Riceviamo e diffondiamo questa salutare riflessione proveniente dalla provincia
forlivese, ma che affronta dinamiche di segno generale su “un mondo in cui il
social sta soppiantando il sociale” e dove la legge reprime le espressioni di
quel disagio che essa stessa contribuisce a creare. Quasi scontata, ma
giustamente denunciata nell’articolo, la complicità del giornalismo padronale. A
quest’ultimo proposito, l’autore ci segnala un link da un giornalaccio locale,
riportato in fondo all’articolo.
Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/i-maranza-e-la-legge/
I MARANZA E LA LEGGE
Pubblichiamo un contributo individuale che parte da un recente fatto di cronaca
che ha coinvolto alcuni giovani forlivesi indicati dalla polizia e dai giornali
locali come appartenenti ad una “baby gang”. A prescindere dal fatto che questo
termine serve oggi a designare uno tra i tanti nemici interni con cui lo Stato
legittima i suoi dispositivi di repressione, lo scritto parte dalle premesse
che, se non può essere giusta la prevaricazione come metodo contro chi viene
percepito più debole, la violenza agita da parte di chi sente più forte, forse
perché nasconde un profondo senso di fragilità, non può essere considerata
criticamente senza considerare il contesto sociale in cui le dinamiche
interpersonali e di potere sono inserite. C’è il rancore prodotto dallo stigma
che accompagna chi, come i giovani immigrati o le seconde o terze generazioni,
non vengono riconosciute come titolari dei diritti di cittadinanza, sfruttate
quando lavorano, criminalizzate quando non lo fanno, sotto stretta profilazione
quotidiana da parte delle forze di polizia. C’è la fine delle cosiddette “grandi
ideologie” del ‘900 che hanno ceduto il passo ai valori che la società
capitalista insegna, introiettati oggi per mezzo della scuola-azienda-caserma il
cui unico compito è quello di mettere in competizione gli individui per ottenere
una posizione. Ma c’è anche un altro tipo di scolastica, quella tipica dei
social network, che partendo dalla medesima logica competitiva insegna che chi
ottiene like e follower vale anche nella vita reale, chi non ottiene attenzione
– questo genere di merce che si cerca di acquisire – è destinato ad un’essenza
insignificante, da “perdente”.
La gestione pandemica del 2020-2022, con il suo corollario di privazioni,
divieti ed estraniazione sociale, ha certamente aggravato il senso di
alienazione e mancanza di rapporti reali di questa generazione che si trova a
crescere in questo determinato momento storico e che – ovviamente in parte,
perché è sempre stupido generalizzare – crede che solo dalla sopraffazione
altrui (che sia economica o fisica) possa arrivare il successo, il riscatto,
l’attenzione prima social e poi magari sociale. In un mondo, quello occidentale,
in cui il social sta soppiantando il sociale. Oggi accusata di essere la nuova
“classe delinquente”, durante un’ipotetica guerra – che appare sempre meno
ipotetica e sempre più probabile, oltre che sempre più digitalizzata e
interconnessa – la generazione social che ha imparato la lezione della
competizione e della sopraffazione potrebbe imparare anche quella
dell’obbedienza. L’ordine pubblico ne gioirebbe e lo Stato avrebbe la sua carne
da cannone.
Da questo racconto, possiamo dedurre che la rabbia a volte è maldiretta. Come
ribadito in questo scritto, quando succede che i rapporti di forza, solitamente
sbilanciati dalla parte dello Stato, vacillano “è solo perché chi è oppressx si
ribella e mette in discussione, in maniera conflittuale non democratica, le
regole vigenti”. E queste regole, detto per inciso, riguardano anche i rapporti
di potere.
Ma è proprio dal conflitto che può nascere la possibilità di una società se non
democratica – che oramai questo è un termine che il potere ha fatto pienamente
suo, e che significa molte cose diverse – di sicuro più libera.
--------------------------------------------------------------------------------
Forse non dalla parte dei maranza, di certo non dalla parte della legge!
Sull’arresto dei regaz della “baby gang” a Forlì (22/03/25)
Giornali online e cartacei in questi giorni sono strapieni della notizia degli
arresti fatti a Forlì dai solerti uomini della Squadra Mobile della Questura di
Forlì-Cesena: 15 idenificati, tutti tra i 17 e i 20 anni, dieci mandati
d’arresto, nove eseguiti con altrettante persone in carcere e una ancora
latitante, e speriamo per per molto tempo.
Ovviamente non mancano le dichiarazioni dei vari politici
fascio-nazional-popolari che affollano il palazzo comunale di Forlì (mentre i
sinistrosi tacciono, perchè non possono difendere dei criminali, ci
mancherebbe!) che chiedono pene dure, più controlli, più multe, più arresti, più
videocamere, più soldi per i sicari in divisa… quello che chiedono sempre
insomma.
Soltanto per il gusto e la voglia di non lasciare il monopolio della narrazione
di questa vicenda della “baby gang sgominata” a fascisti, sbirri e opinionisti
radical chic, mi pare onesto prendersi due minuti per dire qualcosa di ostinato
e contrario.
Parto da un presupposto che so non essere più tanto di moda: la legge e i codici
morali di una società sono il prodotto di un rapporto di forza. Lo Stato fa le
leggi per proteggere il potere che amministra e i padroni che lo necessitano; se
cambiano delle leggi in senso più “libero” succede solo perché chi è oppressx si
ribella e mette in discussione, in maniera conflittuale non democratica, le
regole vigenti. In mancanza di conflitto sociale, cioè di una coscienza (anche
armata) da parte di chi è sfruttatx di chi sono i suoi nemicx, gli
amministratori del potere fanno tutto ciò che possono per stringere il cappio al
collo della società: lavorate, producete, pagate le tasse, ubriacatevi una o due
volte a settimana e consumate. Non rompete le scatole, che noi facciamo girare i
soldi grossi. Questa è l’etica dello Stato, qualunque Stato: certo è che quello
italiano è un po’ più fascista di altri in Europa, anche perché i padroni hanno
avuto tanta paura negli anni ’60 e ’70 dove si stava per fare la rivoluzione…
Perché dico questo? Perché se si crede alla favoletta della democrazia nella
quale abbiamo tuttx le stesse opportunità, siamo tuttx cittadinx ugualx e con
pari diritti e doveri, allora questa “baby gang” pare proprio un frutto marcio
del bell’albero della borghesissima e depressissima città di Forlì (che poi,
frutto marcio, suvvia, restituiamo un po’ di dignità alla realtà: furti di
biciclette, un paio di rapine di cellulari, spaccate in dei tabacchi, risse tra
regaz…cose che si sono SEMPRE viste in tutte le città).
Ma visto che non ci credo alle favole della propaganda (ma a quelle degli gnomi,
delle fate, dei draghi che bruciano i castelli dei Re sì!) mi dico che è la
logica conseguenza di un sistema che ci alleva fin dalla culla col solo
imperativo di fare soldi, consumare, arrivare in alto mangiando in testa a
tuttx. Competizione, arrivismo, successo, apparenza.
E quanto in alto possono arrivare dei ragazzi tunisini, senza famiglia, senza
casa, che hanno attraversato un mare che è una tomba (il 16 marzo hanno
ripescato 43 corpi al largo di Lampedusa: provenivano dalla Tunisia) per
arrivare in una terraferma che è una galera a cielo aperto?
Non voglio vittimizzare nessunx, solo mettere nero su bianco che no, non abbiamo
le stesse possibilità, non abbiamo gli stessi privilegi, non abbiamo le stesse
alternative tra le quali scegliere.
Certo, comunque avevano alternative al furto, alla rapina? Sì, ce l’avevano.
Ingrassare le fila dex disoccupatx che elemosinano un posto di sfruttamento
pagato una miseria per poi andare ad affittare un buco di cantina in nero pagato
una follia e magari, in sei o sette anni, avere un permesso di soggiorno.
O un’altra alternativa è fare la fila alla Caritas e beccarsi due pasti caldi al
giorno, e magari potersi fermare a dormire per due settimane di fila (di più non
ti tengono e ti fanno la perquisa quando entri) ma alle 8:00 di mattina devi
sloggiare perché alla Caritas ci vai solo per dormire. Bello! A chi non farebbe
gola una vita così?!
La legge, e gli sbirri col gel che hanno posato per le foto della stampa, sono
lì apposta per far sì che chi non ha nulla resti senza nulla o con quel minimo
indispensabile per renderlo eternamente ricattabile: se sgarri perderai anche
quei due spicci a fine mese.
E tutto questo solo per quanto riguarda i “beni materiali”, ma la vita non
dovrebbe essere fatta solo di oggetti comperati o oggetti venduti, ma di tanto
altro, tanto di radicalmente altro: condivisione, tempo libero da obblighi e
lavoro, scoperta, viaggi, sesso, gioco, creatività, divertimento, affetti,
crescita spirituale…ma a chi gliene frega nulla di sta roba ormai?!
E quindi che non ci si scandalizzi se poi coi “proventi delle azioni criminose”
i regaz compravano occhiali e scarpe firmate, cos’altro avrebbero dovuto fare?!
Mandarli ad organizzazioni di resistenza in Palestina o nel Sahara? Sarebbe
stato un sogno, ma i sogni non fanno rima con capitalismo.
Se hai 18 o 20 anni nel 2025 significa che sei statx allevatx con la sola ottica
martellante e pervasiva del consumo e del “non me ne frega un cazzo di
politica”, e le anime belle (come il sottoscritto) che si augurano che maturi la
“coscienza di sfrutatti” in tuttx quex ragazzx per strada notte e giorno, che
giustamente odiano le guardie, si mettano l’anima in pace: non c’è rivoluzione
(per lo più! eccezioni ci sono sempre) nella rabbia delle strade, solo un cieco
senso di fine, di catastrofe, di immediata riscossa e immediata caduta.
O così è quello che dicono lx regaz che incontro sui bus o in stazione…
E invece perché non ci si stupisce o non ci si arrabbia se quegli occhiali
firmati o quelle scarpe di plastica da divo della TV te le compri con l’onesto
guadagno del sudore della fronte?! (beh, qualcunx in effetti sì che si
arrabbia!).
L’essenziale è che stai buono e partecipi alla catena della produzione e del
consumo (legale o illegale è una falsa opposizione).
Il furto è una logica conseguenza della proprietà privata: come diceva qualcuno
“finché esisterà il denaro non ce ne sarà mai abbastanza per tuttx”.
Se una cosa la voglio dire riguardo all’operato criminoso della baby gang è solo
relativa ai bersagli delle loro azioni: perché rapinare un ragazzino al centro
commerciale invece di un riccone con la Tesla? Perché picchiarsi tra bande
rivali invece di menare i fascisti e i razzisti che speculano sulle tragedie
della gente migrante, che rinchiude fratelli e sorelle in galere e CPR? Perché
un furto in un minimarket di gente che a sua volta subisce il razzismo,
piuttosto che una banca? (Certo, la banca è molto più difficile da fare!).
In definitiva, perché non indirizzare con un minimo di etica, etica data
dall’evidenza di come va il mondo, un’azione di riappropriazione e di
sopravvivenza, invece di prendersela col primo capitato?! Forse è chiedere
troppo, ma nessuna pretesa, sarebbe un auspicio che tutte le volte che ho
l’occasione, alla fermata del bus o su un muretto con una birra, cerco di buttar
là a chi ha voglia di far due chiacchiere e mi chiede una sigaretta.
Non difendo un tamarro che ti punta un coltellino per farti il portafoglio
mentre stai tornando a casa la sera, lo contestualizzo: se non esistesse la
miseria non avrebbe semplicemente bisogno di rubare.
Subire violenza, verbale e/o fisica è un trauma che moltx abbiamo sperimentato,
perciò capisco chi ha paura della “brutta gente di strada”, ma non posso fare a
meno di ragionare in altri termini: quanto danno fanno alle nostre vite (di
gente non ricca) banche, assicurazioni, eserciti, poliziotti, secondini, padroni
di casa, psichiatri, professori tiranni, burocrati, politici, industriali,
fascisti, giornalisti infami, tecno-scienziati che manipolano piante, clima ed
animali?
Quante persone sono morte ammazzate dagli sbirri (o torturate, picchiate,
vessate nelle questure/caserme) e quante dalle “baby gang”!?
O sono davvero dieci pischelli (giustamente) arrabbiati e senza direzione che ci
opprimono? Spazzando via i primi risolveremo la situazione di disparità sociale
ai secondi e a noi stessx.
L’unica maniera per eliminare la logica della sopraffazione e della violenza è
distruggere la società che ce le impone!
Contro il DDL1660 e contro i suoi falsi critici, ovvero la stessa sinistra che
ha inasprito i pacchetti sicurezza precedenti (Minniti) e le ordinanze
antidegrado, a Forlì come in tutta Italia.
Contro ogni confine, contro ogni tribunale, contro ogni galera!
La proprietà è il furto!
https://www.forlitoday.it/cronaca/baby-gang-aggressioni-rapine-10-arresti.html
Tag - Stato di emergenza
Riceviamo e diffondiamo, rilanciando anche noi la mobilitazione per Anan, Alì e
Mansour per questo mercoledì 2 aprile:
LIBERTA’ PER ANAN ALI’ MANSOUR
LIBERTA’ PER I PRIGIONIERI E LE PRIGIONIERE RIVOLUZIONARI!
Il 2 aprile 2025 alle ore nove e trenta al tribunale dell’Aquila si terrà la
prima udienza del processo ad Anan, Alì, Mansour.
Anan Yaeesh ha 37 anni, è palestinese, nato e cresciuto a Tulkarem nella
Cisgiordania occupata. Negli anni della Seconda Intifada Anan era un adolescente
attivo nella lotte. In seguito ha dovuto scontare quattro anni di prigione come
detenuto politico e ha subito un agguato delle forze speciali israeliane nel
2006, durante il quale ha riportato gravi ferite.
Anan lascia la Palestina nel 2013, diretto verso l’Europa. Si reca inizialmente
in Norvegia dove viene sottoposto a degli interventi chirurgici per rimuovere i
proiettili rimasti nel suo corpo per anni.
Nel 2017 raggiunge l’Italia, dove si stabilisce, e dove nel 2019 ottiene un
titolo di soggiorno. Nel 2023 si reca in Giordania, dove viene sequestrato dai
servizi di sicurezza giordani probabilmente per consegnarlo ad Israele. Dopo
oltre sei mesi di detenzione, a seguito della diffusione della notizia del suo
arresto e al pericolo che venga consegnato alle autorità israeliane, i servizi
di sicurezza giordani lo rilasciano per evitare reazioni da parte dell’opinione
pubblica.
Il 24 gennaio 2024 le autorità israeliane hanno trasmesso al ministero della
giustizia italiano una richiesta di arresto provvisorio del cittadino
palestinese Anan Yaeesh, a fini di estradizione, per i reati di partecipazione
ad organizzazione terroristica e atti di terrorismo.
Il ministero della giustizia ha chiesto l’applicazione della misura cautelare
alla corte di appello dell’Aquila, città in cui Anan vive e dove gode di un
permesso di soggiorno per protezione speciale dal 2022.
Il 26 gennaio 2024 Anan è stato arrestato in seguito a questa richiesta.
La Corte d’Appello de L’Aquila ha respinto, nel marzo 2024, la richiesta di
estradizione, in quanto ha riconosciuto sia concreto il rischio di tortura nelle
carceri israeliane, sia che Anan in quanto palestinese sarebbe stato processato
da un tribunale militare.
Nonostante ciò la magistratura, decaduti i motivi per la sua carcerazione, ha
avviato un’indagine per “associazione con finalità di terrorismo internazionale”
(art. 270-bis c.p.).
Il 13 marzo 2024, la procura della Repubblica de L’Aquila, Direzione
Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo, emette un mandato di cattura per Anan e
altri due suoi amici palestinesi: Alì Irar e Mansour Doghmosh. Secondo l’accusa
avrebbero costituito una struttura operativa chiamata “Gruppo di risposta rapida
– Brigate Tulkarem”, filiazione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che ha tra
i suoi obiettivi atti di violenza contro lo Stato di Israele. Le Brigate Al
Aqsa, che fanno riferimento ad Al Fatah, su richiesta di Israele sono state
inserite dall’Unione Europea nella lista nera delle organizzazioni
terroristiche.
Secondo la tesi dell’accusa, i fermati avrebbero compiuto opera di propaganda e
proselitismo, con l’obiettivo di pianificare attentati contro siti civili e
militari sul territorio italiano.
L’accusa ha dovuto inserire i due amici di Anan, Alì e Mansour, per poter
giustificare l’articolo 270 bis che richiede la presenza di almeno tre persone
per la formulazione del reato associativo. Oltre a questa manipolazione ha anche
definito complotto terroristico
internazionale quello che le convenzioni internazionali definiscono «resistenza
legittima contro un occupante», cioè la lotta dei palestinesi contro
l’occupazione sionista.
L’ufficio dello State Attorney di Israele ha dato atto dell’impegno mostrato
dalle autorità italiane e della collaborazione prontamente prestata, dichiarando
di voler «ringraziare le autorità italiane per il loro impegno e assistenza in
questo caso» e ribadendo la disponibilità israeliana «ad una continuata
collaborazione tra i due Paesi».
Se l’estradizione di un cittadino palestinese verso Israele, che è un paese in
guerra, è attualmente impossibile, allora la magistratura opta per tenerlo in
galera in Italia avanzando altre accuse contro di lui.
Questa operazione giudiziaria appare una prova di servilismo chiesta all’alleato
italiano ed un precedente che potrebbe rivelarsi pericoloso per altri esuli.
Ad agosto del 2024 sia la Cassazione che il Tribunale del Riesame scarcerano Alì
e Mansour per «mancanza di gravi e circostanziate prove», mentre la procura
decide che Anan rimanga nella sezione di alta sicurezza del carcere di Terni.
Il 26 febbraio 2025 il tribunale de L’Aquila decide comunque il rinvio a giudizi
con le accuse di proselitismo e finanziamento del terrorismo per tutti e tre i
palestinesi.
Contro l’estradizione si sono svolte manifestazioni e presidi in tutta Italia: a
Sassari, Milano, Brescia, Ancona, Modena, Bergamo, Genova, Napoli, L’Aquila,
Palermo, Torino, Roma. Vari presìdi hanno portato la voce dei solidali davanti
alle mura del carcere di Terni dove sono rinchiusi anche diversi compagni
rivoluzionari, tra i quali il nostro Juan. Lo stesso tribunale dell’Aquila è
stato presidiato durante le udienze che dovevano decidere la richiesta di
estradizione e il rinvio a giudizio per gli imputati. A queste udienze Anan non
ha mai potuto partecipare di persona perché gli è stata imposta la
videoconferenza, che è ormai una prassi sempre più estesa che limita fortemente
le possibilità di difesa e la possibilità per gli imputati di vedere facce
amiche in tribunale.
Durante queste udienze Anan ha rilasciato una dichiarazione spontanea della
quale riportiamo di seguito alcuni stralci: «Nella prima udienza estradizionale
di febbraio 2024, ho chiesto alla Corte di Appello e al Procuratore Generale di
non consegnare i contenuti dei miei telefoni cellulari agli israeliani, in
quanto contenevano informazioni riservate che detenevo in qualità di resistente
palestinese, di comandante partigiano. Mi è stato risposto che ciò non sarebbe
accaduto, poiché erano consapevoli che eravamo in guerra e che l’Italia è
neutrale. Tuttavia, sono rimasto sorpreso nel sapere che ad aprile scorso tutte
le informazioni contenute nei miei cellulari sono state passate agli israeliani.
In questo modo, avete violato ogni principio di sicurezza e lo stesso diritto
internazionale, diventando di fatto partecipi degli israeliani in questa guerra,
aiutandoli nella repressione delle legittime aspirazioni di un popolo oppresso…»
«Pertanto, signor Presidente, considero il mio arresto e il mio processo qui
illegittimi, poiché l’arresto stesso, sin dal primo momento, è stato compiuto in
contrasto con il diritto internazionale umanitario, con lo statuto delle Nazioni
Unite, con la Convenzione di Ginevra e con i due protocolli aggiuntivi, e tutto
ciò che ne è derivato è anch’esso illegale; ciò che si fonda sull’illegittimità,
infatti, è anch’esso illegittimo. …
Se riconoscete la legittimità dello Stato di Palestina, allora la richiesta di
estradizione avanzata nel gennaio dello scorso anno nei miei confronti avrebbe
dovuto essere presentata attraverso il governo del mio Paese. Se, invece,
considerate la Palestina come un territorio illegalmente occupato da una potenza
coloniale, allora la resistenza è un diritto legittimo e non dovreste arrestarmi
qui per tale motivo…»
«Se in ballo vi fosse stato un altro paese occupante, la Russia ad esempio,
avreste riconosciuto la legittimità della resistenza palestinese. Non mi state
processando in base al diritto internazionale, ma in base ai vostri rapporti
diplomatici, solo perché Israele è considerato un alleato del governo italiano,
un partner commerciale, e ritenete legittime tutte le azioni che esso porta
avanti. Tanto vale allora cambiare il nome delle corti internazionali e
umanitarie in “Corti degli amici”. Volete che mi difenda dalle accuse a mio
carico, ma mi vergogno di cercare l’assoluzione da accuse che per me
rappresentano un motivo di onore. Non voglio difendermi dall’accusa di avere dei
diritti e di averli rivendicati, o di aver tentato di liberare la mia gente e il
mio Paese dall’oppressione coloniale. Giuro che non intendo essere assolto dalla
legittima resistenza contro l’occupazione sionista. La resistenza palestinese è
uno dei fenomeni più nobili conosciuti dalla storia»
La vicenda repressiva di Anan è significativa, al di là del dramma personale, in
quanto rende evidente come lo Stato italiano agisca per conto dell’entità
sionista contro la resistenza palestinese e lo fa mentre sono in corso la
pulizia etnica ed il genocidio del popolo palestinese, crimini esplicitamente
rivendicati dalle massime autorità israeliane. Per dirlo con le parole di
Netanyahu: «Non mi interessano gli obiettivi, distruggete le case, bombardate
tutto a Gaza».
Chiariamo che la compromissione dello Stato italiano in questi crimini contro
l’umanità non si limita al chiudere gli occhi o ad un generico supporto. La
realtà è che i sistemi Italiano ed Israeliano sono sempre più integrati in
molteplici settori, tra cui quello della ricerca scientifica, dell’industria
militare, dei servizi segreti e delle tecnologie di controllo (basti citare il
recente scandalo spyware Paragon). Le istituzioni italiane si adoperano per dare
spazio ad Israele nella cultura di massa inserendolo all’interno di grandi
manifestazioni sportive quali il giro d’Italia od organizzando incontri tra le
rispettive nazionali mentre è in corso un massacro. Il governo italiano ha
supportato supinamente Israele anche quando questo si è trovato in forte
contrasto con la principali organizzazioni che rappresentano il diritto
internazionale e che ha provato a demolire (ONU, Unrwa e Corte Internazionale di
Giustizia).
Quanto elenco non solo ci fa ritenere che il genocidio non sarebbe possibile
senza il supporto di Stati come l’Italia, ma inoltre ci porta a considerare
Israele il braccio armato della macchina del colonialismo occidentale, che
agendo su mandato di quest’ultimo, attua un processo di destabilizzazione
dell’intera Asia occidentale, al fine di sottometterla e controllarne le risorse
per garantire gli interessi dei capitalisti Statunitensi e Europei.
In conseguenza di queste considerazioni riteniamo che il principale modo con cui
possiamo opporci al genocidio dei palestinesi è quello di combattere contro il
nostro governo, i nostri padroni e tutti gli apparati (repressivi, industriali,
mediatici) che sostengono i conflitti in Asia occidentale affinché cessino la
loro azione di collaborazionisti e protettori di Israele.
Tra questi vi sono appunto gli apparati repressivi dello Stato italiano:
magistratura,forze di polizia, servizi di sicurezza, amministrazione carceraria
che sono stati schierati a difesa dei genocidi, divenendo complici della
macchina dello sterminio. Fanno questo perseguitando gli esuli come nel caso di
Anan, lo fanno reprimendo i movimenti di lotta scesi al fianco del popolo
palestinese, lo fanno ribaltando la realtà quando equiparano l’antisionismo
all’antisemitismo, facendo sì che chi si oppone all’apartheid, alla deportazioni
alle stragi, nel mondo alla rovescia in cui viviamo rischi di essere
stigmatizzato e perseguito per razzismo o antisemitismo.
Bisogna ricordare che la città de L’Aquila, in cui si svolge il processo, ospita
un carcere con le sezioni 41 bis. In queste sezioni tramite le pratiche
dell’isolamento e della deprivazione sensoriale si attua una vera e propria
tortura ai reclusi che mira al loro annientamento fisico psichico e politico.
Nella sezione femminile del 41 bis de L’Aquila è prigioniera dal 2007 la
compagna dei Nuclei Comunisti Combattenti Nadia Lioce. Per la chiusura del 41
bis il compagno Anarchico Alfredo Cospito ha sostenuto uno sciopero della fame
durato 182 giorni. Alle sezioni 41 bis è associata la presenza della Direzione
Distrettuale Antimafia ed Antiterrorismo de L’Aquila, ed è questa che ha
imbastito il processo contro i tre palestinesi mettendo in pratica le montature
che le sono congeniali, inventandosi associazioni che non esistono e arrestando
persone utilizzando false accuse.
Il processo ad Anan si svolge in questa valle chiusa da vette innevate, ma se
allarghiamo lo sguardo sulla cartina geografica ci accorgiamo di essere nel
mezzo del mediterraneo, un mediterraneo dove vogliamo la felicità, la libertà,
la pace e la fratellanza tra tutti i popoli che lo abitano. Invece i fronti di
guerra si allargano sempre più, e se molte persone si disinteressano alla guerra
questo non fa sì che la guerra non si interessi a noi. La guerra non risparmia
nessuno e, con le dovute proporzioni, tocca anche i proletari in Europa sui
quali i governanti scaricano il costo delle loro nefaste avventure. Il fronte
interno si manifesta tramite l’aumento della povertà conseguente alla crisi
industriale e all’aumento dei costi dell’energia, si manifesta tramite la
militarizzazione della società che i burocrati dell’UE vogliono imporre con il
piano Rearm Europe, si manifesta con l’aumento di repressione e controllo
attraverso il ddl ex 1660, con il quale si attaccano i poveri ei dissidenti.
La guerra è sempre, innanzitutto, la guerra degli oppressori contro gli
oppressi, la proposta allucinante di spianare Gaza e di valorizzare il suo
territorio tramite una speculazione edilizia è paradigmatica del mondo in cui
viviamo. Un mondo in cui i proletari che risultano eccedenti rispetto ai
progetti del capitale internazionale, possano essere tranquillamente deportati e
sterminati, come testimoniano la distruzione della Ex Jugoslavia, dell’Iraq, del
Afganistan, della Libia, della Siria, dell’Ucraina, e infine della Palestina che
le élite occidentali vorrebbero condannare alla soluzione finale. Solo la
resistenza degli sfruttati e la solidarietà internazionale può opporsi a questa
strage continua, è la variante umana che può ribaltare il corso della storia.
Liberazione immediata per Anan Yaeesh!
Facciamo sentire ad Anan, Alì, Mansour la voce solidale di chi si oppone al
genocidio del loro popolo.
2 aprile presidio, l’Aquila ore 9:30
tribunale de L’Aquila via XX settembre 68
ANAN YAEESH LIBERO! LA RESISTENZA NON SI ARRESTA! LA RESISTENZA NON SI PROCESSA!
COMPLICI E SOLIDALI
riferimenti e fonti:
https://www.instagram.com/free_anan/
https://www.facebook.com/people/Free-Anan/61556541179498/
https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/04/09/anan-yaeesh-lavvocato-alla-camera-caso-politico-non-e-stato-considerato-il-diritto-internazionale-umanitario/7506144/
Dichiarazioni di Annan ultima udienza l’aquila
https://www.ondarossa.info/focus/anan-ali-mansour-compagni-palestinesi
https://ilmanifesto.it/israele-vuole-anan-yaeesh-litalia-intanto-lo-fa-arrestare
(17/2/2024 un anno fa)
https://contropiano.org/news/politica-news/2024/02/14/no-allestradizione-di-anan-yaeesh-0169353
videoconferenza
https://ilrovescio.info/2025/03/22/trento-stecco-condannato-a-3-anni-e-6-mesi/
https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Sindispr&leg=19&id=144932423)
https://pungolorosso.com/2025/03/21/i-proclami-ferocemente-sterministi-di-israele-nel-silenzio-generale-dei-suoi-complici-o-mandanti/
Riceviamo e diffondiamo:
PERQUISIZIONI A PISA E A CARRARA
Qui il testo in pdf: Perquisizioni Pisa Carrara
All’alba di mercoledì 26 marzo 2025 hanno avuto luogo, nelle città di Pisa e
Carrara, due perquisizioni domiciliari per gli articoli 110, 56, 424 del cod.
pen., aggravati dall’articolo 270 bis 1, in merito all’avvenuta collocazione di
un ordigno incendiario presso il tribunale di Pisa rinvenuto dalle forze di
difesa dello Stato italiano nel febbraio del 2023. Fatto quest’ultimo che si
inseriva nella vasta mobilitazione in solidarietà con Alfredo Cospito contro il
41 bis e l’ergastolo ostativo.
L’indagine, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di
Firenze, vuole, come d’altronde tutte le indagini contro il movimento anarchico,
minacciare i rivoluzionari e lo spirito d’iniziativa che li contrassegna.
La lotta continua.
Gli indagati
Da ieri, mercoledì 26 marzo, il nostro caro amico e compagno Massimo si trova
nel carcere di Spini di Gardolo (Tn), nel regime detto di “semilibertà”, per un
cumulo di condanne definitive di 2 anni e 7 mesi (la principale condanna, di
poco superiore ai 2 anni, è relativa agli scontri avvenuti a Rovereto in
occasione della venuta di Salvini: uno degli episodi per cui si trova in carcere
anche Giulio). Essendo stata accolta la sua richiesta di poter scontare la pena
in semilibertà, nel giro di un paio di settimane potrà uscire per lavorare: cosa
che attenua, ma non estingue, la rabbia di saperlo rinchiuso.
Sappiamo che sta bene, in compagnia di un borsone di libri, di un lettore MP3
caricato a metal e della sua serena risolutezza. In attesa di riabbracciarlo,
gli mandiamo tutta la nostra solidarietà e affetto.
Per scrivergli:
Massimo Passamani
C.C. Spini di Gardolo
Via Cesare Battisti 13
38100 Trento
Riceviamo e diffondiamo. Fraterna solidarietà a Ghespe!
IL COMPAGNO GHESPE È STATO TRASFERITO PRESSO IL CARCERE DI SPOLETO
Arrestato in Spagna il 15 febbraio con un mandato di arresto
internazionale, ed estradato in Italia il 4 marzo, Ghespe è stato prima
portato a Roma nel carcere di Rebibbia, per essere poi trasferito nel
carcere di Spoleto.
Ricordiamo che Ghespe deve scontare una condanna ad 8 anni per
fabbricazione, detenzione e porto di ordigno esplosivo, lesioni
personali gravissime e danneggiamento, relativa all’Operazione Panico
del 2017 a Firenze con l’accusa di aver fabbricato l’ordigno artigianale
rinvenuto davanti all’entrata della libreria “il Bargello” a Firenze,
sede dei fascisti di CasaPound.
Fin dai primi giorni della sua detenzione in Spagna Ghespe ha subito
pressioni e soprusi da parte delle guardie e dai suoi aguzzini. A
Rebibbia non gli è stata consegnata la corrispondenza, colloqui e
telefonate sono stati autorizzati soltanto poco prima del suo
trasferimento nel carcere di Spoleto.
Se guardie e servi dello Stato pensano di poter utilizzare simili
giochetti per spezzare la nostra vicinanza, si sbagliano di grosso.
NESSUNA GABBIA FERMERÀ LA NOSTRA SOLIDARIETÀ
GHESPE LIBERO
TUTTE LIBERE
TUTTI LIBERI
Per continuare a scrivere a Ghespe
Salvatore Vespertino
Casa di reclusione di Spoleto
Località Maiano n. 10
06049 Spoleto (PG)
Trento: Stecco condannato a 3 anni e 6 mesi
Ieri si è svolto, presso il tribunale di Trento, il processo di primo grado
contro il nostro amico e compagno Stecco, accusato di aver favorito la latitanza
dell’amico e compagno Juan e di aver contraffatto dei documenti di identità.
Stecco è stato condannato – con rito abbreviato – a 3 anni e 6 mesi di carcere.
Questa sentenza sembra decisamente un monito: chiunque aiuti fuggiaschi e
latitanti, la pagherà cara. La condanna di ieri fa il paio con il dispiegamento
davvero impressionante di uomini e mezzi che ha portato all’arresto dello stesso
Stecco. Su quest’ultimo aspetto, per come emerge dai faldoni dell’operazione
“Diana”, uscirà una sintesi di ciò che è utile che compagne e compagni sappiano
dell’armamentario del nemico.
Fuori dal tribunale, si è svolto un presidio di solidarietà con Juan e Stecco,
in particolare contro l’ennesima imposizione della videoconferenza.
Questo il volantino distribuito:
Un calcolo sbagliato
Questo è il tuo segreto, Butch. Continuano a sottovalutarti.
Pulp fiction
Oggi il nostro amico e compagno Stecco (in carcere a Sanremo) è a processo qui a
Trento perché accusato di aver fabbricato dei documenti falsi per un altro
nostro amico e compagno, Juan (in carcere a Terni), quando quest’ultimo era
latitante. La cosa in sé non richiede grandi parole. Se Stecco ha fabbricato
quei documenti, ha fatto bene, perché servivano ad evitare il carcere a un
compagno ricercato. Sottrarsi alla polizia politica è una necessità che
accompagna da sempre chi lotta per la libertà e per la giustizia sociale. La
differenza è che oggi – con la fine dell’“asilo politico” su cui hanno potuto
contare per decenni gli esuli e gli oppositori, e il drastico aumento delle
forme di controllo tecnologico – è sempre più difficile riuscirci. Una volta
introdotti, i dispositivi di sorveglianza possono colpire chiunque (come si è
visto, su scala di massa, con il green pass), per cui è necessario non farsi
abbindolare dai pretesti con cui vengono giustificati.
Oggi Stecco non sarà fisicamente in aula perché gli è stata imposta la
videoconferenza. Quest’ultima, un tempo riservata ai detenuti in 41 bis e poi
agli accusati di “terrorismo”, dal Covid in poi è stata estesa praticamente a
tutti i prigionieri. In tal modo, il detenuto non può vedere facce amiche in
tribunale, non può difendersi adeguatamente (il confronto con l’avvocato avviene
solo per telefono) e può dire la sua solo se il giudice non decide di premere un
pulsante e tagliare il collegamento audio e video. Nemmeno l’inquisizione era
riuscita a far sparire il corpo e la voce degli accusati. Quello di risparmiare
sulle spese di trasferimento dal carcere al tribunale è uno sfacciato pretesto:
ci sono detenuti che vengono portati in altri carceri dotati dei collegamenti
per la videoconferenza invece di essere portati direttamente nei tribunali della
stessa regione. Se poi – questa è la tendenza – in futuro le sentenze verranno
stabilite dagli algoritmi, le macchine giudicheranno degli umani che
aspetteranno la loro sorte dietro gli schermi: un indubbio risparmio di tempo e
di carta. Al totalitarismo non si arriva mai tutto d’un colpo, né è mai esistito
un potere che affermi di perseguire dei fini apertamente malvagi. La guerra
viene promossa in nome della “pace”; la repressione si chiama “sicurezza”; chi
si ribella è un “terrorista”.
C’è però un aspetto con cui Stato, padroni e tecnocrati non hanno fatto i conti:
la variante umana. Questa si esprime in mille modi: i corpi dei detenuti che si
prendono lo spazio con le proteste e le rivolte; i disertori che si rifiutano di
diventare carne da cannone; le disfattiste e i disfattisti che sabotano la
macchina della guerra; i lavoratori e le lavoratrici che scioperano; il popolo
palestinese che resiste. Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh (in carcere
insieme a Juan), accusato di “terrorismo” da uno Stato italiano complice del
sistema genocida israeliano, ha scritto in una sua commovente dichiarazione di
sentirsi privilegiato, lui chiuso in una cella, rispetto al suo popolo costretto
a vivere tra le macerie, sotto le bombe, senza acqua né elettricità; un popolo
imprigionato in un campo di concentramento high tech, ma che la strapotenza
israeliana non riesce a domare.
Se i partigiani palestinesi sono “terroristi”, allora diventa motivo di orgoglio
essere inquisiti per “terrorismo”, come la polizia politica e la Procura stanno
facendo per l’ennesima volta contro anarchiche e anarchici trentini (tra cui
Stecco e Juan).
Lo sbaglio dei potenti è pensare che lo spirito di rivolta e l’umano gesto di
rifiuto possano essere previsti e impediti dalla smisurata potenza di calcolo
delle loro macchine.
Libertà per Juan e Stecco
Basta videoconferenza, vogliamo vedere i nostri compagni in aula!
Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione
anarchiche e anarchici
Riceviamo e diffondiamo:
Trento: 23 anni di carcere per un’iniziativa contro il carcere
Il 5 marzo scorso, il giudice Gianmarco Giua ha condannato in primo grado 25 tra
compagne e compagni a pene che vanno dagli 8 mesi ai 2 anni di galera per un
presidio del novembre 2020 sotto il carcere di Spini. Tenuto conto che il
processo si è svolto con rito abbreviato (il quale prevede la riduzione di un
terzo della pena) e che le condanne hanno superato quanto chiesto dallo stesso
PM, si tratta di una sentenza su cui vale la pena fare qualche riflessione. Si
tratta, infatti, di una palese anticipazione del DDL (ex) 1660 in discussione al
Senato. 19 tra compagne e compagni sono stati condannati per “istigazione” (16 a
10 mesi, 3 a 1 anno). Il motivo è aver urlato “Fuoco alle galere” e frasi
simili. Il reato di “istigazione a disobbedire alle leggi” esiste da decenni, ma
non aveva mai portato a condanne – per lo meno a Trento – per slogan che
caratterizzano da sempre le presenze solidali sotto le carceri. Sembra, appunto,
un’anticipazione del “terrorismo della parola” con cui nel nuovo Decreto si
vogliono colpire le idee che metterebbero a rischio l’ordine pubblico. Un paio
di compagni sono stati condannati rispettivamente a 1 anno e a 1 anno e 2 mesi
per “resistenza” in quanto accusati di aver disturbato con dei laser ottici le
riprese della Digos. Anche questa sembra un’anticipazione dell’estensione del
reato di “resistenza” o – per carceri e CPR – di “rivolta” a condotte che non
sono “violente” e nemmeno particolarmente “attive”, coincidendo di fatto con
tutto ciò che ostacola l’operato delle forze di polizia o dell’autorità. Due
compagni sono stati condannati a 2 anni per un blocco stradale con dei
cassonetti incendiati avvenuto in un’altra zona della città.
L’iniziativa finita sotto processo si era svolta mentre vigeva il divieto di
ogni assembramento e mentre nel carcere di Spini – come in tanti altri – era in
corso una protesta. Nella realtà rovesciata dei tribunali, ad “istigare” i
prigionieri non erano le condizioni repressive interne (culminate, nei mesi
precedenti, nella strage di Modena) bensì le parole solidali di compagne e
compagni. La sentenza, insomma, prolunga il cordone poliziesco-mediatico con cui
lo Stato ha cercato di imporre il silenzio sulle proteste dei detenuti e sulla
violenza delle guardie, e prepara il terreno per quell’“istigazione alla
rivolta” con cui il DDL vuole punire proprio i presìdi solidali davanti a
carceri o CPR. Mai scordare il fatto che l’atto fondativo del primo lockdown su
scala nazionale della storia (quello imposto il 10 marzo 2020 dal governo Conte)
è stato l’assassinio di 14 prigionieri.
Non è la prima volta che compagne e compagni vengono condannati per degli
interventi al microfono (è accaduto di recente a Udine, ed era già accaduto
anche a Trento qualche anno fa). E nemmeno per degli slogan: era successo agli
11 compagni condannati a 2 anni di carcere ciascuno per aver urlato “la fabbrica
ci uccide, lo Stato ci imprigiona, che cazzo ce ne frega di Biagi e di D’Antona”
durante il corteo contro il 41 bis del giugno 2007 all’Aquila (in appello furono
poi assolti).
La sentenza di Trento, tuttavia, colpisce a grappolo tutte le espressioni di
solidarietà con i detenuti manifestatesi quel giorno (cassonetti incendiati ma
anche dei semplici laser ottici, fino a un banale “Fuoco alle galere”). Ora, i
giudici sono per lo più dei burocrati e dei passacarte a cui è spesso fuorviante
attribuire chissà quali intenti politici. Ma quando il contesto è quello del
riarmo, della guerra e dell’economia di guerra, lo spirito del tempo scrive esso
stesso le sentenze. Società dei varchi (zone rosse), creazione di masse
eccedenti (niente reddito, niente casa, niente documenti), discariche in cui
tenerle isolate e impaurite (drastico aumento delle pene per chi lotta in
carcere o nei CPR), pedagogia dell’indifferenza (la solidarietà che diventa
“istigazione alla rivolta”), attacco alle idee sovversive (“terrorismo della
parola”) sono tutti esempi di militarizzazione e di israelizzazione della
democrazia. Per questo è necessario non separare le iniziative contro la
repressione da quelle contro la guerra.
Fuoco alle galere.
anarchiche e anarchici
Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento
Partiamo da un’immagine. La “piazza per l’Europa” scelta a Trento dal quotidiano
“Il Dolomiti” è tra le più piccole della città ed ha accessi molto stretti.
Insomma, se i Michele Serra nostrani non si aspettavano le folle, non
escludevano le contestazioni. Il risultato è stato qualche centinaio di persone
(300? 400?) che si sono parlate addosso letteralmente circondate dalla celere e
dai carabinieri in tenuta antisommossa. Perché a cinquecento metri di distanza è
stata lanciata una manifestazione inequivocabilmente contro il riarmo, contro
l’economia di guerra, per la fine del massacro in Ucraina e del genocidio in
Palestina, in solidarietà ai disertori ucraini e russi. Nonostante lo scarso
preavviso (e la tanta pioggia), poco meno di 300 persone sono partite in corteo,
passando dalle quattro strade attorno alla piazza dei guerrafondai (malamente)
mascherati, disturbando con gli interventi amplificati proprio le parole del
sindaco (neanche a farlo apposta). Le persone che passavano in centro si sono
accorte degli europeisti con l’elmetto solo per via della polizia, mentre gli
slogan e gli interventi che hanno sentito erano antimilitaristi,
internazionalisti, anticolonialisti: “Gaza nel cuore, Jenin nella memoria,
Intifada fino alla vittoria”, “Dalla von der Leyen a Michele Serra, cambiano le
forme, la sostanza è guerra”, “Lo chiede l’Europa, la riposta è no. Per le loro
guerre non mi arruolerò”, “Contro le guerre dei signori, siamo tutti disertori”,
“Non un soldo né un soldato per le guerre del governo, dell’UE e della NATO”…
La composizione del corteo – più variegata rispetto alle ultime manifestazioni a
fianco della resistenza palestinese – suggerisce un moto di risveglio di fronte
a piani di riarmo che non hanno precedenti negli ultimi decenni. Poco, troppo
poco. Ma le due piazze di sabato rappresentano un netto, necessario spartiacque.
E infatti chi si muove nelle orbite di PD, Cgil, Arci, Anpi o AVS, e magari si
considera antifascista e contro la guerra, non ha mosso un dito né una voce,
perché sa che schierarsi davvero contro i progetti imperialisti e contro i
complessi scientifico-militar-industriali significa oggi tagliare i ponti della
compatibilità politica. Non caso a lanciare il corteo è stato quel pezzo di
società che da 16 mesi si attiva senza se e senza ma contro il governo, contro
l’Europa, contro le collaborazioni trentine con il genocidio a Gaza.
Il piano von der Leyen arma un plurisecolare suprematismo colonialista che oggi
deve farsi la guerra anche al proprio interno. Il fatto che nelle risoluzioni
belliciste dell’UE non si parli più di “Occidente”, bensì di “Europa”, significa
che l’accordo sulla rapina delle masse palestinizzate del mondo non basta più; e
che la guerra coloniale torna indietro sotto forma di furia estrattivista, di
“monopoli radicali” e di fine delle pantomime democratiche. Se Volkswagen si
dichiara pronta a riconvertire i propri stabilimenti insieme a Rheinmetall, si
scopre per passaparola che Leonardo SpA sta contattando piccole aziende locali
per proporre la produzione di armamenti (c’è da scommettere che, in tal senso,
arriveranno a breve gli incentivi governativi sotto forma di sgravi fiscali).
Esattamente come cento anni fa, il partito unico della guerra mobilita gli
“intellettuali progressisti”, la sinistra del capitale e i sindacati di Stato
per arruolare o irretire chi potrebbe rompere le righe. La novità è che oggi a
schierarsi contro il riarmo UE (ma non quello nazionale) sono anche forze
reazionarie. Motivo in più per prendere l’iniziativa. Che il genocidio e le
guerra spacchino in due la società. Il 15 marzo ha creato solo le prime crepe.
Di seguito il volantino distribuito a Trento dall’Assemblea in solidarietà con
la resistenza palestinese:
Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese.
Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra
Le “piazze per l’Europa” lanciate a Roma da “Repubblica” e qui a Trento dal
“Dolomiti” sono un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che è uno
degli elementi costitutivi della guerra al pari dell’artiglieria.
L’Europa come terra della libertà, della fratellanza tra i popoli e del Diritto
internazionale è un mito che gronda sangue. La storia delle classi dominanti
europee è quella del colonialismo e del suprematismo bianco, di cui gli stessi
Stati Uniti sono un prodotto. I «valori europei» dei quali si straparla in
queste piazze li vediamo a Gaza. Se tutto l’Occidente è schierato con il
colonialismo genocida israeliano (non una sanzione, non un embargo militare, non
una sola cessazione delle collaborazioni e degli scambi strategici… alla faccia
del Diritto internazionale!) è perché Israele compendia fino all’estremo la
storia europea e occidentale. In tal senso, l’unica differenza fra Trump-Musk e
von der Leyen è che il primo si dichiara esplicitamente suprematista, mentre la
seconda pratica il suprematismo senza dichiararlo.
Ma nelle “piazze per l’Europa” si va oltre l’ipocrisia. Ci si mobilita per la
guerra. Partiti, partitini e sindacati che vi partecipano sembrano in disaccordo
su alcuni aspetti (tra chi appoggia apertamente il piano di riarmo dei singoli
Stati e chi preferisce la «difesa comune europea»), ma sul rafforzamento
dell’industria bellica per continuare a depredare il resto del mondo sono tutti
d’accordo. Il punto è chi ci deve guadagnare.
Tutto ciò non c’entra nulla, sia chiaro, con la protezione della popolazione
ucraina. Massacrata e depredata sia dalla Russia sia da USA-NATO-UE, la gran
parte delle gente in Ucraina vuole il cessate il fuoco (come dimostra il livello
di massa raggiunto dalle diserzioni). Quello che l’UE non può accettare non è
certo l’invasione di un Paese sovrano (vogliamo parlare dell’Iraq, della Serbia,
dell’Afghanistan, della Libia, della Siria, della Palestina, del Libano?),
peraltro ampiamente ricercata dal blocco occidentale con una serie di continue
provocazioni volte a far entrare Ucraina e Georgia nella NATO, ma solo di essere
tagliata fuori da un bottino su cui le sue classi dirigenti hanno scommesso
tutto. L’«orgoglio europeo» dei vari Michele Serra è il tentativo di rilanciare
una potenza imperialista europea in declino. Rilancio che passa oggi attraverso
l’economia di guerra – chiamata furbescamente «difesa» – quale ulteriore
concentrazione dei monopoli economici e finanziari, pagata come sempre da chi
sta in basso.
Viviamo in un’epoca che non permette alcuna pigrizia nel pensare. La guerra è
condotta, oltre che sui campi di battaglia e nelle retrovie, contro i nostri
cervelli. Se vogliamo opporci ai venti di guerra e di riarmo; se vogliamo
spezzare le collaborazioni nei nostri territori con il genocidio a Gaza e la
pulizia etnica in Cisgiordania, dobbiamo disintossicarci dalla propaganda e
contrapporle idee e princìpi ben saldi.
A volere la guerra è un’infima minoranza: quella che si arricchisce. Per tutti
gli altri un riarmo da 800 miliardi di euro significa salari miseri, bollette
alle stelle, sanità al collasso, scuole in cui si impara poco e si obbedisce
molto, criminalizzazione del dissenso, città militarizzate.
Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha
trascinato nella spirale della guerra.
Da perdere non abbiamo che una vita sempre più invivibile. E la nostra
disumanità.
Trento, 15 marzo 2025
Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese
(ci troviamo ogni lunedì, dalle ore 18,30, alla Talpa di via S. Martino a
Trento)
Riceviamo e diffondiamo questo comunicato. L’introduzione dei nuovi OGM – in
Italia chiamati furbescamente Tecnologie di Evoluzione Assistita – è spinta da
una costante propaganda, la quale dimostra allo stesso tempo la diffidenza
ancora presente nella società in materia di OGM e gli interessi in campo per
l’agribusiness e per la geno-industria. Al punto che basta la contestazione di
una conferenza pro-Ogm da parte di tre persone per far strillare
all’oscurantismo e chiamare i militari a protezione… dell’oscurantismo
tecno-scientista. Va da sé che stiamo dalla parte dei contestatori.
Qui il comunicato, insieme falso e grottesco, dell’Accademia dei Georgofili:
https://www.georgofili.info/contenuti/attivisti-irragionevoli-non-nuovi-eroi/31063
Qui il comunicato dei contestatori:
Baroni irragionevoli, non nuovi eroi
L’Accademia dei Georgofili è uno storico baluardo della ricerca agricola
asservita al potere che nella sua storia, a titolo di esempio, si è prodigata
per pianificare in epoca fascista la produzione agricola nelle colonie
bonificate da Graziani. Ora senza mezzi termini si vanta di sottoscrivere il
manifesto sui TEA, perseguendo nell’appoggio alla ricerca genetica brevettabile
e alla mistificazione in atto su cosa siano questi TEA1 e a chi servano. Oltre a
duecento associazioni europee, anche tanti altri scienziati2 evidentemente non
asserviti a Monsanto and company hanno dovuto ammettere che sì, sono Ogm, che
certo, il metodo CRISPR CAS9 è ben lungi da essere preciso ed efficace, e che
ovviamente gli unici che potranno fruire di queste ricerche, sempre che portino
a qualche risultato, sono le grandi aziende agroindustriali e le multinazionali
sementiere.
Non paga, l’Accademia ha realizzato un convegno in cui fin dalle prime battute
glorifica l’appoggio a Leonardo ed a chi ha saputo utilizzare tecnologie e
ricerche militari per farne una possibilità per l’attuazione in campi civili
quali l’agricoltura.
“Innovazione”, ci viene detto, “bisogna adattarsi alle nuove sfide che la
contemporaneità ci offre”; e allora agricoltura spaziale3, perché no; perché non
immaginare colture protette per quando Musk andrà su Marte, e perché non dotarsi
di satelliti energivori, per raccogliere dati, per non toccare più la terra, e
delegare alle macchine il controllo sulla produzione del nostro cibo.
No, diciamo noi.
Siamo intervenuti con convinzione per portare l’urlo dei contadini che stanno
perdendo le loro terre.
È stata descritta un’ irruzione di tre energumeni, violenti incivili e
antiscientifici;
l’Accademia dei Georgofili ritiene le nostre ragioni delle farneticazioni
sconclusionate, ci chiama talebani dell’oscurantismo; rimandiamo al mittente
tali accuse, ribadendo semplici concetti che solo degli oscurantisti delle reali
condizioni della agricoltura contemporanea non riescono a cogliere:
la condizione agricola contemporanea è soggetta a problemi endemici quali lo
spreco4 (almeno un terzo del cibo prodotto viene buttato), la predazione di
risorse come il fenomeno del landgrubbing5 (il colonialismo agricolo),
l’utilizzo di terre arabili in gran parte per la produzione di foraggio e in
genere per l’industria della carne6 (industria dissennata, energivora e che
arricchisce multinazionali del cibo spazzatura ad ogni angolo del pianeta); a
titolo di esempio basterebbe piantare bietole al posto di mais nella pianura
padana e risolveremmo vari problemi di alimentazione, se questi fossero la causa
che muove l’azione di lorsignori e non fosse il profitto.
Il divario tra piccole ed enormi aziende agricole si sta accentuando, con la
grande distribuzione che soffoca il mercato abbattendo i costi di produzione. Ne
consegue la chiusura delle piccole aziende agricole, delle realtà rurali
schiacciate dal peso degli investimenti7. Questi nuovi Ogm, l’agricoltura 4.0,
l’affidamento alle scelte dell’intelligenza artificiale con l’ausilio dei dati
raccolti e veicolati da satelliti e data center presentano uno scenario fosco in
cui gli unici a guadagnarci non saranno le popolazioni e i contadini ma i soliti
noti.
Noi sappiamo che c’è un mondo di sapere contadino da difendere; che l’uso di Ogm
ha conseguenze imprevedibili sulla biodiversità; che affidarsi alle macchine
toglierà l’autodeterminazione e il controllo su quello che mangiamo. Che il
grano dell’Ucraina, gli uliveti della Cisgiordania, i pascoli e gli orti del
Burundi divelti per estrarre minerali rari, e i campi in Sicilia riconvertiti a
distese di pannelli solari, devono tornare a chi li coltiva per la propria
sussistenza.
In chiusura, l’espressione del potere a difesa di questa roccaforte dei baroni
dell’agricoltura, con l’intervento di alcun militari a presidio inutile e
perenne nelle ricche strade fiorentine che hanno proceduto con solerzia a
buttarci fuori, sintetizza cosa sta accadendo e dove stiamo andando. Riescono a
buttarci fuori, ma rendono evidente il senso delle nostre azioni.
Avremmo ancora modo di interloquire.
Nelle note qualche voce autorevole ad illustrare che non siamo solo tre
oscurantisti.
1
https://www.retecontadina.it/cinque-passi/304-i-falsi-miti-dei-nuovi-ogm-di-daniela-conti
2
https://www.cambiareilcampo.org/wp-content/uploads/2025/02/200vsAgribusinessITA.pdf
3
https://rivistaorticoltura.edagricole.it/ricerca-scientifica/space-farming-il-futuro-e-iniziato/
4https://www.tgcom24.mediaset.it/e-planet/spreco-alimentare-boom-in-italia-45-6-nel-2024_87451825-
5https://www.financialounge.com/news/2021/09/17/il-fenomeno-del-land-grabbing-cose-e-perche-e-un-pericolo/
6https://www.istat.it/notizia/lagricoltura-nelle-regioni-italiane/
7https://www.greenpeace.org/italy/comunicato-stampa/24967/in-15-anni-litalia-ha-perso-meta-delle-sue-piccole-aziende-agricole-svela-nuovo-report-di-greenpeace/
Se diatribe, scissioni e autodimissioni interne al sindacalismo di base (anche
libertario) non ci hanno mai appassionato, pubblichiamo questo comunicato perché
le questioni che solleva (dall’Emergenza Covid alla guerra in Ucraina, dal
genocidio a Gaza alla solidarietà con compagne e compagni prigionieri) sono tra
quelle decisive. E chiunque venga messo all’angolo per aver espresso posizioni
coerenti sul rapporto mezzi-fini (non si difende la salute pubblica con la
coercizione, le strutture e gli strumenti della guerra producono solo altra
guerra, i colonizzati sono sempre in stato di legittima resistenza, l’appoggio
ai compagni prigionieri deve prescindere dal grado di affinità con le loro idee
e pratiche) ha la nostra piena solidarietà. L’USI ha già conosciuto nella sua
storia scissioni in merito alla guerra (tra la corrente interventista di de
Ambris e Di Vittorio e la corrente internazionalista anarchica). In tempi di
guerra (al virus, tra imperialismi, contro le masse colonizzate), i veleni dello
Stato e del nemico di classe s’insinuano anche intorno a noi. Consoli il motto
di Max Stirner: “Troverò sempre compagni disposti ad unirsi a me senza prestare
giuramento sotto alcuna bandiera” (foss’anche quella rossa e nera).
PERCHÉ USCIAMO DA USI-CIT
Le sezioni USI-CIT di Ancona, Venezia, Perugia/Trasimeno, Macerata (a questi si
aggiunge l’individualità Elvino Petrossi di Trieste) intendono rendere pubblica
la loro uscita da USI-CIT e le motivazioni che hanno portato a questa decisione.
Constatiamo che è in atto una già avanzata trasformazione del sindacato verso
una deriva accentratrice e autoritaria che sta cancellando l’identità libertaria
e solidaristica dell’USI e dell’anarcosindacalismo. Un clima di guerra interna e
di non rispetto sta causando l’uscita della componente che in questi anni ha
espresso posizioni diverse da chi oggi dirige il sindacato.
Già negli ultimi mesi, e anche recentemente altri compagni, realtà locali e il
sindacato di settore Unione Contadina, sono usciti da USI-CIT mentre è stata di
fatto espulsa la sezione della Sanità milanese (San Paolo S. Carlo) in modo
illegittimo e fuori dalle norme statutarie (espulsione camuffata da inesistenti
e mai formulate autodimissioni). Di fatto, anche le sezioni scriventi questo
comunicato erano in regime di pre-espulsione in quanto private, dallo scorso
luglio, di ogni contatto e informazione con l’organizzazione nazionale. Anche in
questo caso, in spregio delle norme statutarie che prevedono che tutte le
sezioni (anche quelle che dissentono) devono essere informate dal nazionale
sulle scadenze e dinamiche del sindacato.
I motivi dell’aggravarsi di questa situazione risalgono al periodo dell’epidemia
covid quando in Italia furono attuate le più rigide pratiche di chiusura degli
spazi di libertà che con il green pass e l’obbligo vaccinale portano alla
sospensione e alla perdita del lavoro di chi non accetta di rinunciare alla
libertà di scelta sanitaria e rinchiudono in una forma di apartheid alcune
milioni di persone non vaccinate privandole di ogni elementare diritto come
quello di salire in un autobus, in un treno, entrare in un locale, in un
negozio, in un ufficio, in banca, alle poste.
Si è trattato di una delle più grandi forme di repressione e controllo sociale
del dopoguerra, priva di ogni ragione scientifica o sanitaria (come bene sta
venendo oggi fuori) coincisa con la militarizzazione del territorio e di ogni
aspetto di vita quotidiana. Sistematica la repressione del dissenso che
raggiunse la sua punta più alta con il violento sgombero del porto di Trieste
occupato per quattro giorni dai lavoratori e cittadini contro il green pass.
La nostra colpa come sezioni e compagne/i del sindacato USI-CIT è stata quella
di lottare in prima fila portando alta la bandiera degli ideali libertari
(all’interno di un grande e variegato movimento) per opporci alla
militarizzazione, agli obblighi sanitari, alle limitazioni della libertà.
Emarginati nel sindacato che faceva sue le scelte reazionarie e liberticide del
governo e delle multinazionali, additati come complottisti, o addirittura
combattuti in quanto presunti “amici dei fascisti” da quelli che dovevano essere
i nostri compagni.
Da chi non ha capito o, quel che è peggio, non ha voluto capire per ipocrisia e
opportunismo che cosa veniva imbastito dal potere attraverso i suoi media:
da un lato una propaganda della paura come non si era mai vista, destinata alle
masse in genere; dall’altra una propaganda di una falsa “solidarietà” costruita
su misura per la gente di sinistra, così da disorientare e dividere i movimenti
anti-capitalisti e impedire che dessero un contributo più significativo alla
mobilitazione contro restrizioni e green pass.
Una propaganda che ha spinto tanta “compagneria” a tapparsi entrambe le orecchie
per non sentire gli applausi di Confindustria al lasciapassare sanitario, e a
chiudere entrambi gli occhi per non vedere che le piazze contro il green pass
erano per lo più composte da lavoratori salariati, mentre la gran parte dei
commercianti e praticamente tutti gli industriali si sfilavano dalle
mobilitazioni, ben contenti di poter tornare a lavorare.
In tutto questo USI CIT ha negato la solidarietà a iscritte e iscritti del
nostro sindacato che sono stati sospese/i dal lavoro, anzi le ha criminalizzate.
Dopo la pandemia altre questioni hanno prodotto divisione e contrasto
all’interno di USI CIT a partire dalla guerra dove accanto a un antimilitarismo
di facciata trovavano tolleranza anche posizioni ambigue (pur se minoritarie) di
alcune sezioni e “dirigenti” nazionali sulla guerra in Ucraina (simpatia e
solidarietà con i falsi “anarchici” ed antagonisti inquadrati nell’esercito
nazionalista ucraino dove operano i reparti neonazisti) e sullo sterminio del
popolo palestinese (USI CIT unico sindacato di base a rifiutare l’adesione allo
sciopero generale nazionale per la Palestina). Sappiamo che anche in CIT alcune
sezioni europee hanno identiche posizioni ambigue sulla guerra in Ucraina.
In effetti la stessa propaganda del periodo dell’epidemia covid si è ripetuta
tale e quale con la guerra in Ucraina con le figure fittizie dei filo-putiniani
al posto di quelle altrettanto fittizie dei no-vax in odore di fascismo e
trumpismo, e il mito di una inesistente resistenza ucraina al posto di quello di
un’altrettanto inesistente solidarietà collettiva.
I motivi del dissenso con l’attuale linea dell’USI CIT e con i suoi metodi vanno
ricercati anche sulla questione degli anarchici in carcere, repressi o privati
delle loro libertà. Con una mozione nel suo ultimo congresso USI CIT si è
espressa contro la possibilità di dare solidarietà e sostegno alle nostre
prigioniere e ai nostri prigionieri.
Per tutto questo, e tanto altro ancora, lasciamo l’USI CIT. Certamente non è
scelta facile dato che alcune/i di noi hanno rifondato questo sindacato negli
anni settanta e contribuito alle sue lotte e alla sua storia, altre/i sono
venuti dopo portando avanti con entusiasmo metodi e ideali del sindacalismo
rivoluzionario e libertario.
Insieme ad altri compagni (con cui manteniamo saldo e solidale collegamento)
rimaniamo all’interno del percorso dell’anarcosindacalismo e ci organizzeremo
nel modo che riterremo più opportuno per portare avanti le nostre lotte e le
nostre idee senza più subire dirigenze e controlli sulla nostra autonomia.
USI CIT sezione Ancona
USI CIT sezione Venezia
USI CIT sezione Perugia/Trasimeno
USI CIT sezione Macerata
Elvino Petrossi (della sezione USI CIT Trieste)