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Luci da dietro la scena (XXVI) – La morte della natura, il mondo-laboratorio
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXVI) Nella Casa di Salomone Bacone scrisse la sua utopia, la New Atlantis, nel 1624, poco prima della sua morte. In contrasto con le società organiche egualitarie di Campanella e di Andreae, in cui donne e uomini dovevano ricevere un’educazione e onori in gran parte simili, la struttura sociale di Bensalem di Bacone era gerarchica e patriarcale, modellata sulla famiglia patriarcale all’inizio dell’epoca moderna. […] L’istituto di ricerca scientifica destinato a portare il progresso a Bensalem, la comunità della Nuova Atlantide, si chiama Casa di Salomone. Il carattere patriarcale di questa società utopica viene rafforzato chiamando gli scienziati «Padri della Casa di Salomone». A Bensalem non esisteva alcun reale processo politico. Le decisioni venivano prese in vista del bene di tutti dagli scienziati, nel cui giudizio si doveva aver fiducia in quanto essi soli possedevano i segreti della natura. Gli scienziati decidevano quali segreti dovevano essere rivelati allo Stato nella sua totalità e quali dovevano restare proprietà privata dell’istituto anziché diventare di pubblico dominio. «Teniamo consultazioni per decidere quali scoperte ed esperienze da noi realizzate possono essere rese note al pubblico e quali no, prestiamo tutti un giuramento di non diffondere mai quelle che pensiamo debbano restare segrete. Alcune di queste talvolta le riveliamo allo Stato, altre neppure ad esso». […] Lo scienziato di Bacone non solo sembrava un prete, ma si comportava come un prete che avesse il potere di assolvere attraverso la scienza l’intera infelicità umana. Egli aveva «uno sguardo pieno di umana pietà» e «levava la mano nuda benedicendo il popolo silenziosamente». La strada era orlata di due ali di folla dall’aspetto felice, ordinato e completamente passivo: «La via era strabocchevole di folla, ma la gente era così ben ordinata da apparire simile a un esercito schierato in ordine di parata. Anche le finestre non erano sovraccariche, ma ognuno si affacciava ordinatamente». Lo «scienziato» di Bacone sembrerebbe un precursore di molti scienziati ricercatori moderni. Oggi i critichi della scienza sostengono che gli scienziati sono diventati i custodi di un corpus di conoscenza scientifica avvolto nei misteri di un linguaggio altamente tecnico che può essere inteso a fondo solo da chi abbia almeno una dozzina di anni di esperienza. Oggi tali scienziati hanno la possibilità di rivelare al pubblico solo le informazioni che considerano rilevanti. A secondo dell’etica e del punto di vista politico dello scienziato, tali informazioni possono essere o no al servizio del pubblico interesse. La Casa di Salomone, considerata per molto tempo il prototipo del moderno istituto di ricerca, fu un antecedente del modo meccanicistico di investigazione scientifica. Il metodo meccanicistico evolutosi durante il Seicento operava scomponendo un problema nelle sue parti componenti, isolandolo dal suo ambiente e risolvendone ogni sua parte separatamente. Il centro di ricerca di Bacone manteneva «laboratori» separati per lo studio dell’arte mineraria e dei metalli, delle meteorologia, degli organismi d’acqua dolce e d’acqua salata, di piante coltivate, insetti e via dicendo. […] Nei laboratori della Casa di Salomone uno degli obiettivi era quello di ricreare artificialmente l’ambiente naturale per mezzo della tecnologia applicata. Caverne ampie e profonde, chiamate «regioni inferiori», erano usate, «a imitazione delle miniere naturali, per la produzione di nuovi metalli artificiali, mediante la combinazione di vari materiali». In un’altra regione c’erano «un buon numero di pozzi e sorgenti artificiali fatte a imitazione delle sorgenti naturali». L’acqua salata poteva essere trasformata in acqua dolce, poiché «abbiamo anche stagni in alcuni dei quali purifichiamo l’acqua dal sale, e altri nei quali artificialmente trasformiamo l’acqua dolce in acqua salata». Il programma di Bacone non comprendeva solo la manipolazione dell’ambiente in vista del miglioramento dell’umanità, ma abbozzava specificamente la manipolazione della vita organica per creare specie artificiali di piante e animali. Bacone trasformò il mago naturale da «servitore della natura» in manipolatore della natura e trasformò l’arte da imitazione della natura in tecniche per forzare la natura in nuove forme e per la riproduzione in vista della produzione. «Otteniamo numerose specie di serpenti, vermi, insetti, pesci da sostanze in putrefazione e alcuni di questi animali sono arrivati a essere creature perfette come gli animali e gli uccelli: provvisti di sesso e capaci di propagarsi. E nulla di tutto ciò avviene per caso perché sappiamo in antecedenza quale specie di creatura nascerà da una determinata materia o incrocio». […] La Nuova Atlantide aveva parchi e recinti per animali e uccelli, nei quali venivano eseguiti proprio esperimenti del genere: «Riusciamo a renderli artificialmente più grossi o più alti degli altri membri della loro specie, o viceversa più piccoli, arrestando il loro sviluppo. Li rendiamo più fecondi e prolifici del normale oppure sterili e infecondi. Possiamo variarne il colore, la forma, le attività». Gli scienziati della Casa di Salomone non solo producevano nuove forme di uccelli e di bestie, ma alteravano le specie esistenti di erbe e di piante e ne creavano di nuove. «Conosciamo anche dei sistemi per far nascere, mediante combinazioni di terreni, varie piante senza semi, per produrre nuove specie di piante diverse dalle comuni e infine per trasformare una pianta in un’altra». Piuttosto che rispettare la bellezza degli organismi viventi, La Nuova Atlantide di Bacone propugnava la creazione di nuovi organismi: Abbiamo costruito poi grandi frutteti e giardini dalle diverse colture, nei quali non guardiamo tanto alla bellezza quanto alla varietà del terreno e alla sua idoneità alla coltivazione di piante ed erbe diverse… In questi stessi frutteti e giardini facciamo nascere artificialmente piante e fiori più presto o più tardi della stagione in cui esse nascerebbero naturalmente e le facciamo fiorire e fruttificare più rapidamente del normale. Siamo in grado anche di ottenere piante molto più grandi delle normali, e i frutti di queste piante sono più grandi, più dolci e differenti di gusto, profumo, colore e forma degli altri della specie originaria. […] Gran parte del programma di Bacone nella Nuova Atlantide mirava proprio a legittimare tali manipolazioni, il cui intento essendo quello di recuperare il diritto dell’uomo sulla natura, andato perduto con il peccato. […] Per poter controllare le devastazioni prodotte da una natura selvaggia e tempestosa, Bacone fissò tra gli obiettivi della Casa di Salomone il controllo artificiale dei fenomeni meteorologici e dei mostri e pestilenze ad essi associati. «Abbiamo anche case grandi e spaziose, dove imitiamo e riproduciamo i fenomeni meteorologici, come la neve, la grandine, la pioggia, le piogge artificiali di corpi non acquosi, i tuoni e i fulmini». […] Nella Nuova Atlantide risiedono le orgini intellettuali dei moderni ambienti pianificati iniziati dal movimento tecnocratico alla fine degli anni Venti e negli anni Trenta del nostro secolo, che prese in considerazione ambienti totalmente artificiali creati dall’uomo per l’uomo. Troppo spesso questi ambienti sono stati creati dallo stile meccanicistico di soluzioni di problemi, che presta poca considerazione all’intero ecosistema, di cui le persone sono solo una parte. Il meccanicismo, che rappresenta l’antitesi del pensiero olistico, trascura le conseguenze ambientali di prodotti sintetici e le conseguenze umane di ambienti artificiale. Si ha l’impressione che la creazione di prodotti artificiali sia stata il risultato della tendenza baconiana al controllo e al potere sulla natura, in cui «Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo». A questo programma di ricerca, i moderni ingegneri genetici hanno aggiunto nuovi obiettivi: la manipolazione di materiale genetico per creare la vita umana in grembi materni artificiali, la duplicazione di organismi viventi attraverso la clonazione e la generazione di esseri umani nuovi adattati ad ambienti altamente tecnologici. Un insieme di particelle morte e inerti Come modello unificante per la scienza e la società, la macchina ha permeato e ricostruito in modo così totale la scienza umana che oggi difficilmente ne contestiamo la validità. La natura, la società e il corpo umano sono composti da parti atomizzate intercambiabili che possono essere riparate o sostituite dall’esterno. La tecnologia consente di porre rimedio a un cattivo funzionamento ecologico, nuovi esseri umani sostituiscono i vecchi per mantenere un funzionamento senza scosse dell’industria e della burocrazia e una scienza medica sempre più incline all’intervento sostituisce un cuore nuovo a uno logoro, malato. La concezione meccanicistica della natura che viene insegnata oggi nella maggior parte delle scuole occidentali è accettata senza discussione come nostra realtà quotidiana, del senso comune: la materia è composta da atomi, i colori sono causati dalla riflessione di onde luminose di diversa frequenza, i corpi obbediscono alla legge d’inerzia e il sole è al centro del nostro sistema solare. Nessuna di queste nozioni faceva parte del senso comune per gli uomini del Seicento. La sostituzione dei precedenti modi di pensare «naturali» con una forma di vita – con modi di vedere, di pensare e di comportarsi – nuova e «innaturale» non si verificò senza lotta. La sopraffazione dell’organismo da parte della macchina diede molto da riflettere alle menti migliori, in un periodo gravido di timori, di confusione e di instabilità, tanto nella sfera intellettuale quanto in quella sociale. L’eliminazione degli assunti animistici, organici sul cosmo segnò la morte della natura: l’effetto di più vasta portata della Rivoluzione scientifica. Poiché la natura veniva considerata ora un insieme di particelle morte, inerti, mosse da forze esterne anziché interne, la cornice meccanica stessa poté legittimare la manipolazione della natura. Inoltre l’ordine meccanicistico, in quanto cornice concettuale, era associato a un sistema di valori fondati sul potere, del tutto compatibile con gli orientamenti assunti dal capitalismo commerciale. […] I meccanicisti trasformarono il corpo del mondo e la sua anima femminile, che nel cosmo organico era fonte di attività, in un meccanismo di materia inerte in moto, tradussero lo spirito del mondo in un etere corpuscolare, purgarono la natura dalla molteplicità di spiriti individuali e trasformarono simpatie e antipatie in cause efficienti. La spoglia inerte che ne risultò era un sistema meccanico di corpuscoli morti, messi in moto dal Creatore, così che ciascuno di essi obbedisse alla legge d’inerzia e fosse mosso solo per mezzo di un contatto esterno con un altro corpo in movimento. […] L’avvento del meccanicismo gettò le basi di una nuova sintesi del cosmo, della società e degli esseri umani, costruiti come sistemi ordinati di parti meccaniche soggette al governo della legge e alla prevedibilità attraverso il ragionamento deduttivo. Un nuovo concetto dell’io come padrone razionale delle passioni contenute in un corpo simile a una macchina cominciò a sostituire il concetto dell’io come parte integrante di una stretta armonia di parti organiche unite al cosmo e alla società. Il meccanismo rese la natura effettivamente morta, inerte, e manipolabile dall’esterno. Un compendio L’incidente accaduto nel marzo 1979 al reattore nucleare di Three-Mile Island nei pressi di Harrisburg, in Pennsylvania, ha compendiato i problemi di «morte della natura» che sono divenuti evidenti dopo la Rivoluzione scientifica. La manipolazione dei processi nucleari in uno sforzo di controllare e imbrigliare la natura attraverso la tecnologia si è tradotta in un disastro. Gli interessi economici a lungo termine e l’immagine pubblica della società elettrica e del progettista dell’impianto furono posti al di sopra della sicurezza immediata delle gente e della salute della terra. Gli effetti occulti di emissioni radioattive che, concentrandosi nella catena alimentare, potrebbero condurre nei prossimi anni a un aumento del cancro, furono inizialmente sminuiti da coloro che avevano la responsabilità di regolamentare l’energia atomica. Three-Mile Island è un simbolo recente della malattia della terra causata da scorie radioattive, antiparassitari, materie plastiche, smog fotochimico e fluorocarburi. L’inquinamento dei «suoi fiumi più puri» è stato sostenuto a partire dalla rivoluzione scientifica da un’ideologia del «potere sulla natura», un’ontologia di parti atomiche e umane intercambiabili e una metodologia di «penetrazione» nei suoi segreti più riposti. La terra malata, «anzi morta, anzi putrefatta», potrà probabilmente essere restituita a lungo termine alla salute solo da un rovesciamento dei valori della maggioranza e da una rivoluzione nelle priorità economiche. In questo senso, il mondo dovrà essere messo ancora una volta sottosopra. (brani tratti da Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica [1980], Editrice Bibliografica, Milano, 2022)
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Uscita dell’opuscolo “Dall’internazionalismo alla solidarietà umanitaria”
Riceviamo e diffondiamo: Dall’internazionalismo alla solidarietà umanitaria o di come la solidarietà si è trasformata in un investimento economico neoliberista e in uno strumento di ricatto in Palestina e non solo Questo testo nasce da un’iniziativa che si è svolta a Genova nell’ aprile 2024 e di cui porta il titolo. La discussione voleva abbozzare una breve riflessione critica sulla funzione della cooperazione allo sviluppo (ma anche degli enti caritatevoli, ONG, ecc.) come strategia ufficiale (o latente) della politica estera degli Stati imperialisti, senza la pretesa di esaustività, vista l’ampiezza della tematica. Attraverso i contributi di un compagno del collettivo Hurriya! di Pisa e di una compagna di GPI, il testo prova a fornire alcuni spunti di riflessione e di approfondimento sulla solidarietà “umanitaria” quale fenomeno ampio, collaterale (e il più delle volte in combutta) alle politiche di predazione economica e di controllo del territorio. Dalla quarta di copertina Con l’indebolimento della militanza internazionalista, il grosso della solidarietà praticata in Occidente si è progressivamente piegato ai progetti di cooperazione allo sviluppo capitalista. Si sono affermate nuove figure ibride (operatori umanitari,cooperanti “dal basso”, ecc) per cui carriera professionale e bisogno di reddito si fondono spesso con l’attivismo politico e che accettano le condizioni dei finanziatori e degli Stati (occupanti o meno) in qualsiasi tipo di intervento. La lotta contro il nemico comune per una trasformazione collettiva è stata sostituita con progetti di cooperazione economica completamente compatibile (e talvolta in sinergia) con le politiche di colonizzazione e predazione economica di Stati e Capitale. Se in Palestina la rinuncia al diritto al ritorno è una condizione necessaria per accedere agli aiuti internazionali, in Italia chi lavora nel sistema di accoglienza è costretto a collaborare al disciplinamento degli immigrati, alla società dello sfruttamento e dell’alienazione. Avere ceduto tanto terreno comporta, per chi sceglie di agire al di fuori della logica dei diritti umani che relega gli oppressi al ruolo di vittime, l’essere criminalizzato come nemico della democrazia. Scarica la nota introduttiva: opuscolo_ONG-nota introduttiva pagine 26 1.50 euro a copia, 1 euro per i distributori (dalle 5 copie in su) spese di spedizione 1,50 euro per informazioni e spedizioni: irregolari@inventati.org
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Campagna di sfida, n. 2 – Spezzare le collaborazioni con il genocidio
Riceviamo e diffondiamo il secondo numero di “Campagna di Sfida”, bollettino dell’omonima campagna, volta a spezzare le collaborazioni tra ateneo trentino e università israeliane, portata avanti a Trento dall’Assemblea in solidarietà alla resistenza palestinese. Il numero è dedicato in particolare alla Fondazione Bruno Kessler. CAMPAGNA DI SFIDA #2 – VERSIONE STAMPA DEFINITIVA Qui il primo numero del bollettino: https://ilrovescio.info/2025/01/20/campgna-di-sfida-un-bollettino-contro-le-collaborazioni-trentine-con-il-genocidio-a-gaza-e-lindustria-bellica/
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È uscito “Non siamo stati noi ad assassinare Puig Antich” dei Gruppi Autonomi Rivoluzionari Internazionalisti
Riceviamo e diffondiamo (per informazioni su come ordinare copie vedi in fondo): Gruppi Autonomi Rivoluzionari Internazionalisti NON SIAMO STATI NOI AD ASSASSINARE PUIG ANTICH Titolo originale: NO FUIMOS NOSOTROS QUIENES ASESINAMOS A PUIG ANTICH (Grupos Autónomos Revolucionarios Internacionalistas) Prometeo Ediciones, primavera 2024. ———————— Per tradurre un libro editato in una lingua diversa occorrono energie e tempo, è necessario quindi dare un senso perchè questa energia e questo tempo non siano sprecati. Le parole danno un significato all’agire (anche se spesso l’azione si spiega da sola) che è essenziale per costruire la propria forma di e nel mondo. Le parole da sole non sono sufficienti per comprovare la pratica dell’utopia. Le parole ci aiutano però a non dimenticare, a far conoscere la nostra storia, la storia dei vinti quando a scrivere la Storia sono i vincitori, la storia delle e degli audaci, di coloro i/le quali azzardano e arrischiano, che lanciano il cuore oltre l’ostacolo. Perché come è apparso sulle colonne de «l’anarchie»: La vita, tutta la vita, è nel presente. Aspettare è perderla. In queste pagine parleranno i GARI e i prigionieri accusati di far parte dei GARI, come sempre nelle nostre pubblicazioni abbiamo voluto dare risalto alla testimonianza diretta per non travalicare l’esperienza soggettiva del percorso individuale di chi ha voluto intraprendere la propria rivolta contro il Sistema; da qui lo sciopero della fame di quarantatré giorni visto con gli occhi di chi lo ha intrapreso, benché contrario a tale pratica,  come unica possibilità per sottrarsi alle continue umiliazioni ci ha riportato alla mente la vicenda di Alfredo Cospito e dei suoi centoottanta due giorni  di sciopero della fame. Ci ha ricordato che dobbiamo avere fiducia nella capacità di auto-critica di chi lo inizia, come hanno ludicamente dimostrato i compagni dei GARI nella Lettera da Fresnes. Inoltre ci sembra interessante affrontare la questione del terrorismo, questo mostro spaventoso che solo al sentirlo nominare ci azzittisce atterrite dalla paura dei nostri pensieri. In questo testo troverete una visione differente da quella che apparirà nei libri della Collana La vita non attende di prossima uscita, tratti da Programma della fazione terroristica di Narodnaja Volja e da La lotta terroristica (Morozov 1880). Come anarchiche non abbiamo risposte certe ma solo una selva di punti interrogativi. Ognuna cercherà le proprie risposte e speriamo che nel farlo la terra ci tremi sotto i piedi. ———————— Dal prologo di Francisco Solar Carcere di La Gonzalina – Rancagua Gennaio 2024   Se stiamo parlando di espressioni di solidarietà rivoluzionaria, solidarietà incentrata sulla liberazione dei compagni imprigionati, è impossibile non citare l’interessante e particolare attività dei Gruppi di Azione Rivoluzionaria Internazionalista (GARI). Costituito appositamente per sostenere e solidarizzare con i prigionieri del Movimento di Liberazione Iberico (MIL), ha realizzato molte azioni su larga scala per far conoscere e denunciare il brutale trattamento riservato dalla dittatura franchista a questi combattenti imprigionati, che comprendeva anche la pena di morte, come nel caso di Salvador Puig Antich. Pertanto, l’esperienza di GARI è inseparabile da quella del MIL, dove molti dei suoi membri entrarono a far parte del primo, dando continuità ad approcci e pratiche basati sulla lotta. Così, il modo in cui i membri incarcerati del MIL hanno inteso la solidarietà con i compagni incarcerati, che si riflette in: “[…] l’intensificazione della lotta per distruggere il sistema che genera la repressione è il modo migliore per sviluppare la solidarietà dei rivoluzionari con i prigionieri” , è diventato parte costitutiva delle idee che hanno dato contenuto alle azioni del GARI. Tuttavia, mentre continuare a colpire il potere sarebbe stata la forma più appropriata di solidarietà, che indubbiamente caratterizzava questo gruppo internazionalista, tutta la loro attività ruotava intorno ai prigionieri del MIL. Tutte le loro azioni erano in diretta relazione con la realizzazione di una solidarietà rivoluzionaria che irrompesse con forza sulla scena sociale europea e diffondesse in questo modo la situazione dei compagni imprigionati e la brutalità esercitata dagli ultimi anni del regime di Franco. L’obiettivo era chiaro: evitare le condanne a morte di diversi prigionieri e ottenere la liberazione dei militanti del MIL. La vita dei GARI fu breve ma di notevole intensità. Scossero la tranquilla normalità di Paesi come l’Olanda, il Belgio e la Francia con ordigni esplosivi, mirando fondamentalmente agli interessi spagnoli. La maggior parte delle loro azioni ottenne, per la loro ampiezza e particolarità, una grande copertura mediatica che, in parte, permise di far conoscere la realtà affrontata dax  prigionierx rivoluzionarx e di generare, in una certa misura, sostegno alla campagna internazionale per la loro liberazione. L’assassinio di Stato di Salvador Puig Antich da parte della vile garrota segnò un prima e un dopo per l’ampio movimento antifranchista e, in particolare, per l’attività del GARI, con l’entrata in gioco di un fattore decisivo: la vendetta. L’esecuzione del compagno, lungi dal provocare l’immobilismo dei membri del GARI, costituì una chiara chiamata all’azione che completò e intensificò la lotta per la liberazione dei membri del MIL. La rabbia e l’impotenza si trasformarono rapidamente in attacchi energici contro gli interessi spagnoli, dando un segnale di risposta immediata all’aggressione ricevuta. Le azioni incorniciate dalla vendetta di Puig Antich riflettono, da un lato, la reazione quasi istintiva dei compagni, che decidono di contrattaccare, e dall’altro la capacità di portare a termine attacchi potenti e immediati, dando un chiaro segno di forza. Rispondere, vendicare, ripagare ogni aggressione da parte del Potere significa affrontare la guerra in prima persona, significa farsi carico della complessità del conflitto e significa anche saper prendere la parola, capire che non si è spettatori e che le situazioni non sono inavvicinabili. Sono state queste idee a dare contenuto alle azioni vendicative del 2019 a Santiago [Cile] per le quali sono stato condannato e per le quali sono stato rinchiuso per diversi decenni. Nonostante siano passati vent’anni, il vile assassinio della compagna Claudia López è stato vendicato con una potente esplosione che ha scosso la stazione di polizia dei Carabineros, utilizzata come centro di pianificazione e protezione quella notte del settembre 1998, ferendo diversi poliziotti. Così come gli assassinii e le ondate repressive protette e promosse dall’ex ministro degli Interni Rodrigo Hinzpeter hanno avuto una risposta che ancora oggi tiene in allerta i rappresentanti del potere. La vendetta, quindi, si inscrive all’interno delle pratiche politiche offensive, dando loro senso e contenuto, costituendo un motore che spinge l’azione vendicativa. Strettamente legata alla memoria, ha la capacità di trovare il momento giusto per entrare in scena, a volte immediatamente, a volte nel corso degli anni. L’importante, ovviamente, è che diventi presente. In questo senso, la vendetta, oltre al fatto concreto che rappresenta, contiene una dimensione simbolica rilevante nella misura in cui dà conto di un universo di codici condivisi che danno coesione, rafforzano e danno continuità a un determinato gruppo. Non lasciare impunito l’omicidio dex compagnx, praticare la solidarietà rivoluzionaria con x nostrx prigionierx, fanno parte di quell’impalcatura storica che ci permette di continuare a stare in piedi e di non vivere esclusivamente nei libri di storia come molti vorrebbero. La comprensione della lotta in questo modo spazza via ogni forma di delega che mette nelle mani di terzi la speranza di prendere in mano la situazione. I GARI non si sono costituiti per ordine di alcun partito o sindacato, né per direttive o mandati di alcun tipo. Ciascuno dei suoi membri, molti dei quali provenienti dal MIL, decise liberamente di dare vita a questo gruppo con lo scopo di sostenere attivamente x proprix compagnx di prigionia. Pertanto, fin dalla sua genesi, l’autonomia è stata un fattore fondamentale che ha determinato ogni loro decisione, che ha dato loro il dinamismo e la flessibilità che ha permesso di adattare le loro pratiche a situazioni e contesti specifici. Sono stati, in misura maggiore o minore, la continuazione dei MIL, portando avanti l’“intensificazione della lotta per distruggere il Sistema che genera la repressione”, come modo più appropriato e coerente di praticare la solidarietà con x rivoluzionarx imprigionatx, un approccio sviluppato dai MIL, adottato dai GARI e, successivamente, anche da Action Directe. Questa posizione rompe radicalmente con il vittimismo che generalmente caratterizza la solidarietà con x detenutx, anche quelli che si dichiarano attivx e militantx, ed è per questo che è fondamentale conoscerla e tenerla in considerazione oggi, dove le pratiche assistenziali sono sempre più ricorrenti, dimenticando o tralasciando il fatto e le motivazioni che hanno portato x nostrx compagnx in carcere. ————————     SOMMARIO Comunicati SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ[I] SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [II] SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [III] SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [IV] COMUNICATO STAMPA INVIATO A «LIBERATION» PER QUANTO RIGUARDA GLI ARRESTI    “IL CASO SUAREZ”. ALCUNE PRECISAZIONI POLITICHE SU QUELLO CHE NON È UN FATTO DI INTERESSE GIORNALISTICO LA SOLIDARIETÀ IN AZIONE. TELEGRAMMA ALLE AUTORITÀ SPAGNOLE 18 LUGLIO DEL 1974 MI CHIAMO MARIA, ABITO A LOURDES E QUESTA NOTTE ASPETTAVO CHE MI PORTASSERO IN CIELO LETTERA APERTA A «LA DE PECHE DU MIDI» ULTIMO COMUNICATO STAMPA IL NOSTRO E’ TERRORISMO? AUTODISSOLUZIONE DEI GARI ELENCO DEI SOGGETTI INCRIMINATI (O IN FUGA) Testi dei gruppi che parteciparono ai gari DICHIARAZIONI A «LIBERATION» DOBBIAMO ULULARE CON I LUPI IL SEQUESTRO DEL PRINCIPE DELLE ASTURIE A COSA VI RIFERITE QUANDO PARLATE DI VIOLENZA GRATUITA? 6 GENNAIO DEL 1975 22 APRILE 1976 23 APRILE 1976 TESTO DI UN GRUPPO CHE PARTECIPO’ AI GARI LETTERE DALLA PRIGIONE LETTERA DAL CARCERE DE LA SANTE’ NON SIAMO STATI NOI AD ASSASSINARE PUIG ANTICH SECONDA LETTERA DALLA PRIGIONE DEGLI ACCUSATI DEL GARI LETTERE DEI PRIGIONIERI DEI GARI DAL CARCERE SULLO SCIOPERO DELLA FAME LETTERA DA FRESNES LETTERA DALLA PRIGIONE DI SAINT-MICHEL LETTERA DEI PRIGIONIERI PER UN NUOVO SCIOPERO DELLA FAME LETTERA A UN GIUDICE APOLITICO E INDIPENDENTE LETTERA DEI PREGIONIERI POLITICI DI LA SANTE’ Appndice IL M.I.L. E LA RESISTENZA ARMATA IN SPAGNA COMUNICATO PER GLI ARRESTI DOPO IL RILASCIO Dl SUAREZ. – N. 1 COMUNICATO PER GLI ARRESTI DOPO IL RILASCIO Dl SUAREZ. – N. 2 GRUPPI D’AZIONE RIVOLUZIONARIA INTERNAZIONALISTA COMUNICATO STAMPA DEI GRUPPI AUTONOMI INVIATO A «LIBERATION» DOCUMENTI RELATIVI ALL’ARRESTO Dl COMPAGNI DEL GARI ——————– pagine 124 formato 12×16,5 cm 1 copia 6 euro dalle 4 copie 5 euro spese di spedizione 1,50 euro piego di libri pacco tracciabile 5 euro per informazioni: tremendedizioni@canaglie.org    
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Luci da dietro la scena (XXV) – Ethica more Gaza demonstrata
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXV) Uno scomodo rumore Il mondo dei diritti individuali, delle frontiere aperte e del diritto internazionale si sta allontanando rapidamente. Oggi, la recinzione statunitense lungo il confine messicano, la pratica australiana di imprigionare i richiedenti asilo su isole al di fuori del suo territorio, l’aperto incitamento rivolto da un ministro degli Interni britannico ai nazionalisti inglesi di estrema destra e la crescente ossessione di molti giovani uomini per il «genocidio bianco», la «Grande Sostituzione» e altri scenari apocalittici prospettati all’inizio del Ventesimo secolo, rendono crudelmente visibile il ritorno a casa del suprematismo bianco nel cuore dell’Occidente moderno. Il 7 ottobre il suo feroce atteggiamento difensivo si è infiammato, quando Hamas ha distrutto, in modo definitivo, l’aura di invulnerabilità di Israele. Quest’assalto a sorpresa da parte di persone che si presumeva fossero state schiacciate rappresenta, per molte maggioranze bianche turbate e inorridite, la seconda Pearl Harbor del Ventunesimo secolo, dopo l’11 settembre. E, come è già successo, la percezione diffusa che il potere bianco sia stato pubblicamente violato ha «scatenato», secondo le parole di John Dower, «una rabbia che rasenta la furia genocida». Nel tentativo di riconquistare la propria immagine di potenza attraverso un bagno di sangue, Israele e i suoi sostenitori barcollano verso la «terribile probabilità» delineata in passato da James Baldwin: che i vincitori della storia, «lottando per mantenere ciò che hanno rubato ai loro prigionieri, e incapaci di guardarsi allo specchio, scateneranno un caos nel mondo che, se non porrà fine alla vita su questo pianeta, provocherà una guerra razziale di dimensione che il mondo non ha mai visto». Abbiamo già assistito a Gaza – dopo i milioni di morti evitabili nel corso della pandemia – a un’altra fase di quella che l’antropologo sociale Arjun Appadurai chiama «una vasta correzione malthusiana mondiale» che è «orientata ad approntare il mondo per i vincitori della globalizzazione, senza il rumore scomodo dei suoi perdenti». Non è esagerato affermare che raramente la posta in gioco etica e politica è stata più alta. L’abisso che abbiamo davanti Gaza ha allungato l’ombra della Shoah su molte più persone della popolazione ebraica mondiale. Nella storia moderna, è stato il destino di miliardi di persone in tutto il mondo quello di vedere la pulsione di morte all’opera. Rimarranno a lungo impressi nella loro memoria momenti isolati di un’orgia di violenza bestiale: Sha’ban al-Dalou, uno studente di ingegneria di diciannove anni, bruciato vivo, con una flebo attaccata al braccio, in uno dei tanti ospedali bombardati da Israele; soldati israeliani, intervistati dalla CNN, che affermano di «non riuscire più a mangiare carne» dopo avere schiacciato centinaia di palestinesi sotto i bulldozer ed essersi accorti di come «tutto schizza fuori». Imprimendo nella nostra coscienza la violenza gratuita delle nostre società, un’offesa così incomprensibile è insanabile, come avvertiva Primo Levi. Essa «pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia». E renderà più difficile l’urgente compito etico di connettere tra loro le diverse storie di sofferenza, di esplorare insieme un passato di catastrofi collettive, per orientarci verso le sfide di un futuro inevitabilmente pluralista e il destino comune del cambiamento climatico. Dopo aver assistito per diversi mesi a un feroce genocidio, con la consapevolezza che è stato concepito, eseguito e approvato da persone molto simili a loro, che lo hanno presentato come una necessità comune, legittima e persino umana, milioni di persone adesso si sentono meno a casa nel mondo. Lo shock di questa rinnovata esposizione a un male tipicamente moderno – il male commesso nell’era premoderna solo da individui psicopatici e scatenato nel secolo scorso da governanti e cittadini di società ricche e teoricamente civilizzate – non può essere ignorato. Né può esserlo l’abisso morale che abbiamo davanti. Una scossa di consapevolezza etica Il Ventesimo secolo – segnato dai conflitti più brutali e dai più grandi cataclismi morali della storia – ha messo in luce i pericoli di un mondo in cui non esisteva alcun vincolo etico su ciò che gli esseri umani potevano o osavano fare. La ragione secolare e la scienza moderna, che avevano rimpiazzato la religione tradizionale, non solo hanno rivelato la loro incapacità di legiferare sulla condotta umana, ma hanno anche avuto un ruolo nelle nuove e più efficienti modalità di sterminio impiegate a Auschwitz e Hiroshima. Il rispetto religioso dei sani princìpi era in declino ovunque. Ma nei decenni di ricostruzione successivi al 1945 è stato possibile, anzi imperativo, sperare che la malvagità umana organizzata fosse largamente in ritirata. Si poteva quantomeno provare ad aggrapparsi alla teologia laica negativa, il «mai più» adottato nelle commemorazioni della Shoah, anche se fu spesso ripudiato, come in Cambogia, Ruanda e nei Balcani. Quella a cui siamo di fronte oggi è una rottura definitiva nella storia etica globale dopo il Ground Zero del 1945; la storia in cui la Shoah era il riferimento universale per indicare un tragico fallimento della moralità umana. Da qualche tempo le immagini idealizzate che abbiamo dei nostri Paesi, siano essi l’India, Israele, gli Stati Uniti o l’Europa, sono al collasso. Il mondo come lo conoscevamo, modellato a partire dal 1945 dai beneficiati della schiavitù, del colonialismo e del nazionalismo anticoloniale, si sta sgretolando. […] In Oriente così come in Occidente, nel Nord e nel Sud del mondo, siamo stati chiamati a nuove lotte per la libertà, l’uguaglianza e la dignità e per creare un mondo in cui ci sia meno miseria. Ma è stata proprio Gaza a spingere molti a fare i conti con il profondo malessere delle loro società. È Gaza che ha accelerato l’idea di un mondo decrepito che non ha più alcuna fiducia in se stesso e che, preoccupato solo dell’autoconservazione, calpesta i diritti e i princìpi che un tempo considerava sacri, ripudia ogni senso di dignità e onore, e premia la violenza, la menzogna, la crudeltà e il servilismo. Allo stesso tempo in cui provoca sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto, Gaza diventa per molte persone impotenti la condizione essenziale della coscienza politica ed etica del Ventunesimo secolo, proprio come lo è stata la Prima guerra mondiale per una generazione in Occidente. I crimini di Gaza e i numerosi atti di complicità e voluta indifferenza che li hanno resi possibili hanno avuto un impatto più profondo tra i giovani nella tarda adolescenza e nei ventenni. Al confine tra l’infanzia e l’età adulta, hanno ricevuto una rapida e brutale formazione sulle barbarie della storia e su come gli adulti che detengono il potere le giustificano: un’esperienza finora del tutto estranea alla loro percezione collettiva. Mentre politici, burocrati, uomini d’affari mentivano e insabbiavano, o fingevano di ignorare, i giovani studenti si sono trovati ad affrontare in tempo reale un fenomeno sconvolgente che gli storici dei genocidi affrontano retrospettivamente, e con cui sono ancora alle prese […]. […] Scendendo in strada a protestare, i giovani hanno affrontato, soprattutto negli Stati Uniti, la forza della condanna da parte della classe dirigente, che si trattasse di rettori delle università che scatenavano la polizia militarizzata contro di loro, di miliardari che cancellavano offerte di lavoro o di un candidato alle presidenziali che prometteva di espellere i giovani stranieri. […] Nel suo libro I sommersi e i salvati Primo Levi descrive Auschwitz come «il microcosmo della società totalitaria» in cui «viene concesso generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile». Levi poi devia inaspettatamente chiedendosi se «una vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure» sia peculiare di un regime totalitario. Si chiede, pessimisticamente, se il collaborare dei nazisti sia più simile a noi di quanto ci piaccia pensare, perché «anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità esistenziale». «Ovunque le persone aspiravano a un avanzamento di carriera» conclude in modo simile Christopher R. Browning in Uomini comuni (1992), il suo studio pionieristico su come persone addestrate a rispettare l’autorità e le norme convenzionali dei propri simili perdano il senso di responsabilità individuale e arrivino a partecipare alla violenza genocida. Nella loro indifferenza verso gli avanzamenti di carriera e sfidando l’establishment o a riformarsi o a schiacciarli, i manifestanti hanno dimostrato un coraggio non comune. Rifiutando la complicità con istituzioni corrotte, hanno espresso la necessaria fiducia nella capacità umana di resistere all’autorità criminale e di riconoscere i deboli e solidarizzare con loro in ogni situazione. Hanno avuto il coraggio di correre dei rischi in nome della libertà, della dignità e dell’uguaglianza. Alla mentalità di autoconservazione passiva che domina la vita politica e professionale, hanno opposto una formidabile sfida morale con i loro atti di abnegazione personale. Si ha sempre più l’impressione che per ripristinare la forza e la dignità della coscienza individuale si possa confidare solo nelle persone in cui la catastrofe di Gaza ha prodotto una scossa di consapevolezza etica. (brani tratti da Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano, 2025)
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Sotto il cemento, qualcosa ribolle. Dalla nuova occupazione “Rasprava” ad Atene
Riceviamo e diffondiamo questo bel testo e questa bella notizia. Chi ce lo invia ci manda anche queste righe, utili a contestualizzare l’occupazione: «In Grecia la pratica dell’occupazione è uno strumento forte di lotta e di presidio importante sul territorio ed è anche una pratica molto conflittuale soprattutto di questi tempi, quindi la scelta di attuarla e la sua difesa sono estremamente impegnative. Nasce da vari fattori, primo fra tutti il fatto che l’università è stata chiusa al pubblico e l’asilo al suo interno non è più riconosciuto, cose che hanno reso sempre più difficile il potersi organizzare e incontrare a una realtà di movimento che contiene molti gruppi differenti. Ad Atene, dopo gli sgomberi di Villa Amalia e Skaramaggà, non si è più riusciti ad occupare uno spazio come movimento anarchico. Sì, ci sono state occupazioni di palazzi per le persone migranti di passaggio in Grecia nel 2013 e dopo. Ma nulla del genere. I differenti gruppi hanno scelto, il più delle volte, la forma dello “steki” ovvero uno spazio in genere affittato, dove poter discutere ecc. La zona di Exarchia, dove nasce questa nuova occupazione, non è più quel luogo liberato, il presidio permanente 24 ore su 24 dei MAT ( squadre antisommossa) e di ogni tipo di polizia, nella piazza centrale del quartiere, per proteggere delle transenne che dovrebbero essere il perimetro degli scavi della nuova metro, ha completamente militarizzato quel luogo di conflitto, scontro, incontro e da sempre centro nevralgico per il movimento antagonista ateniese.» Qui il testo impaginato: il silenzio delle metropoli Titolo originale : Κάτω απ’ το τσιμέντο, κάτι βράζει Rasprava Squat, 2025 SOTTO IL CEMENTO, QUALCOSA RIBOLLE Dopo la fine dell’evento “Memoria rivoluzionaria e prospettive della lotta” in via Mesologgiou, una folla di compagni e compagne è scesa nelle vie di Koletti e Themistokleo per difendere la liberazione di un edificio. Di seguito la presentazione scritta dagli stessi occupanti: Il silenzio della metropoli pesa come una pietra sulle nostre spalle. Le strade sono piene di sguardi consumati, di corpi che strisciano per abitudine, per paura, per sottomissione. Il mondo si muove lungo percorsi predeterminati, senza interrogarsi, stemperando i sogni. Tutto è programmato per funzionare esattamente come vogliono loro: lavoro, consumo, obbedienza. Eppure, incessantemente, sotto la superficie, qualcosa ribolle. La storia non è scritta dagli obbedienti. Alcuni scelgono di portare il peso della disobbedienza. Di rompere il cemento della normalità, di affrontare la mano invisibile del potere che soffoca ogni aspetto della nostra vita. Rifiutare di sottomettersi non è una semplice presa di posizione. È una chiamata a mettere in discussione, a rovesciare l’ esistente, a riprendersi ciò che è nostro. Siamo compagni e compagne, anarchici e anarchiche che provengono da contesti politici e ideologici diversi e che si sono trovati nello stesso fuoco di lotta. E’ lì, che le nostre lotte comuni e le esperienze collettive ci hanno unito, dove abbiamo riconosciuto la necessità vitale di creare uno spazio di incontro, di agitazione politica1, di scambio di opinioni e potenziamento organizzativo. In un momento in cui l’isolamento è imposto e le comunità in lotta vengono smantellate dalla repressione, la formazione di questi spazi non è solo necessaria, è cruciale. Gli attacchi repressivi degli ultimi anni non sono arrivati a caso. Le autorità stanno cercando di eliminare ogni focolaio di resistenza, di schiacciare ogni forma di auto-organizzazione e di spegnere la fiamma della contestazione. Grandi conquiste sono andate perdute, il movimento è stato messo sulla difensiva, la recessione è ormai all’orizzonte. Ma sappiamo che la storia viene scritta da chi non arretra, da chi non ha paura di confrontarsi con la realtà. Rimanere sulla difensiva significa accettare la sconfitta. E questo non accadrà.. È il momento di passare dalle parole ai fatti, di passare dalla difesa all’attacco. Facciamo capire al nemico che non si sbarazzerà di noi così facilmente. Dobbiamo forgiare il nostro campo di lotta, reclamare il nostro spazio e il nostro tempo. Per liberare i territori dal dominio, creare un centro vibrante di resistenza, una cellula radicale per la mobilitazione2 sia nella teoria che nell’azione. Percepiamo l’occupazione come parte integrante del movimento e il movimento come elemento organico dell’occupazione. L’esistenza di territori di lotta non è solo una questione pratica, ma profondamente politica. Gli squat non sono solo luoghi di ritrovo, non sono solo luoghi di ospitalità. Sono roccaforti di resistenza, laboratori di pratiche radicali, crepe nella normalità che cercano di imporci. E questa realtà non è negoziabile. Ogni quartiere, ogni strada, ogni piazza non è un terreno neutro. È una mappa vivente di contraddizioni, conflitti e rivendicazioni. Le città sono costruite sulla base della disciplina, della polizia e della sterilizzazione dello spazio pubblico. Le piazze sono piene di telecamere di sorveglianza, i muri sono dipinti di grigio, gli edifici diventano bastioni inaccessibili per coloro che non possono permettersi di pagare il prezzo dell’esistenza in un mondo in cui tutto ha un prezzo. Il dominio sta attuando un piano strategico di controllo universale delle metropoli, schiacciando ogni forma di resistenza. Armato di una propaganda nera e da una guerra ideologica, cerca di plasmare le coscienze, mentre spinge deliberatamente nel degrado interi quartieri utilizzando la criminalità organizzata, che spiana la strada all’espulsione violenta della popolazione locale e al completo assorbimento del territorio da parte del capitale. La repressione dello Stato agisce come una guardia armata per gli investitori, le agenzie immobiliari divorano terreni, le case diventano merci, gli affitti salgono alle stelle, gli spazi pubblici diventano sterili campi di sorveglianza e uniformità di consumo. Il flagello della gentrificazione e dell’imborghesimento sta inghiottendo le città, agendo come meccanismo di assoggettamento e controllo sociale. Exarchia, un quartiere che ha una storia vibrante di lotte, è nel mirino dell’assalto statale e capitalista. Lo Stato, da un lato, scatena ondate di repressione: gli squat vengono sgomberati, la presenza della polizia viene rafforzata, gli spazi pubblici vengono militarizzati. Dall’altro lato, il capitale saccheggia la memoria collettiva assorbendo i simboli della resistenza e trasformandoli in merce turistica. Le nostre sottoculture vengono forgiate e adattate a progetti commerciali “alternativi”, mentre il quartiere viene modificato per servire l’industria dell’intrattenimento e del “life-style”. Non permetteremo che trasformino il luogo delle nostre lotte in un’altra attrazione “ornamentale”. Per tutte queste ragioni, abbiamo fatto l’occupazione nel quartiere storico di Exarchia. Perché le sue strade non sono in vendita. Perché le memorie non sono commercializzabili.. Perché le resistenze vive non diventino attrazioni turistiche, ma campi di battaglia. Gli squat possono certamente essere anche isole di resistenza nell’arcipelago delle lotte, ma possono essere barricate. Sono spazi dove il dominio perde il controllo, dove lo Stato cessa di essere il regolatore assoluto della vita. Sono laboratori di lotta, punti di incontro, centri di auto-organizzazione e di azione. La cultura insurrezionale e rivoluzionaria non nasce da sola. Si coltiva. Si sviluppa negli scantinati, nelle piazze, nei luoghi di ritrovo, negli sguardi che non si piegano, nei corpi che non accettano di essere disciplinati dal nemico. L’occupazione non è un evento isolato. Ha la capacità di impegnarsi nella pratica della negazione, di ricordarci costantemente che non siamo numeri nei registri dello Stato, non siamo ingranaggi nella macchina della produzione, non siamo pedine sulla scacchiera del potere. Siamo qui per prenderci ciò che è nostro, per aprire crepe da cui scaturiranno nuove possibilità. Le circostanze ci lasciano quindi indenni per quanto riguarda la nostra coscienza e pratica anarchica. Non vogliamo unirci al terrore che deriva dai “tempi repressivi e avversi”. Siamo contro la retorica riformista, la cui manifestazione è lo scadere del campo dell’azione nel conformismo politico, noi siamo radicalmente per una rottura permanente e totale. La nostra preoccupazione non è la repressione che è esistita e che esisterà contro di noi, ma la scommessa continua con noi stessi, per evitare strategie politiche che minacceranno un movimento e lo faranno passare nell’oblio attraverso una presenza militante sempre più carente sia a livello di eventi che di strutture. Ci rendiamo conto che, come movimento, l’assenza di una cultura militante ci indebolisce, ci rende vulnerabili e indifesi di fronte all’assalto del potere. L’inazione equivale alla sconfitta. Cerchiamo quindi, attraverso questo progetto, di costruire una solida base che promuova la prospettiva rivoluzionaria/insurrezionale, che intensifichi la minaccia contro i meccanismi oppressivi del presente e coltivi le coscienze ribelli di domani. Perché la rivolta non è uno schema teorico. È azione, è fermento3, è conflitto costante. PERCHÉ SCEGLIAMO E PROMUOVIAMO UNA CULTURA RIVOLUZIONARIA E INSURREZIONALE (AZIONE DIRETTA)? i. Perché è l’unico mezzo per uno scontro diretto con il nemico qui e ora. È la pratica che crea il “punto d’inizio”, rompendo le catene della normalità e consentendo ai soggetti di determinare il proprio destino. ii. Perché, nella sua essenza, l’anarchia è una lotta costante per la libertà. Non è uno slogan, non è una teoria, è un conflitto, è una prassi. iii. Perchè le relazioni tra compagni/e non è un concetto astratto, ma relazioni vive e non negoziabili tra militanti. Si forgiano nel fuoco della lotta, fianco a fianco in ogni crisi, in ogni sconfitta, in ogni momento difficile. È lì che ritroviamo il nostro io collettivo perduto. iv. Perché spinge gli individui a superare i propri limiti, a spezzare le catene della paura, a mettere in discussione l’impossibile. v. Perché la violenza dell’azione diretta non è violenza casuale, ma una decisione strategica. L’espansione dell’azione rivoluzionaria, la generalizzazione del confronto violento con le forze di potere, è necessaria per la demolizione dello Stato e della struttura capitalistica e per la distruzione dei rapporti sociali di oppressione. Il dovere di ogni persona che lotta è quello di arricchire quotidianamente i propri strumenti, sia a livello pratico che teorico, che la porteranno alla realizzazione dei propri ideali. Richiede coraggio, rischio, immaginazione, organizzazione, fede e coerenza. L’intenzione non basta, occorre la decisione. Per queste ragioni l’apertura di questa occupazione rientra per noi in questa direzione. PER L’ANARCHIA Insieme possiamo fare tutto, possiamo gettare via la visione della fine che sembra così vicina. Possiamo vivere come esseri umani orgogliosi e liberi. Possiamo abbattere il muro e vedere una intera vita di gioia che ci aspetta! Rasprava Squat (Koletti and Themistocleous ) 1(πολιτικής ζύμωσης nel testo originale, significa letteralmente fermentazione politica), il dibattito teorico che avviene in uno spazio politico, sociale, etc. che prepara il cambiamento di una situazione 2(εστία ζύμωσης, nel testo originale, significal letteralmente epicentro (punto focale) di fermentazione) 3(Ζύμωση nel testo originale), il dibattito teorico che avviene in uno spazio politico, sociale, etc. che prepara il cambiamento di una situazione nello stesso contesto della nota nr.1.    
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