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Luci da dietro la scena (XXVII) – Torri d’avorio e d’acciaio (sul ruolo delle università israeliane e non solo)
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXVII) «Iniziare dalla terra su cui sono state erette» Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university (università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university (università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni. Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862 facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo, costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi 500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro tratta. Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le università coloniali. In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche. Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa oltremodo ardua. In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore. Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta, si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni, le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e oppressione violenta. Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare l’oppressione. L’università come avamposto È il 28 marzo 2022: due studenti palestinesi dell’Università Ebraica sono seduti sul prato del campus sul monte Scopus e cantano in arabo. Vengono avvicinati da studenti israeliani, che chiedono di sapere cosa stiano cantando. Questi, che sono anche agenti di polizia fuori servizio, accusano i palestinesi di cantare canzoni «nazionaliste», li scortano a forza all’ingresso del campus e chiamano agenti in servizio per farli arrestare. Gli studenti palestinesi vengono interrogati in quanto sospettati di «comportamento che potrebbe violare la pace sociale» e interpellati in merito alle loro opinioni politiche e pratiche religiose. Alla fine vengono rilasciati, ma viene loro comminata una sospensione di sei giorni. […] Situata in cima al quartiere palestinese occupato di Issawiya, a Gerusalemme Est, l’Università Ebraica sul monte Scopus è sorvegliata con particolare scrupolo dall’amministrazione e dal corpo di polizia del campus. […] Le università israeliane sono state progettate come apparati al servizio del programma di «giudaizzazione» dei territori palestinesi. I loro campus, strategicamente edificati su terre palestinesi, sono concepiti come enclave isolate, abbarbicate in cima a monti o colline che si affacciano sulle città sottostanti. A dimostrazione del loro ruolo nella militarizzazione, le università israeliane sono chiaramente delimitate e recintate. Malgrado siano istituzioni pubbliche, per accedervi è necessaria un’identificazione o un permesso, oltre a dover superare i metal detector e un controllo di sicurezza da parte di veterani armati. Gli studiosi israeliani di architettura hanno dimostrato che non è un caso: progettati a beneficio della politica territoriale dello Stato, i campus rimangono spazialmente segregati dall’ambiente circostante. L’architettura delle università israeliane costituisce una pratica di rivendicazione nazionale di matrice razziale, che demarca i campus come spazio ebraico. […] I campus stessi delle università israeliane sono progettati a beneficio dei membri della comunità ebraica: gli edifici e le strade al loro interno sono intitolati a personalità militari e politiche israeliane, tra cui gli artefici della Nakba e dell’occupazione militare illegale di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, del 1967. Nei corridoi, traboccanti di simbologia e narrazioni sioniste, campeggiano fotografie e testi che celebrano l’espansione militare e territoriale israeliana. Una mostra permanente all’Università di Haifa, ad esempio, onora tutt’oggi uno dei suoi fondatori, Abba Hushi, che equiparò l’istruzione dei palestinesi ad «allevare serpenti». Il complesso universitario-militare-industriale Tutte le università israeliane lavorano a stretto contatto con il governo per sviluppare le industrie militari di Stato e le tecnologie per l’esercito. L’ente per lo sviluppo delle armi e delle infrastrutture tecnologiche (Mafat), ovvero l’unità preposta a ricerca e sviluppo all’interno del Ministero della difesa, intrattiene stretti rapporti con gli atenei. L’obiettivo dichiarato del Mafat è quello di «garantire la capacità di Israele di sviluppare armi che rendono il paese forte e gli permettano di preservare il suo vantaggio qualitativo». Il Mafat è quindi responsabile delle infrastrutture per le armi e le tecnologie, ma anche di coltivare il personale che si occupa della ricerca tecnologica, di stimolare e finanziare la ricerca nelle università e di collaborare con le istituzioni accademiche e le aziende del settore militare per lo sviluppo delle forze armate. La stretta collaborazione tra il Mafat e le università è spesso agevolata dal fatto che condividono parte del personale. Isaac Ben-Israel, ora Maggiore generale in pensione, ha ricoperto diversi ruoli di alto livello nell’esercito, l’ultimo dei quali a capo del Mafat. Congedato dall’esercito nel 2002, Ben-Israel è diventato docente dell’Univesrità di Tel Aviv. Qui ha fondato e continua a dirigere il Yuval Ne’eman Workshpo for Science, Technology and Security, dove si conducono ricerche che hanno applicazioni concrete per gli apparati di sicurezza, tra cui la sicurezza informatica, la robotica, i missili e le armi teleguidate. Vi si tiene anche un ciclo di conferenze ospitate dall’Università di Tel Aviv a cui prendono parte anche membri dell’esercito e delle agenzie di sicurezza, nonché produttori di armi nazionali e internazionali. La conferenza annuale sulla sicurezza informatica che si tiene nel campus è organizzata assieme al governo e agli espositori fieristici di armi israeliane e ha lo scopo di mettere in mostra le innovazioni tecnologiche sviluppate dall’Università di Tel Aviv e dalle aziende militari del paese. Il Yuval Ne’eman Workshop non è l’unico a esibire apertamente il valore della ricerca militare accademica promossa dalle università a beneficio delle industrie statali e militari. Molte delle collaborazioni del Mafat con dipartimenti e docenti sono pubblicizzate apertamente. Tra queste ci sono i corsi, le conferenze e le fiere che vedono protagonisti i centri di nanotecnologie gestiti da sei atenei in collaborazione con le agenzie governative e l’industria militare israeliana. Il Centro per le nanoscienze e le nanotecnologie dell’Università di Tel Aviv, ad esempio, collabora nel settore ricerca e sviluppo con le aziende israeliane produttrici di armi, tra cui Iai ed Elbit. […] Oltre ai campus, gli atenei dispongono spesso di “parchi tecnologici” in cui l’applicazione delle loro ricerche può essere tradotta in innovazioni per l’industria della sicurezza israeliana. All’Istituto Weizmann è legato Kiryat Weizmann, un parco scientifico hi-tech adiacente al campus che favorisce la ricerca e lo sviluppo in sinergia con aziende private. Qui, tra le altre, sono ospitate strutture dei produttori di armi Rafael, Elbit e della controllata di quest’ultima, El-Op. Il laboratorio nazionale per lo sviluppo di telecamere spaziali, inaugurato dal Ministero della difesa presso la sede di El-Op nel parco, lavora a tecnologie per il rilevamento di obiettivi fotografati in maniera illecita dai droni, un’innovazione sviluppata dall’Istituto Weizmann e dall’Università Ben-Gurion. […] Tutte e sette le principali università pubbliche in Israele hanno inoltre creato società di commercializzazione partecipate per agevolare l’esportazione. Queste aziende brevettano la proprietà intellettuale a scopo di lucro e commercializzano le innovazioni prodotte da studenti e docenti in collaborazione con aziende nazionali e internazionali. Com’è prevedibile, la maggior parte delle società di commercializzazione universitarie ha stretto partnership di lungo periodo con aziende produttrici di armi israeliane e straniere. La società di commercializzazione dell’Università Ebraica, Yssum (“applicazione” in ebraico), rivendica attualmente lo status di leader mondiale nelle tecnologie utilizzate per la «sicurezza nazionale». Il governo degli Stati Uniti investe ogni anno milioni di dollari a sostegno della ricerca “antiterrorismo” portata avanti dall’Università Ebraica e dell’acquisizione di tecnologie da parte di Yssum. Quest’ultima ha anche stretto un accordo con Lockeed-Martin che garantisce all’azienda statunitense la possibilità di ottenere licenze esclusive su ogni invenzione o prodotto derivato dalla ricerca applicata congiunta. La società di commercializzazione dell’Università Ben-Gurion, Bgn Technologies, svolge attività di ricerca e cooperazione congiunta con Rafael, Elbit, Iai e Loockeed-Martin. La società di commercializzazione dell’Università Bar-Ilan, Birad, ha avviato una partnership di lungo periodo con Rafael e ha promosso una collaborazione di ricerca con l’incubatore tecnologico della Elbit. Gli incontri tra il team tecnologico della Elbit e i ricercatori universitari hanno lo scopo di far conoscere agli sviluppatori di armi le ricerche scientifiche «pronte per essere messe a frutto». Questa collaborazione è fondamentale per l’industria militare israeliana, come ha dichiarato lo scienziato capo della Elbit: «Questi incontri sono uno degli strumenti che la Elbit utilizza per preservare la propria leadership tecnologica, monitorare le tecnologie emergenti e d’avanguardia e fornire un feedback al mondo accademico sulle esigenze dell’industria». Le università israeliane sono snodi cruciali del complesso militare-industriale dello Stato: con il loro operato sostengono il regime di apartheid e l’occupazione dei Territori palestinesi che fungono da laboratorio. […] L’industria militare e le università israeliane si alimentano reciprocamente fin dalla loro istituzione. Gli atenei hanno dato vita, finanziato e fatto progredire la ricerca scientifica in sinergia con gli apparati di sicurezza e le aziende israeliane produttrici di armi. Le università formano soldati e personale degli apparati di sicurezza in modo che possano affinare le loro capacità per preservare il governo militare sui Territori palestinesi occupati, producendo al contempo raccomandazioni politiche per contrastare la mobilitazione palestinese e la crescente opposizione internazionale. Mettono a disposizione i loro campus, le loro risorse, i loro studenti e i loro docenti per contribuire allo sviluppo delle tecnologie e degli armamenti impiegati contro i palestinesi e poi venduti in tutto il mondo come «testati sul campo». Una forma di complicità che non si può più ignorare L’Intifada dell’Unità, scoppiata nel 2021, ha rivelato in tutta la sua forza la doppia repressione degli studenti palestinesi, nelle università palestinesi e in quelle israeliane. In tutti i territori che controlla, Israele prende di mira l’istruzione superiore palestinese in quanto focolaio di politicizzazione e resistenza al suo dominio coloniale. Agli occhi israeliani, i palestinesi armati di istruzione che sfidano senza timore il regime di apartheid costituiscono una minaccia. Gli studenti palestinesi sono sottomessi mediante udienze disciplinari e mediante sequestri, torture, detenzioni in strutture militari e persino uccisioni nei campus palestinesi. Le università israeliane sono pilastri fondamentali di questo regime: non solo perché producono ricerche a beneficio delle forze di sicurezza dello Stato occupante, le addestrano e collaborano con loro, ma anche perché lavorano a stretto contatto con il governo per soffocare le mobilitazioni studentesche palestinesi nei campus. In definitiva, da oltre settantacinque anni le università israeliane svolgono un ruolo diretto nella repressione di Stato dei movimenti studenteschi palestinesi per la liberazione e nella negazione della libertà accademica dei palestinesi. È una forma di complicità che non si può più ignorare. (da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)
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In solidarietà con Paolo Todde e i detenuti di Uta. Un manifesto
Riceviamo e diffondiamo. La dimensione consigliata per la stampa è l’A3, ma è possibile riprodurlo anche come volantino in formato A4. Qui il pdf: paolo todde sciopero della fame uta manif a SOLIDARIETÀ CON PAOLO TODDE IN SCIOPERO DELLA FAME E CON I DETENUTI NEL CARCERE DI UTA Il 25 aprile alcuni detenuti hanno iniziato uno sciopero della fame a staffetta contro le gravi condizioni detentive del carcere di Uta, in Sardegna. Paolo Todde, recluso da ottobre 2024 con l’accusa di rapina, dall’8 maggio ha ripreso quest’iniziativa, avviando da solo uno sciopero della fame nello stesso carcere. Sovraffollamento, acqua imbevibile nei rubinetti, celle chiuse ventidue ore al giorno, assistenza sanitaria inesistente, assenza di spazi di socialità, limitazioni nell’accesso alla biblioteca interna. Gli aguzzini, i torturatori, i passacarte sono sempre al lavoro. A noi il compito di organizzarci per lottare contro il carcere e il suo mondo: perché il carcere è un perno fondamentale dell’attuale realtà sociale. Un monito agitato contro tutti coloro che a un certo punto potrebbero decidere di farla finita con quest’ordine cui lo Stato e il capitalismo intendono tenerci prigionieri. Lottare contro il carcere significa dunque battersi contro le artificiose “libertà” democraticamente concesse, per una dignità e una libertà integrali, per una vita radicalmente diversa da quella attuale. DALLE CARCERI ALLE STRADE: GUERRA AI PADRONI DELLA GUERRA
Stato di emergenza
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Contro guerra e riarmo, blocchiamo tutto!
Riceviamo e diffondiamo questa versione aggiornata di un manifesto precedentemente uscito. Il manifesto già stampato non è ordinabile, quindi chi volesse diffonderlo dovrà provvedere a stamparlo con i propri mezzi. Qui in jpg:
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Luci da dietro la scena (XXVI) – La morte della natura, il mondo-laboratorio
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXVI) Nella Casa di Salomone Bacone scrisse la sua utopia, la New Atlantis, nel 1624, poco prima della sua morte. In contrasto con le società organiche egualitarie di Campanella e di Andreae, in cui donne e uomini dovevano ricevere un’educazione e onori in gran parte simili, la struttura sociale di Bensalem di Bacone era gerarchica e patriarcale, modellata sulla famiglia patriarcale all’inizio dell’epoca moderna. […] L’istituto di ricerca scientifica destinato a portare il progresso a Bensalem, la comunità della Nuova Atlantide, si chiama Casa di Salomone. Il carattere patriarcale di questa società utopica viene rafforzato chiamando gli scienziati «Padri della Casa di Salomone». A Bensalem non esisteva alcun reale processo politico. Le decisioni venivano prese in vista del bene di tutti dagli scienziati, nel cui giudizio si doveva aver fiducia in quanto essi soli possedevano i segreti della natura. Gli scienziati decidevano quali segreti dovevano essere rivelati allo Stato nella sua totalità e quali dovevano restare proprietà privata dell’istituto anziché diventare di pubblico dominio. «Teniamo consultazioni per decidere quali scoperte ed esperienze da noi realizzate possono essere rese note al pubblico e quali no, prestiamo tutti un giuramento di non diffondere mai quelle che pensiamo debbano restare segrete. Alcune di queste talvolta le riveliamo allo Stato, altre neppure ad esso». […] Lo scienziato di Bacone non solo sembrava un prete, ma si comportava come un prete che avesse il potere di assolvere attraverso la scienza l’intera infelicità umana. Egli aveva «uno sguardo pieno di umana pietà» e «levava la mano nuda benedicendo il popolo silenziosamente». La strada era orlata di due ali di folla dall’aspetto felice, ordinato e completamente passivo: «La via era strabocchevole di folla, ma la gente era così ben ordinata da apparire simile a un esercito schierato in ordine di parata. Anche le finestre non erano sovraccariche, ma ognuno si affacciava ordinatamente». Lo «scienziato» di Bacone sembrerebbe un precursore di molti scienziati ricercatori moderni. Oggi i critichi della scienza sostengono che gli scienziati sono diventati i custodi di un corpus di conoscenza scientifica avvolto nei misteri di un linguaggio altamente tecnico che può essere inteso a fondo solo da chi abbia almeno una dozzina di anni di esperienza. Oggi tali scienziati hanno la possibilità di rivelare al pubblico solo le informazioni che considerano rilevanti. A secondo dell’etica e del punto di vista politico dello scienziato, tali informazioni possono essere o no al servizio del pubblico interesse. La Casa di Salomone, considerata per molto tempo il prototipo del moderno istituto di ricerca, fu un antecedente del modo meccanicistico di investigazione scientifica. Il metodo meccanicistico evolutosi durante il Seicento operava scomponendo un problema nelle sue parti componenti, isolandolo dal suo ambiente e risolvendone ogni sua parte separatamente. Il centro di ricerca di Bacone manteneva «laboratori» separati per lo studio dell’arte mineraria e dei metalli, delle meteorologia, degli organismi d’acqua dolce e d’acqua salata, di piante coltivate, insetti e via dicendo. […] Nei laboratori della Casa di Salomone uno degli obiettivi era quello di ricreare artificialmente l’ambiente naturale per mezzo della tecnologia applicata. Caverne ampie e profonde, chiamate «regioni inferiori», erano usate, «a imitazione delle miniere naturali, per la produzione di nuovi metalli artificiali, mediante la combinazione di vari materiali». In un’altra regione c’erano «un buon numero di pozzi e sorgenti artificiali fatte a imitazione delle sorgenti naturali». L’acqua salata poteva essere trasformata in acqua dolce, poiché «abbiamo anche stagni in alcuni dei quali purifichiamo l’acqua dal sale, e altri nei quali artificialmente trasformiamo l’acqua dolce in acqua salata». Il programma di Bacone non comprendeva solo la manipolazione dell’ambiente in vista del miglioramento dell’umanità, ma abbozzava specificamente la manipolazione della vita organica per creare specie artificiali di piante e animali. Bacone trasformò il mago naturale da «servitore della natura» in manipolatore della natura e trasformò l’arte da imitazione della natura in tecniche per forzare la natura in nuove forme e per la riproduzione in vista della produzione. «Otteniamo numerose specie di serpenti, vermi, insetti, pesci da sostanze in putrefazione e alcuni di questi animali sono arrivati a essere creature perfette come gli animali e gli uccelli: provvisti di sesso e capaci di propagarsi. E nulla di tutto ciò avviene per caso perché sappiamo in antecedenza quale specie di creatura nascerà da una determinata materia o incrocio». […] La Nuova Atlantide aveva parchi e recinti per animali e uccelli, nei quali venivano eseguiti proprio esperimenti del genere: «Riusciamo a renderli artificialmente più grossi o più alti degli altri membri della loro specie, o viceversa più piccoli, arrestando il loro sviluppo. Li rendiamo più fecondi e prolifici del normale oppure sterili e infecondi. Possiamo variarne il colore, la forma, le attività». Gli scienziati della Casa di Salomone non solo producevano nuove forme di uccelli e di bestie, ma alteravano le specie esistenti di erbe e di piante e ne creavano di nuove. «Conosciamo anche dei sistemi per far nascere, mediante combinazioni di terreni, varie piante senza semi, per produrre nuove specie di piante diverse dalle comuni e infine per trasformare una pianta in un’altra». Piuttosto che rispettare la bellezza degli organismi viventi, La Nuova Atlantide di Bacone propugnava la creazione di nuovi organismi: Abbiamo costruito poi grandi frutteti e giardini dalle diverse colture, nei quali non guardiamo tanto alla bellezza quanto alla varietà del terreno e alla sua idoneità alla coltivazione di piante ed erbe diverse… In questi stessi frutteti e giardini facciamo nascere artificialmente piante e fiori più presto o più tardi della stagione in cui esse nascerebbero naturalmente e le facciamo fiorire e fruttificare più rapidamente del normale. Siamo in grado anche di ottenere piante molto più grandi delle normali, e i frutti di queste piante sono più grandi, più dolci e differenti di gusto, profumo, colore e forma degli altri della specie originaria. […] Gran parte del programma di Bacone nella Nuova Atlantide mirava proprio a legittimare tali manipolazioni, il cui intento essendo quello di recuperare il diritto dell’uomo sulla natura, andato perduto con il peccato. […] Per poter controllare le devastazioni prodotte da una natura selvaggia e tempestosa, Bacone fissò tra gli obiettivi della Casa di Salomone il controllo artificiale dei fenomeni meteorologici e dei mostri e pestilenze ad essi associati. «Abbiamo anche case grandi e spaziose, dove imitiamo e riproduciamo i fenomeni meteorologici, come la neve, la grandine, la pioggia, le piogge artificiali di corpi non acquosi, i tuoni e i fulmini». […] Nella Nuova Atlantide risiedono le orgini intellettuali dei moderni ambienti pianificati iniziati dal movimento tecnocratico alla fine degli anni Venti e negli anni Trenta del nostro secolo, che prese in considerazione ambienti totalmente artificiali creati dall’uomo per l’uomo. Troppo spesso questi ambienti sono stati creati dallo stile meccanicistico di soluzioni di problemi, che presta poca considerazione all’intero ecosistema, di cui le persone sono solo una parte. Il meccanicismo, che rappresenta l’antitesi del pensiero olistico, trascura le conseguenze ambientali di prodotti sintetici e le conseguenze umane di ambienti artificiale. Si ha l’impressione che la creazione di prodotti artificiali sia stata il risultato della tendenza baconiana al controllo e al potere sulla natura, in cui «Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo». A questo programma di ricerca, i moderni ingegneri genetici hanno aggiunto nuovi obiettivi: la manipolazione di materiale genetico per creare la vita umana in grembi materni artificiali, la duplicazione di organismi viventi attraverso la clonazione e la generazione di esseri umani nuovi adattati ad ambienti altamente tecnologici. Un insieme di particelle morte e inerti Come modello unificante per la scienza e la società, la macchina ha permeato e ricostruito in modo così totale la scienza umana che oggi difficilmente ne contestiamo la validità. La natura, la società e il corpo umano sono composti da parti atomizzate intercambiabili che possono essere riparate o sostituite dall’esterno. La tecnologia consente di porre rimedio a un cattivo funzionamento ecologico, nuovi esseri umani sostituiscono i vecchi per mantenere un funzionamento senza scosse dell’industria e della burocrazia e una scienza medica sempre più incline all’intervento sostituisce un cuore nuovo a uno logoro, malato. La concezione meccanicistica della natura che viene insegnata oggi nella maggior parte delle scuole occidentali è accettata senza discussione come nostra realtà quotidiana, del senso comune: la materia è composta da atomi, i colori sono causati dalla riflessione di onde luminose di diversa frequenza, i corpi obbediscono alla legge d’inerzia e il sole è al centro del nostro sistema solare. Nessuna di queste nozioni faceva parte del senso comune per gli uomini del Seicento. La sostituzione dei precedenti modi di pensare «naturali» con una forma di vita – con modi di vedere, di pensare e di comportarsi – nuova e «innaturale» non si verificò senza lotta. La sopraffazione dell’organismo da parte della macchina diede molto da riflettere alle menti migliori, in un periodo gravido di timori, di confusione e di instabilità, tanto nella sfera intellettuale quanto in quella sociale. L’eliminazione degli assunti animistici, organici sul cosmo segnò la morte della natura: l’effetto di più vasta portata della Rivoluzione scientifica. Poiché la natura veniva considerata ora un insieme di particelle morte, inerti, mosse da forze esterne anziché interne, la cornice meccanica stessa poté legittimare la manipolazione della natura. Inoltre l’ordine meccanicistico, in quanto cornice concettuale, era associato a un sistema di valori fondati sul potere, del tutto compatibile con gli orientamenti assunti dal capitalismo commerciale. […] I meccanicisti trasformarono il corpo del mondo e la sua anima femminile, che nel cosmo organico era fonte di attività, in un meccanismo di materia inerte in moto, tradussero lo spirito del mondo in un etere corpuscolare, purgarono la natura dalla molteplicità di spiriti individuali e trasformarono simpatie e antipatie in cause efficienti. La spoglia inerte che ne risultò era un sistema meccanico di corpuscoli morti, messi in moto dal Creatore, così che ciascuno di essi obbedisse alla legge d’inerzia e fosse mosso solo per mezzo di un contatto esterno con un altro corpo in movimento. […] L’avvento del meccanicismo gettò le basi di una nuova sintesi del cosmo, della società e degli esseri umani, costruiti come sistemi ordinati di parti meccaniche soggette al governo della legge e alla prevedibilità attraverso il ragionamento deduttivo. Un nuovo concetto dell’io come padrone razionale delle passioni contenute in un corpo simile a una macchina cominciò a sostituire il concetto dell’io come parte integrante di una stretta armonia di parti organiche unite al cosmo e alla società. Il meccanismo rese la natura effettivamente morta, inerte, e manipolabile dall’esterno. Un compendio L’incidente accaduto nel marzo 1979 al reattore nucleare di Three-Mile Island nei pressi di Harrisburg, in Pennsylvania, ha compendiato i problemi di «morte della natura» che sono divenuti evidenti dopo la Rivoluzione scientifica. La manipolazione dei processi nucleari in uno sforzo di controllare e imbrigliare la natura attraverso la tecnologia si è tradotta in un disastro. Gli interessi economici a lungo termine e l’immagine pubblica della società elettrica e del progettista dell’impianto furono posti al di sopra della sicurezza immediata delle gente e della salute della terra. Gli effetti occulti di emissioni radioattive che, concentrandosi nella catena alimentare, potrebbero condurre nei prossimi anni a un aumento del cancro, furono inizialmente sminuiti da coloro che avevano la responsabilità di regolamentare l’energia atomica. Three-Mile Island è un simbolo recente della malattia della terra causata da scorie radioattive, antiparassitari, materie plastiche, smog fotochimico e fluorocarburi. L’inquinamento dei «suoi fiumi più puri» è stato sostenuto a partire dalla rivoluzione scientifica da un’ideologia del «potere sulla natura», un’ontologia di parti atomiche e umane intercambiabili e una metodologia di «penetrazione» nei suoi segreti più riposti. La terra malata, «anzi morta, anzi putrefatta», potrà probabilmente essere restituita a lungo termine alla salute solo da un rovesciamento dei valori della maggioranza e da una rivoluzione nelle priorità economiche. In questo senso, il mondo dovrà essere messo ancora una volta sottosopra. (brani tratti da Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica [1980], Editrice Bibliografica, Milano, 2022)
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Uscita dell’opuscolo “Dall’internazionalismo alla solidarietà umanitaria”
Riceviamo e diffondiamo: Dall’internazionalismo alla solidarietà umanitaria o di come la solidarietà si è trasformata in un investimento economico neoliberista e in uno strumento di ricatto in Palestina e non solo Questo testo nasce da un’iniziativa che si è svolta a Genova nell’ aprile 2024 e di cui porta il titolo. La discussione voleva abbozzare una breve riflessione critica sulla funzione della cooperazione allo sviluppo (ma anche degli enti caritatevoli, ONG, ecc.) come strategia ufficiale (o latente) della politica estera degli Stati imperialisti, senza la pretesa di esaustività, vista l’ampiezza della tematica. Attraverso i contributi di un compagno del collettivo Hurriya! di Pisa e di una compagna di GPI, il testo prova a fornire alcuni spunti di riflessione e di approfondimento sulla solidarietà “umanitaria” quale fenomeno ampio, collaterale (e il più delle volte in combutta) alle politiche di predazione economica e di controllo del territorio. Dalla quarta di copertina Con l’indebolimento della militanza internazionalista, il grosso della solidarietà praticata in Occidente si è progressivamente piegato ai progetti di cooperazione allo sviluppo capitalista. Si sono affermate nuove figure ibride (operatori umanitari,cooperanti “dal basso”, ecc) per cui carriera professionale e bisogno di reddito si fondono spesso con l’attivismo politico e che accettano le condizioni dei finanziatori e degli Stati (occupanti o meno) in qualsiasi tipo di intervento. La lotta contro il nemico comune per una trasformazione collettiva è stata sostituita con progetti di cooperazione economica completamente compatibile (e talvolta in sinergia) con le politiche di colonizzazione e predazione economica di Stati e Capitale. Se in Palestina la rinuncia al diritto al ritorno è una condizione necessaria per accedere agli aiuti internazionali, in Italia chi lavora nel sistema di accoglienza è costretto a collaborare al disciplinamento degli immigrati, alla società dello sfruttamento e dell’alienazione. Avere ceduto tanto terreno comporta, per chi sceglie di agire al di fuori della logica dei diritti umani che relega gli oppressi al ruolo di vittime, l’essere criminalizzato come nemico della democrazia. Scarica la nota introduttiva: opuscolo_ONG-nota introduttiva pagine 26 1.50 euro a copia, 1 euro per i distributori (dalle 5 copie in su) spese di spedizione 1,50 euro per informazioni e spedizioni: irregolari@inventati.org
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Campagna di sfida, n. 2 – Spezzare le collaborazioni con il genocidio
Riceviamo e diffondiamo il secondo numero di “Campagna di Sfida”, bollettino dell’omonima campagna, volta a spezzare le collaborazioni tra ateneo trentino e università israeliane, portata avanti a Trento dall’Assemblea in solidarietà alla resistenza palestinese. Il numero è dedicato in particolare alla Fondazione Bruno Kessler. CAMPAGNA DI SFIDA #2 – VERSIONE STAMPA DEFINITIVA Qui il primo numero del bollettino: https://ilrovescio.info/2025/01/20/campgna-di-sfida-un-bollettino-contro-le-collaborazioni-trentine-con-il-genocidio-a-gaza-e-lindustria-bellica/
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