Tag - Materiali

È uscito “Non siamo stati noi ad assassinare Puig Antich” dei Gruppi Autonomi Rivoluzionari Internazionalisti
Riceviamo e diffondiamo (per informazioni su come ordinare copie vedi in fondo): Gruppi Autonomi Rivoluzionari Internazionalisti NON SIAMO STATI NOI AD ASSASSINARE PUIG ANTICH Titolo originale: NO FUIMOS NOSOTROS QUIENES ASESINAMOS A PUIG ANTICH (Grupos Autónomos Revolucionarios Internacionalistas) Prometeo Ediciones, primavera 2024. ———————— Per tradurre un libro editato in una lingua diversa occorrono energie e tempo, è necessario quindi dare un senso perchè questa energia e questo tempo non siano sprecati. Le parole danno un significato all’agire (anche se spesso l’azione si spiega da sola) che è essenziale per costruire la propria forma di e nel mondo. Le parole da sole non sono sufficienti per comprovare la pratica dell’utopia. Le parole ci aiutano però a non dimenticare, a far conoscere la nostra storia, la storia dei vinti quando a scrivere la Storia sono i vincitori, la storia delle e degli audaci, di coloro i/le quali azzardano e arrischiano, che lanciano il cuore oltre l’ostacolo. Perché come è apparso sulle colonne de «l’anarchie»: La vita, tutta la vita, è nel presente. Aspettare è perderla. In queste pagine parleranno i GARI e i prigionieri accusati di far parte dei GARI, come sempre nelle nostre pubblicazioni abbiamo voluto dare risalto alla testimonianza diretta per non travalicare l’esperienza soggettiva del percorso individuale di chi ha voluto intraprendere la propria rivolta contro il Sistema; da qui lo sciopero della fame di quarantatré giorni visto con gli occhi di chi lo ha intrapreso, benché contrario a tale pratica,  come unica possibilità per sottrarsi alle continue umiliazioni ci ha riportato alla mente la vicenda di Alfredo Cospito e dei suoi centoottanta due giorni  di sciopero della fame. Ci ha ricordato che dobbiamo avere fiducia nella capacità di auto-critica di chi lo inizia, come hanno ludicamente dimostrato i compagni dei GARI nella Lettera da Fresnes. Inoltre ci sembra interessante affrontare la questione del terrorismo, questo mostro spaventoso che solo al sentirlo nominare ci azzittisce atterrite dalla paura dei nostri pensieri. In questo testo troverete una visione differente da quella che apparirà nei libri della Collana La vita non attende di prossima uscita, tratti da Programma della fazione terroristica di Narodnaja Volja e da La lotta terroristica (Morozov 1880). Come anarchiche non abbiamo risposte certe ma solo una selva di punti interrogativi. Ognuna cercherà le proprie risposte e speriamo che nel farlo la terra ci tremi sotto i piedi. ———————— Dal prologo di Francisco Solar Carcere di La Gonzalina – Rancagua Gennaio 2024   Se stiamo parlando di espressioni di solidarietà rivoluzionaria, solidarietà incentrata sulla liberazione dei compagni imprigionati, è impossibile non citare l’interessante e particolare attività dei Gruppi di Azione Rivoluzionaria Internazionalista (GARI). Costituito appositamente per sostenere e solidarizzare con i prigionieri del Movimento di Liberazione Iberico (MIL), ha realizzato molte azioni su larga scala per far conoscere e denunciare il brutale trattamento riservato dalla dittatura franchista a questi combattenti imprigionati, che comprendeva anche la pena di morte, come nel caso di Salvador Puig Antich. Pertanto, l’esperienza di GARI è inseparabile da quella del MIL, dove molti dei suoi membri entrarono a far parte del primo, dando continuità ad approcci e pratiche basati sulla lotta. Così, il modo in cui i membri incarcerati del MIL hanno inteso la solidarietà con i compagni incarcerati, che si riflette in: “[…] l’intensificazione della lotta per distruggere il sistema che genera la repressione è il modo migliore per sviluppare la solidarietà dei rivoluzionari con i prigionieri” , è diventato parte costitutiva delle idee che hanno dato contenuto alle azioni del GARI. Tuttavia, mentre continuare a colpire il potere sarebbe stata la forma più appropriata di solidarietà, che indubbiamente caratterizzava questo gruppo internazionalista, tutta la loro attività ruotava intorno ai prigionieri del MIL. Tutte le loro azioni erano in diretta relazione con la realizzazione di una solidarietà rivoluzionaria che irrompesse con forza sulla scena sociale europea e diffondesse in questo modo la situazione dei compagni imprigionati e la brutalità esercitata dagli ultimi anni del regime di Franco. L’obiettivo era chiaro: evitare le condanne a morte di diversi prigionieri e ottenere la liberazione dei militanti del MIL. La vita dei GARI fu breve ma di notevole intensità. Scossero la tranquilla normalità di Paesi come l’Olanda, il Belgio e la Francia con ordigni esplosivi, mirando fondamentalmente agli interessi spagnoli. La maggior parte delle loro azioni ottenne, per la loro ampiezza e particolarità, una grande copertura mediatica che, in parte, permise di far conoscere la realtà affrontata dax  prigionierx rivoluzionarx e di generare, in una certa misura, sostegno alla campagna internazionale per la loro liberazione. L’assassinio di Stato di Salvador Puig Antich da parte della vile garrota segnò un prima e un dopo per l’ampio movimento antifranchista e, in particolare, per l’attività del GARI, con l’entrata in gioco di un fattore decisivo: la vendetta. L’esecuzione del compagno, lungi dal provocare l’immobilismo dei membri del GARI, costituì una chiara chiamata all’azione che completò e intensificò la lotta per la liberazione dei membri del MIL. La rabbia e l’impotenza si trasformarono rapidamente in attacchi energici contro gli interessi spagnoli, dando un segnale di risposta immediata all’aggressione ricevuta. Le azioni incorniciate dalla vendetta di Puig Antich riflettono, da un lato, la reazione quasi istintiva dei compagni, che decidono di contrattaccare, e dall’altro la capacità di portare a termine attacchi potenti e immediati, dando un chiaro segno di forza. Rispondere, vendicare, ripagare ogni aggressione da parte del Potere significa affrontare la guerra in prima persona, significa farsi carico della complessità del conflitto e significa anche saper prendere la parola, capire che non si è spettatori e che le situazioni non sono inavvicinabili. Sono state queste idee a dare contenuto alle azioni vendicative del 2019 a Santiago [Cile] per le quali sono stato condannato e per le quali sono stato rinchiuso per diversi decenni. Nonostante siano passati vent’anni, il vile assassinio della compagna Claudia López è stato vendicato con una potente esplosione che ha scosso la stazione di polizia dei Carabineros, utilizzata come centro di pianificazione e protezione quella notte del settembre 1998, ferendo diversi poliziotti. Così come gli assassinii e le ondate repressive protette e promosse dall’ex ministro degli Interni Rodrigo Hinzpeter hanno avuto una risposta che ancora oggi tiene in allerta i rappresentanti del potere. La vendetta, quindi, si inscrive all’interno delle pratiche politiche offensive, dando loro senso e contenuto, costituendo un motore che spinge l’azione vendicativa. Strettamente legata alla memoria, ha la capacità di trovare il momento giusto per entrare in scena, a volte immediatamente, a volte nel corso degli anni. L’importante, ovviamente, è che diventi presente. In questo senso, la vendetta, oltre al fatto concreto che rappresenta, contiene una dimensione simbolica rilevante nella misura in cui dà conto di un universo di codici condivisi che danno coesione, rafforzano e danno continuità a un determinato gruppo. Non lasciare impunito l’omicidio dex compagnx, praticare la solidarietà rivoluzionaria con x nostrx prigionierx, fanno parte di quell’impalcatura storica che ci permette di continuare a stare in piedi e di non vivere esclusivamente nei libri di storia come molti vorrebbero. La comprensione della lotta in questo modo spazza via ogni forma di delega che mette nelle mani di terzi la speranza di prendere in mano la situazione. I GARI non si sono costituiti per ordine di alcun partito o sindacato, né per direttive o mandati di alcun tipo. Ciascuno dei suoi membri, molti dei quali provenienti dal MIL, decise liberamente di dare vita a questo gruppo con lo scopo di sostenere attivamente x proprix compagnx di prigionia. Pertanto, fin dalla sua genesi, l’autonomia è stata un fattore fondamentale che ha determinato ogni loro decisione, che ha dato loro il dinamismo e la flessibilità che ha permesso di adattare le loro pratiche a situazioni e contesti specifici. Sono stati, in misura maggiore o minore, la continuazione dei MIL, portando avanti l’“intensificazione della lotta per distruggere il Sistema che genera la repressione”, come modo più appropriato e coerente di praticare la solidarietà con x rivoluzionarx imprigionatx, un approccio sviluppato dai MIL, adottato dai GARI e, successivamente, anche da Action Directe. Questa posizione rompe radicalmente con il vittimismo che generalmente caratterizza la solidarietà con x detenutx, anche quelli che si dichiarano attivx e militantx, ed è per questo che è fondamentale conoscerla e tenerla in considerazione oggi, dove le pratiche assistenziali sono sempre più ricorrenti, dimenticando o tralasciando il fatto e le motivazioni che hanno portato x nostrx compagnx in carcere. ————————     SOMMARIO Comunicati SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ[I] SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [II] SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [III] SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [IV] COMUNICATO STAMPA INVIATO A «LIBERATION» PER QUANTO RIGUARDA GLI ARRESTI    “IL CASO SUAREZ”. ALCUNE PRECISAZIONI POLITICHE SU QUELLO CHE NON È UN FATTO DI INTERESSE GIORNALISTICO LA SOLIDARIETÀ IN AZIONE. TELEGRAMMA ALLE AUTORITÀ SPAGNOLE 18 LUGLIO DEL 1974 MI CHIAMO MARIA, ABITO A LOURDES E QUESTA NOTTE ASPETTAVO CHE MI PORTASSERO IN CIELO LETTERA APERTA A «LA DE PECHE DU MIDI» ULTIMO COMUNICATO STAMPA IL NOSTRO E’ TERRORISMO? AUTODISSOLUZIONE DEI GARI ELENCO DEI SOGGETTI INCRIMINATI (O IN FUGA) Testi dei gruppi che parteciparono ai gari DICHIARAZIONI A «LIBERATION» DOBBIAMO ULULARE CON I LUPI IL SEQUESTRO DEL PRINCIPE DELLE ASTURIE A COSA VI RIFERITE QUANDO PARLATE DI VIOLENZA GRATUITA? 6 GENNAIO DEL 1975 22 APRILE 1976 23 APRILE 1976 TESTO DI UN GRUPPO CHE PARTECIPO’ AI GARI LETTERE DALLA PRIGIONE LETTERA DAL CARCERE DE LA SANTE’ NON SIAMO STATI NOI AD ASSASSINARE PUIG ANTICH SECONDA LETTERA DALLA PRIGIONE DEGLI ACCUSATI DEL GARI LETTERE DEI PRIGIONIERI DEI GARI DAL CARCERE SULLO SCIOPERO DELLA FAME LETTERA DA FRESNES LETTERA DALLA PRIGIONE DI SAINT-MICHEL LETTERA DEI PRIGIONIERI PER UN NUOVO SCIOPERO DELLA FAME LETTERA A UN GIUDICE APOLITICO E INDIPENDENTE LETTERA DEI PREGIONIERI POLITICI DI LA SANTE’ Appndice IL M.I.L. E LA RESISTENZA ARMATA IN SPAGNA COMUNICATO PER GLI ARRESTI DOPO IL RILASCIO Dl SUAREZ. – N. 1 COMUNICATO PER GLI ARRESTI DOPO IL RILASCIO Dl SUAREZ. – N. 2 GRUPPI D’AZIONE RIVOLUZIONARIA INTERNAZIONALISTA COMUNICATO STAMPA DEI GRUPPI AUTONOMI INVIATO A «LIBERATION» DOCUMENTI RELATIVI ALL’ARRESTO Dl COMPAGNI DEL GARI ——————– pagine 124 formato 12×16,5 cm 1 copia 6 euro dalle 4 copie 5 euro spese di spedizione 1,50 euro piego di libri pacco tracciabile 5 euro per informazioni: tremendedizioni@canaglie.org    
Carcere
Materiali
Luci da dietro la scena (XXV) – Ethica more Gaza demonstrata
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXV) Uno scomodo rumore Il mondo dei diritti individuali, delle frontiere aperte e del diritto internazionale si sta allontanando rapidamente. Oggi, la recinzione statunitense lungo il confine messicano, la pratica australiana di imprigionare i richiedenti asilo su isole al di fuori del suo territorio, l’aperto incitamento rivolto da un ministro degli Interni britannico ai nazionalisti inglesi di estrema destra e la crescente ossessione di molti giovani uomini per il «genocidio bianco», la «Grande Sostituzione» e altri scenari apocalittici prospettati all’inizio del Ventesimo secolo, rendono crudelmente visibile il ritorno a casa del suprematismo bianco nel cuore dell’Occidente moderno. Il 7 ottobre il suo feroce atteggiamento difensivo si è infiammato, quando Hamas ha distrutto, in modo definitivo, l’aura di invulnerabilità di Israele. Quest’assalto a sorpresa da parte di persone che si presumeva fossero state schiacciate rappresenta, per molte maggioranze bianche turbate e inorridite, la seconda Pearl Harbor del Ventunesimo secolo, dopo l’11 settembre. E, come è già successo, la percezione diffusa che il potere bianco sia stato pubblicamente violato ha «scatenato», secondo le parole di John Dower, «una rabbia che rasenta la furia genocida». Nel tentativo di riconquistare la propria immagine di potenza attraverso un bagno di sangue, Israele e i suoi sostenitori barcollano verso la «terribile probabilità» delineata in passato da James Baldwin: che i vincitori della storia, «lottando per mantenere ciò che hanno rubato ai loro prigionieri, e incapaci di guardarsi allo specchio, scateneranno un caos nel mondo che, se non porrà fine alla vita su questo pianeta, provocherà una guerra razziale di dimensione che il mondo non ha mai visto». Abbiamo già assistito a Gaza – dopo i milioni di morti evitabili nel corso della pandemia – a un’altra fase di quella che l’antropologo sociale Arjun Appadurai chiama «una vasta correzione malthusiana mondiale» che è «orientata ad approntare il mondo per i vincitori della globalizzazione, senza il rumore scomodo dei suoi perdenti». Non è esagerato affermare che raramente la posta in gioco etica e politica è stata più alta. L’abisso che abbiamo davanti Gaza ha allungato l’ombra della Shoah su molte più persone della popolazione ebraica mondiale. Nella storia moderna, è stato il destino di miliardi di persone in tutto il mondo quello di vedere la pulsione di morte all’opera. Rimarranno a lungo impressi nella loro memoria momenti isolati di un’orgia di violenza bestiale: Sha’ban al-Dalou, uno studente di ingegneria di diciannove anni, bruciato vivo, con una flebo attaccata al braccio, in uno dei tanti ospedali bombardati da Israele; soldati israeliani, intervistati dalla CNN, che affermano di «non riuscire più a mangiare carne» dopo avere schiacciato centinaia di palestinesi sotto i bulldozer ed essersi accorti di come «tutto schizza fuori». Imprimendo nella nostra coscienza la violenza gratuita delle nostre società, un’offesa così incomprensibile è insanabile, come avvertiva Primo Levi. Essa «pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia». E renderà più difficile l’urgente compito etico di connettere tra loro le diverse storie di sofferenza, di esplorare insieme un passato di catastrofi collettive, per orientarci verso le sfide di un futuro inevitabilmente pluralista e il destino comune del cambiamento climatico. Dopo aver assistito per diversi mesi a un feroce genocidio, con la consapevolezza che è stato concepito, eseguito e approvato da persone molto simili a loro, che lo hanno presentato come una necessità comune, legittima e persino umana, milioni di persone adesso si sentono meno a casa nel mondo. Lo shock di questa rinnovata esposizione a un male tipicamente moderno – il male commesso nell’era premoderna solo da individui psicopatici e scatenato nel secolo scorso da governanti e cittadini di società ricche e teoricamente civilizzate – non può essere ignorato. Né può esserlo l’abisso morale che abbiamo davanti. Una scossa di consapevolezza etica Il Ventesimo secolo – segnato dai conflitti più brutali e dai più grandi cataclismi morali della storia – ha messo in luce i pericoli di un mondo in cui non esisteva alcun vincolo etico su ciò che gli esseri umani potevano o osavano fare. La ragione secolare e la scienza moderna, che avevano rimpiazzato la religione tradizionale, non solo hanno rivelato la loro incapacità di legiferare sulla condotta umana, ma hanno anche avuto un ruolo nelle nuove e più efficienti modalità di sterminio impiegate a Auschwitz e Hiroshima. Il rispetto religioso dei sani princìpi era in declino ovunque. Ma nei decenni di ricostruzione successivi al 1945 è stato possibile, anzi imperativo, sperare che la malvagità umana organizzata fosse largamente in ritirata. Si poteva quantomeno provare ad aggrapparsi alla teologia laica negativa, il «mai più» adottato nelle commemorazioni della Shoah, anche se fu spesso ripudiato, come in Cambogia, Ruanda e nei Balcani. Quella a cui siamo di fronte oggi è una rottura definitiva nella storia etica globale dopo il Ground Zero del 1945; la storia in cui la Shoah era il riferimento universale per indicare un tragico fallimento della moralità umana. Da qualche tempo le immagini idealizzate che abbiamo dei nostri Paesi, siano essi l’India, Israele, gli Stati Uniti o l’Europa, sono al collasso. Il mondo come lo conoscevamo, modellato a partire dal 1945 dai beneficiati della schiavitù, del colonialismo e del nazionalismo anticoloniale, si sta sgretolando. […] In Oriente così come in Occidente, nel Nord e nel Sud del mondo, siamo stati chiamati a nuove lotte per la libertà, l’uguaglianza e la dignità e per creare un mondo in cui ci sia meno miseria. Ma è stata proprio Gaza a spingere molti a fare i conti con il profondo malessere delle loro società. È Gaza che ha accelerato l’idea di un mondo decrepito che non ha più alcuna fiducia in se stesso e che, preoccupato solo dell’autoconservazione, calpesta i diritti e i princìpi che un tempo considerava sacri, ripudia ogni senso di dignità e onore, e premia la violenza, la menzogna, la crudeltà e il servilismo. Allo stesso tempo in cui provoca sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto, Gaza diventa per molte persone impotenti la condizione essenziale della coscienza politica ed etica del Ventunesimo secolo, proprio come lo è stata la Prima guerra mondiale per una generazione in Occidente. I crimini di Gaza e i numerosi atti di complicità e voluta indifferenza che li hanno resi possibili hanno avuto un impatto più profondo tra i giovani nella tarda adolescenza e nei ventenni. Al confine tra l’infanzia e l’età adulta, hanno ricevuto una rapida e brutale formazione sulle barbarie della storia e su come gli adulti che detengono il potere le giustificano: un’esperienza finora del tutto estranea alla loro percezione collettiva. Mentre politici, burocrati, uomini d’affari mentivano e insabbiavano, o fingevano di ignorare, i giovani studenti si sono trovati ad affrontare in tempo reale un fenomeno sconvolgente che gli storici dei genocidi affrontano retrospettivamente, e con cui sono ancora alle prese […]. […] Scendendo in strada a protestare, i giovani hanno affrontato, soprattutto negli Stati Uniti, la forza della condanna da parte della classe dirigente, che si trattasse di rettori delle università che scatenavano la polizia militarizzata contro di loro, di miliardari che cancellavano offerte di lavoro o di un candidato alle presidenziali che prometteva di espellere i giovani stranieri. […] Nel suo libro I sommersi e i salvati Primo Levi descrive Auschwitz come «il microcosmo della società totalitaria» in cui «viene concesso generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile». Levi poi devia inaspettatamente chiedendosi se «una vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure» sia peculiare di un regime totalitario. Si chiede, pessimisticamente, se il collaborare dei nazisti sia più simile a noi di quanto ci piaccia pensare, perché «anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità esistenziale». «Ovunque le persone aspiravano a un avanzamento di carriera» conclude in modo simile Christopher R. Browning in Uomini comuni (1992), il suo studio pionieristico su come persone addestrate a rispettare l’autorità e le norme convenzionali dei propri simili perdano il senso di responsabilità individuale e arrivino a partecipare alla violenza genocida. Nella loro indifferenza verso gli avanzamenti di carriera e sfidando l’establishment o a riformarsi o a schiacciarli, i manifestanti hanno dimostrato un coraggio non comune. Rifiutando la complicità con istituzioni corrotte, hanno espresso la necessaria fiducia nella capacità umana di resistere all’autorità criminale e di riconoscere i deboli e solidarizzare con loro in ogni situazione. Hanno avuto il coraggio di correre dei rischi in nome della libertà, della dignità e dell’uguaglianza. Alla mentalità di autoconservazione passiva che domina la vita politica e professionale, hanno opposto una formidabile sfida morale con i loro atti di abnegazione personale. Si ha sempre più l’impressione che per ripristinare la forza e la dignità della coscienza individuale si possa confidare solo nelle persone in cui la catastrofe di Gaza ha prodotto una scossa di consapevolezza etica. (brani tratti da Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano, 2025)
Materiali
Sotto il cemento, qualcosa ribolle. Dalla nuova occupazione “Rasprava” ad Atene
Riceviamo e diffondiamo questo bel testo e questa bella notizia. Chi ce lo invia ci manda anche queste righe, utili a contestualizzare l’occupazione: «In Grecia la pratica dell’occupazione è uno strumento forte di lotta e di presidio importante sul territorio ed è anche una pratica molto conflittuale soprattutto di questi tempi, quindi la scelta di attuarla e la sua difesa sono estremamente impegnative. Nasce da vari fattori, primo fra tutti il fatto che l’università è stata chiusa al pubblico e l’asilo al suo interno non è più riconosciuto, cose che hanno reso sempre più difficile il potersi organizzare e incontrare a una realtà di movimento che contiene molti gruppi differenti. Ad Atene, dopo gli sgomberi di Villa Amalia e Skaramaggà, non si è più riusciti ad occupare uno spazio come movimento anarchico. Sì, ci sono state occupazioni di palazzi per le persone migranti di passaggio in Grecia nel 2013 e dopo. Ma nulla del genere. I differenti gruppi hanno scelto, il più delle volte, la forma dello “steki” ovvero uno spazio in genere affittato, dove poter discutere ecc. La zona di Exarchia, dove nasce questa nuova occupazione, non è più quel luogo liberato, il presidio permanente 24 ore su 24 dei MAT ( squadre antisommossa) e di ogni tipo di polizia, nella piazza centrale del quartiere, per proteggere delle transenne che dovrebbero essere il perimetro degli scavi della nuova metro, ha completamente militarizzato quel luogo di conflitto, scontro, incontro e da sempre centro nevralgico per il movimento antagonista ateniese.» Qui il testo impaginato: il silenzio delle metropoli Titolo originale : Κάτω απ’ το τσιμέντο, κάτι βράζει Rasprava Squat, 2025 SOTTO IL CEMENTO, QUALCOSA RIBOLLE Dopo la fine dell’evento “Memoria rivoluzionaria e prospettive della lotta” in via Mesologgiou, una folla di compagni e compagne è scesa nelle vie di Koletti e Themistokleo per difendere la liberazione di un edificio. Di seguito la presentazione scritta dagli stessi occupanti: Il silenzio della metropoli pesa come una pietra sulle nostre spalle. Le strade sono piene di sguardi consumati, di corpi che strisciano per abitudine, per paura, per sottomissione. Il mondo si muove lungo percorsi predeterminati, senza interrogarsi, stemperando i sogni. Tutto è programmato per funzionare esattamente come vogliono loro: lavoro, consumo, obbedienza. Eppure, incessantemente, sotto la superficie, qualcosa ribolle. La storia non è scritta dagli obbedienti. Alcuni scelgono di portare il peso della disobbedienza. Di rompere il cemento della normalità, di affrontare la mano invisibile del potere che soffoca ogni aspetto della nostra vita. Rifiutare di sottomettersi non è una semplice presa di posizione. È una chiamata a mettere in discussione, a rovesciare l’ esistente, a riprendersi ciò che è nostro. Siamo compagni e compagne, anarchici e anarchiche che provengono da contesti politici e ideologici diversi e che si sono trovati nello stesso fuoco di lotta. E’ lì, che le nostre lotte comuni e le esperienze collettive ci hanno unito, dove abbiamo riconosciuto la necessità vitale di creare uno spazio di incontro, di agitazione politica1, di scambio di opinioni e potenziamento organizzativo. In un momento in cui l’isolamento è imposto e le comunità in lotta vengono smantellate dalla repressione, la formazione di questi spazi non è solo necessaria, è cruciale. Gli attacchi repressivi degli ultimi anni non sono arrivati a caso. Le autorità stanno cercando di eliminare ogni focolaio di resistenza, di schiacciare ogni forma di auto-organizzazione e di spegnere la fiamma della contestazione. Grandi conquiste sono andate perdute, il movimento è stato messo sulla difensiva, la recessione è ormai all’orizzonte. Ma sappiamo che la storia viene scritta da chi non arretra, da chi non ha paura di confrontarsi con la realtà. Rimanere sulla difensiva significa accettare la sconfitta. E questo non accadrà.. È il momento di passare dalle parole ai fatti, di passare dalla difesa all’attacco. Facciamo capire al nemico che non si sbarazzerà di noi così facilmente. Dobbiamo forgiare il nostro campo di lotta, reclamare il nostro spazio e il nostro tempo. Per liberare i territori dal dominio, creare un centro vibrante di resistenza, una cellula radicale per la mobilitazione2 sia nella teoria che nell’azione. Percepiamo l’occupazione come parte integrante del movimento e il movimento come elemento organico dell’occupazione. L’esistenza di territori di lotta non è solo una questione pratica, ma profondamente politica. Gli squat non sono solo luoghi di ritrovo, non sono solo luoghi di ospitalità. Sono roccaforti di resistenza, laboratori di pratiche radicali, crepe nella normalità che cercano di imporci. E questa realtà non è negoziabile. Ogni quartiere, ogni strada, ogni piazza non è un terreno neutro. È una mappa vivente di contraddizioni, conflitti e rivendicazioni. Le città sono costruite sulla base della disciplina, della polizia e della sterilizzazione dello spazio pubblico. Le piazze sono piene di telecamere di sorveglianza, i muri sono dipinti di grigio, gli edifici diventano bastioni inaccessibili per coloro che non possono permettersi di pagare il prezzo dell’esistenza in un mondo in cui tutto ha un prezzo. Il dominio sta attuando un piano strategico di controllo universale delle metropoli, schiacciando ogni forma di resistenza. Armato di una propaganda nera e da una guerra ideologica, cerca di plasmare le coscienze, mentre spinge deliberatamente nel degrado interi quartieri utilizzando la criminalità organizzata, che spiana la strada all’espulsione violenta della popolazione locale e al completo assorbimento del territorio da parte del capitale. La repressione dello Stato agisce come una guardia armata per gli investitori, le agenzie immobiliari divorano terreni, le case diventano merci, gli affitti salgono alle stelle, gli spazi pubblici diventano sterili campi di sorveglianza e uniformità di consumo. Il flagello della gentrificazione e dell’imborghesimento sta inghiottendo le città, agendo come meccanismo di assoggettamento e controllo sociale. Exarchia, un quartiere che ha una storia vibrante di lotte, è nel mirino dell’assalto statale e capitalista. Lo Stato, da un lato, scatena ondate di repressione: gli squat vengono sgomberati, la presenza della polizia viene rafforzata, gli spazi pubblici vengono militarizzati. Dall’altro lato, il capitale saccheggia la memoria collettiva assorbendo i simboli della resistenza e trasformandoli in merce turistica. Le nostre sottoculture vengono forgiate e adattate a progetti commerciali “alternativi”, mentre il quartiere viene modificato per servire l’industria dell’intrattenimento e del “life-style”. Non permetteremo che trasformino il luogo delle nostre lotte in un’altra attrazione “ornamentale”. Per tutte queste ragioni, abbiamo fatto l’occupazione nel quartiere storico di Exarchia. Perché le sue strade non sono in vendita. Perché le memorie non sono commercializzabili.. Perché le resistenze vive non diventino attrazioni turistiche, ma campi di battaglia. Gli squat possono certamente essere anche isole di resistenza nell’arcipelago delle lotte, ma possono essere barricate. Sono spazi dove il dominio perde il controllo, dove lo Stato cessa di essere il regolatore assoluto della vita. Sono laboratori di lotta, punti di incontro, centri di auto-organizzazione e di azione. La cultura insurrezionale e rivoluzionaria non nasce da sola. Si coltiva. Si sviluppa negli scantinati, nelle piazze, nei luoghi di ritrovo, negli sguardi che non si piegano, nei corpi che non accettano di essere disciplinati dal nemico. L’occupazione non è un evento isolato. Ha la capacità di impegnarsi nella pratica della negazione, di ricordarci costantemente che non siamo numeri nei registri dello Stato, non siamo ingranaggi nella macchina della produzione, non siamo pedine sulla scacchiera del potere. Siamo qui per prenderci ciò che è nostro, per aprire crepe da cui scaturiranno nuove possibilità. Le circostanze ci lasciano quindi indenni per quanto riguarda la nostra coscienza e pratica anarchica. Non vogliamo unirci al terrore che deriva dai “tempi repressivi e avversi”. Siamo contro la retorica riformista, la cui manifestazione è lo scadere del campo dell’azione nel conformismo politico, noi siamo radicalmente per una rottura permanente e totale. La nostra preoccupazione non è la repressione che è esistita e che esisterà contro di noi, ma la scommessa continua con noi stessi, per evitare strategie politiche che minacceranno un movimento e lo faranno passare nell’oblio attraverso una presenza militante sempre più carente sia a livello di eventi che di strutture. Ci rendiamo conto che, come movimento, l’assenza di una cultura militante ci indebolisce, ci rende vulnerabili e indifesi di fronte all’assalto del potere. L’inazione equivale alla sconfitta. Cerchiamo quindi, attraverso questo progetto, di costruire una solida base che promuova la prospettiva rivoluzionaria/insurrezionale, che intensifichi la minaccia contro i meccanismi oppressivi del presente e coltivi le coscienze ribelli di domani. Perché la rivolta non è uno schema teorico. È azione, è fermento3, è conflitto costante. PERCHÉ SCEGLIAMO E PROMUOVIAMO UNA CULTURA RIVOLUZIONARIA E INSURREZIONALE (AZIONE DIRETTA)? i. Perché è l’unico mezzo per uno scontro diretto con il nemico qui e ora. È la pratica che crea il “punto d’inizio”, rompendo le catene della normalità e consentendo ai soggetti di determinare il proprio destino. ii. Perché, nella sua essenza, l’anarchia è una lotta costante per la libertà. Non è uno slogan, non è una teoria, è un conflitto, è una prassi. iii. Perchè le relazioni tra compagni/e non è un concetto astratto, ma relazioni vive e non negoziabili tra militanti. Si forgiano nel fuoco della lotta, fianco a fianco in ogni crisi, in ogni sconfitta, in ogni momento difficile. È lì che ritroviamo il nostro io collettivo perduto. iv. Perché spinge gli individui a superare i propri limiti, a spezzare le catene della paura, a mettere in discussione l’impossibile. v. Perché la violenza dell’azione diretta non è violenza casuale, ma una decisione strategica. L’espansione dell’azione rivoluzionaria, la generalizzazione del confronto violento con le forze di potere, è necessaria per la demolizione dello Stato e della struttura capitalistica e per la distruzione dei rapporti sociali di oppressione. Il dovere di ogni persona che lotta è quello di arricchire quotidianamente i propri strumenti, sia a livello pratico che teorico, che la porteranno alla realizzazione dei propri ideali. Richiede coraggio, rischio, immaginazione, organizzazione, fede e coerenza. L’intenzione non basta, occorre la decisione. Per queste ragioni l’apertura di questa occupazione rientra per noi in questa direzione. PER L’ANARCHIA Insieme possiamo fare tutto, possiamo gettare via la visione della fine che sembra così vicina. Possiamo vivere come esseri umani orgogliosi e liberi. Possiamo abbattere il muro e vedere una intera vita di gioia che ci aspetta! Rasprava Squat (Koletti and Themistocleous ) 1(πολιτικής ζύμωσης nel testo originale, significa letteralmente fermentazione politica), il dibattito teorico che avviene in uno spazio politico, sociale, etc. che prepara il cambiamento di una situazione 2(εστία ζύμωσης, nel testo originale, significal letteralmente epicentro (punto focale) di fermentazione) 3(Ζύμωση nel testo originale), il dibattito teorico che avviene in uno spazio politico, sociale, etc. che prepara il cambiamento di una situazione nello stesso contesto della nota nr.1.    
Stato di emergenza
Materiali
“Questa è la lebbra che chiamate civiltà”. Parole vive di Alfredo Cospito al processo “Sibilla”
Per quanto sia trascorso del tempo dall’udienza del processo “Sibilla”,  conclusasi peraltro con il “non luogo a procedere”, ci pare il caso di tenere bene davanti agli occhi (e nel cuore) la dichiarazione pronunciata in quell’occasione da Alfredo Cospito, ovvero le sue ultime parole uscite, al momento, dalle tenebre del 41 bis. Un nostro compagno si trova tuttora in regime di segregazione e tortura, non dimentichiamolo! Fuori Alfredo dal 41 bis! Qui la dichiarazione di Alfredo: dichiarazione-alfredo-cospito-15-gennaio-2025-volantino Qui un racconto dell’udienza e le dichiarazioni degli altri compagni e compagne al processo “Sibilla”: https://ilrovescio.info/2025/01/19/questa-e-la-lebbra-che-chiamate-civilta-parole-vive-dalludienza-preliminare-dellop-sibilla/
Materiali
È uscito “Storia di un gabbiano e del drone che smise di volare” di Giulio Berdusco (edizioni Fuochi d’inverno)
Segnaliamo l’uscita del racconto di Giulio Berdusco, Storia di un gabbiano e del drone che smise di volare, delle nuove edizioni Fuochi s’inverno. Per richieste di copie (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a: fuochidinverno@autistici.org Qui potete ascoltare la lettura del racconto: https://radioblackout.org/podcast/storia-di-un-gabbiano/ (Da ottobre 2024 Giulio Berdusco si trova detenuto nel carcere delle Vallette di Torino. Dovrà scontare 4 anni e 3 mesi per un cumulo di condanne relative alla giornata di lotta al Brennero del 2016 e agli scontri con la polizia avvenuti qualche anno più tardi, a Rovereto, durante la contestazione a Salvini in tour elettorale.)   Prefazione Chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà Stig Dagerman Secondo l’interpretazione arendtiana, “azione” e “discorso” sono ciò che cominciano, a fondamento di ciò che dà inizio al nuovo. Sono dunque atto di affermazione della libertà, la quale, di conseguenza, evoca automaticamente la possibilità del rischio. Per questo entrambe queste qualità che fanno di un individuo un essere-nel-mondo richiedono coraggio, una virtù che «è praticamente già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di iniziare una propria storia». Azione e discorso – ma per essere più precisi potremmo dire pensiero e azione – vivono dunque l’una dell’altro, si richiamano. In alternativa si apre il sipario a quella spettacolarizzazione del pronunciato che trasforma la parola in semplice strumento, uccidendo la cosa viva che le dà significato; che la rende, appunto, ciò che può contenere il potenziale di essere inter-azione. Un’attitudine, questa, che non solo va svanendo implicitamente nell’èra della Tecnica, ma anche esplicitamente nell’atmosfera repressiva che ci circonda. Ecco perché le edizioni Fuochi d’inverno nascono già all’angolo. Vedono la luce di già (e per nulla metaforicamente) dal buco di una serratura, la quale però shakespearianamente («potrei essere rinchiuso nel guscio di una noce e tuttavia ritenermi re di uno spazio infinito») ancora si apre sull’esistente. Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che chi sta dietro alla cura e alla pubblicazione di questo libretto, come di quelli che verranno, non è solito scrivere di cose inventate. Per una serie di circostanze, e soprattutto per una serie di scelte, ciò in cui le nostre vite si sono imbattute – lo dico per me stesso, sapendo quasi per certo di poterlo dire anche per l’autore –, è stato un accumularsi di esigenze diverse da quelle di cui possono essere espressione i romanzi. Esigenze che hanno fatto (o hanno provato a fare) del connubio pensiero-azione una questione imprescindibile. Dettate forse da qualcosa di simile a quella che un pensatore di qualche decennio fa chiamava “filosofia d’occasione”. Ma non è affatto detto che l’urgenza di esistere che sta dietro anche a queste parole non possa trovare la sua espressione in forme diverse. Il libretto che avete tra le mani, il primo racconto che viene dato alle stampe dalle edizioni, è una storia semplice. Tanto semplice da riuscire a cogliere la complessità del mondo: la Tecnica e la sua efficacia, l’industrialismo e il suo progredire sopra corpi e menti, la politica e il suo privilegio, la natura e la sua inarrestabile espressione di resistenza. Non di meno, l’inizio di questo piccolo progetto è anche il frutto dell’esigenza di colmare una distanza obbligata. Una distanza imposta a quella che, per chi scrive, è qualche cosa di più di un’amicizia, un’affinità particolare di quelle che forse, per l’appunto, si trovano solo nei romanzi. Perché forse è vero che solo attraverso il cominciamento dell’azione anche la vita inizia ad assumere le caratteristiche del romanzo. Che inizia ad uscire dall’ordinario della logica dell’efficacia e della produzione, per diventare qualcosa da scrivere, da inventare, da vivere fino all’ultima goccia. Ottobre 2024 RB
Materiali
“Tra la vita e la morte”, prima uscita delle edizioni i giorni e le notti
Segnaliamo il libretto Tra la vita e la morte, prima uscita delle edizioni i giorni e le notti. Per richieste (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a: navedeifolli@gmail.com  NOTA INTRODUTTIVA Le pagine che avete tra le mani non hanno certo la pretesa di avere una qualche funzione rivelatrice. Le idee che gli danno forma sono ispirate da riflessioni ben più ampie e sviluppate fino al dettaglio. Qui, in una forma forse singolare e probabilmente addirittura poco adatta a ciò che rappresenta l’urgenza del presente, possono apparire quasi vivisezionate. Mi perdoneranno perciò gli autori (per lo più defunti) delle opere fondamentali che hanno dato le note a questo confuso e apparentemente irrazionale tentativo di racchiudere in qualche riga pensieri che avrebbero la necessità di prendersi ben più ampio spazio. Ma al di là di questo mi sembra utile sottolineare il fatto che quello che qui vuole arrivare alla luce è non tanto una critica strutturata del sistema tecnico, nel quale siamo ormai imprigionate e imprigionati in maniera quasi totale, quanto piuttosto una ricerca necessaria di che cosa ci rende essere umani e perché. Questo per un motivo semplice: le caratteristiche fondamentali che ci rendono umani e quelle che costituiscono le basi del sistema sono del tutto incompatibili. Andare alla ricerca dello sviluppo delle nostre possibilità, caratteristiche in via di estinzione in favore di un nuovo concetto di esistenza sponsorizzata come aumentata, significa di conseguenza considerare seriamente le vie della rivolta. Non si faccia l’errore di credere che una critica radicale all’incarcerazione tecnologica che avanza si nutra di un conservatorismo bigotto, del tipo “tutte le rivoluzioni della scienza sono state viste dai loro contemporanei con diffidenza, come un attacco alle proprie certezze”. La paura del cambiamento qui non c’entra nulla, anzi, al contrario, è la certezza di un vecchio che ritorna ad animare la necessità di combattere il Mondo Nuovo. Il fatto che la realtà possa essere “aumentata” solamente al prezzo della diminuzione della vita. E che il procedere tecnico dell’organizzazione sociale non è affatto composto di scelte individuali (se per esempio decido di non possedere uno smartphone non significa affatto che io possa ritenermi estraneo alle sue influenze sociali) ma si impone a tutti i viventi, se pur in maniera differente in base alla classe, al genere, alla specie… Oltre, indubbiamente, ad una sorveglianza sempre più pervasiva, è di queste imposizioni tacite che oggi vive una parte significativa del potere; di quelli che Ivan Illich aveva puntualmente definito «monopòli radicali», o che Günther Anders descriveva come «obblighi e divieti segreti». È ovvio che certe “utopie” transumaniste, come quella di raggiungere l’immortalità (la cui via più probabile ad oggi sembra essere, in parole povere, quella del backup di ciò che viene definito coscienza di sé su un disco rigido) siano per ora fuori portata. Ma è l’immaginario che vi sta dietro che deve essere preso sul serio, perché l’idea di una razza superiore, prodotto anche di un darwinismo sociale che sta alla base storica dell’eugenetica, è del tutto viva e dominante. L’idea stessa che motiva i dominatori a costituire niente meno che una nuova religione, animata dalla prospettiva di un’interazione uomo-macchina sempre più consolidata, deve essere riportata nella realtà dalle espressioni di un ateismo di nuovo tipo. Oggi, mentre il pianeta che abitiamo viene quotidianamente violentato e milioni di proletari muoiono sotto le bombe della civiltà non solo per motivazioni politiche, ma anche di territorio e di conquista di quelle materie che sono necessarie al complesso scientifico-militare-industriale, la upper class tecnocratica «spende milioni di dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con l’idea di vivere fino a 120 anni». Per questo forse le carte che abbiamo da giocare non sono rimaste molte, ma tra queste, ancora per qualche mano, resta l’asso che può lasciare attònito il banco: le profonde ragioni di vita per cui non abbiamo alcuna intenzione di farci strappare le qualità che ci rendono esseri umani unici, ognuno e ognuna di noi. La nostra naturale capacità di essere imprevedibili, di sorprenderci e di sorprendere, di prendere in mano la vita e di scagliarla con tutta la forza che abbiamo in corpo contro chi la vuole rendere una sua proprietà. L’inafferrabile «possibilità che ci rende più liberi degli dèi» dalla quale, come recita un folgorante libretto anonimo di qualche anno fa, possono nascere le ragioni «per andare armati all’assalto di un ordine che ci soffoca». Dicembre 2024 Rupert
Materiali
È disponibile il libro “Alcuni scritti su Kamina Libre. Identità irriducibili di una lotta anticarceraria”
Riceviamo e diffondiamo la notizia di questa pubblicazione, con un interessante brano dell’introduzione di che da un lato ripercorre la vicenda del compagno Marcelo Villaroel, e dall’altra mostra come il modello di segregazione e tortura del 41 bis italiano sia guardato con sempre più interesse da diversi Stati dell’Occidente globale: Qui la presentazione del libro in pdf: kl web È uscito il libro “Alcuni scritti su Kamina Libre, identità irriducibili di una lotta anticarceraria”. Il libro, nato dalla tesi di laurea del compagno prigioniero Francisco Solar e poi ampliato, racconta l’esperienza del collettivo di prigionieri Kamina Libre nato nel 1995 nel carcere di Santiago del Cile, che per anni ha portato avanti uno scontro permanente all’interno del Carcere di Alta Sicurezza (CAS) cileno fino ad ottenere il “ritorno in strada” di tutti i suoi membri. La prima presentazione è avvenuta all’interno della sedicesima Tatoo Circus benefit per prigionier* a El Paso (Torino). Nella discussione di sabato 15 l’esperienza di lotta del Kolektivo Kamina Libre tra gli anni Novanta e i Duemila nelle carceri cilene è stata messa a confronto con altre esperienze di lotta dei/delle detenuti/e, come la COPEL in Spagna negli anni Settanta, per riflettere da differenti prospettive sull’autorganizzazione dei/delle prigionieri/e e sul rapporto dentro-fuori dalle mura del carcere. Perché parlare di Kamina Libre oggi? Come espresso da Francisco nella sua prefazione al testo “l’esperienza di Kamina Libre ci mostra l’importanza di portare avanti un atteggiamento combattivo in carcere, di portare avanti in modo autonomo giornate di lotta al suo interno, così come di generare legami di complicità con ambienti solidali, sostenendo una pratica reale di attacco. Scrivere oggi di Kamina Libre significa parlare di scontro e autonomia”. Dall’introduzione italiana: Identità irriducibili. Contributo alla traduzione italiana Oggi attraversiamo un momento cruciale della situazione giuridica del compagno Marcelo Villarroel Sepúlveda nelle carceri cilene, da qualche mese è iniziato un ricorso per cercare di annullare le condanne inflitte dalla giustizia militare durante il periodo di Pinochet che persistono sul compagno. Marcelo fu arrestato per la prima volta nel novembre 1987, all’età di 14 anni, accusato di aver svolto attività di propaganda armata contro la dittatura all’interno di un liceo di Santiago e per la sua militanza nel MAPU-LAUTARO, un’organizzazione politico-militare marxista-leninista attiva contro la dittatura di Pinochet e nella successiva transizione democratica. Nel 1992 venne di nuovo arrestato dopo due anni di clandestinità nei quali fu ricercato sempre per la sua militanza nel MAPU-LAUTARO, che intanto, dopo la fine della dittatura di Pinochet nel 1990, aveva deciso di continuare la lotta armata “contro il riposizionamento capitalista mascherato da democrazia”. L’operazione antiterrorismo coinvolse trenta agenti e culminò in uno scontro armato che procurò a Marcelo tre ferite di arma da fuoco. Nel 1994 fu inaugurato in Cile il regime di alta sicurezza nel quale Marcelo fu trasferito insieme ad altri 33 prigionieri. In questo primo periodo di detenzione a partire dal 1995 prese parte al Kolektivo Kamina Libre. Successivamente è stato accusato di aver preso parte alla rapina al Banco Santander del settembre 2007 a Valparaíso e alla rapina al Banco Security dell’ottobre 2007 a Santiago, durante la quale l’agente Luis Moyano è morto in una sparatoria. Dopo un periodo di clandestinità, Marcelo fu arrestato il 15 marzo 2008 insieme a Freddy Fuentevilla a Neuquen, in Argentina. Furono poi estradati in Cile il 15 dicembre 2009. Il 2 luglio 2014 il tribunale cileno lo ha condannato a 14 anni di carcere per le due rapine, successivamente si sono poi aggiunte altre accuse, arrivando a un totale di 46 anni di carcere: -Associazione terroristica: 10 anni e 1 giorno. -Danneggiamento di un’auto della polizia con gravi lesioni ai carabinieri: 3 anni + 541 giorni. -Coautore dell’omicidio qualificato come terrorista: 15 anni e 1 giorno. -Furto con intimidazione, legge 18.314: 10 anni e 1 giorno. -Attentato esplosivo contro l’ambasciata spagnola: 8 anni. Lo Stato, i suoi meccanismi ideologici e il capitale tentano ancora una volta di seppellire le fila del movimento combattente, di fare calare il silenzio sui contenuti politici, le scelte di lotta e i decenni di tradizione rivoluzionaria. Compagni in ogni dove (Cile, Italia, Grecia, Spagna ecc…) hanno dedicato, oggi come ieri, la loro vita alla lotta contro l’oppressione per costruire un mondo di uguaglianza e libertà, assumendosi le responsabilità e compiendo scelte che hanno portato alla prigionia o alla morte, dando anima, corpo e pensiero alla causa rivoluzionaria. Tali scelte sono parte integrante di una continuità storica insurrezionale che mantiene viva nei nostri cuori e nelle menti la visione della rivoluzione sociale. Esportare l’isolamento Già da fine Ottocento le polizie europee stavano cercando un coordinamento per reprimere il movimento anarchico (le leggi antianarchiche approvate a partire dal 1890 in vari Stati europei e la sistematizzazione della pratica della schedatura politica prendendo a modello la polizia asburgica ne sono un esempio), oggi siamo davanti a una vera e propria globalizzazione della repressione e della controrivoluzione. In questo contesto di coordinamento repressivo tra Stati, l’Italia si sta ponendo come modello nella differenziazione carceraria e nell’isolamento dei prigionieri. Soltanto nell’ultimo anno le democrazie francese e cilena hanno avviato interlocuzioni con i professionisti dell’antimafia e dell’antiterrorismo italiani per esportare nei loro paesi, entrambi attraversati negli ultimi anni da un forte livello di conflittualità sociale, il modello del 41bis. “Al mattino il Ministro Darmanin e la delegazione sono stati ricevuti alla casa circondariale di Roma Rebibbia dalla capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria facente funzioni, Lina Di Domenico, e guidati dal Direttore del Gom – Gruppo operativo mobile, hanno visitato la sezione destinata ai detenuti sottoposti al regime del 41bis. […] A seguire, hanno incontrato il Procuratore Nazionale antimafia, Giovanni Melillo, presso Palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia.”[1] Secondo le dichiarazioni di Darmanin la prima struttura di alta sicurezza ispirata al modello italiano dovrebbe essere completata a fine luglio 2025, con almeno altre due a seguire negli anni successivi. Se in Francia il 41bis è tornato solo oggi un tema della discussione politica nazionale, giustificato anche in questo caso dalla lotta alle mafie e al narcotraffico[2], da oltre un anno nel nuovo Cile democratico di Boric è in corso un dibattito sull’opportunità di implementare il regime del 41-bis, nel contesto più ampio di una riforma della gendarmeria e del regime penitenziario. Per il procuratore nazionale cileno Angél Valencia “È importante guardare all’esperienza italiana, gli italiani hanno ottimizzato i loro sforzi per combattere la criminalità organizzata, hanno creato nuove carceri rispettando gli standard europei sui diritti umani”[3]. Nel settembre 2024 l’ambasciata d’Italia a Santiago ha organizzato un incontro per presentale alla Corte costituzionale cilena il modello del 41-bis e la sua storia[4], tenuto dal Professor Antonello Canzano dell’Università Roma Tre il quale ha sottolineato come la sua genesi si trovi in ben trent’anni di storia repressiva dello Stato italiano. “Questo quadro non è il risultato di un singolo intervento, ma di una graduale evoluzione normativa nel corso di 30 anni, continuamente adattata in base alla sua efficacia”, ha affermato il professore durante la sua esposizione in Aula, al termine della quale si è generato un interessante dialogo in chiave comparata a cui hanno partecipato anche i ministri Miguel Ángel Fernández, Nancy Yáñez, Héctor Mery e Marcela Peredo. Ampia attenzione è stata dedicata al cosiddetto “modello italiano” di lotta al crimine organizzato, di cui parte integrante rappresenta il regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario italiano, volto a neutralizzare la possibilità che gli autori di reati più gravi, soprattutto legati alla criminalità organizzata, possano condurre attività illecite dal carcere.”[5] La visita di Canzano in Cile, lungi dall’essere un evento isolato è stata preceduta pochi mesi prima da quella del magistrato Giovanni Tartaglia Polcini, Consigliere del Ministero degli affari Esteri e vicedirettore del programma europeo EL PACCTO 2.0[6], il programma europeo di cooperazione con il Sud America per la lotta alla criminalità organizzata, non a caso con L’Italia come paese coordinatore. Degna di menzione è anche la nuova legge antiterrorismo cilena approvata a inizio febbraio 2025, più “moderna, efficace e democratica” che andrà ad ampliare il reato di associazione terroristica, permettendo la detenzione anche in assenza di reati specifici per chi all’occorrenza ne sarà considerato membro o anche solo “finanziatore” di un’associazione terroristica, andando a colpire in maniera più efficace anche la solidarietà fatta di benefit per i prigionieri. L’inasprirsi delle tensioni internazionali, sociali e politiche dovute alla tendenza alla guerra e alle contraddizioni insite a questo sistema capitalista richiedono agli Stati un’azione sempre più preventiva, una contro-insurrezione in assenza di insurrezione, per garantire la tenuta del fronte interno in un periodo storico in cui il recupero delle lotte da parte dello Stato portato avanti tramite welfare e piccole concessioni non è ormai più sostenibile. Il carcere distilla “la quintessenza delle pratiche repressive legate alla ristrutturazione sociale e politica, in forme più palesemente autoritarie (quelle più asettiche dell’UE e quelle più becere dei sovranismi nazionali sono equivalenti da questo punto di vista, si vedano le politiche antimmigrazione e la propaganda di guerra in corso) in un occidente che ancora non si capacita di essere in piena crisi e cerca con una mano di arginare con manie securitarie le falle di una nave che affonda e con l’altra di arraffare quanto più possibile per riempirsi le tasche prima del naufragio.”[7] È in questo contesto che la guerra sul fronte interno si allarga e accelera il consolidamento di un diritto penale del nemico, con gli ultimi sviluppi repressivi come il DDL 1660 in Italia il quale prevede l’introduzione del reato di “terrorismo della parola”, fino ad ora non codificato ma comunque utilizzato nelle varie operazioni repressive contro la stampa anarchica come Sibilla e Scripta Scelera. Il DDL 1660 non si risparmia inasprimenti di pena anche sul fronte del carcere, aumentando le pene per rivolte e prevedendo un’aggravante per il reato di “istigazione a disobbedire alle leggi” se il fatto è commesso “all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”[8]. I regimi di alta sorveglianza e di isolamento diffusi nel mondo, con apice nel 41bis, puntano a rompere la solidarietà tra il dentro e il fuori del carcere e tra gli stessi prigionieri attraverso la differenziazione carceraria, anche per questo riteniamo che sia importante tornare a riflettere sulle esperienze di chi, come il Kolektivo Kamina Libre, sia sotto la dittatura, sia nel periodo di transizione alla democrazia, ha continuato a lottare sia all’esterno che all’interno del carcere contro l’oppressione e per una società radicalmente diversa, rompendo la divisione dentro/fuori per ottenere il ritorno in strada dei suoi membri, ma anche inserendosi, con le riflessioni sui prigionieri sociali, in un dibattito che in quegli anni sembrava schiacciato dall’opposizione prigionieri comuni versus prigionieri politici. Marcelo Villarroel in strada! Tuttx liberx! Indice: -Identità irriducibili -Intervento di Claudio Lavazza per l’edizione in italiano -Nota delle Ediciones Abandijas -Come prologo -Prologo II -Introduzione -Antecedenti generali -Organizzazione ed espressione nel carcere di alta sicurezza -L’uso del corpo come simbolo di espressione -Conclusioni -Allegati     La gabbia d’oro     Gli echi delle eliche     Pensando, pensando     La lotta dentro e al di fuori     Intervista a Kamina Libre     Detenuti sociali -Alcuni poster e immagini -Bibliografia -Qualche domanda a Marcelo Villarroel -Poche parole su Edizioni El Buen Trato -Contributo di Marcelo Villarroel alle Edizioni El Buen Trato Totale 210 pagine Per contatti: presospolitico@anche.no [1] https://ambparigi.esteri.it/it/news/dall_ambasciata/2025/02/italia-francia-nordio-incontra-lomologo-darmanin-3-febbraio/ [2] https://www.lefigaro.fr/actualite-france/gerald-darmanin-justifie-les-prisons-haute-securite-pour-les-narcotrafiquants-pour-affirmer-l-autorite-de-l-etat-20250203 [3] https://www.emol.com/noticias/Nacional/2024/04/22/1128642/carcel-italianas-modelo-chile-crimen.html [4] https://ansabrasil.com.br/english/news/news_from_embassies/2024/09/06/italy-and-chile-united-in-the-fight-against-organised-crime_3ef7f9a4-9206-42ac-9a7b-3d89dad8b577.html [5] https://ambsantiago.esteri.it/it/news/dall_ambasciata/2024/09/lambasciatrice-valeria-biagiotti-e-il-professor-antonello-canzano-in-visita-protocollare-al-tribunale-costituzionale/ [6] https://iila.org/it/al-via-la-seconda-fase-del-programma-el-paccto-di-lotta-alla-criminalita-organizzata-transnazionale-panama-11-13-marzo-2024/ [7] https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/02/03/anna-beniamino-fisiopatologia-del-mostro-carcerario-veleni-e-antidoti-ottobre-2024/ [8] Opuscolo “Lo Stato è guerra. Il Fronte interno della guerra. Diritto penale del nemico”
Carcere
Materiali