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Processo Spiotta, versioni contrastanti dei carabinieri sulla morte di Mara Cagol
Carabinieri in difficoltà di fronte alla versione ufficiale sulla morte della Cagol, tanti non ricordo, dinieghi e versioni contrastanti. Le difese ribaltano il processo per i fatti della Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze La quarta udienza del nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria per la sparatoria nella quale morì il 5 giugno del 1975 Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate rosse, e rimase mortalmente ferito l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, ha messo in luce profonde contraddizioni e smentite reciproche tra i carabinieri coinvolti. Quattro ex membri del nucleo speciale anti-Br, istituito dal generale Dalla Chiesa nel maggio del 1974, e due carabinieri in congedo delle sezioni territoriali di Canelli e Acqui Terme hanno deposto dando vita a un intreccio di versioni contrastanti, dinieghi imbarazzanti e giravolte. Si è assistito a un vero e proprio “carabinieri contro carabinieri”, senza distinzioni di grado, anzianità o competenze. Il servizio del Tgr Rainews Piemonte https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2025/05/le-drammatiche-testimonianze-di-chi-cera-sfilano-in-aula–135b6a06-3f9f-439a-a1a2-f66cc3e36b8.html Le critiche del generale Sechi L’allora braccio destro del generale Dalla Chiesa ha apertamente criticato l’operato della tenenza di Acqui Terme. Le sue censure si sono concentrate in particolare sull’operato del maresciallo Rocca, il quale, secondo la versione consolidatasi nelle carte giudiziarie, dopo aver racimolato tre uomini si sarebbe lanciato in una azzardata perlustrazione tra ruderi e cascine della zona. Sortita che culminò sul cortile della cascina Spiotta, quando la pattuglia insospettita dalla presenza di due auto e da rumori provenienti all’interno bussò alla porta, innescando (ancora oggi le versioni su su chi abbia esploso i primi colpi sono contrastanti) il sanguinoso conflitto a fuoco. 
Sechi ha spiegato che il nucleo speciale avrebbe agito in tutt’altro modo: accerchiando la zona, controllandola a distanza con uomini camuffati e apparecchi fotografici per identificare gli occupanti, seguirli e catturarli quando sarebbero usciti singolarmente. Solo in seguito, e con tutte le precauzioni del caso, si sarebbe proceduto a un’eventuale irruzione: precauzioni che sarebbero mancate nella “sconsiderata sortita” di Rocca. Il generale Sechi ha negato di aver avuto informazioni, il giorno prima della sparatoria, riguardo a irregolarità nei documenti d’identità usati per l’acquisto della cascina Spiotta. Ha anche negato che qualcuno dei suoi uomini si fosse recato a Canelli, luogo del rapimento di Vallarino Gancia da parte delle Br. Incalzato dalle difese e messo di fronte all’ispezione giudiziale del 20 giugno (con la sua firma in calce insieme a quella del pm titolare dell’indagine) in cui fu trovato un bossolo dell’arma dei carabinieri accanto al corpo della Cagol, documento richiamato dal legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani, Sechi ha detto di non ricordare l’episodio e di non sapere il motivo di quelle ricerche a distanza di 15 giorni: «doveTe chiederlo al pm, non a me» – ha replicato con fare indispettito. “Non ricordo”, dinieghi imbarazzanti e versioni contrapposte Un atteggiamento increscioso quella tenuto dal generale in congedo che tra “non ricordo” e dinieghi aggressivi ha opposto una difesa a riccio. A supportare questa posizione è intervenuta la deposizione del colonnello Seno, suo collega nel nucleo speciale. Sebbene abbia ammesso (smentendo quanto aveva appena detto Sechi) di essersi portato nella caserma di Canelli nel tardo pomeriggio del 4 giugno, dopo l’arresto di Massimo Maraschi sospettato di essere coinvolto nel rapimento, ha ostinatamente sconfessato le affermazioni del suo sottoposto dell’epoca, il vicebrigadiere Bosso. Quest’ultimo, invece, ha ricostruito in modo dettagliato la sequenza logica dei loro movimenti sul posto: l’arrivo nella caserma di Canelli per interrogare Maraschi già all’attenzione del nucleo speciale, il sopraggiungere della notizia che nella zona di Acqui Terme era stato rinvenuto il furgone abbandonato dai rapitori di Gancia nel primo tratto di fuga, lo spostamento nella caserma di Acqui dove apprese di una indagine catastale di circa 15 giorni prima che aveva rilevato la natura fittizia dei documenti d’identità usati per l’acquisto della Spiotta. Si trattava di una tecnica d’indagine adottata dagli uomini di Dalla Chiesa per smantellare la logistica brigatista. La cerimonia che interruppe l’indagine Bosso ha descritto con nitidezza la cartellina gialla dove erano riposti i fogli dell’indagine. Ha poi spiegato che, ricevuta l’informazione, con un carabiniere del posto (Lucio Prati) si recò subito a effettuare una perlustrazione a distanza della Spiotta, osservandola da un’altra cascina a circa 200 metri, per poi rientrare a Canelli in tarda serata, interrogare Maraschi “fino a estenuarlo” e tornare a Torino nella notte. Seno ha negato che tutto ciò sia avvenuto, sostenendo che Bosso si fosse confuso con il giorno successivo. Tuttavia, di fronte alla contestazione dell’avvocato di Moretti, Francesco Romeo, riguardo l’inutilità di un sopralluogo la sera successiva, a sparatoria avvenuta e morti sul terreno, Seno è rimasto in silenzio. A questo punto è emersa un ulteriore sconcertante circostanza: secondo Bosso, dal comando centrale di Torino sarebbe giunta l’indicazione di sospendere l’indagine e rientrare, perché il mattino successivo era prevista una cerimonia per la festa dell’Arma, durante la quale diversi membri del nucleo (che avevano partecipato all’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974) dovevano essere premiati. L’attività operativa sarebbe ripresa nel pomeriggio del 5. Questa circostanza, concordata tra il maresciallo Rocca e il colonnello Seno secondo Bosso, è stata negata da Seno. Il confronto negato e i punti fermi emersi dall’udienza I pubblici ministeri, che non hanno lesinato domande per appurare i fatti, hanno chiesto un confronto tra Seno e Bosso, ritenendo che uno dei due stesse mentendo o non ricordando correttamente. La corte, tuttavia, ha respinto la richiesta, ritenendola superflua. Una decisione che non aiuta la chiarezza ma sembra voler tutelare l’apparato. 
La mattina successiva è avvenuto il fatto drammatico con l’improvvida decisione di Rocca che, all’insaputa del Nucleo, ha deciso di partire con una sua pattuglia alla volta della Spiotta per condurre un’ispezione culminata nello scontro a fuoco. I membri del nucleo speciale, secondo le testimonianze in aula di Bosso e Pedini Boni, altro ex carabiniere del nucleo speciale, sarebbero giunti sul posto solo nel primo pomeriggio, a disastro avvenuto. Le testimonianze non hanno chiarito l’esistenza di una scala gerarchica tra nucleo speciale e sezioni territoriali in caso di indagini per terrorismo, lasciando irrisolto chi dovesse prendere in mano le operazioni e stabilire tempi e modi dell’inchiesta. Il capitano Aragno (caserma di Canelli) e il vicebrigadiere Villani (polizia giudiziaria della procura di Acqui) hanno risposto che le indagini erano state subito prese in carico dal nucleo speciale, alimentando un infinito “scaricabarile”. Nonostante ciò, l’udienza ha fissato dei punti fermi importanti: si è compreso che il vero arcano della vicenda ruota attorno alle circostanze dell’uccisione di Margherita Cagol. Le dichiarazioni del carabiniere Villani sulle perplessità del medico che condusse l’autopsia riguardo alla versione ufficiale della sua morte, i dubbi e le domande poste all’appuntato Barberis (che disse di averle sparato a distanza mentre evitava la Srcm lanciata da Azzolini) e l’incredulità degli altri colleghi rispetto a questo racconto, hanno ulteriormente incrinato la versione data per vera sulla sua morte. Chi è dalla parte della verità? I punti oscuri, le reticenze, i silenzi, le indagini carenti (i bossoli esplosi dai carabinieri scomparsi e le loro armi mai periziate), e il silenziamento della vicenda, inducono a pensare che l’atteggiamento tenuto dai diversi corpi dell’Arma sia stata la diretta conseguenza delle modalità con cui venne uccisa la Cagol. Con le sue dichiarazioni il brigatista Azzolini ha riempito uno dei tasselli mancanti di quella giornata, compiendo un passo chiarificatore verso la verità. A distanza di 50 anni i carabinieri sollevano ancora cortine fumogene, fuggendo le loro responsabilità. A cosa serve questo processo, a comminare i soliti ergastoli ai brigatisti, colpevoli a priori, o a cercare la verità fino in fondo sull’accaduto? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
brigate rosse
Francesco Romeo
lotta armata
anni '70
Prove fatte sparire per coprire la verità sull’omicidio di Mara Cagol
Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso di Paolo Persichetti da Insorgenze Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere» di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito scomparso dall’indagine. La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto meno conosciute ed applicate». I bossoli scomparsi Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso. Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone. In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…) Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era sentito». Un vuoto di mezz’ora
 Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo? Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad ora non hanno ricostruito questi momenti. Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili. L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi. Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra». Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per giunta in un’area ispezionabile. Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma sembra un po’ tardi per lamentarsene). La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il vero arcano del nuovo processo in corso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Processo Spiotta, riappare il bossolo dei carabinieri che prova l’esecuzione di Mara Cagol
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta antistante la cascina. di Paolo Persichetti da Insorgenze L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con una improvvida iniziativa che terminò in tragedia. La nuova perlustrazione del 20 giugno Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975, ovvero 15 giorni la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente. Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali? I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via. L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato. Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli. Parlare di una indagine lacunosa è dire poco. Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
 Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. E’ in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché? Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa. Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate in aria in segno di resa. Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol. Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata accanto allo sportello completamente scarica. Il duello con l’appuntato D’Alfonso Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza ravvicinata: nell’ordine di pochi metri». Chi ha ucciso Mara Cagol? Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis, D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita. Fantasmi come il proiettile scomparso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino
Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino nell’inchiesta contro i quattro Br accusati per la sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze Alla fine del 2021 la procura di Torino, mentre si accingeva a riaprire le indagini sulla sparatoria avvenuta nel lontano giugno 1975 davanti alla cascina Spiotta, in località Arzello nei pressi di Acqui terme, dove morirono l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e la fondatrice della Brigate rosse Margherita Cagol, non sapeva che nel 1983 l’autorità giudiziaria di Alessandria aveva già condotto una propria inchiesta sugli stessi fatti contro Angelo Basone e Lauro Azzolini, due brigatisti poi prosciolti nel novembre 1987. La circostanza è stata candidamente ammessa dal pubblico ministero Emilio Gatti nella discussione, di cui è stata resa nota la trascrizione, che si è tenuta lo scorso 24 ottobre durante l’udienza preliminare che dovrà decidere le sorti dell’indagine e stabilire se rinviare a giudizio gli ex militanti della Brigate rosse Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Cosa ha portato una procura tanto esperta e agguerrita nelle vicende della lotta armata, come quella torinese, coadiuvata dalla procura nazionale antiterrorismo, ha commettere un così clamoroso errore? In realtà solo il primo di una lunga serie di irregolarità, abusi, sotterfugi ed escamotage vari, tutti finalizzati ad aggirare le regole della procedura, a quanto pare percepite unicamente come ostacoli frapposti all’azione penale. Il tranello complottista Fin dal venerdì 19 novembre 2021, quando l’avvocato Sergio Favretto depose, per conto di Bruno D’Alfonso, uno dei figli del carabiniere deceduto, l’esposto che chiedeva la riapertura delle indagini, la procura torinese si era vista proporre una narrazione, rafforzata anche da un libro scritto da due giornalisti (Folegnani-Lupacchini), con la prefazione dello stesso D’Alfonso, depositato agli atti, che aveva come premessa un falso storico: il mancato svolgimento nei decenni precedenti di una inchiesta giudiziaria sulla sparatoria, fatta eccezione per il processo che vide come unico condannato Massimo Maraschi, brigatista catturato nell’immediatezza del rapimento Gancia, il giorno prima dello scontro a fuoco, per cui fu comunque condannato. L’esposto fondava le sue ragioni proprio su questo presunto vuoto e dunque su una conseguente necessità di sanare una palese ingiustizia. Riprendendo le conclusioni del volume, uscito solo tre giorni dopo la consegna dell’esposto in procura, si indicava una lista di nomi tra i quali si sarebbe dovuto individuare il brigatista fuggito. Sempre nel libro, invece, si postulava ancor più esplicitamente l’esistenza di un complotto, di ambigue zone di silenzio e complicità tra apparati dello Stato e brigatisti che avrebbero giustificato la mancata volontà di condurre le indagini su quanto era avvenuto il 5 giugno del 1975. In un secondo volume scritto dagli stessi autori, pubblicato sul finire della inchiesta, nel dicembre 2023, si è andati ancora oltre, sostenendo che la sparatoria della Spiotta, la morte di Mara Cagol e la fuga del brigatista mai individuato era avvenuta sotto la stretta regia dei Servizi. Tralasciamo ora questo delirio complottista che i carabinieri e la procura non hanno seguito, ma che certamente alcune parti civili tenteranno di reintrodurre nel processo, se questo dovesse andare in porto. Non è un caso se l’ex magistrato, ora avvocato Guido Salvini, ha dichiarato di essere entrato nell’inchiesta come legale della parte civile per dimostrare la colpevolezza di Curcio e Moretti, quest’ultimo ritenuto attore del complotto, nei confronti dei quali aveva già anticipato in passato giudizi di colpevolezza e sprezzanti valutazioni personali. Non è la prima volta che delle fake news vengono impiegate come leve per avviare nuove inchieste. Resta l’incredibile circostanza che ha visto una procura riaprire incautamente delle indagini senza le necessarie verifiche, dando per scontato che nell’arco dei quarantasei anni precedenti non vi fossero stati altri procedimenti giudiziari, al punto che i pm torinesi, presi nel ruolo di novelli riparatori delle ingiustizie della storia, si sono lanciati come Robin Hood nelle foresta di Sherwood incappando in una imbarazzante disavventura. L’inchiesta nascosta Ricevuto l’esposto, gli inquirenti hanno prima aperto, ad inizio 2022, una procedimento contro ignoti, ascoltato diversi testimoni, interrogato molti ex brigatisti senza cavare un ragno dal buco. A quel punto hanno cambiato strategia investigativa, convinti che l’unico modo per andare avanti fosse «intercettare» le chiacchiere degli ex Br, dopo aver reso pubblica la notizia dell’apertura della nuova inchiesta. Scriverà il responsabile della indagine, comandante dei carabinieri Pierluigi Brogliaccino, «L’attività di intercettazione consente l’opportunità di captare, dietro opportuni stimoli, i giusti commenti in ordine all’identità del fuggito». Tuttavia già nell’aprile del 2022 i carabinieri avevano focalizzato la posizione di Lauro Azzolini: «quale corresponsabile con Cagol Margherita dell’uccisione dell’appuntato Giovanni D’Alfonso». Ma nonostante questo specifico attenzionamento, il fascicolo non muterà l’intestazione «contro ignoti», abile escamotage per non allertare la persona intercettata. Solo che negli stessi giorni la procura si avvede della esistenza della vecchia indagine del 1983 e del successivo proscioglimento, nel 1987, dello stesso Azzolini per i medesimi fatti. A questo punto la procura aveva una sola possibilità indicata dal codice: chiedere la riapertura delle indagini al gip per iscrivere il sospetto nel registro degli indagati. Tuttavia questa strada avrebbe reso vana la ricerca di nuove prove attraverso l’intercettazione telefonica, poiché per essere efficace questa doveva avvenire all’insaputa dell’indagato e senza prove nuove non era possibile riaprire nessuna indagine. Tanto più se il fascicolo con la sentenza-ordinanza di proscioglimento non si trovava più, perché andato disperso in una alluvione che aveva devastato l’archivio del tribunale di Alessandria. Così la procura sceglie la via del silenzio: non avverte il gip della esistenza della vecchia indagine e soprattutto del proscioglimento di Azzolini, nei confronti del quale lo stesso gip, ignaro di tutto, aveva concesso l’intercettazione telefonica divenuta nel frattempo illecita. Questa situazione di totale illegalità dell’indagine si protrarrà per dieci mesi. Nel dicembre 2022, invece di sanare l’illeicità dell’inchiesta, la procura raddoppia l’abuso e con una procedura d’urgenza, del tutto infondata, inocula un captatore ambientale nel telefono di Azzolini, ancora una volta senza aver informato il gip della situazione e aver chiesto prima la revoca del vecchio proscioglimento. Indagato senza essere prosciolto
 Nel 2023 la situazione non cambia, anzi assistiamo ai tentativi surreali della procura che cerca di far revocare il proscioglimento senza avvisarne il sospettato. Siamo al 10 febbraio 2023, improvvisamente, dopo cinque giorni i pm rinunciano a questo sotterfugio. Lo iscrivono finalmente nel registro degli indagati il 15 febbraio, dopo aver disposto a sua insaputa un accertamento tecnico irripetibile, ovvero l’estrazione delle impronte digitali dal documento acquisito da qualche tempo sulla «battaglia della Spiotta», che riportava la versione del Br scampato alla sparatoria, impedendogli così la nomina di un proprio perito. Il 10 marzo 2023 la procura chiede addirittura la custodia cautelare di Azzolini sulla base di due intercettazioni, da loro ritenute delle «sostanziali confessioni». Il gip risponde che per «giurisprudenza costante» occorre prima revocare la precedente pronuncia di proscioglimento per i medesimi fatti. Finalmente dalla procura arriva la nuova richiesta di revoca del proscioglimento del 1987, senza però rivelare – tra gli elementi di prova – quanto era stato scritto nella richiesta di febbraio, ovvero che Azzolini era sotto intercettazione. In questa nuova domanda si cita solo l’esito delle perizie dattiloscopiche. In questo modo l’indagato non viene a sapere che tra i mezzi di prova ci sono anche delle intercettazioni. Il gip concede una riapertura limitata di sei mesi ma nonostante l’avvio formale di nuove indagini non viene sanata la situazione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, che permangono intatte nella veste giuridica di semplici proroghe della iniziale autorizzazione da tempo illecita. Le intercettazioni non bastano A maggio 2023 nuovo cambio di strategia, i pm cercando di puntellare le intercettazioni illegali convocando come semplici testimoni due soggetti “captati” che ad avviso degli inquirenti avevano avuto conversazioni indizianti con Azzolini. In questo modo cercano di trasformare in dichiarazioni d’accusa verbalizzate i contenuti delle intercettazioni dal valore legale traballante. Ma si tratta dell’ennesima forzatura procedurale poiché uno di loro, Antonio Savino, è un ex Br imputato di reato connesso e quindi ha diritto alla presenza di un legale di fiducia e non ha l’obbligo di rispondere per legge. La difesa fa notare la circostanza e si vede rispondere che spetta ai pm stabilire la qualifica giuridica del convocato, fosse anche illegittima. L’altro testimone, PB, è una persona totalmente estranea alle vicende degli anni 70, divenuto amico nei decenni successivi della moglie di Azzolini, anch’essa ex Br. Una volta sentito, disattende le attese dei pm che però rinunciano a contestargli l’intercettazione da loro ritenuta indiziante per non metterlo sull’avviso. Irritata per l’atteggiamento del teste, a giugno la procura ripropone l’arresto di Azzolini, accusato di avere condizionato la testimonianza di PB inquinando così le prove. Tuttavia il 17 luglio il gip respinge nuovamente le pretese delle procura dopo avere dichiarato inutilizzabili le intercettazioni ambientali effettuate prima della revoca del proscioglimento e della riapertura delle indagini (in realtà mai interrotte). Si tratta di una batosta enorme per i pubblici ministeri che vedono traballare l’intero castello di carta dell’inchiesta imbastita con mille sotterfugi ormai da 17 mesi. Davanti al gup, lo scorso 24 ottobre, replicheranno che questi rilievi del gip, sottolineati dalla difesa, in realtà sono infondati poiché trattandosi di due inchieste distinte, la prima contro ignoti e la seconda contro Azzolini e suoi coimputati, le intercettazioni autorizzate nel corso della prima inchiesta restavano comunque valide anche nella seconda, sulla base di una semplice proroga. Il teste braccato A Settembre 2023 la procura riparte alla carica e interroga nuovamente il testimone PB, accusato di falsa testimonianza durante l’esame. Ancora una volta i pm violano il codice poiché a quel punto PB andava interrogato con l’ausilio di un difensore, essendo mutata la sua posizione giuridica da testimone a persona sospettata di reato. Invece le domande nei suoi confronti si fanno più pressanti e riguardano anche il ruolo svolto dall’avvocato di Azzolini, accusato di aver subornato il testimone durante un incontro che PB aveva chiesto al legale e nel quale aveva domandato lumi sulle ragioni dell’interessamento della procura nei suoi confronti nonostante nulla c’entrasse con i fatti della Spiotta di cinquant’anni prima. 
L’inchiesta termina qui, con la messa sotto accusa dell’imputato Azzolini, nel frattempo rinviato a giudizio insieme ai suoi tre coimputati, e il tentativo fare la stesa cosa con il suo avvocato, circostanza che ricorda l’inchiesta perfetta sognata da ogni pm: condannare l’imputato e liquidare il suo difensore. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Abusi, irregolarità e sotterfugi della procura di Torino sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
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