Riceviamo e diffondiamo:
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Tag - Carcere
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Anche
su https://nocprtorino.noblogs.org/post/2025/06/13/torino-3-4-luglio-appuntamenti-di-lotta-per-linizio-del-processo-per-loperazione-city/
TORINO 3/4 LUGLIO: APPUNTAMENTI DI LOTTA PER L’INIZIO DEL PROCESSO PER
L’OPERAZIONE CITY
Il 4 Marzo 2023 un corteo in solidarietà allo sciopero della fame di
Alfredo Cospito – intrapreso il 17 Ottobre 2022 contro 41 bis ed
ergastolo ostativo – ha attraversato alcune vie della città di Torino.
Un corteo per rispondere alla decisione della corte di Cassazione, che
non esitava a condannare a morte il prigioniero anarchico, dando parere
negativo alla revoca del regime speciale di detenzione.
Un corteo con cui rompere il silenzio di fronte alla repressione, le sue
pene esemplari ed i suoi strumenti di tortura.
Un corteo autodifeso a tutela di chi decideva di attraversarlo con
rabbia, determinazione o anche solo per la necessità di esserci.
Devastazione e saccheggio è il reato che oggi la Procura tenta di
utilizzare, tra gli altri, per portare sul banco degli imputati alcunx
compagne e compagni che quel corteo lo hanno vissuto insieme a tantx
altrx.
Il 3 Luglio 2025, a più di 2 anni da quel momento di strada, il
Tribunale di Torino celebra la prima udienza di dibattimento del
processo per la cosiddetta “operazione City”, guidata dall’ex direttore
della Digos Carlo Ambra e firmata dal PM Paolo Scafi.
Eredità del codice penale fascista Rocco, questo reato è sempre più
utilizzato per colpire, non solo momenti di piazza, ma anche e
soprattutto lotte e rivolte all’interno dei centri di detenzione penali
e amministrativi. Infatti, l’8 Luglio – pochi giorni dopo l’udienza del
processo “City” – lo stesso Tribunale pronuncerà la sentenza per le
rivolte avvenute nell’IPM Ferrante Aporti la notte fra l’1 e il 2 Agosto
2024. L’inchiesta per quella giornata di rivalsa dei giovani reclusi del
minorile di Torino, diretta dal PM Davide Fratta, vede imputate 11
persone sempre per il reato di devastazione e saccheggio.
Quelle rivolte, però, che hanno dato non poco filo da torcere
all’amministrazione penitenziaria e reso inagibile buona parte della
struttura detentiva, non possono essere considerate un caso isolato, ma
devono essere ricordate come parte di una stagione di resistenze,
proteste e rivolte che ha infiammato decine e decine di carceri in tutta
Italia e che continuano ad infiammare i centri di detenzione
amministrativa.
È ormai più che evidente come i tentativi di procure, legislatori,
giudici e guardie ambiscano a radere al suolo ogni forma di
conflittualità, utilizzando strumenti ereditati dal passato – come le
pene da 8 a 15 anni previste per devastazione e saccheggio – o creandone
di nuovi – come nel caso dei decreti e dei pacchetti sicurezza di
Minniti, Salvini e dell’attuale governo.
Un’ambizione, quella di pacificare attraverso la paura della repressione
e la costruzione di nemici interni, più forte man mano che l’escalation
bellica coinvolge sempre più da vicino il nostro paese: un paese
complice del genocidio in Palestina e promotore delle politiche di
riarmo europee.
Di fronte a questi attacchi e a politiche repressive sempre più
aggressive, sentiamo di voler tenere stretti gli strumenti di lotta e
solidarietà a nostra disposizione coltivandoli e rilanciandoli, per non
rimanere indietro o lasciarci qualcunx.
Per questo
– Giovedì 3 LUGLIO dalle 9:30
PRESIDIO davanti al TRIBUNALE di Torino
al fianco delle e degli imputatx
– Venerdì 4 LUGLIO ore 17
PRESIDIO sotto le mura
dell’IPM Ferrante Aporti
Riceviamo e diffondiamo:
Per me la resistenza palestinese non ha il solo merito di non demordere anche
davanti alla più brutale delle oppressioni, svelandoci la forza di un popolo
fiero che si oppone alle cause della sua miseria, ma ha anche quello di aver
contagiato centinaia di migliaia di persone in tutto il pianeta, dando vita ad
una mobilitazione internazionale dalle varie forme ed espressioni. Per chi, come
me, è cresciuto nel nuovo millennio, gli esempi simili scarseggiano.
A fianco, una situazione geopolitica angosciante, tra conflitti aperti, continui
sconvolgimenti e l’opzione di una guerra nucleare dietro l’angolo.
E così inizia a scricchiolare anche il nostro privilegio europeo, gradualmente
fiaccato da un costo della vita sempre più proibitivo, mentre ci si consola con
l’idea, sbiadita anch’essa, che “tanto qui le bombe non arriveranno mai”.
Anche qui, nello Stato italiano (sotto il quale siamo costretti a vivere pur
essendo sardi) il quadro non è meno preoccupante. Se da un lato le condizioni
della vita peggiorano e i nostri territori sono sempre più esposti alla
predazione delle multinazionali (energetiche, di estrazione di materiali e così
via) dall’altro le porte del carcere si aprono sempre più facilmente per chi
decide di organizzarsi ed opporsi.
La Sardegna ne è esempio lampante: alta disoccupazione, stipendi da fame, scarsa
assistenza sanitaria. Ad aumentare sono solo i progetti di estrattivismo
energetico, gli aerei militari sulle nostre teste e le sezioni speciali nelle
prigioni. E non dimentichiamoci che cosa significa, in un periodo di conflitto
come quello che stiamo attraversando, vivere circondati da basi militari. Non
solo per l’intensificarsi delle attività, e questi ultimi giorni ne sono una
conferma, ma anche per la consapevolezza di essere sempre un “buon bersaglio”.
Io, che attualmente mi trovo agli arresti domiciliari per aver partecipato ad un
corteo a Cagliari in solidarietà al popolo palestinese e contro l’occupazione
militare in Sardegna, sono accusato proprio di alcuni dei reati (resistenza,
lesioni e minacce a pubblico ufficiale) per i quali il decreto sicurezza prevede
un aumento delle pene. Una sorte che temo toccherà a tanti e tante. Una sorte
inevitabile per chi decide di non tacere davanti ai soprusi e alle imposizioni.
Mando un saluto a Tarek, con il quale ho orgogliosamente condiviso la piazza del
5 ottobre a Roma, ad Anan, Alì e Mansour, che sulla loro pelle pagano il prezzo
del servilismo italiano nei confronti dello Stato d’Israele e a tutti i giovani
e le giovani che in giro per il mondo rischiano la propria libertà, per la
libertà del popolo palestinese e per una vita diversa.
E un abbraccio fraterno a Paolo Todde, rinchiuso nel carcere di Uta (Cagliari),
in sciopero della fame dall’8 maggio per protestare contro le condizioni
detentive.Sempri ainnantis
Sardinnia libera
Palestina libera
Casteddu, 23 giugno 2025
Luca
Dal modello Norvegia, al confronto con altre realtà internazionali, una
riflessione sul tema del carcere a vita e alla sua funzione sociale e non
politica
L'articolo Carcere a vita: come si applica nel mondo la pena a morire “dentro”
proviene da IrpiMedia.
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Riceviamo e diffondiamo:
Dal CPR di Gradisca: cronache di lotta e resistenza dall’interno del lager
“Ho avuto un’impressione positiva di ente gestore e forze dell’ordine“,
dichiarava qualche giorno fa una parlamentare – esponente di quel partito del
cosiddetto centrosinistra, il PD, storicamente il principale responsabile
politico dell’esistenza dei campi per le deportazioni – dopo una visita
ispettiva fatta a quello di Gradisca.
L’ennesima farsa, l’ennesima narrazione ad uso e consumo dell’esistenza dei
campi-lager, con qualche problema di troppo – tocca ammetterlo anche da parte
agli strenui difensori della detenzione amministrativa – sulla “agibilità”. Nel
rovesciamento più totale della realtà quotidiana di chi vive sulla propria pelle
la detenzione a Gradisca e negli altri CPR e carceri della penisola, si mostrano
le manovre più subdole per renderlo più operativo e efficace
(nell’annichilimento, nel controllo dei corpi).
“Sta nel distruggere la gabbia”
Rivolte e proteste smontano pezzo dopo pezzo l’infrastruttura della reclusione:
sistemi di videosorveglianza, reti, suppellettili, lastre di plexiglass. Colpo
su colpo, nei CPR, non è solo uno slogan, ma il ritmo della smontaggio delle sue
gabbie. Le condizioni di reclusione e devastazione delle menti e dei corpi (“mi
han portato qui per i documenti. Sono rotto giuro“, ci dice un recluso) si
riflettono sull’infrastruttura (“non funziona nulla, veramente” gli faceva eco
un altro): per ragioni stesse di sopravvivenza il centro deve essere
smantellato.
E infatti vediamo confermata un’ipotesi che immaginavamo da tempo: l’area rossa,
coinvolta nelle potenti rivolte di gennaio, è tutt’ora per la maggior parte
inagibile, con due sole celle in funzione.
Il ministero dell’interno, probabilmente rincuorato dalle parole della
parlamentare di opposizione – in fondo, se il servizio funziona, basta dare una
spolverata agli ambienti – si affretta a dichiarare che sarebbero imminenti i
lavori di ristrutturazione del centro: nuove telecamere di videosorveglianza, la
creazione di varchi sicuri per l’accesso dei veicoli (in funzione deportativa?),
la sostituzione delle attuali recinzioni di contenimento con barriere
anti-scavalcamento (troppe evasioni?) e probabilmente la ristrutturazione
dell’area rossa. In poche parole: aumentare l’efficienza del meccanismo di
imprigionamento e deportazione.
In controluce, sostenute dalle vive parole di chi è recluso nell’inferno di
Gradisca, si intuisce tutta la forza delle rivolte e delle evasioni.
Lo ripetiamo spesso, si tratta delle uniche forme di resistenza possibile
dall’interno alla macchina della detenzione e della deportazione, dispositivi
tuttavia contrastabili e infrangibili nonostante la loro apparenza di
inattacabilità. Il 27 maggio dei grossi fuochi hanno investito l’area blu del
CPR di Gradisca. In quei giorni erano in corso, come d’altronde avviene a ritmo
settimanale dall’aeroporto di Trieste, le famigerate deportazioni per la
Tunisia.
Succede lo stesso due giorni dopo. Sono gesti estremi, ma necessari, che spesso
mettono a repentaglio anche chi li compie. È un tutto per tutto. In una cella si
sentono male due ragazzi, sono a terra. Solo molto tempo dopo arrivano i
sanitari, spaventati a morte – nonostante la scorta di celere eccitata alle loro
spalle – come dovrebbe sentirsi chiunque collabori con il lager. I fuochi, per
un secondo, forse accendono anche qualche briciolo di consapevolezza in chi si
muove attorno e dentro queste strutture di morte, come gli operai-secondini
salariati dalla cooperativa EKENE.
Ma la “buona impressione di ente gestore e forze di polizia” si rivela da
moltissime altre cose. Dalle condizioni strutturali del centro (camerate scarne,
tarate al minimo, senza alcun tipo di “servizio”, “sicuramente peggio di quanto
questo centro era un CIE“, ci riferisce un recluso che si è fatto entrambe le
versione della detenzione amministrativa) alla non-gestione sanitaria, nella
totale assenza di interventi medici quando servono. “L’unica cosa che danno bene
è la terapia, ci vogliono tutti drogati, rivotril, valium, gocce…“, ci dice un
recluso. Pare che – per quanto riguarda la gestione psichiatrica – sia coinvolta
direttamente anche ASUGI, l’azienda sanitaria locale, che svolge le visite
psichiatriche e poi assegna le terapie. Ma il dosaggio della tortura è
accuratamente somministrato: c’è chi viene riempito di terapia, c’è chi – pur
avendo bisogno di uno specifico farmaco – viene imbottito di altre terapie che
non regge, che gli fanno male. I CPR, come tutte le carceri, sono luoghi
patogeni per natura.
Due persone, come già condiviso precedentemente
[https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2025/06/01/tentativi-di-suicidio-al-cpr-di-gradisca/],
hanno finito per “fare la corda”. Non è bastato perché qualcuno rispondesse alle
loro richieste. In un caso, dei compagni di cella hanno dovuto appiccare degli
incendi, è l’unico modo perché qualcuno intervenga. E così, mentre un uomo giace
a terra con la bava alla bocca, devastato per delle notizie personali, è
arrivato un lavorante… per spegnere l’incendio.
L’impressione positiva avuta dalla parlamentare consiste, probabilmente, nello
spegnimento di tutti i tentativi – individuali, collettivi – di ribellarsi
contro la natura devastatrice e afflittiva di queste colonie dove la tortura è
legalizzata.
Ancora rivolta: fuochi, manganelli, sangue
La totale negligenza sanitaria, ed – oltre – la natura patogena stessa del CPR,
è stata anche alla base dell’ultima rivolta nell’area blu. “Scusa il disturbo.
Stanno massacrando delle persone qui. Perché stiamo chiedendo il nostro diritto
per la sanità“, ci dicono.
E’ la sera del 5 giugno. Un recluso è a terra svenuto nella sua cella, in preda
a dolori fortissimi. Nessuno gli presta aiuto, nonostante le ripetute richieste.
Qualcuno sostiene che ha ingerito dello shampoo. Dopo una mezz’ora viene acceso
un primo fuoco nella sua cella. A quel punto intervengono gli operatori e la
polizia, spengono il fuoco e lo portano via in barella.
I fuochi si moltiplicano in tutta l’area blu, in solidarietà con quanto sta
accadendo. Il corridoio delle celle è presidiato da guardia di finanza e polizia
in antisommossa. Il recluso, dopo qualche schiaffo e una colluttazione avvenuta
in infermeria, viene riportato in cella.
Si scaldano gli animi, i fuochi anche. Ci sono lanci verso la polizia, si
verificano scontri. Gli idranti cercano di spegnere i fuochi, ma i getti sono
anche destinati verso i reclusi e le stanze interne.
A quel punto inizia un intervento muscolare dell’antisommossa, che entra in
alcune celle rincorrendo i detenuti e picchiandoli fortissimo, anche quando sono
a terra. Dopo qualche minuto di scontri estremamente duri (“stiamo facendo la
guerra contro loro“), l’insorgenza viene repressa. Bilancio: teste rotte e corpi
ammaccati, senza però piegare l’insubordinazione e la voglia di lottare nei
detenuti.
Due giorni dopo, infatti, erano ancora i fuochi da una cella dell’area blu a
segnalare la condizione di reclusione del CPR: a due giorni dalla rivolta, dopo
essere stato pesantemente malmenato – con ematomi e ferite dappertutto – un
recluso non era ancora stato visitato in ospedale.
Detenzione, repressione, deportazione (e solidarietà)
C’è una testimonianza che sentiamo spesso: quella di una cattività in gabbia –
voluta da un ordine di trattenimento, convalidata da un giudice di pace
distratto e dai burocrati dell’azienda sanitaria locale, resa possibile da Ekene
e tutte le aziende complici della sua riproduzione – a cui corrisponde un totale
abbandono. I cessi, il cibo, le cure, i letti: tutto è inservibile nel CPR di
Gradisca. Chiuso in una cella, per lunghissime ore sei abbandonato in una
situazione di totale subordinazione e al tempo stesso profonda indifferenza. Se
stai male resti lì, fin quando qualcuno si degnerà – dopo qualche fuoco magari –
a vedere cosa serve. Questa è la realtà della detenzione amministrativa.
Intervengono, invece, prontamente quando si tratta di reprimere o di deportare.
Come accaduto di nuovo l’ultimo venerdì del mese, in direzione dell’Egitto; come
accade settimanalmente per la Tunisia. Come si ripete – pescando nel mucchio,
senza bisogno di charter, con voli commerciali – in chissà quanti altri casi di
cui non veniamo a conoscenza.
In un caso, si è riusciti a ricostruire lo svolgimento di una deportazione anche
grazie alla resistenza di chi si è fatto valere nell’ingranaggio della macchina
delle espulsioni.
Un mercoledì, un recluso di Gradisca, con l’inganno, è stato avvertito di un
imminente trasferimento verso Roma. Fatti i suoi bagagli, è salito tutto sommato
tranquillo su una vettura di polizia. Dopo qualche ora si è però accorto che
stavano andando in direzione di Bologna. In effetti, lo portano in un’area
isolata dell’aeroporto, con il biglietto di rimpatrio già pronto. Quella in
corso era una deportazione. “Mi volevano deportare con l’inganno“, ma “non
vedevo il senso di condannarmi in quel modo per uno sbaglio” racconta. Lo fanno
passare al controllo doganale e lo portano sulla pista, sotto l’aereo della
compagnia Royal Air Maroc. Qui capisce di non avere nulla di perdere, dopo una
vita passata in Italia con famiglia e una figlia piccola qui. Si rifiuta di
salire, mentre attorno ignari passeggeri che si imbarcano iniziano a capire cosa
sta accadendo. Anche a causa di questa attenzione, la polizia di scorta decide
di non calcare la mano. Lo riportano in CPR, fa una nuova udienza in tribunale,
un paio di giorni dopo questo tentativo di deportazione è libero. Un’altra
storia di resistenza, in mezzo alle centinaia di altre storia anonime.
Il giorno successivo alla rivolta del 5 giugno, alcunx solidalx hanno portato un
piccolo gesto solidarietà ai reclusi all’interno. Se spezzare i fili della
solidarietà e della lotta è uno degli obiettivi della repressione, anche qualche
fuoco pirotecnico nella notte può superare le mura (materiali e invisibili)
della segregazione. I reclusi all’interno hanno risposto al grido di “libertà,
libertà“.
La stessa libertà che per qualche minuto devono aver assaporato i 5 reclusi
saliti sul tetto del centro nella serata di domenica 8 giugno. Immediatamente
braccati dai carabinieri, hanno deciso di stare lassù per diverse ore. “Cosa
vuol dire che siamo irregolari? Chi aveva il carcere ha fatto il carcere, ma ora
perché siamo qui, in questo posto merda?” si chiedevano.
Che il grido di libertà possa un giorno alzarsi dalle macerie di tutti i CPR. La
resistenza ai suoi sistemi di morte e deportazione, nel frattempo, continua: che
si estenda a tutte le gabbie, le frontiere e i quartieri militarizzati che
mantengono l’ordine coloniale della terra!
Al fianco di chi lotta ogni giorno: Libertà per tutti e tutte! Fuoco a CPR e
frontiere!
https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2025/06/09/dal-cpr-di-gradisca-cronache-di-lotta-e-resistenza-dallinterno-del-lager/
Riceviamo e diffondiamo. Fraterna e complice solidarietà a Paolo!
Anche su
https://rifiuti.noblogs.org/post/2025/05/30/con-paolo-in-sciopero-della-fame-contro-tutte-le-galere/
CON PAOLO IN SCIOPERO DELLA FAME CONTRO TUTTE LE GALERE
Il nostro compagno Paolo, prigioniero, in custodia cautelare con l’accusa di
rapina dal 23 ottobre scorso, il 25 aprile ha iniziato uno sciopero della fame
insieme ad altri prigionieri per protesta contro le condizioni di vita del
carcere di Uta, tra le peggiori d’Italia secondo i dati del rapporto periodico
del garante nazionale dei detenuti. Ma i numeri non possono rappresentare lo
stato di sottile, vera e propria tortura a cui sono sottoposti i prigionieri.
L’intervento dei garanti, con le loro vuote ed inutili promesse, ha fatto sì che
lo sciopero venisse interrotto dopo meno di una settimana e Paolo lo riprendesse
da solo l’8 maggio con il chiaro intento di portarlo sino alla fine.
Paolo condivide con noi l’odio per le galere e la società che le produce e di
cui sono l’immagine e non è mai indifferente di fronte alle continue violenze e
prevaricazioni degli sbirri. Per lo Stato farlo tacere o eliminarlo serve da
monito per chi combatte contro il sistema e per tutti i prigionieri che si
ribellano alla galera. Per questo è sottoposto a continue provocazioni e infamie
da parte degli sbirri come bloccargli la corrispondenza, l’ingresso di denaro,
non permettergli di effettuare le videochiamate con la scusa che non c’è linea,
portarlo con grande ritardo ai colloqui, fare cadere, nei secchi in cui lava la
roba, libri, corrispondenza e tutto ciò che può rovinarsi, etc.
Tutte queste violenze si aggiungono alla situazione che Paolo denuncia da mesi.
Infatti, a Uta, l’acqua non è potabile, non può essere utilizzata neppure per
cucinare, dopo che l’amministrazione l’ha mescolata al cloro per eliminare il
grave inquinamento da colibatteri fecali che la rende inadatta anche per
l’igiene personale. Le celle sovraffollate (sono rinchiusi 140 prigionieri in
più della capienza massima) sono chiuse 22 ore al giorno, l’accesso alla
biblioteca e al campo di calcetto sono contingentati, le temperature estive
raggiungono i 43 gradi, l’assistenza sanitaria è inesistente, le provocazioni
degli sbirri sono continue tanto sui prigionieri che sui loro familiari e spesso
si traducono in pestaggi.
Una vita di questo genere è insopportabile, per qualunque essere umano, e ancora
di più per chi in tutta la sua vita non ha mai piegato la testa ed è sempre
stato solidale con i nemici del sistema. Paolo, come Alfredo, ha iniziato, a
rischio della vita, una lotta immensa che potrà conseguire risultati solo se
siamo in grado di condurre, con la stessa determinazione, una battaglia di
solidarietà.
Ribadendo la nostra solidarietà ed il nostro impegno ad estendere la lotta
perché l’amministrazione non possa avere pace, ricordiamo ai funzionari, agli
sbirri e ai vari garanti, tutti corresponsabili della situazione attuale, che
gli oppress* hanno una lunga memoria e che se a Paolo dovesse accadere qualcosa,
dovranno assumersene tutte le conseguenze.
Non lasciamo solo Paolo in questa sua battaglia. Chi volesse scrivergli può
farlo all’indirizzo:
Paolo Todde
C.C. “E. Scalas”; 09068 Uta (CA)
CONTRO LO STATO ASSASSINO, CHIUDERE UTA, CHIUDERE TUTTE LE GALERE, PAOLO LIBERO,
TUTTX LIBERX
Anarchicx contro carcere e repressione
Riceviamo e diffondiamo:
LIBERTÀ PER TAREK, ANAN, ALÌ E MANSOUR
Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto
di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina.
Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una
manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non
ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma
lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour,
perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo.
In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti
che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per
ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta
di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà
concreta.
La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta,
molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5
ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha
avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha
creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei
tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è
stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto
il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale,
perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha
preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri
con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno
Stato occidentale e colonialista.
Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di
persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e
prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le
botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni.
Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo
realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non
sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma
quel giorno c’erano ugualmente.
L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi,
sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della
piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi
unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto
inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno
sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per
difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma
di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi
di libertà.
Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a
spinta.
CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO
DI ANAN, ALÌ E MANSOUR.
CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL
SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK.
Riceviamo e diffondiamo:
FUORILEGGE, due giorni di discussioni contro la galera tra dentro e fuori
PROGRAMMA:
Venerdì 23 maggio a Palazzo Ricci (via collegio ricci 10 Pisa)
Ore 16:00 discussione a partire dal libro “Alcuni scritti su Kamina Libre.
Identità irriducibili di una lotta lotta anticarceraria”
Sabato 24 maggio al giardino del Polo Fibonacci (Via buonarroti 3, Pisa)
Ore 10:00 discussione a partire dalla mobilitazione in solidarietà allo sciopero
della fame di Alfredo Cospito
Ore 16:00 discussione a partire dal libro Adios Prision
Ore 20:00 cena veg con musica, a seguire concerti punk benefit prigionieri
Scarica l’introduzione alle due giornate: intro
Scarica la presentazione di “Kamina Libre”: Kamina Libre it intro
Scarica la presentazione di “Adiòs prisòn”: ap intro it
Riprendiamo da
https://nocprtorino.noblogs.org/post/2025/05/02/prima-potente-rivolta-nel-cpr-di-corso-brunelleschi-torino/
e diffondiamo:
PRIMA POTENTE RIVOLTA NEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI, TORINO
2/05/2025
A poco più di un mese dalla riapertura del lager di Torino – nella tarda serata
del 30 Aprile – il fuoco della rivolta ha divampato portando all’attuale
chiusura dell’Area Viola.
Quello che sappiamo oggi è che la protesta è nata dalla carenza di accesso ai
beni da acquistare (il cui prezzo per i ristretti è altissimo) e ha ben presto
assunto la forma della distruzione. Il fuoco, inizialmente appiccato ai
materassi delle stanze, ha divampato nell’area compromettendone la funzionalità
e permettendo alla portata dell’evento di essere compresa anche oltre le alte
mura del lager.
All’arrivo delle decine di solidali che si sono affrettate sotto quelle mura,
l’odore del gas lacrimogeno era forte nell’aria mentre da dentro si sentivano
urla e battiture. E’ stato possibile captare qualche parola terrificante che i
reclusi cercavano di fare emergere oltre il muro e che descriveva, a singole
sillabe, la violenza repressiva che chi stava lottando subiva. Abbiamo visto
uscire tre ambulanze e sappiamo che, tra reclusi feriti dalla polizia e gesti
autolesionisti, non mancano le persone trasportate di corsa in ospedale. Otre
alla coraggiosa rivolta di ieri sera, le proteste all’ interno del cpr sono
quotidiane, come dimostrato dagli attuali scioperi della fame portati avanti da
due persone da diversi giorni.
Parlare, farsi sentire, portare un gesto di calore, rimanere in solidarietà per
tutto il tempo necessario sappiamo che è poco – e mai abbastanza – davanti al
dispiegamento della repressione dentro e alla forza di chi lotta.
Sappiamo anche che, proprio perché è il minimo, è necessario, urgente e
fondamentale metterlo in campo per far sapere a chi lotta che non è e non sarà
mai solo.
Sappiamo che ci sentono, teniamoci stretti a loro. Non lasciamo nessuno
indietro.
FUOCO AI CPR