Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte
del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la
pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di
una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai
militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso
di Paolo Persichetti da Insorgenze
Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5
giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono
sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del
bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici
giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere»
di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito
scomparso dall’indagine.
La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria
Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto
per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla
sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata
casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei
carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era
ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i
rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai
pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la
macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi
spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule
della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola
di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi
volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano
trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era
giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un
errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al
Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che
hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per
giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che
erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide
Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati
troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi
sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto
meno conosciute ed applicate».
I bossoli scomparsi
Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di
D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di
tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso.
Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica
dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione
di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono
arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano
del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato
portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo
sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone.
In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…)
Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere
Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho
trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il
Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che
fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era
sentito».
Un vuoto di mezz’ora
Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano
di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso
Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del
conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo?
Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa
l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai
feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad
ora non hanno ricostruito questi momenti.
Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque
dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che
dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili.
L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati
cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi.
Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque
minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra».
Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di
fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di
mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo
il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo
brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da
risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre
venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più
considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che
siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa
percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per
giunta in un’area ispezionabile.
Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol
Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se
vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i
cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per
facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio
dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al
Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime
del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono
state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse
l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma
sembra un po’ tardi per lamentarsene).
La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda
Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma
non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro
militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un
anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con
l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova
Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della
XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato
dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni
dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di
Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una
retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri
brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e
quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di
tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla
sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte
della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il
vero arcano del nuovo processo in corso.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Tag - Vallarino Gancia
Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo
scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero
io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha
visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di
trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi
delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta
ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti
di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita
Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni
D’Alfonso, morirà nei giorni successivi.
Processo ribaltato
Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie
e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la
strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla
inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La
testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non
dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia
alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo
le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è
stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse
parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili».
In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura
delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura
indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio
dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due
giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel
quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si
accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di
sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due
giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid
di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il
tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di
Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta
delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice
del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due
volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al
momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private
abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della
vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido
Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il
suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua»
e «oscura».
La storia non deve entrare in aula
Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è
discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e
dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo
dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in
qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario
Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate
rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto
aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto
che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla
Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò
importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un
processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante
della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena
mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una
vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se
avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori
pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi
perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso
per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi
segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione
dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova
sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è
una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato
e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra
stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte.
Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di
cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti
scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle
Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è
sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa
difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso.
Un pm senza storia
Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero
Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha
sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa
di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non
vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una
rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto
a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna,
inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo
storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di
ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si
limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro
fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non
sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli
storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada.
Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica
accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti
quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una
interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata
dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle
Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno
sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve
giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della
pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo
cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”».
Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma
Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale
davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva
producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del
processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato
omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani.
Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda
commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo
motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di
una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di
arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle
perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora
di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere
rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento
delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi
di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per
ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore
giudiziario.
Il consulente non verrà ascoltato
Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne
riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa
dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è
chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita
in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava
ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa
narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che
qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che
nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la
circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte
politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di
autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu
collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono
demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra
storia ma soprattutto una altro processo.
da insorgenze.net
> “Mara gridava ‘Non sparate’”
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp