il palestinese, devi renderlo innocuo: ecco qual è il problema. […] Quando l’esercito di occupazione israeliana ha ucciso il quindicenne Adam Ayyad nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme, le domande sono state: Ha lanciato veramente una bomba molotov contro i soldati? Non è risaputo che gli israeliani inventano storie del genere? Quando invece avrebbero dovuto essere: Perché ci sono truppe israeliane a Betlemme, tanto per cominciare? Perché Adam Ayyad è nato in un campo profughi? Perché c’è “molotov” nel titolo di un articolo sui soldati che uccidono un ragazzino? E allora, se lancia una bomba molotov? Chi non lo farebbe? […] L’invenzione del civile come figura “imparziale”, “neutrale” ha esacerbato la depoliticizzazione della causa palestinese. Essere ritenuto un civile significa esistere in una dimensione mitologica in cui siamo senza prospettiva. La nostra causa, così com’è immaginata in questa mitologia, non è più percepita come una lotta di liberazione, ma come una “crisi umanitaria”, in cui i rivoluzionari non sono parte integrante della nostra nazione, motivati da aspirazione politica e sogni di emancipazione. Vengono invece interpretati come banditi che senza motivo causano scompiglio e lasciano sgomenti i passanti indifesi: le donne e i bambini disinteressati, i paramedici e i giornalisti imparziali. Se questo è un bambino Nel momento esatto in cui il palestinese esce dall’utero, viene privato dell’infanzia – scaraventato via dall’infanzia da un «macchinario che esiste sempre e ovunque» e trattato come uno zero buono a nulla e, allo stesso tempo, come una pericolosa bomba a orologeria. Il palestinese è privato dell’infanzia la prima volta che parla con suo zio dietro il vetro divisorio della prigione, o chiede a sua zia perché vivono sotto i tetti in lamiera, o cerca di decifrare che cosa è stato cancellato dalle insegne delle vie. O quando abbraccia suo padre accanto a un blocco di cemento, dicendo a se stesso che le esplosioni che sente sono soltanto fuochi d’artificio. O quando gioca a calcio sulla spiaggia. Da qualche parte, lungo la stessa linea, il bambino palestinese s’imbatterà nell’espressione «bambino ucciso illegalmente», usato per descrivere i suoi coetanei ammazzati; un professore di Yale scriverà un articolo sull’Atlatic su come «sia possibile ammazzare legalmente i bambini». E il cecchino eseguirà gli ordini. La palestinese è privata dell’infanzia la prima volta che supera un checkpoint e sente la mano pesante di un estraneo sotto la sua camicetta, la prima volta che si siede accanto al banco vuoto della sua compagna di classe. O quando prende l’autobus per tornare a casa e guarda fuori dal finestrino e vede un’altra studentessa in una pozza di sangue. Viene esiliata dalla sua infanzia la prima volta che chiede perché sulla foto di sua madre c’è un nastro nero, o perché i vicini piangono quando si congratulano con lei. La prima volta che lancia i sassi su un mare di divise verde militare o imbeve uno straccio prima di cacciarlo in un collo di bottiglia, o quando sente il bozzolo d’acciaio che diventa una farfalla dentro il suo ginocchio [riferimento alle “pallottole a farfalla” progettate per espandersi nel corpo al momento dell’impatto]. La prima volta che un ragazzino palestinese sente la botta del martelletto del giudice, o l’acciaio freddo sui polsi minuti, è costretto a diventare adulto. Osserva il suo riflesso in una pozza di sputi; scopre di avere già i capelli grigi. Cresce sotto la luna del neon, diventa grande nella sala degli interrogatori. Siamo davvero tutti palestinesi? * Noi, a migliaia e a milioni, mentre protestiamo in coro per le strade di New York e Londra? Mi faccio questa domanda in modo incessante, con ossessione. Due anni fa, avrei detto, dichiarato addirittura, che il cemento delle barriere israeliane è proprio questo, cemento, e ha soltanto un peso simbolico. I loro confini coloniali, per quanto ci provino, non recidono, e non potranno recidere i legami sociali e nazionali che tengono insieme le nostre città isolate. I nostri documenti diversi – documenti di viaggio, passaporti, lasciapassare o la mancanza di questi – sono soltanto parole su una pagina, incapaci di dividerci. Quelli che sono dispersi dietro i muri e il filo spinato, avrei detto, possono comunque unirsi nei loro cuori. Eppure, io cammino per queste metropoli, protestando – c’è repressione, ma ancora niente lacrimogeni – e Omar è in cella in una prigione dell’Occupazione, in cui almeno sessanta prigionieri politici palestinesi sono stati martirizzati dal 7 ottobre. A Khan Yunis, uomini in tuta da ginnastica vengono uccisi con colmi di arma da fuoco al petto, alla testa, nel coraggio della loro ultima azione, sia che stiano correndo verso un Merkava corazzato [carro armato usato esclusivamente dall’esercito israeliano] o verso una relativa sicurezza. Nel campo profughi di Shatila a Beirut, un nonno vive e muore tormentato dalle visioni della sua vecchia casa sulla spiaggia, un ricordo così viscerale che quasi riusciva a sentire il profumo del mare. A Gerusalemme, mi preoccupo della casa della mia famiglia, di mio fratello che fa il pendolare per andare al lavoro e dei poliziotti con il grilletto facile. Altri posti potrebbero essere altri pianeti, ognuno con le proprie principali cause di morte. Nel Naqab i beduini palestinesi vengono sradicati e rimpiazzati da alberi di pino tedeschi. A Silwan, le forze di occupazione demoliscono case per realizzare una fantasia biblica. A Sheikh Jarrah, la pulizia etnica viene mascherata da «disputa immobiliare». A Beita, i coloni costruiscono avamposti in cima alle colline, i soldati assieme a loro. A Masafer Yatta, un giudice della Corte Suprema israeliana – lui stesso un colono della Cisgiordania occupata – delibera di espellere alcune migliaia di palestinesi dalle loro terre ancestrali, che abitano e coltivano da generazioni. Di tutti i beni saccheggiati, la terra rimane – senza ombra di dubbio – il più prezioso. […] Per i palestinesi, la Nakba è implacabile e ricorrente. Succede al presente – e succede ovunque sulla mappa. Non un solo angolo della nostra geografia viene risparmiato, non una generazione sin dagli anni Quaranta. Per la mia famiglia, la Nakba è stata l’esperienza di mia nonna, espulsa da Haifa dall’Haganah [«La Difesa», organizzazione paramilitare sionista creata durante il mandato britannico e poi integrata nell’IDF] nel 1948 – ma anche i suoi racconti che mi avvisavano di quello che sarebbe stato inevitabilmente il mio destino quando i coloni con l’accento di Brooklyn, protetti dall’esercito israeliano, hanno occupato metà della mia casa a Sheikh Jarrah nel 2009, dichiarandola loro proprietà per diritto divino. Per altre famiglie, la Nakba è cominciata quando un’amata nonna è stata espulsa da Giaffa e ha cercato rifugio a Gaza, dove la Nakba continua nel rombo degli aerei militari che sganciamo bombe sui campi profughi sovraffollati, facendo conoscere ai suoi nipoti la loro prima (o forse terza o sesta) guerra. Ci sono le facce di quei nipoti sui poster che non sono ancora stati stampati. […] Una volta, riuscivo a separarmi con facilità dalle classi che a lungo ho disprezzato, le élite, i borghesi, e quelle per cui la Palestina è una metafora estetica. Ma una nuova classe è emersa nell’inferno angusto della Striscia di Gaza: gli affamati e i reietti, cacciati più volte, senza fine, in maniera implacabile, ed è impossibile essere qualcosa di più di uno spettatore impotente, impossibile appartenere a quella classe, non senza lividi, non senza sacrificio. È una tentazione, quasi una consolazione, in particolare quando guardo il cibo sulla mia tavola e il tetto sopra la mia testa, concedersi la colpa, ma è un sentimento improduttivo: non dà vita alle rivoluzioni. […] In questi giorni sono tormentato da un ritornello meno vistoso, ma più mortale, una consapevolezza non voluta: Gaza ha il diritto di dimenticarci, di non perdonarci mai, di sputarci in faccia. Quante guerre ha subìto? Quanti martiri ha dato? Quanti corpi le sono stati rubati, strappati dall’abbraccio dei loro padri? E quanti di noi balbettano quando ci viene chiesto della resistenza, o quanti di noi rinnegano il nostro diritto a resistere, il nostro bisogno di resistere? Dal 7 ottobre, molti personaggi pubblici, molti di loro palestinesi, soprattutto in Occidente, hanno riconsiderato, addirittura rinnegato, la catarsi che hanno provato vedendo le immagini delle “ruspe palestinesi” che abbattevano pezzi del muro israeliano di filo spinato che circonda Gaza. (Ho messo “ruspe palestinesi” tra virgolette perché è una frase incredibile). Molti si sono pentiti di aver festeggiato i deltaplani a motore che sfuggivano dal loro campo di concentramento. […] Lo slogan Siamo tutti palestinesi deve abbandonare la metafora e manifestarsi materialmente. Significa che tutti noi – palestinesi e non palestinesi – dobbiamo incarnare la condizione palestinese, la condizione di resistenza e rifiuto, nelle vite che conduciamo e nelle compagnie che frequentiamo. Significa che respingiamo la nostra complicità in questo bagno di sangue e la nostra inerzia davanti a tutto quel sangue. Significa che Gaza non può stare da sola nel sacrificio. * Non ho alcun problema con il canto di protesta in sé; penso che sia piuttosto bello. Una nuova alba Il sionismo, al di là della facciata della superpotenza impenetrabile che afferma di essere, oggi è più vulnerabile che mai. E non lo dico ingenuamente: non chiedo di glissare sulle capacità del nostro nemico o sul potere degli imperi e dei mercenari che lo sostengono. Né chiedo di banalizzare il peso schiacciante di centinaia di migliaia di martiri o di rendere glamour gli uomini che affrontano i carri armati in tuta da ginnastica gravandoli con un peso maggiore di quello che riescono a gestire. I combattenti per la libertà sanno che il loro avversario è Golia, che le probabilità giocano a loro sfavore, che non hanno scelta se non prendere la pietra. Ma questa è una nuova alba. Tramite un’analisi approfondita – guardando i media di stato, ascoltando la narrazione globale che sta cambiando, assistendo al rinascimento dei movimenti radicali, persino leggendo le scritte nei bagni degli aeroporti – scopriamo che questa è una nuova alba. Il sionismo può restare un avversario formidabile, ma è anche una bestia tremante, una bestia che sta invecchiando, accecata dal suo stesso significato, per quanto sia imprevedibile. A volte ti piomba addosso e affonda le zanne nella tua carne. Altre volte, non è altro che una tigre di carta. E questa scoperta non soltanto infrange il mito dell’invincibilità coloniale, ma ci ricorda che la libertà è ottenibile, che il futuro è alla nostra portata. In mezzo alle incessanti incursioni aeree e al caos delle città demolite, potrebbe sembrare fatuo concentrare l’attenzione sul gelsomino in fiore. Ma ci meritiamo di guardare ogni cosa, di cercare ogni cosa. Vedere il quadro con tutti i particolari. Per quanto sia mortale e infida e inarrestabile, la Nakba non durerà in eterno. Il mondo sta cambiando, perché deve cambiare. Se i semi sono in grado di germogliare all’inferno, così fa la rivoluzione. Non è teocrazia: è il sospiro della creatura oppressa Al telefono, mia madre mi dice, la pioggia sta arrivando e Dio è onnipotente. (Brani tratti da Mohammed El-Kurd, Vittime perfette e la politica del gradimento, Fandango, Roma, 2025)
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“Nostra patria è il mondo intero…”. Appello e manifesto per Juan
Riceviamo e diffondiamo con solidarietà e complicità: Care compagne e cari compagni, il giorno 30 /09 si terrà presso il tribunale di Brescia una delle udienze del processo contro il compagno anarchico Juan Sorroche, accusato di attentato con finalità di terrorismo per l’azione rivoluzionaria alla Polgai di Brescia. In questa occasione Juan leggerà una sua dichiarazione. Già precedentemente condannato per altri reati come un attacco contro la sede della Lega a Treviso ed uno contro il Tribunale di sorveglianza di Trento, ora si trova con un definitivo di 28 anni da scontare con due processi ancora da chiudere, uno quello di Brescia ed uno più recente per 270 bis notificato dalla procura di Trento. Riteniamo necessario rinnovare oggi la solidarietà a questo compagno che si trova a sostenere una lunga pena e concretizzarla con un percorso di sostegno solidale internazionalista, come lo sono l’analisi sociale e la lotta che caratterizza l’anarchismo. Per rendere concreto il nostro appoggio a Juan vogliamo intanto proporre a tutti/e i/le compagni/e di sottoscrivere il manifesto di solidarietà in allegato, invitarvi alle iniziative in suo sostegno per l’udienza del 30 settembre e, quando sapremo la data, per l’udienza della sentenza, e ad esprimere solidarietà con le pratiche che riterrete opportune nei vostri territori o nel mondo intero, in particolare nelle settimane a venire, da qui alla sentenza. Le pratiche di cui è accusato Juan sono le pratiche dell’anarchismo: salutiamo con gioia le azioni di liberazione di cui lui è accusato, facendo nostra la lotta. Palestina libera! Juan libero! Tutte e tutti libere/i! Per chi volesse sottoscrivere e ricevere copie del manifesto l’indirizzo mail a cui scrivere è edera@canaglie.net Qui il manifesto in pdf: Nostra patria manif.
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Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Manifesto contro il rinnovo del 41-bis ad Alfredo Cospito
Riceviamo e diffondiamo: Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Torniamo in piazza contro il rinnovo del 41 bis ad Alfredo Cospito! Da maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel regime detentivo di 41 bis. Il carcere duro che prevede una socialità estremamente ristretta, la censura permanente sulla posta e svariati divieti per l’accesso ai libri. Colloqui previsti rigorosamente per familiari autorizzati, separati da un vetro divisorio. Un’area di passeggio volta a limitarti lo sguardo con mura alte fino al cielo e una rete come soffitto. Una pressione costante dello Stato sul detenuto, i suoi familiari, i suoi avvocati. Un messaggio unico per tutti coloro che sono costretti a orbitare intorno a questo universo: quello che succede al 41 bis non può essere comunicato. L’obbiettivo è distruggere il prigioniero, torturarlo fino al punto di spingerlo alla collaborazione. Un dogma intoccabile che non viene messo in discussione nemmeno di fronte alla morte. Un regime – visto dallo stesso diritto borghese che l’ha creato come un’eccezione a sé stesso – il cui rinnovo deve per forza essere avallato dal Ministro della cosiddetta “Grazia e Giustizia”, con decreto motivato in cui si giustifica la sua proroga. Questo iter amministrativo, suonerebbe come una buona notizia considerando che il preposto a tale dicastero è Carlo Nordio. Un uomo affetto da una sbadataggine cronica, preda di amnesie folgoranti che lo portano a rimpatriare in terra d’origine, con voli di Stato, noti torturatori come il generale libico Almasri, dimentico, improvvisamente, dei mandati d’arresto pendenti su di lui da parte di corti internazionali. Purtroppo la patologia di cui è affetto il ministro risulta oggettivamente selettiva e colpisce solo quando qualche potente ha qualcosa da perdere. Quindi, per le sorti detentive del compagno Alfredo Cospito, c’è poco da sperare nella malattia di Nordio. D’altronde Alfredo non è ricercato per reati di pluriomicidio su persone in condizione di minorata difesa (detenuti nelle carceri che il generale amministrava, reclusi principalmente per aver tentato clandestinamente la fuga dagli orrori e dalla miseria dei luoghi d’origine), non è accusato di sevizie e stupri, praticati con maggior sadismo su prigionieri accusati d’ateismo od omosessualità, finalizzati all’estorsione, non è capo di bande di miliziani al soldo di potere e denaro. Soprattutto, non è accusato di aver fatto questo e altro al servizio dell’imperialismo italiano, internando e torturando i rifugiati in nostra vece e combattendo la propria parte di guerra civile per le fazioni sponsorizzate dal nostro Paese e dall’Eni. Alfredo è, invece, un anarchico che crede, come credono gli anarchici, che un po’ di giustizia, differente da quella comunemente chiamata legge, si possa realmente portare in questo mondo dannato, affetto da logiche di predominio. Per questo ha rivendicato di aver gambizzato, in una splendida mattina di maggio del 2012, uno tra i massimi dirigenti del nucleare in Italia. Alfredo è un anarchico e come gli anarchici, come la compagna Anna Beniamino, non si fanno piegare da uno Stato che prima li accusa e poi li condanna con capi d’imputazione totalmente sproporzionati, come quello di “strage politica”, rimanendo a testa alta e, seppur sottoposti a un processo farlocco, ribadendo attraverso dichiarazioni spontanee la vera natura stragista dello Stato italiano. Alfredo, quindi, non è un leader e non ricopre ruoli apicali. Gli anarchici capi e gerarchie non ne hanno. È solo un uomo coerente in un mondo nel quale la coerenza fa paura. Per questo Alfredo non godrà delle amnesie selettive dei potenti. Per tirarlo fuori dal 41 bis serve la nostra determinazione.
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Solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari del mondo – Manifesto in solidarietà agli arrestati dell’Operazione “Delivery”
Riceviamo e diffondiamo: Solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari nel mondo. Sostegno alle lotte sociali con la lotta rivoluzionaria. Manifesto sull’operazione “Delivery” dell’11 settembre Diffondiamo un manifesto sull’operazione repressiva dell’11 settembre 2025, goffamente chiamata “Delivery”. L’operazione, imbastita dalla DDAA di Firenze e condotta dalla DIGOS, ha comportato due arresti e sei perquisizioni domiciliari nei comuni di Carrara, Montignoso, Pisa e Sarzana. Un compagno e una compagna si trovano agli arresti domiciliari restrittivi (ossia con divieto di comunicazioni e visite), in quanto indagati per “atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” (art. 280 bis c. p.) e altri reati connessi, in riferimento all’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023 (rivendicata dal Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio, aderente alla FAI-FRI). Per quanto riguarda l’operazione di polizia, invitiamo a leggere il testo “Arresti e perquisizioni tra Pisa e le Alpi Apuane in relazione all’attacco contro il tribunale di Pisa nel 2023”, a firma Un paio di perquisiti, e i seguenti comunicati in solidarietà da parte di vari spazi, circoli e collettivi. Sotto i file pdf e png: il formato consigliato per la stampa del manifesto è l’A3, ma è eventualmente possibile riprodurlo anche in A4 a mo’ di volantino: PDF: solidarieta-sostegno-manif-delivery Questo il testo del manifesto: SOLIDARIETÀ CON TUTTI I PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI NEL MONDO SOSTEGNO ALLE LOTTE SOCIALI CON LA LOTTA RIVOLUZIONARIA «Lo Stato, compreso quello democratico, è il più grande pericolo per la vita e la libertà di tutto il vivente. Permette il fiorire del capitalismo garantendo la stabilità di cui ha bisogno attraverso il sistema punitivo e repressivo. Tutto e tutti devono sottostare alle sue regole per la difesa del padronato». Così scriveva il Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio nel comunicato sull’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023. Un piccolo ordigno collocato a ridosso di un ingresso secondario del palazzo di giustizia. Non innescatosi, l’oggetto veniva successivamente disinnescato dalle forze di polizia. «Non sappiamo se la deflagrazione sia avvenuta, ma ci teniamo a sottolineare che quest’azione assume un’importanza non da poco: abbiamo dimostrato che è possibile avvicinarsi ai palazzi del potere e colpire». In questi casi è il messaggio ciò che conta. In quei mesi si manifestava impetuoso un intenso movimento di solidarietà internazionale contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Alfredo Cospito si trovava a oltre 120 giorni di sciopero della fame. Inquisitori e polizia giudiziaria erano al lavoro per ottenere l’ergastolo per lui e per sbarazzarsi nel lungo periodo di tanti altri anarchici. In quel contesto si pone quanto avvenuto a Pisa. In una realtà sociale dove ci si strappa le vesti per sostenere che l’unico orizzonte possibile è quello degli Stati, del capitalismo e dei loro spaventosi massacri, c’è ancora chi si batte per una lotta radicale contro lo sfruttamento, per il disfattismo contro le guerre dei padroni, per l’autonomia di pensiero e d’azione dell’individuo contro la società della subordinazione e coercizione tecnologica, per l’abbattimento di ogni potere politico ed economico in favore della libertà integrale di ciascuno. «La possibilità di confliggere con questo sistema di oppressione e sfruttamento viene arginata attraverso la prevenzione, tenendo d’occhio e inserendo in un sistema di reinserimento sociale asfissiante chiunque non si adegui, e attraverso i tribunali quando il pensiero si fa azione». Cosa fare contro un nemico che spontaneamente non farà mai alcun passo indietro? Una cosa almeno ci appare chiara. Non ci facciamo imbrogliare dai sostenitori della non-violenza e del pacifismo. Gli oppressi sono sempre in stato di legittima difesa e la violenza rivoluzionaria è necessaria, indispensabile per aprire delle possibilità di liberazione, prefigurando la vita senza più padroni e tribunali per cui ci battiamo. L’11 settembre un’operazione repressiva si è dispiegata tra le Alpi Apuane e Pisa: sei perquisizioni e due arresti domiciliari restrittivi, senza possibilità di comunicazioni o visite. La richiesta della procura era della custodia cautelare in carcere. Siamo al fianco di Luigi e Veronica, indagati e arrestati per l’azione contro il tribunale di Pisa e già inquisiti in una precedente operazione della polizia di prevenzione contro un quindicinale anarchico.
Stato di emergenza
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