Da: https://calla.substack.com/p/imminent-mass-hunger-strike-across
Sugli scioperi della fame precedenti, si veda
qui: https://ilrovescio.info/2025/08/31/dagli-usa-al-regno-unito-da-carcere-a-carcere-comunicato-di-casy-goonan-in-sciopero-della-fame/
Imminente sciopero della fame di massa nelle carceri del Regno Unito
Decine di prigionieri politici nel cosiddetto Regno Unito, che hanno sopportato
mesi di abusi mirati dietro le sbarre a causa del loro sostegno alla liberazione
della Palestina, annunciano la loro intenzione di avviare uno sciopero della
fame.
Audrey Corno, rappresentante dei Prigionieri per la Palestina (che
ho intervistato il mese scorso), afferma che si tratterebbe del più grande
sciopero della fame coordinato dei prigionieri nel Regno Unito dai tempi dello
sciopero della fame dell’Esercito Repubblicano Irlandese/Esercito di Liberazione
Nazionale Irlandese nell’Irlanda del Nord occupata nel 1981, quando dieci
prigionieri di guerra furono martirizzati.
Il 20 ottobre, Audrey e Francesca Nadin, entrambe in carcere per azioni dirette
contro le aziende di armi sioniste, hanno consegnato una lettera al Ministro
degli Interni del Regno Unito “a nome delle 33 persone ingiustamente incarcerate
a seguito di azioni intraprese per fermare il genocidio in Palestina”.
Hanno cinque richieste: la fine di ogni censura sulla loro posta e sulle loro
comunicazioni; il rilascio immediato e incondizionato su cauzione; il diritto a
un giusto processo; la rimozione di Pal Action dalla lista dei “terroristi”
proibiti; e la chiusura di tutte le strutture di Elbit Systems nel Regno Unito.
I prigionieri, tra cui figurano membri del Filton 24 e del Brize Norton 5 , sono
detenuti senza accusa in diverse carceri del Regno Unito ai sensi del “Terrorism
Act”, in alcuni casi per oltre un anno. Finora, i ricorsi per il rilascio su
cauzione dei prigionieri non hanno avuto successo.
Gli scioperi della fame collettivi su larga scala hanno il potere di avanzare
richieste coraggiose e di vasta portata che vanno oltre il miglioramento delle
condizioni immediate dei prigionieri. I Prigionieri per la Palestina ne sono
chiaramente consapevoli, come dimostra il modo strategico in cui hanno integrato
richieste più immediate relative ai loro casi legali e alle condizioni
carcerarie in attacchi più ampi alla Elbit Systems. Ad esempio, sostengono che
il loro diritto a un giusto processo dovrebbe includere la trasparenza riguardo
a tutti gli incontri che hanno avuto luogo tra funzionari britannici, israeliani
ed Elbit, nonché “a chiunque altro sia coinvolto nel coordinamento della caccia
alle streghe in corso contro attiviste e attivisti”. In questo modo, lo sciopero
della fame è una continuazione delle azioni dirette che presumibilmente hanno
intrapreso contro lo stesso obiettivo nemico fuori dalle mura del carcere:
stanno solo lottando su un terreno nuovo.
Lo sciopero della fame segna una significativa escalation nella resistenza in
risposta alla discriminazione e ai maltrattamenti estesi che i prigionieri della
Pal Action hanno subito dietro le sbarre: privazione di adeguati servizi
religiosi e del Corano, impedimento ai contatti e alle visite con i familiari,
isolamento in strutture rurali, aggressioni violente e confisca della posta e
dei beni, nonché al fallimento dei loro ripetuti tentativi di appellarsi
all’amministrazione penitenziaria del Regno Unito e alle autorità governative.
Si basa anche sulla scia di uno sciopero della fame di 28 giorni intrapreso con
successo da Teuta “T” Hoxha , una delle 24 di Filton, all’inizio di quest’anno,
quando ha esercitato una forte pressione internazionale contro la prigione di
Peterborough affinché le venissero ripristinati il lavoro di posta, le attività
ricreative e biblioteca. Sebbene il suo lavoro in prigione non sia stato alla
fine ripristinato, Hoxha ha ottenuto il riconoscimento di tutte le altre sue
richieste ed è riuscita a denunciare l’esistenza di un’Unità Congiunta per
l’Estremismo (JEU) appositamente incaricata di individuare, isolare e punire i
prigionieri per la Palestina.
Oltre a questi successi, lo sciopero di T. Hoxha ha avuto effetti di vasta
portata sul movimento internazionale di solidarietà con la Palestina, attirando
un’attenzione senza precedenti sulla draconiana repressione subita dagli
attivisti di tutto il mondo che hanno scelto di agire direttamente contro la
partecipazione dei loro Paesi al genocidio palestinese. Nei cosiddetti Stati
Uniti, i prigionieri politici Casey Goonan e Malik Muhammad hanno aderito a
scioperi della fame di solidarietà con Hoxha, dopo aver subito simili attacchi e
abusi politici. (E vale la pena notare che la prigioniera politicizzata Shine
White è attualmente in sciopero della fame nella Carolina del Nord per ragioni
simili.)
La pressione e la solidarietà internazionale suscitate dallo sciopero della fame
di T. Hoxha, così come il suo successo nell’ottenere le sue richieste, hanno
sensibilizzato i suoi coimputati e i prigionieri politici, compresi quelli
incarcerati per motivi non apertamente politici. La sua azione ha dimostrato
loro che quando si lotta, si vince. Gli attivisti hanno lasciato intendere che
questo imminente sciopero della fame avrebbe un più ampio sostegno da parte
della popolazione carceraria in generale.
“I prigionieri sono fermamente convinti di poter contare su un enorme sostegno,
sia qui che a livello internazionale, e che la gente si unirà per agire in loro
nome. Questo è il risultato diretto non solo delle terribili azioni del governo
nei confronti dei prigionieri, ma anche della loro partecipazione attiva al
genocidio a Gaza”, ha affermato il Dott. Asim Qureshi , Direttore di Ricerca
presso CAGE International , partner negoziale per gli scioperanti della fame
insieme a Prisoners for Palestine.
“Questo sciopero della fame, se andrà avanti, sarà il primo del suo genere in
almeno due decenni. Porta in primo piano la violenza del sistema carcerario nel
Regno Unito, una violenza che spesso associamo a luoghi lontani. Da Guantanamo a
Gaza, l’infrastruttura delle leggi autoritarie sul terrorismo costruita per
imprigionare, mettere a tacere e reprimere le azioni per la Palestina e le voci
che contestano guerre e genocidio deve essere smantellata”, ha aggiunto Qureshi.
“I prigionieri sono il cuore pulsante del nostro movimento per la giustizia.
Dobbiamo onorare i loro sacrifici e opporci alle ingiustizie che subiscono”.
Audrey ha sottolineato nella nostra precedente intervista che sarebbe
fondamentale dare il tempo necessario ai sostenitori esterni per prepararsi allo
sciopero e massimizzarne l’impatto e la portata. L’annuncio di uno sciopero
della fame collettivo con settimane di anticipo solleva la questione se questa
volta parteciperanno più prigionieri internazionali e quanto crescerà. I membri
del movimento dei prigionieri politici dovrebbero allertare il maggior numero
possibile di compagni all’interno, in modo che sappiano che questo atto di
resistenza collettiva è in atto e possano scegliere di mostrare la loro
solidarietà con parole o azioni, se lo desiderano.
Prisoners for Palestine e CAGE International hanno dato al governo del Regno
Unito tempo fino al 24 ottobre per rispondere alle loro richieste. Lo sciopero
inizierà il 2 novembre, una data di risonanza storica che segna l’anniversario
della Dichiarazione Balfour del 1917, quando il Regno Unito concesse il suo
sostegno ufficiale al colonialismo sionista in Palestina. Gli attivisti del
movimento dei prigionieri politici di tutto il mondo dovrebbero prendere atto
del modo in cui i prigionieri e i loro sostenitori si sono rifiutati di fare
marcia indietro anche di fronte a un’enorme repressione, insistendo nel
politicizzare ogni aspetto dello sciopero.
SUI PRIGIONIERI COME SOGGETTI POLITICI
Gli scioperi della fame hanno avuto un ruolo centrale nel movimento dei
prigionieri palestinesi, nel movimento di liberazione nazionale irlandese, nella
Frazione dell’Armata Rossa nella Germania Ovest, in Sudafrica , in India e
altrove.
Nel corso dell’occupazione sionista, i prigionieri palestinesi hanno intrapreso
scioperi della fame di massa, spesso a migliaia alla volta, uniti da diverse
fazioni politiche. Negli anni ’70 e ’80, diversi prigionieri palestinesi sono
morti a causa dell’alimentazione forzata, una pratica ripristinata
dall’occupazione sionista nel 2012. Questi scioperi hanno plasmato il movimento
più ampio: la Rete di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi
Samidoun, nata dallo sciopero della fame dei prigionieri del FPLP di
settembre/ottobre 2011 per liberare Ahmad Sa’adat, segretario generale del
partito, dall’isolamento. “Da Ansar [Palestina] ad Attica [New York] a
Lannemezan [la prigione francese dove fu detenuto Georges Abdallah], la prigione
non è solo uno spazio fisico di reclusione, ma un luogo di lotta degli oppressi
che si confrontano con l’oppressore”, ha scritto Sa’adat .
Allo stesso modo, nel 2013, i detenuti statunitensi in isolamento a lungo
termine presso la prigione statale di Pelican Bay hanno organizzato uno sciopero
di massa, che ha portato 29.000 prigionieri californiani a protestare,
rifiutando lavoro e lezioni, e 100 detenuti in due prigioni a rifiutare il cibo
finché non avessero ottenuto riforme. Nel campo di detenzione militare
statunitense di Guantanamo Bay (in territorio cubano illegalmente occupato),
centinaia di prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame e sono stati
alimentati forzatamente con violenza dal 2002, con la censura militare che ha
represso le notizie. Mansoor Adayfi , uno yemenita detenuto a tempo
indeterminato senza accusa, ha iniziato lo sciopero della fame ed è stato
alimentato forzatamente per due anni. Ora libero, collabora con CAGE
International e sostiene l’imminente sciopero dei prigionieri politici nel Regno
Unito, con cui parlerà in una chiamata il 25 ottobre .
Lo sciopero della fame non è una tattica da prendere alla leggera. È una scelta
di resistenza fatta in condizioni di prigionia, quando il corpo è l’unica arma
rimasta, poiché lo Stato ha eliminato ogni altro mezzo di resistenza.
Non stiamo parlando delle acrobazie performative di digiuni da uno a tre giorni
intrapresi da non prigionieri, etichettati in modo ridicolo come “scioperi della
fame” per Gaza. Questi sono inefficaci perché vengono condotti al di fuori del
contesto della prigionia e quindi non hanno alcuna influenza; sono anche
offensivi, in quanto ridicolizzano gli scioperi della fame, cooptando e
annacquando quella che in realtà è una tattica disponibile solo come ultima
risorsa per i prigionieri in condizioni di estrema costrizione, che a volte
muoiono di una morte lenta e straziante nel corso dei loro scioperi. (Per quelli
di noi che sono all’esterno, con più mezzi a disposizione per resistere, il
nostro dovere non è indebolire passivamente i nostri corpi, ma rafforzarci per
passare all’offensiva.)
Scrivendo del rivoluzionario palestinese martirizzato Walid Daqqa e della sua
lunga storia di prigionia nelle prigioni sioniste, Kaleem Hawa ha osservato come
lo sciopero della fame, quando praticato in cattività, provochi un’inversione
dei rapporti di potere:
> “Lo [sciopero della fame] capovolge il copione abituale, della docilità come
> condanna, della fame come giuria. [È] uno schiocco degli strumenti dei coloni,
> un promemoria che la dignità persiste nel soggetto colonizzato, una
> riconfigurazione dell’ordine coloniale sia all’interno della prigione che al
> di fuori di essa… chi fa lo sciopero della fame non fugge dalla vita, ma va
> verso la libertà; il suo atto ricongiunge il corpo in stasi e l’autoisolamento
> verso un tutto politicamente impegnato… che insiste sul diritto di narrare la
> propria prigionia”.
Purtroppo, alcuni attivisti esterni hanno scelto di condannare l’atto di
resistenza di T. Hoxha, definendo l’impulso a intraprendere uno sciopero della
fame come suicida e quindi intrinsecamente immorale. Si sono chiesti perché
avesse scelto di rischiare la vita per richieste apparentemente insignificanti
come il ripristino di un posto di lavoro nella biblioteca del carcere. Non
poteva semplicemente lasciar perdere? Eppure, come ha sottolineato la stessa
Hoxha in un messaggio registrato a Casey Goonan: “Sappiamo entrambi che non si
tratta di un posto di lavoro in biblioteca, ma del principio che lo
sostiene”. L’insistenza di Hoxha sul fatto che non sia il contenuto della
richiesta in sé a essere importante, ma il principio che la sostiene, è
condivisa da migliaia di altri scioperanti della fame nel corso della storia,
che hanno preferito rischiare e in molti casi sacrificare la propria vita
piuttosto che accettare le condizioni disumanizzanti della vita in carcere.
Dopo che Casey iniziò il suo sciopero della fame in solidarietà con T. Hoxha,
circa due settimane dopo aver iniziato il suo, alcuni attivisti esterni negli
Stati Uniti condannarono analogamente la loro azione come una forma di
autolesionismo, arrivando persino a equipararla a un’overdose di droghe. Questo
“autolesionismo” fu definito sia in termini fisici che legali, sebbene non
politici. Poiché Casey era diabetico, si sosteneva, e la loro condanna non era
ancora stata emessa, uno sciopero della fame solidale non solo avrebbe
comportato gravi conseguenze per la salute, ma avrebbe anche potuto
compromettere la loro causa legale. Questi attivisti esterni sostennero inoltre
che non c’era nulla che i sostenitori statunitensi potessero fare per aiutare T.
Hoxha, poiché era incarcerata in un altro Paese, insistendo così sul fatto che
l’atto di solidarietà di Casey fosse non solo sconsiderato, ma anche inutile. I
compagni che sostenevano lo sciopero della fame di Casey e sostenevano
attivamente la militanza delle loro azioni furono pubblicamente calunniati e
persino incolpati della dura condanna a 19 anni di carcere inflitta dallo Stato
poche settimane dopo la fine dello sciopero.
Tali episodi di attacco e denuncia di atti di coraggio, solidarietà e resistenza
basata su principi in nome della “preoccupazione” e della “sicurezza” non sono
isolati. Ironicamente, mentre queste voci affermano che sono coloro che
sostengono la resistenza basata su principi a rappresentare una minaccia e un
pericolo per i prigionieri, è proprio l’insistenza nel condannare e scoraggiare
la resistenza alla repressione statale a rappresentare la tendenza più
pericolosa di tutte. Come ha osservato Shaka Shakur, un prigioniero politico di
New Afrikan, in una recente intervista :
> “È una tendenza per noi [della sinistra statunitense] cercare di lottare entro
> i limiti stabiliti dall’oppressore. Non puoi dire di essere anti-stato, o
> anti-governativo, anti-capitalista, anti-imperialista, e che tutta la tua
> organizzazione e il tuo concetto di resistenza rientrano nella legalità, nei
> confini, nei limiti della tua opposizione, permettendo così alla controparte
> di dettare quali siano le tue strategie e tattiche. Questo riconosce una certa
> legittimità allo stesso sistema che dici di voler distruggere, abbattere o
> cambiare. Quindi sei già condannato”.
Nella stessa intervista, Shakur estende la sua critica al pacifismo che, a suo
avviso, ostacola il progresso della sinistra statunitense in generale, alla
cultura del sostegno ai prigionieri e all’organizzazione carceraria in
particolare:
> “Sai, penso che sia un errore tattico, un errore strategico, che quando si
> parla di sostenere i prigionieri, i prigionieri politici in
> particolare – beh, un movimento che dice di sostenere i prigionieri politici o
> i prigionieri di guerra e che si limita a brontolare ma si rifiuta di mordere,
> è un movimento farsa. È un movimento farsa. Se lo Stato sa che può entrare qui
> e uccidermi, orchestrare il mio omicidio, senza alcun tipo di ripercussione
> reale, o alcun effetto a catena, allora questo la dice lunga sulla serietà del
> movimento che ci sostiene. E questa è una tragedia. E purtroppo, troppi di noi
> ci sono caduti”.
Shakur osserva inoltre come il concetto di solidarietà con i detenuti sia stato
annacquato, limitandosi a fornire loro un mero supporto materiale o tecnico – ad
esempio tramite l’invio di denaro o lettere – ma non politico, una critica che
abbiamo sollevato anche altrove . Il risultato è che quando i prigionieri
vengono presi di mira con repressione o addirittura omicidio per le loro
opinioni e azioni politiche, non vi è alcuna conseguenza equivalente sul sistema
carcerario da parte di sostenitori esterni. Shakur prosegue:
> Quindi, quando si parla di mutuo soccorso e sostegno, dove si colloca questo
> concetto rispetto ad altre cose, come altri livelli di resistenza, lotta e
> azione diretta? Sapete, perché tutti i nostri anziani devono aspettare di
> avere 70, 80 anni e di essere sul letto di morte per essere liberati, per
> essere rilasciati? Sapete cosa intendo? E quindi, quando parliamo del concetto
> di abolizione nel suo complesso, cosa significa veramente? Come possiamo
> renderlo manifesto? Quali sono le fasi di sviluppo in termini di acutizzazione
> di queste contraddizioni e di intensificazione della lotta e della resistenza
> per realizzare effettivamente l’abolizione? Stiamo cercando di sostenere la
> nostra gente, i nostri compagni in prigione, per farli stare bene, o stiamo
> cercando di rendere questi figli di puttana ingovernabili? Ovvero, stiamo
> cercando di mandare soldi o stiamo cercando di liberare alcune persone?”.
Di fronte alla brutale repressione statale, non possiamo permetterci di lasciare
che concetti di “sicurezza” o di “consulenza legale” prendano il sopravvento
sulla nostra strategia politica e sulla nostra lotta collettiva. Se tutti noi
diamo priorità alla nostra sicurezza individuale rispetto alla liberazione
collettiva, la nostra lotta non progredirà mai. I prigionieri politici vengono
incarcerati per atti politici di resistenza allo Stato, quindi la loro lotta per
la libertà deve essere condotta anche su un terreno e in termini politici.
La storia degli scioperi della fame dei prigionieri dimostra che si tratta in
realtà dell’opposto di un impulso suicida. Si tratta piuttosto della
riaffermazione della vita e dell’umanità di un prigioniero nelle condizioni più
disumanizzanti immaginabili, dell’insistenza sulla propria soggettività
rivoluzionaria quando lo Stato lo ha ridotto a un oggetto passivo. Per noi che
siamo fuori, è nostro dovere sostenere questa narrazione e i rischi che i nostri
compagni scelgono di correre, nonostante le nostre preoccupazioni personali per
la loro sicurezza e il loro benessere.
Il silenzio è fatale. Anche se lo sciopero di T. Hoxha e Casey ha attirato
l’attenzione, molte importanti organizzazioni di solidarietà con la Palestina
non hanno fatto nulla, o si sono addirittura rifiutate, di rinnovare le loro
semplici richieste di chiamare e inviare email al carcere per chiedere che T.
Hoxha ricevesse le cure mediche urgenti di cui aveva bisogno. A meno che il
governo imperialista e genocida del Regno Unito non riacquisti improvvisamente
una coscienza e non accolga le cinque semplici richieste dell’imminente e questa
volta molto più ampio sciopero della fame, è nostro dovere offrire il nostro
sostegno incondizionato a coloro che, all’interno, intraprendono questi atti di
coraggio.
Circondate le segrete dove sono tenuti prigionieri.
Facciamo in modo che la loro resistenza e i loro sacrifici risuonino così forte
e così ampiamente da far crollare le mura della prigione.
Per concludere con le parole di uno dei 10 repubblicani irlandesi martirizzati
nello sciopero della fame del 1981, Patsy O’Hara dell’Esercito di Liberazione
Nazionale Irlandese: “Quando non ci saremo più, cosa direte di aver fatto?
Direte di essere stati con noi nella nostra lotta o di esservi conformati allo
stesso sistema che ci ha condotti alla morte?”.
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Per aggiornamenti, seguite:
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 * Appunti di prigione di T.
 * Il sotto-stack di Zahra
 * Sottopila Filton 24
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Tag - Carcere
Riceviamo e diffondiamo: 
https://pungolorosso.com/2025/10/20/i-prigionieri-palestinesi-ai-prisoners-for-palestine/
Il 25/07 molti giornali locali e l’ANSA hanno dato la notizia che in questo
carcere la notte del 24 ci fu una “protesta”, una “rivolta”, con otto agenti
feriti, di cui uno sfregiato. Tutti i commenti dei sindacati di polizia
penitenziaria (USPP – OSAPP – Si.N.A.P.Pe) non spiegano per nulla la dinamica
dell’accaduto, sul quale ci sarebbe però da spiegare – camminando sul filo del
rasoio – le dinamiche di questo carcere pre-25/07.
La direzione ed il comando hanno grosse e incancrenite responsabilità di una
gestione dell’istituto che si può definire irresponsabile, superficiale, ed
anche imbarazzante.
Non sta di certo ai detenuti dare consigli su come gestire un carcere, perché è
sbagliato come approccio, ed è pericoloso nella dinamica. È giusto invece dire
che il Comando usava degli alfieri (detenuti che aiutano la Sorveglianza, anche
stipendiati) per mediare ed intervenire in supporto alle guardie nella gestione
di alcuni detenuti ritenuti problematici o in alcuni momenti critici, quasi
sempre con detenuti di origine straniera.
Che il corpo di polizia si lamentasse, che relazionasse, denunciasse le lacune
della Direzione e del Comando è cosa normale, tirano acqua al loro mulino,
facendosi le scarpe l’un con l’altro per meri motivi di interesse, il
cameratismo tra guardie qui è una favola.
Che i sindacati come un mantra dicano sempre le solite formule “risolutive” –
più uomini, più mezzi deterrenti come i taser o spray al peperoncino, più
carceri, più soldi –, è anche questa cosa scontata, mai che dicano qualcosa su
un Governo – che molti di loro hanno votato – ed un Ministero che in realtà,
finita la propaganda elettorale, s’è lavato le mani e continua con le sue
politiche che riempiono sempre di più le galere. Entro un anno – o anche meno –
vedremo gli effetti del recente decreto sicurezza con l’allargamento e
inasprimento dei reati.
I giorni seguenti alla notte del 25, e le settimane successive, dopo che la
Comandante Nadia Giordano è stata silurata e mandata a timbrare scartoffie, è
arrivato in missione il Comandante di Cuneo Daniele Cutolo (ora sostituito da
quella di Imperia), già responsabile di aver in passato ribaltato il carcere di
Biella dopo che anche là erano emersi problemi di sicurezza, portandosi dietro
la sua squadretta di fiducia.
Questa squadretta, assieme alle guardie qui presenti, ha fatto sballare
[trasferire – gergo galeotto] circa una trentina di detenuti e rimescolato
alcune sezioni. Chi si rifiutava, si opponeva o alzava la voce di fronte a
questo intervento, oltre al potenziale rapporto poteva subire un’aggressione
fisica che poteva finire anche in un pestaggio. Sono state cambiate tutte quelle
che erano le abitudini all’interno del carcere, apportando il ripristino totale
del regime chiuso, a parte quello della 4° sezione che è sempre stata aperta. Le
socialità nelle celle sono state tolte, rimane la saletta. Ogni tipo di mobilità
interna è ad oggi ostacolata rispetto a prima, le continue perquisizioni alla
ricerca di frutta fermentata, telefoni, ecc. danno il pretesto alle guardie per
rompere cose autocostruite dai detenuti nelle celle… felpe con cappuccio,
cappellini con visiera, vasi di piante di basilico e menta…
L’altra settimana in sezione c’era una guardia conosciuta per le sue continue
provocazioni, all’apertura per l’aria si è spazientita e ha urlato “bene, ora
non mando giù più nessuno”. Ci si è messi di buona lena a battere blindi e
stoviglie, il risultato è che ci si è trovati subito una dozzina di guardie con
guanti pronte ad intervenire. Questa dinamica prima non c’era, ora è stata data
“carta bianca”. Chi insulta o parla “male” ora rischia di essere preso ed in
malo modo portato in isolamento.
Il fatto più grave è avvenuto in data 14/09 contro un detenuto, arrivato a metà
agosto, che ha evidenti problemi psichici (nella sua cartella clinica risultano
nove TSO subiti, pratiche di autolesionismo, ipocondria, oltre all’assunzione
della “terapia”), che dopo essersi barricato dentro la cella nella sezione della
degenza, ha subito l’intervento della Sorveglianza. Dopo che la cella è stata
aperta, una quindicina di guardie l’hanno portato in una cella isolata fuori
dalla sezione, ed in due fasi – alle ore 20.36 e 21.30 – il detenuto è stato
aggredito.
A suo dire ammette di avere insultato le guardie, ma non ha agito contro di
esse.
In data 15/09 all’aria decine di detenuti  della 1° sezione e della degenza
potevano constatare il suo viso tumefatto, il naso presumibilmente rotto e segni
di anfibi sulla schiena. Sembra che dopo pranzo gli sia stata concessa una
video-chiamata, e in data 16/09 è stato portato all’ospedale su richiesta del
medico.
Durante le due visite del Provveditore delle carceri piemontesi e liguri, alla
prima è stato negato un confronto con i detenuti, per quella avvenuta in data
08/09 assieme al Procuratore Generale Enrico Zucca, nonostante qualche detenuto
mi avesse proposto per partecipare al confronto tra detenuti e autorità –
occasione per esprimere il nostro punto di vista –, la risposta informale è
stata “lui no, è troppo spigoloso”. Quando in realtà ha espresso in entrambe le
occasioni – con tono sprezzante e sbirresco –, il concetto che loro sono lo
Stato e non erano lì per noi, che ci sono regole da rispettare.
Alla prima visita ci si incrociò alla rotonda, e dopo aver accusato la
Direttrice di incompetenza e menefreghismo visto che codesto individuo insisteva
sulle regole, gli si rispose citando vari articoli del diritto penitenziario a
favore dei detenuti e sistematicamente non rispettati.
Si passa dalla mancata fornitura di lenzuola e prodotti di pulizia e di igiene,
alla gestione dell’area sanitaria, mancanza di attività di vario tipo, alla
sistemazione della palestra e campo sportivo, alla possibilità che chi è nei
termini possa accedere alle pene alternative, all’inadeguatezza di questo
carcere nel sostenere persone con problemi fisici e psichici di vario grado.
Senza contare la quotidiana manifestazione della povertà, soprattutto dei
detenuti stranieri spesso completamente isolati ed abbandonati a se stessi. La
solidarietà, poca, informale tra detenuti non basta a sopperire a questa
discrepanza tra chi ha un poco e chi nulla. L’egoismo vince, la premialità
anche.
Ci viene detto che verranno fatte varie innovazioni e migliorie, sia nell’area
educativa che sanitaria, ad oggi gli ambienti – area matricola, infermeria,
sorveglianza, trattamentale – sono in fase di imbiancatura e sistemazione degli
impianti elettrici, ecc. Le ore della palestra sono diminuite da 6 a 4
settimanali, quelle per i lavoranti sono state tolte, nel frattempo sono
ripartiti i corsi scolastici ed alberghieri. I trattamenti farmacologici,
chiamati terapie, continuano con il loro lavoro di sedazione.
Al TGR Liguria hanno detto che verrà inserito un nuovo Comandante, mentre la
Direttrice sembra essere inamovibile ed agganciata ai piani alti. Nelle prossime
settimane si capiranno se ci saranno ulteriori novità.
Come detenuti di Sanremo ad oggi, per vari motivi, non ci si riesce ad
organizzare, quanto meno per riuscire a trovare spazio per le nostre richieste
ed esigenze, e renderle attivabili facendo pressioni.
Una cosa è certa, e va ribadita, quello che succede nella Liguria di ponente, è
lo specchio di questo luogo, e qui emerge in tutta la sua attualità la questione
di classe. I forti investimenti nel ramo immobiliare nel Comune di Ventimiglia e
Sanremo per accogliere i ricchi francesi e non solo, che per via della flat tax
sono attirati da case e servizi detassati adatti ai loro standard di vita, sta
portando a spese pubblico-private nell’ordine di centinaia di milioni di Euro.
Nuovi posti barca come “Calaforte” per i ricchi di Montecarlo vengono costruiti,
nuovi hotel a 5 stelle sorgono, e intanto il sindaco leghista di Ventimiglia
nelle ultime settimane ha fatto sgomberare con le ruspe i bivacchi sotto il
cavalcavia del fiume Roya.
La prigione di Sanremo è isolata, il servizio autobus è praticamente inesistente
e questo luogo rispecchia quelle che sono le politiche locali, i poveri ed i
migranti finiscono qui, espulsi prima dalla città, qui e poi CPR.
Molti sono invece i detenuti che rimangono impigliati nel sistema della
frontiera. Emarginazione, indifferenza, repressione, razzismo, questa è la vera
essenza di questo luogo ed il clima che si respira.
Ad oggi tutte le proposte di migliorie e cambiamenti sono inascoltate, le
decisioni sono unidirezionali, cioè imposte.
Questa è a grandi linee la situazione in questo carcere, a volte le dinamiche e
la loro genesi sono più sottili e complesse ma questa è la realtà.
Noi detenuti dovremmo e potremmo ottenere di più, ma manca la mentalità di
solidarietà e unione. Spargere buoni propositi è quello che si riesce a fare per
ora.
Luca Dolce, carcere di Sanremo 17-18/09- 2025
PS: Il detenuto picchiato è stato portato in 3° sezione, dove ci sono solo
stranieri, quasi tutti sotto terapia e molti con problemi psichici. La sezione
più povera e degradata.
Ieri sera [17/09] la Sorveglianza voleva che dessi loro una mano a trovargli un
posto nella sezione dove mi trovo, quando è già tutta piena, siamo in oltre 50
detenuti. Lo buttano in giro come un sacco di patate.
Non riescono a gestire i troppi casi di gente che non è lucida ed in sé.
PDF scaricabile: DICHIARAZIONE JUAN AL PROCESSO 02.10.2025
DICHIARAZIONE AL PROCESSO (BS) -02/10/2025-
PER L’AZIONE RIVOLUZIONARIA ALLA SCUOLA DI POLIZIA POLGAI
RISPOSTE ALLE PROCURE E TESTI:
Ho ascoltato molto attentamente e in silenzio, e ho preso nota in tutto questo
tempo, nelle tante udienze, con innumerevoli testi della procura, in più di un
anno di processo. Hanno spaziato ampiamente e lungamente, con uno sproposito di
documentazioni e di dichiarazioni, con innumerevoli divagazioni e
interpretazioni di tutto un contesto di lotta politica e sociale, alle quali è
impossibile rispondere nei tempi di questo processo.
Quindi, viste le tante mistificazioni, vorrei ribattere solo un po’ sul contesto
sociale e politico entro il quale vengo accusato. Accusato anche forzando e
incastrando ruoli specifici, sia politici che personali, gerarchie e ideologie
mai assunte da diverse e singole persone.
Costruzione sistematicamente faziosa,con una serie di profili inventati, con
tanto di nomi e cognomi senza motivazioni. Che vorrei smentire, viste le accuse
ingiuriose.
E lo stesso metodo è stato utilizzato rispetto a diversi scritti e diverse
dichiarazioni processuali firmati da me, includendovi anche scritti di altre
persone e di anonimi, tutti sistematicamente spezzettati e separati
completamente dal loro contesto reale [generale dove sono stati creati].
Dilatandosi in digressioni politiche e storiche, spaziando, spezzettando, senza
alcuna sensata motivazione lungo 150 anni di storia dell’anarchismo. Addirittura
con divagazioni filosofiche sull’anarchismo. Tutta sta mole di dichiarazioni su
un lunghissimo arco di contesto storico, sociale, politico e filosofico, sempre
senza prove fattuali e sempre mistificato, registrate in più di un anno di
processo, sono solo strumentalizzazioni fuorvianti, e servono solo a creare un
clima processuale emergenziale e di pericolosità davanti alla giuria popolare
per accusarmi in quanto anarchico.
Procure e testi qui sono arrivati ad inventare dei ruoli di tre leder politici
nell’anarchismo, e molto dogmaticamente, per colpevolizzarle, delle persone come
capi, i leader politici del movimento anarchico italiano, con tanto di nomi e
cognomi di questi compagni anarchici, uno defunto; ma ad oggi in questo processo
non sono né incriminati né imputati, e procura e testi non hanno portato un
straccio di prova, ma solo le loro chiacchiere. Hanno voluto continuamente
spiegarci sta fantomatica e digressiva storia del movimento anarchico italiano,
con queste assurde tre diverse correnti, iper-sociali, sociali, antisociali, per
ognuna di queste, il suo capetto di turno nell’anarchismo. Costruzioni assurde e
completamente inventate.
Mai sentite in vita mia in quanto anarchico; e il movimento anarchico Italiano,
certo, lo frequento orgogliosamente da 25 anni.
Queste accuse, riportate in questo modo nel processo, sono mere accuse politiche
senza prove.
Speculazioni politiche costruite e comandate dall’alto dalla magistratura, dalla
Direzione Nazionale Antiterrorismo. Lo dico per il fatto provato che, essendo
completamente false, sentite in questo processo e risentite e riutilizzate solo
in diversi altri processi e in ambienti processuali utilizzati delle
magistrature, beh la matematica non è una opinione: vogliono, con queste
dichiarazioni politiche, condannarmi esemplarmente e politicamente e, insieme,
attaccare tutto un contesto di lotta politica e storico e filosofico del
movimento anarchico Italiano.
Ci sarebbe tanto e tanto altro da dire, perché le procure e i testi hanno voluto
spaziare e introdurre nel processo la lunga e complessa storia delle esperienze
politiche e rivoluzionarie della lotta armata degli anni 70 e 80 di questo
paese, mettendo tutto ciò in un confronto fazioso e in modo a dir poco
strumentale, per dare al processo la solita pennellata folcloristica e
sensazionalista sulla lotta armata per impressionare la giuria popolare.
Mi hanno accusato in quanto anarchico, ma vengo ridefinito politicamente a
piacimento della procura, inventandosi e imponendomi questa sorta di macchietta
infamante di “anarchico individualista”, che rifiuto completamente perché non mi
rappresenta per niente. Cosi come loro l’interpretano e rendono.
Tipo. I testi e le procure dicono che non vorrei le lotte sociali. Falso. Che
non vorrei lottare con altre persone non anarchiche. Anche questo è falso. Che
dico che bisogna assolutamente rivendicare gli attentati. Falso.
Che non voglio le rivoluzioni sociali con gli altri oppressi. Falso. E
addirittura ho sentito dire questa gran idiozia da un teste della DIGOS, che io
sarei un a-solidale, il che vuol dire nella lingua italiana – e scusate se mi
permetto da straniero, ma le parole e la grammatica hanno regole e un loro
giusto significato e soprattutto un loro peso-, e vuol dire: non essere solidale
con nessuno. Una fesseria stupida, oltre che una falsità. Però magari il teste
era ignorante, del significato. La realtà è che io non ho mai negato né nascosto
di essere individualista anarchico. Anzi, ne sono molto fiero! Però di sicuro
non saranno le procure e testi e le vostre ipocrite autorità a potermi
catalogare, tra l’altro cambiando continuamente nei diversi processi e nel tempo
a piacimento le mie concezioni di anarchico, senza coerenza, volutamente, perché
certo serve soltanto a strumentalizzarle per condannarmi esemplarmente come
nemico interno, come terrorista.
VIDEOCONFERENZA E DNA:
Più di un anno di processo fatto tutto in videoconferenza, senza avere potuto
mai presenziare di persona in aula, nonostante le mie ripetute richieste,
richieste tutte rifiutate dalla corte – a parte l’autorizzazione a presenziare
ma con-obbligo-di-interrogatorio, cercando così di fatto di coartare le scelte
della difesa degli imputati.
La questione videoconferenza, e la dinamica emergenziale con la quale è stata
approvata, rientra o, per essere più precisi, rientrava nella infame logica
della differenziazione dei circuiti detentivi introdotta con la dinamica
strutturale emergenziale perenne dello Stato Italiano, dove l’individuo recluso
e imputato viene demonizzato e disumanizzato con la così detta “notevole
pericolosità sociale”.
Questo progresso tecnologico, rivela chiaramente l’asservimento in ogni aspetto
delle nostre vite all’autorità statale capitalista: privando della possibilità
di contestare le varie innovazioni, nuova religione da adorare.
Così la super-prova del DNA, indiscutibile e incontestabile, e che, bisogna
dire, è invece interamente nelle mani e nel monopolio dello Stato, e certo delle
sue super-procure e della polizia, la quale fa i rilevamenti e i prelevamenti
sulla scena del crimine, detiene tutti i vari reperti nei propri archivi, fa
condurre i test e le analisi dal personale proprio, all’interno dei loro propri
laboratori; le contro-analisi di parte sono limitatissime e sono costosissime e,
diciamolo, la gran maggioranza dei prigionieri certo non se le possono
permettere; le contro-analisi sono impossibili da condurre, da parte della
difesa, in laboratori che siano indipendenti dagli apparati dello Stato. In più
la prova permette un’enorme malleabilità e discrezionalità nell’interpretazione
dei risultati, come ci ha dimostrato lo spettacolo indegno e l’enorme
malleabilità e la discrezionalità dei risultati nel così detto caso-Garlasco; in
una percezione pubblica che è sovradimensionata dallo scientismo della fede
nella prova del DNA, che spesso spunta per magia dopo decenni, raccontandoci la
favoletta risentita da secoli sulle grandezze del progresso che va avanti, certo
attraverso una continua e martellante propaganda lobotomizzante e il
bombardamento mediatico della nuova fede in tale affidabilità da adorare. Questo
consumismo spettacolare e visivo dei media svolge un ruolo cruciale nella
costruzione di questa base che è ideologica. Tutto questo è l’ennesima conferma
delle contraddizioni e delle sospensioni effettive di tutti i diritti
fondamentali della vostra democrazia borghese. Sono questioni sistemiche nello
Stato, non si tratta di due errori disfunzionali o di due mele marce, come si
suol dire in questi casi.
ATTO DI TERRORISMO CON ORDIGNI MICIDIALI O ESPLOSIVI, 280 BIS C.P:
Per finire vorrei chiarire alcune cose riguardo l’attentato e l’accusa di
terrorismo 280 bis c.p., visto che procura e testi, per accusarmi nello
specifico dell’attentato della scuola della polizia POLGAI, hanno voluto e
potuto spaziare allargandosi a tutto un generale contesto sociale, politico e
storico.
Quindi vorrei parlare anche io un po’ sia del contesto sociale e politico e
storico sia dello specifico, per poter difendermi delle accuse che mi sono state
rivolte.
La prima domanda da farsi qui è: che cosa è la struttura della scuola di polizia
POLGAI?
La risposta è: una struttura scientifico-militar-internazionale d’addestramento
a tecniche militari.
E poi, a chi insegnano, e a cosa addestrano. Nei suoi locali, come altrove,
insegnano le tecniche di antiterrorismo e antiguerriglia alle polizie di tutto
il mondo, a paesi anche molto noti alle cronache italiane come l’Egitto, la
Libia, come anche alla polizia di Israele, e tanti tanti altri. L’antiterrorismo
include intrinsecamente l’addestramento alla tortura sistematica: crimine
odioso, anche per le vostre democrazie borghesi, che fintamente lo condannano,
provando maldestramente a dissimularlo.
Faccio una piccola parentesi storica, visto che le procure hanno voluto inserire
e parlare della lotta armata in Italia negli anni 70 e sul contesto storico di
allora. Perché non avete parlato della tortura messa in pratica dallo Stato
italiano durante gli anni 80 dal governo Spadolini, 1981, coalizione
DC,PSI,PSDI, PRI,PLI, certo votato democraticamente, con decine e decine di casi
denunciati di tortura e anche con violenze sessuali, contro una marea di persone
che lottavano, e la giustificazione secondo cui è servita a fermare la lotta
armata. Però non è questo il punto: questa piccolissima parentesi sul contesto
Storico è per mostrare che sono queste le tecniche che si utilizzano nei
complessi scientifico-militar-industriali locali e internazionali come quello
della scuola di polizia POLGAI. Sono la massima espressione del monopolio
statale della violenza e delle sue tecniche. Questo è il contesto.
Contesto che ci sta trascinando oggi tutti verso la terza guerra mondiale, di
cui il genocidio in corso a Gaza è il capitolo più emblematico e più in vista.
Però chi è, chi sono i terroristi per la procura e per lo Stato italiano che mi
accusa. Attenzione perché in questi tempi di guerra totale si sfumano i confini
tra i “terroristi” del fronte esterno e i “terroristi” del fronte interno. Per
fare un esempio specifico: nella stessa sezione speciale del carcere dove sono
prigioniero, vivo con diversi compagni rivoluzionari, come il compagno
prigioniero Anan Yaeesh, partigiano palestinese, e benché la resistenza armata
di cui lo si accusa sia legittima persino per la vostra carta straccia del
diritto internazionale, l’Italia lo tiene prigioniero qui. Così come alcuni dei
rivoluzionari comunisti richiusi negli anni 80, rinchiusi da più di 40 anni:
sono quelli di più lunga durata nelle carceri di tutta Europa. E approfitto per
esprimere a tutti solidarietà.
Cosa c’entra tutto ciò. C’entra che tutti abbiamo le stesse accuse: per
“terrorismo”. È la stessa accusa, “terrorismo”, che mi fa questa procura per
l’azione rivoluzionaria contro la POLGAI.
Ma, se di terrorismo vogliamo parlare, vorrei ricordare che siete seduti e
vivete in un territorio, Brescia, dove, in Ghedi, si trova un parte micidiale
del vostro imperialismo occidentale, attivo e complice nel genocidio del popolo
palestinese, e che ha una base NATO, con bombe nucleari in grado di disintegrare
popolazioni intere, e queste si indiscriminatamente, e anche in grado di
disintegrare tutta Brescia.
Capisco le dichiarazioni di procura e testi, non sono un stupido: dovete
reprimere noi, pericolosi-terroristi, quelli delle retrovie di questa guerra
totale, tra l’altro in una fase complicata del capitalismo italiano ed europeo.
Certo il fronte interno deve rimanere pacificato a forza di manganello e
condanne esemplari, per conservare l’ordine sociale. Per questo le strette
repressive verso ogni pratica di lotta non simbolica; per questo la repressione
con il DDL sicurezza, con leggi repressive con condanne esemplari anche per i
prigionieri che lottano nel carcere anche per la sola disobbedienza pacifica e
punendo lo sciopero della fame collettivo come rivolta.
Tra l’altro oltre alle carceri italiane che hanno problemi con l’acqua come a
Terni, in alcune non c’è proprio l’acqua per lavarsi, né tanto meno per bere,
come ad esempio nel carcere di Uta in Sardegna, dove c’è stato un recente
sciopero della fame; e tutte sovraffollate. Per questo anche l’attacco con
l’utilizzo infame da parte dello Stato della legge più grave che ci sia
nell’ordinamento di questo paese, la cosi detta “strage politica”, il 285 c.p.;
ormai pure questa è stata sdoganata estesa contro chiunque, nonostante la
sproporzione tra fatti reali, reato e pena: così per la prima volta è passato il
reato di strage senza che ci fossero né morti né feriti, nelle condanne degli
anarchici Anna Beniamino e Alfredo Cospito, quest’ultimo rinchiuso in 41 bis. A
Alfredo e Anna va tutta la mia solidarietà. A differenza delle recenti stragi di
Stato con i 14 prigionieri uccisi lasciati morire in carcere durante le rivolte
di marzo 2020, oppure il ponte Morandi di Genova con 43 morti e tante e tante
altre.
E visto anche che le procure e testi continuano in questo processo a parlare di
un altro mio processo per cui sono stato condannato in via definitiva e degli
ordigni alla sede della Lega in Treviso, per quelli, vorrei ricordare, con
l’accusa, senza morti e senza feriti, di “strage politica”, poi ritirata dal PM,
sono stato condannato a 28 anni di prigione in primo grado, misura che non si
vedeva da decenni.
D’altra parte, ricordare non fa male: è un dato di fatto che la Lega è un
partito che costituisce parte del governo fortemente razzista, misogino e
xenofobo, oltre ad essere un partito complice dichiarato del genocidio in
Palestina. Poi semmai, riguardo alle accuse di strage: è lo Stato italiano
l’unico responsabile delle stragi, da sempre; e, noi anarchici, è dal 1970 che
continuiamo e continueremo ad accusare lo Stato italiano come l’unico
responsabile dell’epoca dello stragismo e della così detta “strategia della
tensione”, comandata dagli USA, stragi come piazza Fontana, e, dove state voi a
Brescia, piazza della Loggia, e che lo Stato in tutti questi anni ha fatto di
tutto per uscirne impunito. Proprio per ciò mi piacerebbe ricordare e far notare
alla corte che i numerosi politici e magistrati del periodo stragista degli anni
70 sono gli stessi che ancora sono protagonisti, e alcuni oggi governano, della
vita pubblica italiana. Non vedo con quale legittimità proprio voi possiate
accusarci di essere stragisti e terroristi.
Voi certo volete cancellare tutto ciò con un colpo di spugna. Sia il passato che
il presente, i livelli altissimi di guerra totale, il razzismo statale e
nazionale-sociale che avete diffuso e che si respirano oggi in Italia e nel
mondo, e che voi come Stato da anni avete fomentato in tutta la società italiana
facendolo passare come qualcosa che è privo di violenza, una semplice opinione…
Volete sorvolare queste questioni fondamentali.
Queste sono alcune contestualizzazioni sociali e politiche e storiche; in
sintesi, perché potrei continuare all’infinito. Certo voi potete condannarmi o
no, sono qui prigioniero, ma non scordatevi mai che siete voi rappresentanti
dello Stato quelli accusati di terrorismo e stragisti con storiche
responsabilità.
E tutti questi fatti parlano delle ragioni sociali delle lotte da secoli degli
oppressi del mondo. Io sono una piccola goccia, ma semplicemente dalla parte
giusta della storia.
A prescindere e al di là di ciò che deciderete. lo condivido politicamente e
solidarizzo con la lotta anarchica rivoluzionaria contro il capitale e lo Stato
e solidarizzo con il popolo oppresso palestinese e con la lotta di liberazione
rivoluzionaria contro il colonialismo occidentale! È per tutti questi motivi che
questo processo e qualsiasi Stato non mi rappresentano, viste le continue stragi
e genocidi della classe degli oppressi di cui io faccio parte, e le continue
falsificazioni e manipolazioni di cui lo Stato è responsabile. Oggi, in modo
assoluto rifiuto questa farsa statale, rifiuto questo tribunale e qualsiasi
verdetto, sia esso di colpevolezza che di innocenza. Oggi dichiaro che per me
questo processo è finito e non vedrete più la mia immagine.
Viva l’anarchia!
Juan Sorroche
02/10/2025
-AS2, c.c.Terni –
Pubblichiamo la raccolta di alcuni testi scritti dal carcere come contributo al
dibattito per la l’iniziativa “Incarcerati in un mondo in guerra”, tenutasi al
Terreno Notav di Trento il 27 e 28 settembre:
PDF scaricabile: Opuscolo incarcerati contributi
Carcere e Palestina sono da sempre strettamente intrecciati. Il popolo
palestinese vive rinchiuso in una “prigione a cielo aperto” in Cisgiordania e in
un “carcere di massima sicurezza” a Gaza. Dal 1948 a oggi, lo Stato israeliano
ha incarcerato qualcosa come 800 mila palestinesi (tra cui molti ragazzi e
addirittura bambini). La liberazione dei prigionieri è un obiettivo costante
della resistenza palestinese (e infatti esso è stato alla base dell’azione del 7
ottobre ed è ancora centrale per raggiungere il cessate il fuoco). Il movimento
internazionale contro il genocidio, che attraversa e taglia in due la società, è
entrato nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri,
persino negli stadi. Certo non poteva né può lasciare indifferenti i
prigionieri, vista anche l’ampia presenza nelle carceri di arabi e musulmani.
Chiunque abbia organizzato presìdi sotto le carceri in questi due anni sa per
esperienza che “Palestina libera!” è l’urlo che più abbatte simbolicamente le
mura e le sbarre.
Questo movimento “dentro-fuori” non solo si gioca sul piano internazionale (per
quanto più o meno acuta ne sia la consapevolezza), ma rende potenzialmente
reciproca e non univoca la direzione della solidarietà. Si può pensare in tal
senso all’intreccio che si è creato tra la protesta di Teuta Hoxha nel carcere
britannico di Peterborough (dove la militante di Palestine Action ha raggiunto i
suoi obiettivi dopo 28 giorni di sciopero della fame) e quella che hanno fatto
in suo sostegno negli Stati Uniti i prigionieri Casey Goonan (accusato di aver
incendiato delle auto della polizia durante gli accampamenti per Gaza nelle
università) e Malik Muhammad (un compagno palestinese incarcerato per una serie
di azioni avvenute durante la Floyd Rebellion).
Anche dalle carceri italiane arriva qualche segnale.
La scelta del nostro amico e compagno Massimo, in “semi-libertà” nel carcere di
Trento, di scioperare per Gaza il 30 maggio scorso
(https://ilrovescio.info/2025/05/26/preferisco-di-no/), poi il 20 giugno, il 22
settembre e il 3 ottobre, non è un caso isolato. Abbiamo appreso che un gruppo –
non sappiamo quanto numeroso – di detenuti in “semi-libertà” (art. 21) del
carcere bolognese della Dozza ha scioperato il 3 ottobre. Questo il loro
comunicato:
«Preso atto di quello che sta succedendo a Gaza, noi dipendenti della F.I.D.
abbiamo deciso di scioperare il 3/10/25.
Per noi reclusi andare a lavorare è un movimento di libertà dal contesto
carcerario in cui viviamo.
Nonostante ciò, rinunciamo a un giorno di libertà e di stipendio.
Questa decisione è stata presa per manifestare tutta la nostra indignazione per
il genocidio tutt’ora in atto e per manifestare il nostro supporto alle persone
della Flotilla arrestate con l’unica colpa di essere ambasciatori di umanità».
Ci sembra allora urgente porre e porci alcune questioni.
Come stare in carcere è un dibattito da cominciare quando si è liberi. Arresti
come quelli avvenuti il 22 settembre e il 3-4 ottobre potrebbero diventare più
frequenti (e duraturi) se i blocchi e gli scontri dovessero continuare. Nello
specifico, più gli arrestati hanno da dire e da fare per la liberazione della
Palestina, simbolo oggi di una rivolta globale, più la lotta a fianco della
resistenza palestinese può coinvolgere le carceri. Più ci si mette d’accordo
prima, più l’iniziativa può risultare comune, tempestiva e basata sull’adeguato
sostegno esterno.
Viviamo in tempi di guerra. L’esempio degli arresti di massa in Gran Bretagna
dopo la messa al bando di Palestine Action suggerisce due cose: che il carcere
può tornare ad essere un’esperienza collettiva; e che lottare al suo interno è
parte di una lotta di liberazione sociale.
Questo rende necessario un coordinamento nella traduzione e circolazione dei
materiali e allo stesso tempo un impegno per allargare la portata del dibattito
e le possibili iniziative di lotta. Nel senso che compagne e compagni sparsi
nelle carceri di diversi paesi possono sostenersi a vicenda (come e più di
quanto è successo finora), ma anche intraprendere delle proteste comuni maturate
da un confronto comune. E questo non solo per migliorare le condizioni detentive
di qualcuno o di tutte e tutti, o per sostenere questa o quella scarcerazione là
dove ci sono le condizioni per una pressione efficace in tal senso; ma anche per
partecipare da dentro agli scioperi, alle campagne o ai movimenti che si
sviluppano all’esterno.
La battaglia per la liberazione del prigioniero palestinese Anan Yaeesh è in tal
senso, oltre che doverosa, un’occasione per legare carcere e Palestina, per
unire i quartieri, le strade e i porti alle celle dove sono rinchiusi i nostri
compagni e le nostre compagne.
Soprattutto ora, visto che Anan, nel frattempo trasferito nel carcere di Melfi,
il 4 ottobre è entrato in sciopero della fame.
Non sapremmo trovare parole migliori di quelle scritte da Casey Goonan:
«Come prigionieri incarcerati per la nostra partecipazione al movimento di
liberazione palestinese in Occidente, abbiamo la responsabilità reciproca, oltre
i confini, di vivere la nostra vita in prigione con la stessa fermezza del
movimento dei prigionieri palestinesi tenuti prigionieri nelle prigioni
“israeliane”.
Gli stati da cui siamo stati catturati sono i facilitatori del genocidio
accelerato dei palestinesi da parte dell’entità sionista, così come dei genocidi
in corso dei neri e degli indigeni, le cui terre continuano a occupare.
Mentre la sinistra occidentale continua a passare da una crisi all’altra,
evitando le proprie responsabilità nei confronti della Palestina, noi siamo
tutto ciò che abbiamo».
Da monito per i cittadini a strutture da allontanare dallo sguardo urbano: la
posizione e l’organizzazione dei carceri incidono sulla vita dei detenuti. Che
hanno cominciato a ottenere spazio e diritti dalla riforma del 1975
L'articolo Città, periferie, isole: come i luoghi cambiano il carcere e le vite
dei detenuti proviene da IrpiMedia.
Riceviamo e diffondiamo:
Processo all’italiana
Si allungano i tempi del processo ai tre palestinesi ed Anan viene trasferito
Aggiornamenti di settembre sul processo ad Anan, Alì e Mansour.
Il processo ad Anan, Alì, e Mansour si è contraddistinto per numerose anomalie,
a partire dal fatto che non si comprende né di quali fatti specifici siano
accusati né se il loro presunto reato, cioè sostenere la legittima resistenza
contro l’occupazione coloniale, sia perseguibile da un tribunale Italiano, a
meno che la corte di assise dell’Aquila non pretenda di sostenere che difendersi
da un genocidio, che è sotto gli occhi del mondo, sia un reato.
Queste anomalie accompagnano il processo dal suo inizio. Infatti Anan era stato
originariamente arrestato per una richiesta di estradizione da parte delle
autorità israeliane, la richiesta era stata rifiutata ma l’esule palestinese non
è potuto uscire di prigione perché è immediatamente stato raggiunto da un
mandato di cattura da parte delle autorità italiane. Questo fatto è già di per
se un inequivocabile esempio del servilismo dello stato italiano verso quello
israeliano.
A questo va aggiunto il fatto che la pubblico ministero ha presentato come prove
documenti dei servizi segreti israeliani che non sono utilizzabili in un
processo penale, ed il fatto che che le memorie dei telefoni di Anan,
sequestrate dagli inquirenti italiani, sono state passate ai colleghi israeliani
ed utilizzate per individuare ed uccidere persone in Cisgiordania, fornendo una
drammatica prova di come le istituzioni italiane sostengano la guerra
algoritmica, ovvero la capacità di Israele di utilizzare tecnologie avanzate per
identificare, controllare ed uccidere persone. Da tutti questi elementi si
deduce il forte intreccio sul piano militare, poliziesco e dei servizi segreti
tra Italia e Israele di cui questo processo è un lampante esempio. Siamo di
fronte ad un processo per procura, istruito in Italia al fine di compiacere e
sostenere gli alleati israeliani.
Per quanto riguarda le anomalie va aggiunto che nella udienza dell’8 settembre
scorso c’è stata una novità, la giudice a latere è stata trasferita ad altra
sede. Se Prima di questo fuoriprogramma era stata stabilita la data della
sentenza, ora il termine del processo si prolunga a tempi non ancora definiti.
La fretta di chiudere questo procedimento è sempre stata evidente tanto che si
stava arrivando a sentenza dopo pochi mesi dall’inizio. Per raggiungere questo
obiettivo la corte aveva addirittura rifiutato la maggior parte dei testi della
difesa e le udienze si susseguivano a tappe forzate, creando difficoltà agli
avvocati e limitando il loro diritto a prepararsi adeguatamente. Il giudice si
proponeva di concludere il processo entro l’estate, nel momento in cui
l’attenzione sul caso e la capacità di mobilitazione dei solidali è più bassa.
Ma il processo non è finito nei tempi previsti ed ora rischia di andare a
sentenza proprio nel momento in cui c’è la massima attenzione verso la questione
palestinese. Concludere il processo ora, con l’Italia che rischia di essere
paralizzata dalle proteste, trasformerebbe in un autogol quello che doveva
essere un assist ad Israele, visto che il caso dei tre palestinesi è uno degli
argomenti della mobilitazione.
Concludere ora, qualsiasi sia l’esito, sarebbe un danno per i sostenitori di
Israele. Infatti, se i tre venissero condannati, questa sarebbe ritenuta, dal
movimento di sostegno alla Palestina, una prova della complicità delle
istituzioni italiane con il genocidio in corso e quindi un’ulteriore ragione per
mobilitarsi. Se invece venissero assolti, il governo italiano si ritroverebbe un
simbolo della resistenza palestinese, Anan Yaeesh, al cento dell’attenzione,
libero di parlare e di dare il suo contributo, nel pieno di una mobilitazione
permanente che si fa di giorno in giorno più diffusa e radicale e che spaventa i
nostri governanti.
Proprio quella della resistenza è una questione fondamentale che si pone al
variegato movimento di solidarietà con la Palestina. Un argomento che fa paura a
chi governa, infatti è evidente che è solo grazie alla sua formidabile
resistenza che il popolo Palestinese esiste e vive sulla sua terra. Questa
resistenza ci riguarda non solo perché è l’elemento centrale della lotta in
difesa della Palestina, ma anche perché ci aiuta a comprendere come non siamo
noi a difendere i palestinesi ma i palestinesi a difendere noi, lottando contro
un sistema capitalista inumano e pronto ad uccidere centinaia di migliaia di
persone per fare profitti, lo stesso sistema che decide delle nostre vite.
Quanto accade il Palestina è un monito per tutti gli sfruttati.
Nel frattempo, il 21 settembre scorso si è svolto presso il carcere di Terni un
presidio molto partecipato in solidarietà ad Anan. Nei giorni seguenti il
partigiano palestinese è stato trasferito nel penitenziario di Melfi. Si tratta
di un’ennesima vigliacca ritorsione contro un prigioniero che è già in una
sezione di Alta Sicurezza da due anni in seguito ad un processo farsa.
In queste carceri speciali sono già rinchiuse molte persone con l’accusa di
terrorismo internazionale.
Nei processi per questi reati spesso le prove sono incerte ma le condanne
sicure. Questo permette a magistrati e sbirri di fare carriera ed allo Stato di
sventolare lo spettro del terrorismo per limitare la libertà di tutti e per
spaventare ed assoggettare la popolazione. Solitamente a questi casi quasi
nessuno si interessa e probabilmente, in maniera analoga a questi casi, si
sarebbe dovuta concludere la vicenda dei tre palestinesi.
Ma chi li ha perseguitarli ha fatto dei calcoli sbagliati, i tre sono colpevoli
di essere palestinesi, e grazie al grande sostegno per la loro causa un processo
per procura si sta trasformando in una grande figuraccia per lo Stato. Abbiamo
sempre visto questo processo come un processo politico con la sentenza già
scritta, oggi che la questione è uscita dall’ombra di un tribunale di provincia,
condannare senza conseguenze i tre non è più così scontato.
Complici e solidali
Riceviamo e diffondiamo:
Non ci affidiamo alle amnesie di Nordio! Torniamo in piazza contro il rinnovo
del 41 bis ad Alfredo Cospito!
Da maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel
regime detentivo di 41 bis. Il carcere duro che prevede una socialità
estremamente ristretta, la censura permanente sulla posta e svariati divieti per
l’accesso ai libri. Colloqui previsti rigorosamente per familiari autorizzati,
separati da un vetro divisorio. Un’area di passeggio volta a limitarti lo
sguardo con mura alte fino al cielo e una rete come soffitto. Una pressione
costante dello Stato sul detenuto, i suoi familiari, i suoi avvocati. Un
messaggio unico per tutti coloro che sono costretti a orbitare intorno a questo
universo: quello che succede al 41 bis non può essere comunicato. L’obbiettivo è
distruggere il prigioniero, torturarlo fino al punto di spingerlo alla
collaborazione. Un dogma intoccabile che non viene messo in discussione nemmeno
di fronte alla morte.
Un regime – visto dallo stesso diritto borghese che l’ha creato come
un’eccezione a sé stesso – il cui rinnovo deve per forza essere avallato dal
Ministro della cosiddetta “Grazia e Giustizia”, con decreto motivato in cui si
giustifica la sua proroga. Questo iter amministrativo, suonerebbe come una buona
notizia considerando che il preposto a tale dicastero è Carlo Nordio. Un uomo
affetto da una sbadataggine cronica, preda di amnesie folgoranti che lo portano
a rimpatriare in terra d’origine, con voli di Stato, noti torturatori come il
generale libico Almasri, dimentico, improvvisamente, dei mandati d’arresto
pendenti su di lui da parte di corti internazionali.
Purtroppo la patologia di cui è affetto il ministro risulta oggettivamente
selettiva e colpisce solo quando qualche potente ha qualcosa da perdere. Quindi,
per le sorti detentive del compagno Alfredo Cospito, c’è poco da sperare nella
malattia di Nordio. D’altronde Alfredo non è ricercato per reati di
pluriomicidio su persone in condizione di minorata difesa (detenuti nelle
carceri che il generale amministrava, reclusi principalmente per aver tentato
clandestinamente la fuga dagli orrori e dalla miseria dei luoghi d’origine), non
è accusato di sevizie e stupri, praticati con maggior sadismo su prigionieri
accusati d’ateismo od omosessualità, finalizzati all’estorsione, non è capo di
bande di miliziani al soldo di potere e denaro. Soprattutto, non è accusato di
aver fatto questo e altro al servizio dell’imperialismo italiano, internando e
torturando i rifugiati in nostra vece e combattendo la propria parte di guerra
civile per le fazioni sponsorizzate dal nostro Paese e dall’Eni.
Alfredo è, invece, un anarchico che crede, come credono gli anarchici, che un
po’ di giustizia, differente da quella comunemente chiamata legge, si possa
realmente portare in questo mondo dannato, affetto da logiche di predominio. Per
questo ha rivendicato di aver gambizzato, in una splendida mattina di maggio del
2012, uno tra i massimi dirigenti del nucleare in Italia. Alfredo è un anarchico
e come gli anarchici, come la compagna Anna Beniamino, non si fanno piegare da
uno Stato che prima li accusa e poi li condanna con capi d’imputazione
totalmente sproporzionati, come quello di “strage politica”, rimanendo a testa
alta e, seppur sottoposti a un processo farlocco, ribadendo attraverso
dichiarazioni spontanee la vera natura stragista dello Stato italiano.
Alfredo, quindi, non è un leader e non ricopre ruoli apicali. Gli anarchici capi
e gerarchie non ne hanno. È solo un uomo coerente in un mondo nel quale la
coerenza fa paura.
Per questo Alfredo non godrà delle amnesie selettive dei potenti. Per tirarlo
fuori dal 41 bis serve la nostra determinazione.
Riceviamo e diffondiamo:
CONTRO IL PONTE, CONTRO LA REPRESSIONE
SOLIDARIETÀ AD ANDRE, BAK E GUI
Negli scorsi giorni tre compagni, Andre e Bak di Bari e Gui di Varese, sono
stati arrestati per eventi relativi al corteo del carnevale No ponte del 1 Marzo
di quest’anno a Messina. Una manifestazione che ha dato una scossa alla lotta
contro il progetto del ponte sullo Stretto, ribadendo l’inevitabilità del
conflitto con lo Stato e i suoi apparati di sicurezza.
Varie le accuse tra cui resistenza e lesioni gravissime. In concomitanza degli
arresti sono state effettuate diverse perquisizioni, anche a casa di altre
compagne e compagni, con il sequestro di materiale informatico e di propaganda.
Bak è stato arrestato a Napoli ed è rinchiuso nel carcere di Poggioreale, Andre
è stato trasferito oggi dal carcere di Bari a quello di Potenza come probabile
ritorsione, mentre Gui è al momento rinchiuso nel carcere di Varese. Riteniamo
sia di grande importanza mostrare vicinanza e affetto ai compagni privati della
libertà e invitiamo tutte e tutti a scrivere lettere e telegrammi.
Guido Chiarappa
C/o Casa Circondariale di Varese,
Via Felicità Morandi, 5, 21100 Varese (VA).
Gabriele Maria Venturi
C/o C.c. di Napoli Poggioreale “Giuseppe Salvia”
Via nuova Poggioreale 167, 80143 – Napoli
Andrea Berardi
C/o C. c. di Potenza “Andrea Santoro”
Via Appia 175, 85100 Potenza (PZ)
Per il sostegno economico è possibile mandare dei  contributi alla cassa
anticarceraria caricando la postepay numero 4023601012012746 intestata a Daniele
Giaccone (causale: solidarietà  NOPONTE). Per contattarci scrivere a:
vumsec@canaglie.net
SOLIDARIETÀ AD ANDRE, BAK E GUI
VOGLIO UN MONDO SENZA CARCERE
CONTRO IL PONTE CONTRO QUESTO MONDO
Cassa Anticarceraria VUMSeC