Tag - Stato di emergenza

I maranza e la legge
Riceviamo e diffondiamo questa salutare riflessione proveniente dalla provincia forlivese, ma che affronta dinamiche di segno generale su “un mondo in cui il social sta soppiantando il sociale” e dove la legge reprime le espressioni di quel disagio che essa stessa contribuisce a creare. Quasi scontata, ma giustamente denunciata nell’articolo, la complicità del giornalismo padronale. A quest’ultimo proposito, l’autore ci segnala un link da un giornalaccio locale, riportato in fondo all’articolo. Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/i-maranza-e-la-legge/ I MARANZA E LA LEGGE Pubblichiamo un contributo individuale che parte da un recente fatto di cronaca che ha coinvolto alcuni giovani forlivesi indicati dalla polizia e dai giornali locali come appartenenti ad una “baby gang”. A prescindere dal fatto che questo termine serve oggi a designare uno tra i tanti nemici interni con cui lo Stato legittima i suoi dispositivi di repressione, lo scritto parte dalle premesse che, se non può essere giusta la prevaricazione come metodo contro chi viene percepito più debole, la violenza agita da parte di chi sente più forte, forse perché nasconde un profondo senso di fragilità, non può essere considerata criticamente senza considerare il contesto sociale in cui le dinamiche interpersonali e di potere sono inserite. C’è il rancore prodotto dallo stigma che accompagna chi, come i giovani immigrati o le seconde o terze generazioni, non vengono riconosciute come titolari dei diritti di cittadinanza, sfruttate quando lavorano, criminalizzate quando non lo fanno, sotto stretta profilazione quotidiana da parte delle forze di polizia. C’è la fine delle cosiddette “grandi ideologie” del ‘900 che hanno ceduto il passo ai valori che la società capitalista insegna, introiettati oggi per mezzo della scuola-azienda-caserma il cui unico compito è quello di mettere in competizione gli individui per ottenere una posizione. Ma c’è anche un altro tipo di scolastica, quella tipica dei social network, che partendo dalla medesima logica competitiva insegna che chi ottiene like e follower vale anche nella vita reale, chi non ottiene attenzione – questo genere di merce che si cerca di acquisire – è destinato ad un’essenza insignificante, da “perdente”. La gestione pandemica del 2020-2022, con il suo corollario di privazioni, divieti ed estraniazione sociale, ha certamente aggravato il senso di alienazione e mancanza di rapporti reali di questa generazione che si trova a crescere in questo determinato momento storico e che – ovviamente in parte, perché è sempre stupido generalizzare – crede che solo dalla sopraffazione altrui (che sia economica o fisica) possa arrivare il successo, il riscatto, l’attenzione prima social e poi magari sociale. In un mondo, quello occidentale, in cui il social sta soppiantando il sociale. Oggi accusata di essere la nuova “classe delinquente”, durante un’ipotetica guerra – che appare sempre meno ipotetica e sempre più probabile, oltre che sempre più digitalizzata e interconnessa – la generazione social che ha imparato la lezione della competizione e della sopraffazione potrebbe imparare anche quella dell’obbedienza. L’ordine pubblico ne gioirebbe e lo Stato avrebbe la sua carne da cannone. Da questo racconto, possiamo dedurre che la rabbia a volte è maldiretta. Come ribadito in questo scritto, quando succede che i rapporti di forza, solitamente sbilanciati dalla parte dello Stato, vacillano “è solo perché chi è oppressx si ribella e mette in discussione, in maniera conflittuale non democratica, le regole vigenti”. E queste regole, detto per inciso, riguardano anche i rapporti di potere. Ma è proprio dal conflitto che può nascere la possibilità di una società se non democratica – che oramai questo è un termine che il potere ha fatto pienamente suo, e che significa molte cose diverse – di sicuro più libera. -------------------------------------------------------------------------------- Forse non dalla parte dei maranza, di certo non dalla parte della legge! Sull’arresto dei regaz della “baby gang” a Forlì (22/03/25) Giornali online e cartacei in questi giorni sono strapieni della notizia degli arresti fatti a Forlì dai solerti uomini della Squadra Mobile della Questura di Forlì-Cesena: 15 idenificati, tutti tra i 17 e i 20 anni, dieci mandati d’arresto, nove eseguiti con altrettante persone in carcere e una ancora latitante, e speriamo per per molto tempo. Ovviamente non mancano le dichiarazioni dei vari politici fascio-nazional-popolari che affollano il palazzo comunale di Forlì (mentre i sinistrosi tacciono, perchè non possono difendere dei criminali, ci mancherebbe!) che chiedono pene dure, più controlli, più multe, più arresti, più videocamere, più soldi per i sicari in divisa… quello che chiedono sempre insomma. Soltanto per il gusto e la voglia di non lasciare il monopolio della narrazione di questa vicenda della “baby gang sgominata” a fascisti, sbirri e opinionisti radical chic, mi pare onesto prendersi due minuti per dire qualcosa di ostinato e contrario. Parto da un presupposto che so non essere più tanto di moda: la legge e i codici morali di una società sono il prodotto di un rapporto di forza. Lo Stato fa le leggi per proteggere il potere che amministra e i padroni che lo necessitano; se cambiano delle leggi in senso più “libero” succede solo perché chi è oppressx si ribella e mette in discussione, in maniera conflittuale non democratica, le regole vigenti. In mancanza di conflitto sociale, cioè di una coscienza (anche armata) da parte di chi è sfruttatx di chi sono i suoi nemicx, gli amministratori del potere fanno tutto ciò che possono per stringere il cappio al collo della società: lavorate, producete, pagate le tasse, ubriacatevi una o due volte a settimana e consumate. Non rompete le scatole, che noi facciamo girare i soldi grossi. Questa è l’etica dello Stato, qualunque Stato: certo è che quello italiano è un po’ più fascista di altri in Europa, anche perché i padroni hanno avuto tanta paura negli anni ’60 e ’70 dove si stava per fare la rivoluzione… Perché dico questo? Perché se si crede alla favoletta della democrazia nella quale abbiamo tuttx le stesse opportunità, siamo tuttx cittadinx ugualx e con pari diritti e doveri, allora questa “baby gang” pare proprio un frutto marcio del bell’albero della borghesissima e depressissima città di Forlì (che poi, frutto marcio, suvvia, restituiamo un po’ di dignità alla realtà: furti di biciclette, un paio di rapine di cellulari, spaccate in dei tabacchi, risse tra regaz…cose che si sono SEMPRE viste in tutte le città). Ma visto che non ci credo alle favole della propaganda (ma a quelle degli gnomi, delle fate, dei draghi che bruciano i castelli dei Re sì!) mi dico che è la logica conseguenza di un sistema che ci alleva fin dalla culla col solo imperativo di fare soldi, consumare, arrivare in alto mangiando in testa a tuttx. Competizione, arrivismo, successo, apparenza. E quanto in alto possono arrivare dei ragazzi tunisini, senza famiglia, senza casa, che hanno attraversato un mare che è una tomba (il 16 marzo hanno ripescato 43 corpi al largo di Lampedusa: provenivano dalla Tunisia) per arrivare in una terraferma che è una galera a cielo aperto? Non voglio vittimizzare nessunx, solo mettere nero su bianco che no, non abbiamo le stesse possibilità, non abbiamo gli stessi privilegi, non abbiamo le stesse alternative tra le quali scegliere. Certo, comunque avevano alternative al furto, alla rapina? Sì, ce l’avevano. Ingrassare le fila dex disoccupatx che elemosinano un posto di sfruttamento pagato una miseria per poi andare ad affittare un buco di cantina in nero pagato una follia e magari, in sei o sette anni, avere un permesso di soggiorno. O un’altra alternativa è fare la fila alla Caritas e beccarsi due pasti caldi al giorno, e magari potersi fermare a dormire per due settimane di fila (di più non ti tengono e ti fanno la perquisa quando entri) ma alle 8:00 di mattina devi sloggiare perché alla Caritas ci vai solo per dormire. Bello! A chi non farebbe gola una vita così?! La legge, e gli sbirri col gel che hanno posato per le foto della stampa, sono lì apposta per far sì che chi non ha nulla resti senza nulla o con quel minimo indispensabile per renderlo eternamente ricattabile: se sgarri perderai anche quei due spicci a fine mese. E tutto questo solo per quanto riguarda i “beni materiali”, ma la vita non dovrebbe essere fatta solo di oggetti comperati o oggetti venduti, ma di tanto altro, tanto di radicalmente altro: condivisione, tempo libero da obblighi e lavoro, scoperta, viaggi, sesso, gioco, creatività, divertimento, affetti, crescita spirituale…ma a chi gliene frega nulla di sta roba ormai?! E quindi che non ci si scandalizzi se poi coi “proventi delle azioni criminose” i regaz compravano occhiali e scarpe firmate, cos’altro avrebbero dovuto fare?! Mandarli ad organizzazioni di resistenza in Palestina o nel Sahara? Sarebbe stato un sogno, ma i sogni non fanno rima con capitalismo. Se hai 18 o 20 anni nel 2025 significa che sei statx allevatx con la sola ottica martellante e pervasiva del consumo e del “non me ne frega un cazzo di politica”, e le anime belle (come il sottoscritto) che si augurano che maturi la “coscienza di sfrutatti” in tuttx quex ragazzx per strada notte e giorno, che giustamente odiano le guardie, si mettano l’anima in pace: non c’è rivoluzione (per lo più! eccezioni ci sono sempre) nella rabbia delle strade, solo un cieco senso di fine, di catastrofe, di immediata riscossa e immediata caduta. O così è quello che dicono lx regaz che incontro sui bus o in stazione… E invece perché non ci si stupisce o non ci si arrabbia se quegli occhiali firmati o quelle scarpe di plastica da divo della TV te le compri con l’onesto guadagno del sudore della fronte?! (beh, qualcunx in effetti sì che si arrabbia!). L’essenziale è che stai buono e partecipi alla catena della produzione e del consumo (legale o illegale è una falsa opposizione). Il furto è una logica conseguenza della proprietà privata: come diceva qualcuno “finché esisterà il denaro non ce ne sarà mai abbastanza per tuttx”. Se una cosa la voglio dire riguardo all’operato criminoso della baby gang è solo relativa ai bersagli delle loro azioni: perché rapinare un ragazzino al centro commerciale invece di un riccone con la Tesla? Perché picchiarsi tra bande rivali invece di menare i fascisti e i razzisti che speculano sulle tragedie della gente migrante, che rinchiude fratelli e sorelle in galere e CPR? Perché un furto in un minimarket di gente che a sua volta subisce il razzismo, piuttosto che una banca? (Certo, la banca è molto più difficile da fare!). In definitiva, perché non indirizzare con un minimo di etica, etica data dall’evidenza di come va il mondo, un’azione di riappropriazione e di sopravvivenza, invece di prendersela col primo capitato?! Forse è chiedere troppo, ma nessuna pretesa, sarebbe un auspicio che tutte le volte che ho l’occasione, alla fermata del bus o su un muretto con una birra, cerco di buttar là a chi ha voglia di far due chiacchiere e mi chiede una sigaretta. Non difendo un tamarro che ti punta un coltellino per farti il portafoglio mentre stai tornando a casa la sera, lo contestualizzo: se non esistesse la miseria non avrebbe semplicemente bisogno di rubare. Subire violenza, verbale e/o fisica è un trauma che moltx abbiamo sperimentato, perciò capisco chi ha paura della “brutta gente di strada”, ma non posso fare a meno di ragionare in altri termini: quanto danno fanno alle nostre vite (di gente non ricca) banche, assicurazioni, eserciti, poliziotti, secondini, padroni di casa, psichiatri, professori tiranni, burocrati, politici, industriali, fascisti, giornalisti infami, tecno-scienziati che manipolano piante, clima ed animali? Quante persone sono morte ammazzate dagli sbirri (o torturate, picchiate, vessate nelle questure/caserme) e quante dalle “baby gang”!? O sono davvero dieci pischelli (giustamente) arrabbiati e senza direzione che ci opprimono? Spazzando via i primi risolveremo la situazione di disparità sociale ai secondi e a noi stessx. L’unica maniera per eliminare la logica della sopraffazione e della violenza è distruggere la società che ce le impone! Contro il DDL1660 e contro i suoi falsi critici, ovvero la stessa sinistra che ha inasprito i pacchetti sicurezza precedenti (Minniti) e le ordinanze antidegrado, a Forlì come in tutta Italia. Contro ogni confine, contro ogni tribunale, contro ogni galera! La proprietà è il furto! https://www.forlitoday.it/cronaca/baby-gang-aggressioni-rapine-10-arresti.html
Stato di emergenza
2 aprile: Libertà per Anan, Alì e Mansour! Mobilitazione a L’Aquila e in ogni territorio
Riceviamo e diffondiamo, rilanciando anche noi la mobilitazione per Anan, Alì e Mansour per questo mercoledì 2 aprile: LIBERTA’ PER ANAN ALI’ MANSOUR LIBERTA’ PER I PRIGIONIERI E LE PRIGIONIERE RIVOLUZIONARI! Il 2 aprile 2025 alle ore nove e trenta al tribunale dell’Aquila si terrà la prima udienza del processo ad Anan, Alì, Mansour. Anan Yaeesh ha 37 anni, è palestinese, nato e cresciuto a Tulkarem nella Cisgiordania occupata. Negli anni della Seconda Intifada Anan era un adolescente attivo nella lotte. In seguito ha dovuto scontare quattro anni di prigione come detenuto politico e ha subito un agguato delle forze speciali israeliane nel 2006, durante il quale ha riportato gravi ferite. Anan lascia la Palestina nel 2013, diretto verso l’Europa. Si reca inizialmente in Norvegia dove viene sottoposto a degli interventi chirurgici per rimuovere i proiettili rimasti nel suo corpo per anni. Nel 2017 raggiunge l’Italia, dove si stabilisce, e dove nel 2019 ottiene un titolo di soggiorno. Nel 2023 si reca in Giordania, dove viene sequestrato dai servizi di sicurezza giordani probabilmente per consegnarlo ad Israele. Dopo oltre sei mesi di detenzione, a seguito della diffusione della notizia del suo arresto e al pericolo che venga consegnato alle autorità israeliane, i servizi di sicurezza giordani lo rilasciano per evitare reazioni da parte dell’opinione pubblica. Il 24 gennaio 2024 le autorità israeliane hanno trasmesso al ministero della giustizia italiano una richiesta di arresto provvisorio del cittadino palestinese Anan Yaeesh, a fini di estradizione, per i reati di partecipazione ad organizzazione terroristica e atti di terrorismo. Il ministero della giustizia ha chiesto l’applicazione della misura cautelare alla corte di appello dell’Aquila, città in cui Anan vive e dove gode di un permesso di soggiorno per protezione speciale dal 2022. Il 26 gennaio 2024 Anan è stato arrestato in seguito a questa richiesta. La Corte d’Appello de L’Aquila ha respinto, nel marzo 2024, la richiesta di estradizione, in quanto ha riconosciuto sia concreto il rischio di tortura nelle carceri israeliane, sia che Anan in quanto palestinese sarebbe stato processato da un tribunale militare. Nonostante ciò la magistratura, decaduti i motivi per la sua carcerazione, ha avviato un’indagine per “associazione con finalità di terrorismo internazionale” (art. 270-bis c.p.). Il 13 marzo 2024, la procura della Repubblica de L’Aquila, Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo, emette un mandato di cattura per Anan e altri due suoi amici palestinesi: Alì Irar e Mansour Doghmosh. Secondo l’accusa avrebbero costituito una struttura operativa chiamata “Gruppo di risposta rapida – Brigate Tulkarem”, filiazione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che ha tra i suoi obiettivi atti di violenza contro lo Stato di Israele. Le Brigate Al Aqsa, che fanno riferimento ad Al Fatah, su richiesta di Israele sono state inserite dall’Unione Europea nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Secondo la tesi dell’accusa, i fermati avrebbero compiuto opera di propaganda e proselitismo, con l’obiettivo di pianificare attentati contro siti civili e militari sul territorio italiano. L’accusa ha dovuto inserire i due amici di Anan, Alì e Mansour, per poter giustificare l’articolo 270 bis che richiede la presenza di almeno tre persone per la formulazione del reato associativo. Oltre a questa manipolazione ha anche definito complotto terroristico internazionale quello che le convenzioni internazionali definiscono «resistenza legittima contro un occupante», cioè la lotta dei palestinesi contro l’occupazione sionista. L’ufficio dello State Attorney di Israele ha dato atto dell’impegno mostrato dalle autorità italiane e della collaborazione prontamente prestata, dichiarando di voler «ringraziare le autorità italiane per il loro impegno e assistenza in questo caso» e ribadendo la disponibilità israeliana «ad una continuata collaborazione tra i due Paesi». Se l’estradizione di un cittadino palestinese verso Israele, che è un paese in guerra, è attualmente impossibile, allora la magistratura opta per tenerlo in galera in Italia avanzando altre accuse contro di lui. Questa operazione giudiziaria appare una prova di servilismo chiesta all’alleato italiano ed un precedente che potrebbe rivelarsi pericoloso per altri esuli. Ad agosto del 2024 sia la Cassazione che il Tribunale del Riesame scarcerano Alì e Mansour per «mancanza di gravi e circostanziate prove», mentre la procura decide che Anan rimanga nella sezione di alta sicurezza del carcere di Terni. Il 26 febbraio 2025 il tribunale de L’Aquila decide comunque il rinvio a giudizi con le accuse di proselitismo e finanziamento del terrorismo per tutti e tre i palestinesi. Contro l’estradizione si sono svolte manifestazioni e presidi in tutta Italia: a Sassari, Milano, Brescia, Ancona, Modena, Bergamo, Genova, Napoli, L’Aquila, Palermo, Torino, Roma. Vari presìdi hanno portato la voce dei solidali davanti alle mura del carcere di Terni dove sono rinchiusi anche diversi compagni rivoluzionari, tra i quali il nostro Juan. Lo stesso tribunale dell’Aquila è stato presidiato durante le udienze che dovevano decidere la richiesta di estradizione e il rinvio a giudizio per gli imputati. A queste udienze Anan non ha mai potuto partecipare di persona perché gli è stata imposta la videoconferenza, che è ormai una prassi sempre più estesa che limita fortemente le possibilità di difesa e la possibilità per gli imputati di vedere facce amiche in tribunale. Durante queste udienze Anan ha rilasciato una dichiarazione spontanea della quale riportiamo di seguito alcuni stralci: «Nella prima udienza estradizionale di febbraio 2024, ho chiesto alla Corte di Appello e al Procuratore Generale di non consegnare i contenuti dei miei telefoni cellulari agli israeliani, in quanto contenevano informazioni riservate che detenevo in qualità di resistente palestinese, di comandante partigiano. Mi è stato risposto che ciò non sarebbe accaduto, poiché erano consapevoli che eravamo in guerra e che l’Italia è neutrale. Tuttavia, sono rimasto sorpreso nel sapere che ad aprile scorso tutte le informazioni contenute nei miei cellulari sono state passate agli israeliani. In questo modo, avete violato ogni principio di sicurezza e lo stesso diritto internazionale, diventando di fatto partecipi degli israeliani in questa guerra, aiutandoli nella repressione delle legittime aspirazioni di un popolo oppresso…» «Pertanto, signor Presidente, considero il mio arresto e il mio processo qui illegittimi, poiché l’arresto stesso, sin dal primo momento, è stato compiuto in contrasto con il diritto internazionale umanitario, con lo statuto delle Nazioni Unite, con la Convenzione di Ginevra e con i due protocolli aggiuntivi, e tutto ciò che ne è derivato è anch’esso illegale; ciò che si fonda sull’illegittimità, infatti, è anch’esso illegittimo. … Se riconoscete la legittimità dello Stato di Palestina, allora la richiesta di estradizione avanzata nel gennaio dello scorso anno nei miei confronti avrebbe dovuto essere presentata attraverso il governo del mio Paese. Se, invece, considerate la Palestina come un territorio illegalmente occupato da una potenza coloniale, allora la resistenza è un diritto legittimo e non dovreste arrestarmi qui per tale motivo…» «Se in ballo vi fosse stato un altro paese occupante, la Russia ad esempio, avreste riconosciuto la legittimità della resistenza palestinese. Non mi state processando in base al diritto internazionale, ma in base ai vostri rapporti diplomatici, solo perché Israele è considerato un alleato del governo italiano, un partner commerciale, e ritenete legittime tutte le azioni che esso porta avanti. Tanto vale allora cambiare il nome delle corti internazionali e umanitarie in “Corti degli amici”. Volete che mi difenda dalle accuse a mio carico, ma mi vergogno di cercare l’assoluzione da accuse che per me rappresentano un motivo di onore. Non voglio difendermi dall’accusa di avere dei diritti e di averli rivendicati, o di aver tentato di liberare la mia gente e il mio Paese dall’oppressione coloniale. Giuro che non intendo essere assolto dalla legittima resistenza contro l’occupazione sionista. La resistenza palestinese è uno dei fenomeni più nobili conosciuti dalla storia» La vicenda repressiva di Anan è significativa, al di là del dramma personale, in quanto rende evidente come lo Stato italiano agisca per conto dell’entità sionista contro la resistenza palestinese e lo fa mentre sono in corso la pulizia etnica ed il genocidio del popolo palestinese, crimini esplicitamente rivendicati dalle massime autorità israeliane. Per dirlo con le parole di Netanyahu: «Non mi interessano gli obiettivi, distruggete le case, bombardate tutto a Gaza». Chiariamo che la compromissione dello Stato italiano in questi crimini contro l’umanità non si limita al chiudere gli occhi o ad un generico supporto. La realtà è che i sistemi Italiano ed Israeliano sono sempre più integrati in molteplici settori, tra cui quello della ricerca scientifica, dell’industria militare, dei servizi segreti e delle tecnologie di controllo (basti citare il recente scandalo spyware Paragon). Le istituzioni italiane si adoperano per dare spazio ad Israele nella cultura di massa inserendolo all’interno di grandi manifestazioni sportive quali il giro d’Italia od organizzando incontri tra le rispettive nazionali mentre è in corso un massacro. Il governo italiano ha supportato supinamente Israele anche quando questo si è trovato in forte contrasto con la principali organizzazioni che rappresentano il diritto internazionale e che ha provato a demolire (ONU, Unrwa e Corte Internazionale di Giustizia). Quanto elenco non solo ci fa ritenere che il genocidio non sarebbe possibile senza il supporto di Stati come l’Italia, ma inoltre ci porta a considerare Israele il braccio armato della macchina del colonialismo occidentale, che agendo su mandato di quest’ultimo, attua un processo di destabilizzazione dell’intera Asia occidentale, al fine di sottometterla e controllarne le risorse per garantire gli interessi dei capitalisti Statunitensi e Europei. In conseguenza di queste considerazioni riteniamo che il principale modo con cui possiamo opporci al genocidio dei palestinesi è quello di combattere contro il nostro governo, i nostri padroni e tutti gli apparati (repressivi, industriali, mediatici) che sostengono i conflitti in Asia occidentale affinché cessino la loro azione di collaborazionisti e protettori di Israele. Tra questi vi sono appunto gli apparati repressivi dello Stato italiano: magistratura,forze di polizia, servizi di sicurezza, amministrazione carceraria che sono stati schierati a difesa dei genocidi, divenendo complici della macchina dello sterminio. Fanno questo perseguitando gli esuli come nel caso di Anan, lo fanno reprimendo i movimenti di lotta scesi al fianco del popolo palestinese, lo fanno ribaltando la realtà quando equiparano l’antisionismo all’antisemitismo, facendo sì che chi si oppone all’apartheid, alla deportazioni alle stragi, nel mondo alla rovescia in cui viviamo rischi di essere stigmatizzato e perseguito per razzismo o antisemitismo. Bisogna ricordare che la città de L’Aquila, in cui si svolge il processo, ospita un carcere con le sezioni 41 bis. In queste sezioni tramite le pratiche dell’isolamento e della deprivazione sensoriale si attua una vera e propria tortura ai reclusi che mira al loro annientamento fisico psichico e politico. Nella sezione femminile del 41 bis de L’Aquila è prigioniera dal 2007 la compagna dei Nuclei Comunisti Combattenti Nadia Lioce. Per la chiusura del 41 bis il compagno Anarchico Alfredo Cospito ha sostenuto uno sciopero della fame durato 182 giorni. Alle sezioni 41 bis è associata la presenza della Direzione Distrettuale Antimafia ed Antiterrorismo de L’Aquila, ed è questa che ha imbastito il processo contro i tre palestinesi mettendo in pratica le montature che le sono congeniali, inventandosi associazioni che non esistono e arrestando persone utilizzando false accuse. Il processo ad Anan si svolge in questa valle chiusa da vette innevate, ma se allarghiamo lo sguardo sulla cartina geografica ci accorgiamo di essere nel mezzo del mediterraneo, un mediterraneo dove vogliamo la felicità, la libertà, la pace e la fratellanza tra tutti i popoli che lo abitano. Invece i fronti di guerra si allargano sempre più, e se molte persone si disinteressano alla guerra questo non fa sì che la guerra non si interessi a noi. La guerra non risparmia nessuno e, con le dovute proporzioni, tocca anche i proletari in Europa sui quali i governanti scaricano il costo delle loro nefaste avventure. Il fronte interno si manifesta tramite l’aumento della povertà conseguente alla crisi industriale e all’aumento dei costi dell’energia, si manifesta tramite la militarizzazione della società che i burocrati dell’UE vogliono imporre con il piano Rearm Europe, si manifesta con l’aumento di repressione e controllo attraverso il ddl ex 1660, con il quale si attaccano i poveri ei dissidenti. La guerra è sempre, innanzitutto, la guerra degli oppressori contro gli oppressi, la proposta allucinante di spianare Gaza e di valorizzare il suo territorio tramite una speculazione edilizia è paradigmatica del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui i proletari che risultano eccedenti rispetto ai progetti del capitale internazionale, possano essere tranquillamente deportati e sterminati, come testimoniano la distruzione della Ex Jugoslavia, dell’Iraq, del Afganistan, della Libia, della Siria, dell’Ucraina, e infine della Palestina che le élite occidentali vorrebbero condannare alla soluzione finale. Solo la resistenza degli sfruttati e la solidarietà internazionale può opporsi a questa strage continua, è la variante umana che può ribaltare il corso della storia. Liberazione immediata per Anan Yaeesh! Facciamo sentire ad Anan, Alì, Mansour la voce solidale di chi si oppone al genocidio del loro popolo.   2 aprile presidio, l’Aquila ore 9:30 tribunale de L’Aquila via XX settembre 68 ANAN YAEESH LIBERO! LA RESISTENZA NON SI ARRESTA! LA RESISTENZA NON SI PROCESSA! COMPLICI E SOLIDALI   riferimenti e fonti: https://www.instagram.com/free_anan/ https://www.facebook.com/people/Free-Anan/61556541179498/ https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/04/09/anan-yaeesh-lavvocato-alla-camera-caso-politico-non-e-stato-considerato-il-diritto-internazionale-umanitario/7506144/ Dichiarazioni di Annan ultima udienza l’aquila https://www.ondarossa.info/focus/anan-ali-mansour-compagni-palestinesi https://ilmanifesto.it/israele-vuole-anan-yaeesh-litalia-intanto-lo-fa-arrestare (17/2/2024 un anno fa) https://contropiano.org/news/politica-news/2024/02/14/no-allestradizione-di-anan-yaeesh-0169353 videoconferenza https://ilrovescio.info/2025/03/22/trento-stecco-condannato-a-3-anni-e-6-mesi/ https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Sindispr&leg=19&id=144932423) https://pungolorosso.com/2025/03/21/i-proclami-ferocemente-sterministi-di-israele-nel-silenzio-generale-dei-suoi-complici-o-mandanti/
Carcere
Stato di emergenza
Perquisizioni a Pisa e Carrara
Riceviamo e diffondiamo: PERQUISIZIONI A PISA E A CARRARA Qui il testo in pdf: Perquisizioni Pisa Carrara All’alba di mercoledì 26 marzo 2025 hanno avuto luogo, nelle città di Pisa e Carrara, due perquisizioni domiciliari per gli articoli 110, 56, 424 del cod. pen., aggravati dall’articolo 270 bis 1, in merito all’avvenuta collocazione di un ordigno incendiario presso il tribunale di Pisa rinvenuto dalle forze di difesa dello Stato italiano nel febbraio del 2023. Fatto quest’ultimo che si inseriva nella vasta mobilitazione in solidarietà con Alfredo Cospito contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. L’indagine, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di Firenze, vuole, come d’altronde tutte le indagini contro il movimento anarchico, minacciare i rivoluzionari e lo spirito d’iniziativa che li contrassegna. La lotta continua. Gli indagati
Stato di emergenza
Massimo incarcerato in “semilibertà”
Da ieri, mercoledì 26 marzo, il nostro caro amico e compagno Massimo si trova nel carcere di Spini di Gardolo (Tn), nel regime detto di “semilibertà”, per un cumulo di condanne definitive di 2 anni e 7 mesi (la principale condanna, di poco superiore ai 2 anni, è relativa agli scontri avvenuti a Rovereto in occasione della venuta di Salvini: uno degli episodi per cui si trova in carcere anche Giulio). Essendo stata accolta la sua richiesta di poter scontare la pena in semilibertà, nel giro di un paio di settimane potrà uscire per lavorare: cosa che attenua, ma non estingue, la rabbia di saperlo rinchiuso.  Sappiamo che sta bene, in compagnia di un borsone di libri, di un lettore MP3 caricato a metal e della sua serena risolutezza. In attesa di riabbracciarlo, gli mandiamo tutta la nostra solidarietà e affetto. Per scrivergli: Massimo Passamani C.C. Spini di Gardolo Via Cesare Battisti 13 38100 Trento  
Stato di emergenza
Aggiornamenti su Ghespe, trasferito nel carcere di Spoleto
Riceviamo e diffondiamo. Fraterna solidarietà a Ghespe! IL COMPAGNO GHESPE È STATO TRASFERITO PRESSO IL CARCERE DI SPOLETO Arrestato in Spagna il 15 febbraio con un mandato di arresto internazionale, ed estradato in Italia il 4 marzo, Ghespe è stato prima portato a Roma nel carcere di Rebibbia, per essere poi trasferito nel carcere di Spoleto. Ricordiamo che Ghespe deve scontare una condanna ad 8 anni per fabbricazione, detenzione e porto di ordigno esplosivo, lesioni personali gravissime e danneggiamento, relativa all’Operazione Panico del 2017 a Firenze con l’accusa di aver fabbricato l’ordigno artigianale rinvenuto davanti all’entrata della libreria “il Bargello” a Firenze, sede dei fascisti di CasaPound. Fin dai primi giorni della sua detenzione in Spagna Ghespe ha subito pressioni e soprusi da parte delle guardie e dai suoi aguzzini. A Rebibbia non gli è stata consegnata la corrispondenza, colloqui e telefonate sono stati autorizzati soltanto poco prima del suo trasferimento nel carcere di Spoleto. Se guardie e servi dello Stato pensano di poter utilizzare simili giochetti per spezzare la nostra vicinanza, si sbagliano di grosso. NESSUNA GABBIA FERMERÀ LA NOSTRA SOLIDARIETÀ GHESPE LIBERO TUTTE LIBERE TUTTI LIBERI Per continuare a scrivere a Ghespe Salvatore Vespertino Casa di reclusione di Spoleto Località Maiano n. 10 06049 Spoleto (PG)
Carcere
Stato di emergenza
Trento: Stecco condannato a 3 anni e 6 mesi
Trento: Stecco condannato a 3 anni e 6 mesi Ieri si è svolto, presso il tribunale di Trento, il processo di primo grado contro il nostro amico e compagno Stecco, accusato di aver favorito la latitanza dell’amico e compagno Juan e di aver contraffatto dei documenti di identità. Stecco è stato condannato – con rito abbreviato – a 3 anni e 6 mesi di carcere. Questa sentenza sembra decisamente un monito: chiunque aiuti fuggiaschi e latitanti, la pagherà cara. La condanna di ieri fa il paio con il dispiegamento davvero impressionante di uomini e mezzi che ha portato all’arresto dello stesso Stecco. Su quest’ultimo aspetto, per come emerge dai faldoni dell’operazione “Diana”, uscirà una sintesi di ciò che è utile che compagne e compagni sappiano dell’armamentario del nemico. Fuori dal tribunale, si è svolto un presidio di solidarietà con Juan e Stecco, in particolare contro l’ennesima imposizione della videoconferenza. Questo il volantino distribuito: Un calcolo sbagliato Questo è il tuo segreto, Butch. Continuano a sottovalutarti. Pulp fiction Oggi il nostro amico e compagno Stecco (in carcere a Sanremo) è a processo qui a Trento perché accusato di aver fabbricato dei documenti falsi per un altro nostro amico e compagno, Juan (in carcere a Terni), quando quest’ultimo era latitante. La cosa in sé non richiede grandi parole. Se Stecco ha fabbricato quei documenti, ha fatto bene, perché servivano ad evitare il carcere a un compagno ricercato. Sottrarsi alla polizia politica è una necessità che accompagna da sempre chi lotta per la libertà e per la giustizia sociale. La differenza è che oggi – con la fine dell’“asilo politico” su cui hanno potuto contare per decenni gli esuli e gli oppositori, e il drastico aumento delle forme di controllo tecnologico – è sempre più difficile riuscirci. Una volta introdotti, i dispositivi di sorveglianza possono colpire chiunque (come si è visto, su scala di massa, con il green pass), per cui è necessario non farsi abbindolare dai pretesti con cui vengono giustificati. Oggi Stecco non sarà fisicamente in aula perché gli è stata imposta la videoconferenza. Quest’ultima, un tempo riservata ai detenuti in 41 bis e poi agli accusati di “terrorismo”, dal Covid in poi è stata estesa praticamente a tutti i prigionieri. In tal modo, il detenuto non può vedere facce amiche in tribunale, non può difendersi adeguatamente (il confronto con l’avvocato avviene solo per telefono) e può dire la sua solo se il giudice non decide di premere un pulsante e tagliare il collegamento audio e video. Nemmeno l’inquisizione era riuscita a far sparire il corpo e la voce degli accusati. Quello di risparmiare sulle spese di trasferimento dal carcere al tribunale è uno sfacciato pretesto: ci sono detenuti che vengono portati in altri carceri dotati dei collegamenti per la videoconferenza invece di essere portati direttamente nei tribunali della stessa regione. Se poi – questa è la tendenza – in futuro le sentenze verranno stabilite dagli algoritmi, le macchine giudicheranno degli umani che aspetteranno la loro sorte dietro gli schermi: un indubbio risparmio di tempo e di carta. Al totalitarismo non si arriva mai tutto d’un colpo, né è mai esistito un potere che affermi di perseguire dei fini apertamente malvagi. La guerra viene promossa in nome della “pace”; la repressione si chiama “sicurezza”; chi si ribella è un “terrorista”. C’è però un aspetto con cui Stato, padroni e tecnocrati non hanno fatto i conti: la variante umana. Questa si esprime in mille modi: i corpi dei detenuti che si prendono lo spazio con le proteste e le rivolte; i disertori che si rifiutano di diventare carne da cannone; le disfattiste e i disfattisti che sabotano la macchina della guerra; i lavoratori e le lavoratrici che scioperano; il popolo palestinese che resiste. Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh (in carcere insieme a Juan), accusato di “terrorismo” da uno Stato italiano complice del sistema genocida israeliano, ha scritto in una sua commovente dichiarazione di sentirsi privilegiato, lui chiuso in una cella, rispetto al suo popolo costretto a vivere tra le macerie, sotto le bombe, senza acqua né elettricità; un popolo imprigionato in un campo di concentramento high tech, ma che la strapotenza israeliana non riesce a domare. Se i partigiani palestinesi sono “terroristi”, allora diventa motivo di orgoglio essere inquisiti per “terrorismo”, come la polizia politica e la Procura stanno facendo per l’ennesima volta contro anarchiche e anarchici trentini (tra cui Stecco e Juan). Lo sbaglio dei potenti è pensare che lo spirito di rivolta e l’umano gesto di rifiuto possano essere previsti e impediti dalla smisurata potenza di calcolo delle loro macchine. Libertà per Juan e Stecco Basta videoconferenza, vogliamo vedere i nostri compagni in aula! Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione anarchiche e anarchici
Carcere
Stato di emergenza
Trento: 23 anni di carcere per un’iniziativa contro il carcere
Riceviamo e diffondiamo: Trento: 23 anni di carcere per un’iniziativa contro il carcere Il 5 marzo scorso, il giudice Gianmarco Giua ha condannato in primo grado 25 tra compagne e compagni a pene che vanno dagli 8 mesi ai 2 anni di galera per un presidio del novembre 2020 sotto il carcere di Spini. Tenuto conto che il processo si è svolto con rito abbreviato (il quale prevede la riduzione di un terzo della pena) e che le condanne hanno superato quanto chiesto dallo stesso PM, si tratta di una sentenza su cui vale la pena fare qualche riflessione. Si tratta, infatti, di una palese anticipazione del DDL (ex) 1660 in discussione al Senato. 19 tra compagne e compagni sono stati condannati per “istigazione” (16 a 10 mesi, 3 a 1 anno). Il motivo è aver urlato “Fuoco alle galere” e frasi simili. Il reato di “istigazione a disobbedire alle leggi” esiste da decenni, ma non aveva mai portato a condanne – per lo meno a Trento – per slogan che caratterizzano da sempre le presenze solidali sotto le carceri. Sembra, appunto, un’anticipazione del “terrorismo della parola” con cui nel nuovo Decreto si vogliono colpire le idee che metterebbero a rischio l’ordine pubblico. Un paio di compagni sono stati condannati rispettivamente a 1 anno e a 1 anno e 2 mesi per “resistenza” in quanto accusati di aver disturbato con dei laser ottici le riprese della Digos. Anche questa sembra un’anticipazione dell’estensione del reato di “resistenza” o – per carceri e CPR – di “rivolta” a condotte che non sono “violente” e nemmeno particolarmente “attive”, coincidendo di fatto con tutto ciò che ostacola l’operato delle forze di polizia o dell’autorità. Due compagni sono stati condannati a 2 anni per un blocco stradale con dei cassonetti incendiati avvenuto in un’altra zona della città. L’iniziativa finita sotto processo si era svolta mentre vigeva il divieto di ogni assembramento e mentre nel carcere di Spini – come in tanti altri – era in corso una protesta. Nella realtà rovesciata dei tribunali, ad “istigare” i prigionieri non erano le condizioni repressive interne (culminate, nei mesi precedenti, nella strage di Modena) bensì le parole solidali di compagne e compagni. La sentenza, insomma, prolunga il cordone poliziesco-mediatico con cui lo Stato ha cercato di imporre il silenzio sulle proteste dei detenuti e sulla violenza delle guardie, e prepara il terreno per quell’“istigazione alla rivolta” con cui il DDL vuole punire proprio i presìdi solidali davanti a carceri o CPR. Mai scordare il fatto che l’atto fondativo del primo lockdown su scala nazionale della storia (quello imposto il 10 marzo 2020 dal governo Conte) è stato l’assassinio di 14 prigionieri. Non è la prima volta che compagne e compagni vengono condannati per degli interventi al microfono (è accaduto di recente a Udine, ed era già accaduto anche a Trento qualche anno fa). E nemmeno per degli slogan: era successo agli 11 compagni condannati a 2 anni di carcere ciascuno per aver urlato “la fabbrica ci uccide, lo Stato ci imprigiona, che cazzo ce ne frega di Biagi e di D’Antona” durante il corteo contro il 41 bis del giugno 2007 all’Aquila (in appello furono poi assolti). La sentenza di Trento, tuttavia, colpisce a grappolo tutte le espressioni di solidarietà con i detenuti manifestatesi quel giorno (cassonetti incendiati ma anche dei semplici laser ottici, fino a un banale “Fuoco alle galere”). Ora, i giudici sono per lo più dei burocrati e dei passacarte a cui è spesso fuorviante attribuire chissà quali intenti politici. Ma quando il contesto è quello del riarmo, della guerra e dell’economia di guerra, lo spirito del tempo scrive esso stesso le sentenze. Società dei varchi (zone rosse), creazione di masse eccedenti (niente reddito, niente casa, niente documenti), discariche in cui tenerle isolate e impaurite (drastico aumento delle pene per chi lotta in carcere o nei CPR), pedagogia dell’indifferenza (la solidarietà che diventa “istigazione alla rivolta”), attacco alle idee sovversive (“terrorismo della parola”) sono tutti esempi di militarizzazione e di israelizzazione della democrazia. Per questo è necessario non separare le iniziative contro la repressione da quelle contro la guerra. Fuoco alle galere. anarchiche e anarchici
Stato di emergenza
Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento
Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento Partiamo da un’immagine. La “piazza per l’Europa” scelta a Trento dal quotidiano “Il Dolomiti” è tra le più piccole della città ed ha accessi molto stretti. Insomma, se i Michele Serra nostrani non si aspettavano le folle, non escludevano le contestazioni. Il risultato è stato qualche centinaio di persone (300? 400?) che si sono parlate addosso letteralmente circondate dalla celere e dai carabinieri in tenuta antisommossa. Perché a cinquecento metri di distanza è stata lanciata una manifestazione inequivocabilmente contro il riarmo, contro l’economia di guerra, per la fine del massacro in Ucraina e del genocidio in Palestina, in solidarietà ai disertori ucraini e russi. Nonostante lo scarso preavviso (e la tanta pioggia), poco meno di 300 persone sono partite in corteo, passando dalle quattro strade attorno alla piazza dei guerrafondai (malamente) mascherati, disturbando con gli interventi amplificati proprio le parole del sindaco (neanche a farlo apposta). Le persone che passavano in centro si sono accorte degli europeisti con l’elmetto solo per via della polizia, mentre gli slogan e gli interventi che hanno sentito erano antimilitaristi, internazionalisti, anticolonialisti: “Gaza nel cuore, Jenin nella memoria, Intifada fino alla vittoria”, “Dalla von der Leyen a Michele Serra, cambiano le forme, la sostanza è guerra”, “Lo chiede l’Europa, la riposta è no. Per le loro guerre non mi arruolerò”, “Contro le guerre dei signori, siamo tutti disertori”, “Non un soldo né un soldato per le guerre del governo, dell’UE e della NATO”… La composizione del corteo – più variegata rispetto alle ultime manifestazioni a fianco della resistenza palestinese – suggerisce un moto di risveglio di fronte a piani di riarmo che non hanno precedenti negli ultimi decenni. Poco, troppo poco. Ma le due piazze di sabato rappresentano un netto, necessario spartiacque. E infatti chi si muove nelle orbite di PD, Cgil, Arci, Anpi o AVS, e magari si considera antifascista e contro la guerra, non ha mosso un dito né una voce, perché sa che schierarsi davvero contro i progetti imperialisti e contro i complessi scientifico-militar-industriali significa oggi tagliare i ponti della compatibilità politica. Non caso a lanciare il corteo è stato quel pezzo di società che da 16 mesi si attiva senza se e senza ma contro il governo, contro l’Europa, contro le collaborazioni trentine con il genocidio a Gaza. Il piano von der Leyen arma un plurisecolare suprematismo colonialista che oggi deve farsi la guerra anche al proprio interno. Il fatto che nelle risoluzioni belliciste dell’UE non si parli più di “Occidente”, bensì di “Europa”, significa che l’accordo sulla rapina delle masse palestinizzate del mondo non basta più; e che la guerra coloniale torna indietro sotto forma di furia estrattivista, di “monopoli radicali” e di fine delle pantomime democratiche. Se Volkswagen si dichiara pronta a riconvertire i propri stabilimenti insieme a Rheinmetall, si scopre per passaparola che Leonardo SpA sta contattando piccole aziende locali per proporre la produzione di armamenti (c’è da scommettere che, in tal senso, arriveranno a breve gli incentivi governativi sotto forma di sgravi fiscali). Esattamente come cento anni fa, il partito unico della guerra mobilita gli “intellettuali progressisti”, la sinistra del capitale e i sindacati di Stato per arruolare o irretire chi potrebbe rompere le righe. La novità è che oggi a schierarsi contro il riarmo UE (ma non quello nazionale) sono anche forze reazionarie. Motivo in più per prendere l’iniziativa. Che il genocidio e le guerra spacchino in due la società. Il 15 marzo ha creato solo le prime crepe. Di seguito il volantino distribuito a Trento dall’Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese: Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra Le “piazze per l’Europa” lanciate a Roma da “Repubblica” e qui a Trento dal “Dolomiti” sono un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che è uno degli elementi costitutivi della guerra al pari dell’artiglieria. L’Europa come terra della libertà, della fratellanza tra i popoli e del Diritto internazionale è un mito che gronda sangue. La storia delle classi dominanti europee è quella del colonialismo e del suprematismo bianco, di cui gli stessi Stati Uniti sono un prodotto. I «valori europei» dei quali si straparla in queste piazze li vediamo a Gaza. Se tutto l’Occidente è schierato con il colonialismo genocida israeliano (non una sanzione, non un embargo militare, non una sola cessazione delle collaborazioni e degli scambi strategici… alla faccia del Diritto internazionale!) è perché Israele compendia fino all’estremo la storia europea e occidentale. In tal senso, l’unica differenza fra Trump-Musk e von der Leyen è che il primo si dichiara esplicitamente suprematista, mentre la seconda pratica il suprematismo senza dichiararlo. Ma nelle “piazze per l’Europa” si va oltre l’ipocrisia. Ci si mobilita per la guerra. Partiti, partitini e sindacati che vi partecipano sembrano in disaccordo su alcuni aspetti (tra chi appoggia apertamente il piano di riarmo dei singoli Stati e chi preferisce la «difesa comune europea»), ma sul rafforzamento dell’industria bellica per continuare a depredare il resto del mondo sono tutti d’accordo. Il punto è chi ci deve guadagnare. Tutto ciò non c’entra nulla, sia chiaro, con la protezione della popolazione ucraina. Massacrata e depredata sia dalla Russia sia da USA-NATO-UE, la gran parte delle gente in Ucraina vuole il cessate il fuoco (come dimostra il livello di massa raggiunto dalle diserzioni). Quello che l’UE non può accettare non è certo l’invasione di un Paese sovrano (vogliamo parlare dell’Iraq, della Serbia, dell’Afghanistan, della Libia, della Siria, della Palestina, del Libano?), peraltro ampiamente ricercata dal blocco occidentale con una serie di continue provocazioni volte a far entrare Ucraina e Georgia nella NATO, ma solo di essere tagliata fuori da un bottino su cui le sue classi dirigenti hanno scommesso tutto. L’«orgoglio europeo» dei vari Michele Serra è il tentativo di rilanciare una potenza imperialista europea in declino. Rilancio che passa oggi attraverso l’economia di guerra – chiamata furbescamente «difesa» – quale ulteriore concentrazione dei monopoli economici e finanziari, pagata come sempre da chi sta in basso. Viviamo in un’epoca che non permette alcuna pigrizia nel pensare. La guerra è condotta, oltre che sui campi di battaglia e nelle retrovie, contro i nostri cervelli. Se vogliamo opporci ai venti di guerra e di riarmo; se vogliamo spezzare le collaborazioni nei nostri territori con il genocidio a Gaza e la pulizia etnica in Cisgiordania, dobbiamo disintossicarci dalla propaganda e contrapporle idee e princìpi ben saldi. A volere la guerra è un’infima minoranza: quella che si arricchisce. Per tutti gli altri un riarmo da 800 miliardi di euro significa salari miseri, bollette alle stelle, sanità al collasso, scuole in cui si impara poco e si obbedisce molto, criminalizzazione del dissenso, città militarizzate. Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra. Da perdere non abbiamo che una vita sempre più invivibile. E la nostra disumanità. Trento, 15 marzo 2025 Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese (ci troviamo ogni lunedì, dalle ore 18,30, alla Talpa di via S. Martino a Trento)
Rompere le righe
Stato di emergenza
In primo piano
Firenze: un brutto mercoledì per i promotori di OGM (e altre nocività)
Riceviamo e diffondiamo questo comunicato. L’introduzione dei nuovi OGM – in Italia chiamati furbescamente Tecnologie di Evoluzione Assistita – è spinta da una costante propaganda, la quale dimostra allo stesso tempo la diffidenza ancora presente nella società in materia di OGM e gli interessi in campo per l’agribusiness e per la geno-industria. Al punto che basta la contestazione di una conferenza pro-Ogm da parte di tre persone per far strillare all’oscurantismo e chiamare i militari a protezione… dell’oscurantismo tecno-scientista. Va da sé che stiamo dalla parte dei contestatori.  Qui il comunicato, insieme falso e grottesco, dell’Accademia dei Georgofili: https://www.georgofili.info/contenuti/attivisti-irragionevoli-non-nuovi-eroi/31063  Qui il comunicato dei contestatori: Baroni irragionevoli, non nuovi eroi L’Accademia dei Georgofili è uno storico baluardo della ricerca agricola asservita al potere che nella sua storia, a titolo di esempio, si è prodigata per pianificare in epoca fascista la produzione agricola nelle colonie bonificate da Graziani. Ora senza mezzi termini si vanta di sottoscrivere il manifesto sui TEA, perseguendo nell’appoggio alla ricerca genetica brevettabile e alla mistificazione in atto su cosa siano questi TEA1 e a chi servano. Oltre a duecento associazioni europee, anche tanti altri scienziati2 evidentemente non asserviti a Monsanto and company hanno dovuto ammettere che sì, sono Ogm, che certo, il metodo CRISPR CAS9 è ben lungi da essere preciso ed efficace, e che ovviamente gli unici che potranno fruire di queste ricerche, sempre che portino a qualche risultato, sono le grandi aziende agroindustriali e le multinazionali sementiere. Non paga, l’Accademia ha realizzato un convegno in cui fin dalle prime battute glorifica l’appoggio a Leonardo ed a chi ha saputo utilizzare tecnologie e ricerche militari per farne una possibilità per l’attuazione in campi civili quali l’agricoltura. “Innovazione”, ci viene detto, “bisogna adattarsi alle nuove sfide che la contemporaneità ci offre”; e allora agricoltura spaziale3, perché no; perché non immaginare colture protette per quando Musk andrà su Marte, e perché non dotarsi di satelliti energivori, per raccogliere dati, per non toccare più la terra, e delegare alle macchine il controllo sulla produzione del nostro cibo. No, diciamo noi. Siamo intervenuti con convinzione per portare l’urlo dei contadini che stanno perdendo le loro terre. È stata descritta un’ irruzione di tre energumeni, violenti incivili e antiscientifici; l’Accademia dei Georgofili ritiene le nostre ragioni delle farneticazioni sconclusionate, ci chiama talebani dell’oscurantismo; rimandiamo al mittente tali accuse, ribadendo semplici concetti che solo degli oscurantisti delle reali condizioni della agricoltura contemporanea non riescono a cogliere: la condizione agricola contemporanea è soggetta a problemi endemici quali lo spreco4 (almeno un terzo del cibo prodotto viene buttato), la predazione di risorse come il fenomeno del landgrubbing5 (il colonialismo agricolo), l’utilizzo di terre arabili in gran parte per la produzione di foraggio e in genere per l’industria della carne6 (industria dissennata, energivora e che arricchisce multinazionali del cibo spazzatura ad ogni angolo del pianeta); a titolo di esempio basterebbe piantare bietole al posto di mais nella pianura padana e risolveremmo vari problemi di alimentazione, se questi fossero la causa che muove l’azione di lorsignori e non fosse il profitto. Il divario tra piccole ed enormi aziende agricole si sta accentuando, con la grande distribuzione che soffoca il mercato abbattendo i costi di produzione. Ne consegue la chiusura delle piccole aziende agricole, delle realtà rurali schiacciate dal peso degli investimenti7. Questi nuovi Ogm, l’agricoltura 4.0, l’affidamento alle scelte dell’intelligenza artificiale con l’ausilio dei dati raccolti e veicolati da satelliti e data center presentano uno scenario fosco in cui gli unici a guadagnarci non saranno le popolazioni e i contadini ma i soliti noti. Noi sappiamo che c’è un mondo di sapere contadino da difendere; che l’uso di Ogm ha conseguenze imprevedibili sulla biodiversità; che affidarsi alle macchine toglierà l’autodeterminazione e il controllo su quello che mangiamo. Che il grano dell’Ucraina, gli uliveti della Cisgiordania, i pascoli e gli orti del Burundi divelti per estrarre minerali rari, e i campi in Sicilia riconvertiti a distese di pannelli solari, devono tornare a chi li coltiva per la propria sussistenza. In chiusura, l’espressione del potere a difesa di questa roccaforte dei baroni dell’agricoltura, con l’intervento di alcun militari a presidio inutile e perenne nelle ricche strade fiorentine che hanno proceduto con solerzia a buttarci fuori, sintetizza cosa sta accadendo e dove stiamo andando. Riescono a buttarci fuori, ma rendono evidente il senso delle nostre azioni. Avremmo ancora modo di interloquire. Nelle note qualche voce autorevole ad illustrare che non siamo solo tre oscurantisti. 1 https://www.retecontadina.it/cinque-passi/304-i-falsi-miti-dei-nuovi-ogm-di-daniela-conti 2 https://www.cambiareilcampo.org/wp-content/uploads/2025/02/200vsAgribusinessITA.pdf 3 https://rivistaorticoltura.edagricole.it/ricerca-scientifica/space-farming-il-futuro-e-iniziato/ 4https://www.tgcom24.mediaset.it/e-planet/spreco-alimentare-boom-in-italia-45-6-nel-2024_87451825- 5https://www.financialounge.com/news/2021/09/17/il-fenomeno-del-land-grabbing-cose-e-perche-e-un-pericolo/ 6https://www.istat.it/notizia/lagricoltura-nelle-regioni-italiane/ 7https://www.greenpeace.org/italy/comunicato-stampa/24967/in-15-anni-litalia-ha-perso-meta-delle-sue-piccole-aziende-agricole-svela-nuovo-report-di-greenpeace/
Stato di emergenza
“Perché usciamo da USI-CIT”: un comunicato
Se diatribe, scissioni e autodimissioni interne al sindacalismo di base (anche libertario) non ci hanno mai appassionato, pubblichiamo questo comunicato perché le questioni che solleva (dall’Emergenza Covid alla guerra in Ucraina, dal genocidio a Gaza alla solidarietà con compagne e compagni prigionieri) sono tra quelle decisive. E chiunque venga messo all’angolo per aver espresso posizioni coerenti sul rapporto mezzi-fini (non si difende la salute pubblica con la coercizione, le strutture e gli strumenti della guerra producono solo altra guerra, i colonizzati sono sempre in stato di legittima resistenza, l’appoggio ai compagni prigionieri deve prescindere dal grado di affinità con le loro idee e pratiche) ha la nostra piena solidarietà. L’USI ha già conosciuto nella sua storia scissioni in merito alla guerra (tra la corrente interventista di de Ambris e Di Vittorio e la corrente internazionalista anarchica). In tempi di guerra (al virus, tra imperialismi, contro le masse colonizzate), i veleni dello Stato e del nemico di classe s’insinuano anche intorno a noi. Consoli il motto di Max Stirner: “Troverò sempre compagni disposti ad unirsi a me senza prestare giuramento sotto alcuna bandiera” (foss’anche quella rossa e nera). PERCHÉ USCIAMO DA USI-CIT Le sezioni USI-CIT di Ancona, Venezia, Perugia/Trasimeno, Macerata (a questi si aggiunge l’individualità Elvino Petrossi di Trieste) intendono rendere pubblica la loro uscita da USI-CIT e le motivazioni che hanno portato a questa decisione. Constatiamo che è in atto una già avanzata trasformazione del sindacato verso una deriva accentratrice e autoritaria che sta cancellando l’identità libertaria e solidaristica dell’USI e dell’anarcosindacalismo. Un clima di guerra interna e di non rispetto sta causando l’uscita della componente che in questi anni ha espresso posizioni diverse da chi oggi dirige il sindacato. Già negli ultimi mesi, e anche recentemente altri compagni, realtà locali e il sindacato di settore Unione Contadina, sono usciti da USI-CIT mentre è stata di fatto espulsa la sezione della Sanità milanese (San Paolo S. Carlo) in modo illegittimo e fuori dalle norme statutarie (espulsione camuffata da inesistenti e mai formulate autodimissioni). Di fatto, anche le sezioni scriventi questo comunicato erano in regime di pre-espulsione in quanto private, dallo scorso luglio, di ogni contatto e informazione con l’organizzazione nazionale. Anche in questo caso, in spregio delle norme statutarie che prevedono che tutte le sezioni (anche quelle che dissentono) devono essere informate dal nazionale sulle scadenze e dinamiche del sindacato. I motivi dell’aggravarsi di questa situazione risalgono al periodo dell’epidemia covid quando in Italia furono attuate le più rigide pratiche di chiusura degli spazi di libertà che con il green pass e l’obbligo vaccinale portano alla sospensione e alla perdita del lavoro di chi non accetta di rinunciare alla libertà di scelta sanitaria e rinchiudono in una forma di apartheid alcune milioni di persone non vaccinate privandole di ogni elementare diritto come quello di salire in un autobus, in un treno, entrare in un locale, in un negozio, in un ufficio, in banca, alle poste. Si è trattato di una delle più grandi forme di repressione e controllo sociale del dopoguerra, priva di ogni ragione scientifica o sanitaria (come bene sta venendo oggi fuori) coincisa con la militarizzazione del territorio e di ogni aspetto di vita quotidiana. Sistematica la repressione del dissenso che raggiunse la sua punta più alta con il violento sgombero del porto di Trieste occupato per quattro giorni dai lavoratori e cittadini contro il green pass.  La nostra colpa come sezioni e compagne/i del sindacato USI-CIT è stata quella di lottare in prima fila portando alta la bandiera degli ideali libertari (all’interno di un grande e variegato movimento) per opporci alla militarizzazione, agli obblighi sanitari, alle limitazioni della libertà.  Emarginati nel sindacato che faceva sue le scelte reazionarie e liberticide del governo e delle multinazionali, additati come complottisti, o addirittura combattuti in quanto presunti “amici dei fascisti” da quelli che dovevano essere i nostri compagni.  Da chi non ha capito o, quel che è peggio, non ha voluto capire per ipocrisia e opportunismo che cosa veniva imbastito dal potere attraverso i suoi media: da un lato una propaganda della paura come non si era mai vista, destinata alle masse in genere; dall’altra una propaganda di una falsa “solidarietà” costruita su misura per la gente di sinistra, così da disorientare e dividere i movimenti anti-capitalisti e impedire che dessero un contributo più significativo alla mobilitazione contro restrizioni e green pass.  Una propaganda che ha spinto tanta “compagneria” a tapparsi entrambe le orecchie per non sentire gli applausi di Confindustria al lasciapassare sanitario, e a chiudere entrambi gli occhi per non vedere che le piazze contro il green pass erano per lo più composte da lavoratori salariati, mentre la gran parte dei commercianti e praticamente tutti gli industriali si sfilavano dalle mobilitazioni, ben contenti di poter tornare a lavorare.  In tutto questo USI CIT ha negato la solidarietà a iscritte e iscritti del nostro sindacato che sono stati sospese/i dal lavoro, anzi le ha criminalizzate. Dopo la pandemia altre questioni hanno prodotto divisione e contrasto all’interno di USI CIT a partire dalla guerra dove accanto a un antimilitarismo di facciata trovavano tolleranza anche posizioni ambigue (pur se minoritarie) di alcune sezioni e “dirigenti” nazionali sulla guerra in Ucraina (simpatia e solidarietà con i falsi “anarchici” ed antagonisti inquadrati nell’esercito nazionalista ucraino dove operano i reparti neonazisti) e sullo sterminio del popolo palestinese (USI CIT unico sindacato di base a rifiutare l’adesione allo sciopero generale nazionale per la Palestina). Sappiamo che anche in CIT alcune sezioni europee hanno identiche posizioni ambigue sulla guerra in Ucraina. In effetti la stessa propaganda del periodo dell’epidemia covid si è ripetuta tale e quale con la guerra in Ucraina con le figure fittizie dei filo-putiniani al posto di quelle altrettanto fittizie dei no-vax in odore di fascismo e trumpismo, e il mito di una inesistente resistenza ucraina al posto di quello di un’altrettanto inesistente solidarietà collettiva.  I motivi del dissenso con l’attuale linea dell’USI CIT e con i suoi metodi vanno ricercati anche sulla questione degli anarchici in carcere, repressi o privati delle loro libertà. Con una mozione nel suo ultimo congresso USI CIT si è espressa contro la possibilità di dare solidarietà e sostegno alle nostre prigioniere e ai nostri prigionieri. Per tutto questo, e tanto altro ancora, lasciamo l’USI CIT. Certamente non è scelta facile dato che alcune/i di noi hanno rifondato questo sindacato negli anni settanta e contribuito alle sue lotte e alla sua storia, altre/i sono venuti dopo portando avanti con entusiasmo metodi e ideali del sindacalismo rivoluzionario e libertario. Insieme ad altri compagni (con cui manteniamo saldo e solidale collegamento) rimaniamo all’interno del percorso dell’anarcosindacalismo e ci organizzeremo nel modo che riterremo più opportuno per portare avanti le nostre lotte e le nostre idee senza più subire dirigenze e controlli sulla nostra autonomia. USI CIT sezione Ancona USI CIT sezione Venezia USI CIT sezione Perugia/Trasimeno USI CIT sezione Macerata Elvino Petrossi (della sezione USI CIT Trieste)
Stato di emergenza