Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di TorinoAbusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino nell’inchiesta contro i
quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le
indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina
Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono
l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate
rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di
Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro
Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987.
La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti
nella discussione, di cui è stata resa nota la trascrizione, che si è tenuta lo
scorso 24 ottobre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti
dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate
rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha
portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata,
come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, ha
commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie
di irregolarità, abusi, sotterfugi ed escamotage vari, tutti finalizzati ad
aggirare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come
ostacoli frapposti all’azione penale.
Il tranello complottista
Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto depose, per
conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che
chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre
una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti
(Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato
agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei
decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta
eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi,
brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima
dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue
ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità
di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito
solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista
di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre
nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un
complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e
brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini
su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli
stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è
andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di
Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la
stretta regia dei Servizi. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i
carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti
civili tenteranno di reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in
porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha
dichiarato di essere entrato nell’inchiesta come legale della parte civile per
dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del
complotto, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di
colpevolezza e sprezzanti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle
fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta
l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle
indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei
quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari,
al punto che i pm torinesi, presi nel ruolo di novelli riparatori delle
ingiustizie della storia, si sono lanciati come Robin Hood nelle foresta di
Sherwood incappando in una imbarazzante disavventura.
L’inchiesta nascosta
Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una
procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex
brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia
investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare»
le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura
della nuova inchiesta. Scriverà il responsabile della indagine, comandante dei
carabinieri Pierluigi Brogliaccino, «L’attività di intercettazione consente
l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine
all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri
avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con
Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma
nonostante questo specifico attenzionamento, il fascicolo non muterà
l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona
intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza
della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987,
dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una
sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al
gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa
strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione
telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa
dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine.
Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si
trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato
l’archivio del tribunale di Alessandria.
Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza
della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei
confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso
l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione
di totale illegalità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre
2022, invece di sanare l’illeicità dell’inchiesta, la procura raddoppia l’abuso
e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore
ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il
gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento.
Indagato senza essere prosciolto
Nel 2023 la situazione non cambia, anzi assistiamo ai tentativi surreali della
procura che cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il
sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, improvvisamente, dopo cinque giorni i pm
rinunciano a questo sotterfugio. Lo iscrivono finalmente nel registro degli
indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento
tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento
acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la
versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un
proprio perito. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia
cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni, da loro ritenute delle
«sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante»
occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi
fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del
proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova –
quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era
sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle
perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i
mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una
riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini
non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali,
che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale
autorizzazione da tempo illecita.
Le intercettazioni non bastano
A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le
intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti
“captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti
con Azzolini. In questo modo cercano di trasformare in dichiarazioni d’accusa
verbalizzate i contenuti delle intercettazioni dal valore legale traballante. Ma
si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio
Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza
di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa
notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la
qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima.
L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni
70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex
Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a
contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo
sull’avviso. Irritata per l’atteggiamento del teste, a giugno la procura
ripropone l’arresto di Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza
di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente
le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni
ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura
delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una batosta enorme per i
pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta
dell’inchiesta imbastita con mille sotterfugi ormai da 17 mesi. Davanti al gup,
lo scorso 24 ottobre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati
dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste
distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati,
le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano
comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga.
Il teste braccato
A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il
testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta
i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio
di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a
persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più
pressanti e riguardano anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, accusato
di aver subornato il testimone durante un incontro che PB aveva chiesto al
legale e nel quale aveva domandato lumi sulle ragioni dell’interessamento della
procura nei suoi confronti nonostante nulla c’entrasse con i fatti della Spiotta
di cinquant’anni prima.
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa
dell’imputato Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre
coimputati, e il tentativo fare la stesa cosa con il suo avvocato, circostanza
che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e
liquidare il suo difensore.
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