Tag - Stato di emergenza

Milano, 10 giugno: Presidio al tribunale in solidarietà ai processati per la manifestazione dell’11 febbraio 2023
Riceviamo e diffondiamo: PRESIDIO AL TRIBUNALE PER LA SENTENZA DEL PROCESSO PER IL CORTEO DELL’11 FEBBRAIO CONTRO IL 41 BIS Martedì 10 giugno ci sarà la sentenza del processo per il corteo dell’11 febbraio. Le richieste di pena per imputati e imputate vanno dai 6 mesi a 6 anni, con le accuse di resistenza aggravata (anche in concorso morale), travisamento, lancio di oggetti e concorso morale in danneggiamento. Per un anno lo sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo ha dato luogo a centinaia di iniziative e mobilitazioni e quel corteo è avvenuto contestualmente al ricovero in ospedale di Alfredo. La determinazione e la forza di chi per mesi ha lottato contro il 41 bis ora è sotto processo, qua come altrove, con richieste di pena allucinanti, nel tentativo di reprimere la forza che quelle mobilitazioni hanno espresso. Martedì abbiamo deciso di trovarci alle h.11 in presidio davanti al tribunale di Milano (ingresso di corso Porta Vittoria), in solidarietà ai nostri compagni e compagne! Per un mondo senza galere Libertà per tutti/e!
Iniziative
Stato di emergenza
Violenza poliziesca a Venezia. Compagno fermato, vessato e picchiato dalla Polizia locale
Riceviamo e diffondiamo, tutta la nostra solidarietà al compagno: COME È MISERA LA VITA NEGLI ABUSI DI POTERE Venerdì 30 maggio, finita l’assemblea antimilitarista in campo san Giacomo, la situazione si è trasformata in un momento di socialità dal basso, andando avanti fino alle 23.30(!), quando due agenti in borghese della polizia locale sono arrivati per fare spegnere la musica. Hanno poi iniziato a seguire un gruppo di compagne e compagni, per poi chiamare i rinforzi. Al loro arrivo, in 8 poliziotti hanno preso, sbattuto a terra, immobilizzato, ammanettato e menato un compagno mentre lo portavano via verso la sede della polizia locale al Tronchetto. Qua dentro, è stato tenuto svestito al freddo per più di un’ora. Una volta uscito verso le 2.30, il compagno aveva la schiena piena di lividi per le botte ricevute, ed è stato indagato per reati di resistenza, minacce, oltraggio e aggressione, scelti “a tavolino”. Oltre che esprimere la più totale solidarietà e vicinanza al compagno, è evidente l’accanimento, il controllo e la repressione nei confronti di compagni attivi nelle lotte e contro tutte quelle situazioni che vogliono interrompere la normalità. Il clima di strapotere della polizia locale si è costruito negli anni e oggi posiziona le forze dell’ordine come padroni della città, la cui violenza è normale e giustificata. Questo visto il loro ruolo di gestione della smart control room e del ticket d’accesso, che li ha fatti diventare il braccio armato del sindaco. Sono proprio smart control room e ticket d’accesso – gestiti principlamente dalla polizia locale – quei dispositivi utilizzati per creare una retorica di difesa della città contro degrado e comportamenti antisociali (tanto che nella smart control room ci sono sei celle di detenzione) che tradotti nella pratica significano brutalità e violenza poliziesca, come quanto successo venerdì sera al compagno. Non importa quanto ci provino: ingiustizie come queste non fanno altro che accendere ulteriormente i nostri animi. Siamo pronti a tornare in piazza e lottare perché siamo sempre stati e sempre resteremo dalla parte giusta della storia. Quella degli oppressi.
Stato di emergenza
Trento: lo sciopero per la Palestina stana il “magnifico rettore” Deflorian
In occasione dello sciopero generale contro la guerra e in solidarietà con gli oppressi palestinesi,  proclamato da alcuni sindacati di base in tutta la Provincia di Trento per lo scorso venerdì 30 maggio, nella mattinata dello stesso venerdì si è svolta a Trento una partecipata e vivace manifestazione, conclusasi sotto il Rettorato di via Calepina con numerosi interventi (anche da parte di studenti medi e universitari e di una ricercatrice) che esigevano, in particolare, l’immediata interruzione delle collaborazioni tra l’Università di Trento e gli atenei israeliani, e la fine di ogni ricerca bellica o funzionale alla guerra. Che a esprimersi contro le complicità di UniTn e Fondazione Bruno Kessler con guerra, colonialismo e genocidio non siano state solo delle presunte “frange minoritarie”, deve aver molto infastidito la dirigenza universitaria, tant’è che dopo 20 mesi di contestazioni anche interne all’ateneo e di silenzio quasi ininterrotto da parte dei contestati, il “magnifico rettore” Flavio Deflorian prende finalmente la parola (e coglie l’occasione per dare di “fascisti” ai suoi contestatori). Di seguito l’intervento del cosiddetto Magnifico e la puntuale replica dei sindacati di base che hanno chiamato lo sciopero, e che adesso sfidano il rettore a un confronto pubblico. https://mag.unitn.it/editoriali/121400/per-la-palestina-e-l-antifascismo https://www.agenziagiornalisticaopinione.it/opinionews-tn-aa/cub-e-sbm-trento-replica-al-rettore-unit-deflorian-noi-la-riteniamo-moralmente-complice-del-primo-genocidio-automatizzato-della-storia-dellumanita/#google_vignette
Rompere le righe
Stato di emergenza
Un tuono contro il genocidio. Parole del vendicatore Elias Rodriguez
Ringraziando chi l’ha fatta e ce l’ha inviata, riceviamo e diffondiamo la traduzione del messaggio diffuso prima dell’azione e dell’arresto da parte di Elias Rodriguez, il compagno che lo scorso mercoledì, 21 maggio 2025, a Washington, ha deciso di agire contro il primo genocidio della storia trasmesso in mondovisione. Parole belle e commoventi come possono esserlo solo quelle di chi, contro l’ingiustizia, decide di giocarsi tutto. Qui il testo originale: https://www.kenklippenstein.com/p/the-israel-embassy-shooter-manifesto   20 maggio 2025 Halintar è una parola che significa qualcosa come tuono o lampo. Dopo un atto, le persone cercano un testo che ne definisca il significato, quindi ecco un tentativo. Le atrocità commesse dagli israeliani contro la Palestina sfidano ogni descrizione e ogni quantificazione. Invece di leggere le descrizioni, per lo più le osserviamo svolgersi in video, a volte in diretta. Dopo alcuni mesi di rapido aumento del numero delle vittime, Israele ha perso la capacità di continuare a contare i morti, il che ha giovato al suo genocidio. Al momento in cui scrivo, il ministero della Salute di Gaza registra 53.000 morti per forza traumatica, almeno diecimila giacciono sotto le macerie e chissà quante altre migliaia di morti per malattie prevenibili, fame, con decine di migliaia di persone ora a rischio di una carestia imminente a causa del blocco israeliano, il tutto favorito dalla complicità dei governi occidentali e arabi. L’ufficio informazioni di Gaza include le diecimila persone sotto le macerie insieme ai morti nel proprio conteggio. Nei notiziari, quei “diecimila” sotto le macerie compaiono ormai da mesi, nonostante il continuo accumulo di macerie e i ripetuti bombardamenti, oltre al bombardamento di tende tra le macerie. Come il bilancio delle vittime in Yemen, congelato per anni a poche migliaia sotto i bombardamenti sauditi, britannici e statunitensi, prima che fosse tardivamente rivelato che era in realtà di 500.000 morti, tutte queste cifre sono quasi certamente una sottostima criminale. Non ho difficoltà a credere alle stime che fissano il bilancio a 100.000 o più. Da marzo di quest’anno sono state assassinate più persone che in “Margine Protettivo” e “Piombo Fuso” messi insieme. Che altro si può dire, a questo punto, della proporzione di esseri umani mutilati, ustionati ed esplosi che erano bambini? Noi che abbiamo permesso che ciò accadesse non meriteremo mai il perdono dei palestinesi. Ce lo hanno fatto ben sapere. Un’azione armata non è necessariamente un’azione militare. Di solito non lo è. Di solito è teatro e spettacolo, una qualità che condivide con molte azioni disarmate. Le proteste non violente nelle prime settimane del genocidio sembravano segnare una sorta di punto di svolta. Mai prima d’ora così tante decine di migliaia di persone si erano unite ai palestinesi nelle strade di tutto l’Occidente. Mai prima d’ora così tanti politici americani erano stati costretti ad ammettere che, almeno retoricamente, anche i palestinesi erano esseri umani. Ma finora la retorica non ha prodotto molto. Gli stessi israeliani si vantano del proprio shock per la mano libera che gli americani hanno dato loro per sterminare i palestinesi. L’opinione pubblica si è rivoltata contro lo stato di apartheid genocida, e il governo americano ha semplicemente scrollato le spalle: allora faranno a meno dell’opinione pubblica, la criminalizzeranno dove possono, la soffocheranno con blande rassicurazioni sul fatto che stanno facendo tutto il possibile per frenare Israele laddove non può criminalizzare apertamente le proteste. Aaron Bushnell e altri si sono sacrificati nella speranza di fermare il massacro e lo Stato si impegna a farci credere che il loro sacrificio sia stato vano, che non c’è speranza di un’escalation per Gaza e che non ha senso riportare la guerra a casa. Non possiamo permettergli di avere successo. I loro sacrifici non sono stati vani. L’impunità che i rappresentanti del nostro governo provano nel favorire questo massacro dovrebbe quindi essere smascherata come un’illusione. L’impunità che vediamo è la peggiore per chi di noi si trova nelle immediate vicinanze dei responsabili del genocidio. Un chirurgo che ha curato le vittime del genocidio Maya perpetrato dallo stato guatemalteco racconta di un episodio in cui stava operando un paziente gravemente ferito durante un massacro quando, all’improvviso, uomini armati sono entrati nella stanza e hanno sparato al paziente sul tavolo operatorio, uccidendolo a colpi d’arma da fuoco, ridendo mentre lo uccidevano. Il medico ha affermato che la cosa peggiore è stata vedere gli assassini, a lui ben noti, pavoneggiarsi apertamente per le strade locali negli anni successivi. Altrove, un uomo di coscienza tentò una volta di gettare in mare Robert McNamara da un traghetto diretto a Martha’s Vineyard, indignato per la stessa impunità e arroganza che aveva visto in quel macellaio del Vietnam mentre sedeva nella sala d’attesa del traghetto a ridere con gli amici. L’uomo contestò “la postura stessa di McNamara, che ti diceva: ‘La mia storia è a posto, e posso anche starmene accasciato su un bancone come questo con il mio caro amico Ralph qui presente, e tu dovrai buttarlo giù'”. L’uomo non riuscì a buttare McNamara in acqua da una passerella; l’ex Segretario di Stato riuscì ad aggrapparsi alla ringhiera e a rimettersi in piedi, ma l’aggressore spiegò il valore del tentativo dicendo: “Beh, l’ho portato fuori, solo noi due, e improvvisamente la sua storia non era più così a posto, vero?” Una parola sulla moralità delle manifestazioni armate. Chi di noi è contrario al genocidio si compiace di sostenere che autori e complici abbiano perso la loro umanità. Condivido questo punto di vista e ne comprendo il valore nel lenire la psiche che non sopporta di accettare le atrocità a cui assiste, nemmeno mediate attraverso lo schermo. Ma la disumanità si è da tempo dimostrata scandalosamente comune, banale, prosaicamente umana. Un autore può quindi essere un genitore amorevole, un figlio devoto, un amico generoso e caritatevole, un amabile sconosciuto, capace di forza morale quando gli conviene e a volte anche quando non gli conviene, e tuttavia essere un mostro. L’umanità non esime nessuno dalla responsabilità. Un’azione del genere sarebbe stata moralmente giustificata se intrapresa 11 anni fa durante “Margine Protettivo”, più o meno nel periodo in cui sono diventato personalmente consapevole della nostra brutale condotta in Palestina. Ma penso che per la maggior parte degli americani un’azione del genere sarebbe stata illeggibile, sarebbe sembrata folle. Sono contento che almeno oggi ci siano molti americani per i quali questa azione sarà estremamente comprensibile e, in un certo senso, l’unica cosa sensata da fare. Vi amo mamma, papà, sorellina, il resto della mia famiglia, incluso te, O***** Palestina libera Elias Rodríguez
Stato di emergenza
Per Vakhtang e gli altri, chiudere tutti i CPR! Mobilitazione a Gorizia e Gradisca il 23 maggio
Riceviamo e diffondiamo: Per Vakhtang e tutti gli altri: Chiudiamo tutti i CPR – 23 maggio 2025 VENERDÌ 23 MAGGIO     ore 14 – PRESIDIO AL TRIBUNALE DI GORIZIA – Via Nazario Sauro 1     ore 18 – PRESIDIO AL CPR DI GRADISCA D’ISONZO – davanti al CARA Il prossimo venerdì 23 maggio si terrà al tribunale di Gorizia una nuova udienza del processo per la morte, nel gennaio 2020, di Vakhtang Enukidze, trentasettene di origine georgiana allora prigioniero nel cpr di Gradisca. Come già ricordato, il processo vede giudicati per omicidio colposo Simone Borile, allora capo della cooperativa Ekene (che gestisce tuttora il CPR di Gradisca) e l’allora centralinista del centro, Roberto Maria La Rosa. Indipendentemente dai suoi esiti, nessun processo in nessun aula di tribunale potrà fare alcuna “giustizia” né stabilire alcuna altra verità o “versione dei fatti”, come piace scrivere a chi è pagato per fare da megafono alla voce degli amministratori dell’ordine. La vicenda di Vakhtang è paradigmatica del normale funzionamento dei lager di stato, come anche di tutte le carceri del circuito penale. Il 14 gennaio del 2020 Vakhtang litiga con un suo compagno di cella, una decina di agenti in tenuta antisommosa entra e si accanisce su di lui. Vakthang verrà violentamente pestato, includendo almeno un colpo sulla nuca e una ginocchiata sulla schiena. Subito dopo viene trascinato dai piedi e portato in prigione da dove, due giorni dopo, viene riportato nel CPR e, come racconteranno più tardi i suoi compagni di prigionia, il suo stato in quel momento è critico, riuscendo a malapena a tenersi in piedi. Disperato, grida dalla cella chiedendo un medico, rimanendo completamente inascoltato, come dal resto avviene quotidianamente nei CPR – ed esaurisce man mano le sue energie. A un certo punto smette di lamentarsi. Durante la notte, cade dal letto, senza alzarsi più. La mattina dopo, i suoi compagni di cella lo trovano incosciente. Viene allora portato in ospedale – per la prima volta dal pestaggio – dove morirà poche ore dopo. Dal primo momento, nonostante i tentativi di depistaggio e insabbiamento, le testimonianze uscite dal CPR sono state chiare: Vakhtang è morto di stato, per mano dello stato. Così è stato rinaugurato il CPR di Gradisca d’Isonzo e ha continuato a produrre morte e tortura. I campi per le deportazioni, come le carceri, costituiscono l’apice della piramide del sistema di oppressione e monito nei confronti dei cosiddetti liberi. Ma guardare alle singole prigioni come strutture a sè stanti, come più evidenti manifestazioni della brutalità dell’impianto razzista statale, restituirebbe solo un orizzonte parziale rispetto alla complessità dell’intero sistema di dominio in cui esse stesse si inscrivono. I sopracitati Borile e La Rosa, le cosiddette “mele marce”, sono in realtà due dei tanti ingranaggi della macchina di sfruttamento, oppressione, ricatto e controllo che sulla vita degli ultimi e dei marginali  – ma anche di fasce man mano più ampie di popolazione – genera lauti profitti, consenso elettorale e merce di scambio per accordi politici, economici e sindacali. La macchina che ogni giorno spezza le vite migranti attraverso il sequestro di persona istituzionalizzato (ufficialmente “detenzione amministrativa”) e il trasferimento coatto in Paesi dove, molto spesso, le persone deportate devono riaffrontare la miseria da cui erano scappati, è anche un grande business che frutta milioni pubblici alle cooperative della “accoglienza”, alle compagnie aeree e a tutta la molteplicità di attori complici del suo funzionamento (ognuno col suo ruolo e funzione) e che contribuisce a convogliare sempre più risorse all’apparato poliziesco-militare. A questo proposito, in questi giorni alcuni partiti locali, risvegliati dalla necessità di fare campagna elettorale sulla pelle (e sulla morte) dei prigionieri nei CPR – e nelle carceri – chiedono ipocritamente la chiusura del CPR di Gradisca (non di tutti gli altri). E lo fanno sedendosi a convegno e marciando a fianco di chi i CPR li ha aperti con la Legge Turco-Napolitano del 1998 e dei rappresentanti di chi al loro interno manganella e gasa a piacimento i reclusi, contribuendo nel tempo – gli uni e gli altri – a tutte le svolte repressive degli ultimi anni. Da Torino a Brindisi, da Macomer a a Trapani, i CPR vengono percorsi dalle continue rivolte autonome dei prigionieri nel tentativo di riguadagnare la libertà, opporsi alle deportazioni, ribellarsi alla brutalità delle guardie e al trattamento loro imposto dagli enti gestori, rivolte che spesso portano alla devastazione e chiusura di intere aree. Solo guardando alle rovine di questi lager – e di tutti coloro che ne permettono l’esistenza – si potrà pensare che giustizia è stata fatta, per Vakhtang Enukidze e per tutte le altre centinaia di persone torturate e ammazzate là dentro. I CPR li hanno chiusi i fuochi e le rivolte dei prigionieri, li hanno chiusi in passato e li chiuderanno ancora. A noi il compito della solidarietà attiva e complice a chi si rivolta. Per un mondo senza frontiere e galere! Tutti liberi, tutte libere Assemblea NO CPR fvg https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2025/05/17/per-vakhtang-e-tutti-gli-altri-chiudiamo-tutti-i-cpr-23-maggio-2025-doppio-presidio-a-gorizia-e-gradisca/
Iniziative
Stato di emergenza
Libertà per Tarek, Anan, Alì e Mansour. Presìdi al carcere di Regina Coeli e al Tribunale de L’Aquila
Riceviamo e diffondiamo: LIBERTÀ PER TAREK, ANAN, ALÌ E MANSOUR Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina. Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour, perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo. In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà concreta. La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta, molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5 ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale, perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno Stato occidentale e colonialista. Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni. Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma quel giorno c’erano ugualmente. L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi, sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi di libertà. Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a spinta. CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO DI ANAN, ALÌ E MANSOUR. CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK.
Iniziative
Carcere
Stato di emergenza
UN SUSSULTO
Riceviamo e diffondiamo: UN SUSSULTO È difficile trovare parole esatte in grado di esprimere con precisione cosa si può provare di fronte all’orrore che ci circonda. Stiamo vedendo l’attuazione della soluzione finale: un piano ben determinato per cancellare un intero popolo dalla terra. Questi mesi di genocidio algoritmico già avevano indicato il vero fine del progetto sionista, che ora nelle parole di Netanyahu si esplicita, forte della copertura incondizionata da parte dell’Occidente. Tutto questo genera in ogni persona ancora in grado di ascoltare il mondo e di ascoltarsi, che non si arrende alla bancarotta morale in diretta, un insieme di sentimenti, tensioni, vibrazioni indescrivibili a parole. Ma chi mantiene la qualità strettamente umana di sentirsi parte nel mondo, quello che non sa esprimere a voce, lo esprime con azioni, seppur piccole ed insufficienti rispetto a quanto ci circonda, ma che quantomeno dimostrano i sussulti etici che non permettono il non agire, che impediscono il silenziamento di quello che proviamo interiormente. Ecco, ieri c’è stato un sussulto. Anche se insufficiente, anche se ancora troppo poco, c’ stato. In un gruppetto ristretto di compagne e di compagni, non più di 15 persone. Per un’ora e passa il Mc Donald di via Torino\corso del popolo a Mestre è stato chiuso in orario di cena. Ci teniamo a condividere quanto fatto per la sua semplicità e riproducibilità. In poche persone, con qualche bandiera della Palestina, uno striscione, un megafono e dei volantini, con un po’ di forza di volontà si riesce ad interrompere il normale funzionamento e flusso capitalistico di aziende complici del genocidio in corso. Non abbastanza, ma un qualcosa. Un qualcosa che ad intermittenza, con poche forze dalla nostra parte, si può ripetere con costanza e imprevidibilità. E dimostra anche a noi che organizzandosi dal basso possiamo esprimere una potenza e danneggiare chi supporta materialmente, ideologicamente e socialmente il genocidio in corso e più in generale l’entità sionista. Di fronte a quanto succede, l’azione continua e costante è l’unica strada per evitare la bancarotta morale. Cortei, interruzioni di eventi militaristi, occupazioni, boicottaggi, assemblee e così via sono le armi etiche che dimostrano, in un mondo in cui la morte e la distruzione vogliono essere la norma, che lottare significa prima di tutto lottare per la vita, ma soprattutto per essere ancora vivi. Per far sì che la morte ci trovi vivi, e che la vita non ci trovi morti.
Rompere le righe
Stato di emergenza
Azioni
Voci dal 25 aprile a Trieste (un comunicato e una controinchiesta)
Riceviamo e diffondiamo: Che la paura cambi di campo Il fascismo regola i corpi attraverso il controllo, la sottomissione e la paura. Il corpo diventa così un apparato dello Stato: disciplinato, obbediente e prevedibile. Al corpo “fascistizzato” non è permesso sentire troppo, aver bisogno di troppo, non deve fare troppe domande. Deve ubbidire e stare nel suo, preferibilmente tenendosi ordinato. Il neoliberismo fa lo stesso ed ha spiananto la strada alla situazione attuale: ci controlla e ci regola, illudendoci di avere più libertà (per produrre-consumare-crepare); poi, però, se fai troppo casino, ti reprime lo stesso. Di questi processi siamo statə testimoni noi stessə e lo è stata la Storia, nelle politiche dei vari governi, succedutisi negli ultimi 80 anni. I partigiani non hanno combattuto per questo, non hanno combattuto per città militarizzate e sorvegliate, per assistere all’apertura di lager etnici chiamati CPR, ai respingimenti sui confini, al susseguirsi di governi completamenti asserviti a padroni che danno stipendi da fame, alle città invivibili con affitti che ci soffocano, alla corsa al riarmo. I partigiani e le partigiane non avrebbero voluto la Liberazione per un popolo che assiste cieco ad un genocidio, né per quelli che arrestano e tengono in carcere tre ragazzi che hanno combattuto contro l’occupazione della propria terra. Il 25 aprile 2025, a Trieste, si è misurata tutta la distanza tra le forme vuote dell’antifascismo di facciata e l’urgenza della situazione attuale. Cosa fare di fronte al genocidio a Gaza, alla tendenza globale alla guerra, all’autoritarismo dello stato di polizia? Forme di vita unite dallo stesso desiderio, dalla stessa esigenza, hanno deciso di conquistare, passo dopo passo, coro dopo coro, quello che gli spettava. Delle forme di vita che non vogliono che il proprio corpo diventi un apparato dello Stato. Queste forme di vita hanno preso parte a una manifestazione – comunicata alla questura, per lo stupore dei pennivendoli locali – con la volontà di testimoniare tutto ciò. I responsabili dell’ordine hanno, però, sequestrato il corteo poche centinaia di metri dopo la partenza, schierando celerini e carabinieri in antisommossa a sbarrare la testa e la coda della manifestazione. Il dispositivo di “sicurezza” era ingente: oltre 120 “addetti tra polizia, militari dell’arma, guardia di finanza, artificieri, e poi sicurezza privata e la polizia locale”, hanno titolato festanti i giornali. Venerdì scorso, però, con coraggio e determinazione, di fronte alle camionette dispiegate, la paura ha cambiato campo. I corpi che resistono e si ribellano alla loro fascistizzazione sempre più prepotente hanno conquistato quello che desideravano: l’arrivo in Risiera, mentre le autorità si dedicavano al loro ipocrita teatrino. A chi ha organizzato il corteo dei cosiddetti “buoni” (dirigenza della CGIL, dell’ANPI e altri: quelli che i giornali ci tengono a far sapere non aver causato problemi), vogliamo dire che venerdì avete dato prova, per l’ennesima volta, dell’ipocrisia che vi caratterizza. Avete sfilato con uno striscione che cita la famosa frase di Brecht “quando l’ingiustizia diventa legge la resistenza diventa dovere”, ma nel momento in cui l’ingiustizia era appena dietro a voi, non avete fatto né detto niente, anzi: avete creato le condizioni perché altrə antifascistə – quellə “cattivə” – venissero manganellatə. La responsabilità politica di quello che è accaduto è anche vostra, perché di quanto sarebbe potuto succedere siete statə ampiamente avvisatə, ma non avete voluto ascoltare. La vostra cecità non cancellerà i fatti: l’antifascismo, quello vero, non vi appartiene. Venerdì delle forme di vita che provano ogni giorno, con fatica, a resistere ad un mondo opprimente, hanno dimostrato che la paura può cambiare campo, che si può, insieme, guadagnare qualche metro e, per qualche minuto, ribaltare i rapporti di potere; che a ‘sta vita di merda esistono delle alternative, da costruire collettivamente; che “l’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo” non è solo un bello slogan, ma una pratica quotidiana, da riaffermare e riconquistare assieme. Palestina libera! -------------------------------------------------------------------------------- 25 APRILE A TRST. UNA CONTROINCHIESTA Il 25 aprile 2025 un corteo antifascista è stato bloccato a Trieste, rinchiuso e caricato in Via dell’Istria, mentre andava in direzione della Risiera di San Sabba, lager di sterminio e tradizionale luogo di commemorazione per la Festa della Liberazione. Come già accaduto in passato, la Questura di Trieste – dopo aver militarizzato la gestione degli ingressi in Risiera, e di conseguenza il giorno della Liberazione tout court – decide di intervenire con manganelli e camionette, in nome della “sicurezza”. Si è scatenato un gran baccano mediatico a causa del fatto che, anziché assistere silenziosamente ad una violenza statale che si è esplicata nel blocco di una manifestazione e quindi nella violazione del diritto a manifestare, le persone in corteo si sono difese senza arretrare di fronte all’improvvisa violenza poliziesca. Con questa controinchiesta vorremmo affrontare alcune questioni emerse nelle ore successive, con parole lontane dal piagnisteo generalizzato dei sindacati di polizia e dell’ANPI. CHI GESTIVA L’ORDINE PUBBLICO A TRIESTE IL 25 APRILE? PRIMA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA 25 aprile 2025, Trieste. Un corteo antifascista parte da Campo San Giacomo e imbocca Via Dell’Istria diretto verso la Risiera. La cosa più normale del mondo nel giorno in cui si ricorda la Liberazione. Di punto in bianco, nel giro di pochi secondi, viene sbarrato in un punto deciso a tavolino dalla questura, ovvero un tratto di strada senza via laterali di fuga, bloccato da un cordone di carabinieri e polizia in antisommossa davanti (supportate da tre camionette che con una manovra veloce chiudono completamente la strada) e da un cordone di carabinieri alle spalle (insieme ad altre due camionette). Tra i funzionari della questura che hanno deciso la manovra si può notare lo stesso personaggio che qualche anno prima aveva decretato lo sgombero del porto durante le proteste contro il green pass. Quella volta, indossando fieramente la fascia tricolore, aveva teso il braccio “in nome della legge”, facendo saluti romani nell’ordinare la carica. Si tratta del Primo Dirigente della Polizia di Stato, Fabio Soldatich, già dirigente della polizia di frontiera, la stessa che effettuava “riammissioni informali” dei richiedenti asilo (ovvero respingimenti a catena fino in Bosnia, fuori dalla Fortezza Europa), ritenuti poi illegali e sospesi dal Tribunale di Roma. Insomma, Soldatich: un professionista del disordine che ama la violenza. I fatti parlano chiaro. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia (puntellato recentemente dall’ex ddl 1660, ora decreto legge), al piagnisteo falso e furbo dei suoi sindacati, alla superficialità giornalistica, che si senta la voce di chi era in strada e ha preso le botte per la sola colpa di manifestare il proprio antifascismo. Moltiplichiamo la controinchiesta dal basso! “POTEVA SCAPPARCI IL MORTO”. SECONDA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA Nelle immancabili polemiche del giorno dopo, oltre alle veline della questura che non hanno bisogno di fact-checking né di contradditoriosi, c’è stato un profluvio di comunicati dei sindacati di polizia (forse quattro in un giorno solo?), diventati direttamente l’unica opinione pubblica dello Stato in cui viviamo. Commentano, sbraitano, piagnucolano continuamente su ogni cosa, stracciandosi le vesti e inventando fatti per avere più uomini, più armamenti, più leggi, più libertà per poter reprimere il dissenso interno e militarizzare lo spazio pubblico. A Trieste si sono raggiunti livelli parossistici e, non a caso, la sfilza di commenti si è chiusa in bellezza con le sparate del sig. Tamaro, del SAP, uomo in odore di vicinanze con Salvini e grande patrocinatore delle torsioni autoritarie a cui assistiamo. Sicurezza per lui è blindare confini, respingere uomini, donne, bambini, avere mano libera per far chinare la testa a tutti a colpi di manganello. Il perfetto fascista in divisa da poliziotto. Ebbene, è arrivato persino a dichiarare che durante il corteo antifascista del 25 aprile poteva “scapparci il morto”. Evidentemente, poliziotto nell’animo, ha avuto un rigurgito di memoria, perché di morti a dire il vero ne sono scappati tanti, troppi, proprio per mano delle forze dell’ordine, nella storia repubblicana. Dalla stragi di operai e contadini negli anni cinquanta ai giorni nostri, sarebbe impossibile ricordarli tutti: ci limitiamo a citare Vakhtang, morto di botte nel CPR di Gradisca, i tredici morti della strage delle carceri nel 2020 e Ramy, ucciso in un inseguimento dei carabinieri. Il morto è già scappato, i morti invadono la coscienza sporca della polizia e delle forze di sicurezza. Questo sipario mediatico è propedeutico al rodaggio del nuovo decreto sicurezza, gonfio di falsità ed esagerazioni. Smentiamone alcune sul corteo del 25 aprile, senza giri di parole: è stato comunicato alla Questura, nessun funzionario dello Stato ha dato prescrizioni, il corteo è rimasto pacifico fino al mamento in cui è stato bloccato. Le manganellate hanno aperto teste, rotto nasi, distorto mani, lasciato lividi neri sulle cosce e sul costato a diverse persone. I capi di celere e carabinieri sono giunti, dopo le manganellate, a dirci di tenere i cordoni in antisommossa a distanza (noi! A loro!) perché “non siamo in grado di tenerli”. A un certo punto, è stato comunicato che “in cinque minuti” avrebbero fatto passare il corteo, comunicazione che è diventata l’ennesima provocazione, visto che i cordoni di celerini non sono rimasti fermi – manganellando qua e là – per ancora mezz’ora. La rabbia che si è vista nelle immagini è stata la minima reazione difensiva – non c’erano infatti veri oggetti offensivi – di un gruppo di antifascistə a cui la libertà più basilare, quella di manifestare, viene sostituita dall’impedimento di quest’ultimo e dalle manganellate. Di fronte all’arroganza e alle falsità delle “forze dell’ordine”, al piagnisteo dei loro sindacati, alla superficialità giornalistica, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso! “CHI LANCIA LE BOMBE CARTA NON È UN VERO ANTIFASCISTA”. TERZA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA Tra i commenti che abbiamo letto in merito al corteo antifascista del 25 aprile, ci sono state anche le tristi dichiarazioni dell’Anpi/Vzpi, per il tramite del presidente del comitato provinciale Fabio Vallon. Ora, è evidente che la frase non ha senso, perché anche il presidente dell’Anpi dovrà ammettere che gappisti, partigiani, ribelli e banditi della liberazione di bombe ne hanno lanciate parecchie, ma bombe vere, non petardi. Passi dunque l’affermazione in senso polemico: è facile rigettare anche questa. Primo: un corteo, se attaccato, ha tutto il diritto di autodifendersi. È quello che è successo il 25 aprile, quando di punto in bianco lo sbarramento di agenti in antisommossa ha bloccato il corteo in un punto senza vie di uscita per caricarlo. Avrà preso anche Vallon qualche manganellata nella sua vita (lo speriamo, altrimenti significa che è stato sempre dall’altra parte della barricata, se non lui stesso la barricata) e saprà che lì ci si difende come si può, a bastoni, braccia nude, petardi, quel poco che si ha. Altrimenti ti aprono la testa e finisce la festa. Altro che liberazione. Secondo: bombe-carta non sappiamo bene cosa siano, ce lo spieghi Vallon o i sindacati di polizia o le fonti questurine che han dato la notizia. Intendono i botti? Sì, sono esplosi per respingere le cariche, i manganelli che infuriavano sulle teste del corteo. Il resto è propaganda spicciola, per rovesciare la violenza dello stato di polizia sui manifestanti e far passare la favoletta degli “antagonisti cattivi” e della polizia che difende l’ordine democratico. Anche l’Anpi leggerà ogni tanto i rapporti di Amnesty International, no? Mica pretendiamo tanto. Terzo: contribuire al clima di caccia alle streghe è una mossa quantomeno da paraculo, se non da complice e delatore. Allora è meglio ricordare, una volta di più il 25 aprile, tutti quei partigiani che non hanno riconsegnato le armi, che hanno creduto nella liberazione e nella trasformazione sociale, che hanno combattuto la continuità istituzionale tra regime fascista e repubblicano (motivi per cui sono stati repressi dai giudici democratici). Questori, magistrati, poliziotti, funzionari della pubblica amministrazione che prima si sono imboscati e poi sono stati recuperati per mantenere l’ordine: gli eredi li vediamo ovunque. Come si vede, ognuno ha la sua storia di antifascismo a cui appellarsi: da un lato l’antifascismo militante e di un certo spirito dell’insurrezione (sì, proprio insurrezione) partigiana, dall’altro l’antifascismo di facciata, conformista, istituzionale, ipocrita, quello che Pasolini (poi mistificato) definiva il fascismo degli antifascisti. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo di chi dovrebbe difendere partigiani e antifascisti, ai pennivendoli che copia-incollano propaganda poliziesca, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso! I FERITI. QUARTA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA Fa sempre sorridere leggere i bollettini del giorno dopo quando i cortei finiscono in scontri. Ricordiamo i celerini che si facevano refertare storte alla caviglie perché inciampavano nei boschi della Valsusa, o quell’immancabile numero nei titoli delle notizie, “feriti x poliziotti”. Mai una volta che si indaghi sull’armamento con cui reprimono il dissenso nelle strade, o le cause che portano a questi “ferimenti”. Per quanto riguarda le dotazioni, si tratta di caschi, scudi, parastinchi, paragomiti, paraspalle, para-tutto, in materiale tecnico e leggero sviluppato per scenari di guerra. Protetti di tutto punto e dotati di armi (alla cintola hanno pur sempre una pistola – viva Carlo Giuliani! – e si portano dietro gas CS nei candelotti, manette e manganelli), attaccano, manganellano, provocano. Ogni tanto qualche colpo arriva pure a loro, sotto tutti gli strati di protezione. In ogni caso, capita spesso che debbano imbastire delle inchieste e inventarsi delle lesioni personali per ingigantire le accuse, renderle più pesanti. Ce n’è capitata una particolarmente divertente, ma tragicamente paradigmatica. Il corteo antifascista del 25 aprile 2023 era stato bloccato e caricato prima di poter arrivare in Risiera – prassi, dunque, che si ripete. Per quei fatti 7 antifascistə sono tuttora rinviati a giudizio per reati di manifestazione non autorizzata, oltraggio, resistenza, getto di oggetti. Tra le carte è comparso il referto di uno dei famosi “feriti” in questo genere di vicende. Si tratta di un agente delle forze dell’ordine, in antisommossa, che si è presentato al pronto soccorso di Cattinara lamentando “algie a entrambe le spalle dopo collutazione”. Cosa mai lo avrà colpito? Letteralmente niente: da referto, “avrebbe menato delle manganellate con il braccio destro e [occhio che qui si raggiunge il parossismo] issato un collega da terra con il braccio sinistro; dopo tali eventi, lamenterebbe delle algie…”. Le frasi, tratte dal referto, letteralmente riportano che l’agente si sarebbe fatto male (il condizionale è d’obbligo di fronte a questa fantasia) mulinando manganellate e alzando un suo collega da terra. Sette giorni di prognosi. Cosa avrà provocato il ferimento dei due agenti nel corso delle medesime situazioni nel 2025? Lesioni guaribili in pochi giorni uno e in tre settimane l’altro. Spoiler: per quest’ultimo si tratta di lesioni alla spalla, dice la stampa. Forse anche lui ha menato troppo forte? Parebbe di sì, a giudicare dalle ferite, lesioni, colpi in testa ricevuti dai manifestanti che, con molta più dignità, si curano quando necessario e semplicemente sopportano, senza ricorrere a stratagemmi vittimistici per portare a processo qualcuno. Forse un giorno vi racconteremo anche di quel celerino che, dietro il suo scudo, si è fatto refertare quaranta giorni di prognosi per un colpo al mignolo, diversi giorni dopo i fatti in cui se lo è procurato. Intanto, un appello va al personale del pronto soccorso, dove abbiamo trovato anche medici e infermieri con senso critico e grande professionalità: diffidate dei dolori, delle algie, degli acufeni dei celerini in servizio, servono solo a intasare la sanità pubblica e portare a processo manifestanti! Insomma, prima ti fanno la guerra e poi si leccano ferite inesistenti con annunci in pompa magna sui giornali. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo dei sindacati di polizia, alla superficialità giornalistica, ecco le nostre parole.
Stato di emergenza
Torino: prima potente rivolta nel CPR
Riprendiamo da https://nocprtorino.noblogs.org/post/2025/05/02/prima-potente-rivolta-nel-cpr-di-corso-brunelleschi-torino/ e diffondiamo: PRIMA POTENTE RIVOLTA NEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI, TORINO 2/05/2025 A poco più di un mese dalla riapertura del lager di Torino – nella tarda serata del 30 Aprile – il fuoco della rivolta ha divampato portando all’attuale chiusura dell’Area Viola. Quello che sappiamo oggi è che la protesta è nata dalla carenza di accesso ai beni da acquistare (il cui prezzo per i ristretti è altissimo) e ha ben presto assunto la forma della distruzione. Il fuoco, inizialmente appiccato ai materassi delle stanze, ha divampato nell’area compromettendone la funzionalità e permettendo alla portata dell’evento di essere compresa anche oltre le alte mura del lager. All’arrivo delle decine di solidali che si sono affrettate sotto quelle mura, l’odore del gas lacrimogeno era forte nell’aria mentre da dentro si sentivano urla e battiture. E’ stato possibile captare qualche parola terrificante che i reclusi cercavano di fare emergere oltre il muro e che descriveva, a singole sillabe, la violenza repressiva che chi stava lottando subiva.  Abbiamo visto uscire tre ambulanze e sappiamo che, tra reclusi feriti dalla polizia e gesti autolesionisti, non mancano le persone trasportate di corsa in ospedale. Otre alla coraggiosa rivolta di ieri sera, le proteste all’ interno del cpr sono quotidiane, come dimostrato dagli attuali scioperi della fame portati avanti da due persone da diversi giorni. Parlare, farsi sentire, portare un gesto di calore, rimanere in solidarietà per tutto il tempo necessario sappiamo che è poco – e mai abbastanza – davanti al dispiegamento della repressione dentro e alla forza di chi lotta. Sappiamo anche che, proprio perché è il minimo, è necessario, urgente e fondamentale metterlo in campo per far sapere a chi lotta che non è e non sarà mai solo. Sappiamo che ci sentono, teniamoci stretti a loro. Non lasciamo nessuno indietro. FUOCO AI CPR
Carcere
Stato di emergenza