Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXIX)
Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima
sicurezza e “genocidio incrementale”
Le due versioni del mega-carcere
Le odierne prigioni assomigliano al Panopticon originariamente concepito da
Jeremy Bentham, il primo filosofo moderno a giustificare la logica della
reclusione all’interno di un nuovo sistema penale coercitivo. Il Panopticon, un
carcere tristemente celebre all’inizio del XIX secolo, era progettato in modo da
consentire alle guardie di osservare i prigionieri ma non viceversa. L’edificio
era circolare, con le celle dei carcerati disposte lungo il perimetro esterno,
mentre al centro del cerchio si trovava una grande torre di osservazione. In
qualsiasi momento le guardie potevano guardare giù nella cella di ciascun
detenuto – e quindi sorvegliarne il comportamento potenzialmente riottoso –,
laddove delle tende accuratamente disposte impedivano ai carcerati di scorgere
le guardie, così che non sapessero se e quando venivano monitorati. La
convinzione di Bentham era che lo “sguardo” del Panopticon avrebbe costretto i
prigionieri a comportarsi in modo virtuoso. Trovandosi come sotto l’occhio
veggente di Dio, essi avrebbero dunque provato vergogna per i loro comportamenti
malvagi.
Sostituiamo alla condotta morale il collaborare con l’occupante, cambiamo la
struttura circolare del Panopticon con una serie di criteri geometrici di
imprigionamento, ed ecco che la decisione israeliana del 1967 appare proprio
quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza. […]
Nel 1967 la rotta ufficiale tracciata da Israele, tra impossibili ambizioni
nazionalistiche e colonialiste, trasformò un milione e mezzo di individui in
detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a
pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a un società
nella sua interezza. Era, ed è tutt’ora, un sistema crudele creato per la più
vile delle ragioni, ma non solo. Nell’edificarla, alcuni architetti cercarono
davvero di ispirarsi a un modello il più umano possibile, probabilmente perché
consapevoli che si trattava di una pena collettiva inflitta per un crimine mai
commesso. Altri, invece, non si curarono nemmeno di concepire una versione più
blanda e umana. Giacché erano presenti queste due linee di pensiero, il governo
offrì alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ambedue le
versioni del mega-carcere. Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon,
l’altra un carcere di massima sicurezza. E se non avesse accettato la prima
versione, le sarebbe stata riservata la seconda. […] La verità è che la prigione
a cielo aperto era già abbastanza dura e disumana da scatenare la resistenza
della popolazione lì rinchiusa, per cui la variante di massima sicurezza veniva
inflitta come rappresaglia a tale resistenza.
[…]
I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari
contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la
rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della
Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da
questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità
era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi dura da oltre
cinquant’anni [il testo è del 2017].
Il partito laburista e la sinistra sionista
La responsabilità di aver ingannato il mondo durante quel decennio [1967-1977]
ricade unicamente sul Partito Laburista (e, al suo interno, anche sul defunto
Shimon Peres che, dopo la sua morte avvenuta nel 2016, è stato acclamato come un
campione di pace). […]
Nel 1969 il movimento laburista, che ancora si chiamava Mapai, attraversò una
fase di ristrutturazione da cui uscì con un nuovo nome: divenne il Ma’arach
(‘Alleanza’). Si trattava infatti di una coalizione formata dal Mapai, il Rafi
(un gruppo parlamentare guidato da David Ben-Gurion) e l’Ahdut HaAvoda, il
partito di Ygal Alon. L’ultimo gruppo a aderirvi fu quello della sinistra
sionista, il Mapam. L’“Alleanza” rimase intatta fino alla sua sconfitta alle
elezioni del 1977 contro il Likud, lo schieramento di Menachem Benin [poi di
Sharon e di Netanyahu].
[…] già nel 1967, al fine di mantenere un controllo strategico sui Territori
Occupati, il governo unificato aveva concordato di stabilire coloni e soldati in
alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A complicare il piano
furono però due circostanze: una delle quali [l’altra è la resistenza
palestinese] fu l’emergere del movimento messianico Gush Emunim, che inviò i
propri seguaci a colonizzare quelli che consideravano antichi siti biblici,
molto spesso proprio in mezzo alla popolazione palestinese della Cisgiordania.
Il governo voleva invece insediare gli ebrei in aree meno densamente abitate dai
palestinesi.
Tra i responsabili politici era presente un numero davvero significativo di
reduci del 1948, i quali credevano di aver riscattato per sempre l’antica Terra
d’Israele nel 1967. In qualità di ministri del governo, essi chiusero un occhio
quando, la notte del 12 aprile 1968, il primo gruppo di coloni ebrei si trasferì
a Hahil, Hebron e in Cisgiordania. Il gruppo si installò al Park Hotel, proprio
nel cuore della città, e poche settimane dopo il governo autorizzò la creazione
della città ebraica di Qiryat Arba, che dominava su Hebron. La comunità
internazionale rimase indifferente mentre, a quanto pare, in quel particolare
frangente storico gli Stati Uniti decisero di inaugurare una nuova e potenziata
fase del proprio rapporto con Israele: vollero infatti dotare lo Stato ebraico
delle armi più avanzate e all’avanguardia in loro possesso (alla fine del 1968,
furono consegnati a Israele cinquanta caccia Phantom).
Il sostegno ai primi coloni da parte del governo laburista, rimasto al potere
fino al 1977, passò del tutto inosservato sotto gli occhi di un mondo che,
cinquant’anni dopo, avrebbe considerato gli insediamenti ebraici il primo
ostacolo alla pace.
Il sindacato
La prigione aperta sembrava funzionare. Da quel momento in poi non ci fu più
bisogno del coinvolgimento diretto del Comitato dei Direttori generali o del
Ministero della Difesa. L’esercito attuava il suo dominio su ogni aspetto della
vita, ma fin dall’inizio fu assistito da altri enti israeliani. Uno di questi
era il sindacato generale, l’Histadrut. Questa organizzazione pre-statale era
già stata molto efficiente nell’estromettere i palestinesi dal mercato del
lavoro mandatario, e ciò a dispetto del fatto che veniva vista dal mondo
occidentale – compreso il movimento sindacale britannico – come un esempio di
organizzazione socialista votata al benessere dei lavoratori. Nel 1967, a
partire dalla seconda settima di giugno [cioè dopo la Guerra dei Sei giorni e
l’inizio dell’occupazione del restante 22% della Palestina storica], l’Histadrut
fu incorporato nel meccanismo di occupazione. Il governo gli concesse il
monopolio del commercio e dell’industria: e sul campo non agì come un sindacato,
ma come un mastodontico complesso industriale.
Il movimento “messianico” dei coloni
Il movimento era già attivo nel 1968, ben prima di essere formalmente
istituzionalizzato nel 1974 da Kook, il quale gli diede anche il nome di Gush
Emunim (‘Il blocco dei fedeli’). […]
Il primo atto ufficiale del movimento (da distinguere rispetto alle azioni
intraprese dai coloni già presenti a Hebron e Gush Etzion) ebbe luogo alla fine
del 1974. Fu il tentativo di insediarsi nella zona di Nablus, nella vecchia
stazione ferroviaria ottomana di Sebastia, allo scopo di creare due stanziamenti
ancora oggi presenti: Alon Moreh e Qadum. Anche se inizialmente essi vennero
sfrattati, alla fine il governo laburista concesse loro il permesso di restare,
tramite un accordo che suggellava l’integrazione degli sforzi compiuti dal
governo con quelli dei coloni.
Fu così che nel 1974 il movimento dei coloni divenne una lobby ideologica che
influenzava le politiche governative riguardanti la colonizzazione e che godeva
di una presenza sempre maggiore nella Knesset [il parlamento israeliano] e nella
sfera pubblica in generale. Ma se per un verso i coloni erano dei manipolatori,
per l’altro loro stessi venivano manipolati. Erano infatti usati come arma, e
molto spesso come scusa, per giustificare la confisca di terre, e lo Stato
ricorreva a loro come strumento demografico per effettuare una pulizia etnica
con mezzi alternativi.
Il movimento era un comodo canale per implementare quegli aspetti della politica
di colonizzazione ai quali il governo laburista non voleva essere direttamente
associato; specialmente le politiche che contraddicevano apertamente il diritto
e le convenzioni internazionali. Anziché sullo Stato, infatti, la responsabilità
veniva fatta ricadere su presunti gruppi di parte. Perciò, dopo che la
mega-prigione, a prescindere dalla sua versione, fu delineata geograficamente e
attivamente mediante il saccheggio delle terre, venne ulteriormente ristretta e
modellata in forza della mappa delle colonie ebraiche. La vita in prossimità
delle due comunità, quella dei palestinesi occupati e dei coloni, non faceva
altro che accentuare l’immagine di un carcere. Ogni colonia, e ogni blocco di
colonie, era circondato da una recinzione elettrica e da un muro che chiudevano
i coloni al loro interno, ma che combinate tra loro rinchiudevano i palestinesi
in decine di mini-prigioni dentro l’enorme complesso della Cisgiordania e della
Striscia di Gaza.
Il Likud, o dell’indistinzione tra colono e soldato
Il maggiore cambiamento rispetto al decennio precedente [1967-1977] fu la
licenza di agire liberamente che il governo del Likud concesse ai coloni
religiosi più ideologizzati. Dover integrare l’attività più violenta dei coloni
all’interno della struttura generale di controllo non era un aspetto che tutti,
nella burocrazia dell’occupazione, accolsero con favore. Tuttavia, i facinorosi
e i vigilantes presenti tra i coloni, i quali spesso eseguivano azioni punitive
come sradicare alberi, bruciare campi o, in generale, molestare i palestinesi,
venivano tollerate perché la loro attività accresceva ulteriormente il controllo
e la presenza di Israele, specialmente lungo i confini tra le enclavi
palestinesi “pure” e le nuove “aree interdette” a chiunque non fosse ebreo.
Nel 1982, Yitzhak Mordechai, il comandante della regione centrale, decise di
impiegare nella zona di Hebron una compagnia di riserva composta da coloni in
qualità di “unità di difesa regionale”. Anche altrove fu adottato questo
sistema, in cui i coloni venivano usati come soldati nei pressi dei propri
insediamenti, molto spesso con l’autorizzazione a intimidire e compiere ancora
più abusi sulla popolazione locale.
Un piano per Gaza del 1967
Complessivamente, secondo fonti dell’ONU, in quei primi giorni [di giugno del
1967] Israele espulse in totale quasi 180.000 palestinesi. Nel riassumere questo
periodo di pulizia etnica della Palestina, vorrei tornare ad alcuni dei piani
che non furono adottati, o quantomeno a uno che, purtroppo, in futuro potrebbe
ancora avere una certa rilevanza, qualora Israele avesse mai il potere, la
volontà o la necessità di allontanare in massa la popolazione occupata al fine
di soddisfare le sue esigenze strategiche fondamentali. Parliamo dell’idea di
trasferire la gente della Striscia di Gaza, o quantomeno gli esuli che lì
vivono, in Cisgiordania.
Ciò fu discusso seriamente, per la prima volta, nel luglio 1967 da uno dei più
rispettati e alti ufficiali dell’esercito, Mordechai Gur, il quale fu invitato
dal governo [ripetiamo: laburista] a presentare il suo piano. Egli propose di
inglobare i profughi di Gaza a quelli in Cisgiordania:
Dobbiamo creare le condizioni che inducano le persone ad andare via. Dobbiamo
fare pressione su di loro, ma in modo da indurle a non resistere, bensì a
partire. Dovrebbe essere incoraggiati a farlo sia i profughi [del 1948] sia i
residenti in pianta stabile, così che questi sentano che non ci sono speranze
nella Striscia [di Gaza] dal punto di vista agricolo […]. Inoltre, quando
l’UNRWA completerà un nuovo censimento, sarà chiaro che essa non disporrà di
razioni di cibo sufficienti per tutti i rifugiati […] questo potrebbe avere
gravi implicazioni per la sicurezza […] dovremmo bloccare ogni sviluppo laggiù
[in modo da incoraggiare il trasferimento].
La prova generale
Nel 2004 l’esercito israeliano cominciò a costruire una città araba fittizia nel
deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con
strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili.
Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città
fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l’esercito israeliano,
vista la battuta d’arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse
preparare a combattare a sud una “guerra migliore” con Hamas.
Dopo aver visitato il sito all’indomani della guerra in Libano, il capo di stato
maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano
«preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City».
Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak [l’allora presidente di
Israele] assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe
televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra
conquistare la città fittizia, prendendo d’assalto le case vuote e uccidendo
senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano.
[…]
Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i
palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i
responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello
della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuta
essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell’A[utorità]P[alestinese] [il
famoso “Stato palestinese” sul cui riconoscimento i governi europei fanno finta
di litigare] era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia,
neppure la ritorsione per mezzo dell’assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla
arrendere al modello voluto dagli israeliani.
[…]
È così che è avvenuto il fiasco generale israeliano del 2005, trasformatosi poi
in quello che altrove ho definito “genocidio incrementale della Palestina”. Gli
israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima
pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal
cielo.
(brani tratti da Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei
territori occupati, Fazi, Roma, 2022 [ed. originale 2017] )
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Riceviamo e diffondiamo questo opuscolo, che raccoglie gli scritti in
solidarietà a imputati e imputate per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano
in solidarietà ad Alfredo Cospito e contro 41-bis ed ergastolo ostativo. Il
primo grado di questo processo si è concluso con pesanti condanne contro 10
compagni e compagne, a cui mandiamo tutta la nostra solidarietà.
Qui l’opuscolo: prova opuscolo 2
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: ristampa di foc al foc goliardo fiaschi una vita per lanarchia
È disponibile la ristampa del libro “Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per
l’anarchia”
Alberto [Josep Lluís Facerías] era un grande e valido organizzatore, nelle
riunioni ci diceva che portare avanti un campeggio era come portare avanti un
paese, quindi il buon funzionamento dello stesso poteva rappresentare una prova
che noi anarchici, un giorno, saremmo stati in grado di gestire nel miglior modo
possibile una città. Sicché dovevamo occuparci con attenzione del rifornimento e
della distribuzione dei viveri, curare l’igiene in tutti i suoi aspetti,
organizzare e programmare le varie conferenze di propaganda, le esposizioni di
manifesti e le mostre fotografiche, gli spazi dedicati ai libri ed alle riviste,
i concerti di musica. Tutti i compagni dovevano svolgere dei turni di lavoro in
ogni settore del campeggio, in modo che ognuno potesse impratichirsi un po’ su
tutto, così da non rimanere sempre impiegato in un solo tipo di attività. Fu una
grandissima esperienza!
Di soldi, per organizzare al meglio tutte queste attività, ne servivano molti,
ma nel nostro movimento non ne giravano un granché. Sì, c’era sempre la cassetta
per le sottoscrizioni, ma la maggior parte delle volte rimaneva vuota. E senza
mezzi, i campeggi o i giornali e gli opuscoli di propaganda non si potevano
fare. Quindi, Alberto doveva, assieme a compagni di volta in volta diversi, fare
necessariamente dei prelievi nelle banche, nelle oreficerie o in altre attività
commerciali. Erano azioni di esproprio e di autofinanziamento indispensabili al
buon funzionamento delle varie attività e iniziative anarchiche. A Carrara, ma
anche altrove, alcuni compagni, soprattutto quelli più anziani, avevano una
mentalità un po’ particolare. Se venivi arrestato per aver rubato qualcosa,
diventavi una vergogna per l’onorabilità del movimento. È un reato comune,
dicevano, non ha niente a che vedere con la politica. E quindi ti veniva a
mancare la loro solidarietà, e a poco a poco anche altri “compagni” cominciavano
a mollarti: «Sono azioni da ladri comuni! L’anarchia non c’entra nulla con
queste cose…». E invece c’entrava eccome!
È finalmente disponibile la ristampa dell’unica edizione di Fòc al fòc! Goliardo
Fiaschi: una vita per l’anarchia, di Gino Vatteroni, editata nel 2012 dal
Circolo Culturale Anarchico di Carrara, intitolato proprio a Gogliardo Fiaschi
dopo la sua morte avvenuta il 29 luglio 2000. La ristampa, limitata a 100 copie
e identica all’edizione pubblicata 13 anni fa, è disponibile in distribuzione
presso il circolo in via Ulivi 8/B a Carrara o è richiedibile in spedizione
rivolgendosi all’indirizzo e-mail circolofiaschi@canaglie.org.
Ne abbiamo deciso la ristampa, oltre che per rendere nuovamente disponibile un
libro da tempo esaurito, anche perché quest’anno ricorrono i cinquant’anni
dall’apertura del circolo, avvenuta nel 1975 grazie all’impegno di numerosi
compagni anarchici, tra cui Gogliardo.
Così come resta testardamente immutata la nostra esigenza di libertà integrale,
così continua l’attività di distribuzione di testi e pubblicazioni che alla
realizzazione possibile di questa libertà intendono contribuire.
Carrara, luglio 2025
Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi”
* * *
Gino Vatteroni
Fòc al fòc! Goliardo Fiaschi: una vita per l’anarchia
Edizione curata dal Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” e stampata
presso la Cooperativa Tipolitografica, Carrara, 2012.
368 pp., nota introduttiva di G. Vatteroni, prefazione di M. Guastini.
Edito in proprio senza contributi di Stato o di qualsiasi istituzione.
Ristampa identica alla prima edizione, Carrara, 2025.
Per richieste rivolgersi all’indirizzo e-mail: circolofiaschi@canaglie.org
Prezzo di copertina: 20,00 euro.
Per la distribuzione (ordini di almeno cinque copie):
40% di sconto sul prezzo di copertina (12,00 euro a copia).
Tutte le entrate dal libro andranno a sostegno delle attività e delle iniziative
del Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi”.
Indice:
Nota introduttiva, p. 5
Prefazione, p. 7
Prologo – Ricordi d’infanzia, p. 11
1 – Adolescenza partigiana, p. 16
2 – Le stragi dei nazifascisti, p. 35
3 – Ricordi su Giovanni Mariga, p. 39
4 – Il passaggio del fronte, p. 44
5 – Partigiano nel modenese, p. 51
6 – Ritorno a Carrara, p. 65
7 – Il dopoguerra, p. 70
8 – Con la Spagna nel cuore, p. 100
9 – Villanova Monferrato, p. 129
10 – In Francia, p. 149
11 – In Spagna, p. 159
12 – In carcere a Barcellona, p. 178
13 – Guadalajara, p. 207
14 – Da Alcalà de Henares a Gijon, da Cuellar a Teruel, passando per Madrid, p.
228
15 – Alicante, p. 237
16 – Burgos, passando per Guijuelo, Carabanchel e Avila, p. 245
17 – Logroño, di nuovo Burgos e l’estradizione in Italia, p. 263
18 – Da Genova a Porto Azzurro, passando per Casale e Firenze, p. 270
19 – Da Fossombrone a Spoleto, da Viterbo a Parma, fino a giungere a Lucca, p.
287
20 – Da Pisa a Lecce, passando per Massa, p. 314
Epilogo – Di nuovo a Carrara, p. 333
Appendice, p. 337
Riceviamo e diffondiamo:
È disponibile il numero 1 di “Senza”, pagine anarchiche (luglio 2025)
Segnaliamo l’uscita della nuova pubblicazione “Senza”, un foglio di quattro
pagine di cui riportiamo di seguito il sommario e il testo di presentazione.
In questo numero:
— Radici
— Contro la guerra dei padroni, per la guerra sociale
— Il salto (indietro). Non la massima distruzione, ma il minimo danno
— La nostra fiamma che non si spegne
Per richieste di copie rivolgersi all’e-mail: senza@logorroici.org
Stampato in proprio, fine luglio 2025. Il foglio naturalmente è senza prezzo,
tuttavia per quanto riguarda l’invio di copie in distribuzione (almeno 10 copie)
viene richiesto un minimo di contributo anzitutto a sostegno delle spese di
spedizione.
* * *
Radici
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
Alejandra Pizarnik
Per sua natura un pezzo di carta come questo non può essere una spinta di
coraggio. Nonostante ciò, può pur sempre avere l’ambizione di diventare uno
strumento che rifletta, che dia spazio agli slanci rivoluzionari esistenti oggi:
uno strumento che possa (contribuire ad) accendere, a ravvivare quella fiamma
oggi sempre più flebile a causa di quella lebbra che chiamate civiltà.
Con la fine dell’epoca delle mediazioni e dei riformismi, gli Stati e il
capitalismo hanno dichiarato una guerra aperta – per il momento perlopiù a senso
unico – contro gli sfruttati, gli esclusi; allo stesso tempo tanti segnali
positivi e incoraggianti si manifestano sul terreno della rivolta. È ambizione
di questo foglio riuscire ad amplificare (a suo modo e nei limiti esistenti)
questi fatti, non tanto per un bisogno di “controinformazione” bensì per darci
uno strumento di agitazione.
Crediamo di trovarci in un momento di attenuazione della pace sociale: al netto
dell’intensificarsi dell’attacco padronale, in questi anni stanno emergendo
anche delle risposte da parte degli esclusi. Manifestazioni di insubordinazione
e di resistenza spesse volte embrionali e contraddittorie secondo i canoni e le
“convenzioni” cui siamo abituati, che però rendono appieno la cifra di
quest’epoca dove, quantomeno a partire dagli anni del Covid-19, è evidente un
cambio di passo nell’incalzare degli eventi.
Rinchiusi nella tana della nostra eterna disillusione, amareggiati dallo
scoramento generalizzato, incupiti per esserci arenati nelle sabbie mobili del
disincanto, eccoci qui, apparentemente nella condizione di non poter fare altro
che appellarci alla volontà. Come a dire: se le idee per sconvolgere questo
mondo non ci sono mai mancate, ciò che oggi manca sono la volontà e il coraggio
– quindi la necessaria coerenza – di essere questo sconvolgimento. Tuttavia di
esortazioni come questa, di appelli alle buone intenzioni (o forse sarebbe
meglio dire allo scatenamento delle cattive passioni) ne sono piene le fosse.
Se le condizioni oggettive ci sono tutte, è la disponibilità soggettiva a
mancare enormemente. Può un pezzo di carta come questo, nel contesto appena
delineato a grandi linee, contribuire a maturare questa disponibilità? Certo, un
foglio redatto da anarchici è pur sempre un insieme di pagine, imbrattato di
inchiostro. Esaltarne un’inesistente funzione di grimaldello nel terreno dello
scontro sociale e di classe sarebbe una ben misera operazione. Tuttavia
l’anarchismo non può prescindere dalla critica sociale, e questo è sicuramente
un primo scopo di pagine come queste. Non un luogo di sedimentazione della
teoria, o di illustrazione di una deliziosa condizione ideale di un mondo senza
padroni e poliziotti, bensì uno strumento di propaganda anarchica come occasione
di riflessione, suggerimento di lotta, coinvolgimento nell’azione.
Riteniamo occorra oggi più che mai scardinare ogni autocompiaciuto avvitamento
su sé stessi. In quanto anarchici non ci riteniamo qualcosa di più, non siamo
portatori di una radicale alterità rispetto agli altri proletari. È semmai il
connubio teorico-pratico dell’anarchismo, quindi la capacità propulsiva
dell’azione, a prefigurare con i fatti quest’alterità. Non ci riteniamo
depositari del verbo della violenza così come altri sono depositari del verbo
del pacifismo. Non ci è mai bastata – o non ci basta più – la strenua
rivendicazione della giustezza della violenza rivoluzionaria contro lo Stato e
il capitale. Sottolineare l’importanza dell’azione, ribadirne la capacità
discriminante, non basta a tirarci fuori dalle secche della mancanza di
prospettive. Ecco allora che, più che affermare il valore di determinati mezzi e
strumenti, è essenziale per noi oggi suggerire l’importanza del metodo, perché
non crediamo che darsi degli atteggiamenti o dei vestiti nuovi ci possa
consentire di raggiungere ciò che invece ci può dare l’impiego dei metodi di
sempre.
Cauti nei riguardi delle novità teoriche e scettici nei confronti dei
fabbricanti di queste novità, restiamo fautori di un metodo, quello anarchico e
rivoluzionario, con cui intervenire nella realtà sociale e nello scontro di
classe. Perché le classi – così come i padroni – esistono ancora e la concezione
anarchica della lotta di classe non può essere messa sotto il tappeto. Lo
diciamo chiaramente: diffidiamo di quanti tentano di presentare il concetto di
classe come una sorta di manipolazione teorica di estrazione marxista.
Negli ultimi decenni, ovunque in tutto il mondo, le più recenti generazioni
approcciatesi alla lotta fanno propria una concezione libertaria della lotta
stessa e della vita, anche se con un moto dell’animo per certi versi
comprensibile – ma non condivisibile – non fanno propri i caratteri e i concetti
dell’anarchismo. Non riteniamo sia nostro compito “capitalizzare” in termini
quantitativi questa tensione, bensì coglierne i caratteri qualitativi nella
direzione di uno sviluppo dello scontro sociale in senso antiautoritario. Parole
altisonanti? Forse. In ogni caso, proprio nella direzione di uno sviluppo in
questo senso, e in critica alle sempreverdi sirene della resa e della
desistenza, riteniamo non sia affatto anacronistico perseverare nel considerare
discriminanti l’attacco, la conflittualità permanente, l’autorganizzazione della
lotta.
Non abbiamo scordato che l’anarchismo è per sua natura rivoluzionario, ossia
tendente a porre in essere e a consolidare le condizioni per cui – senza fasi
transitorie, attaccando il possibile sviluppo di qualsiasi centro di potere – si
possa avere un processo rivoluzionario, o affinché a partire da lotte specifiche
o da determinate circostanze storiche si possano dare degli sbocchi
insurrezionali, per loro natura preparatori della rivoluzione sociale. Queste
sono le nostre radici di anarchici, che affondano nella necessità e nella
volontà di arrischiarsi su strade non ancora battute, di azzerare il nemico di
sempre in favore di un vita radicalmente libera, senza Stato e capitale.
Queste pagine nascono quindi con la presunzione di dire qualcosa su questa
necessità e su questa volontà di sconvolgimento, e nel segno di un’assenza, di
un’urgenza che avvertiamo, ossia nel solco di una continuità con alcune
precedenti pubblicazioni anarchiche rivoluzionarie. Non si tratta però della
riesumazione di un cadavere – considerata anzitutto la diversità nel formato e
nel “taglio” di queste pagine –, ma dell’avvio di un nuovo strumento di cui
pensiamo ci sia bisogno. Con questa pubblicazione (per il momento) irregolare
vorremmo raccogliere sia degli “elementi” che consentano di cogliere cosa
significano pensiero e azione per l’anarchismo, sia delle occasioni di
riflessione su fatti “grandi e piccoli” a partire dai quali delineare la nostra
visione del mondo, risalendo quindi alle motivazioni della nostra lotta, alle
ragioni dell’anarchismo. Allora, come rendere comprensibili queste ragioni, e la
fame di libertà integrale – spesse volte intuita, altre volte mal compresa – che
portano con sé, a fronte di una realtà sociale dove si punta unicamente a
rendere spendibili delle opinioni usa e getta?
Questa pubblicazione non sarà un contenitore, incapace di dire di no,
disponibile a tutti i vezzi retorici o velleità letterarie (oggigiorno perlopiù
improbabili). Saranno delle pagine talvolta a loro modo polemiche, corrosive, ma
non inutilmente polemiche, adagiate nel livore. Occorrerà quindi una scelta nel
taglio degli argomenti, nella consapevolezza che questo resta uno strumento, non
una palestra per esercitazioni retoriche. Quanti di noi si sono avvicinati alle
idee anarchiche perché, un giorno tra i tanti, si sono trovati tra le mani un
giornale, una rivista, un libro? Siamo ancora disposti a scommettere sulla
scoperta e sull’approfondimento delle potenzialità proprie della nostra
individualità.
Desideriamo che queste poche pagine mantengano una tensione costante nell’essere
uno strumento (ancorché minimale) per attrezzarci a fronte dei tentativi dello
Stato di metterci all’angolo, di liquidare la prospettiva rivoluzionaria
dell’anarchismo. Una scommessa che nel suo complesso si pone decisamente al di
fuori della portata delle nostre attuali capacità. Tuttavia, inguaribilmente
ottimisti, niente e nessuno potrà impedirci di perseverare nell’illimitatezza
dei nostri sogni.
Riceviamo e diffondiamo. Per più dettagli si veda il sito dell’Arkiviu:
https://anarkiviu.wordpress.com/
C. Cavalleri / L’altra storia del banditismo : Potere costituito,
autodeterminazione, “criminalità” in Sardegna. Il carcere e il carcerario; 256
p., EUR. 14,00
Un’esperienza contro il carcere, quella del Comitato di Solidarietà con il
proletariato Prigioniero Sardo Deportato, ancorata al territorio in cui operava.
Durata quasi un decennio, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso, quindi in piena epoca di “riflusso” del movimento rivoluzionario, la
lotta portata avanti dal Comitato non si può negare presenti ancora oggi aspetti
positivi che potranno essere punto di riferimento per una progettualità che
sappia articolarsi dentro e fuori della galera contro il sistema nella sua
totalità.
Una panoramica storica sul carcere in Europa e in Sardegna in particolare,
concernente la nascita dello Stato moderno e la contestuale evoluzione del
capitalismo, nel loro imporsi a discapito delle popolazioni colonizzando i
territori, rapinandone le risorse e determinando genocidio ed etnocidio là ove
la refrattarietà si dimostra irriducibile. Ma storia anche delle masse isolane
in perenne lotta contro gli oppressori interni ed esterni adusi alle stragi
genocide. Il banditismo – essere messo fuori della legge, o mettersene fuori
volontariamente – nel caso specifico della Sardegna è risposta sociale
generalizzata all’ordine imposto, è fenomeno sociale contro lo Stato
colonialista e genocida che si manifesta fino a ieri l’altro secondo i canoni
dell’autodeterminazione comunitaria che la deculturazione pur costante è
riuscita forse a vincere, ma certo non convincere.
È la controstoria dei marginalizzati e criminalizzati del sistema di potere
accentrato che nell’isola ha preteso scrivere la Storia da vincitore, ma che i
vinti tardano ad accettare, riscrivendo la loro storia.
[Dalla IV di copertina]
M. Gabbas / Brigate negre, 80 p., EUR. 6,00
– Tranquilla Katia, questa roba è abbastanza sicura. Se non attivi il contatto
come ti spiego e non inneschi il timer, è praticamente impossibile che ti
esploda in mano.
– Sei sicuro?
– Tranquilla Katia, sono il dottore, no? Allora, ti ho spiegato tutto. Hai
capito come devi sistemare i fili e come innescare il timer?
– S-sì… mi sembra di sì.
– Tutto a posto allora. Hai domande?
– Non lo so, ho paura che qualcosa non fili liscio, che io sia nervosa.
– Stai tranquilla Katia, contiamo su di te. […]
3:59… 4:00. Il boato è assordante. L’esplosione sventra l’edificio della
questura. Pezzi di vetro e di ferro, calcinacci volano nei dintorni. Il
polverone è enorme. Sirene, allarmi suonano da tutte le parti. Quando la
polvere cala un po’, si vede un braccio del piantone sbucare dai calcinacci. Un
po’ più in là un poster pieno di polvere e strappato è finito per terra. Si può
anche leggere cosa c’è scritto: “__Il poliziotto, un amico in più“.
Cosa succede quando la rabbia esplode e i dannati della terra prendono il
destino nelle proprie mani?
[Dalla IV di copertina]
Per richieste: «anarkiviu@autistici.org». Per richieste dalle 5 copie in su,
sconto del 40%. Spese di spedizione, in tutti i casi, a carico dell’ordinante.
Ricaricare la seguente Poste Pay: n.ro 5333 1712 1672 0645 intestata a:
Cavalleri Costantino.
Riceviamo e diffondiamo:
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”,
dell’estate 2025.
Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires:
disfare@autistici.org
* 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su)
* 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards)
* 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de
3 exemplaires)
Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale
Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del
Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan
Riceviamo e diffondiamo, in pdf scaricabile, la prima versione di questo
opuscoletto “da battaglia”, realizzato in occasione delle udienze dello scorso
giugno del processo ad Anan, Alì e Mansour e che sarà via via aggiornato (anche
in vista di un’edizione a stampa):
opuscolo anan
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXVIII)
Luci da dietro la scena XXVIII – Vous travaillez pour l’armée, madame?
La corrente principale della storia (e le storie negate)
[…] ho cercato di distinguere i due significati di maternità, di solito
sovrapposti: il rapporto potenziale della donna con le sue capacità riproduttive
e con i figli; e l’istituto della maternità, che mira a garantire che tale
potenziale – e di conseguenza le donne – rimanga sotto il controllo maschile.
Tale istituto è stato la trama dei più disparati sistemi sociali e politici. E
ha impedito a più di metà del genere umano di prendere decisioni che
riguardavano la sua stessa vita; ha esonerato gli uomini dalla paternità,
svuotando di ogni autentico significato questo concetto; ha creato un pericoloso
scisma tra vita «pubblica» e «privata»; ha sclerotizzato scelte e potenzialità
umane. In quella che è la contraddizione più fondamentale e incredibile, ha
alienato la donna dal suo corpo incarcerandola in esso. In alcuni momenti
storici, e in alcune culture, l’idea della donna–come–madre ha fatto sì che la
donna venisse considerata con rispetto e persino con timore, e che avesse voce
in capitolo nella vita di una popolazione o di un clan. Ma alla luce di quanto
noi conosciamo come «corrente principale» della storia documentata, la maternità
come istituto ha limitato e degradato il potenziale femminile.
[…]
La maternità – mai nominata nelle storie di conquiste e di servitù, di guerre e
di trattati, di esplorazioni e di imperialismo – ha una sua storia, una sua
ideologia, ed è più fondamentale del tribalismo e del nazionalismo.
[…]
Mi sono convinta che la biologia femminile – la sensualità diffusa interna, di
clitoride, seno, utero, vagina; i cicli lunari delle mestruazioni; la gestazione
e la creazione di vita che può aver luogo nel corpo femminile – abbia
implicazioni molto più radicali di quanto ci si rende conto. Il pensiero
patriarcale ha limitato la biologia femminile alle sue qualità più ristrette. La
visione femminista, per questi motivi, si è sottratta alla biologia femminile;
potrà, ritengo, giungere a considerare il nostro corpo come una risorsa
piuttosto che come un destino. Per vivere una vita pienamente umana dobbiamo
avere non solo il controllo sul nostro corpo (anche se tale controllo è
fondamentale), ma dobbiamo toccare l’unità e la risonanza del nostro fisico, il
nostro legame con l’ordine naturale, il territorio corporeo della nostra
intelligenza. […] Il corpo è stato reso così problematico per le donne che
spesso è sembrato più facile scrollarselo di dosso per pensarsi come spirito
disincarnato.
Il corpo, un ribollire di ambivalenze
Il corpo della donna, con il suo potenziale per la gestazione, la procreazione e
il nutrimento della nuova vita, è stato nei secoli un campo di contraddizioni:
uno spazio investito di potere, e una profonda vulnerabilità; una figura sacra e
l’incarnazione del male; un ribollire di ambivalenze che per lo più hanno
contribuito a escludere le donne dall’atto collettivo di dare forma alla
cultura.
[…]
«Senza dubbio nelle prime età della storia umana la forza magica e il miracolo
della donna erano fonte di meraviglia quanto l’universo stesso, e questo dava
alla donna un potere prodigioso che la parte maschile della popolazione ha
cercato con tutti i mezzi di piegare, controllare e sfruttare ai suoi fini»
(Joseph Campbell, Le maschere di Dio).
Questa sua capacità riproduttiva ha avuto un’importanza fondamentale nella prima
divisione del lavoro; ma d’altra parte, come ha notato Bruno Bettelheim, in ogni
cultura i maschi hanno cercato di imitare, investirsi e condividere magicamente
i poteri fisici della femmina. Le tecniche altamente sviluppate (e altamente
sospette) della moderna ostetricia sono semplicemente un recente sviluppo di ciò
che Suzanne Arms ha definito «il graduale tentativo da parte dell’uomo di
sottrarre alla donna il processo della nascita e di appropriarselo». […] La
forza qui operante non è semplicemente il capitalismo occidentale, ma l’esigenza
di controllare i poteri riproduttivi femminili. […] Gli organi di riproduzione
femminili, la matrice della vita umana, sono diventati uno dei bersagli della
tecnologia patriarcale.
[…]
Come hanno partorito le donne, chi le ha aiutate, come e perché? Non sono
semplicemente interrogativi che riguardano la storia dell’ostetricia: sono
questioni politiche.
Dalla presenza femminile in tutto il cosmo…
La religione prepatriarcale riconosce la presenza femminile in tutto il cosmo.
La luna, che generalmente si ritiene sia stato il primo oggetto di adorazione, e
le cui fasi corrispondono ai cicli mestruali, è sempre stata associata alle
donne.
[…]
Il pensiero prepatriarcale ginecomorfizzava ogni cosa. Dall’utero-terra usciva
vegetazione e nutrimento, così come il bambino esce dal corpo della donna. Le
parole per madre e materia (la matrice di cui è composto il pianeta) sono molto
simili in diverse lingue: mater, mutter, mother, matter, moeder, modder. Il
termine «Madre Terra» viene tutt’ora usato anche se, fatto significativo, ai
nostri tempi ha acquistato un sapore antiquato, arcaico, sentimentale.
In inverno la vegetazione si ritira nell’utero-terra e con la morte anche il
corpo umano ritorna in quel grembo, in attesa della resurrezione. […]
L’oceano le cui maree, come le mestruazioni della donna, sono regolate dalla
luna, l’oceano che corrisponde al liquido amniotico in cui ha inizio la vita
umana, l’oceano che le navi possono solcare ma nelle cui profondità i marinai
trovano la morte e si nascondono mostri, questo oceano è a metà tra la terra e
la luna nella ginecomorfizzazione della natura. […]
La Grande Madre, il principio femminile, era originariamente personificato sia
nelle tenebre sia nella luce, nella profondità delle acque e nella volta
celeste. Solo con l’evoluzione di una cosmogonia patriarcale la vediamo limitata
a una presenza puramente «ctonia» o tellurica, rappresentata dalle tenebre,
l’inconscio, il sonno.
…alla donna murata in casa
Dai primi insediamenti umani fino allo svilupparsi delle fabbriche come centri
di produzione, la casa non è stata un rifugio, un luogo di riposo e di
protezione dalla crudeltà del «mondo esterno»; è stata una parte del mondo, un
centro di attività, un’unità produttiva. In essa donne e uomini, e anche i
bambini, non appena ne erano in grado, svolgevano tutta una serie di attività:
allevamento e coltivazione, preparazione e conservazione del cibo, lavorazione
di pelli, canne, argilla, tinture, grassi, erbe, produzione di tessuti e
indumenti, di bevande, sapone e candele, cure mediche, l’insegnamento di tutte
queste arti ai giovani. Di rado una donna era sola in casa a doversi occupare
unicamente del figlio o dei figli. Donne e bambini facevano parte di un nucleo
sociale molto attivo. Il lavoro era duro, complesso, spesso fisicamente gravoso,
ma era diversificato e di solito svolto in comune. La mortalità da parto e
gravidanza, e quella infantile, erano altissime, la vita media delle donne era
breve e sarebbe ingenuo romanticizzare un’esistenza continuamente minacciata da
malnutrizione, carestia e malattie. Ma la maternità e le cure della casa come
rifugio privato non erano, non potevano essere, l’occupazione fondamentale delle
donne, né madre e figlio erano isolati in un rapporto a due.
L’ideale della madre murata in casa con i figli, la specializzazione della
maternità per le donne, la separazione tra la casa e il «mondo degli uomini» fu
una creazione della rivoluzione industriale, un ideale rivestito di un potere
quasi divino, potere che da un punto di vista concettuale è tutt’oggi intoccato.
[…]
L’immagine della madre in casa, per quanto poco realistica, ha perseguitato e
colpevolizzato l’esistenza delle madri lavoratrici. Ma, per gli uomini come per
le donne, è diventata anche un pericoloso archetipo: la Madre, fonte di amore
angelico e di perdono in un mondo sempre più spietato e impersonale; l’elemento
femminile lievitante, emotivo in una società dominata dalla logica maschile e
dalla pretesa maschile di giudizio “obiettivo”, “razionale”; simbolo e residuo
di valori morali e di tenerezza in un mondo di guerre, di competizioni brutali e
di disprezzo per la debolezza umana.
Vous travaillez pour l’armée, madame?
Per generazioni abbiamo mandato i nostri figli in una qualche battaglia: non
sempre così aperta e sanguinosa come quelle di Sparta o la guerra di secessione.
Mettere al mondo figli maschi è stato il modo in cui la donna poteva lasciare la
“sua” impronta nel mondo.
[…]
Messi al mondo tre figli, mi sono ritrovata a vivere, a tutti i più profondi
livelli di passione e confusione, con tre piccoli corpi, e ben presto con tre
persone, la cui cura spesso pareva divorare la mia stessa vita, ma la cui
bellezza, humour, ed espressioni fisiche d’affetto non cessavano di stupirmi. Li
vedevo non come «figli maschi» e potenziali eredi del patriarcato, ma come
tenere creature, corpi che esploravano con delicata insistenza, purezza di
concentrazione, dolore e gioie che nei bambini esistono in forme assolute, tutte
cose che mi riportavano a parti da tempo dimenticate di me stessa. Ero una madre
irrequieta, impaziente, stanca, discontinua, lo shock della maternità mi aveva
lasciata stordita; ma sapevo di amare appassionatamente quei tre giovani esseri.
Ricordo di aver trascorso un’estate in casa di un’amica nel Vermont. Mio marito
era all’estero, e io e i miei tre figli, rispettivamente di nove, sette e cinque
anni, vivevamo praticamente da soli. Senza un maschio adulto in casa, senza
alcuna necessità di rispettare programmi, sonnellini, pasti a ore fisse, o di
mandare i bambini a letto presto per lasciare liberi i genitori, vivevamo
secondo un ritmo che mi appariva molto piacevole e vagamente colpevole. Faceva
molto caldo, il cielo era limpido, e mangiavamo quasi sempre all’aperto, senza
tante cerimonie, eravamo sempre mezzi nudi, stavamo alzati a guardare
pipistrelli, stelle e lucciole, leggevamo e ci raccontavamo storie, dormivamo
sino a tardi la mattina. Vedevo i loro snelli corpi di ragazzini che si
abbronzavano, ci lavavamo all’aperto, con l’acqua della pompa, vivevamo come
naufraghi su un’isola di madri e figli. La sera ci addormentavamo esausti e io
restavo alzata a leggere e a scrivere fino alle ore piccole, come quand’ero
all’università. Ricordo che pensavo: ecco come potrebbe essere la vita con i
bambini, senza orari di scuola, routine fisse, sonnellini obbligati, e il
conflitto di essere madre e moglie senza uno spazio per essere semplicemente me
stessa. Una sera tornando a casa dopo la mezzanotte, da un drive-in, con tre
bambini addormentati sul sedile posteriore, mi sentii perfettamente sveglia,
euforica: avevamo infranto insieme ogni regola, regole che io stessa avevo
ritenuto di dover osservare in città se non volevo essere una «cattiva madre».
Eravamo complici di una congiura, fuorilegge rispetto all’istituzione della
maternità; mi sentivo meravigliosamente padrona della mia vita. Naturalmente
l’istituzione ci ripiombò addosso, e mi tornarono i dubbi su me stessa come
«buona madre» insieme al risentimento per l’archetipo. Ma anche allora sapevo
che non volevo che i miei figli agissero per me nel mondo, così come non volevo
che uccidessero e morissero per il loro paese. Volevo agire, vivere per me
stessa e amarli come esseri a sé stanti.
[…]
Se dovessi esprimere un desiderio per i miei figli, augurerei loro di avere il
coraggio delle donne. Mi riferisco a qualcosa di molto concreto e preciso: il
coraggio che ho visto in donne che, nella vita privata e pubblica, nel mondo
interiore del sogno, del pensiero e della creatività, e in quello esterno del
patriarcato, corrono rischi sempre maggiori, psicologici e fisici, nell’evolvere
una nuova visione. A volte ciò comporta piccoli atti di immenso coraggio; altre
volte azioni pubbliche che possono costare a una donna il posto di lavoro o la
vita; spesso comporta momenti, o lunghi periodi, in cui si è costrette a pensare
l’impensabile, ci si sente chiamate pazze, o ci si sente tali; e sempre una
perdita delle sicurezze tradizionali. Ogni donna che decide di assumere il
controllo della sua vita lo fa sapendo che dovrà affrontare enormi lacerazioni,
inflitte sia dall’interno sia dall’esterno. Vorrei che i miei figli non si
ritraessero di fronte a questo genere di lacerazioni, che non si accontentassero
delle vecchie difese maschili, inclusa quella di un fantastico odio per se
stessi. E vorrei che lo facessero non per me, o per altre donne, ma per loro
stessi e per la vita sul pianeta Terra.
[…]
Vous travaillez pour l’armée, madame? Nulla garantisce, né col socialismo né col
capitalismo «liberale», col protestantesimo, con l’«umanesimo», né con alcune
delle etiche esistenti, che una politica progressista non si trasformerà in
oppressione sino a che le donne non avranno assoluto controllo sull’uso dei loro
corpi. Abbiamo visto programmi per la conservazione dei territori cedere al
disboscamento, agli oleodotti, alla violazione della natura. Abbiamo anche visto
leggi e opinioni circa il controllo delle nascite e l’aborto modificarsi nel
corso della storia, secondo le esigenze militari, di mercato, o climi culturali
di puritanesimo o di «liberazioni sessuali» controllati dal patriarcato.
[…]
Quale donna, nella cella d’isolamento di una vita in casa, con bambini piccoli,
o nella lotta per far loro da madre pur dovendo provvedere da sola al loro
mantenimento, o nel conflitto tra la sua personalità e il dogma per il quale è
per prima, per ultima cosa, e sempre madre, quale donna non ha sognato di
lasciarsi andare, di rinunciare a ciò che viene definito il suo equilibrio,
perché ci sia qualcuno che si occupi di lei, una volta tanto, o semplicemente
per trovare il modo di occuparsi di se stessa? Le madri: vanno a prendere i
bambini a scuola; siedono alle assemblee dei genitori; tranquillizzano bambini
irritati piazzati nei carrelli dei supermercati; si trascinano a casa per per
preparare la cena, fare il bucato, e occuparsi dei bambini dopo una giornata di
lavoro; si battono per ottenere un’assistenza e una scuola accettabili per i
loro figli; aspettano gli assegni dell’ex marito per il mantenimento dei figli
mentre il padrone di casa minaccia lo sfratto; restano nuovamente incinte perché
la loro evasione nel piacere e nell’abbandono è il rapporto sessuale; si
straziano con ferri da calza; si svegliano al pianto di un bambino dai loro
sogni eternamente incompiuti… le madri, se potessimo leggere nelle loro
fantasie, nei loro sogni ad occhi aperti, nelle esperienze immaginarie, potremmo
scorgere le raffigurazioni della rabbia, della tragedia, del sovraccarico di
energia d’amore, di disperazione creativa, vedremmo tutto l’apparato della
violenza istituzionalizzata distorcere l’esperienza della maternità.
Ciò che lascia stupiti, ciò che può darci grande speranza, fiducia per un futuro
in cui le vite di donne e bambini verranno risanate da mani femminili, è tutto
ciò che siamo riuscite a salvare, di noi, per i nostri figli, persino nel clima
distruttivo dell’istituzione: la tenerezza, la passione, la fiducia nei nostri
istinti, l’emergere di un coraggio che non sapevamo di possedere, la cura
costante di un’altra vita umana, la piena consapevolezza del costo e della
precarietà della vita. La battaglia della madre per il figlio, contro la
malattia, la povertà, la guerra, deve diventare una battaglia comune
dell’umanità, condotta nell’amore e nella passione per la sopravvivenza. Ma
perché ciò avvenga l’istituto della maternità deve essere annullato.
I mutamenti necessari per arrivare a questo echeggiano in ogni recesso del
sistema patriarcale. Distruggere l’istituto non significa abolire la maternità.
Significa portare la creazione e il mantenimento della vita sullo stesso piano
di decisione, lotta, sorpresa, immaginazione e razionalità di qualsiasi altro
compito arduo ma liberamente scelto.
(brani tratti da Adrienne Rich, Nato di donna [1976], Garzanti, Milano, 1977)
Riceviamo e diffondiamo (con un po’ di ritardo…) questi materiali dalla “due
giorni” Fuorilegge, svoltasi a Pisa il 23 e 24 maggio scorsi:
[it] FUORILEGGE: Contributi dalle carceri, materiali vari e un racconto su una
due giorni di discussione tra fuori e dentro il carcere
(Da questa iniziativa è nato il sito http://presospolitico.noblogs.org dove sono
raccolte le lettere, quelle con permesso di pubblicazione, arrivate dalle
carceri e le trascrizioni degli interventi, in aggiornamento)
Lo scorso 23 e 24 maggio, presso alcuni spazi occupati per l’occasione
all’interno dell’Università di Pisa, si è tenuta “fuorilegge”: un’iniziativa di
racconto e confronto sulle lotte all’interno delle carceri in varie parti del
mondo, con alcune delle esperienze di lotta contro il carcere tra le più
importanti tra quelle portate avanti all’interno del mondo anarchico per il
ritorno in strada di quelle identità irriducibili, rivoluzionarie,
insurrezionali e fuorilegge.
L’iniziativa ha visto nella prima giornata una discussione a partire dalla
traduzione italiana di Kamina Libre1 – giunta alla sua seconda ristampa
aggiornata con alcuni contributi sull’importanza della memoria viva – come
contributo alla campagna di solidarietà per la libertà di Marcelo Villarroel e
l’annullamento delle condanne della giustizia militare di Pinochet a suo carico.
La presenza di un compagno cileno e alcuni video arrivati dal Cile, ci hanno
dato modo di analizzare la storia e il lascito, nel movimento anarchico cileno e
non solo, delle esperienze di Kamina Libre. Questo collettivo era caratterizzato
da un agire intransigente nel CAS (carcere di alta sicurezza), dalla necessità
di uscire dalle regole e rompere l’annichilimento a qualsiasi costo tramite uno
scontro permanente sia all’interno che all’esterno del carcere. Questa
connessione, tra il dentro e fuori, è imprescindibile per poter rendere una
lotta dentro, non una mera discussione giuridica o tanto meno un esercizio di
radicalismo, ma una lotta con l’obiettivo del ritorno in strada dei compagni,
non per un ideale astratto di libertà, ma per poter continuare a lottare in una
prospettiva insurrezionale e distruggere la società di cui il carcere è lo
specchio. Con questo compagno abbiamo anche potuto dibattere su ciò che è stato
il movimento dei prigionieri politici della rivolta del 2019 in Cile, e di come
la “memoria negra”, se mantenuta viva, tenga i compagni e le compagne che non
sono più al nostro fianco, perché in prigione o morti in azioni, vivi e
quotidianamente presenti nelle lotte e nelle strade, cercando di non rendere
queste figure martiri o eroi. A questa discussione hanno contribuito anche delle
lettere inviateci dalle carceri. Alcune lette all’interno dell’iniziativa, come
quelle di Marcelo Villarroel2, Francisco Solar3 e Juan Sorroche4, ed altre non
arrivate in tempo, che si possono trovare nella sezione della pagina5. Questi
prigionieri anarchici, dalla conoscenza e lettura di Kamina Libre, hanno
condiviso le loro riflessioni e domande su come oggi si possa lottare da dentro
e da fuori e non relegare la lotta anticarceraria all’ambito tecnico, giuridico,
assistenzialista o vittimistico, nonostante le condizioni interne siano oggi
differenti, anche per la popolazione carceraria. A questo dibattito è
intervenuto – per quanto tramite malevoli mezzi tecnologici – il compagno
anarchico Gabriel Pombo da Silva6 che da poco è nuovamente in libertà, dopo aver
passato oltre 20 anni tra le carceri di Spagna e Germania, sempre combattendo
dentro al carcere con dignità e senza vendersi al nemico, e che decise, insieme
alla compagna anarchica Elisa, di annunciare il loro passaggio alla
clandestinità così: «Siamo un clan nomade che va di paese in paese alla ricerca
di complici che praticano l’anarchismo… che disturba i servitori dello Stato…
abbiamo deciso di vivere nell’ombra.»
Non è stata una ricostruzione di una realtà a sé stante, perché «il ricordo è
sventura se visto come coerenza senza pietà». È stata una discussione senza un
punto di arrivo predeterminato, un confronto che prendeva spunto dalle
esperienze, dalle sollecitazioni e dai racconti. Domandarci oggi come lottare
tra dentro e fuori le mura delle prigioni nasce dalla convinzione che il carcere
è parte integrante e fondamentale dei meccanismi di oppressione e sfruttamento.
L’esperienza della carcerazione in questa società può diventare un’esperienza
comune per ogni individuo, una dimensione altamente probabile all’interno di una
vita dalla cui miseria non vi è alcuna via di uscita se non tentando la via
dell’illegalità, rischiando quindi di passare per ««l’imprevisto della
prigione»: questa sofferenza senza assoluzioni può portare tanto
all’autodistruzione quanto alla strada della rivolta per chi non ha da perdere
altro che le proprie catene. Per questo affilare le armi è nostro compito!
Durante questa due giorni è stato anche letto e distribuito un contributo
arrivato da un compagno, Paolo7, rinchiuso ad Uta e in sciopero della fame
contro le condizioni detentive a cui sono sottoposti quotidianamente tutti i
prigionieri di quel carcere, che raccontava la sua storia di fuorilegge, come
negli anni ha visto cambiare la popolazione carceraria e dei tentativi di
costruire una lotta da dentro.
Il giorno successivo, attraverso lo spunto che veniva dai racconti delle fughe
più spettacolari raccolte e riedite in “Adiós prisión”è stato invece un momento
per poter ascoltare le parole della compagna Pola Roupa, appartenente
all’organizzazione Lotta Rivoluzionaria (Επαναστατικός Αγώνας ) attiva in Grecia
dal 2003 al 2017, che ha avuto la pazienza e la disponibilità nel narrare la sua
esperienza. Partendo dal periodo di attività di questo gruppo, ha raccontato
qual è per lei il significato e il motivo della latitanza e le problematiche che
ha incontrato durante il tentativo di far evadere, sequestrando un elicottero,
il compagno Nikos Maziotis e altri prigionieri. Il racconto, emotivamente
coinvolgente, ha anche evidenziato come alcune azioni, anche quelle per la
liberazione totale, si scontrano con dei grandissimi limiti se non vi è una
concreta solidarietà esterna. Un contributo scritto è arrivato anche dal carcere
di massima sicurezza di Domokos da Nikos Maziotis8, che ha evidenziato il
rapporto tra solidarietà, guerriglia e lotta insurrezionale tra i rivoluzionari
e il movimento anarchico/antiautoritario dal 2010 ad oggi.
Questa discussione ha avuto anche la partecipazione (sempre tramite gli odiosi
mezzi tecnologici) di un compagno anarchico9, che da oltre un ventennio è parte
di quelle lotte contro il carcere e la società che ne ha bisogno, proveniente
dal territorio occupato dallo Stato del Messico.
Con lui si è potuto avere un racconto diretto e approfondito di come, dopo tanti
anni, i compagni si sono organizzati in un’assemblea che sostenesse apertamente
i prigionieri che hanno scelto la via della fuga e della clandestinità, parlando
del caso di Miguel Peralta10, un anarchico indigeno latitante, e di come hanno
riflettuto e scelto – per la prima volta dopo aver avuto per anni situazioni in
cui l’appoggio al compagno o compagna in fuga si limitava a un quadro di
silenzio complice e di aiuto fattuale – di sostenere e lanciare delle iniziative
per parlare e diffondere apertamente le idee, le parole di questo compagno e le
ragioni della sua lotta e della sua fuga. Ha posto poi l’attenzione su come
superare il rimosso, il tabù del non parlare per non essere inseriti in quelle
famose liste e inchieste di sospetti solidali che diventano immediatamente
complici dei fuggitivi, ma comunque ponendo attenzione alla sicurezza del
compagno/a latitante.
Ha infine fatto un breve racconto delle esperienze di lotte vissute dentro le
carceri nell’ultimo decennio a Città del Messico, dell’utilizzo da parte dello
Stato di accuse di connivenza tra il mondo anarchico e quello dei narcos come
nel caso di Jorge Ezquivel, prigioniero anarchico detenuto del carcere di Città
del Messico. Questo caso si intreccia con le esperienze di lotta contro il
carcere della scorsa decade, quando azioni, sabotaggi contro i simboli del
dominio, e contro l’aumento del biglietto dei trasporti, durante il “decembre
negro” che in Messico è stato una chiara espressione di solidarietà
insurrezionale internazionalista anche con i prigionieri rivoluzionari greci
Nikos Romanos e Yannis Michailidis in sciopero della fame nelle carceri greche
in quel periodo. Alberi di Natale, metro e stazioni dei bus sono andate a fuoco:
queste sono solo alcune tra le molte iniziative che hanno avuto luogo in quegli
anni di fermento insurrezionale, che ha visto anche lo svolgersi, dentro al più
grande auditorium occupato, del primo congresso internazionale anarchico
insurrezionale con la partecipazione tra gli altri (via Skype perché non gli
venne concesso l’ingresso nel paese) anche del compagno Alfredo M. Bonanno.
Questo decennio di lotte all’interno delle carceri, dati i numerosi arresti tra
compagne e compagni anarchici e non solo, come Fernando Barcenas, Fernando
Sotelo, Abram Cortez, Amelie e Fallon ha avuto il tratto distintivo del rifiuto
di aderire alle buone condotte e alla servitù volontaria imposta
dall’amministrazione carceraria. Ci sono state varie esperienze di
autorganizzazione: da laboratori di scrittura anarchica fino alla realizzazione
di un periodico, “Cañero”11. Questo giornale, che veniva prodotto e distribuito
sia all’interno dei vari istituti penitenziari che fuori, e raccontava le
condizioni e le lotte carcerarie, oltre ad essere uno strumento di unione tra i
prigionieri per rompere la dispersione che li vedeva divisi in vari
penitenziari, fu anche utile per sviluppare ed esprimere la loro posizione
contro l’amnistia. In quegli anni sono state portate avanti anche numerose
lotte, come ad esempio uno sciopero della fame per la liberazione totale e
contro il carcere, lanciato con le seguenti parole:
«nella nostra concezione, [il carcere] è costituito dalla società nel suo
complesso, mentre le prigioni fisiche sono solo un’espressione concreta
dell’isolamento sociale che sostiene e legittima il potere ed è per questo che
non ci rivolgiamo ai media, né alle classi dirigenti, ma ci rivolgiamo e
parliamo ai nostri compagni dell’immensa prigione chiamata terra che, come noi,
sono anch’essi figli della guerra per il solo fatto di essere nati diseredati.»
Da questo progetto di traduzione12 di Kamina Libre, abbiamo preso la decisione
di realizzare questa due giorni di incontri anche per poter contribuire a
discutere, trovare spunti e domandarsi come poter portare avanti, da fuori, un
supporto e una solidarietà attiva alle lotte dei prigionieri, un riconoscersi
nelle lotte, nelle insurrezioni, nella rivolta, e nella solidarietà
internazionalista. L’ascolto e il confronto con compagni e compagne che hanno
negli anni lottato, e che lottano, contro il carcere, è fondamentale, nonostante
il tempo mai sufficiente, per riflettere su alcune possibilità ed esperienze.
Questa due giorni di discussione nasce per oltrepassare i limiti riscontrati nel
sostenere le rivolte che avvengono all’interno, come ad esempio abbiamo visto
nel 2020 durante l’emergenza Covid, così come in questi ultimi anni, durante i
quali ci sono state altre rivolte nelle carceri in varie parti d’Italia, che
però non sono riuscite a dilagare e dialogare con il fuori, e dalla necessità di
rispondere all’ attacco degli Stati contro le lotte portate avanti sia dentro
che fuori le carceri, dall’Italia con l’ex DDL 1660, al Cile, alla Grecia e alla
Francia. Questo tipo di attacco, che passa dalle riforme del sistema
penitenziario tra le altre cose, a nostro modo di vedere, ha un carattere
preventivo in un orizzonte di guerra e conflitto sociale che ribolle sempre più
sotto la superficie, in continuità diretta con l’applicazione del 41bis ad
Alfredo. Pensiamo infatti che l’attacco ad Alfredo Cospito sia stato un monito
da parte dello Stato nei confronti di chi persevera nel sostenere le idee e le
pratiche rivoluzionarie, quello Stato che deve cancellare tanto la possibilità
quanto la memoria della lotta armata in questo paese, di cui l’azione contro
Adinolfi di Ansaldo Nucleare, rivendicata da Alfredo in tribunale a Genova, è
una delle più recenti testimonianze. Ma soprattutto, ci siamo domandati cosa
vuol dire continuare a sostenere una battaglia del primo compagno anarchico
seppellito nel sottosuolo del carcere di Bancali in 41 bis e contro l’espansione
del modello di questo regime in varie parti del mondo, dal Cile alla Francia,
con lo Stato italiano sempre più esportatore di regimi di isolamento.
Nella seconda giornata sono state ripercorse le motivazioni della lotta e la
mobilitazione in solidarietà ad Alfredo Cospito. La discussione è stata
introdotta su dei punti critici e di domanda contenuti nel testo13 Dal centro
alla periferia, che hanno permesso di riflettere anche sugli elementi di
riuscita della mobilitazione che, seppur sotto mille difficoltà e in una
situazione “ai minimi termini del movimento anarchico”, è riuscita a portare
fuori le ragioni, le parole e l’identità di Alfredo Cospito, che ha sostenuto
uno sciopero della fame durato per ben 181 giorni. Una mobilitazione che ha
avuto carattere internazionale di solidarietà e di azione diretta, durata oltre
dieci mesi e iniziata molti mesi prima dello sciopero di Alfredo, per cercare di
infrangere la coltre di silenzio dove avrebbero voluto relegarlo.
Questa mobilitazione vede ora la vendetta dello Stato contro chi si è mobilitato
in quei mesi, come con la richiesta di condanne per oltre 6 anni per resistenza
aggravata, travisamento, lancio di oggetti e concorso morale in danneggiamento
per un corteo a Milano, l’11 febbraio del 202314 contestualmente a quando
Alfredo era stato trasportato in ospedale. Il concorso morale, elemento che
sarebbe da approfondire, è anche uno degli elementi centrali dell’operazione
City con 19 richieste di condanne per devastazione e saccheggio in riferimento
al corteo del 4 marzo 2023 a Torino. A questa discussione ha portato il suo
contributo e saluto Lello Valitutti, che da oltre un anno si trova agli arresti
domiciliari per questo corteo e per il processo del Brennero. Lello ha oggi una
situazione medica complessa, e questo, ci ha detto, gli rende impossibile poter
presenziare e poter esercitare pienamente il suo diritto di difesa al processo
dell’operazione City del prossimo luglio che lo vede imputato insieme agli altri
compagni e compagne accusati appunto di concorso morale in devastazione e
saccheggio. Si trova quindi a dover chiedere la sospensione del processo per
motivi di salute.
Concludiamo con alcune considerazioni uscite da questa discussione:
Siamo ad un anno da quando lo Stato e la DNAA con quasi certa probabilità
proporranno di mantenere Alfredo Cospito in 41bis, e magari mandarci anche degli
altri prigionieri anarchici. Questo nonostante siano cadute le accuse del
processo dove lo Stato ha provato a colpire l’agitazione e la propaganda
anarchica verso i compagni e le compagne del quindicinale Bezmotivny, nel quale
l’accusa ha provato a delineare la figura di Alfredo, nel procedimento Scripta
Scelera, come figura apicale nell’ambito di un certo segmento del movimento
anarchico. Dipingendo una istigazione a delinquere con lui come “orientatore”,
anche dopo l’assoluzione piena per il processo Sibilla, dove lo si accusava
direttamente di essere un “istigatore” in un ambito, quello del movimento
anarchico, che ha nell’autonomia di pensiero e azione il suo fulcro. Assieme al
processo Scripta Manent l’operazione Sibilla è stata determinante nel
trasferimento in 41bis di Alfredo Cospito. Con la mobilitazione partita dalla
lotta di Alfredo si è aperto un dibattito, si sono create delle crepe sul 41
bis, sull’ergastolo ostativo e sul carcere duro, apice del sistema repressivo,
che è talmente risuonato, che a volte, di fronte ad alcune carceri dove esistono
le sezioni di 41bis, i detenuti dall’interno erano i primi a lanciare il coro
“fuori Alfredo dal 41bis”. La lotta non ha avuto una dinamica essenzialmente
antirepressiva, néintrapresa unicamente dagli avvocati, ma ha rilanciato
l’iniziativa del movimento anarchico e rivoluzionario più in generale per
contrastare l’offensiva del capitale e dello Stato, questo nonostante viviamo in
tempi di elogio del disimpegno, di smobilitazione permanente, di rassegnazione
imperante.
La lotta di Alfredo ha permesso di portare avanti un dibattito sul 41bis e sulla
repressione in Italia, ha soprattutto messo in contraddizione tanto lo Stato con
le sue emanazioni (si veda il cambio del parere della DNAA sul mantenerlo in
41bis che si è scontrato con Nordio), così come anche la mobilitazione esterna
ha creato problemi all’apparato repressivo, con la forza di portare le parole e
la lotta di Alfredo in ogni angolo possibile e con le più differenti iniziative,
riprendendo in modo conflittuale la presenza nelle strade, nelle piazze, fuori
dalle carceri. Dire “fuori Alfredo dal 41 bis” ha imposto nel dibattito la
figura di Alfredo, della sua storia, in un’ottica di incompatibilità con ogni
compromesso o soluzione politica di sorta nonostante delle componenti para
istituzionali della sinistra abbiano tentato di insinuarsi all’ interno della
mobilitazione.
Oggi l’importante è poter discutere di come, oltre alla vita di Alfredo, siano
stati messi in gioco anche il senso e la prospettiva della solidarietà, un
principio da anni sotto costante attacco da parte delle procure antiterrorismo
di tutta Italia e non solo. Dalla fine dello sciopero della fame, e ora che la
mobilitazione si è praticamente fermata, lo Stato cerca di prendersi una
rivincita su questo compagno, come dimostrano anche i recenti aggiornamenti
sulla sua prigionia, ovvero il ritorno del graduato del GOM, precedentemente
allontanato per il suo coinvolgimento nello “scandalo intercettazioni”, alla
direzione della sezione 41bis del carcere di Bancali, che ha portato con sé un
ulteriore inasprimento delle condizioni già dure in questo regime per Alfredo.
Oggi è necessario riflettere su un dato di realtà: questa mobilitazione per
quanto insufficiente a tirare fuori Alfredo dal 41bis, alla chiusura di questo
regime detentivo e anche alla liberazione di Alfredo e di tutti i prigionieri e
le prigioniere, ha certamente alimentato delle scintille non proprio ordinarie,
da cui sarebbe auspicabile trarre insegnamento e stimolo per la realizzazione di
una progettualità che vada oltre l’emergenzialità del momento. A questo
proposito, riflettendo su come non fossilizzarsi su una lotta anticarceraria,
l’applicazione del 41bis ad Alfredo sarebbe da mettere in una relazione più
esplicita con le politiche di guerra dello Stato italiano. Sempre su come
proseguire la lotta in solidarietà ad Alfredo e al sostegno alle pratiche da lui
portate avanti è stata anche rimarcata l’importanza di portare il caso di
Alfredo nelle lotte contro il nucleare. Come proseguire adesso data la realtà
della situazione di oggi è una delle domande per cui abbiamo pensato valesse la
pena incontrarsi e riflettere. Mentre gli Stati si attrezzano per la guerra e i
profitti sugli armamenti crescono a dismisura, mentre prosegue il genocidio in
Palestina, e con l’approvazione di una nuova legge sulla sicurezza che attacca
gli oppressi, questi signori si affrettano nuovamente a processare gli
anarchici, un nemico interno da debellare perché da sempre in opposizione al
capitalismo, allo Stato e alle sue politiche di guerra.
Sabotare il fronte interno significa quindi anche rilanciare la solidarietà ad
Alfredo, a tutte e tutti i prigionieri e le prigioniere.
1
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/05/e-uscito-la-prima-edizione-italiana-di-alcuni-scritto-su-kamina-libre-identita-irriducibili-di-una-lotta-anticarceraria/
2
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/03/marcelo-villarroel-su-iniziativa-fuorilegge-due-giorni-di-discussione-contro-la-galera-tra-dentro-e-fuori/
3
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/fransisco-solar-prigioniero-sovversivo-anarchico-detenuto-nelle-prigioni-del-territorio-occupato-cileno-carcere-azienda-la-gozalina-rongagua/
4
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/juan-sorroche-prigioniero-anarchico-italia-as2-terni/
5
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/contributi-dal-carcere-senza-frontiere-alledizione-italiana-di-kamina-libre/
6
https://www.rivoluzioneanarchica.it/notizie-prigionieri-anarchici-elisa-di-bernardo-stiamo-vincendo-delle-battaglie-per-la-liberta-di-gabriel-pombo-da-silva/
7
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/paolo-todde-compagno-prigioniero-ad-utaca-contributo-percorsi-di-lotta/
8
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/nikos-maziotis-prigioniero-anarchico-condannato-per-le-azione-di-lotta-rivoluzionaria/
9
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/messico-da-citta-del-messico-un-contributo-sulle-lotte-esperienze-di-complicita-tra-fuori-e-dentro/
10
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/da-qualche-luogo-sulla-terra-aggiornamenti-e-scritti-dalla-latitanza/
11
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/el-canero-1-stampa-carceraria-dal-messico/
12
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/presentazione-progetto-di-traduzione/
13 https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/dal-centro-alla-periferia/
14 Il testo è stato composto e inviato prima della sentenza di primo grado, in
cui sono state inflitte condanne di pesantezza quasi inaudita. Si veda qua:
https://ilrovescio.info/2025/06/24/milano-solidarieta-ai-condannati-in-primo-grado-per-il-corteo-dell11-febbraio-2023-a-fianco-di-alfredo/
[nota redazionale del sito ilrovescio.info]
PDF: fuorilegge
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[en] FUORILEGGE: Contributions from prisons, various materials and a story about
two days of discussion between those inside and outside prison
(This initiative led to the website http://presospolitico.noblogs.org where
letters, with permission for publication, received from prisons and transcripts
of speeches are collected, and are being updated)
Last May 23 and 24, an initiative “out of law” of storytelling and discussion on
struggles within prisons in various parts of the world was held in spaces
occupied for the occasion at the University of Pisa, featuring some of the most
important anti-prison struggle experiences carried out within the anarchist
world for the return to the streets of those irreducible, revolutionary,
insurrectionary, and outlaw identities.
The first day of the initiative saw a discussion based on the Italian
translation of Kamina Libre1– now in its second updated reprint with
contributions on the importance of living memory – as a contribution to the
solidarity campaign for Marcelo Villarroel’s freedom and the annulment of
Pinochet’s military justice convictions against him.
The presence of a chilean comrade and some videos from Chile allowed us to
analyze the history and legacy of Kamina Libre’s experiences within the chilean
anarchist movement and beyond. This collective was characterized by intransigent
action in the CAS (high-security prison), by the need to break free from rules
and overcome annihilation at all costs through permanent confrontation both
inside and outside the prison. This connection, between inside and outside, is
inseparable to make a struggle inside not merely a legal discussion or an
exercise in radicalism, but a struggle with the goal of comrades returning to
the streets, not for an abstract ideal of freedom, but to continue fighting in
an insurrectionary perspective and destroy the society of which the prison is a
mirror.
With this comrade, we were also able to discuss what the political prisoner
movement of the 2019 revolt in Chile has been, and how “black memory,” if kept
alive, keeps comrades who are no longer with us – because they are in prison or
died in actions – alive and daily present in struggles and on the streets,
trying not to turn these figures into martyrs or heroes.
Letters sent to us from prisons also contributed to this discussion. Some were
read during the initiative, such as those from Marcelo Villarroel2, Francisco
Solar3and Juan Sorroche4, and others that did not arrive in time can be found in
the section of the page . These anarchist prisoners, through their knowledge and
reading of Kamina Libre, shared their reflections and questions on how to fight
from inside and outside today and not relegate the anti-prison struggle to the
technical, legal, assistance-oriented, or victimistic spheres, despite the
current different internal conditions, also for the prison population.
The anarchist comrade Gabriel Pombo da Silva5also participated in this debate –
although forced by malicious technological means – who has recently regained his
freedom after spending over 20 years in prisons in Spain and Germany, always
fighting inside prison with dignity and without selling out to the enemy, and
who decided, along with his anarchist companion Elisa, to announce their going
underground as follows: “We are a nomadic clan that goes from country to country
looking for accomplices who practice anarchism… that disturbs the servants of
the State… we have decided to live in the shadows.”
It was not a reconstruction of a self-contained reality, because “memory is
misfortune if seen as coherence without pity.” It was a discussion without a
predetermined endpoint, a confrontation that drew inspiration from experiences,
provocations, and stories. Asking ourselves today how to fight inside and
outside prison walls stems from the conviction that prison is an integral and
fundamental part of the mechanisms of oppression and exploitation. The
experience of incarceration in this society can become a common experience for
every individual, a highly probable dimension within a life from whose misery
there is no way out except by attempting the path of illegality, thus risking to
go through “the unforeseen of prison”: this suffering without absolution can
lead both to self-destruction and to the path of revolt for those who have
nothing to lose but their chains. This is why sharpening our weapons is our
task!
During these two days, a contribution from a comrade, Paolo6, imprisoned in Uta
and on hunger strike against the detention conditions to which all prisoners in
that prison are subjected daily, was also read and distributed, recounting his
story as an outlaw, how he has seen the prison population change over the years
and attempts to build a struggle from within.
The following day, drawing inspiration from the stories of the most spectacular
escapes collected and re-edited in Adiós prisión, was a moment to hear the words
of comrade Pola Roupa, belonging to the Revolutionary Struggle organization
active in Greece, who patiently and willingly narrated her experience. Starting
from the period of activity of this group, she recounted what for her is the
meaning and reason for being a fugitive and the problems she encountered during
the attempt to help comrade Nikos Maziotis and other prisoners escape by
hijacking a helicopter. The emotionally engaging account also highlighted how
some actions, even those for total liberation, encounter great limitations if
there is no concrete external solidarity.
A written contribution also arrived from the maximum-security prison of Domokos
from Nikos Maziotis7, who highlighted the relationship between solidarity,
guerrilla warfare, and insurrectionary struggle among revolutionaries and the
anarchist/anti-authoritarian movement from 2010 to today.
This discussion also saw the participation (again through hateful technological
means) of an anarchist comrade8, who for over twenty years has been part of
those struggles against prison and the society that needs it, coming from the
territory occupied by the State of Mexico. With him, we were able to have a
direct and in-depth account of how, after many years, comrades organized
themselves into an assembly that openly supported prisoners who chose the path
of escape and clandestinity, talking about the case of Miguel Peralta9, an
indigenous anarchist fugitive, and how they reflected and chose – for the first
time after years of situations where support for a comrade on the run was
limited to maintaining a framework of complicit silence and factual help – to
openly support and launch initiatives to talk about and disseminate the ideas,
the words of this comrade and the reasons for his struggle and his escape. He
then focused on how to overcome the suppressed, the taboo of not speaking to
avoid being included in those famous lists and investigations of suspected
sympathizers who immediately become accomplices of fugitives, while still paying
attention to the safety of the fugitive comrade.
Finally, he briefly recounted the experiences of struggles lived inside prisons
in the last decade in Mexico City, and the State’s use of accusations of
connivance between the anarchist world and narcos, as in the case of Jorge
Ezquivel, an anarchist prisoner detained in Mexico City prison. This case
intertwines with the anti-prison struggle experiences of the last decade, when
actions and sabotages against symbols of domination and against the increase in
transport fares, during “black December” in Mexico, were a clear expression of
internationalist insurrectionary solidarity also with the Greek revolutionary
prisoners Nikos Romanos and Yannis Michalaidis on hunger strike in Greek prisons
at that time. Christmas trees, metro and bus stations went up in flames: these
are just some of the many initiatives that took place in those years of
insurrectionary ferment, which also saw the first international anarchist
insurrectionary congress held in the largest occupied auditorium, with the
participation, among others (via Skype because he was not granted entry into the
country), of comrade Alfredo Maria Bonanno.
This decade of struggles within prisons, given the numerous arrested comrades,
such as Fernando Barcenas, Fernando Sotelo, Abram Cortez, Amelie, Fallon, Mario
and others has been characterized by the refusal to adhere to good conduct and
voluntary servitude imposed by the prison administration. There have been
various experiences of self-organization: from anarchist writing workshops to
the creation of a periodical Canero
(https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/el-canero-1-stampa-carceraria-dal-messico/).
This newspaper was produced and distributed both inside and outside various
penitentiary institutions, recounting prison conditions and struggles, and
serving as a tool for unity among prisoners to break the dispersion that saw
them divided into various penitentiaries; it was also useful for developing and
expressing their position against amnesty. In those years, numerous struggles
were also carried out, such as a hunger strike for total liberation and against
prison, launched with the following words:
“in our conception, it is constituted by society as a whole, while physical
prisons are only a concrete expression of the social isolation that supports and
legitimizes power, and that is why we do not address the media, nor the ruling
classes, but we address and speak to our comrades in the immense prison called
earth who, like us, are also children of war for the sole fact of being born
disinherited.”
From this translation project of Kamina Libre10, we made the decision to hold
these two days of meetings and discussions also to contribute to discussing,
finding ideas, and asking how to carry out, from outside, active support and
solidarity for prisoners’ struggles, a recognition in struggles, insurrections,
revolt, and internationalist solidarity. Listening and confronting with comrades
who have fought, and are fighting, against prison over the years is fundamental,
despite the never-sufficient time, to reflect on some possibilities and
experiences.
These two days of discussion arose to overcome the limits encountered in
supporting the revolts that occur inside, as we saw in 2020 during the COVID
emergency, as well as in recent years during which there have been other revolts
in prisons in various parts of Italy, which, however, failed to spread and
communicate with the outside, and from the need to respond to the attack by
States against struggles carried out both inside and outside prisons, from Italy
with the former ex DDL 1660, to Chile, Greece, and France. This type of attack,
which includes reforms of the penitentiary system, in our view, has a preventive
character in a horizon of war and social conflict that is increasingly simmering
beneath the surface, in direct continuity with the application of 41bis to
Alfredo. Indeed, we believe that the attack on Alfredo was a warning from the
State against those who persevere in supporting revolutionary ideas and
practices, that State that must erase both the possibility and the memory of
armed struggle in this country, of which the action against Adinolfi of Ansaldo
Nucleare, claimed by Alfredo in court in Genoa, is one of the most recent
testimonies. But above all, we asked ourselves what it means to continue
supporting a battle of the first anarchist comrade buried in the underground of
Bancali prison under 41 bis and the expansion of this regime’s model in various
parts of the world, from Chile to France, with the Italian State increasingly
exporting isolation regimes.
On the second day, the reasons for the struggle and the mobilization in
solidarity with Alfredo Cospito were re-examined. The discussion was introduced
with critical points and questions contained in this text11 “dal centro alla
periferia” which allowed for reflection on the successful elements of the
mobilization which, despite a thousand difficulties and in a situation “at the
bare minimum of the anarchist movement,” managed to bring out the reasons,
words, and identity of Alfredo Cospito, who sustained a hunger strike lasting a
full 181 days. A mobilization that had an international character of solidarity
and direct action, lasting over ten months and starting many months before
Alfredo’s strike, to try to break the veil of silence where they wanted to
relegate him.
This mobilization is now seeing the State’s revenge against those who mobilized
in those months, as with the request for sentences of over 6 years for
aggravated resistance, disguise, throwing objects, and moral complicity in
damage for a procession in Milan on February 11, 2023, concurrently with
Alfredo’s hospitalization. Moral complicity, an element that should be further
explored, is also one of the central elements of Operation City with 19
convictions for devastation and looting in reference to the March 4 2023
procession in Turin.
Lello Valitutti, who has been under house arrest for over a year for this march
and for the Brenner trial, contributed to this discussion and sent his regards.
Lello is currently in a complex medical situation, which, he told us, makes it
impossible for him to attend and fully exercise his right to defence at the City
trial next July, where he is accused, along with his comrades, of moral
complicity in devastation and looting. He is therefore forced to request the
suspension of the trial for health reasons.
We conclude with some considerations that emerged from this discussion:
We are one year away from when the State and the DNAA will almost certainly
propose to keep Alfredo Cospito in 41 bis, and perhaps send other anarchist
prisoners there.
Charges in the trial, in which the state try to attack anarchist agitation and
propaganda towards the comrades of the fortnightly magazine, Bezmotivny, in
which the prosecution attempted to portray Alfredo as a leading figure within a
certain segment of the anarchist movement in the Scripta Scelera trial. They
depicted him as an instigator of crime, acting with him ‘guide’, and also after
the full acquittal in the Sibilla trial, where the prosecution tried to portray
Alfredo as an “instigator” in a sphere, that of the anarchist movement, which
has autonomy of thought and action as its core. Along with the Scripta Manent
trial, Operation Sibilla was decisive in Alfredo Cospito’s transfer to 41 bis.
With the mobilization stemming from Alfredo’s struggle, a debate opened, cracks
were created in 41 bis, in life imprisonment without parole and in the harsh
prison regime, the apex of the repressive system, which resonated so much that,
at times, in front of some prisons where 41 bis sections exist, the inmates from
inside were the first to chant “Alfredo out of 41 bis.” The struggle did not
have a merely anti-repressive dynamic, nor was it managed solely by lawyers, but
it relaunched the initiative of the anarchist and revolutionary movement more
generally to counter the offensive of capital and the State, despite living in
times of praise for disengagement, permanent demobilization, and rampant
resignation. Alfredo’s struggle allowed a debate on 41 bis and repression in
Italy to be carried forward, it especially put the State and its emanations into
contradiction (see the change in the DNAA’s opinion on keeping him in 41 bis,
which clashed with Nordio), just as the external mobilization also created
problems for the repressive apparatus, with the strength to bring Alfredo’s
words and struggle to every possible corner and with the most diverse
initiatives, conflictually resuming presence in the streets, in the squares,
outside prisons.
Saying ‘Alfredo out of 41 bis’ brought Alfredo and his story to the forefront of
the debate, presenting him as incompatible with any compromise or political
solution whatsoever, despite some para-institutional components of the left
attempting to insinuate themselves into the mobilization.
Today, it is important to be able to discuss how, in addition to Alfredo’s life,
the meaning and perspective of solidarity have also been put at stake, a
principle that has been under constant attack for years by anti-terrorism
prosecutors throughout Italy and beyond. Since the end of the hunger strike, and
now that the mobilization has practically stopped, the State is trying to take
revenge on this comrade, as also demonstrated by recent updates on his
imprisonment, namely the return of the GOM officer, previously removed for his
involvement in the “interception scandal,” to the direction of the 41bis section
of Bancali prison, which has brought with it a further tightening of the already
harsh conditions in this regime for Alfredo.
Today it is necessary to reflect on a fact of reality: this mobilization,
however insufficient to get Alfredo out of 41 bis, to close this detention
regime, and also to free Alfredo and all prisoners, has certainly ignited
not-so-ordinary sparks, from which it would be desirable to draw lessons and
stimulus for the realization of a project that goes beyond the urgency of the
moment. In this regard, reflecting on how not to become fossilized in an
anti-prison struggle, the application of 41bis to Alfredo should have been
placed in a more explicit relationship with the Italian State’s war policies.
Also on how to continue the struggle in solidarity with Alfredo and the support
for the practices he carried out, the importance of bringing Alfredo’s case into
the anti-nuclear struggles was also emphasized.
How to proceed now given the reality of today’s situation is one of the
questions for which we thought it was worthwhile to meet and reflect. While
States are preparing for war and arms profits are growing immeasurably, while
the genocide in Palestine continues, and with the approval of a security decree
that attacks the oppressed, these gentlemen are once again rushing to prosecute
anarchists, an internal enemy to be eradicated because they have always been in
opposition to capitalism, the State, and its war policies. Sabotaging the
internal front therefore also means relaunching solidarity with Alfredo and all
prisoners.
1
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/05/e-uscito-la-prima-edizione-italiana-di-alcuni-scritto-su-kamina-libre-identita-irriducibili-di-una-lotta-anticarceraria/
2
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/03/marcelo-villarroel-su-iniziativa-fuorilegge-due-giorni-di-discussione-contro-la-galera-tra-dentro-e-fuori/
3
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/fransisco-solar-prigioniero-sovversivo-anarchico-detenuto-nelle-prigioni-del-territorio-occupato-cileno-carcere-azienda-la-gozalina-rongagua/
4
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/juan-sorroche-prigioniero-anarchico-italia-as2-terni/
5
https://www.rivoluzioneanarchica.it/notizie-prigionieri-anarchici-elisa-di-bernardo-stiamo-vincendo-delle-battaglie-per-la-liberta-di-gabriel-pombo-da-silva/
6
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/paolo-todde-compagno-prigioniero-ad-utaca-contributo-percorsi-di-lotta/
7
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/nikos-maziotis-prigioniero-anarchico-condannato-per-le-azione-di-lotta-rivoluzionaria/
8
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/messico-da-citta-del-messico-un-contributo-sulle-lotte-esperienze-di-complicita-tra-fuori-e-dentro/
9
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/da-qualche-luogo-sulla-terra-aggiornamenti-e-scritti-dalla-latitanza/
10
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/presentazione-progetto-di-traduzione/
11 https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/dal-centro-alla-periferia/
PDF: fuorilegge eng
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[es] FUORILEGGE: Contribuciones desde las cárceles, materiales diversos y un
relato sobre dos días de debate entre el exterior y el interior de la cárcel
(De esta iniciativa nació el sitio http://presospolitico.noblogs.org donde se
recogen las cartas, las que tienen permiso para su publicación, las que llegan
de las cárceles y las transcripciones de las intervenciones, que se van
actualizando)
Los pasados 23 y 24 de mayo, en unos espacios ocupados para la ocasión dentro de
la Universidad de Pisa, se realizó una iniciativa “fuera de la ley” para contar
y comparar las luchas al interior de las cárceles en varias partes del mundo,
con algunas de las experiencias de lucha contra la cárcel entre las más
importantes entre las llevadas a cabo dentro del mundo anarquista por el retorno
a las calles de esas identidades irreductibles, revolucionarias,
insurreccionales y “fuera de la ley”. La iniciativa tuvo como punto de partida
el primer día una discusión sobre la traducción al italiano de Kamina
Libre.1—ahora en su segunda reimpresión actualizada con algunas contribuciones
sobre la importancia de la memoria viva— como contribución a la campaña de
solidaridad por la libertad de Marcelo Villarroel y la anulación de las condenas
de la justicia militar de Pinochet en su contra. La presencia de un compañero
chileno y algunos videos de Chile nos brindaron la oportunidad de analizar la
historia y el legado, en el movimiento anarquista chileno y más allá, de las
experiencias de Kamina Libre. Este colectivo se caracterizó por una acción
intransigente en el CAS (cárcel de alta seguridad), por la necesidad de ir más
allá de las reglas y romper la aniquilación a cualquier precio mediante un
enfrentamiento permanente tanto dentro como fuera de la prisión. Esta conexión,
entre el interior y el exterior, es inseparable para construir una lucha
interna, no una mera discusión legal, ni mucho menos un ejercicio de
radicalismo, sino una lucha con el objetivo de que los compañeros regresen a las
calles, no por un ideal abstracto de libertad, sino para poder seguir luchando
desde una perspectiva insurreccional y destruir la sociedad de la que la prisión
es espejo. Con este compañero también pudimos conversar sobre el movimiento de
presxs políticxs del levantamiento de 2019 en Chile y cómo la “memoria negra”,
si se mantiene viva, mantiene vivos y presentes a diario en las luchas y en las
calles a los compañeros que ya no están con nosotros, por estar en prisión o
haber muerto en combate. procurando no convertirlos en mártires ni héroes, sino
tenerlo vivo con el fuego. Las cartas que nos enviaron desde las cárceles
también contribuyeron a este debate. Algunas se leyeron en el marco de la
iniciativa, como las de Marcelo Villarroel.2, Francisco Solar3y Juan Sorroche4,
y otros que no llegaron a tiempo, se pueden encontrar en la sección de la
página5
Estos presos anarquistas, a partir de su conocimiento y lectura de Kamina Libre,
compartieron sus reflexiones y preguntas sobre cómo podemos hoy luchar desde
dentro y desde fuera, sin relegar la lucha anticarcelaria al ámbito técnico,
legal, asistencial o victimista, a pesar de que las condiciones internas sean
diferentes hoy, incluso para la población carcelaria. El compañero anarquista
Gabriel Pombo da Silva intervino en este debate, aunque forzado por los malditos
medios tecnológicos.6 el ha sido recientemente liberado, tras haber pasado más
de 20 años en cárceles de España y Alemania, luchando siempre dentro de la
prisión con dignidad y sin venderse al enemigo, y que decidió hace un tiempo,
junto a la compañera anarquista Elisa, anunciar sus paso a la clandestinidad de
la siguiente manera: “Somos un clan nómada que va de pueblo en pueblo en busca
de cómplices que practiquen el anarquismo… que incomoda a los servidores del
Estado… hemos decidido vivir en la sombra”.
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1
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/05/sale-la-primera-edicion-italiana-de-algunos-escritos-sobre-kaminalibre
identidades-irreducibles-de-una-lucha-anti-carcelaria/
2
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/03/marcelo-villarroel-su-iniziativa-fuorilegge-due-giorni
didiscussione-contro-la-galera-tra-dentro-e-fuori/
3
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/fransisco-solar-preso-subversivo-anarquista-detenido-en
carceles-del-territorio-ocupado-chile-compania-carcelaria-la-gozalina-rongagua/
4
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/juan-sorroche-preso-anarquista-italia-as2-terni/
5
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/aportaciones-de-la-prision-sin-fronteras-a-la-edicion-italiana-de-dikamina
libre/
6
https://www.rivoluzioneanarchica.it/noticias-prisioneras-anarquistas-elisa-di-bernardo-nos-sentimos-vinculadas-de-las-batallas-por
la-libertad-de-gabriel-pombo-da-silva/
No se trató de una reconstrucción de una realidad en sí misma, porque «la
memoria es una desgracia si se la ve como coherencia sin piedad». Fue una
discusión sin un punto de llegada predeterminado, una comparación que se inspiró
en experiencias, cuentos y historias. Preguntarnos hoy cómo luchar dentro y
fuera de la prisión parte de la convicción de que la prisión es parte integral y
fundamental de los mecanismos de opresión y explotación. La experiencia del
encarcelamiento en esta sociedad puede convertirse en una experiencia común para
cada individuo, una dimensión altamente probable dentro de una vida de cuya
miseria no hay salida excepto intentando el camino de la ilegalidad,
arriesgándose así a pasar por «lo inesperado de la prisión»: este sufrimiento
sin absolución puede conducir tanto a la autodestrucción como al camino de la
rebelión para quienes no tienen nada que perder salvo sus cadenas. Por eso,
¡afilar nuestras armas es nuestra tarea!
Durante estos dos días, también se leyó y distribuyó una contribución de un
compañero, Paolo.7, encerrado en Uta y en huelga de hambre contra las
condiciones carcelarias a las que se ven sometidos diariamente todos los presos
de esa cárcel, quien contó su historia como companero y “fuorilegge”, de cómo ha
visto cambiar la población carcelaria a lo largo de los años y sus intentos de
construir una lucha desde dentro. Al día siguiente, a través de la inspiración
que surgieron de las historias de las escapadas más espectaculares recopiladas y
republicadas en Adiós prisión fue un momento para escuchar las palabras de la
compañera Poula Roupa, miembro de la organización Lucha Revlucionaria, activa en
Grecia, quien tuvo la paciencia y la disposición de narrar su experiencia.
Partiendo del período de actividad de este grupo, relató el significado y la
razón de su fuga y los problemas que encontró durante el intento de fuga del
compañero Nikos Maziotis y otros presos, secuestrando un helicóptero. Su
conmovedora historia también destacó cómo algunas acciones, incluso las que
buscan la liberación total, enfrentan enormes limitaciones si no existe una
solidaridad externa concreta. También llegó una contribución escrita de Nikos
Maziotis desde la prisión de máxima seguridad de Domokos 8, que destacó la
relación entre la solidaridad, la guerra de guerrillas y la lucha insurreccional
entre los revolucionarios y el movimiento anarquista/antiautoritario desde 2010
hasta hoy. Esta discusión también contó con la participación (siempre a través
de los malditos medios tecnológicos) de un compañero anarquista.9, que desde
hace más de veinte años forma parte de esas luchas contra la prisión y la
sociedad que la necesita, provenientes del territorio que ocupa el Estado de
México. Con él pudimos tener un relato directo y profundo de cómo después de
muchos años los compañeros se organizaron en una asamblea que apoyó abiertamente
a los presos que eligieron el camino de la fuga y la clandestinidad, hablando
del caso de Miguel Peralta.10 Un companero anarquista indígena latitante, y cómo
reflexionaron y decidieron —por primera vez después de años de situaciones en
las que el apoyo al compañero en fuga se limitaba a mantener un marco de
silencio cómplice y apoyo fáctico— apoyar y lanzar iniciativas para hablar y
difundir abiertamente las ideas, la palabra de este compañero y las razones de
su lucha y su huida. Luego se centró en cómo superar la represión, el tabú de no
hablar para no ser incluido en esas famosas listas e investigaciones de
sospechosos solidarios que inmediatamente se convierten en cómplices de los
fugitivos, pero sin dejar de prestar atención a la seguridad del compañero en
fuga. Finalmente, hizo un breve recuento de las experiencias de luchas vividas
al interior de las cárceles en la última década en la Ciudad de México, del uso
por parte del Estado de las acusaciones de colusión entre el mundo anarquista y
el narcotráfico como en el caso de Jorge Ezquivel, preso anarquista detenido en
Prisión de la Ciudad de México. Este caso se entrelaza con las experiencias de
lucha contra la prisión en la última década, cuando se llevaron a cabo acciones
de sabotaje contra los símbolos de dominación y contra el aumento de las tarifas
del transporte durante el “Diciembre Negro”, que en México fue una clara
expresión de solidaridad insurreccional internacionalista, también con los
presos revolucionarios griegos Nikos Romanos y Yannis Michalaidis, quienes se
encontraban en huelga de hambre en las cárceles griegas durante ese período.
Árboles de Navidad, estaciones de metro y autobús fueron incendiadas: estas son
solo algunas de las muchas iniciativas que tuvieron lugar en esos años de
efervescencia insurreccional, que también vieron el primer congreso anarquista
insurreccional internacional, celebrado dentro del auditorio ocupado más grande,
con la participación, entre otros (vía Skype, ya que no se le permitió entrar al
país), del camarada Alfredo Maria Bonanno.
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7
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/paolo-todde-compagno-prigioniero-ad-utaca-contributo-percorsidi
lotta/
8
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/nikos-maziotis-preso-anarquista-condenado-por-la-accion-de
lucha-revolucionaria/
9
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/06/04/messico-da-citta-del-messico-un-contributo-sulle-lotte-esperienze-di
complicita-tra-fuori-e-dentro/
10
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/desde-algun-lugar-en-la-tierra-actualizaciones-y-escritos-del
fugitivo/
Esta década de luchas dentro de las cárceles, dada la cantidad de compañeros
detenidos, como Fernando Bárcenas, Fernando Sotelo y Abram Cortés entre otros y
otras, se ha caracterizado por negarse a adherirse a la buena conducta y la
servidumbre voluntaria impuestas por la administración penitenciaria. Se han
dado diversas experiencias de autoorganización: desde talleres de escritura
anarquista hasta la creación de una revista. Canero11 Este periódico fue
producido y distribuido tanto dentro como fuera de las distintos penitenciarios,
el cual relataba las condiciones y las luchas carcelarias, además de ser una
herramienta de unión entre los presos para romper la dispersión que los dividía
en las distintas penitenciarías, también sirvió para desarrollar y expresar su
postura contra la amnistía. En aquellos años también se llevaron a cabo
numerosas luchas, como una huelga de hambre por la liberación total y contra la
prisión, iniciada con las siguientes palabras: “en nuestra concepción, está
constituida por la sociedad en su conjunto, mientras que las cárceles físicas
son solo una expresión concreta del aislamiento social que sustenta y legitima
el poder y por eso no recurrimos a los medios de comunicación, ni a las clases
dominantes, sino que nos dirigimos y hablamos a nuestros compañeros de la
inmensa prisión llamada tierra que, como nosotros, también son hijos de la
guerra por el solo hecho de haber nacido desheredados”. De este proyecto de
traducción12 de Kamina Libre, hemos tomado la decisión de organizar estos dos
días de encuentros y discusiones también para poder contribuir a discutir,
encontrar ideas y preguntarnos cómo podemos llevar adelante, desde afuera, un
apoyo activo y solidario a las luchas de los presos, un reconocimiento en las
luchas., en las insurrecciones, en las revueltas y en la solidaridad
internacionalista. Escuchar y discutir con compañeros que han luchado y siguen
luchando contra la cárcel a lo largo de los años es fundamental, a pesar del
tiempo nunca suficiente, para reflexionar sobre algunas posibilidades y
experiencias. Este debate de dos días nació para superar las limitaciones que
existen para apoyar las revueltas internas, como vimos, por ejemplo, en 2020
durante la emergencia de la COVID-19, así como en los últimos años, cuando se
han producido otras revueltas en cárceles de diversas partes de Italia. Sin
embargo, estas revueltas no han logrado extenderse ni dialogar con el exterior,
y surge de la necesidad de responder a los ataques de los Estados contra las
luchas que se libran tanto dentro como fuera de las cárceles, desde Italia con
la nueva ley de seguridad (ex DDL 1660), hasta Chile, Grecia y Francia. Este
tipo de ataque, que pasa, entre otras cosas, por las reformas del sistema
penitenciario, en nuestra opinión, tiene un carácter preventivo en un horizonte
de guerra y conflicto social cada vez más latente, en directa continuidad con la
aplicación del artículo 41bis a Alfredo. Creemos que el ataque a Alfredo fue una
advertencia del Estado a quienes persisten en apoyar las ideas y prácticas
revolucionarias, un Estado que debe borrar tanto la posibilidad como la memoria
de la lucha armada en este país, de la cual la acción contra Adinolfi de Ansaldo
Nucleare, reclamada por Alfredo ante el tribunal de Génova, es uno de los
testimonios más recientes. Pero, sobre todo, nos preguntamos qué significa
seguir apoyando la lucha del primer compañero anarquista enterrado en la prisión
de Bancali en 41 bis y la expansión del modelo de este régimen en diversas
partes del mundo, desde Chile hasta Francia, con el Estado italiano exportando
cada vez más regímenes de aislamiento.
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11
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/29/el-canero-1-stampa-carcelaria-dal-messico/
12
https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/presentazione-progetto-di-traduzione/
El segundo día, se repasaron las razones de la lucha y la movilización en
solidaridad con Alfredo Cospito. El debate se centró en algunos puntos críticos
y preguntas contenidas en este texto “dal centro a la perifieria”.13 Lo que nos
permitió reflexionar sobre los factores de éxito de la movilización que, a pesar
de las mil dificultades y en una situación en los niveles más bajos del
movimiento anarquista, logró sacar a la luz las razones, las palabras y la
identidad de Alfredo Cospito, quien apoyó una huelga de hambre que duró 181
días. Una movilización de carácter internacional, de solidaridad y acción
directa, que duró más de diez meses y comenzó muchos meses antes de la huelga de
Alfredo, para intentar romper el manto de silencio donde querían relegarlo. Esta
movilización ahora ve la venganza del Estado contra quienes se movilizaron
durante esos meses, como con la solicitud de condenas hasts seis años por
resistencia agravada, disfraz, lanzamiento de objetos y complicidad moral en
daños, por una marcha en Milán el 11 de febrero de 2023, coincidiendo con el
traslado de Alfredo al hospital. La complicidad moral, un elemento que debe
explorarse más a fondo, es también uno de los elementos centrales de la
Operación City, con 19 condenas por devastación y saqueo en relación con la
marcha del 4 de marzo en Turín 2023.
Lello Valitutti, acusado por esta marcha, y que se encuentra bajo arresto
domiciliario durante más de un año por el juicio de Brennero, además de la
obligación de residir en su localidad de residencia, aportó su contribución y
saludo a este debate. Lello se encuentra actualmente en una situación médica
compleja, lo que, según nos comentó, le impide estar presente y ejercer
plenamente su derecho a la defensa en el juicio por la operación de la City el
próximo julio, donde se le acusa, junto con otros compañeros, de complicidad
moral en la devastación y el saqueo. Por lo tanto, y solicitarà la suspensión
del juicio por motivos de salud.
Concluimos con algunas consideraciones surgidas de esta discusión:
Estamos a un año de que el Estado y la DNAA propongan, con casi total certeza,
mantener a Alfredo Cospito en 41 bis, y tal vez enviarnos también a otros presos
anarquistas. Esto a pesar de que han caído los cargos del juicio en el que el
Estado intentó golpear la agitación y la propaganda anarquista hacia los
compañeros y compañeras del quincenal Bezmotivny, en el que la acusación intentó
perfilar la figura de Alfredo, en el proceso Scripta Scelera, como la figura más
destacada dentro de un determinado segmento del movimiento anarquista. Pintando
una instigación al delito con él como «orientador», incluso después de la
absolución total en el juicio Sibilla, donde se le acusaba directamente de ser
un «instigador» en un ámbito, el del movimiento anarquista, que tiene en la
autonomía de pensamiento y acción su eje central.
Junto con el juicio Scripta Manent, la operación Sibilla fue decisiva en el
traslado de Alfredo Cospito al 41 bis. Con la movilización que surgió de la
lucha de Alfredo, se abrió un debate y se crearon grietas en el 41 bis, la
cadena perpetua sin libertad condicional y la prisión de aislamiento, la cúspide
del sistema represivo. Esta repercusión fue tal que, a veces, frente a algunas
cárceles con secciones del 41 bis, los presos de adentro fueron los primeros en
lanzar el coro “¡Alfredo fuera del 41 bis!”. La lucha no tuvo una dinámica
meramente antirepresiva, ni fue gestionada únicamente por abogados, sino que se
relanzó la iniciativa del movimiento anarquista y revolucionario en general para
contrarrestar la ofensiva del capital y del Estado, esto a pesar de que vivimos
tiempos de elogio del desapego, de desmovilización permanente, de resignación
reinante. La lucha de Alfredo nos ha permitido impulsar un debate sobre el 41
bis y la represión en Italia. Sobre todo, ha puesto al Estado en contradicción
con sus emanaciones (véase el cambio de opinión de la DNAA sobre su permanencia
en el 41 bis, en contra del ministro de la justicia Nordio). Asimismo, la
movilización externa ha generado problemas para el aparato represivo, con la
fuerza para llevar la palabra y la lucha de Alfredo a todos los rincones
posibles y con las más diversas iniciativas, retomando de forma conflictiva la
presencia en las calles, en las plazas y fuera de las cárceles. Decir «fuera
Alfredo del 41 bis» ha impuesto en el debate la figura de Alfredo, su historia,
desde una perspectiva de incompatibilidad con cualquier tipo de compromiso o
solución política, a pesar de que algunos sectores parainstitucionales de la
izquierda hayan intentado infiltrarse en la movilización.
Hoy lo importante es poder hablar de cómo, además de la vida de Alfredo, se
pusieron también está en juego el significado y la perspectiva de la
solidaridad, un principio que ha sido objeto de constantes ataques durante años
por parte de las procuradoria antiterroristas en toda Italia y más allá. Desde
el fin de la huelga de hambre, y ahora que la movilización prácticamente ha
cesado, el Estado intenta vengarse de este compañero, como lo demuestran las
recientes noticias sobre su encarcelamiento, en particular el regreso del
graduado del GOM, previamente destituido por su implicación en el escándalo de
las escuchas telefónicas, a la dirección de la sección 41 bis de la prisión de
Bancali, lo que ha agravado aún más las ya duras condiciones de Alfredo en este
régimen. Hoy es necesario reflexionar sobre un hecho real: esta movilización, si
bien insuficiente para liberar a Alfredo de la 41 bis, para el cierre de este
régimen de detención y también para la liberación de Alfredo y de todos los
presos,
Sin duda, ha alimentado chispas nada comunes, de las que sería deseable extraer
enseñanzas y estímulos para la realización de un proyecto que vaya más allá de
la emergencia del momento. A este respecto, reflexionando sobre cómo no quedarse
estancados en una lucha contra las cárceles, la aplicación del 41bis a Alfredo
debería ponerse en relación más explícita con las políticas bélicas del Estado
italiano. Siempre en relación con cómo continuar la lucha en solidaridad con
Alfredo y el apoyo a las prácticas que él lleva a cabo, también se destacó la
importancia de llevar el caso de Alfredo a las luchas contra la energía nuclear.
Cómo continuar ahora, dada la realidad de la situación actual, es una de las
preguntas por las que pensamos que valía la pena reunirnos y reflexionar.
Mientras los Estados se preparan para la guerra y los beneficios de las armas
crecen desmesuradamente, mientras continúa el genocidio en Palestina y con la
aprobación de un decreto de seguridad que ataca a los oprimidos, estos señores
se apresuran de nuevo a juzgar a los anarquistas, un enemigo interno al que hay
que erradicar porque siempre se ha opuesto al capitalismo, al Estado y a sus
políticas bélicas. Sabotear el frente interno significa, por lo tanto, también
relanzar la solidaridad con Alfredo, con todos y todas las personas
encarceladas.
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13 https://presospolitico.noblogs.org/post/2025/05/24/del-centro-a-la-periferia
PDF: fuorilegge esp
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXVII)
«Iniziare dalla terra su cui sono state erette»
Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo
fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli
insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese
istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada,
dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati
coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non
ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari
di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle
università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o
finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university
(università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university
(università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni.
Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862
facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università
e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono
vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo,
costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite
mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e
propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra,
destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi
500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù
nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle
università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro
tratta.
Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di
terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia
del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali
canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla
fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca
delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la
base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre
aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le
università coloniali.
In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione
dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti
sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche.
Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la
segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni
riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle
mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì
università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo
amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La
segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi
accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le
università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come
infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro
posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa
oltremodo ardua.
In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e
l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore.
Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta,
si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene
che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie
responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni,
le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando
i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e
oppressione violenta.
Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli
dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si
inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di
terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate
per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le
distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di
esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di
apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare
attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con
le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare
l’oppressione.
L’università come avamposto
È il 28 marzo 2022: due studenti palestinesi dell’Università Ebraica sono seduti
sul prato del campus sul monte Scopus e cantano in arabo. Vengono avvicinati da
studenti israeliani, che chiedono di sapere cosa stiano cantando. Questi, che
sono anche agenti di polizia fuori servizio, accusano i palestinesi di cantare
canzoni «nazionaliste», li scortano a forza all’ingresso del campus e chiamano
agenti in servizio per farli arrestare.
Gli studenti palestinesi vengono interrogati in quanto sospettati di
«comportamento che potrebbe violare la pace sociale» e interpellati in merito
alle loro opinioni politiche e pratiche religiose. Alla fine vengono rilasciati,
ma viene loro comminata una sospensione di sei giorni. […]
Situata in cima al quartiere palestinese occupato di Issawiya, a Gerusalemme
Est, l’Università Ebraica sul monte Scopus è sorvegliata con particolare
scrupolo dall’amministrazione e dal corpo di polizia del campus. […]
Le università israeliane sono state progettate come apparati al servizio del
programma di «giudaizzazione» dei territori palestinesi. I loro campus,
strategicamente edificati su terre palestinesi, sono concepiti come enclave
isolate, abbarbicate in cima a monti o colline che si affacciano sulle città
sottostanti. A dimostrazione del loro ruolo nella militarizzazione, le
università israeliane sono chiaramente delimitate e recintate. Malgrado siano
istituzioni pubbliche, per accedervi è necessaria un’identificazione o un
permesso, oltre a dover superare i metal detector e un controllo di sicurezza da
parte di veterani armati. Gli studiosi israeliani di architettura hanno
dimostrato che non è un caso: progettati a beneficio della politica territoriale
dello Stato, i campus rimangono spazialmente segregati dall’ambiente
circostante. L’architettura delle università israeliane costituisce una pratica
di rivendicazione nazionale di matrice razziale, che demarca i campus come
spazio ebraico. […]
I campus stessi delle università israeliane sono progettati a beneficio dei
membri della comunità ebraica: gli edifici e le strade al loro interno sono
intitolati a personalità militari e politiche israeliane, tra cui gli artefici
della Nakba e dell’occupazione militare illegale di Gaza e della Cisgiordania,
compresa Gerusalemme Est, del 1967. Nei corridoi, traboccanti di simbologia e
narrazioni sioniste, campeggiano fotografie e testi che celebrano l’espansione
militare e territoriale israeliana. Una mostra permanente all’Università di
Haifa, ad esempio, onora tutt’oggi uno dei suoi fondatori, Abba Hushi, che
equiparò l’istruzione dei palestinesi ad «allevare serpenti».
Il complesso universitario-militare-industriale
Tutte le università israeliane lavorano a stretto contatto con il governo per
sviluppare le industrie militari di Stato e le tecnologie per l’esercito. L’ente
per lo sviluppo delle armi e delle infrastrutture tecnologiche (Mafat), ovvero
l’unità preposta a ricerca e sviluppo all’interno del Ministero della difesa,
intrattiene stretti rapporti con gli atenei. L’obiettivo dichiarato del Mafat è
quello di «garantire la capacità di Israele di sviluppare armi che rendono il
paese forte e gli permettano di preservare il suo vantaggio qualitativo». Il
Mafat è quindi responsabile delle infrastrutture per le armi e le tecnologie, ma
anche di coltivare il personale che si occupa della ricerca tecnologica, di
stimolare e finanziare la ricerca nelle università e di collaborare con le
istituzioni accademiche e le aziende del settore militare per lo sviluppo delle
forze armate.
La stretta collaborazione tra il Mafat e le università è spesso agevolata dal
fatto che condividono parte del personale. Isaac Ben-Israel, ora Maggiore
generale in pensione, ha ricoperto diversi ruoli di alto livello nell’esercito,
l’ultimo dei quali a capo del Mafat. Congedato dall’esercito nel 2002,
Ben-Israel è diventato docente dell’Univesrità di Tel Aviv. Qui ha fondato e
continua a dirigere il Yuval Ne’eman Workshpo for Science, Technology and
Security, dove si conducono ricerche che hanno applicazioni concrete per gli
apparati di sicurezza, tra cui la sicurezza informatica, la robotica, i missili
e le armi teleguidate. Vi si tiene anche un ciclo di conferenze ospitate
dall’Università di Tel Aviv a cui prendono parte anche membri dell’esercito e
delle agenzie di sicurezza, nonché produttori di armi nazionali e
internazionali. La conferenza annuale sulla sicurezza informatica che si tiene
nel campus è organizzata assieme al governo e agli espositori fieristici di armi
israeliane e ha lo scopo di mettere in mostra le innovazioni tecnologiche
sviluppate dall’Università di Tel Aviv e dalle aziende militari del paese.
Il Yuval Ne’eman Workshop non è l’unico a esibire apertamente il valore della
ricerca militare accademica promossa dalle università a beneficio delle
industrie statali e militari. Molte delle collaborazioni del Mafat con
dipartimenti e docenti sono pubblicizzate apertamente. Tra queste ci sono i
corsi, le conferenze e le fiere che vedono protagonisti i centri di
nanotecnologie gestiti da sei atenei in collaborazione con le agenzie
governative e l’industria militare israeliana. Il Centro per le nanoscienze e le
nanotecnologie dell’Università di Tel Aviv, ad esempio, collabora nel settore
ricerca e sviluppo con le aziende israeliane produttrici di armi, tra cui Iai ed
Elbit.
[…]
Oltre ai campus, gli atenei dispongono spesso di “parchi tecnologici” in cui
l’applicazione delle loro ricerche può essere tradotta in innovazioni per
l’industria della sicurezza israeliana. All’Istituto Weizmann è legato Kiryat
Weizmann, un parco scientifico hi-tech adiacente al campus che favorisce la
ricerca e lo sviluppo in sinergia con aziende private. Qui, tra le altre, sono
ospitate strutture dei produttori di armi Rafael, Elbit e della controllata di
quest’ultima, El-Op. Il laboratorio nazionale per lo sviluppo di telecamere
spaziali, inaugurato dal Ministero della difesa presso la sede di El-Op nel
parco, lavora a tecnologie per il rilevamento di obiettivi fotografati in
maniera illecita dai droni, un’innovazione sviluppata dall’Istituto Weizmann e
dall’Università Ben-Gurion.
[…]
Tutte e sette le principali università pubbliche in Israele hanno inoltre creato
società di commercializzazione partecipate per agevolare l’esportazione. Queste
aziende brevettano la proprietà intellettuale a scopo di lucro e
commercializzano le innovazioni prodotte da studenti e docenti in collaborazione
con aziende nazionali e internazionali. Com’è prevedibile, la maggior parte
delle società di commercializzazione universitarie ha stretto partnership di
lungo periodo con aziende produttrici di armi israeliane e straniere. La società
di commercializzazione dell’Università Ebraica, Yssum (“applicazione” in
ebraico), rivendica attualmente lo status di leader mondiale nelle tecnologie
utilizzate per la «sicurezza nazionale». Il governo degli Stati Uniti investe
ogni anno milioni di dollari a sostegno della ricerca “antiterrorismo” portata
avanti dall’Università Ebraica e dell’acquisizione di tecnologie da parte di
Yssum. Quest’ultima ha anche stretto un accordo con Lockeed-Martin che
garantisce all’azienda statunitense la possibilità di ottenere licenze esclusive
su ogni invenzione o prodotto derivato dalla ricerca applicata congiunta.
La società di commercializzazione dell’Università Ben-Gurion, Bgn Technologies,
svolge attività di ricerca e cooperazione congiunta con Rafael, Elbit, Iai e
Loockeed-Martin. La società di commercializzazione dell’Università Bar-Ilan,
Birad, ha avviato una partnership di lungo periodo con Rafael e ha promosso una
collaborazione di ricerca con l’incubatore tecnologico della Elbit. Gli incontri
tra il team tecnologico della Elbit e i ricercatori universitari hanno lo scopo
di far conoscere agli sviluppatori di armi le ricerche scientifiche «pronte per
essere messe a frutto». Questa collaborazione è fondamentale per l’industria
militare israeliana, come ha dichiarato lo scienziato capo della Elbit: «Questi
incontri sono uno degli strumenti che la Elbit utilizza per preservare la
propria leadership tecnologica, monitorare le tecnologie emergenti e
d’avanguardia e fornire un feedback al mondo accademico sulle esigenze
dell’industria». Le università israeliane sono snodi cruciali del complesso
militare-industriale dello Stato: con il loro operato sostengono il regime di
apartheid e l’occupazione dei Territori palestinesi che fungono da laboratorio.
[…]
L’industria militare e le università israeliane si alimentano reciprocamente fin
dalla loro istituzione. Gli atenei hanno dato vita, finanziato e fatto
progredire la ricerca scientifica in sinergia con gli apparati di sicurezza e le
aziende israeliane produttrici di armi. Le università formano soldati e
personale degli apparati di sicurezza in modo che possano affinare le loro
capacità per preservare il governo militare sui Territori palestinesi occupati,
producendo al contempo raccomandazioni politiche per contrastare la
mobilitazione palestinese e la crescente opposizione internazionale. Mettono a
disposizione i loro campus, le loro risorse, i loro studenti e i loro docenti
per contribuire allo sviluppo delle tecnologie e degli armamenti impiegati
contro i palestinesi e poi venduti in tutto il mondo come «testati sul campo».
Una forma di complicità che non si può più ignorare
L’Intifada dell’Unità, scoppiata nel 2021, ha rivelato in tutta la sua forza la
doppia repressione degli studenti palestinesi, nelle università palestinesi e in
quelle israeliane. In tutti i territori che controlla, Israele prende di mira
l’istruzione superiore palestinese in quanto focolaio di politicizzazione e
resistenza al suo dominio coloniale. Agli occhi israeliani, i palestinesi armati
di istruzione che sfidano senza timore il regime di apartheid costituiscono una
minaccia. Gli studenti palestinesi sono sottomessi mediante udienze disciplinari
e mediante sequestri, torture, detenzioni in strutture militari e persino
uccisioni nei campus palestinesi.
Le università israeliane sono pilastri fondamentali di questo regime: non solo
perché producono ricerche a beneficio delle forze di sicurezza dello Stato
occupante, le addestrano e collaborano con loro, ma anche perché lavorano a
stretto contatto con il governo per soffocare le mobilitazioni studentesche
palestinesi nei campus.
In definitiva, da oltre settantacinque anni le università israeliane svolgono un
ruolo diretto nella repressione di Stato dei movimenti studenteschi palestinesi
per la liberazione e nella negazione della libertà accademica dei palestinesi. È
una forma di complicità che non si può più ignorare.
(da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane
sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)