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Processo Spiotta, versioni contrastanti dei carabinieri sulla morte di Mara Cagol
Carabinieri in difficoltà di fronte alla versione ufficiale sulla morte della Cagol, tanti non ricordo, dinieghi e versioni contrastanti. Le difese ribaltano il processo per i fatti della Spiotta di Paolo Persichetti da Insorgenze La quarta udienza del nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria per la sparatoria nella quale morì il 5 giugno del 1975 Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate rosse, e rimase mortalmente ferito l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, ha messo in luce profonde contraddizioni e smentite reciproche tra i carabinieri coinvolti. Quattro ex membri del nucleo speciale anti-Br, istituito dal generale Dalla Chiesa nel maggio del 1974, e due carabinieri in congedo delle sezioni territoriali di Canelli e Acqui Terme hanno deposto dando vita a un intreccio di versioni contrastanti, dinieghi imbarazzanti e giravolte. Si è assistito a un vero e proprio “carabinieri contro carabinieri”, senza distinzioni di grado, anzianità o competenze. Il servizio del Tgr Rainews Piemonte https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2025/05/le-drammatiche-testimonianze-di-chi-cera-sfilano-in-aula–135b6a06-3f9f-439a-a1a2-f66cc3e36b8.html Le critiche del generale Sechi L’allora braccio destro del generale Dalla Chiesa ha apertamente criticato l’operato della tenenza di Acqui Terme. Le sue censure si sono concentrate in particolare sull’operato del maresciallo Rocca, il quale, secondo la versione consolidatasi nelle carte giudiziarie, dopo aver racimolato tre uomini si sarebbe lanciato in una azzardata perlustrazione tra ruderi e cascine della zona. Sortita che culminò sul cortile della cascina Spiotta, quando la pattuglia insospettita dalla presenza di due auto e da rumori provenienti all’interno bussò alla porta, innescando (ancora oggi le versioni su su chi abbia esploso i primi colpi sono contrastanti) il sanguinoso conflitto a fuoco. 
Sechi ha spiegato che il nucleo speciale avrebbe agito in tutt’altro modo: accerchiando la zona, controllandola a distanza con uomini camuffati e apparecchi fotografici per identificare gli occupanti, seguirli e catturarli quando sarebbero usciti singolarmente. Solo in seguito, e con tutte le precauzioni del caso, si sarebbe proceduto a un’eventuale irruzione: precauzioni che sarebbero mancate nella “sconsiderata sortita” di Rocca. Il generale Sechi ha negato di aver avuto informazioni, il giorno prima della sparatoria, riguardo a irregolarità nei documenti d’identità usati per l’acquisto della cascina Spiotta. Ha anche negato che qualcuno dei suoi uomini si fosse recato a Canelli, luogo del rapimento di Vallarino Gancia da parte delle Br. Incalzato dalle difese e messo di fronte all’ispezione giudiziale del 20 giugno (con la sua firma in calce insieme a quella del pm titolare dell’indagine) in cui fu trovato un bossolo dell’arma dei carabinieri accanto al corpo della Cagol, documento richiamato dal legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani, Sechi ha detto di non ricordare l’episodio e di non sapere il motivo di quelle ricerche a distanza di 15 giorni: «doveTe chiederlo al pm, non a me» – ha replicato con fare indispettito. “Non ricordo”, dinieghi imbarazzanti e versioni contrapposte Un atteggiamento increscioso quella tenuto dal generale in congedo che tra “non ricordo” e dinieghi aggressivi ha opposto una difesa a riccio. A supportare questa posizione è intervenuta la deposizione del colonnello Seno, suo collega nel nucleo speciale. Sebbene abbia ammesso (smentendo quanto aveva appena detto Sechi) di essersi portato nella caserma di Canelli nel tardo pomeriggio del 4 giugno, dopo l’arresto di Massimo Maraschi sospettato di essere coinvolto nel rapimento, ha ostinatamente sconfessato le affermazioni del suo sottoposto dell’epoca, il vicebrigadiere Bosso. Quest’ultimo, invece, ha ricostruito in modo dettagliato la sequenza logica dei loro movimenti sul posto: l’arrivo nella caserma di Canelli per interrogare Maraschi già all’attenzione del nucleo speciale, il sopraggiungere della notizia che nella zona di Acqui Terme era stato rinvenuto il furgone abbandonato dai rapitori di Gancia nel primo tratto di fuga, lo spostamento nella caserma di Acqui dove apprese di una indagine catastale di circa 15 giorni prima che aveva rilevato la natura fittizia dei documenti d’identità usati per l’acquisto della Spiotta. Si trattava di una tecnica d’indagine adottata dagli uomini di Dalla Chiesa per smantellare la logistica brigatista. La cerimonia che interruppe l’indagine Bosso ha descritto con nitidezza la cartellina gialla dove erano riposti i fogli dell’indagine. Ha poi spiegato che, ricevuta l’informazione, con un carabiniere del posto (Lucio Prati) si recò subito a effettuare una perlustrazione a distanza della Spiotta, osservandola da un’altra cascina a circa 200 metri, per poi rientrare a Canelli in tarda serata, interrogare Maraschi “fino a estenuarlo” e tornare a Torino nella notte. Seno ha negato che tutto ciò sia avvenuto, sostenendo che Bosso si fosse confuso con il giorno successivo. Tuttavia, di fronte alla contestazione dell’avvocato di Moretti, Francesco Romeo, riguardo l’inutilità di un sopralluogo la sera successiva, a sparatoria avvenuta e morti sul terreno, Seno è rimasto in silenzio. A questo punto è emersa un ulteriore sconcertante circostanza: secondo Bosso, dal comando centrale di Torino sarebbe giunta l’indicazione di sospendere l’indagine e rientrare, perché il mattino successivo era prevista una cerimonia per la festa dell’Arma, durante la quale diversi membri del nucleo (che avevano partecipato all’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974) dovevano essere premiati. L’attività operativa sarebbe ripresa nel pomeriggio del 5. Questa circostanza, concordata tra il maresciallo Rocca e il colonnello Seno secondo Bosso, è stata negata da Seno. Il confronto negato e i punti fermi emersi dall’udienza I pubblici ministeri, che non hanno lesinato domande per appurare i fatti, hanno chiesto un confronto tra Seno e Bosso, ritenendo che uno dei due stesse mentendo o non ricordando correttamente. La corte, tuttavia, ha respinto la richiesta, ritenendola superflua. Una decisione che non aiuta la chiarezza ma sembra voler tutelare l’apparato. 
La mattina successiva è avvenuto il fatto drammatico con l’improvvida decisione di Rocca che, all’insaputa del Nucleo, ha deciso di partire con una sua pattuglia alla volta della Spiotta per condurre un’ispezione culminata nello scontro a fuoco. I membri del nucleo speciale, secondo le testimonianze in aula di Bosso e Pedini Boni, altro ex carabiniere del nucleo speciale, sarebbero giunti sul posto solo nel primo pomeriggio, a disastro avvenuto. Le testimonianze non hanno chiarito l’esistenza di una scala gerarchica tra nucleo speciale e sezioni territoriali in caso di indagini per terrorismo, lasciando irrisolto chi dovesse prendere in mano le operazioni e stabilire tempi e modi dell’inchiesta. Il capitano Aragno (caserma di Canelli) e il vicebrigadiere Villani (polizia giudiziaria della procura di Acqui) hanno risposto che le indagini erano state subito prese in carico dal nucleo speciale, alimentando un infinito “scaricabarile”. Nonostante ciò, l’udienza ha fissato dei punti fermi importanti: si è compreso che il vero arcano della vicenda ruota attorno alle circostanze dell’uccisione di Margherita Cagol. Le dichiarazioni del carabiniere Villani sulle perplessità del medico che condusse l’autopsia riguardo alla versione ufficiale della sua morte, i dubbi e le domande poste all’appuntato Barberis (che disse di averle sparato a distanza mentre evitava la Srcm lanciata da Azzolini) e l’incredulità degli altri colleghi rispetto a questo racconto, hanno ulteriormente incrinato la versione data per vera sulla sua morte. Chi è dalla parte della verità? I punti oscuri, le reticenze, i silenzi, le indagini carenti (i bossoli esplosi dai carabinieri scomparsi e le loro armi mai periziate), e il silenziamento della vicenda, inducono a pensare che l’atteggiamento tenuto dai diversi corpi dell’Arma sia stata la diretta conseguenza delle modalità con cui venne uccisa la Cagol. Con le sue dichiarazioni il brigatista Azzolini ha riempito uno dei tasselli mancanti di quella giornata, compiendo un passo chiarificatore verso la verità. A distanza di 50 anni i carabinieri sollevano ancora cortine fumogene, fuggendo le loro responsabilità. A cosa serve questo processo, a comminare i soliti ergastoli ai brigatisti, colpevoli a priori, o a cercare la verità fino in fondo sull’accaduto? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Prove fatte sparire per coprire la verità sull’omicidio di Mara Cagol
Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso di Paolo Persichetti da Insorgenze Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere» di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito scomparso dall’indagine. La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto meno conosciute ed applicate». I bossoli scomparsi Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso. Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone. In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…) Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era sentito». Un vuoto di mezz’ora
 Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo? Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad ora non hanno ricostruito questi momenti. Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili. L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi. Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra». Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per giunta in un’area ispezionabile. Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma sembra un po’ tardi per lamentarsene). La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il vero arcano del nuovo processo in corso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Processo Spiotta, la storia fa paura alla pubblica accusa e alle parti civili
Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà nei giorni successivi. Processo ribaltato Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili». In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua» e «oscura». La storia non deve entrare in aula Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini semmai è una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte. Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso. Un pm senza storia Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna, inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada. Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”». Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani. Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore giudiziario. Il consulente non verrà ascoltato Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra storia ma soprattutto una altro processo. da insorgenze.net > “Mara gridava ‘Non sparate’”     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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