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A buon rendere. Solidarietà con gli anarchici condannati a Massa
Riceviamo e diffondiamo. Qui il testo in formato volantino, di cui è incoraggiata anche la distribuzione cartacea: a-buon-rendere-massa-5-novembre A buon rendere Solidarietà con gli anarchici condannati dal tribunale di Massa Continuiamo a lottare contro il 41 bis e le politiche di guerra Il 5 novembre 2025 si è tenuta al Tribunale di Massa l’udienza con la lettura della sentenza di primo grado nel processo per la manifestazione tenutasi a Marina di Carrara il 10 settembre 2022. Un’iniziativa in solidarietà con i rivoluzionari prigionieri e in particolare con l’anarchico Alfredo Cospito, trasferito a maggio dello stesso anno nel regime detentivo previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario e all’epoca a rischio di una condanna all’ergastolo nell’ambito del processo “Scripta Manent”. Una sentenza che si discosta di molto poco dalle richieste del pubblico ministero. Due condanne a 3 anni e 6 mesi (più una multa di 1800 euro a testa) e una a 2 anni e 4 mesi (più 700 euro) per “rapina” e “impedimento di una riunione di propaganda elettorale” nei confronti di due compagni e una compagna (tra l’altro già coinvolta nel cosiddetto procedimento “Sibilla” assieme ad altri 11 inquisiti, tra cui Alfredo Cospito, e terminato con una sentenza di non luogo a procedere). Durante il percorso della manifestazione venne incrociata una postazione di propaganda elettorale della Lega, il cui banchetto finì ribaltato dopo un breve parapiglia. Da qui l’accusa di “rapina” per cui questi tre imputati nel marzo 2023 sono stati perquisiti, ricevendo anche la notifica della misura cautelare dell’obbligo di firma, prolungatosi per oltre un anno. Poi, una condanna a 1 anno e 6 mesi (più 7 euro) e un’altra a 1 anno (più 3 euro, con pena sospesa) per il solo “impedimento di una riunione di propaganda elettorale” in relazione al turbamento arrecato dalla manifestazione al baraccone che portò all’elezione dell’attuale governo Meloni. Una multa di 70 euro per “imbrattamento” in riferimento ad alcune scritte murali comparse su una filiale Unicredit situata nelle vicinanze: “Fuori Alfredo dal 41 bis” e “Guerra alla guerra”. Infine l’assoluzione per un imputato. Cinque gli aderenti alla Lega tra le “persone offese” nel processo. Con il solito vittimismo – certamente consueto, ma ogni volta stupefacente per la completa assenza di pudore – nei giorni seguenti i fatti questi signori avevano descritto quella vivace manifestazione come un momento di guerriglia urbana (magari!). La Lega è un partito notoriamente responsabile in particolar modo delle stragi nel Mediterraneo: i suoi dirigenti si sono assiduamente impegnati affinché sempre più migranti possano affogare senza che la falsa coscienza dei benpensanti venga scossa. La Lega ha sostenuto tutte le politiche guerrafondaie e antiproletarie che hanno caratterizzato gli ultimi anni. Abbandonata ogni demenziale velleità secessionista, al “prima il nord” hanno sostituito un “prima gli italiani”, ma sappiamo bene che – come ogni altro partito politico – ciò che ci stanno dicendo è sempre prima i padroni. Prima i padroni, i capitalisti, i loro interessi e quelli dei loro servitori e reggicoda. Oggi degli anarchici vengono condannati per rapina nei confronti della Lega – il cui magro bottino, lo diciamo senza assumere pose vittimiste, sarebbe stato un tavolino da campeggio – e per aver turbato il sereno svolgimento della farsa elettorale. Non ci aspettiamo un trattamento differente e non abbiamo l’imbarazzo di questo o quel politico quando qualche loro amico viene accusato di qualche intrallazzo, truffa o ladrocinio che è il pane quotidiano della politica (detto en passant, le cronache degli anni passati abbondano di notizie sull’appropriazione indebita di 49 milioni di euro). Non abbiamo amicizie tra questi signori e i loro maggiordomi, né nutriamo illusioni elettorali o istituzionali: tutta la nostra storia è quella di un’ineludibile lotta contro lo Stato, il capitale e i loro servi. Non abbiamo nulla da salvare di questo vecchio, decrepito mondo che intendiamo mettere a soqquadro (ben altro che un banchetto ribaltato). È presto detto: desideriamo la distruzione di ogni ordine politico ed economico in favore della libertà integrale di tutti e di ciascuno. Mentre la guerra è alle porte, tra piani di riarmo europeo, incessanti morti per il lavoro e un genocidio trasmesso in diretta mondiale, la fiducia nei confronti dei governanti pare svanire ogni giorno di più. Eppure, eccettuate incoraggianti eccezioni, sopportiamo supinamente quasi ogni angheria, alzando il capo di tanto in tanto quando la dignità viene calpestata con maggiore vigore. Quando smetteremo di coltivare la nostra rassegnazione, quando cominceremo a rispondere? Continueremo ad alzare le spalle con indifferenza? Il 20 ottobre 2022 Alfredo Cospito iniziava uno sciopero della fame contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, interrotto il 19 aprile successivo a seguito del pronunciamento della Corte costituzionale sulla normativa inerente l’ergastolo. Il movimento di solidarietà internazionale sviluppatosi negli anni 2022-’23 ha impedito una condanna all’ergastolo ostativo per Alfredo (all’epoca pressoché certa con l’esito del processo “Scripta Manent” in Corte di Cassazione), gettato luce sulla natura di un regime detentivo di tortura prima di allora intoccabile, messo un bastone tra le ruote della macchina della repressione statale che riguarda tutti gli oppressi. Azioni dirette e rivoluzionarie, uno sciopero della fame a oltranza, iniziative nelle carceri di mezzo mondo, manifestazioni in ogni dove. Impeti di dignità che non riguardano solamente le sorti processuali e detentive di qualche anarchico recluso. Le calunnie dei politici e le mistificazioni dei mass-media non sono bastate a nascondere una verità lampante: padroni e governanti non valgono un briciolo dell’integrità di un rivoluzionario. Oggi come ieri, nei tribunali si celebra il diritto e si sancisce il monopolio della violenza da parte dello Stato. Che altro dire? Noi andiamo avanti per la strada intrapresa. A buon rendere. Novembre 2025 Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi” – Carrara Circolo Anarchico “La Faglia” – Foligno • Circolo Culturale Anarchico “G. Fiaschi”, via Ulivi 8/B, Carrara — Aperture: mercoledì (16:00-18:00), venerdì (17:30-19:00) • e-mail: circolofiaschi@canaglie.org — pagina facebook: https://www.facebook.com/circoloculturaleanarchicogogliardofiaschi — canale telegram: https://t.me/circoloculturaleanarchicocarrara • Circolo Anarchico “La Faglia”, via Monte Bianco 23, Foligno • e-mail: circoloanarchicolafaglia@inventati.org — canale telegram: https://t.me/circoloanarchicolafaglia
Stato di emergenza
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È uscito il terzo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo-guerra”
Riceviamo e diffondiamo: È uscito il terzo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”, dell’autunno 2025. Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires: disfare@autistici.org * 56 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su) * 56 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards) * 56 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de 3 exemplaires) Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_3_editoriale   Editoriale Interrompere il flusso, ritrovare il mondo Quella avvenuta tra fine settembre e inizio ottobre è stata per certi versi una tempesta perfetta. L’appello lanciato dai portuali di Genova (e raccolto nei porti di Ravenna, Livorno, Salerno, Marghera, Trieste, Napoli…) a “bloccare tutto”, in occasione del tentativo di rompere il blocco navale israeliano su Gaza da parte della Sumud Flotilla, ha visto milioni di persone scendere in strada con l’idea di partecipare a uno sforzo concreto contro il genocidio. Le ambivalenze a bordo si riflettevano nelle piazze – solidarietà internazionalista contro umanitarismo, azione diretta contro rappresentazione, rottura della legge contro proposta costituente, rifiuto della delega contro mediatizzazione, riconoscimento tra sfruttati contro interclassismo – senza permetterne facili e immediate letture. Moti “spuri”, “opachi” – come usano dire gli analisti della politica dall’epoca dei Forconi a quella dei Trattori passando per i No Green Pass – la cui simultaneità e i cui numeri hanno messo in difficoltà il governo, mentre varie componenti della sinistra più o meno istituzionale tentavano di garantirsi uno spazio di rappresentazione[1]. Foschia e strumentalizzazioni, certo, ma nella rottura della normalità si è aperta una breccia per ciò che fino a poco prima sarebbe stato impensabile. Bloccare fabbriche, porti, stazioni, autostrade, aeroporti, scuole, università. Prendersi strade non concesse e scontrarsi con chi le nega. Non più la domanda “perché scendere in strada?” ma, per molti, ritrovarsi in strada senza niente da chiedere, con l’anelito che tutto l’orrore finisca e la sensazione che il tempo d’agire non sia più procrastinabile. La propaganda ci aveva abituati a pensare alla guerra in Europa come a un fatto novecentesco, ebbene sempre dal Novecento è tornato anche il mito dello sciopero generale, con tutta la forza – e le faglie[2] – che si porta dietro. Centinaia di migliaia di persone sono scese in strada in tutta Europa (in Francia, in Spagna e in Grecia) producendo, volontariamente o no, irregolarità e disallineamenti che – così come nelle manifestazioni di massa che hanno infiammato il “Sud globale” grazie ai giovani no future (p. 41), quelli che rischiano di trovarsi nei prossimi anni di fronte alla prospettiva dell’arruolamento –  hanno dischiuso la possibilità di inceppare la macchina del terrore, con un connubio tra azione e non-collaborazione[3]. La pratica del blocco diffuso ha infatti infranto il mortifero ordine costituito secondo un gioco di scomposizioni e corrispondenze: “bloccare per avanzare”, diceva uno slogan dal gusto per l’ossimoro. Scomporre la guerra totale nelle sue ramificazioni determinate – una fabbrica, una strada, un porto, un palazzo del governo, un cavo, la polizia – e, attaccandole, ricomporre il quadro generale dei rapporti gerarchici e mercantili. Dopo due anni di genocidio in streaming e mentre sul fronte orientale si perpetua la minaccia della distruzione totale che la scienza vuole rendere tecnicamente senza fine[4], quegli istanti – alcuni inaspettati, come l’attacco alla Tech Week e alla Leonardo a Torino (p. 28), altri organizzati e collettivi, come le pratiche di blocco (p. 22) e mobilitazione in diversi snodi decisivi per la guerra – hanno talvolta rotto il tempo della rappresentazione, del diritto, dell’umanitaria banalità del bene che non mette in discussione le strutture del dominio, dell’ineluttabilità. E, contro il mare piatto della rassegnazione, hanno reso palpabile una ritrovata tensione etica. Disallineamenti e rotture contro la normalità, talvolta dentro e contro gli stessi cortei, capaci di svelare la logistica – scienza e tecnologia la cui razionalità si origina in ambito militare (p. 7) – quale perno centrale nell’organizzazione della guerra totale. L’organizzazione dei flussi, sempre più sofisticata ed ingegnerizzata ed in cui rotte civili e militari si sovrappongono quotidianamente senza soluzione di continuità, presenta al contempo delle evidenti vulnerabilità e diventa quindi potente terreno di lotta antimilitarista, come emerge nelle azioni di anonimi sabotatori disfattisti in molteplici punti del vecchio continente – contro ferrovie, porti e centri di ricerca (p. 30, p. 46). I recenti blocchi e sabotaggi della logistica di guerra (sia essa di merci, esseri umani o informazioni), assumono un significato ben più profondo di quel semplice “disarmare” la produzione e la tecnologia (affinché continuino ad espandersi per il benessere generale) invocato nelle rappresentazioni della sinistra – la cui storia dice guerra, che si chiami privatizzazione, missione di pace, riforma del lavoro, ordine pubblico o detenzione amministrativa (p. 49). È la vita stessa che giunge ad essere concepita come un flusso manipolabile e ottimizzabile. Per questo interrompere i flussi della guerra può significare mettere in questione tutto, rompendo con la concezione per cui la vita è ridotta a un’entità in tutto analoga alle macchine, che è alla base del tentativo di replicare l’intelligenza umana attraverso i computer – un progetto che fin dai suoi albori è teso all’accrescimento della potenza militare (p. 14). Il concetto stesso di militarizzazione, al netto della condivisibile sensibilità che spesso ne muove l’utilizzo, è fuorviante: esso implica una corruzione o distorsione in senso bellico di conoscenze, tecnologie, istituzioni che sarebbe solo recente o localizzata. In realtà, il tecno-mondo e la guerra – come approfondiamo in questo numero in particolare rispetto alla logistica e all’intelligenza artificiale – sono implicati in un rapporto storico di co-produzione tramite cui si sono dati e si danno forma a vicenda, e condividono le stesse logiche profonde. La Storia che vorrebbero scrivere i dominatori, nel frattempo, continua a prendere forma. Il conflitto militare sembra sempre essere sull’orlo di precipitare (dalla Polonia all’Iran), mentre la mobilitazione pre-bellica e la complicità autoritaria si rafforza – ad esempio attraverso la caccia ai disertori, oggi braccati in Ucraina dagli stessi droni che li rimpiazzano in trincea (p. 31, p. 33). I BRICS+ – che hanno contribuito a fabbricare la macchina del genocidio (dai droni cinesi e indiani, al petrolio brasiliano, al carbone sudafricano e russo, alla logistica egiziana, emiratina e saudita…) – non rappresentano affatto una “alternativa”; mentre la “pace eterna” sbandierata da Trump in Medioriente è la stessa che viene proposta in Ucraina: tregue traballanti o inesistenti, che prefigurano altri massacri in quella macabra sequenza distruzione-spopolamento/ricostruzione-riordinamento che palesa la continuità tra il piano genocidario e quello di un ordinario sgombero o progetto di riqualificazione urbana. Mentre le alleanze tra Stati assumono sempre più frequentemente geometrie variabili e inestricabili, l’attacco statunitense al Venezuela conferma un vecchio e arcinoto adagio: l’America First comporta innanzitutto il riserrare i ranghi nei “cortili di casa”. Infatti, se in America Latina, dietro la retorica della guerra al narcotraffico (p. 35) si consolida il dominio neocoloniale su materie e corpi considerati strategici per la logistica militare-commerciale, per l’energia, per il dollaro (p. 44), in Europa la bolla del riarmo (p. 11) spinta con retoriche diverse tanto dall’élite sovranista quanto da quella globalista, apparecchia grossi affari per i finanzieri d’assalto. Il declino del potere occidentale ne svela la ferocia e rende l’incarceramento di massa una realtà, già pienamente visibile a Gaza e in Cisgiordania, nelle deportazioni di migranti negli USA come in Europa, nelle retate in periferia che nelle favelas di Rio diventano carneficine, nella messa al bando di “nemici interni” – terroristi, trafficanti, poveri “cattivi”. Riflettere sul «rapporto di implicazione reciproca tra le forme della carcerazione e le caratteristiche della resistenza» (p. 38) diventa quindi più che mai necessario. Proprio nel momento in cui, a seguito della proscrizione e oltre duemila arresti, i prigionieri di Palestine Action intraprendono uno sciopero della fame, e la presenza della polizia penitenziaria in tenuta antisommossa durante il corteo del 4 ottobre a Roma rende plastica l’immagine del futuro previsto per quella parte di umanità considerata nemica o minaccia, dentro e fuori dalle mura cintate. In questo scenario di guerra, che sia definita ad “alta” o a “bassa” intensità, a difendere le popolazioni dall’abisso non ci saranno Diritti più o meno internazionali, costituzioni, enti sovranazionali, per questo compito «siamo tutto ciò che abbiamo». Se l’umano è da tempo “senza mondo”, disfare il mondo-guerra – l’orrore che è semplicemente “dato” – significa precisamente (ri)trovare il mondo come intenzione e significato per quella parte di umanità tagliata-fuori o mai ammessa alla Storia della classe dominante. Nel momento in cui, tramite le armi di distruzione totale, si dischiude lo scenario di un mondo-senza-umani, le brecce aperte a settembre e ottobre che si intrecciano all’imprevisto del 7 ottobre ci dicono che è possibile riattivare le storie dei dominati interrompendo il continuum storico del dominio. Come sottolinea il contributo “I compiti dell’ora presente” (p. 5): «Dobbiamo uscire da quello che Riccardo d’Este chiamava “totalitarismo del frammento” (…). Se i nostri privilegi differiscono alquanto in base al colore della pelle, alla classe e al sesso, tutte le nostre vite si riproducono grazie al saccheggio planetario di materie e corpi, foreste e infanzia, sussistenza comunitaria, ghiacciai e cosmovisioni. Dal “Sud Globale” sta arrivando un’inaspettata notifica: materie e corpi sono sempre meno disponibili, poiché il moto-Palestina cita all’ordine del giorno cinquecento anni di depredazioni e di resistenza». «Di doman non v’è certezza», dice la più grande rivolta carceraria della storia, in Palestina. E come affermano i moti d’autunno, qui come altrove, rifiutare lo spossessamento tecnologicamente equipaggiato e la predazione materiale e spirituale delle nostre vite è forse diventato pensabile.   [1] Limitiamoci qui alla CGIL, che ha proclamato prima uno sciopero il 19 settembre – depotenziando lo sciopero del 22 settembre indetto dai sindacati di base – per poi, senza tema di contraddizione, unirsi allo sciopero generale del 3 ottobre convocato inizialmente da SI Cobas, a rincorsa della propria base. [2] Secondo la nota riflessione di Walter Benjamin (Per la critica della violenza, 1920) che, riprendendo la critica di Sorel, distingue lo sciopero generale politico – che mira ad un cambiamento nei rapporti di forza tutto interno all’orizzonte dello Stato e del Diritto – da quello proletario, che pone «la questione di una violenza di altro genere», rivoluzionaria perché non ha il fine di impadronirsi dello Stato, ma si manifesta distruggendone l’ordine e la temporalità. [3] Su cui ci eravamo soffermati nel primo numero di disfare, con l’articolo “Il fuoco di Prometeo”. [4] Il nuovo missile a propulsione nucleare Burevestnik – “uccello delle tempeste” –, testato dalla Russia riattivando la competizione tecno-scientifica globale, può restare in volo a bassa quota per ore in forza del motore atomico.      
In primo piano
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UniTN-FBK: per la guerra, l’incarcerazione tecnologica della società e a sostegno del regime sionista
Riuniamo in questa pagina i vari contributi usciti sul coinvolgimento dell’università trentina, e della Fondazione Bruno Kessler che ne è il nucleo storico, con il regime sionista, il comparto bellico e il controllo sociale tecnologico: Qui una mappa delle attività di Uni-Tn e FBK: https://ilrovescio.info/2025/11/14/trento-28-novembre-corteo-per-lo-sciopero-generale-con-volantino-mappa-delle-collaborazioni-tra-unitn-fbk-e-industria-bellica/ Qui un contributo di un compagno su FBK: https://ilrovescio.info/2025/05/21/fbk-per-la-guerra-e-lincarcerazione-tecnologica-della-societa/ Qui la vicenda “Truman”, che ha messo pubblicamente l’università di Trento davanti alle sue responsabilità: https://ilrovescio.info/2025/06/17/the-truman-show-luniversita-di-trento-collabora-anche-con-israel-ibm/ Qui i numeri del bollettino “Campagna di sfida”, a cura dell’Assemblea trentina in solidarietà con la resistenza palestinese: https://ilrovescio.info/2025/05/01/campagna-di-sfida-n-2-spezzare-le-collaborazioni-con-il-genocidio/ Qui un contributo studentesco più vecchio: https://ilrovescio.info/wp-content/uploads/2023/11/intervento.pdf Qui un numero del foglio “Dal fronte umano” (del Collettivo Terra e Libertà) in cui si parla anche delle sperimentazioni di controllo tecnologico attuate da FBK nella città di Trento: https://ilrovescio.info/2024/01/08/un-test-chiamato-gaza-dal-fronte-umano-iii/
Rompere le righe
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SORPRESA!
SORPRESA! Sono le tre di mattina, il 15 ottobre, quando a Castel D’Azzano, sud di Verona, decine di carabinieri irrompono in una cascina abitata da due fratelli e una sorella. Una storia di debiti e pignoramenti. Già espropriati delle loro terre, ora è la volta della casa. Ma i tre hanno riempito la casa di gas e – come avevano promesso – fanno saltare tutto. Il boato, le fiamme, il crollo. Risultato, tre carabinieri morti e una trentina feriti. Anche la sorella rimane gravemente ferita. Tutti e tre vengono arrestati. Titoloni: «La più grande strage di carabinieri dai tempi di Nassiriya in Iraq». Franco Ramponi era nato nel 1960, Dino nel 1962, Maria Luisa nel 1965. Sentite cosa ne dicono i giornali, non importa quali, sono tutti così: «Erano venuti giù dalla montagna ed erano strani. Come i loro genitori». «I campi da coltivare, le mucche da mungere all’alba. Finiva lì il mondo di questi fratelli, ancora più uniti dopo la morte del padre e della madre». «“Una vita grama”, ripetono qui. Chi vive a Castel D’Azzano addirittura sostiene che nemmeno andassero a fare la spesa, Franco, Dino e Maria Luisa». «Non si erano mai rivolti al Comune per chiedere aiuto, – racconta la sindaca del borgo, – e dopo l’eventuale sgombero avevamo proposto di assisterli in prima ospitalità in un hotel o un B&B. Hanno rifiutato tutto». Questo il tono dei commentatori: «Uno spaccato di vita contadina sopravvissuto alla modernità e che ha portato a questa tragedia». «Un attaccamento alla casa e alla terra che era diventato un’ossessione, una patologia, fino a portarli a questo gesto estremo». Avete sentito bene, difendere la propria casa e la propria terra sarebbe una “patologia” agli occhi del giornalista che, immaginiamo, dal suo appartamentino di Milano scende tutti i giorni a far la spesa. Mentre quei montanari sradicati e sfollati in pianura “non volevano andare ospiti in un B&B” e “non andavano neanche a fare la spesa”!!! Eccolo l’atavico disprezzo che il cittadino borghese moderno e sofisticato cova per il contadino, peggio ancora se montanaro, il rustico rozzo, ignorante, sporco perché legato alla terra e agli animali. Un disprezzo antropologico per questi “sopravvissuti alla modernità”, che emerge in tutto il suo livore quando la rabbia contadina esplode, ma che rimane sottotraccia fino a quando il burino se ne sta buono e zitto a sgobbare a testa bassa per riempire gli scaffali dei loro maledetti supermercati o negozietti bio. I dettagli legali all’origine dei pignoramenti sono poco interessanti, le ragioni sono sociali, e chi vive in aree montane e rurali sa bene che non sono niente di eccezionale. Anzi. Famiglie di agricoltori, aziende agricole, piccole imprese artigianali strozzate dai debiti e ridotte, fin che ce la fanno, a lavorare per arricchire le banche, è quasi la norma. Questa è la vera tragedia, oltre al fatto che tre poveracci passeranno – temiamo – il resto dei loro giorni in galera. L’unica cosa eccezionale è il fatto che questi fratelli hanno avuto il coraggio, la lucida follia se volete, di resistere a ogni costo, invece di suicidarsi impiccandosi in garage o lasciandosi morire di psicofarmaci e televisione (come dovrebbero fare tutti i cittadini onesti e rispettosi della legge, vero?). E hanno avuto anche la sfrontatezza – questi cafoni – di tener fede alla parola data: sia al patto di non mollare mai che, a quanto pare, avevano stretto tra di loro; sia alla promessa fatta pubblicamente durante il precedente tentativo di sgombero: «Se tornate facciamo saltare tutto». Bum. Detto fatto. Che sorpresa, neh? Che qualcuno, nella modernità, possa ancora dare valore alla parola data, evidentemente è qualcosa di incredibile per i nostri contemporanei (sicuramente lo è, o meglio lo era, per quegli “espertissimi” carabinieri che sono andati a spiaccicarsi sotto le macerie della cascina). In questo senso è davvero “uno spaccato di vita contadina sopravvissuto alla modernità”, perché nel mondo contadino la parola data era sacra. Mentre oggi non vale più niente, valgono solo distintivi e scartoffie, nella modernità. Quella modernità che per affermarsi, e portarci dove siamo, ha espropriato, sradicato, umiliato e disgregato ogni tessuto comunitario, ogni rete di vicinato, ogni sentimento di umana solidarietà. E che ha lasciato tutti isolati e disarmati davanti a un potere spietato, implacabile, burocratico, disumano. E che oggi si sorprende e piange lacrime di coccodrillo quando qualcuno sente di non aver più nulla da perdere e non prova pietà per quegli eroici servitori dello Stato che vengono nel buio della notte a sfondargli la porta per portargli via la casa dopo avergli portato via tutto il resto. Guarda un po’! ’Fanculo. Se c’è qualcosa di sorprendente è che non succeda ogni santo giorno. TABOR, 17 ottobre 2025 Qui in PDF: sorpresa
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Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi?
Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi? Qui in PDF: Luci da dietro la scena (XXXI) C’è resistenza e «resistenza» Sulle pagine del New York Times, «La resistenza in Ucraina si sta intensificando», mentre «I combattenti di Hamas si nascondono sotto i quartieri residenziali». «I combattenti ucraini lottano in clandestinità nelle periferie che conoscono a fondo, usando auto-bombe e trappole esplosive, oltre a omicidi mirati con le pistole», invece i combattenti di Hamas «nascondono le loro armi in tunnel lunghi chilometri, e nelle case, nelle moschee e nei divani». Sulle pagine del Times, entrambe le resistenze si stanno «mescolando alla popolazione locale», «confondendo il confine tra civili e combattenti». Il giornale dichiara: «operando in questa maniera, Hamas è responsabile di tanti morti tra i civili, secondo la legge internazionale». Ma lo stesso giornale si compiace quando il rapporto di Amnesty International, in cui si accusano i militari ucraini di violare le leggi internazionali e di mettere a rischio le vite dei civili perché agiscono negli ospedali, nei quartieri residenziali e nelle scuole, «è stato accolto da una condanna diffusa e quasi universale». Se leggi il Times, finisci per concludere che gli ucraini vanno in guerra nella giungla di cemento perché, a differenza dei palestinesi, «hanno sempre meno scelta quando si tratta di posizionare i loro soldati». L’Ucraina «si sta difendendo dall’esercito russo che ha una potenza di fuoco largamente maggiore». Ma «le tattiche di Hamas [in uno dei posti più densamente popolati della terra] spiegano perché Israele è stato costretto a colpire così tante infrastrutture civili, uccidere così tanti palestinesi e incarcerare così tanti civili». La resistenza, nella mente occidentale, è un concetto mutante. Mentre la resistenza ucraina è elogiata per le sue tattiche di guerriglia, la resistenza palestinese – definita «terrorismo» – è sconcertante, perversa e patologica. I media istituzionali non insistono su queste caratteristiche perché sussistono differenze fondamentali nel modo in cui entrambe le resistenze esercitano violenza. Né questo atteggiamento dipende interamente dal colore della pelle degli ucraini: basta considerare l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) per vedere che la pelle bianca da sola non è un biglietto vincente, per lo meno non in una guerra contro il colonialismo britannico. Piuttosto, i media utilizzano toni diversi perché sono a servizio degli interessi strategici dell’Occidente. Mentre il regime colonialista d’insediamento di Israele è l’alleato più importante degli Stati Uniti in Medio Oriente, e praticamente una branca dell’Europa per proteggere l’imperialismo occidentale, la Russia rappresenta una minaccia «esistenziale» per l’Occidente. Perciò, non è certo una sorpresa che i giornali di proprietà delle classi dominanti, e da esse manovrati, delegittimano la ribellione palestinese nelle stesse pagine in cui celebrano quella degli ucraini. Per sostenere il progetto sionista in Palestina, per proteggere le imprese militaristiche e capitalistiche dell’impero nella regione, il combattente per la libertà palestinese deve cadere. E di conseguenza, gli stenografi dell’impero normalizzano la deumanizzazione dei palestinesi e demonizzano la loro resistenza. Quanti palestinesi sono stati uccisi proprio da quelle stesse forze e istituzioni che esigono «neutralità» e «imparzialità» da loro per poterne asserire l’«innocenza»? In un modo o nell’altro, siamo tutti terroristi agli occhi dei giornali più letti. […] Se vuoi umanizzare il palestinese, devi renderlo innocuo: ecco qual è il problema. […] Quando l’esercito di occupazione israeliana ha ucciso il quindicenne Adam Ayyad nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme, le domande sono state: Ha lanciato veramente una bomba molotov contro i soldati? Non è risaputo che gli israeliani inventano storie del genere? Quando invece avrebbero dovuto essere: Perché ci sono truppe israeliane a Betlemme, tanto per cominciare? Perché Adam Ayyad è nato in un campo profughi? Perché c’è “molotov” nel titolo di un articolo sui soldati che uccidono un ragazzino? E allora, se lancia una bomba molotov? Chi non lo farebbe? […] L’invenzione del civile come figura “imparziale”, “neutrale” ha esacerbato la depoliticizzazione della causa palestinese. Essere ritenuto un civile significa esistere in una dimensione mitologica in cui siamo senza prospettiva. La nostra causa, così com’è immaginata in questa mitologia, non è più percepita come una lotta di liberazione, ma come una “crisi umanitaria”, in cui i rivoluzionari non sono parte integrante della nostra nazione, motivati da aspirazione politica e sogni di emancipazione. Vengono invece interpretati come banditi che senza motivo causano scompiglio e lasciano sgomenti i passanti indifesi: le donne e i bambini disinteressati, i paramedici e i giornalisti imparziali. Se questo è un bambino Nel momento esatto in cui il palestinese esce dall’utero, viene privato dell’infanzia – scaraventato via dall’infanzia da un «macchinario che esiste sempre e ovunque» e trattato come uno zero buono a nulla e, allo stesso tempo, come una pericolosa bomba a orologeria. Il palestinese è privato dell’infanzia la prima volta che parla con suo zio dietro il vetro divisorio della prigione, o chiede a sua zia perché vivono sotto i tetti in lamiera, o cerca di decifrare che cosa è stato cancellato dalle insegne delle vie. O quando abbraccia suo padre accanto a un blocco di cemento, dicendo a se stesso che le esplosioni che sente sono soltanto fuochi d’artificio. O quando gioca a calcio sulla spiaggia. Da qualche parte, lungo la stessa linea, il bambino palestinese s’imbatterà nell’espressione «bambino ucciso illegalmente», usato per descrivere i suoi coetanei ammazzati; un professore di Yale scriverà un articolo sull’Atlatic su come «sia possibile ammazzare legalmente i bambini». E il cecchino eseguirà gli ordini. La palestinese è privata dell’infanzia la prima volta che supera un checkpoint e sente la mano pesante di un estraneo sotto la sua camicetta, la prima volta che si siede accanto al banco vuoto della sua compagna di classe. O quando prende l’autobus per tornare a casa e guarda fuori dal finestrino e vede un’altra studentessa in una pozza di sangue. Viene esiliata dalla sua infanzia la prima volta che chiede perché sulla foto di sua madre c’è un nastro nero, o perché i vicini piangono quando si congratulano con lei. La prima volta che lancia i sassi su un mare di divise verde militare o imbeve uno straccio prima di cacciarlo in un collo di bottiglia, o quando sente il bozzolo d’acciaio che diventa una farfalla dentro il suo ginocchio [riferimento alle “pallottole a farfalla” progettate per espandersi nel corpo al momento dell’impatto]. La prima volta che un ragazzino palestinese sente la botta del martelletto del giudice, o l’acciaio freddo sui polsi minuti, è costretto a diventare adulto. Osserva il suo riflesso in una pozza di sputi; scopre di avere già i capelli grigi. Cresce sotto la luna del neon, diventa grande nella sala degli interrogatori. Siamo davvero tutti palestinesi? * Noi, a migliaia e a milioni, mentre protestiamo in coro per le strade di New York e Londra? Mi faccio questa domanda in modo incessante, con ossessione. Due anni fa, avrei detto, dichiarato addirittura, che il cemento delle barriere israeliane è proprio questo, cemento, e ha soltanto un peso simbolico. I loro confini coloniali, per quanto ci provino, non recidono, e non potranno recidere i legami sociali e nazionali che tengono insieme le nostre città isolate. I nostri documenti diversi – documenti di viaggio, passaporti, lasciapassare o la mancanza di questi – sono soltanto parole su una pagina, incapaci di dividerci. Quelli che sono dispersi dietro i muri e il filo spinato, avrei detto, possono comunque unirsi nei loro cuori. Eppure, io cammino per queste metropoli, protestando – c’è repressione, ma ancora niente lacrimogeni – e Omar è in cella in una prigione dell’Occupazione, in cui almeno sessanta prigionieri politici palestinesi sono stati martirizzati dal 7 ottobre. A Khan Yunis, uomini in tuta da ginnastica vengono uccisi con colmi di arma da fuoco al petto, alla testa, nel coraggio della loro ultima azione, sia che stiano correndo verso un Merkava corazzato [carro armato usato esclusivamente dall’esercito israeliano] o verso una relativa sicurezza. Nel campo profughi di Shatila a Beirut, un nonno vive e muore tormentato dalle visioni della sua vecchia casa sulla spiaggia, un ricordo così viscerale che quasi riusciva a sentire il profumo del mare. A Gerusalemme, mi preoccupo della casa della mia famiglia, di mio fratello che fa il pendolare per andare al lavoro e dei poliziotti con il grilletto facile. Altri posti potrebbero essere altri pianeti, ognuno con le proprie principali cause di morte. Nel Naqab i beduini palestinesi vengono sradicati e rimpiazzati da alberi di pino tedeschi. A Silwan, le forze di occupazione demoliscono case per realizzare una fantasia biblica. A Sheikh Jarrah, la pulizia etnica viene mascherata da «disputa immobiliare». A Beita, i coloni costruiscono avamposti in cima alle colline, i soldati assieme a loro. A Masafer Yatta, un giudice della Corte Suprema israeliana – lui stesso un colono della Cisgiordania occupata – delibera di espellere alcune migliaia di palestinesi dalle loro terre ancestrali, che abitano e coltivano da generazioni. Di tutti i beni saccheggiati, la terra rimane – senza ombra di dubbio – il più prezioso. […] Per i palestinesi, la Nakba è implacabile e ricorrente. Succede al presente – e succede ovunque sulla mappa. Non un solo angolo della nostra geografia viene risparmiato, non una generazione sin dagli anni Quaranta. Per la mia famiglia, la Nakba è stata l’esperienza di mia nonna, espulsa da Haifa dall’Haganah [«La Difesa», organizzazione paramilitare sionista creata durante il mandato britannico e poi integrata nell’IDF] nel 1948 – ma anche i suoi racconti che mi avvisavano di quello che sarebbe stato inevitabilmente il mio destino quando i coloni con l’accento di Brooklyn, protetti dall’esercito israeliano, hanno occupato metà della mia casa a Sheikh Jarrah nel 2009, dichiarandola loro proprietà per diritto divino. Per altre famiglie, la Nakba è cominciata quando un’amata nonna è stata espulsa da Giaffa e ha cercato rifugio a Gaza, dove la Nakba continua nel rombo degli aerei militari che sganciamo bombe sui campi profughi sovraffollati, facendo conoscere ai suoi nipoti la loro prima (o forse terza o sesta) guerra. Ci sono le facce di quei nipoti sui poster che non sono ancora stati stampati. […] Una volta, riuscivo a separarmi con facilità dalle classi che a lungo ho disprezzato, le élite, i borghesi, e quelle per cui la Palestina è una metafora estetica. Ma una nuova classe è emersa nell’inferno angusto della Striscia di Gaza: gli affamati e i reietti, cacciati più volte, senza fine, in maniera implacabile, ed è impossibile essere qualcosa di più di uno spettatore impotente, impossibile appartenere a quella classe, non senza lividi, non senza sacrificio. È una tentazione, quasi una consolazione, in particolare quando guardo il cibo sulla mia tavola e il tetto sopra la mia testa, concedersi la colpa, ma è un sentimento improduttivo: non dà vita alle rivoluzioni. […] In questi giorni sono tormentato da un ritornello meno vistoso, ma più mortale, una consapevolezza non voluta: Gaza ha il diritto di dimenticarci, di non perdonarci mai, di sputarci in faccia. Quante guerre ha subìto? Quanti martiri ha dato? Quanti corpi le sono stati rubati, strappati dall’abbraccio dei loro padri? E quanti di noi balbettano quando ci viene chiesto della resistenza, o quanti di noi rinnegano il nostro diritto a resistere, il nostro bisogno di resistere? Dal 7 ottobre, molti personaggi pubblici, molti di loro palestinesi, soprattutto in Occidente, hanno riconsiderato, addirittura rinnegato, la catarsi che hanno provato vedendo le immagini delle “ruspe palestinesi” che abbattevano pezzi del muro israeliano di filo spinato che circonda Gaza. (Ho messo “ruspe palestinesi” tra virgolette perché è una frase incredibile). Molti si sono pentiti di aver festeggiato i deltaplani a motore che sfuggivano dal loro campo di concentramento. […] Lo slogan Siamo tutti palestinesi deve abbandonare la metafora e manifestarsi materialmente. Significa che tutti noi – palestinesi e non palestinesi – dobbiamo incarnare la condizione palestinese, la condizione di resistenza e rifiuto, nelle vite che conduciamo e nelle compagnie che frequentiamo. Significa che respingiamo la nostra complicità in questo bagno di sangue e la nostra inerzia davanti a tutto quel sangue. Significa che Gaza non può stare da sola nel sacrificio. * Non ho alcun problema con il canto di protesta in sé; penso che sia piuttosto bello. Una nuova alba Il sionismo, al di là della facciata della superpotenza impenetrabile che afferma di essere, oggi è più vulnerabile che mai. E non lo dico ingenuamente: non chiedo di glissare sulle capacità del nostro nemico o sul potere degli imperi e dei mercenari che lo sostengono. Né chiedo di banalizzare il peso schiacciante di centinaia di migliaia di martiri o di rendere glamour gli uomini che affrontano i carri armati in tuta da ginnastica gravandoli con un peso maggiore di quello che riescono a gestire. I combattenti per la libertà sanno che il loro avversario è Golia, che le probabilità giocano a loro sfavore, che non hanno scelta se non prendere la pietra. Ma questa è una nuova alba. Tramite un’analisi approfondita – guardando i media di stato, ascoltando la narrazione globale che sta cambiando, assistendo al rinascimento dei movimenti radicali, persino leggendo le scritte nei bagni degli aeroporti – scopriamo che questa è una nuova alba. Il sionismo può restare un avversario formidabile, ma è anche una bestia tremante, una bestia che sta invecchiando, accecata dal suo stesso significato, per quanto sia imprevedibile. A volte ti piomba addosso e affonda le zanne nella tua carne. Altre volte, non è altro che una tigre di carta. E questa scoperta non soltanto infrange il mito dell’invincibilità coloniale, ma ci ricorda che la libertà è ottenibile, che il futuro è alla nostra portata. In mezzo alle incessanti incursioni aeree e al caos delle città demolite, potrebbe sembrare fatuo concentrare l’attenzione sul gelsomino in fiore. Ma ci meritiamo di guardare ogni cosa, di cercare ogni cosa. Vedere il quadro con tutti i particolari. Per quanto sia mortale e infida e inarrestabile, la Nakba non durerà in eterno. Il mondo sta cambiando, perché deve cambiare. Se i semi sono in grado di germogliare all’inferno, così fa la rivoluzione. Non è teocrazia: è il sospiro della creatura oppressa Al telefono, mia madre mi dice, la pioggia sta arrivando e Dio è onnipotente. (Brani tratti da Mohammed El-Kurd, Vittime perfette e la politica del gradimento, Fandango, Roma, 2025)
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