Riceviamo e diffondiamo
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Riceviamo e diffondiamo questo importante scritto del nostro Stecco:
Fino a che di una sola prigione rimarrà una sola pietra
Riceviamo e diffondiamo (per informazioni su come ordinare copie vedi in fondo):
Gruppi Autonomi Rivoluzionari Internazionalisti
NON SIAMO STATI NOI AD ASSASSINARE PUIG ANTICH
Titolo originale: NO FUIMOS NOSOTROS QUIENES ASESINAMOS A PUIG ANTICH
(Grupos Autónomos Revolucionarios Internacionalistas)
Prometeo Ediciones, primavera 2024.
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Per tradurre un libro editato in una lingua diversa occorrono energie e tempo, è
necessario quindi dare un senso perchè questa energia e questo tempo non siano
sprecati.
Le parole danno un significato all’agire (anche se spesso l’azione si spiega da
sola) che è essenziale per costruire la propria forma di e nel mondo. Le parole
da sole non sono sufficienti per comprovare la pratica dell’utopia.
Le parole ci aiutano però a non dimenticare, a far conoscere la nostra storia,
la storia dei vinti quando a scrivere la Storia sono i vincitori, la storia
delle e degli audaci, di coloro i/le quali azzardano e arrischiano, che lanciano
il cuore oltre l’ostacolo. Perché come è apparso sulle colonne de «l’anarchie»:
La vita, tutta la vita, è nel presente. Aspettare è perderla.
In queste pagine parleranno i GARI e i prigionieri accusati di far parte dei
GARI, come sempre nelle nostre pubblicazioni abbiamo voluto dare risalto alla
testimonianza diretta per non travalicare l’esperienza soggettiva del percorso
individuale di chi ha voluto intraprendere la propria rivolta contro il Sistema;
da qui lo sciopero della fame di quarantatré giorni visto con gli occhi di chi
lo ha intrapreso, benché contrario a tale pratica, come unica possibilità per
sottrarsi alle continue umiliazioni ci ha riportato alla mente la vicenda di
Alfredo Cospito e dei suoi centoottanta due giorni di sciopero della fame. Ci
ha ricordato che dobbiamo avere fiducia nella capacità di auto-critica di chi lo
inizia, come hanno ludicamente dimostrato i compagni dei GARI nella Lettera da
Fresnes.
Inoltre ci sembra interessante affrontare la questione del terrorismo, questo
mostro spaventoso che solo al sentirlo nominare ci azzittisce atterrite dalla
paura dei nostri pensieri. In questo testo troverete una visione differente da
quella che apparirà nei libri della Collana La vita non attende di prossima
uscita, tratti da Programma della fazione terroristica di Narodnaja Volja e da
La lotta terroristica (Morozov 1880).
Come anarchiche non abbiamo risposte certe ma solo una selva di punti
interrogativi. Ognuna cercherà le proprie risposte e speriamo che nel farlo la
terra ci tremi sotto i piedi.
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Dal prologo di Francisco Solar
Carcere di La Gonzalina – Rancagua
Gennaio 2024
Se stiamo parlando di espressioni di solidarietà rivoluzionaria, solidarietà
incentrata sulla liberazione dei compagni imprigionati, è impossibile non citare
l’interessante e particolare attività dei Gruppi di Azione Rivoluzionaria
Internazionalista (GARI).
Costituito appositamente per sostenere e solidarizzare con i prigionieri del
Movimento di Liberazione Iberico (MIL), ha realizzato molte azioni su larga
scala per far conoscere e denunciare il brutale trattamento riservato dalla
dittatura franchista a questi combattenti imprigionati, che comprendeva anche la
pena di morte, come nel caso di Salvador Puig Antich.
Pertanto, l’esperienza di GARI è inseparabile da quella del MIL, dove molti dei
suoi membri entrarono a far parte del primo, dando continuità ad approcci e
pratiche basati sulla lotta. Così, il modo in cui i membri incarcerati del MIL
hanno inteso la solidarietà con i compagni incarcerati, che si riflette in: “[…]
l’intensificazione della lotta per distruggere il sistema che genera la
repressione è il modo migliore per sviluppare la solidarietà dei rivoluzionari
con i prigionieri” , è diventato parte costitutiva delle idee che hanno dato
contenuto alle azioni del GARI. Tuttavia, mentre continuare a colpire il potere
sarebbe stata la forma più appropriata di solidarietà, che indubbiamente
caratterizzava questo gruppo internazionalista, tutta la loro attività ruotava
intorno ai prigionieri del MIL. Tutte le loro azioni erano in diretta relazione
con la realizzazione di una solidarietà rivoluzionaria che irrompesse con forza
sulla scena sociale europea e diffondesse in questo modo la situazione dei
compagni imprigionati e la brutalità esercitata dagli ultimi anni del regime di
Franco. L’obiettivo era chiaro: evitare le condanne a morte di diversi
prigionieri e ottenere la liberazione dei militanti del MIL.
La vita dei GARI fu breve ma di notevole intensità. Scossero la tranquilla
normalità di Paesi come l’Olanda, il Belgio e la Francia con ordigni esplosivi,
mirando fondamentalmente agli interessi spagnoli. La maggior parte delle loro
azioni ottenne, per la loro ampiezza e particolarità, una grande copertura
mediatica che, in parte, permise di far conoscere la realtà affrontata dax
prigionierx rivoluzionarx e di generare, in una certa misura, sostegno alla
campagna internazionale per la loro liberazione.
L’assassinio di Stato di Salvador Puig Antich da parte della vile garrota segnò
un prima e un dopo per l’ampio movimento antifranchista e, in particolare, per
l’attività del GARI, con l’entrata in gioco di un fattore decisivo: la vendetta.
L’esecuzione del compagno, lungi dal provocare l’immobilismo dei membri del
GARI, costituì una chiara chiamata all’azione che completò e intensificò la
lotta per la liberazione dei membri del MIL. La rabbia e l’impotenza si
trasformarono rapidamente in attacchi energici contro gli interessi spagnoli,
dando un segnale di risposta immediata all’aggressione ricevuta.
Le azioni incorniciate dalla vendetta di Puig Antich riflettono, da un lato, la
reazione quasi istintiva dei compagni, che decidono di contrattaccare, e
dall’altro la capacità di portare a termine attacchi potenti e immediati, dando
un chiaro segno di forza.
Rispondere, vendicare, ripagare ogni aggressione da parte del Potere significa
affrontare la guerra in prima persona, significa farsi carico della complessità
del conflitto e significa anche saper prendere la parola, capire che non si è
spettatori e che le situazioni non sono inavvicinabili.
Sono state queste idee a dare contenuto alle azioni vendicative del 2019 a
Santiago [Cile] per le quali sono stato condannato e per le quali sono stato
rinchiuso per diversi decenni. Nonostante siano passati vent’anni, il vile
assassinio della compagna Claudia López è stato vendicato con una potente
esplosione che ha scosso la stazione di polizia dei Carabineros, utilizzata come
centro di pianificazione e protezione quella notte del settembre 1998, ferendo
diversi poliziotti. Così come gli assassinii e le ondate repressive protette e
promosse dall’ex ministro degli Interni Rodrigo Hinzpeter hanno avuto una
risposta che ancora oggi tiene in allerta i rappresentanti del potere.
La vendetta, quindi, si inscrive all’interno delle pratiche politiche offensive,
dando loro senso e contenuto, costituendo un motore che spinge l’azione
vendicativa. Strettamente legata alla memoria, ha la capacità di trovare il
momento giusto per entrare in scena, a volte immediatamente, a volte nel corso
degli anni. L’importante, ovviamente, è che diventi presente.
In questo senso, la vendetta, oltre al fatto concreto che rappresenta, contiene
una dimensione simbolica rilevante nella misura in cui dà conto di un universo
di codici condivisi che danno coesione, rafforzano e danno continuità a un
determinato gruppo. Non lasciare impunito l’omicidio dex compagnx, praticare la
solidarietà rivoluzionaria con x nostrx prigionierx, fanno parte di
quell’impalcatura storica che ci permette di continuare a stare in piedi e di
non vivere esclusivamente nei libri di storia come molti vorrebbero.
La comprensione della lotta in questo modo spazza via ogni forma di delega che
mette nelle mani di terzi la speranza di prendere in mano la situazione.
I GARI non si sono costituiti per ordine di alcun partito o sindacato, né per
direttive o mandati di alcun tipo. Ciascuno dei suoi membri, molti dei quali
provenienti dal MIL, decise liberamente di dare vita a questo gruppo con lo
scopo di sostenere attivamente x proprix compagnx di prigionia. Pertanto, fin
dalla sua genesi, l’autonomia è stata un fattore fondamentale che ha determinato
ogni loro decisione, che ha dato loro il dinamismo e la flessibilità che ha
permesso di adattare le loro pratiche a situazioni e contesti specifici.
Sono stati, in misura maggiore o minore, la continuazione dei MIL, portando
avanti l’“intensificazione della lotta per distruggere il Sistema che genera la
repressione”, come modo più appropriato e coerente di praticare la solidarietà
con x rivoluzionarx imprigionatx, un approccio sviluppato dai MIL, adottato dai
GARI e, successivamente, anche da Action Directe.
Questa posizione rompe radicalmente con il vittimismo che generalmente
caratterizza la solidarietà con x detenutx, anche quelli che si dichiarano
attivx e militantx, ed è per questo che è fondamentale conoscerla e tenerla in
considerazione oggi, dove le pratiche assistenziali sono sempre più ricorrenti,
dimenticando o tralasciando il fatto e le motivazioni che hanno portato x nostrx
compagnx in carcere.
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SOMMARIO
Comunicati
SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ[I]
SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [II]
SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [III]
SUL SEQUESTRO DI ANGEL SUAREZ [IV]
COMUNICATO STAMPA INVIATO A «LIBERATION»
PER QUANTO RIGUARDA GLI ARRESTI “IL CASO SUAREZ”.
ALCUNE PRECISAZIONI POLITICHE SU QUELLO CHE NON È UN FATTO DI INTERESSE
GIORNALISTICO
LA SOLIDARIETÀ IN AZIONE.
TELEGRAMMA ALLE AUTORITÀ SPAGNOLE
18 LUGLIO DEL 1974
MI CHIAMO MARIA, ABITO A LOURDES E QUESTA NOTTE ASPETTAVO CHE MI PORTASSERO IN
CIELO
LETTERA APERTA A «LA DE PECHE DU MIDI»
ULTIMO COMUNICATO STAMPA
IL NOSTRO E’ TERRORISMO?
AUTODISSOLUZIONE DEI GARI
ELENCO DEI SOGGETTI INCRIMINATI (O IN FUGA)
Testi dei gruppi che parteciparono ai gari
DICHIARAZIONI
A «LIBERATION»
DOBBIAMO ULULARE CON I LUPI
IL SEQUESTRO DEL PRINCIPE DELLE ASTURIE
A COSA VI RIFERITE QUANDO PARLATE DI VIOLENZA GRATUITA?
6 GENNAIO DEL 1975
22 APRILE 1976
23 APRILE 1976
TESTO DI UN GRUPPO CHE PARTECIPO’ AI GARI
LETTERE DALLA PRIGIONE
LETTERA DAL CARCERE DE LA SANTE’
NON SIAMO STATI NOI AD ASSASSINARE PUIG ANTICH
SECONDA LETTERA DALLA PRIGIONE DEGLI ACCUSATI DEL GARI
LETTERE DEI PRIGIONIERI DEI GARI DAL CARCERE SULLO SCIOPERO DELLA FAME
LETTERA DA FRESNES
LETTERA DALLA PRIGIONE DI SAINT-MICHEL
LETTERA DEI PRIGIONIERI PER UN NUOVO SCIOPERO DELLA FAME
LETTERA A UN GIUDICE APOLITICO E INDIPENDENTE
LETTERA DEI PREGIONIERI POLITICI DI LA SANTE’
Appndice
IL M.I.L. E LA RESISTENZA ARMATA IN SPAGNA
COMUNICATO PER GLI ARRESTI DOPO IL RILASCIO Dl SUAREZ. – N. 1
COMUNICATO PER GLI ARRESTI DOPO IL RILASCIO Dl SUAREZ. – N. 2
GRUPPI D’AZIONE RIVOLUZIONARIA INTERNAZIONALISTA COMUNICATO STAMPA DEI GRUPPI
AUTONOMI INVIATO A «LIBERATION»
DOCUMENTI RELATIVI ALL’ARRESTO Dl COMPAGNI DEL GARI
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pagine 124
formato 12×16,5 cm
1 copia 6 euro
dalle 4 copie 5 euro
spese di spedizione 1,50 euro piego di libri
pacco tracciabile 5 euro
per informazioni: tremendedizioni@canaglie.org
Riceviamo e diffondiamo questo breve video con stralci delle dichiarazioni di
Anan Yaeesh al processo de L’Aquila. Da brividi…
https://ilrovescio.info/wp-content/uploads/2025/04/VID-20250405-WA0018.mp4
Qui il pdf:
Luci da dietro la scena (XXV)
Uno scomodo rumore
Il mondo dei diritti individuali, delle frontiere aperte e del diritto
internazionale si sta allontanando rapidamente. Oggi, la recinzione statunitense
lungo il confine messicano, la pratica australiana di imprigionare i richiedenti
asilo su isole al di fuori del suo territorio, l’aperto incitamento rivolto da
un ministro degli Interni britannico ai nazionalisti inglesi di estrema destra e
la crescente ossessione di molti giovani uomini per il «genocidio bianco», la
«Grande Sostituzione» e altri scenari apocalittici prospettati all’inizio del
Ventesimo secolo, rendono crudelmente visibile il ritorno a casa del
suprematismo bianco nel cuore dell’Occidente moderno.
Il 7 ottobre il suo feroce atteggiamento difensivo si è infiammato, quando Hamas
ha distrutto, in modo definitivo, l’aura di invulnerabilità di Israele.
Quest’assalto a sorpresa da parte di persone che si presumeva fossero state
schiacciate rappresenta, per molte maggioranze bianche turbate e inorridite, la
seconda Pearl Harbor del Ventunesimo secolo, dopo l’11 settembre. E, come è già
successo, la percezione diffusa che il potere bianco sia stato pubblicamente
violato ha «scatenato», secondo le parole di John Dower, «una rabbia che rasenta
la furia genocida».
Nel tentativo di riconquistare la propria immagine di potenza attraverso un
bagno di sangue, Israele e i suoi sostenitori barcollano verso la «terribile
probabilità» delineata in passato da James Baldwin: che i vincitori della
storia, «lottando per mantenere ciò che hanno rubato ai loro prigionieri, e
incapaci di guardarsi allo specchio, scateneranno un caos nel mondo che, se non
porrà fine alla vita su questo pianeta, provocherà una guerra razziale di
dimensione che il mondo non ha mai visto». Abbiamo già assistito a Gaza – dopo i
milioni di morti evitabili nel corso della pandemia – a un’altra fase di quella
che l’antropologo sociale Arjun Appadurai chiama «una vasta correzione
malthusiana mondiale» che è «orientata ad approntare il mondo per i vincitori
della globalizzazione, senza il rumore scomodo dei suoi perdenti».
Non è esagerato affermare che raramente la posta in gioco etica e politica è
stata più alta.
L’abisso che abbiamo davanti
Gaza ha allungato l’ombra della Shoah su molte più persone della popolazione
ebraica mondiale. Nella storia moderna, è stato il destino di miliardi di
persone in tutto il mondo quello di vedere la pulsione di morte all’opera.
Rimarranno a lungo impressi nella loro memoria momenti isolati di un’orgia di
violenza bestiale: Sha’ban al-Dalou, uno studente di ingegneria di diciannove
anni, bruciato vivo, con una flebo attaccata al braccio, in uno dei tanti
ospedali bombardati da Israele; soldati israeliani, intervistati dalla CNN, che
affermano di «non riuscire più a mangiare carne» dopo avere schiacciato
centinaia di palestinesi sotto i bulldozer ed essersi accorti di come «tutto
schizza fuori». Imprimendo nella nostra coscienza la violenza gratuita delle
nostre società, un’offesa così incomprensibile è insanabile, come avvertiva
Primo Levi. Essa «pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come
sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come
rinuncia». E renderà più difficile l’urgente compito etico di connettere tra
loro le diverse storie di sofferenza, di esplorare insieme un passato di
catastrofi collettive, per orientarci verso le sfide di un futuro
inevitabilmente pluralista e il destino comune del cambiamento climatico.
Dopo aver assistito per diversi mesi a un feroce genocidio, con la
consapevolezza che è stato concepito, eseguito e approvato da persone molto
simili a loro, che lo hanno presentato come una necessità comune, legittima e
persino umana, milioni di persone adesso si sentono meno a casa nel mondo. Lo
shock di questa rinnovata esposizione a un male tipicamente moderno – il male
commesso nell’era premoderna solo da individui psicopatici e scatenato nel
secolo scorso da governanti e cittadini di società ricche e teoricamente
civilizzate – non può essere ignorato. Né può esserlo l’abisso morale che
abbiamo davanti.
Una scossa di consapevolezza etica
Il Ventesimo secolo – segnato dai conflitti più brutali e dai più grandi
cataclismi morali della storia – ha messo in luce i pericoli di un mondo in cui
non esisteva alcun vincolo etico su ciò che gli esseri umani potevano o osavano
fare. La ragione secolare e la scienza moderna, che avevano rimpiazzato la
religione tradizionale, non solo hanno rivelato la loro incapacità di legiferare
sulla condotta umana, ma hanno anche avuto un ruolo nelle nuove e più efficienti
modalità di sterminio impiegate a Auschwitz e Hiroshima. Il rispetto religioso
dei sani princìpi era in declino ovunque. Ma nei decenni di ricostruzione
successivi al 1945 è stato possibile, anzi imperativo, sperare che la malvagità
umana organizzata fosse largamente in ritirata. Si poteva quantomeno provare ad
aggrapparsi alla teologia laica negativa, il «mai più» adottato nelle
commemorazioni della Shoah, anche se fu spesso ripudiato, come in Cambogia,
Ruanda e nei Balcani.
Quella a cui siamo di fronte oggi è una rottura definitiva nella storia etica
globale dopo il Ground Zero del 1945; la storia in cui la Shoah era il
riferimento universale per indicare un tragico fallimento della moralità umana.
Da qualche tempo le immagini idealizzate che abbiamo dei nostri Paesi, siano
essi l’India, Israele, gli Stati Uniti o l’Europa, sono al collasso. Il mondo
come lo conoscevamo, modellato a partire dal 1945 dai beneficiati della
schiavitù, del colonialismo e del nazionalismo anticoloniale, si sta
sgretolando.
[…]
In Oriente così come in Occidente, nel Nord e nel Sud del mondo, siamo stati
chiamati a nuove lotte per la libertà, l’uguaglianza e la dignità e per creare
un mondo in cui ci sia meno miseria. Ma è stata proprio Gaza a spingere molti a
fare i conti con il profondo malessere delle loro società. È Gaza che ha
accelerato l’idea di un mondo decrepito che non ha più alcuna fiducia in se
stesso e che, preoccupato solo dell’autoconservazione, calpesta i diritti e i
princìpi che un tempo considerava sacri, ripudia ogni senso di dignità e onore,
e premia la violenza, la menzogna, la crudeltà e il servilismo.
Allo stesso tempo in cui provoca sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto,
Gaza diventa per molte persone impotenti la condizione essenziale della
coscienza politica ed etica del Ventunesimo secolo, proprio come lo è stata la
Prima guerra mondiale per una generazione in Occidente.
I crimini di Gaza e i numerosi atti di complicità e voluta indifferenza che li
hanno resi possibili hanno avuto un impatto più profondo tra i giovani nella
tarda adolescenza e nei ventenni. Al confine tra l’infanzia e l’età adulta,
hanno ricevuto una rapida e brutale formazione sulle barbarie della storia e su
come gli adulti che detengono il potere le giustificano: un’esperienza finora
del tutto estranea alla loro percezione collettiva. Mentre politici, burocrati,
uomini d’affari mentivano e insabbiavano, o fingevano di ignorare, i giovani
studenti si sono trovati ad affrontare in tempo reale un fenomeno sconvolgente
che gli storici dei genocidi affrontano retrospettivamente, e con cui sono
ancora alle prese […].
[…]
Scendendo in strada a protestare, i giovani hanno affrontato, soprattutto negli
Stati Uniti, la forza della condanna da parte della classe dirigente, che si
trattasse di rettori delle università che scatenavano la polizia militarizzata
contro di loro, di miliardari che cancellavano offerte di lavoro o di un
candidato alle presidenziali che prometteva di espellere i giovani stranieri.
[…]
Nel suo libro I sommersi e i salvati Primo Levi descrive Auschwitz come «il
microcosmo della società totalitaria» in cui «viene concesso generosamente il
potere a chi sia disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica,
conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile».
Levi poi devia inaspettatamente chiedendosi se «una vasta fascia di coscienze
grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure» sia peculiare di un
regime totalitario. Si chiede, pessimisticamente, se il collaborare dei nazisti
sia più simile a noi di quanto ci piaccia pensare, perché «anche noi siamo così
abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità
esistenziale». «Ovunque le persone aspiravano a un avanzamento di carriera»
conclude in modo simile Christopher R. Browning in Uomini comuni (1992), il suo
studio pionieristico su come persone addestrate a rispettare l’autorità e le
norme convenzionali dei propri simili perdano il senso di responsabilità
individuale e arrivino a partecipare alla violenza genocida.
Nella loro indifferenza verso gli avanzamenti di carriera e sfidando
l’establishment o a riformarsi o a schiacciarli, i manifestanti hanno dimostrato
un coraggio non comune. Rifiutando la complicità con istituzioni corrotte, hanno
espresso la necessaria fiducia nella capacità umana di resistere all’autorità
criminale e di riconoscere i deboli e solidarizzare con loro in ogni situazione.
Hanno avuto il coraggio di correre dei rischi in nome della libertà, della
dignità e dell’uguaglianza. Alla mentalità di autoconservazione passiva che
domina la vita politica e professionale, hanno opposto una formidabile sfida
morale con i loro atti di abnegazione personale.
Si ha sempre più l’impressione che per ripristinare la forza e la dignità della
coscienza individuale si possa confidare solo nelle persone in cui la catastrofe
di Gaza ha prodotto una scossa di consapevolezza etica.
(brani tratti da Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano, 2025)
Riceviamo e diffondiamo questo bel testo e questa bella notizia. Chi ce lo invia
ci manda anche queste righe, utili a contestualizzare l’occupazione:
«In Grecia la pratica dell’occupazione è uno strumento forte di lotta e di
presidio importante sul territorio ed è anche una pratica molto conflittuale
soprattutto di questi tempi, quindi la scelta di attuarla e la sua difesa sono
estremamente impegnative. Nasce da vari fattori, primo fra tutti il fatto che
l’università è stata chiusa al pubblico e l’asilo al suo interno non è più
riconosciuto, cose che hanno reso sempre più difficile il potersi organizzare e
incontrare a una realtà di movimento che contiene molti gruppi differenti.
Ad Atene, dopo gli sgomberi di Villa Amalia e Skaramaggà, non si è più riusciti
ad occupare uno spazio come movimento anarchico. Sì, ci sono state occupazioni
di palazzi per le persone migranti di passaggio in Grecia nel 2013 e dopo. Ma
nulla del genere. I differenti gruppi hanno scelto, il più delle volte, la forma
dello “steki” ovvero uno spazio in genere affittato, dove poter discutere ecc.
La zona di Exarchia, dove nasce questa nuova occupazione, non è più quel luogo
liberato, il presidio permanente 24 ore su 24 dei MAT ( squadre antisommossa) e
di ogni tipo di polizia, nella piazza centrale del quartiere, per proteggere
delle transenne che dovrebbero essere il perimetro degli scavi della nuova
metro, ha completamente militarizzato quel luogo di conflitto, scontro, incontro
e da sempre centro nevralgico per il movimento antagonista ateniese.»
Qui il testo impaginato: il silenzio delle metropoli
Titolo originale : Κάτω απ’ το τσιμέντο, κάτι βράζει
Rasprava Squat, 2025
SOTTO IL CEMENTO,
QUALCOSA RIBOLLE
Dopo la fine dell’evento “Memoria rivoluzionaria e prospettive della lotta” in
via Mesologgiou, una folla di compagni e compagne è scesa nelle vie di Koletti e
Themistokleo per difendere la liberazione di un edificio.
Di seguito la presentazione scritta dagli stessi occupanti:
Il silenzio della metropoli pesa come una pietra sulle nostre spalle. Le strade
sono piene di sguardi consumati, di corpi che strisciano per abitudine, per
paura, per sottomissione. Il mondo si muove lungo percorsi predeterminati, senza
interrogarsi, stemperando i sogni. Tutto è programmato per funzionare
esattamente come vogliono loro: lavoro, consumo, obbedienza. Eppure,
incessantemente, sotto la superficie, qualcosa ribolle.
La storia non è scritta dagli obbedienti. Alcuni scelgono di portare il peso
della disobbedienza. Di rompere il cemento della normalità, di affrontare la
mano invisibile del potere che soffoca ogni aspetto della nostra vita. Rifiutare
di sottomettersi non è una semplice presa di posizione. È una chiamata a mettere
in discussione, a rovesciare l’ esistente, a riprendersi ciò che è nostro.
Siamo compagni e compagne, anarchici e anarchiche che provengono da contesti
politici e ideologici diversi e che si sono trovati nello stesso fuoco di lotta.
E’ lì, che le nostre lotte comuni e le esperienze collettive ci hanno unito,
dove abbiamo riconosciuto la necessità vitale di creare uno spazio di incontro,
di agitazione politica1, di scambio di opinioni e potenziamento organizzativo.
In un momento in cui l’isolamento è imposto e le comunità in lotta vengono
smantellate dalla repressione, la formazione di questi spazi non è solo
necessaria, è cruciale.
Gli attacchi repressivi degli ultimi anni non sono arrivati a caso. Le autorità
stanno cercando di eliminare ogni focolaio di resistenza, di schiacciare ogni
forma di auto-organizzazione e di spegnere la fiamma della contestazione.
Grandi conquiste sono andate perdute, il movimento è stato messo sulla
difensiva, la recessione è ormai all’orizzonte. Ma sappiamo che la storia viene
scritta da chi non arretra, da chi non ha paura di confrontarsi con la realtà.
Rimanere sulla difensiva significa accettare la sconfitta. E questo non
accadrà..
È il momento di passare dalle parole ai fatti, di passare dalla difesa
all’attacco.
Facciamo capire al nemico che non si sbarazzerà di noi così facilmente.
Dobbiamo forgiare il nostro campo di lotta, reclamare il nostro spazio e il
nostro tempo.
Per liberare i territori dal dominio, creare un centro vibrante di resistenza,
una cellula radicale per la mobilitazione2 sia nella teoria che nell’azione.
Percepiamo l’occupazione come parte integrante del movimento e il movimento come
elemento organico dell’occupazione. L’esistenza di territori di lotta non è solo
una questione pratica, ma profondamente politica.
Gli squat non sono solo luoghi di ritrovo, non sono solo luoghi di ospitalità.
Sono roccaforti di resistenza, laboratori di pratiche radicali, crepe nella
normalità che cercano di imporci.
E questa realtà non è negoziabile.
Ogni quartiere, ogni strada, ogni piazza non è un terreno neutro.
È una mappa vivente di contraddizioni, conflitti e rivendicazioni.
Le città sono costruite sulla base della disciplina, della polizia e della
sterilizzazione dello spazio pubblico. Le piazze sono piene di telecamere di
sorveglianza, i muri sono dipinti di grigio, gli edifici diventano bastioni
inaccessibili per coloro che non possono permettersi di pagare il prezzo
dell’esistenza in un mondo in cui tutto ha un prezzo. Il dominio sta attuando un
piano strategico di controllo universale delle metropoli, schiacciando ogni
forma di resistenza.
Armato di una propaganda nera e da una guerra ideologica, cerca di plasmare le
coscienze, mentre spinge deliberatamente nel degrado interi quartieri
utilizzando la criminalità organizzata, che spiana la strada all’espulsione
violenta della popolazione locale e al completo assorbimento del territorio da
parte del capitale.
La repressione dello Stato agisce come una guardia armata per gli investitori,
le agenzie immobiliari divorano terreni, le case diventano merci, gli affitti
salgono alle stelle, gli spazi pubblici diventano sterili campi di sorveglianza
e uniformità di consumo.
Il flagello della gentrificazione e dell’imborghesimento sta inghiottendo le
città, agendo come meccanismo di assoggettamento e controllo sociale.
Exarchia, un quartiere che ha una storia vibrante di lotte, è nel mirino
dell’assalto statale e capitalista.
Lo Stato, da un lato, scatena ondate di repressione: gli squat vengono
sgomberati, la presenza della polizia viene rafforzata, gli spazi pubblici
vengono militarizzati. Dall’altro lato, il capitale saccheggia la memoria
collettiva assorbendo i simboli della resistenza e trasformandoli in merce
turistica. Le nostre sottoculture vengono forgiate e adattate a progetti
commerciali “alternativi”, mentre il quartiere viene modificato per servire
l’industria dell’intrattenimento e del “life-style”.
Non permetteremo che trasformino il luogo delle nostre lotte in un’altra
attrazione “ornamentale”. Per tutte queste ragioni, abbiamo fatto l’occupazione
nel quartiere storico di Exarchia.
Perché le sue strade non sono in vendita.
Perché le memorie non sono commercializzabili..
Perché le resistenze vive non diventino attrazioni turistiche, ma campi di
battaglia.
Gli squat possono certamente essere anche isole di resistenza nell’arcipelago
delle lotte, ma possono essere barricate. Sono spazi dove il dominio perde il
controllo, dove lo Stato cessa di essere il regolatore assoluto della vita. Sono
laboratori di lotta, punti di incontro, centri di auto-organizzazione e di
azione.
La cultura insurrezionale e rivoluzionaria non nasce da sola.
Si coltiva.
Si sviluppa negli scantinati, nelle piazze, nei luoghi di ritrovo, negli sguardi
che non si piegano, nei corpi che non accettano di essere disciplinati dal
nemico.
L’occupazione non è un evento isolato.
Ha la capacità di impegnarsi nella pratica della negazione, di ricordarci
costantemente che non siamo numeri nei registri dello Stato, non siamo
ingranaggi nella macchina della produzione, non siamo pedine sulla scacchiera
del potere.
Siamo qui per prenderci ciò che è nostro, per aprire crepe da cui scaturiranno
nuove possibilità.
Le circostanze ci lasciano quindi indenni per quanto riguarda la nostra
coscienza e pratica anarchica. Non vogliamo unirci al terrore che deriva dai
“tempi repressivi e avversi”. Siamo contro la retorica riformista, la cui
manifestazione è lo scadere del campo dell’azione nel conformismo politico, noi
siamo radicalmente per una rottura permanente e totale.
La nostra preoccupazione non è la repressione che è esistita e che esisterà
contro di noi, ma la scommessa continua con noi stessi, per evitare strategie
politiche che minacceranno un movimento e lo faranno passare nell’oblio
attraverso una presenza militante sempre più carente sia a livello di eventi che
di strutture.
Ci rendiamo conto che, come movimento, l’assenza di una cultura militante ci
indebolisce, ci rende vulnerabili e indifesi di fronte all’assalto del potere.
L’inazione equivale alla sconfitta.
Cerchiamo quindi, attraverso questo progetto, di costruire una solida base che
promuova la prospettiva rivoluzionaria/insurrezionale, che intensifichi la
minaccia contro i meccanismi oppressivi del presente e coltivi le coscienze
ribelli di domani.
Perché la rivolta non è uno schema teorico. È azione, è fermento3, è conflitto
costante.
PERCHÉ SCEGLIAMO E PROMUOVIAMO UNA CULTURA RIVOLUZIONARIA E INSURREZIONALE
(AZIONE DIRETTA)?
i. Perché è l’unico mezzo per uno scontro diretto con il nemico qui e ora. È la
pratica che crea il “punto d’inizio”, rompendo le catene della normalità e
consentendo ai soggetti di determinare il proprio destino.
ii. Perché, nella sua essenza, l’anarchia è una lotta costante per la libertà.
Non è uno slogan, non è una teoria, è un conflitto, è una prassi.
iii. Perchè le relazioni tra compagni/e non è un concetto astratto, ma relazioni
vive e non negoziabili tra militanti. Si forgiano nel fuoco della lotta, fianco
a fianco in ogni crisi, in ogni sconfitta, in ogni momento difficile. È lì che
ritroviamo il nostro io collettivo perduto.
iv. Perché spinge gli individui a superare i propri limiti, a spezzare le catene
della paura, a mettere in discussione l’impossibile.
v. Perché la violenza dell’azione diretta non è violenza casuale, ma una
decisione strategica.
L’espansione dell’azione rivoluzionaria, la generalizzazione del confronto
violento con le forze di potere, è necessaria per la demolizione dello Stato e
della struttura capitalistica e per la distruzione dei rapporti sociali di
oppressione.
Il dovere di ogni persona che lotta è quello di arricchire quotidianamente i
propri strumenti, sia a livello pratico che teorico, che la porteranno alla
realizzazione dei propri ideali. Richiede coraggio, rischio, immaginazione,
organizzazione, fede e coerenza. L’intenzione non basta, occorre la decisione.
Per queste ragioni l’apertura di questa occupazione rientra per noi in questa
direzione.
PER L’ANARCHIA
Insieme possiamo fare tutto, possiamo gettare via la visione della fine che
sembra così vicina.
Possiamo vivere come esseri umani orgogliosi e liberi.
Possiamo abbattere il muro e vedere una intera vita di gioia che ci aspetta!
Rasprava Squat
(Koletti and Themistocleous )
1(πολιτικής ζύμωσης nel testo originale, significa letteralmente fermentazione
politica), il dibattito teorico che avviene in uno spazio politico, sociale,
etc. che prepara il cambiamento di una situazione
2(εστία ζύμωσης, nel testo originale, significal letteralmente epicentro (punto
focale) di fermentazione)
3(Ζύμωση nel testo originale), il dibattito teorico che avviene in uno spazio
politico, sociale, etc. che prepara il cambiamento di una situazione nello
stesso contesto della nota nr.1.
Per quanto sia trascorso del tempo dall’udienza del processo “Sibilla”,
conclusasi peraltro con il “non luogo a procedere”, ci pare il caso di tenere
bene davanti agli occhi (e nel cuore) la dichiarazione pronunciata in
quell’occasione da Alfredo Cospito, ovvero le sue ultime parole uscite, al
momento, dalle tenebre del 41 bis. Un nostro compagno si trova tuttora in regime
di segregazione e tortura, non dimentichiamolo! Fuori Alfredo dal 41 bis!
Qui la dichiarazione di Alfredo:
dichiarazione-alfredo-cospito-15-gennaio-2025-volantino
Qui un racconto dell’udienza e le dichiarazioni degli altri compagni e compagne
al processo “Sibilla”:
https://ilrovescio.info/2025/01/19/questa-e-la-lebbra-che-chiamate-civilta-parole-vive-dalludienza-preliminare-dellop-sibilla/
Segnaliamo l’uscita del racconto di Giulio Berdusco, Storia di un gabbiano e del
drone che smise di volare, delle nuove edizioni Fuochi s’inverno.
Per richieste di copie (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a:
fuochidinverno@autistici.org
Qui potete ascoltare la lettura del
racconto: https://radioblackout.org/podcast/storia-di-un-gabbiano/
(Da ottobre 2024 Giulio Berdusco si trova detenuto nel carcere delle Vallette di
Torino. Dovrà scontare 4 anni e 3 mesi per un cumulo di condanne relative alla
giornata di lotta al Brennero del 2016 e agli scontri con la polizia avvenuti
qualche anno più tardi, a Rovereto, durante la contestazione a Salvini in tour
elettorale.)
Prefazione
Chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà
Stig Dagerman
Secondo l’interpretazione arendtiana, “azione” e “discorso” sono ciò che
cominciano, a fondamento di ciò che dà inizio al nuovo. Sono dunque atto di
affermazione della libertà, la quale, di conseguenza, evoca automaticamente la
possibilità del rischio. Per questo entrambe queste qualità che fanno di un
individuo un essere-nel-mondo richiedono coraggio, una virtù che «è praticamente
già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di
iniziare una propria storia». Azione e discorso – ma per essere più precisi
potremmo dire pensiero e azione – vivono dunque l’una dell’altro, si richiamano.
In alternativa si apre il sipario a quella spettacolarizzazione del pronunciato
che trasforma la parola in semplice strumento, uccidendo la cosa viva che le dà
significato; che la rende, appunto, ciò che può contenere il potenziale di
essere inter-azione. Un’attitudine, questa, che non solo va svanendo
implicitamente nell’èra della Tecnica, ma anche esplicitamente nell’atmosfera
repressiva che ci circonda.
Ecco perché le edizioni Fuochi d’inverno nascono già all’angolo. Vedono la luce
di già (e per nulla metaforicamente) dal buco di una serratura, la quale però
shakespearianamente («potrei essere rinchiuso nel guscio di una noce e tuttavia
ritenermi re di uno spazio infinito») ancora si apre sull’esistente.
Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che chi sta dietro alla cura e alla
pubblicazione di questo libretto, come di quelli che verranno, non è solito
scrivere di cose inventate. Per una serie di circostanze, e soprattutto per una
serie di scelte, ciò in cui le nostre vite si sono imbattute – lo dico per me
stesso, sapendo quasi per certo di poterlo dire anche per l’autore –, è stato un
accumularsi di esigenze diverse da quelle di cui possono essere espressione i
romanzi. Esigenze che hanno fatto (o hanno provato a fare) del connubio
pensiero-azione una questione imprescindibile. Dettate forse da qualcosa di
simile a quella che un pensatore di qualche decennio fa chiamava “filosofia
d’occasione”. Ma non è affatto detto che l’urgenza di esistere che sta dietro
anche a queste parole non possa trovare la sua espressione in forme diverse.
Il libretto che avete tra le mani, il primo racconto che viene dato alle stampe
dalle edizioni, è una storia semplice. Tanto semplice da riuscire a cogliere la
complessità del mondo: la Tecnica e la sua efficacia, l’industrialismo e il suo
progredire sopra corpi e menti, la politica e il suo privilegio, la natura e la
sua inarrestabile espressione di resistenza.
Non di meno, l’inizio di questo piccolo progetto è anche il frutto dell’esigenza
di colmare una distanza obbligata. Una distanza imposta a quella che, per chi
scrive, è qualche cosa di più di un’amicizia, un’affinità particolare di quelle
che forse, per l’appunto, si trovano solo nei romanzi.
Perché forse è vero che solo attraverso il cominciamento dell’azione anche la
vita inizia ad assumere le caratteristiche del romanzo. Che inizia ad uscire
dall’ordinario della logica dell’efficacia e della produzione, per diventare
qualcosa da scrivere, da inventare, da vivere fino all’ultima goccia.
Ottobre 2024
RB
Segnaliamo il libretto Tra la vita e la morte, prima uscita delle edizioni i
giorni e le notti.
Per richieste (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a:
navedeifolli@gmail.com
NOTA INTRODUTTIVA
Le pagine che avete tra le mani non hanno certo la pretesa di avere una qualche
funzione rivelatrice. Le idee che gli danno forma sono ispirate da riflessioni
ben più ampie e sviluppate fino al dettaglio. Qui, in una forma forse singolare
e probabilmente addirittura poco adatta a ciò che rappresenta l’urgenza del
presente, possono apparire quasi vivisezionate. Mi perdoneranno perciò gli
autori (per lo più defunti) delle opere fondamentali che hanno dato le note a
questo confuso e apparentemente irrazionale tentativo di racchiudere in qualche
riga pensieri che avrebbero la necessità di prendersi ben più ampio spazio. Ma
al di là di questo mi sembra utile sottolineare il fatto che quello che qui
vuole arrivare alla luce è non tanto una critica strutturata del sistema
tecnico, nel quale siamo ormai imprigionate e imprigionati in maniera quasi
totale, quanto piuttosto una ricerca necessaria di che cosa ci rende essere
umani e perché. Questo per un motivo semplice: le caratteristiche fondamentali
che ci rendono umani e quelle che costituiscono le basi del sistema sono del
tutto incompatibili. Andare alla ricerca dello sviluppo delle nostre
possibilità, caratteristiche in via di estinzione in favore di un nuovo concetto
di esistenza sponsorizzata come aumentata, significa di conseguenza considerare
seriamente le vie della rivolta. Non si faccia l’errore di credere che una
critica radicale all’incarcerazione tecnologica che avanza si nutra di un
conservatorismo bigotto, del tipo “tutte le rivoluzioni della scienza sono state
viste dai loro contemporanei con diffidenza, come un attacco alle proprie
certezze”. La paura del cambiamento qui non c’entra nulla, anzi, al contrario, è
la certezza di un vecchio che ritorna ad animare la necessità di combattere il
Mondo Nuovo. Il fatto che la realtà possa essere “aumentata” solamente al prezzo
della diminuzione della vita. E che il procedere tecnico dell’organizzazione
sociale non è affatto composto di scelte individuali (se per esempio decido di
non possedere uno smartphone non significa affatto che io possa ritenermi
estraneo alle sue influenze sociali) ma si impone a tutti i viventi, se pur in
maniera differente in base alla classe, al genere, alla specie… Oltre,
indubbiamente, ad una sorveglianza sempre più pervasiva, è di queste imposizioni
tacite che oggi vive una parte significativa del potere; di quelli che Ivan
Illich aveva puntualmente definito «monopòli radicali», o che Günther Anders
descriveva come «obblighi e divieti segreti».
È ovvio che certe “utopie” transumaniste, come quella di raggiungere
l’immortalità (la cui via più probabile ad oggi sembra essere, in parole povere,
quella del backup di ciò che viene definito coscienza di sé su un disco rigido)
siano per ora fuori portata. Ma è l’immaginario che vi sta dietro che deve
essere preso sul serio, perché l’idea di una razza superiore, prodotto anche di
un darwinismo sociale che sta alla base storica dell’eugenetica, è del tutto
viva e dominante. L’idea stessa che motiva i dominatori a costituire niente meno
che una nuova religione, animata dalla prospettiva di un’interazione
uomo-macchina sempre più consolidata, deve essere riportata nella realtà dalle
espressioni di un ateismo di nuovo tipo. Oggi, mentre il pianeta che abitiamo
viene quotidianamente violentato e milioni di proletari muoiono sotto le bombe
della civiltà non solo per motivazioni politiche, ma anche di territorio e di
conquista di quelle materie che sono necessarie al complesso
scientifico-militare-industriale, la upper class tecnocratica «spende milioni di
dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con
l’idea di vivere fino a 120 anni».
Per questo forse le carte che abbiamo da giocare non sono rimaste molte, ma tra
queste, ancora per qualche mano, resta l’asso che può lasciare attònito il
banco: le profonde ragioni di vita per cui non abbiamo alcuna intenzione di
farci strappare le qualità che ci rendono esseri umani unici, ognuno e ognuna di
noi. La nostra naturale capacità di essere imprevedibili, di sorprenderci e di
sorprendere, di prendere in mano la vita e di scagliarla con tutta la forza che
abbiamo in corpo contro chi la vuole rendere una sua proprietà. L’inafferrabile
«possibilità che ci rende più liberi degli dèi» dalla quale, come recita un
folgorante libretto anonimo di qualche anno fa, possono nascere le ragioni «per
andare armati all’assalto di un ordine che ci soffoca».
Dicembre 2024
Rupert
Riceviamo e diffondiamo la notizia di questa pubblicazione, con un interessante
brano dell’introduzione di che da un lato ripercorre la vicenda del compagno
Marcelo Villaroel, e dall’altra mostra come il modello di segregazione e tortura
del 41 bis italiano sia guardato con sempre più interesse da diversi Stati
dell’Occidente globale:
Qui la presentazione del libro in pdf: kl web
È uscito il libro “Alcuni scritti su Kamina Libre, identità irriducibili di una
lotta anticarceraria”. Il libro, nato dalla tesi di laurea del compagno
prigioniero Francisco Solar e poi ampliato, racconta l’esperienza del collettivo
di prigionieri Kamina Libre nato nel 1995 nel carcere di Santiago del Cile, che
per anni ha portato avanti uno scontro permanente all’interno del Carcere di
Alta Sicurezza (CAS) cileno fino ad ottenere il “ritorno in strada” di tutti i
suoi membri. La prima presentazione è avvenuta all’interno della sedicesima
Tatoo Circus benefit per prigionier* a El Paso (Torino). Nella discussione di
sabato 15 l’esperienza di lotta del Kolektivo Kamina Libre tra gli anni Novanta
e i Duemila nelle carceri cilene è stata messa a confronto con altre esperienze
di lotta dei/delle detenuti/e, come la COPEL in Spagna negli anni Settanta, per
riflettere da differenti prospettive sull’autorganizzazione dei/delle
prigionieri/e e sul rapporto dentro-fuori dalle mura del carcere. Perché parlare
di Kamina Libre oggi? Come espresso da Francisco nella sua prefazione al testo
“l’esperienza di Kamina Libre ci mostra l’importanza di portare avanti un
atteggiamento combattivo in carcere, di portare avanti in modo autonomo giornate
di lotta al suo interno, così come di generare legami di complicità con ambienti
solidali, sostenendo una pratica reale di attacco. Scrivere oggi di Kamina Libre
significa parlare di scontro e autonomia”.
Dall’introduzione italiana:
Identità irriducibili. Contributo alla traduzione italiana
Oggi attraversiamo un momento cruciale della situazione giuridica del compagno
Marcelo Villarroel Sepúlveda nelle carceri cilene, da qualche mese è iniziato un
ricorso per cercare di annullare le condanne inflitte dalla giustizia militare
durante il periodo di Pinochet che persistono sul compagno.
Marcelo fu arrestato per la prima volta nel novembre 1987, all’età di 14 anni,
accusato di aver svolto attività di propaganda armata contro la dittatura
all’interno di un liceo di Santiago e per la sua militanza nel MAPU-LAUTARO,
un’organizzazione politico-militare marxista-leninista attiva contro la
dittatura di Pinochet e nella successiva transizione democratica. Nel 1992 venne
di nuovo arrestato dopo due anni di clandestinità nei quali fu ricercato sempre
per la sua militanza nel MAPU-LAUTARO, che intanto, dopo la fine della dittatura
di Pinochet nel 1990, aveva deciso di continuare la lotta armata “contro il
riposizionamento capitalista mascherato da democrazia”. L’operazione
antiterrorismo coinvolse trenta agenti e culminò in uno scontro armato che
procurò a Marcelo tre ferite di arma da fuoco. Nel 1994 fu inaugurato in Cile il
regime di alta sicurezza nel quale Marcelo fu trasferito insieme ad altri 33
prigionieri. In questo primo periodo di detenzione a partire dal 1995 prese
parte al Kolektivo Kamina Libre. Successivamente è stato accusato di aver preso
parte alla rapina al Banco Santander del settembre 2007 a Valparaíso e alla
rapina al Banco Security dell’ottobre 2007 a Santiago, durante la quale l’agente
Luis Moyano è morto in una sparatoria. Dopo un periodo di clandestinità, Marcelo
fu arrestato il 15 marzo 2008 insieme a Freddy Fuentevilla a Neuquen, in
Argentina. Furono poi estradati in Cile il 15 dicembre 2009. Il 2 luglio 2014 il
tribunale cileno lo ha condannato a 14 anni di carcere per le due rapine,
successivamente si sono poi aggiunte altre accuse, arrivando a un totale di 46
anni di carcere:
-Associazione terroristica: 10 anni e 1 giorno.
-Danneggiamento di un’auto della polizia con gravi lesioni ai carabinieri: 3
anni + 541 giorni.
-Coautore dell’omicidio qualificato come terrorista: 15 anni e 1 giorno.
-Furto con intimidazione, legge 18.314: 10 anni e 1 giorno.
-Attentato esplosivo contro l’ambasciata spagnola: 8 anni.
Lo Stato, i suoi meccanismi ideologici e il capitale tentano ancora una volta di
seppellire le fila del movimento combattente, di fare calare il silenzio sui
contenuti politici, le scelte di lotta e i decenni di tradizione rivoluzionaria.
Compagni in ogni dove (Cile, Italia, Grecia, Spagna ecc…) hanno dedicato, oggi
come ieri, la loro vita alla lotta contro l’oppressione per costruire un mondo
di uguaglianza e libertà, assumendosi le responsabilità e compiendo scelte che
hanno portato alla prigionia o alla morte, dando anima, corpo e pensiero alla
causa rivoluzionaria. Tali scelte sono parte integrante di una continuità
storica insurrezionale che mantiene viva nei nostri cuori e nelle menti la
visione della rivoluzione sociale.
Esportare l’isolamento
Già da fine Ottocento le polizie europee stavano cercando un coordinamento per
reprimere il movimento anarchico (le leggi antianarchiche approvate a partire
dal 1890 in vari Stati europei e la sistematizzazione della pratica della
schedatura politica prendendo a modello la polizia asburgica ne sono un
esempio), oggi siamo davanti a una vera e propria globalizzazione della
repressione e della controrivoluzione. In questo contesto di coordinamento
repressivo tra Stati, l’Italia si sta ponendo come modello nella
differenziazione carceraria e nell’isolamento dei prigionieri. Soltanto
nell’ultimo anno le democrazie francese e cilena hanno avviato interlocuzioni
con i professionisti dell’antimafia e dell’antiterrorismo italiani per esportare
nei loro paesi, entrambi attraversati negli ultimi anni da un forte livello di
conflittualità sociale, il modello del 41bis.
“Al mattino il Ministro Darmanin e la delegazione sono stati ricevuti alla casa
circondariale di Roma Rebibbia dalla capo Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria facente funzioni, Lina Di Domenico, e guidati dal Direttore del
Gom – Gruppo operativo mobile, hanno visitato la sezione destinata ai detenuti
sottoposti al regime del 41bis. […] A seguire, hanno incontrato il Procuratore
Nazionale antimafia, Giovanni Melillo, presso Palazzo Farnese, sede
dell’ambasciata di Francia.”[1]
Secondo le dichiarazioni di Darmanin la prima struttura di alta sicurezza
ispirata al modello italiano dovrebbe essere completata a fine luglio 2025, con
almeno altre due a seguire negli anni successivi. Se in Francia il 41bis è
tornato solo oggi un tema della discussione politica nazionale, giustificato
anche in questo caso dalla lotta alle mafie e al narcotraffico[2], da oltre un
anno nel nuovo Cile democratico di Boric è in corso un dibattito
sull’opportunità di implementare il regime del 41-bis, nel contesto più ampio di
una riforma della gendarmeria e del regime penitenziario. Per il procuratore
nazionale cileno Angél Valencia “È importante guardare all’esperienza italiana,
gli italiani hanno ottimizzato i loro sforzi per combattere la criminalità
organizzata, hanno creato nuove carceri rispettando gli standard europei sui
diritti umani”[3]. Nel settembre 2024 l’ambasciata d’Italia a Santiago ha
organizzato un incontro per presentale alla Corte costituzionale cilena il
modello del 41-bis e la sua storia[4], tenuto dal Professor Antonello Canzano
dell’Università Roma Tre il quale ha sottolineato come la sua genesi si trovi in
ben trent’anni di storia repressiva dello Stato italiano.
“Questo quadro non è il risultato di un singolo intervento, ma di una graduale
evoluzione normativa nel corso di 30 anni, continuamente adattata in base alla
sua efficacia”, ha affermato il professore durante la sua esposizione in Aula,
al termine della quale si è generato un interessante dialogo in chiave comparata
a cui hanno partecipato anche i ministri Miguel Ángel Fernández, Nancy Yáñez,
Héctor Mery e Marcela Peredo. Ampia attenzione è stata dedicata al cosiddetto
“modello italiano” di lotta al crimine organizzato, di cui parte integrante
rappresenta il regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis
dell’ordinamento penitenziario italiano, volto a neutralizzare la possibilità
che gli autori di reati più gravi, soprattutto legati alla criminalità
organizzata, possano condurre attività illecite dal carcere.”[5]
La visita di Canzano in Cile, lungi dall’essere un evento isolato è stata
preceduta pochi mesi prima da quella del magistrato Giovanni Tartaglia Polcini,
Consigliere del Ministero degli affari Esteri e vicedirettore del programma
europeo EL PACCTO 2.0[6], il programma europeo di cooperazione con il Sud
America per la lotta alla criminalità organizzata, non a caso con L’Italia come
paese coordinatore. Degna di menzione è anche la nuova legge antiterrorismo
cilena approvata a inizio febbraio 2025, più “moderna, efficace e democratica”
che andrà ad ampliare il reato di associazione terroristica, permettendo la
detenzione anche in assenza di reati specifici per chi all’occorrenza ne sarà
considerato membro o anche solo “finanziatore” di un’associazione terroristica,
andando a colpire in maniera più efficace anche la solidarietà fatta di benefit
per i prigionieri.
L’inasprirsi delle tensioni internazionali, sociali e politiche dovute alla
tendenza alla guerra e alle contraddizioni insite a questo sistema capitalista
richiedono agli Stati un’azione sempre più preventiva, una contro-insurrezione
in assenza di insurrezione, per garantire la tenuta del fronte interno in un
periodo storico in cui il recupero delle lotte da parte dello Stato portato
avanti tramite welfare e piccole concessioni non è ormai più sostenibile. Il
carcere distilla “la quintessenza delle pratiche repressive legate alla
ristrutturazione sociale e politica, in forme più palesemente autoritarie
(quelle più asettiche dell’UE e quelle più becere dei sovranismi nazionali sono
equivalenti da questo punto di vista, si vedano le politiche antimmigrazione e
la propaganda di guerra in corso) in un occidente che ancora non si capacita di
essere in piena crisi e cerca con una mano di arginare con manie securitarie le
falle di una nave che affonda e con l’altra di arraffare quanto più possibile
per riempirsi le tasche prima del naufragio.”[7] È in questo contesto che la
guerra sul fronte interno si allarga e accelera il consolidamento di un diritto
penale del nemico, con gli ultimi sviluppi repressivi come il DDL 1660 in Italia
il quale prevede l’introduzione del reato di “terrorismo della parola”, fino ad
ora non codificato ma comunque utilizzato nelle varie operazioni repressive
contro la stampa anarchica come Sibilla e Scripta Scelera. Il DDL 1660 non si
risparmia inasprimenti di pena anche sul fronte del carcere, aumentando le pene
per rivolte e prevedendo un’aggravante per il reato di “istigazione a
disobbedire alle leggi” se il fatto è commesso “all’interno di un istituto
penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone
detenute”[8].
I regimi di alta sorveglianza e di isolamento diffusi nel mondo, con apice nel
41bis, puntano a rompere la solidarietà tra il dentro e il fuori del carcere e
tra gli stessi prigionieri attraverso la differenziazione carceraria, anche per
questo riteniamo che sia importante tornare a riflettere sulle esperienze di
chi, come il Kolektivo Kamina Libre, sia sotto la dittatura, sia nel periodo di
transizione alla democrazia, ha continuato a lottare sia all’esterno che
all’interno del carcere contro l’oppressione e per una società radicalmente
diversa, rompendo la divisione dentro/fuori per ottenere il ritorno in strada
dei suoi membri, ma anche inserendosi, con le riflessioni sui prigionieri
sociali, in un dibattito che in quegli anni sembrava schiacciato
dall’opposizione prigionieri comuni versus prigionieri politici.
Marcelo Villarroel in strada!
Tuttx liberx!
Indice:
-Identità irriducibili
-Intervento di Claudio Lavazza per l’edizione in italiano
-Nota delle Ediciones Abandijas
-Come prologo
-Prologo II
-Introduzione
-Antecedenti generali
-Organizzazione ed espressione nel carcere di alta sicurezza
-L’uso del corpo come simbolo di espressione
-Conclusioni
-Allegati
La gabbia d’oro
Gli echi delle eliche
Pensando, pensando
La lotta dentro e al di fuori
Intervista a Kamina Libre
Detenuti sociali
-Alcuni poster e immagini
-Bibliografia
-Qualche domanda a Marcelo Villarroel
-Poche parole su Edizioni El Buen Trato
-Contributo di Marcelo Villarroel alle Edizioni El Buen Trato
Totale 210 pagine
Per contatti: presospolitico@anche.no
[1]
https://ambparigi.esteri.it/it/news/dall_ambasciata/2025/02/italia-francia-nordio-incontra-lomologo-darmanin-3-febbraio/
[2]
https://www.lefigaro.fr/actualite-france/gerald-darmanin-justifie-les-prisons-haute-securite-pour-les-narcotrafiquants-pour-affirmer-l-autorite-de-l-etat-20250203
[3]
https://www.emol.com/noticias/Nacional/2024/04/22/1128642/carcel-italianas-modelo-chile-crimen.html
[4]
https://ansabrasil.com.br/english/news/news_from_embassies/2024/09/06/italy-and-chile-united-in-the-fight-against-organised-crime_3ef7f9a4-9206-42ac-9a7b-3d89dad8b577.html
[5]
https://ambsantiago.esteri.it/it/news/dall_ambasciata/2024/09/lambasciatrice-valeria-biagiotti-e-il-professor-antonello-canzano-in-visita-protocollare-al-tribunale-costituzionale/
[6]
https://iila.org/it/al-via-la-seconda-fase-del-programma-el-paccto-di-lotta-alla-criminalita-organizzata-transnazionale-panama-11-13-marzo-2024/
[7]
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/02/03/anna-beniamino-fisiopatologia-del-mostro-carcerario-veleni-e-antidoti-ottobre-2024/
[8] Opuscolo “Lo Stato è guerra. Il Fronte interno della guerra. Diritto penale
del nemico”