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Libertà per Tarek, Anan, Alì e Mansour. Presìdi al carcere di Regina Coeli e al Tribunale de L’Aquila
Riceviamo e diffondiamo: LIBERTÀ PER TAREK, ANAN, ALÌ E MANSOUR Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina. Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour, perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo. In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà concreta. La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta, molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5 ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale, perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno Stato occidentale e colonialista. Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni. Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma quel giorno c’erano ugualmente. L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi, sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi di libertà. Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a spinta. CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO DI ANAN, ALÌ E MANSOUR. CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK.
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UN SUSSULTO
Riceviamo e diffondiamo: UN SUSSULTO È difficile trovare parole esatte in grado di esprimere con precisione cosa si può provare di fronte all’orrore che ci circonda. Stiamo vedendo l’attuazione della soluzione finale: un piano ben determinato per cancellare un intero popolo dalla terra. Questi mesi di genocidio algoritmico già avevano indicato il vero fine del progetto sionista, che ora nelle parole di Netanyahu si esplicita, forte della copertura incondizionata da parte dell’Occidente. Tutto questo genera in ogni persona ancora in grado di ascoltare il mondo e di ascoltarsi, che non si arrende alla bancarotta morale in diretta, un insieme di sentimenti, tensioni, vibrazioni indescrivibili a parole. Ma chi mantiene la qualità strettamente umana di sentirsi parte nel mondo, quello che non sa esprimere a voce, lo esprime con azioni, seppur piccole ed insufficienti rispetto a quanto ci circonda, ma che quantomeno dimostrano i sussulti etici che non permettono il non agire, che impediscono il silenziamento di quello che proviamo interiormente. Ecco, ieri c’è stato un sussulto. Anche se insufficiente, anche se ancora troppo poco, c’ stato. In un gruppetto ristretto di compagne e di compagni, non più di 15 persone. Per un’ora e passa il Mc Donald di via Torino\corso del popolo a Mestre è stato chiuso in orario di cena. Ci teniamo a condividere quanto fatto per la sua semplicità e riproducibilità. In poche persone, con qualche bandiera della Palestina, uno striscione, un megafono e dei volantini, con un po’ di forza di volontà si riesce ad interrompere il normale funzionamento e flusso capitalistico di aziende complici del genocidio in corso. Non abbastanza, ma un qualcosa. Un qualcosa che ad intermittenza, con poche forze dalla nostra parte, si può ripetere con costanza e imprevidibilità. E dimostra anche a noi che organizzandosi dal basso possiamo esprimere una potenza e danneggiare chi supporta materialmente, ideologicamente e socialmente il genocidio in corso e più in generale l’entità sionista. Di fronte a quanto succede, l’azione continua e costante è l’unica strada per evitare la bancarotta morale. Cortei, interruzioni di eventi militaristi, occupazioni, boicottaggi, assemblee e così via sono le armi etiche che dimostrano, in un mondo in cui la morte e la distruzione vogliono essere la norma, che lottare significa prima di tutto lottare per la vita, ma soprattutto per essere ancora vivi. Per far sì che la morte ci trovi vivi, e che la vita non ci trovi morti.
Rompere le righe
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Azioni
Voci dal 25 aprile a Trieste (un comunicato e una controinchiesta)
Riceviamo e diffondiamo: Che la paura cambi di campo Il fascismo regola i corpi attraverso il controllo, la sottomissione e la paura. Il corpo diventa così un apparato dello Stato: disciplinato, obbediente e prevedibile. Al corpo “fascistizzato” non è permesso sentire troppo, aver bisogno di troppo, non deve fare troppe domande. Deve ubbidire e stare nel suo, preferibilmente tenendosi ordinato. Il neoliberismo fa lo stesso ed ha spiananto la strada alla situazione attuale: ci controlla e ci regola, illudendoci di avere più libertà (per produrre-consumare-crepare); poi, però, se fai troppo casino, ti reprime lo stesso. Di questi processi siamo statə testimoni noi stessə e lo è stata la Storia, nelle politiche dei vari governi, succedutisi negli ultimi 80 anni. I partigiani non hanno combattuto per questo, non hanno combattuto per città militarizzate e sorvegliate, per assistere all’apertura di lager etnici chiamati CPR, ai respingimenti sui confini, al susseguirsi di governi completamenti asserviti a padroni che danno stipendi da fame, alle città invivibili con affitti che ci soffocano, alla corsa al riarmo. I partigiani e le partigiane non avrebbero voluto la Liberazione per un popolo che assiste cieco ad un genocidio, né per quelli che arrestano e tengono in carcere tre ragazzi che hanno combattuto contro l’occupazione della propria terra. Il 25 aprile 2025, a Trieste, si è misurata tutta la distanza tra le forme vuote dell’antifascismo di facciata e l’urgenza della situazione attuale. Cosa fare di fronte al genocidio a Gaza, alla tendenza globale alla guerra, all’autoritarismo dello stato di polizia? Forme di vita unite dallo stesso desiderio, dalla stessa esigenza, hanno deciso di conquistare, passo dopo passo, coro dopo coro, quello che gli spettava. Delle forme di vita che non vogliono che il proprio corpo diventi un apparato dello Stato. Queste forme di vita hanno preso parte a una manifestazione – comunicata alla questura, per lo stupore dei pennivendoli locali – con la volontà di testimoniare tutto ciò. I responsabili dell’ordine hanno, però, sequestrato il corteo poche centinaia di metri dopo la partenza, schierando celerini e carabinieri in antisommossa a sbarrare la testa e la coda della manifestazione. Il dispositivo di “sicurezza” era ingente: oltre 120 “addetti tra polizia, militari dell’arma, guardia di finanza, artificieri, e poi sicurezza privata e la polizia locale”, hanno titolato festanti i giornali. Venerdì scorso, però, con coraggio e determinazione, di fronte alle camionette dispiegate, la paura ha cambiato campo. I corpi che resistono e si ribellano alla loro fascistizzazione sempre più prepotente hanno conquistato quello che desideravano: l’arrivo in Risiera, mentre le autorità si dedicavano al loro ipocrita teatrino. A chi ha organizzato il corteo dei cosiddetti “buoni” (dirigenza della CGIL, dell’ANPI e altri: quelli che i giornali ci tengono a far sapere non aver causato problemi), vogliamo dire che venerdì avete dato prova, per l’ennesima volta, dell’ipocrisia che vi caratterizza. Avete sfilato con uno striscione che cita la famosa frase di Brecht “quando l’ingiustizia diventa legge la resistenza diventa dovere”, ma nel momento in cui l’ingiustizia era appena dietro a voi, non avete fatto né detto niente, anzi: avete creato le condizioni perché altrə antifascistə – quellə “cattivə” – venissero manganellatə. La responsabilità politica di quello che è accaduto è anche vostra, perché di quanto sarebbe potuto succedere siete statə ampiamente avvisatə, ma non avete voluto ascoltare. La vostra cecità non cancellerà i fatti: l’antifascismo, quello vero, non vi appartiene. Venerdì delle forme di vita che provano ogni giorno, con fatica, a resistere ad un mondo opprimente, hanno dimostrato che la paura può cambiare campo, che si può, insieme, guadagnare qualche metro e, per qualche minuto, ribaltare i rapporti di potere; che a ‘sta vita di merda esistono delle alternative, da costruire collettivamente; che “l’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo” non è solo un bello slogan, ma una pratica quotidiana, da riaffermare e riconquistare assieme. Palestina libera! -------------------------------------------------------------------------------- 25 APRILE A TRST. UNA CONTROINCHIESTA Il 25 aprile 2025 un corteo antifascista è stato bloccato a Trieste, rinchiuso e caricato in Via dell’Istria, mentre andava in direzione della Risiera di San Sabba, lager di sterminio e tradizionale luogo di commemorazione per la Festa della Liberazione. Come già accaduto in passato, la Questura di Trieste – dopo aver militarizzato la gestione degli ingressi in Risiera, e di conseguenza il giorno della Liberazione tout court – decide di intervenire con manganelli e camionette, in nome della “sicurezza”. Si è scatenato un gran baccano mediatico a causa del fatto che, anziché assistere silenziosamente ad una violenza statale che si è esplicata nel blocco di una manifestazione e quindi nella violazione del diritto a manifestare, le persone in corteo si sono difese senza arretrare di fronte all’improvvisa violenza poliziesca. Con questa controinchiesta vorremmo affrontare alcune questioni emerse nelle ore successive, con parole lontane dal piagnisteo generalizzato dei sindacati di polizia e dell’ANPI. CHI GESTIVA L’ORDINE PUBBLICO A TRIESTE IL 25 APRILE? PRIMA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA 25 aprile 2025, Trieste. Un corteo antifascista parte da Campo San Giacomo e imbocca Via Dell’Istria diretto verso la Risiera. La cosa più normale del mondo nel giorno in cui si ricorda la Liberazione. Di punto in bianco, nel giro di pochi secondi, viene sbarrato in un punto deciso a tavolino dalla questura, ovvero un tratto di strada senza via laterali di fuga, bloccato da un cordone di carabinieri e polizia in antisommossa davanti (supportate da tre camionette che con una manovra veloce chiudono completamente la strada) e da un cordone di carabinieri alle spalle (insieme ad altre due camionette). Tra i funzionari della questura che hanno deciso la manovra si può notare lo stesso personaggio che qualche anno prima aveva decretato lo sgombero del porto durante le proteste contro il green pass. Quella volta, indossando fieramente la fascia tricolore, aveva teso il braccio “in nome della legge”, facendo saluti romani nell’ordinare la carica. Si tratta del Primo Dirigente della Polizia di Stato, Fabio Soldatich, già dirigente della polizia di frontiera, la stessa che effettuava “riammissioni informali” dei richiedenti asilo (ovvero respingimenti a catena fino in Bosnia, fuori dalla Fortezza Europa), ritenuti poi illegali e sospesi dal Tribunale di Roma. Insomma, Soldatich: un professionista del disordine che ama la violenza. I fatti parlano chiaro. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia (puntellato recentemente dall’ex ddl 1660, ora decreto legge), al piagnisteo falso e furbo dei suoi sindacati, alla superficialità giornalistica, che si senta la voce di chi era in strada e ha preso le botte per la sola colpa di manifestare il proprio antifascismo. Moltiplichiamo la controinchiesta dal basso! “POTEVA SCAPPARCI IL MORTO”. SECONDA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA Nelle immancabili polemiche del giorno dopo, oltre alle veline della questura che non hanno bisogno di fact-checking né di contradditoriosi, c’è stato un profluvio di comunicati dei sindacati di polizia (forse quattro in un giorno solo?), diventati direttamente l’unica opinione pubblica dello Stato in cui viviamo. Commentano, sbraitano, piagnucolano continuamente su ogni cosa, stracciandosi le vesti e inventando fatti per avere più uomini, più armamenti, più leggi, più libertà per poter reprimere il dissenso interno e militarizzare lo spazio pubblico. A Trieste si sono raggiunti livelli parossistici e, non a caso, la sfilza di commenti si è chiusa in bellezza con le sparate del sig. Tamaro, del SAP, uomo in odore di vicinanze con Salvini e grande patrocinatore delle torsioni autoritarie a cui assistiamo. Sicurezza per lui è blindare confini, respingere uomini, donne, bambini, avere mano libera per far chinare la testa a tutti a colpi di manganello. Il perfetto fascista in divisa da poliziotto. Ebbene, è arrivato persino a dichiarare che durante il corteo antifascista del 25 aprile poteva “scapparci il morto”. Evidentemente, poliziotto nell’animo, ha avuto un rigurgito di memoria, perché di morti a dire il vero ne sono scappati tanti, troppi, proprio per mano delle forze dell’ordine, nella storia repubblicana. Dalla stragi di operai e contadini negli anni cinquanta ai giorni nostri, sarebbe impossibile ricordarli tutti: ci limitiamo a citare Vakhtang, morto di botte nel CPR di Gradisca, i tredici morti della strage delle carceri nel 2020 e Ramy, ucciso in un inseguimento dei carabinieri. Il morto è già scappato, i morti invadono la coscienza sporca della polizia e delle forze di sicurezza. Questo sipario mediatico è propedeutico al rodaggio del nuovo decreto sicurezza, gonfio di falsità ed esagerazioni. Smentiamone alcune sul corteo del 25 aprile, senza giri di parole: è stato comunicato alla Questura, nessun funzionario dello Stato ha dato prescrizioni, il corteo è rimasto pacifico fino al mamento in cui è stato bloccato. Le manganellate hanno aperto teste, rotto nasi, distorto mani, lasciato lividi neri sulle cosce e sul costato a diverse persone. I capi di celere e carabinieri sono giunti, dopo le manganellate, a dirci di tenere i cordoni in antisommossa a distanza (noi! A loro!) perché “non siamo in grado di tenerli”. A un certo punto, è stato comunicato che “in cinque minuti” avrebbero fatto passare il corteo, comunicazione che è diventata l’ennesima provocazione, visto che i cordoni di celerini non sono rimasti fermi – manganellando qua e là – per ancora mezz’ora. La rabbia che si è vista nelle immagini è stata la minima reazione difensiva – non c’erano infatti veri oggetti offensivi – di un gruppo di antifascistə a cui la libertà più basilare, quella di manifestare, viene sostituita dall’impedimento di quest’ultimo e dalle manganellate. Di fronte all’arroganza e alle falsità delle “forze dell’ordine”, al piagnisteo dei loro sindacati, alla superficialità giornalistica, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso! “CHI LANCIA LE BOMBE CARTA NON È UN VERO ANTIFASCISTA”. TERZA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA Tra i commenti che abbiamo letto in merito al corteo antifascista del 25 aprile, ci sono state anche le tristi dichiarazioni dell’Anpi/Vzpi, per il tramite del presidente del comitato provinciale Fabio Vallon. Ora, è evidente che la frase non ha senso, perché anche il presidente dell’Anpi dovrà ammettere che gappisti, partigiani, ribelli e banditi della liberazione di bombe ne hanno lanciate parecchie, ma bombe vere, non petardi. Passi dunque l’affermazione in senso polemico: è facile rigettare anche questa. Primo: un corteo, se attaccato, ha tutto il diritto di autodifendersi. È quello che è successo il 25 aprile, quando di punto in bianco lo sbarramento di agenti in antisommossa ha bloccato il corteo in un punto senza vie di uscita per caricarlo. Avrà preso anche Vallon qualche manganellata nella sua vita (lo speriamo, altrimenti significa che è stato sempre dall’altra parte della barricata, se non lui stesso la barricata) e saprà che lì ci si difende come si può, a bastoni, braccia nude, petardi, quel poco che si ha. Altrimenti ti aprono la testa e finisce la festa. Altro che liberazione. Secondo: bombe-carta non sappiamo bene cosa siano, ce lo spieghi Vallon o i sindacati di polizia o le fonti questurine che han dato la notizia. Intendono i botti? Sì, sono esplosi per respingere le cariche, i manganelli che infuriavano sulle teste del corteo. Il resto è propaganda spicciola, per rovesciare la violenza dello stato di polizia sui manifestanti e far passare la favoletta degli “antagonisti cattivi” e della polizia che difende l’ordine democratico. Anche l’Anpi leggerà ogni tanto i rapporti di Amnesty International, no? Mica pretendiamo tanto. Terzo: contribuire al clima di caccia alle streghe è una mossa quantomeno da paraculo, se non da complice e delatore. Allora è meglio ricordare, una volta di più il 25 aprile, tutti quei partigiani che non hanno riconsegnato le armi, che hanno creduto nella liberazione e nella trasformazione sociale, che hanno combattuto la continuità istituzionale tra regime fascista e repubblicano (motivi per cui sono stati repressi dai giudici democratici). Questori, magistrati, poliziotti, funzionari della pubblica amministrazione che prima si sono imboscati e poi sono stati recuperati per mantenere l’ordine: gli eredi li vediamo ovunque. Come si vede, ognuno ha la sua storia di antifascismo a cui appellarsi: da un lato l’antifascismo militante e di un certo spirito dell’insurrezione (sì, proprio insurrezione) partigiana, dall’altro l’antifascismo di facciata, conformista, istituzionale, ipocrita, quello che Pasolini (poi mistificato) definiva il fascismo degli antifascisti. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo di chi dovrebbe difendere partigiani e antifascisti, ai pennivendoli che copia-incollano propaganda poliziesca, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso! I FERITI. QUARTA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA Fa sempre sorridere leggere i bollettini del giorno dopo quando i cortei finiscono in scontri. Ricordiamo i celerini che si facevano refertare storte alla caviglie perché inciampavano nei boschi della Valsusa, o quell’immancabile numero nei titoli delle notizie, “feriti x poliziotti”. Mai una volta che si indaghi sull’armamento con cui reprimono il dissenso nelle strade, o le cause che portano a questi “ferimenti”. Per quanto riguarda le dotazioni, si tratta di caschi, scudi, parastinchi, paragomiti, paraspalle, para-tutto, in materiale tecnico e leggero sviluppato per scenari di guerra. Protetti di tutto punto e dotati di armi (alla cintola hanno pur sempre una pistola – viva Carlo Giuliani! – e si portano dietro gas CS nei candelotti, manette e manganelli), attaccano, manganellano, provocano. Ogni tanto qualche colpo arriva pure a loro, sotto tutti gli strati di protezione. In ogni caso, capita spesso che debbano imbastire delle inchieste e inventarsi delle lesioni personali per ingigantire le accuse, renderle più pesanti. Ce n’è capitata una particolarmente divertente, ma tragicamente paradigmatica. Il corteo antifascista del 25 aprile 2023 era stato bloccato e caricato prima di poter arrivare in Risiera – prassi, dunque, che si ripete. Per quei fatti 7 antifascistə sono tuttora rinviati a giudizio per reati di manifestazione non autorizzata, oltraggio, resistenza, getto di oggetti. Tra le carte è comparso il referto di uno dei famosi “feriti” in questo genere di vicende. Si tratta di un agente delle forze dell’ordine, in antisommossa, che si è presentato al pronto soccorso di Cattinara lamentando “algie a entrambe le spalle dopo collutazione”. Cosa mai lo avrà colpito? Letteralmente niente: da referto, “avrebbe menato delle manganellate con il braccio destro e [occhio che qui si raggiunge il parossismo] issato un collega da terra con il braccio sinistro; dopo tali eventi, lamenterebbe delle algie…”. Le frasi, tratte dal referto, letteralmente riportano che l’agente si sarebbe fatto male (il condizionale è d’obbligo di fronte a questa fantasia) mulinando manganellate e alzando un suo collega da terra. Sette giorni di prognosi. Cosa avrà provocato il ferimento dei due agenti nel corso delle medesime situazioni nel 2025? Lesioni guaribili in pochi giorni uno e in tre settimane l’altro. Spoiler: per quest’ultimo si tratta di lesioni alla spalla, dice la stampa. Forse anche lui ha menato troppo forte? Parebbe di sì, a giudicare dalle ferite, lesioni, colpi in testa ricevuti dai manifestanti che, con molta più dignità, si curano quando necessario e semplicemente sopportano, senza ricorrere a stratagemmi vittimistici per portare a processo qualcuno. Forse un giorno vi racconteremo anche di quel celerino che, dietro il suo scudo, si è fatto refertare quaranta giorni di prognosi per un colpo al mignolo, diversi giorni dopo i fatti in cui se lo è procurato. Intanto, un appello va al personale del pronto soccorso, dove abbiamo trovato anche medici e infermieri con senso critico e grande professionalità: diffidate dei dolori, delle algie, degli acufeni dei celerini in servizio, servono solo a intasare la sanità pubblica e portare a processo manifestanti! Insomma, prima ti fanno la guerra e poi si leccano ferite inesistenti con annunci in pompa magna sui giornali. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo dei sindacati di polizia, alla superficialità giornalistica, ecco le nostre parole.
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Torino: prima potente rivolta nel CPR
Riprendiamo da https://nocprtorino.noblogs.org/post/2025/05/02/prima-potente-rivolta-nel-cpr-di-corso-brunelleschi-torino/ e diffondiamo: PRIMA POTENTE RIVOLTA NEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI, TORINO 2/05/2025 A poco più di un mese dalla riapertura del lager di Torino – nella tarda serata del 30 Aprile – il fuoco della rivolta ha divampato portando all’attuale chiusura dell’Area Viola. Quello che sappiamo oggi è che la protesta è nata dalla carenza di accesso ai beni da acquistare (il cui prezzo per i ristretti è altissimo) e ha ben presto assunto la forma della distruzione. Il fuoco, inizialmente appiccato ai materassi delle stanze, ha divampato nell’area compromettendone la funzionalità e permettendo alla portata dell’evento di essere compresa anche oltre le alte mura del lager. All’arrivo delle decine di solidali che si sono affrettate sotto quelle mura, l’odore del gas lacrimogeno era forte nell’aria mentre da dentro si sentivano urla e battiture. E’ stato possibile captare qualche parola terrificante che i reclusi cercavano di fare emergere oltre il muro e che descriveva, a singole sillabe, la violenza repressiva che chi stava lottando subiva.  Abbiamo visto uscire tre ambulanze e sappiamo che, tra reclusi feriti dalla polizia e gesti autolesionisti, non mancano le persone trasportate di corsa in ospedale. Otre alla coraggiosa rivolta di ieri sera, le proteste all’ interno del cpr sono quotidiane, come dimostrato dagli attuali scioperi della fame portati avanti da due persone da diversi giorni. Parlare, farsi sentire, portare un gesto di calore, rimanere in solidarietà per tutto il tempo necessario sappiamo che è poco – e mai abbastanza – davanti al dispiegamento della repressione dentro e alla forza di chi lotta. Sappiamo anche che, proprio perché è il minimo, è necessario, urgente e fondamentale metterlo in campo per far sapere a chi lotta che non è e non sarà mai solo. Sappiamo che ci sentono, teniamoci stretti a loro. Non lasciamo nessuno indietro. FUOCO AI CPR
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Nessuna pace a chi lavora per la guerra
Riceviamo e diffondiamo questo testo, letto durante l’interruzione di un’iniziativa all’università veneziana Ca’ Foscari che vedeva la partecipazione dell’ineffabile delinquente e leccaculo Antonio Scurati: NESSUNA PACE A CHI LAVORA PER LA GUERRA «Non siamo gente che invade paesi confinanti, non siamo gente che rade al suolo le città, non massacriamo e torturiamo civili con gusto sadico, non deportiamo bambini per usarli come riscatto. Lo abbiamo fatto, fino a 80 anni fa, ma proprio per questo abbiamo smesso. Noi non siamo gente che deporta clandestini in catene a favore di telecamera, non tagliamo finanziamenti ad associazioni umanitarie». Con queste parole Scurati ha intrattenuto la folla presente alla piazza per il riarmo europeo che si è tenuta il 15 marzo a Roma, e interrompiamo questa iniziativa per ricordare le responsabilità a chi prende parte a queste iniziative guerrafondaie. EPPURE Noi non siamo gente che bombarda e rade al suolo le città, ma non sono passati 80 anni dall’ultima volta in cui l’Italia ha preso parte ad operazioni di bombardamenti a tappeto di aree urbane: è successo nel 1999 a Belgrado con aerei italiani. Noi non massacriamo e torturiamo i civili con gusto sadico, ma rispediamo i torturatori con mandati di cattura internazionali pendenti, come Al Masri, finanziandoli pure per continuare a tenere ‘sicuri’ i nostri di confini e di civili. Noi non sequestriamo i bambini e li deportiamo usandoli come riscatto, ma noi deportiamo i migranti in centri per il rimpatrio in Albania, che poi sono prigioni nelle quali le nostre forze dell’ordine li torturano. Proprio in questi centri un paio di mesi fa il nostro governo Meloni ha mandato anche dei minori. Noi non siamo gente che deporta gli immigrati in catene a favore di telecamera, ma il nostro Stato protegge e favorisce lo sfruttamento dei migranti tramite il caporalato per avere manovalanza a basso costo. Non siamo gente che tagli i finanziamenti pubblici alle associazioni umanitarie, ma l’Italia ha tagliato 555,31 milioni di euro nel 2023 in aiuti ad associazioni umanitarie. In più, criminalizza di continuo attivisti e tutte le forme di dissenso sociale dal basso, spionando grazie ai servizi segreti e spyware israeliani direttori di giornali, attivisti per i diritti umani, compagni che lottano contro le galere e i CPR, e così via. Se anche credessimo alle parole di Scurati, se anche credessimo che noi europei siamo dei santi, basterebbe guardare nelle nostre galere, dove i detenuti si suicidano a decine e decine ogni anno per le condizioni inumane, dove i prigionieri politici vengono torturati legalmente con il 41 bis, cosi come nei centri di permanenza e rimpatrio, dove le persone migranti senza documenti sono rinchiuse senza motivo; nei luoghi di lavoro la strage è continua, così come lo è la violenza della polizia nei confronti di chi sta più in basso. Basterebbe guardarsi dentro di noi per capire che le parole di Scurati sono vuote. Ma si può anche guardare ai nostri amici ed alleati fuori dall’Europa, per capire chi siamo davvero noi europei. Certo, magari non siamo direttamente noi a radere al suolo Gaza, ma da dove arrivano le bombe, le armi, le tecnologie che permettono ad Israele di cancellare il popolo palestinese? Come fa Israele ad esistere, se non grazie al supporto di tutto l’Occidente, Europa ed Italia in primis? Di conseguenza, supportare uno stato genocidario rende complici del genocidio. Il sangue versato in Palestina testimonia che quando l’Occidente parla di giustizia intende oppressione, quando parla di difesa intende guerra, di valori intende collaborazionismo genocida. E quindi possiamo davvero credere alle parole di Scrutati quando dice che noi siamo quelli che non torturano, massacrano e deportano, quando il nostro alleato in Asia Occidentale, ovvero Israele, fa esattamente queste cose qua, con il nostro supporto? A due passi da qua, a Tessera, c’è uno stabilimento della Leonardo SPA, la maggior produttrice ed esportatrice in Italia, azienda partecipata dallo Stato, e profondamente legata ad Israele. I cannoni Oto Melara usati per bombardare Gaza sono stati prodotti qua da noi e venduti ad Israele. Sicuramente non ci siamo noi a sganciare le bombe o a radere al suolo i villaggi palestinesi, ma ci sono le nostre armi e tecnologie che lo fanno al posto nostro. Sono queste bombe e tecnologie di oppressione che dimostrano i veri valori europei. Anche il luogo in cui ci troviamo, ovvero uno spazio universitario, non può non essere considerato complice del genocidio. Ca’ Foscari ha rapporti di vario genere con università israeliane, come la Ben-Gurion University, con la quale costruisce algoritmi di intelligenza artificiale nel campo dell’archeologia, ovvero uno strumento culturale per cancellare la presenza delle popolazioni arabe dai territori interessati dal colonialismo israeliano. Per non parlare della presenza di Tiziana Lippiello in Med-Or/Fondazione per l’Italia, ente accademico di Leonardo SPA. Anche in Ucraina magari non siamo direttamente noi a combattere al fronte, ma come si è arrivati al conflitto attuale se non dopo decenni di provocazioni ed espansionismo NATO ad est contro la Russia? Non vediamo i valori occidentali ad EUROMAIDEN del 2014, al rogo della casa dei sindacati di Odessa? Migliaia di proletari russi e ucraini si stanno ammazzando per gli interessi della NATO e della Russia, e l’Europa propone di armarsi per costruire un esercito europeo per difendersi da non si sa bene quale minaccia. È chiaro che armi ed eserciti servono a difendere gli interessi di Stati e borghesie, e a pagare il prezzo della vita sarà gente come noi, giovani che verranno mandati al fronte ad ammazzare altra gente come noi. Beh, a tutto questo noi magari diciamo anche di no, se a voi piace così tanto l’Europa e la volete difendere, andateci voi al fronte a morire quando sarà necessario, noi impariamo dalla Palestina a resistere contro l’oppressione, e dai proletari russi ed ucraini a disertare le guerre del capitale. Ai conflitti mondiali del secolo scorso non si arrivò solo tramite un riarmo generale, ma anche grazie ad un lavoro di intellettuali, sia di destra che di sinistra, che cercavano di convincere le persone alla giustezza e alla necessità della guerra, convincendole ad andare al fronte a farsi ammazzare per gli interessi degli Stati. Adesso succede la stessa cosa, e Scurati ha una responsabilità ben precisa nel prendere parte ad una piazza, come quella del 15 marzo di Roma, che inventandosi nemici immaginare vuole convincere le persone alla giustezza e alla necessità di un esercito di difesa. Il ruolo degli intellettuali della propaganda bellica non può passare in secondo piano. La guerra non è fatta solo di bombe e proiettili, ma è una forma di governo, un’infrastruttura ideologica che dobbiamo abbattere il prima possibile. Per non parlare del fatto che questi 800 miliardi di euro per il riarmo europeo andranno a pesare sulle persone già in difficoltà economica, tagliando servizi pubblici già martoriati, peggiorando una situazione già insostenibile per sempre più persone. Per concludere, chiunque supporti il riarmo europeo, ha un ruolo molto preciso nell’alimentare i venti di guerra. Nascondersi e appellarsi a valori inesistenti nei fatti, data la complicità europea nel genocidio in corso e nella carneficina tra NATO E RUSSIA, è una scenetta triste e imbarazzante, soprattutto per chi dovrebbe essere un cosiddetto intellettuale. Da parte nostra abbiamo ben poco da dire. Se in guerra volete andarci, andateci voi. Come ci insegnano gli oppressi, russi, ucraini, palestinesi e yemeniti, l’unica risposta alla guerra è la diserzione, l’unica risposta all’oppressione è la resistenza. Son questi i nostri valori, non da europei, ma da persone che odiano questo mondo e la guerra che lo sostiene.
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Contro il fascismo di ieri e di oggi. Sui fatti dello scorso 28 aprile a Lecco
Riceviamo e diffondiamo Qui il racconto in pdf: Contro il fascismo di ieri e di oggi 2 pag Contro il fascismo di ieri e di oggi A Lecco il 28 aprile un manipolo di fascisti ha indetto un presidio per ricordare gli infami repubblichini fucilati nel 1945 allo stadio cittadino. Vogliamo innanzitutto ricostruire i fatti avvenuti in quei giorni di 80 anni fa, per far comprendere a chi vuole rimuovere quelle vicende, le motivazioni della contestazione. Erano i giorni della Liberazione. Gli eserciti occupanti si stavano disgregando, affrontati da un numero sempre maggiore di partigiani. I nazifascisti in rastrellamento vengono impegnati dalla brigata Garibaldi e tra il 25 e il 26 aprile 1945 cadono nelle mani dei partigiani. Vi è ancora qualche resistenza, alcuni cecchini sparano dai tetti delle case. A Lecco le brigate fasciste Leonessa e Perugia, provenienti da Brescia, che si erano avviate sulla strada per Como, tornano sui propri passi e occupano un’abitazione in via Como all’angolo con via Previati, decidendo di affrontare la formazione SAP Poletti di Lecco e la Brigata Rosselli che, guidata da Piero Losi, è nel frattempo entrata in città. Il 26-27 aprile si scatena la battaglia di Pescarenico e i fascisti assediati si difendono senza incertezze finché ad un tratto da una finestra viene sventolata una bandiera bianca. Quando quattro partigiani escono allo scoperto per parlamentare, nella convinzione che quelli stiano per arrendersi, vengono falciati al suolo dalle mitraglie dei repubblichini. A terra si raccolgono i corpi dei compagni Giovanni Giudici detto Farfallino, Antonio Polvara, Silvano Rigamonti, Ettore Riva, due dei quali rimasti uccisi, gli altri feriti. Così la battaglia riprende con una vasta concentrazione di partigiani fino a quando, la sera del 28, è annunciata la cattura dei giovani fascisti, arresisi anche perché ormai privi di munizioni. I fascisti vengono arrestati, condotti alle scuole in via Ghislanzoni e processati: sedici fra essi, considerati responsabili del vile attacco, vengono condannati a morte e fucilati nello stadio Rigamonti Ceppi. In nome di quei partigiani uccisi si è deciso di contestare la manifestazione fascista, con la volontà di impedire il raduno. Alle 19 era prevista una chiamata pubblica indetta da alcune individualità a poche centinaia di metri dallo stadio. Nel frattempo anche l’ANPI cittadina ha indetto un presidio per le ore 18.30 a pochi metri dal precedente: il presidente locale dell’ANPI è intervenuto affermando che bisognava stare fermi in quel luogo e non accettare le (sic) “provocazioni” di chi voleva muoversi per andare a contestare i fascisti. Alle ore 19.00 il comizio è stato interrotto invitando tutti a muoversi in direzione dello stadio. Almeno la metà dei presenti ha deciso di partire in corteo, fregandosene delle manfrine dei politicanti. Subito la celere si è frapposta per evitare che le oltre 300 persone potessero raggiungere lo stadio. Con la polizia in assetto antisommossa schierata, si è deciso di raggiungere altri punti della città vicini allo stadio. Un rumoroso corteo “spontaneo”, espressione di diverse idee, percorsi politici e sensibilità, ma anche di semplici cittadini ha attraversato le strade di Lecco cercando di arrivare al raduno fascista, intasando il traffico cittadino, volantinando, urlando cori, facendo veloci cambi di percorso quando la celere chiudeva una strada per percorrerne un’altra. Un corteo senza alcuna regia preconfezionata, ma felicemente autogestito con rapide decisioni e repentine scelte consequenziali. Ci si è provato in molti modi, senza purtroppo riuscirci ad impedire fisicamente la commemorazione di quei fascisti che avevano trucidato vigliaccamente i partigiani! Sarà per la prossima! Resta il fatto che i fascisti sono rimasti accerchiati, con blindati che giravano per la città posizionandosi di volta in volta in un punto diverso per difenderli. Certo, la celere si sarà sicuramente divertita nel tirare manganellate alla cieca appena gli antifascisti arrivavano a contatto diretto con loro; per le autorità ormai è normale lasciare qualche livido a chi osa lottare contro le ingiustizie imposte dal potere. Il corteo ha deciso di finire il suo percorso in stazione, dove è situato anche il Comune di Lecco. Il portone spalancato del Municipio ha accolto i manifestanti che, a quel punto, hanno pensato di far sentire la propria voce, contro la celebrazione fascista, urlando cori dal cortile interno del Palazzo, mentre era in corso un consiglio comunale. Da qui è partito l’intervento violento della celere, volto a chiudere l’accesso al municipio. Alcuni compagni e compagne hanno retto la prima carica, permettendo così l’uscita dal Comune a chi era entrato nel cortile. In seguito, dopo altre manganellate a casaccio a cui qualcuno dei presenti ha giustamente reagito, il corteo si è concluso proprio nella piazza da cui era partito. Questo è il racconto reale degli avvenimenti del 28 aprile, ogni altra ricostruzione è falsata da media e politicanti locali non presenti alla manifestazione, o in malafede. Questa serata ha dimostrato, ancora una volta, che lottare è possibile, basta mettersi in gioco. Di sicuro assistiamo ad un aumento della violenza della polizia, ma ciò deve portare tutti a scendere in piazza sempre più determinati, decidendo anche di darsi maggiori strumenti di autodifesa. Della serata del 28 è evidente il fatto che nessuno si è tirato indietro, tutti hanno risposto alle cariche compattandosi senza scappare: si è rimasti uniti nella voglia di combattere il fascismo e i suoi “nipotini”. Nella situazione di guerra (questione innanzitutto interna prima che estera) in cui viviamo, la militarizzazione della società non farà altro che aumentare: sta ai sinceri ribelli e rivoluzionari trovare gli strumenti adatti a combatterla. Dunque davanti al genocidio automatizzato dei palestinesi, alle guerre tra Stati che usano la popolazione come carne da cannone, ad un mar Mediterraneo diventato un cimitero e all’autoritarismo sempre più becero che stiamo vivendo, continuare la lotta, antifascista, antimilitarista e antisionista, ci sembra l’unica via percorribile per restare umani. E per quanto riguarda i fascisti lecchesi, un solo pensiero: “¡No pasarán!” Contro ogni autoritarismo, morte al fascio di ieri e di oggi! 30 aprile 2025 Assemblea permanente contro le guerre di Lecco  
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Le vite che contano
Riceviamo e diffondiamo: Le vite che contano Il 15 aprile scorso Tarek Dridi è stato condannato dal tribunale di Roma a 4 anni e 8 mesi. Il 5 ottobre 2024 nella capitale si svolse il corteo in solidarietà con il popolo palestinese, la sua resistenza e contro il genocidio. In seguito alle pressioni della cosiddetta e autoproclamata “comunità ebraica” romana, la questura vietò quell’iniziativa; sfidando il divieto centinaia di solidali, provenienti da tutta la penisola, si radunarono al concentramento in piazzale ostiense. Dopo essere rimasti per ore rinchiusi all’interno della piazza, di cui tutti i varchi erano chiusi dalle camionette della polizia, i manifestanti provarono a partire in corteo e, all’imbocco di via Ostiense, gruppi di giovani tentò di sfondare il cordone delle forze dell’ordine. Ci furono scontri ed in seguito lanci di lacrimogeni e cariche all’interno della piazza. Caricando gli sbirri non si sono macchiati solo del poco sangue dei manifestanti ma, ben peggio, del molto sangue di un popolo oppresso. Gli arresti, i fogli di via, i divieti, le intimidazioni, sono le prove della complicità dello Stato Italiano con quello israeliano. Quel giorno Tarek non partecipa al corteo ma si trova nei pressi, all’esterno dei cordoni della polizia, vede le persone con le bandiere della Palestina e si interessa a quando accade. Poi la polizia carica ed inizia a manganellare, come dichiarerà al processo di fronte a queste scene non può non intervenire e si frappone tra le cariche e i manifestanti. Ha un ombrello in mano, poi compie degli atti di autolesionismo tagliandosi con dei cocci di bottiglia. La polizia sosterrà che in seguito li abbia aggirati e presi ad ombrellate, ma tutte le prove video smentiscono queste accuse. Tarek, con questo gesto di nobile rabbia, è uno che di fronte all’ingiustizia non si è voltato dall’altra parte. La settimana seguente (il 18 ottobre) viene fermato, riconosciuto ed arrestato; essendo senza fissa dimora non gli vengono concessi i domiciliari, da quel giorno è rinchiuso in carcere. Di lui si sarebbero perse le tracce, se non fosse stato per la solidarietà dei detenuti del carcere di Regina Coeli che lo hanno messo in contatto con un avvocato di movimento. Tarek sta pagando per tutti la giornata di lotta del 5 ottobre, per essersi semplicemente e giustamente opposto alla violenza della polizia la giudice lo ha condannato ad una pena più alta di quella richiesta dall’accusa: cinque anni, un tempo che per molte persone vale una vita. Tarek, ancora un invisibile inghiottito nel ventre dello Stato, uno che per chi comanda non conta niente, uno che “devi stare zitto e non rompere i coglioni se no ti buttiamo via” Nei giorni in cui è stata emessa la sentenza di primo grado per Tarek si è tenuta all’Aquila la seconda udienza del processo ai tre palestinesi, Anan, All e Mansour, accusati di proselitismo e finanziamento del terrorismo. Assistendo alle udienze di questo processo abbiamo la sensazione di partecipare ad una farsa. Una farsa rappresentata presso una procura di provincia dove i dirigenti dell’antiterrorismo (DNAA) ed i magistrati possono compiere le loro manovre in un relativo silenzio. Imbastiscono una montatura, in cui si utilizzano verbali di interrogatorio forniti dai servizi segreti israeliani ed estorti in centri di detenzione in cui si applica la legge marziale e la tortura. Intimidiscono i testi e travisano le loro parole (ad esempio il termine fratello o martire trasportati da un contesto culturale ad un altro assumono un senso differente). Mettono in chiaro come in Italia essere semplici conoscenti di un parigiano palestinese, tra l’altro esule da anni, può comportare incriminazioni ed arresti. Per questo riteniamo che quanto accade all ‘Aquila deve essere conosciuto, messo in evidenza e contrastato in uno spazio ben più esteso dei limiti angusti in cui lo vorrebbero relegare. Questo processo è una farsa che dimostra il servilismo dello Stato italiano, la cui miserrima classe dirigente sembra primeggiare all’interno del panorama internazionale nella pratica del baciaculo. Una farsa che serve a permettere di fare carriera a qualche dirigente locale mandando in galera le vittime sacrificali di turno. Come apprendiamo dalle cronache locali: “ Il capo della polizia ha riconosciuto un avanzamento di grado per merito straordinario agli agenti della DIGOS dell’Aquila che sul nascere hanno disarticolato un gruppo di giovani palestinesi dimoranti in città che stavano progettando attentati in Cisgiordania” – questi festeggiano ancora prima che la partita finisca – . Una farsa che coinvolge tre persone che giustamente supportano la legittima autodeterminazione del loro popolo, contemporaneamente centinaia di cittadini europei, con doppio passaporto, combattono con l’esercito israeliano e compiono crimini di guerra senza che nessuna istituzione abbia nulla da obiettare. Di fronte a questa farsa Anan ha parlato con la chiarezza e con la dignità che nessuna corte può togliere ad un vero combattente. Riportiamo integralmente il suo intervento, che abbiamo trascritto, premettendo che queste parole sono state proferite in video conferenza, pratica che disumanizza e sminuisce l’imputato nelle sua possibilità di una piena interlocuzione ed autodifesa, premettendo anche che la traduzione fatta dall’interprete della procura ne svilisce lo stile. Sono qua per un motivo politico perché io non ho fatto niente contro la legge italiana. Però rispetto la decisione del tribunale che non vuol fare entrare la politica dentro quest’aula. Perché voi usate la politica per giudicarmi. Perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana, dovete considerare tutti i documenti e tutti gli atti delle comunità internazionale che voi riconoscete. Perché dovete considerare tutti i documenti a livello internazionale, che riconoscono che nelle prigioni israeliane le regole e i diritti umani non sono rispettati. Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete però preso in considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo israeliano. Signor giudice voi non avete dato il diritto a me di difendermi, la stessa cosa mi è successa nei tribunali di Israele. Avete preso in considerazione testimoni della causa contro di me, invece non avete preso in considerazione la mia testimonianza. Il procuratore ha usato dei fascicoli e dei documenti stranieri contro di me, però avete rifiutato i documenti che ho presentato io. Avete rifiutato di sentire dei testimoni che ho proposto io, questo è contro la legge in Italia. E mettete fretta quando parlo io. E mettete fretta anche quando parla la difesa, non volete darmi e darci il tempo necessario per parlare. Come se dopo che finisse l’udienza io me ne andassi su un’isola delle Maldive e non dovessi ritornare in carcere. Perché avete fretta di finire la causa, invece di applicare la giustizia. Sento che sono estremamente oppresso. Sento che subisco una grande ingiustizia in questo tribunale. Come se stessi in un tribunale-farsa, un tribunale che non è che di facciata, come è stato fatto in Francia contro gli algerini. Come fosse un tribunale militare in Israele. Se questo è corretto vuol dire che la mia condanna è già scritta. Emettete la vostra condanna, non è necessario fare tutte queste udienze. Così passo, tutto quello che devo passare, in prigione. Invece se questo tribunale rispetta la democrazia, e rispetta i vostri diritti umani, e abbiamo diritto come altri popoli di vivere in libertà, dovete darmi i miei diritti come essere umano. Perché abbiamo già passato abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani. Dovete lasciarci in pace. Viva la resistenza palestinese fino alla libertà, fino a che la Palestina sarà libera! “ Le vicende umane che abbiamo narrato sono le propaggini di un genocidio che entrerà nella storia come l’ennesima pagina nera del colonialismo occidentale. Oltre a ciò in questi episodi giudiziari si manifesta il totale disprezzo che vige in questo società da parte di chi detiene il potere verso la vita di chi sta ai margini, e questi margini si restringono costantemente escludendo un numero crescente di persone. Vite che si possono sacrificare per garantire il perdurare del dominio capitalista, tanto nelle guerre, quanto nelle gabbie in cui si rinchiudono i corpi eccedenti, o quanto in una quotidianita resa sempre più soffocante e misera. Queste vite non valgono nulla per i padroni, valgono tutto per noi, perché sono le nostre stesse vite. Sono le vite ai margini che possono abbattere questa infame società. Il Processo ad Anan, Alì, Mansour marcia a tappe forzate. Il 21 maggio si terrà un’importante udienza, a cui sarà importante partecipare, ed in vista della quale sarà utile che la mobilitazione in sostegno ad Anan, Alì e Mansour si faccia sentire. Complici e solidali
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Ondata di azioni contro le galere in Francia
Ringraziando chi le ha fatte, riceviamo e diffondiamo queste traduzioni da http://sansnom.noblogs.org. Nei link agli articoli originali sono presenti numerose immagini di questa impressionante ondata di attacchi contro le prigioni e chi le fa funzionare. Qui il video di una delle azioni raccontate negli articoli: IMG_4916 A proposito dell’attacco coordinato di queste due ultime notti contro la penitenziaria Le notti da domenica a lunedì 14 aprile, poi da lunedì a martedì 15 aprile, sono state segnate da degli attacchi contro diverse strutture della penitenziaria e dei suoi tirapiedi, in una decina di città del Sud e della periferia parigina. Delle auto di secondini che erano posteggiate nel parcheggio delle prigioni (Réau, Valence, Villepinte, Aix-Luynes, Nîmes), o a fianco della scuola nazionale della penitenziaria (Agen) o ancora davanti ai loro alloggi di servizio (Marsiglia, Nanterre) sono andate in fumo. Inoltre, il portellone d’ingresso di una prigione è stato mitragliato (Toulon-La Farlède), e il portone di una base-ERIS1 è stato incendiato (Aix-Luynes). Questo “attacco coordinato” durante due notti di fila ha portato la Procura nazionale antiterrorismo (PNAT) ad avocare l’inchiesta, per poi affidarla alla sotto-direzione antiterrorismo della polizia giudiziaria, ai servizi locali e alla direzione generale della sicurezza interna (DGSI). L’inchiesta comprende “tre accuse, tra cui associazione a delinquere con finalità di terrorismo2” ha precisato oggi il ministro della Giustizia, poiché “la natura stessa dell’azione” riflette un’operazione “concertata il cui obiettivo è di sconvolgere gravemente l’ordine pubblico mediante l’intimidazione”. Quanto ai secondini, sono chiaramente disgustati, a immagine del segretario nazionale della CGT penitenziaria, Damien Tripenne, che ha dichiarato tutto turbato ad un’importante emittente radiofonica: “Ho dei compagni, dei colleghi, che sono devastati perché i veicoli che sono stati presi di mira sono i loro, le abitazioni che sono state puntate sono le loro… è necessario che la paura cambi di campo” (RTL, 15/4) Inoltre i portavoce del ministro dell’Interno hanno precisato che in diversi luoghi è stata trovata la sigla “DDPF” (interpretata dai giornalisti come l’acronimo di “diritto [o meglio difesa] dei prigionieri francesi”, dal nome di un canale Telegram), ma anche degli “slogan anarchici”. Il che li ha portati a mettere in evidenza nelle loro chiacchiere tanto la pista “dei gruppi di ultrasinistra”, che quella del “narcotraffico”. Una famosa “fonte vicina al caso” ha così dichiarato ad un’agenzia di stampa statale che “secondo i primi elementi dell’inchiesta, la pista anarchica sembra prendere piede nella vasta maggioranza dei fatti” (AFP 15/4, 15:50). Ad ogni modo, la loro ipotesi è che questi attacchi siano legati alla lotta degli uni e degli altri contro la costruzione di vaste sezioni di alta sicurezza, delle vere e proprie tombe dove saranno sepolti vivi centinaia di prigionieri a partire da quest’estate… e più in generale contro l’inasprimento delle condizioni di detenzione (aria e attività ridotte, pestaggi e umiliazioni da parte dei secondini…) favorita dall’arrivo di Darmanin al ministero della Giustizia. Questa è una prima panoramica di questa serie di attacchi notturni contro l’amministrazione penitenziaria e i beni del suo piccolo personale: – Agen (Lot-et-Garonne). Domenica 13 aprile verso le 23:30, degli sconosciuti si recano davanti ai locali della Scuola nazionale d’amministrazione penitenziaria (Enap) e danno fuoco alle auto delle guardie in formazione. Sei di queste vengono distrutte completamente dalle fiamme, altre due sono danneggiate, e 1000 allievi secondini vengono evacuati in piena notte per permettere ai pompieri di intervenire. Una scritta “DDPF” viene trovata per terra. – Réau (Seine-et-Marne). Nella stessa notte da domenica a lunedì 14 aprile, l’automobile di una sorvegliante viene incendiata nel parcheggio della prigione e delle tracce di idrocarburi sono ritrovate su altri tre veicoli di secondini, che non hanno preso fuoco. – Valence (Drôme). Nella stessa notte da domenica a lunedì 14 aprile, verso le 21:45, due veicoli delle guardie sono incendiati nel parcheggio del centro penitenziario da uno sconosciuto arrivato e ripartito con un monopattino. Ha versato della benzina prima di appiccare il fuoco e scrivere la sigla “DDPF”. – Villepinte (Seine-Saint-Denis). Nella notte seguente, da lunedì a martedì 15 aprile, verso le 22:30 tre automobili di secondini vengono incendiate: due posteggiate nel parcheggio visitatori e una nel parcheggio del personale della prigione. Due sconosciuti sono entrati nel complesso passando per un cumulo di terra, incendiando ognuno un veicolo, mentre il terzo è stato raggiunto per propagazione. – Aix-Luynes (Bouches-du-Rhône). Nella notte da lunedì a martedì 15 aprile, poco dopo le 2 del mattino, due veicoli (di cui uno dei secondini, l’altra di un detenuto in semi-libertà) vengono distrutti nel parcheggio del centro penitenziario. Inoltre, la porta della base del Centro estrazioni giudiziarie3 e dell’Equipe regionale di intervento e sicurezza (PREJ-ERIS) è stata incendiata. – Marsiglia (Bouches-du-Rhône). Nella notte da lunedì a martedì 15 aprile, poco prima dell’1, un’automobile viene incendiata e una decina di altre imbrattate con la scritta “DDPF” nel parcheggio della residenza “Domaine des Chutes Lavies”, 9 impasse Sylvestre nel 13° quartiere, dove alloggiano degli agenti penitenziari. Questa residenza si trova pure in prossimità dei locali della protezione giudiziaria della gioventù (PJJ). – Nanterre (Hauts-de-Seine). Lunedì 14 aprile verso le 20, due sconosciuti in scooter incendiano il veicolo di un capitano in carica alla prigione. Era parcheggiata in una piazzola riservato al personale, davanti agli alloggi dei secondini. I due incendiari hanno scritto l’acronimo “DDPF” per terra prima di lasciare il luogo. Un bidone di benzina è stato trovato nelle vicinanze. – Toulon-La Farlède (Var). Nella notte da lunedì a martedì 15 aprile verso mezzanotte e quaranta, la porta d’ingresso del centro penitenziario viene crivellata da 15 fori di proiettile in seguito a un mitragliata di kalashnikov. Una delle pallottole è riuscita ad attraversare la porta d’ingresso della prigione per piantarsi nel vetro della reception dove si trovava una sorvegliante. Una grande scritta “DDFM” viene ritrovata sull’ingresso mitragliato della galera. – Nîmes (Gard). Nella notte da lunedì a martedì 15 aprile, verso le 21, una BMW viene incendiata di fronte alla casa circondariale e delle lingue di fuoco si levano da diverse persone travisate, mentre la sigla “DDPF” viene scritta sul muro di cinta. Il giorno prima, 8 veicoli erano già bruciati verso le 2:30 nella concessionaria Toyota che si trova a pochi passi dalla prigione [Sintesi della stampa regionale, 13-15 aprile 2025] 1Equipe regionale di intervento e sicurezza [NdT] 2La traduzione letterale sarebbe “associazione di malfattori terroristi” [NdT] 3Unità della penitenziaria che si occupa dei trasferimenti [NdT] Qui l’articolo originale: https://sansnom.noblogs.org/archives/25516 Tre notti di attacchi contro le guardie e un primo bilancio [aggiornato] Dalla sera di domenica 13 aprile, un’ondata di attacchi incendiari (e non solo) colpisce la polizia penitenziaria e i beni dei suoi tirapiedi in una decina di città del sud e della regione parigina. Dopo una prima sintesi pubblicata due giorni fa, qui sotto potete trovare una piccola aggiunta infuocata sulla terza notte, quella da martedì a mercoledì 16 aprile, dove il blu-secondino ha conosciuto nuovamente un gusto di cenere. Peraltro mentre a fianco di diversi obiettivi colpiti sono state trovate delle sigle DDPF (che secondo i giornalisti sarebbe l’acronimo di “Difesa dei diritti dei prigionieri francesi”, dal nome di un canale Telegram), il ministro dell’Interno menziona anche degli “slogan anarchici”. Oggi, uno dei suoi portavoce quotidiani ha dato un po’ più di dettagli a tal proposito (Le Monde 17/4), precisando che “in particolare ad Angers, sulle facciate delle abitazioni vicina alla casa circondariale sono state riscontrate delle scritte fatte a bomboletta: “sostegno ai prigionieri.e” e “la prigione uccide” ”. A dire il vero, queste scritte erano state trovate all’inizio del mese di aprile, cioè prima degli attacchi… il che non toglie nulla alla loro pertinenza, al contrario, in particolare il “che crepino le galere”, di un’attualità bruciante, in rue Brisepotière. Inoltre, per quel che riguarda un primo bilancio, il procuratore nazionale antiterrorismo Olivier Christien ci ha tenuto a fare delle dichiarazioni di persona riguardo a questi attacchi (in una lunga intervista concessa a France info, 17/4): fa riferimento a “12 fatti, due contro delle abitazioni personali di agenti dell’amministrazione penitenziaria, un attacco condotto contro dei veicoli nel parcheggio della Scuola nazionale penitenziaria (Enap) e poi nove fatti direttamente contro degli stabilimenti penitenziari”. Geograficamente, “sono otto i dipartimenti che sono stati colpiti”, di cui “un terzo dei fatti commessi nelle Bouches-du-Rhône, un terzo della regione Île-de-France”, con un totale di “21 veicoli incendiati e una decina di veicoli danneggiati” (senza parlare della mitragliata alla porta della galera di Toulon e l’incendio di quella degli ERIS a Aix-Luynes). Infine, questo difensore fanatico del terrorismo di Stato e fervente adepto della propaganda blindata, ha pure aggiunto uno manto di complottismo di cui possiede il segreto: “possono essere dei gruppi di persone politicamente radicalizzate, possono essere dei gruppi più legati alla criminalità organizzata, può essere anche una convergenza di obiettivi e di persone che si manipolano gli uni con gli altri: tutto è possibile”. – Tarascon (Bouches-du-Rhône). Nella notte da martedì a mercoledì 16 aprile, verso le 5:20 del mattino, tre veicoli vengono incendiati nel parcheggio custodito del centro penitenziario: uno apparteneva a un secondino e l’altro ad un impresa operante nel centro di detenzione. – Aix-Luynes (Bouches-du-Rhône). Nella notte da martedì a mercoledì 16 aprile, mentre il giorno prima due automobili erano già bruciate nel parcheggio della galera, questa volta è l’auto di un rappresentante del personale SPS (Sindacato penitenziario dei sorveglianti) della prigione di Luynes che divampa davanti alla sua abitazione… – Villenoy (Seine-et-Marne). Nella notte da martedì a mercoledì 16 aprile, verso le 2:30 del mattino, un principio di incendio velocemente spento divampa nell’ingresso del condominio di una secondina che lavora nella vicina prigione di Meaux-Chaucoin, mentre la scritta “DDPF” viene tracciata sul muro e la sua automobile viene spaccata nel parcheggio. – Amiens (Somme). Nella serata di mercoledì 16 aprile, la cassetta delle lettere dell’abitazione di una secondina che lavora nella prigione della città è imbrattata con le lettere “DD” [per “Difesa dei diritti dei prigionieri francesi”?], mentre alla sua macchina vengono squarciati i pneumatici. [Seguono degli estratti di due articoli di giornale: “Questioni dopo gli attacchi alle prigioni” e “Dopo gli attacchi contro le prigioni, resta l’incertezza sull’identità dei mandanti”, entrambi apparsi su Le Monde il 17 aprile] Qui l’originale: https://sansnom.noblogs.org/archives/25637#more-25637 Saint-Martory (Haute-Garonne): il secondino perde tre vetture in un colpo I pompieri riescono a controllare l’incendio, impedendo la distruzione della quarta macchina oltre che delle abitazioni vicine: “Questa persona si è ferita durante l’intervento ed è stata trasportata con relativa urgenza verso un centro ospedaliero”, precisa il Sdis 31. Il secondino si sarebbe leggermente bruciato le mani. La vittima è un sorvegliante penitenziario in servizio presso la casa circondariale di Seysses, secondo le informazioni di cui siamo in possesso. Sotto choc, ha fatto denuncia. In questa fase non è stata avanzata alcuna rivendicazione. I gendarmi della compagnia di Muret vagliano diverse piste: quella di un semplice incidente che ha causato una propagazione, o la possibilità di un atto volontario. L’inchiesta per determinare se questo funzionario sia stato colpito a causa della sua professione o per altre ragioni potrebbe essere lunga e complessa. Venerdì 18 aprile 2025, dei manifesti sono stati attaccati nella città di Muret, vicino all’abitazione di uno degli agenti di Seysses. Rappresentavano un gorilla che grida “Fuoco alle galere!”, con in basso un’annotazione indicante: “Distruggiamo tutti i luoghi di reclusione! Solidarietà con i prigionieri”. Bisogna vederci un legame con i veicoli bruciati a Saint-Martory, situata a 40 minuti da Seysses e altrettanti da Muret? “Teoricamente non c’entra nulla”, risponde la compagnia di gendarmerie di Saint-Gaudens. Ma nessuna piste è esclusa. Le indagini proseguono. Qui l’originale: https://sansnom.noblogs.org/archives/25797#more-25797 Corbas/Villefranche (Rhône): i secondini sotto pressione Prigioni prese di mira: un veicolo incendiato vicino a Lione-Corbas, la scritta “DDPF” su di un immobile a Villefranche-sur-Saône. France3 20 aprile 2025 Questa domenica 20 aprile, una macchina è stata trovata bruciata sul boulevard des Nations Unies, nelle vicinanze della prigione di Lyon-Corbas. “Il servizio di notte l’ha individuata grazie alle telecamere di sorveglianza e ha allertato i pompieri e le forze dell’ordine”, precisa Didier Lui-Hin-Tsan, segretario regionale FO Justice1 Lione. Non si trattava della macchina di un agente penitenziario. Circa 300 agenti lavorano all’interno della prigione. Da una settimana “vengono a lavorare con un nodo allo stomaco”. Didier Lui-Hin-Tsan elogia le diverse direttive di sicurezza prese dalle autorità ma ritiene che gli agenti siano “troppo identificabili”. “Ogni giorno aspettano di entrare nella prigione e sono in mezzo ai visitatori, sono in uniforme e facilmente riconoscibili” precisa. Una sigla “DDPF” è stata trovata su di un muro della casa circondariale, vicino all’ingresso per i veicoli. Un’altra è stata trovata più lontano, secondo FO. Questo acronimo è tornato a più riprese nelle recenti azioni registrate contro le strutture carcerarie. Si tratterebbe di un gruppo: “Difesa dei diritti dei prigionieri francesi”. A Villefranche-sur-Saône (Rhône) vicino a Lione, queste quattro lettere sono state anche scritte accanto all’entrata di un immobile, in una strada in cui vive un agente penitenziario. La porta dell’edificio è stata incendiata. L’inquietudine è grande presso i sorveglianti dei centri di detenzione. “Questo ci tocca psicologicamente poiché ormai abbiamo paura per le nostre famiglie, siamo nell’ipervigilanza”, confida Nénette, segretaria locale del sindacato Unsa-Ufap Justice del centro penitenziario di Villefranche-sur-Saône. “Ci chiediamo quando finirà”, aggiunge. Tanto più che la settimana scorsa due sorveglianti della casa circondariale di Villefranche-sur-Saône hanno visto le loro identità e i loro orari di lavoro divulgati sul social network TikTok. Hanno sporto denuncia e sono state prese delle nuove misure di sicurezza per lo stabilimento. Secondo i sindacati, la polizia ha intensificato le ronde intorno alla prigione. Il parcheggio dello stabilimento, riservato al personale, è particolarmente sorvegliato. Laetitia Francart, procuratore della Repubblica di Villefranche-sur-Saône, ha confermato l’apertura di due inchieste. La prima per “divulgazione illegale volontaria di dati personali dannosi”. La seconda per “danneggiamento mediante strumenti pericolosi”. 1Sindacato Nazionale Forza Lavoro Giustizia, sindacato del personale del Ministero della Giustizia [NdT] Qui l’originale: https://sansnom.noblogs.org/archives/25805#more-25805
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Azioni
Con la Palestina nel cuore, contro guerra e repressione. Sul corteo di Milano dello scorso 12 aprile
Riceviamo e diffondiamo: CON LA PALESTINA NEL CUORE, CONTRO GUERRA E REPRESSIONE Sabato 12 aprile abbiamo partecipato, insieme ad altre migliaia di persone, al corteo che ha sfilato per le strade di Milano, in solidarietà alla resistenza palestinese e in opposizione al nuovo decreto sicurezza appena entrato in vigore. Durante il corteo sono state imbrattate e danneggiate le sedi di alcuni istituti bancari e Carrefour. Giunti all’altezza di piazza Baiamonti la polizia ha prima fermato e buttato a terra a freddo un compagno e successivamente ha deciso di tagliare a metà il corteo, caricando e isolando alcuni spezzoni. La volontà della questura, ancora una volta, era di creare una separazione tra chi si comporta bene e chi no, tra chi rispetta le regole e chi invece non vuole sottostare al continuo gioco di contrattazione con lo Stato. Purtroppo per la polizia, dopo le cariche migliaia di persone hanno deciso di non proseguire il corteo chiedendo il rilascio dei compagn fermat. Triste eccezione alla solidarietà dimostrata da buona parte del corteo è il comportamento del servizio d’ordine gestito dall’A.P.I. che ha di fatto protetto la polizia nel momento in cui un compagno veniva fermato violentemente. Comportamento che è stato molto apprezzato dalle forze dell’ordine tanto da fargli guadagnare i complimenti di un agente dei ROS e, inoltre, rivendicato nel loro primo comunicato di dissociazione dai fatti avvenuti. In un momento in cui la guerra bussa sempre più forte alle porte dell’Europa e alla quale lo Stato si prepara con una nuova corsa agli armamenti e con una legislazione sempre più dura verso qualsiasi forma di lotta è necessario oggi più che mai scendere in piazza portando anche in maniera conflittuale la giusta rabbia contro un sistema mortifero fatto di guerra, miseria e sfruttamento. È necessario rivoltarsi ma rivoltarsi per davvero! Se da parte nostra non abbiamo mai avuto fiducia nello Stato e non abbiamo mai accettato compromessi con esso pensiamo sia inaccettabile, nella città delle zone rosse, nel paese dei pacchetti sicurezza, vedere chi contratta con la polizia per scendere in strada e addirittura prenderne le difese. I 6 fermat durante il corteo sono stat poi rilasciat in serata con le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e un compagno con anche l’accusa di concorso in danneggiamento. Sono stati inoltre dati 3 fogli di via dalla città e alcuni daspo dalla zona del corteo. Contro una divisione tra manifestanti che serve solo ad isolare e reprimere. Contro la pacificazione della società. Per l’autodeterminazione dei cortei, affinché sbirri e annessi non si sentano liberi e tranquilli all’interno di essi. Solidarietà a tutt i fermat! Solidarietà al popolo palestinese!
Stato di emergenza