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“Nostra patria è il mondo intero…”. Appello e manifesto per Juan
Riceviamo e diffondiamo con solidarietà e complicità: Care compagne e cari compagni, il giorno 30 /09 si terrà presso il tribunale di Brescia una delle udienze del processo contro il compagno anarchico Juan Sorroche, accusato di attentato con finalità di terrorismo per l’azione rivoluzionaria alla Polgai di Brescia. In questa occasione Juan leggerà una sua dichiarazione. Già precedentemente condannato per altri reati come un attacco contro la sede della Lega a Treviso ed uno contro il Tribunale di sorveglianza di Trento, ora si trova con un definitivo di 28 anni da scontare con due processi ancora da chiudere, uno quello di Brescia ed uno più recente per 270 bis notificato dalla procura di Trento. Riteniamo necessario rinnovare oggi la solidarietà a questo compagno che si trova a sostenere una lunga pena e concretizzarla con un percorso di sostegno solidale internazionalista, come lo sono l’analisi sociale e la lotta che caratterizza l’anarchismo. Per rendere concreto il nostro appoggio a Juan vogliamo intanto proporre a tutti/e i/le compagni/e di sottoscrivere il manifesto di solidarietà in allegato, invitarvi alle iniziative in suo sostegno per l’udienza del 30 settembre e, quando sapremo la data, per l’udienza della sentenza, e ad esprimere solidarietà con le pratiche che riterrete opportune nei vostri territori o nel mondo intero, in particolare nelle settimane a venire, da qui alla sentenza. Le pratiche di cui è accusato Juan sono le pratiche dell’anarchismo: salutiamo con gioia le azioni di liberazione di cui lui è accusato, facendo nostra la lotta. Palestina libera! Juan libero! Tutte e tutti libere/i! Per chi volesse sottoscrivere e ricevere copie del manifesto l’indirizzo mail a cui scrivere è edera@canaglie.net Qui il manifesto in pdf: Nostra patria manif.
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Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Manifesto contro il rinnovo del 41-bis ad Alfredo Cospito
Riceviamo e diffondiamo: Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Torniamo in piazza contro il rinnovo del 41 bis ad Alfredo Cospito! Da maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel regime detentivo di 41 bis. Il carcere duro che prevede una socialità estremamente ristretta, la censura permanente sulla posta e svariati divieti per l’accesso ai libri. Colloqui previsti rigorosamente per familiari autorizzati, separati da un vetro divisorio. Un’area di passeggio volta a limitarti lo sguardo con mura alte fino al cielo e una rete come soffitto. Una pressione costante dello Stato sul detenuto, i suoi familiari, i suoi avvocati. Un messaggio unico per tutti coloro che sono costretti a orbitare intorno a questo universo: quello che succede al 41 bis non può essere comunicato. L’obbiettivo è distruggere il prigioniero, torturarlo fino al punto di spingerlo alla collaborazione. Un dogma intoccabile che non viene messo in discussione nemmeno di fronte alla morte. Un regime – visto dallo stesso diritto borghese che l’ha creato come un’eccezione a sé stesso – il cui rinnovo deve per forza essere avallato dal Ministro della cosiddetta “Grazia e Giustizia”, con decreto motivato in cui si giustifica la sua proroga. Questo iter amministrativo, suonerebbe come una buona notizia considerando che il preposto a tale dicastero è Carlo Nordio. Un uomo affetto da una sbadataggine cronica, preda di amnesie folgoranti che lo portano a rimpatriare in terra d’origine, con voli di Stato, noti torturatori come il generale libico Almasri, dimentico, improvvisamente, dei mandati d’arresto pendenti su di lui da parte di corti internazionali. Purtroppo la patologia di cui è affetto il ministro risulta oggettivamente selettiva e colpisce solo quando qualche potente ha qualcosa da perdere. Quindi, per le sorti detentive del compagno Alfredo Cospito, c’è poco da sperare nella malattia di Nordio. D’altronde Alfredo non è ricercato per reati di pluriomicidio su persone in condizione di minorata difesa (detenuti nelle carceri che il generale amministrava, reclusi principalmente per aver tentato clandestinamente la fuga dagli orrori e dalla miseria dei luoghi d’origine), non è accusato di sevizie e stupri, praticati con maggior sadismo su prigionieri accusati d’ateismo od omosessualità, finalizzati all’estorsione, non è capo di bande di miliziani al soldo di potere e denaro. Soprattutto, non è accusato di aver fatto questo e altro al servizio dell’imperialismo italiano, internando e torturando i rifugiati in nostra vece e combattendo la propria parte di guerra civile per le fazioni sponsorizzate dal nostro Paese e dall’Eni. Alfredo è, invece, un anarchico che crede, come credono gli anarchici, che un po’ di giustizia, differente da quella comunemente chiamata legge, si possa realmente portare in questo mondo dannato, affetto da logiche di predominio. Per questo ha rivendicato di aver gambizzato, in una splendida mattina di maggio del 2012, uno tra i massimi dirigenti del nucleare in Italia. Alfredo è un anarchico e come gli anarchici, come la compagna Anna Beniamino, non si fanno piegare da uno Stato che prima li accusa e poi li condanna con capi d’imputazione totalmente sproporzionati, come quello di “strage politica”, rimanendo a testa alta e, seppur sottoposti a un processo farlocco, ribadendo attraverso dichiarazioni spontanee la vera natura stragista dello Stato italiano. Alfredo, quindi, non è un leader e non ricopre ruoli apicali. Gli anarchici capi e gerarchie non ne hanno. È solo un uomo coerente in un mondo nel quale la coerenza fa paura. Per questo Alfredo non godrà delle amnesie selettive dei potenti. Per tirarlo fuori dal 41 bis serve la nostra determinazione.
Carcere
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Solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari del mondo – Manifesto in solidarietà agli arrestati dell’Operazione “Delivery”
Riceviamo e diffondiamo: Solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari nel mondo. Sostegno alle lotte sociali con la lotta rivoluzionaria. Manifesto sull’operazione “Delivery” dell’11 settembre Diffondiamo un manifesto sull’operazione repressiva dell’11 settembre 2025, goffamente chiamata “Delivery”. L’operazione, imbastita dalla DDAA di Firenze e condotta dalla DIGOS, ha comportato due arresti e sei perquisizioni domiciliari nei comuni di Carrara, Montignoso, Pisa e Sarzana. Un compagno e una compagna si trovano agli arresti domiciliari restrittivi (ossia con divieto di comunicazioni e visite), in quanto indagati per “atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” (art. 280 bis c. p.) e altri reati connessi, in riferimento all’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023 (rivendicata dal Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio, aderente alla FAI-FRI). Per quanto riguarda l’operazione di polizia, invitiamo a leggere il testo “Arresti e perquisizioni tra Pisa e le Alpi Apuane in relazione all’attacco contro il tribunale di Pisa nel 2023”, a firma Un paio di perquisiti, e i seguenti comunicati in solidarietà da parte di vari spazi, circoli e collettivi. Sotto i file pdf e png: il formato consigliato per la stampa del manifesto è l’A3, ma è eventualmente possibile riprodurlo anche in A4 a mo’ di volantino: PDF: solidarieta-sostegno-manif-delivery Questo il testo del manifesto: SOLIDARIETÀ CON TUTTI I PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI NEL MONDO SOSTEGNO ALLE LOTTE SOCIALI CON LA LOTTA RIVOLUZIONARIA «Lo Stato, compreso quello democratico, è il più grande pericolo per la vita e la libertà di tutto il vivente. Permette il fiorire del capitalismo garantendo la stabilità di cui ha bisogno attraverso il sistema punitivo e repressivo. Tutto e tutti devono sottostare alle sue regole per la difesa del padronato». Così scriveva il Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria – Consegne a domicilio nel comunicato sull’azione contro il tribunale di Pisa del 21 febbraio 2023. Un piccolo ordigno collocato a ridosso di un ingresso secondario del palazzo di giustizia. Non innescatosi, l’oggetto veniva successivamente disinnescato dalle forze di polizia. «Non sappiamo se la deflagrazione sia avvenuta, ma ci teniamo a sottolineare che quest’azione assume un’importanza non da poco: abbiamo dimostrato che è possibile avvicinarsi ai palazzi del potere e colpire». In questi casi è il messaggio ciò che conta. In quei mesi si manifestava impetuoso un intenso movimento di solidarietà internazionale contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Alfredo Cospito si trovava a oltre 120 giorni di sciopero della fame. Inquisitori e polizia giudiziaria erano al lavoro per ottenere l’ergastolo per lui e per sbarazzarsi nel lungo periodo di tanti altri anarchici. In quel contesto si pone quanto avvenuto a Pisa. In una realtà sociale dove ci si strappa le vesti per sostenere che l’unico orizzonte possibile è quello degli Stati, del capitalismo e dei loro spaventosi massacri, c’è ancora chi si batte per una lotta radicale contro lo sfruttamento, per il disfattismo contro le guerre dei padroni, per l’autonomia di pensiero e d’azione dell’individuo contro la società della subordinazione e coercizione tecnologica, per l’abbattimento di ogni potere politico ed economico in favore della libertà integrale di ciascuno. «La possibilità di confliggere con questo sistema di oppressione e sfruttamento viene arginata attraverso la prevenzione, tenendo d’occhio e inserendo in un sistema di reinserimento sociale asfissiante chiunque non si adegui, e attraverso i tribunali quando il pensiero si fa azione». Cosa fare contro un nemico che spontaneamente non farà mai alcun passo indietro? Una cosa almeno ci appare chiara. Non ci facciamo imbrogliare dai sostenitori della non-violenza e del pacifismo. Gli oppressi sono sempre in stato di legittima difesa e la violenza rivoluzionaria è necessaria, indispensabile per aprire delle possibilità di liberazione, prefigurando la vita senza più padroni e tribunali per cui ci battiamo. L’11 settembre un’operazione repressiva si è dispiegata tra le Alpi Apuane e Pisa: sei perquisizioni e due arresti domiciliari restrittivi, senza possibilità di comunicazioni o visite. La richiesta della procura era della custodia cautelare in carcere. Siamo al fianco di Luigi e Veronica, indagati e arrestati per l’azione contro il tribunale di Pisa e già inquisiti in una precedente operazione della polizia di prevenzione contro un quindicinale anarchico.
Stato di emergenza
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Luci da dietro la scena (XXX) – Il nodo-guerra e la linea disfattista
Qui in pdf: Luci da dietro la scena (XXX) Luci da dietro la scena (XXX) – Il nodo-guerra e la linea disfattista Tagliare il nodo Il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita civile si calpesta la dignità di coloro che un giorno verranno mandati a morire per la dignità della nazione, ma che proprio quando la loro vita è così sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai più dure che in precedenza. Che cosa sono le offese considerate nei vari paesi motivi di guerra di fronte a quello che un ufficiale può impunemente infliggere a un soldato? Può insultarlo, e senza che sia ammessa replica alcuna; può dargli pedate – un autore di ricordi di guerra non si è forse vantato d’averlo fatto? Può impartirgli qualunque ordine sotto la minaccia del revolver, compreso quello di sparare a un compagno. Può infliggergli, a titolo di punizione, le angherie più meschine. Può quasi tutto, e ogni disobbedienza è punita con la morte o potrebbe esserlo. Coloro che, nella retrovia, sono ipocritamente celebrati come eroi, sono in realtà trattati come schiavi. E, tra i soldati sopravvissuti, quelli poveri, liberati dalla schiavitù militare, ricadono in quella civile, dove più d’uno è costretto a subire le insolenze di coloro che si sono arricchiti senza rischi. L’umiliazione continua e quasi metodica è un fattore essenziale della nostra organizzazione sociale, in pace come in guerra. Ma in guerra è portato a un grado più elevato. Se fosse applicato all’interno del proprio paese il principio in base al quale si dovrebbe respingere l’umiliazione al prezzo della vita stessa, si sovvertirebbe tutto l’ordine sociale, e, in particolare, la disciplina indispensabile per portare avanti la guerra. Che qualcuno osi, in queste condizioni, fare di questo stesso principio una regola della politica internazionale è veramente il colmo dell’incoscienza. […] Certo, ci sono sempre state delle guerre; ma l’elemento che caratterizza la nostra epoca è che sono fatte dagli schiavi. E, per di più, queste guerre in cui gli schiavi sono mandati a morire in nome di una dignità che non viene mai loro accordata, queste stesse guerre costituiscono l’ingranaggio essenziale del meccanismo dell’oppressione. Tutte le volte in cui esaminiamo da vicino e in maniera concreta i mezzi per diminuire effettivamente l’oppressione e la disuguaglianza, ci si scontra sempre con la guerra, con le conseguenze della guerra, con le necessità imposte dalla preparazione alla guerra. Non si scioglierà mai questo nodo, bisogna tagliarlo. (da un progetto di articolo scritto da Simone Weil nel marzo 1936) Circolo vizioso Viviamo in un’epoca in cui la relativa sicurezza, che un certo dominio tecnico sulla natura dà agli uomini, è ampiamente controbilanciata dai pericoli di rovine e massacri che i conflitti tra i gruppi umani provocano. […] I conflitti più minacciosi hanno un carattere comune che potrebbe rassicurare gli animi superficiali, ma che, malgrado l’apparenza, ne costituisce il vero pericolo: non hanno un obiettivo definito. […] La nostra sedicente epoca tecnologica si batte soltanto contro i mulini a vento. […] Così, quando si fa la guerra è per conservare o accrescere i mezzi per farla. Tutta la politica internazionale ruota attorno a questo circolo vizioso. Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, 1937 Nella quiete dei magazzini Ora siamo anche noi una entità maneggiabile, che può magari sopravvivere a lungo nella quiete dei magazzini, ma in qualunque momento deve aspettarsi di essere chiamata a contribuire a un riequilibrante massacro. […] Tutto ormai va più in là di qualsiasi previsione, di qualsiasi intenzione, eppure tutto obbedisce a una sua consequenzialità, lavora sul corpo e sulla psiche delle vittime, non fa in tempo a impacchettare un’impresa che già si accinge a nuove confezioni, non lascia finire una guerra senza gettare le basi dei campi di concentramento che fioriranno nelle successive. Roberto Calasso, La guerra perpetua (in Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, Milano, 1980) “Viva Menelik!”, “Abbasso Crispi!”, “Via dall’Africa!” […] Crispi aveva mandato [nel 1894] contro il movimento contadino dei fasci siciliani un vero e proprio corpo di spedizione di cinquantamila uomini, e contro l’agitazione dei cavatori della Lunigiana aveva fatto intervenire l’esercito, proclamato lo stato d’assedio e affidato ai tribunali militari l’incarico di riportare l’ordine e di reprimere ogni agitazione sociale. […] L’avventura africana finisce con il disastro di Adua [il 1° marzo 1896, l’esercito italiano viene pesantemente sconfitto nella città etiope dall’esercito abissino del negus Menelik]: per Umberto I, che “giocava a fare l’imperatore”, si tratterà di far rifondere le monete con la corona imperiale che già aveva fatto coniare dalla zecca. Per Crispi significa dover abbandonare per sempre il potere. “Viva Menelik!”, “Abbasso Crispi!”, “Via dall’Africa!” grida, la sera del 3 marzo 1896, una folla eterogenea e fittissima […] ammassata in piazza del Duomo, sotto la Galleria, in piazza della Scala a Milano, per esprimere lo sdegno popolare e chiedere le dimissioni del governo e la fine della guerra d’Africa, dopo la notizia della sconfitta di Adua. Davanti al municipio il sindaco moderato si affaccia per parlare alla folla, ma è accolto da bordate di fischi, mentre «volano sassate contro le guardie di pubblica sicurezza e i soldati inviati in servizio d’ordine vengono abbracciati, issati sulle spalle e portati in trionfo al grido di “viva l’esercito”, “viva i nostri fratelli”, frammisto al canto dell’Inno dei Lavoratori». «Poco dopo la mezzanotte la manifestazione è soffocata e sciolta dalle cariche brutali della cavalleria: sul terreno rimane un morto, un tipografo di diciannove anni trapassato da parte a parte da un colpo di baionetta; i feriti gravi sono sette, ottanta gli arrestati […] Una rabbia cupa, una tensione preinsurrezionale che [esplode] in manifestazioni di piazza spontanee […] A Pavia e Cremona migliaia di dimostranti invadono la stazione ferroviaria da dove sono in partenza contingenti di soldati per l’Africa, occupano i binari, si stringono intorno alla truppa per impedirne la partenza […] «Nelle città dell’Emilia e della Romagna sono presi d’assalto i palazzi comunali e le prefetture per imporre le dimissioni di Crispi […] Nel cuore di Torino, in piazza Castello, dinanzi al palazzo reale […] il presidente del Consiglio è bruciato in effigie» [per queste cronache vedi: Umberto Levra, Colpo di Stato della borghesia, Feltrinelli, Milano, 1975]. Le manifestazioni contro Crispi continuano a Bergamo, Genova, Bologna, Massa e Carrara, Macerata, Verona, Venezia, Monza, Ferrara, Padova, Pesaro, Fano, Firenze, Napoli. La popolazione scende nelle strade a chiedere il lutto nazionale, costringendo alla chiusura teatri, ritrovi, negozi. A Milano le manifestazioni riprendono il giorno dopo più violente; sono divelti i binari sul ponte Ticino per impedire la partenza di un contingente di soldati per l’Africa; a Parma, nel popolare quartiere dell’Oltretorrente compaiono le barricate. Circolano voci di indisciplina anche fra le truppe; manifestazioni si sarebbero avute nelle caserme di Milano; a Napoli molti alpini, in procinto di partire per le colonie, avrebbero disertato; molti coscritti, di fronte agli ufficiali, avrebbero gridato: “abbasso il re”. Crispi non vuole cedere. Da Roma chiede alla magistratura severi provvedimenti e ordina ai prefetti di prendere accordi con le autorità militari per stroncare la “rivoluzione”. Ma il suo governo è divenuto ormai insostenibile. La crisi di un gabinetto non deve trasformarsi in crisi dell’istituzione. Il re è costretto a intervenire. Le camere sono chiuse, ma a Crispi vengono imposte le dimissioni prima ancora dell’apertura delle camere. […] All’esterno, quando vengono annunciate le dimissioni del “dittatore” e del suo ministero, da una folla di diecimila persone che avevano sostato per ore sotto la pioggia in piazza Colonna, si levano applausi e grida […]. (brani estratti da Massimo Felisatti, Un delitto di polizia? Morte dell’anarchico Romeo Frezzi, Bompiani, Milano, 1975) Dice Ottolenghi Dice Ottolenghi: “Io preferisco essere ufficiale e non soldato… io voglio avere in mano una forza con cui agire…”. – Comandante della 11°: “Contro chi vuole impugnare quelle armi?”. – Ottolenghi: “Contro tutti i comandi”. – Comandante della 11°: “E dopo? Aspireresti tu ad essere il comandante supremo?”. – Ottolenghi: Io aspiro solo a comandare il fuoco. Il giorno X, alzo battuto, fuoco a volontà! E vorrei cominciare dal comandante di Divisione, chiunque esso sia, perché tutti, regolarmente, sono uno peggio dell’altro. – Comandante della 11°: “E dopo?”. – Ottolenghi: “Sempre avanti, seguendo la scala gerarchica. Avanti sempre, con ordine e disciplina. Cioè, avanti per modo di dire, perché i nostri nemici non sono oltre le nostre trincee. Prima, quindi, dietro front, poi avanti, avanti sempre”. – Un sottotenente: “Cioè indietro”. – Ottolenghi: “Naturalmente. Avanti sempre, avanti, fino a Roma. Là è il quartier generale nemico”. – Comandante della 11°: “E dopo?”. – Ottolenghi: “Ti pare poco. Il governo andrà al popolo”. – Comandante della 10°: “Se tu farai marciare l’esercito su Roma, credi tu che l’esercito tedesco e quello austriaco resteranno fermi in trincea? O credi che, per far piacere al nostro governo del popolo, i tedeschi rientreranno a Berlino e gli austro-ungarici a Vienna e a Budapest?”. – Ottolenghi: “A me non interessa conoscere quello che fanno gli altri. A me basta sapere ciò che io voglio… questa guerra non è altro che una miserabile strage”. – Comandante della 10°: “E la tua rivoluzione non è anch’essa una strage? Non è anch’essa una guerra, la guerra civile?”. – Ottolenghi: “Nella rivoluzione, io vedo il progresso del popolo e di tutti gli oppressi. Nella guerra, non vi è nient’altro che strage inutile”. (tratto da Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino, 1938) La continuità di una linea «L’interventismo nel movimento anarchico» ha scritto Pier Carlo Masini «non fu un fenomeno, non fu una corrente, non fu neppure il tema di un dibattito o il termine di una scissione, ma solo una serie di sporadici e slegati casi personali, qualcuno di rilievo, qualcun altro di nessun rilievo». La quasi compatta opposizione degli anarchici alla guerra ne fece dei protagonisti di quello che fu chiamato «disfattismo», rendendoli comodi bersagli della repressione militarista. Molti disertarono, scegliendo l’esilio svizzero o americano. Molti furono arrestati, processati, internati. […] Alla formula «neomalthusiana» dei socialisti – «né aderire né sabotare» – gli anarchici italiani ne avevano opposta un’altra, assai più chiara: «guerra alla guerra». Né prima né durante il conflitto essi avevano infatti sposato la tesi della neutralità. Neutri non erano ma ostili a tutti gli stati, a quello in cui vivevano non meno che agli altri. E per questa ostilità antistatale e antiborghese, per l’intransigente antibellicismo, per la volontà di trasformare la guerra tra gli stati in guerra di classe, non avevano potuto riconoscere tregue o patteggiamenti, né in nome della neutralità né in nome della guerra. La continuità di questa linea viene ribadita subito dopo la fine del conflitto. Non si può accantonare la sfiducia nei segreti intrallazzi delle vecchie volpi della diplomazia militarista e capitalista solo perché si incontrano in nome della pace. Scrive Volontà riprendendo le pubblicazioni: Non crediamo al ramoscello d’ulivo agitato sui popoli da coloro che hanno ancora al fianco una spada insanguinata. Come ieri dicevano «questa guerra non è la nostra guerra» oggi diciamo: questa pace non è la nostra pace. Se anche sarà sincera (del che dubitiamo, anzi siamo certi che non sarà), la pace fra i dominatori e gli sfruttatori dei popoli non sarà la pace dei popoli. (tratto da Vincenzo Mantovani, Mazurka blu. La strage del Diana, Rusconi, Milano, 1979)
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Nuova pubblicazione: “La Faglia”-numero unico scaricabile
Nuova pubblicazione: “La Faglia”, numero unico scaricabile Rendiamo disponibile e liberamente scaricabile il numero unico “La Faglia” contenente vari articoli tramite i quali si è voluto sviluppare alcune delle riflessioni affrontate durante gli incontri del circolo del quale siamo parte e dal quale questo numero prende il nome. La pubblicazione è stata divisa in tre diverse sezioni: “Faccia a faccia”, in cui abbiamo dato spazio alle dichiarazioni spontanee rese in aula il 15 gennaio 2025 durante l’udienza preliminare del processo Sibilla che ha visto coinvolti, oltre al compagno Alfredo Cospito, alcuni di noi e conclusosi con il non luogo a procedere; “Contro ogni Stato…” contenente due testi dedicati a questioni oltreconfine, uno incentrato sulla crisi economico-politica del sistema tedesco (testo con il quale si è inteso, tra l’altro, espandere e consolidare una parte degli argomenti discussi in occasione della due giorni di gennaio 2025 al circolo “A che punto stiamo della notte”) e uno sulla questione curda in seguito alla smobilitazione e capitolazione del PKK annunciata e disposta dal leader Abdullah Öcalan; l’ultima sezione “…a partire dal nostro”, incentrata principalmente su tematiche locali, include, oltre a due volantini redatti e distribuiti in occasioni differenti, un testo riguardante la questione sociale nell’epoca del governo Meloni e uno relativo al gasdotto Snam alla luce dell’odierno orizzonte di guerra. Le pagine che seguono non sono certo un esercizio di vuoto autocompiacimento. Men che meno vengono da noi considerate un fine. Costituiscono piuttosto uno strumento di approfondimento, di agitazione; una fotografia della dura realtà di questo sciagurato contesto storico plasmato da guerre capitaliste, avvitamenti repressivi, taglieggi padronali e vessazioni sociali. Se editare un giornale è sicuramente troppo poco, continuare a usare le nostre facoltà critiche è premessa quanto meno necessaria, sebbene insufficiente, a rovesciare un mondo che in ogni ambito somiglia sempre di più a una caserma. Circolo anarchico “La Faglia”, Estate 2025 * * * All’interno: Introduzione “Questa è la lebbra che chiamate civiltà” Dichiarazioni spontanee di Alfredo, Francesco, Michele, Matteo, Sara e Paolo rese durante l’udienza preliminare del procedimento Sibilla il 15 gennaio a Perugia È una forte pioggia quella che cadrà Stato di salute del sistema Germania e prospettive destabilizzanti Soluzione politica ricetta curda [volantino] Il nemico è in casa nostra Nessuna arma per le guerre della NATO Guadagnare meno, lavorare tutti Il segreto del «successo» economico del governo Meloni [volantino] Votare non serve, non votare non basta! Il Gasdotto Snam avanza ai ritmi della guerra di posizione * * * Contatti: Indirizzo: Circolo Anarchico “La Faglia”, via Monte Bianco 23, Foligno. E-mail: circoloanarchicolafaglia@inventati.org Canale telegram: t.me/circoloanarchicolafaglia Qui di seguito i file in formato pdf per la stampa e per la lettura: La Faglia_numero unico_stampaA3 La Faglia_numero unico_lettura
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Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima sicurezza e “genocidio incrementale”
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXIX) Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima sicurezza e “genocidio incrementale” Le due versioni del mega-carcere Le odierne prigioni assomigliano al Panopticon originariamente concepito da Jeremy Bentham, il primo filosofo moderno a giustificare la logica della reclusione all’interno di un nuovo sistema penale coercitivo. Il Panopticon, un carcere tristemente celebre all’inizio del XIX secolo, era progettato in modo da consentire alle guardie di osservare i prigionieri ma non viceversa. L’edificio era circolare, con le celle dei carcerati disposte lungo il perimetro esterno, mentre al centro del cerchio si trovava una grande torre di osservazione. In qualsiasi momento le guardie potevano guardare giù nella cella di ciascun detenuto – e quindi sorvegliarne il comportamento potenzialmente riottoso –, laddove delle tende accuratamente disposte impedivano ai carcerati di scorgere le guardie, così che non sapessero se e quando venivano monitorati. La convinzione di Bentham era che lo “sguardo” del Panopticon avrebbe costretto i prigionieri a comportarsi in modo virtuoso. Trovandosi come sotto l’occhio veggente di Dio, essi avrebbero dunque provato vergogna per i loro comportamenti malvagi. Sostituiamo alla condotta morale il collaborare con l’occupante, cambiamo la struttura circolare del Panopticon con una serie di criteri geometrici di imprigionamento, ed ecco che la decisione israeliana del 1967 appare proprio quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. […] Nel 1967 la rotta ufficiale tracciata da Israele, tra impossibili ambizioni nazionalistiche e colonialiste, trasformò un milione e mezzo di individui in detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a un società nella sua interezza. Era, ed è tutt’ora, un sistema crudele creato per la più vile delle ragioni, ma non solo. Nell’edificarla, alcuni architetti cercarono davvero di ispirarsi a un modello il più umano possibile, probabilmente perché consapevoli che si trattava di una pena collettiva inflitta per un crimine mai commesso. Altri, invece, non si curarono nemmeno di concepire una versione più blanda e umana. Giacché erano presenti queste due linee di pensiero, il governo offrì alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ambedue le versioni del mega-carcere. Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon, l’altra un carcere di massima sicurezza. E se non avesse accettato la prima versione, le sarebbe stata riservata la seconda. […] La verità è che la prigione a cielo aperto era già abbastanza dura e disumana da scatenare la resistenza della popolazione lì rinchiusa, per cui la variante di massima sicurezza veniva inflitta come rappresaglia a tale resistenza. […] I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi dura da oltre cinquant’anni [il testo è del 2017]. Il partito laburista e la sinistra sionista La responsabilità di aver ingannato il mondo durante quel decennio [1967-1977] ricade unicamente sul Partito Laburista (e, al suo interno, anche sul defunto Shimon Peres che, dopo la sua morte avvenuta nel 2016, è stato acclamato come un campione di pace). […] Nel 1969 il movimento laburista, che ancora si chiamava Mapai, attraversò una fase di ristrutturazione da cui uscì con un nuovo nome: divenne il Ma’arach (‘Alleanza’). Si trattava infatti di una coalizione formata dal Mapai, il Rafi (un gruppo parlamentare guidato da David Ben-Gurion) e l’Ahdut HaAvoda, il partito di Ygal Alon. L’ultimo gruppo a aderirvi fu quello della sinistra sionista, il Mapam. L’“Alleanza” rimase intatta fino alla sua sconfitta alle elezioni del 1977 contro il Likud, lo schieramento di Menachem Benin [poi di Sharon e di Netanyahu]. […] già nel 1967, al fine di mantenere un controllo strategico sui Territori Occupati, il governo unificato aveva concordato di stabilire coloni e soldati in alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A complicare il piano furono però due circostanze: una delle quali [l’altra è la resistenza palestinese] fu l’emergere del movimento messianico Gush Emunim, che inviò i propri seguaci a colonizzare quelli che consideravano antichi siti biblici, molto spesso proprio in mezzo alla popolazione palestinese della Cisgiordania. Il governo voleva invece insediare gli ebrei in aree meno densamente abitate dai palestinesi. Tra i responsabili politici era presente un numero davvero significativo di reduci del 1948, i quali credevano di aver riscattato per sempre l’antica Terra d’Israele nel 1967. In qualità di ministri del governo, essi chiusero un occhio quando, la notte del 12 aprile 1968, il primo gruppo di coloni ebrei si trasferì a Hahil, Hebron e in Cisgiordania. Il gruppo si installò al Park Hotel, proprio nel cuore della città, e poche settimane dopo il governo autorizzò la creazione della città ebraica di Qiryat Arba, che dominava su Hebron. La comunità internazionale rimase indifferente mentre, a quanto pare, in quel particolare frangente storico gli Stati Uniti decisero di inaugurare una nuova e potenziata fase del proprio rapporto con Israele: vollero infatti dotare lo Stato ebraico delle armi più avanzate e all’avanguardia in loro possesso (alla fine del 1968, furono consegnati a Israele cinquanta caccia Phantom). Il sostegno ai primi coloni da parte del governo laburista, rimasto al potere fino al 1977, passò del tutto inosservato sotto gli occhi di un mondo che, cinquant’anni dopo, avrebbe considerato gli insediamenti ebraici il primo ostacolo alla pace. Il sindacato La prigione aperta sembrava funzionare. Da quel momento in poi non ci fu più bisogno del coinvolgimento diretto del Comitato dei Direttori generali o del Ministero della Difesa. L’esercito attuava il suo dominio su ogni aspetto della vita, ma fin dall’inizio fu assistito da altri enti israeliani. Uno di questi era il sindacato generale, l’Histadrut. Questa organizzazione pre-statale era già stata molto efficiente nell’estromettere i palestinesi dal mercato del lavoro mandatario, e ciò a dispetto del fatto che veniva vista dal mondo occidentale – compreso il movimento sindacale britannico – come un esempio di organizzazione socialista votata al benessere dei lavoratori. Nel 1967, a partire dalla seconda settima di giugno [cioè dopo la Guerra dei Sei giorni e l’inizio dell’occupazione del restante 22% della Palestina storica], l’Histadrut fu incorporato nel meccanismo di occupazione. Il governo gli concesse il monopolio del commercio e dell’industria: e sul campo non agì come un sindacato, ma come un mastodontico complesso industriale. Il movimento “messianico” dei coloni Il movimento era già attivo nel 1968, ben prima di essere formalmente istituzionalizzato nel 1974 da Kook, il quale gli diede anche il nome di Gush Emunim (‘Il blocco dei fedeli’). […] Il primo atto ufficiale del movimento (da distinguere rispetto alle azioni intraprese dai coloni già presenti a Hebron e Gush Etzion) ebbe luogo alla fine del 1974. Fu il tentativo di insediarsi nella zona di Nablus, nella vecchia stazione ferroviaria ottomana di Sebastia, allo scopo di creare due stanziamenti ancora oggi presenti: Alon Moreh e Qadum. Anche se inizialmente essi vennero sfrattati, alla fine il governo laburista concesse loro il permesso di restare, tramite un accordo che suggellava l’integrazione degli sforzi compiuti dal governo con quelli dei coloni. Fu così che nel 1974 il movimento dei coloni divenne una lobby ideologica che influenzava le politiche governative riguardanti la colonizzazione e che godeva di una presenza sempre maggiore nella Knesset [il parlamento israeliano] e nella sfera pubblica in generale. Ma se per un verso i coloni erano dei manipolatori, per l’altro loro stessi venivano manipolati. Erano infatti usati come arma, e molto spesso come scusa, per giustificare la confisca di terre, e lo Stato ricorreva a loro come strumento demografico per effettuare una pulizia etnica con mezzi alternativi. Il movimento era un comodo canale per implementare quegli aspetti della politica di colonizzazione ai quali il governo laburista non voleva essere direttamente associato; specialmente le politiche che contraddicevano apertamente il diritto e le convenzioni internazionali. Anziché sullo Stato, infatti, la responsabilità veniva fatta ricadere su presunti gruppi di parte. Perciò, dopo che la mega-prigione, a prescindere dalla sua versione, fu delineata geograficamente e attivamente mediante il saccheggio delle terre, venne ulteriormente ristretta e modellata in forza della mappa delle colonie ebraiche. La vita in prossimità delle due comunità, quella dei palestinesi occupati e dei coloni, non faceva altro che accentuare l’immagine di un carcere. Ogni colonia, e ogni blocco di colonie, era circondato da una recinzione elettrica e da un muro che chiudevano i coloni al loro interno, ma che combinate tra loro rinchiudevano i palestinesi in decine di mini-prigioni dentro l’enorme complesso della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il Likud, o dell’indistinzione tra colono e soldato Il maggiore cambiamento rispetto al decennio precedente [1967-1977] fu la licenza di agire liberamente che il governo del Likud concesse ai coloni religiosi più ideologizzati. Dover integrare l’attività più violenta dei coloni all’interno della struttura generale di controllo non era un aspetto che tutti, nella burocrazia dell’occupazione, accolsero con favore. Tuttavia, i facinorosi e i vigilantes presenti tra i coloni, i quali spesso eseguivano azioni punitive come sradicare alberi, bruciare campi o, in generale, molestare i palestinesi, venivano tollerate perché la loro attività accresceva ulteriormente il controllo e la presenza di Israele, specialmente lungo i confini tra le enclavi palestinesi “pure” e le nuove “aree interdette” a chiunque non fosse ebreo. Nel 1982, Yitzhak Mordechai, il comandante della regione centrale, decise di impiegare nella zona di Hebron una compagnia di riserva composta da coloni in qualità di “unità di difesa regionale”. Anche altrove fu adottato questo sistema, in cui i coloni venivano usati come soldati nei pressi dei propri insediamenti, molto spesso con l’autorizzazione a intimidire e compiere ancora più abusi sulla popolazione locale. Un piano per Gaza del 1967 Complessivamente, secondo fonti dell’ONU, in quei primi giorni [di giugno del 1967] Israele espulse in totale quasi 180.000 palestinesi. Nel riassumere questo periodo di pulizia etnica della Palestina, vorrei tornare ad alcuni dei piani che non furono adottati, o quantomeno a uno che, purtroppo, in futuro potrebbe ancora avere una certa rilevanza, qualora Israele avesse mai il potere, la volontà o la necessità di allontanare in massa la popolazione occupata al fine di soddisfare le sue esigenze strategiche fondamentali. Parliamo dell’idea di trasferire la gente della Striscia di Gaza, o quantomeno gli esuli che lì vivono, in Cisgiordania. Ciò fu discusso seriamente, per la prima volta, nel luglio 1967 da uno dei più rispettati e alti ufficiali dell’esercito, Mordechai Gur, il quale fu invitato dal governo [ripetiamo: laburista] a presentare il suo piano. Egli propose di inglobare i profughi di Gaza a quelli in Cisgiordania: Dobbiamo creare le condizioni che inducano le persone ad andare via. Dobbiamo fare pressione su di loro, ma in modo da indurle a non resistere, bensì a partire. Dovrebbe essere incoraggiati a farlo sia i profughi [del 1948] sia i residenti in pianta stabile, così che questi sentano che non ci sono speranze nella Striscia [di Gaza] dal punto di vista agricolo […]. Inoltre, quando l’UNRWA completerà un nuovo censimento, sarà chiaro che essa non disporrà di razioni di cibo sufficienti per tutti i rifugiati […] questo potrebbe avere gravi implicazioni per la sicurezza […] dovremmo bloccare ogni sviluppo laggiù [in modo da incoraggiare il trasferimento]. La prova generale Nel 2004 l’esercito israeliano cominciò a costruire una città araba fittizia nel deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili. Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l’esercito israeliano, vista la battuta d’arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse preparare a combattare a sud una “guerra migliore” con Hamas. Dopo aver visitato il sito all’indomani della guerra in Libano, il capo di stato maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano «preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City». Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak [l’allora presidente di Israele] assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra conquistare la città fittizia, prendendo d’assalto le case vuote e uccidendo senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano. […] Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuta essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell’A[utorità]P[alestinese] [il famoso “Stato palestinese” sul cui riconoscimento i governi europei fanno finta di litigare] era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia, neppure la ritorsione per mezzo dell’assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla arrendere al modello voluto dagli israeliani. […] È così che è avvenuto il fiasco generale israeliano del 2005, trasformatosi poi in quello che altrove ho definito “genocidio incrementale della Palestina”. Gli israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal cielo. (brani tratti da Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi, Roma, 2022 [ed. originale 2017] )
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Sulla sentenza per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano. Raccolta di scritti solidali
Riceviamo e diffondiamo questo opuscolo, che raccoglie gli scritti in solidarietà a imputati e imputate per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano in solidarietà ad Alfredo Cospito e contro 41-bis ed ergastolo ostativo. Il primo grado di questo processo si è concluso con pesanti condanne contro 10 compagni e compagne, a cui mandiamo tutta la nostra solidarietà. Qui l’opuscolo: prova opuscolo 2
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