Negli ultimi 10-15 anni abbiamo assistito a un allarmante aumento del numero,
della frequenza e della natura irregolare delle inondazioni in Pakistan. Quando
queste inondazioni colpiscono, causano un’immensa mortalità, morbilità e
sfollamenti su larga scala. Solo pochi anni fa, nel Sindh, migliaia di anni di
civiltà sono stati letteralmente spazzati via: moschee, templi, scuole,
ospedali, vecchi edifici e monumenti. Anche quest’anno, le inondazioni in
Pakistan hanno segnato un nuovo record. Da fine giugno 2025 a fine settembre, il
Pakistan è stato sommerso da inondazioni che hanno devastato le province di
Khyber Pakhtunkhwa, Punjab, Sindh e Gilgit-Baltistan, con oltre 1.000 morti, 3
milioni gli sfollati, e quasi 7 milioni di persone colpite.
Ad aprile 2025, inoltre, l’India ha sospeso unilateralmente la sua
partecipazione al Trattato sulle Acque dell’Indo del 1960, aggiungendo
incertezza a una situazione già critica. La decisione indiana di sospendere il
Trattato delle acque dell’Indo rappresenta un precedente storico: nonostante
decenni di tensioni e crisi diplomatiche, il trattato era sempre stato
rispettato da entrambe le parti.
L’agricoltura, settore vitale per l’economia pakistana, è in ginocchio. Migliaia
di ettari di terreni coltivati e 6.500 capi di bestiame sono andati perduti. I
danni economici totali sono stimati in decine di miliardi di dollari.
Come ricorda la giornalista Sara Tanveer in un suo recente articolo, il
paradosso più crudele è che il Pakistan, con una produzione di appena 2,45
tonnellate di CO2 per persona all’anno, contribuisce meno dell’1% alle emissioni
globali ma subisce le conseguenze più devastanti del cambiamento climatico. Due
paesi, Cina e USA, producono il 45% delle emissioni globali, e i primi 10 sono
responsabili di oltre il 70%. Eppure l’85% dei finanziamenti verdi va a questi
stessi 10 paesi.
Abbiamo chiesto a Sara Tanveer, scrittrice e giornalista free lance italo
pakistana, di parlarci della situazione attuale del Pakistan per quanto riguarda
le conseguenze della crisi climatica, e dei rapporti del Paese con India e
Afghanistan. Ascolta o scarica l’approfondimento.
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Le molte meteore dell’empireo costellato da fulgide stelle di leader
progressisti che si erigono a paladini dei più deboli ci rendono prudenti anche
nei confronti di una figura così fresca e spontanea come Zohran Mamdani, figlio
della regista indiana Mira Nair e di un docente ugandese, eletto sindaco della
più emblematica e contraddittoria metropoli al mondo; abbiamo sentito la
necessità di esprimere le nostre perplesse cautele con Giovanna Branca,
giornalista che ha seguito per “il manifesto” le elezioni per il municipio di
New York.
Abbiamo poi proseguito con risultati di elezioni più sanguinose, andando in
Tanzania con Elio Brando, africanista per l’Ispi, ne è scaturita una
interessante analisi sul paese che si riteneva immune dalla necessità di esibire
scontento e istanze di liberazione dal regime autocratico instaurato da Samia
Suluhu, subentrata nella democratura alla morte di Magufuli, perpetuando il
potere del Partito della Rivoluzione. Il numero di morti risultato dalla
repressione ancora a distanza di una settimana oscilla tra 700 e 3000 nel paese
che detiene una delle progressioni più ampie di sviluppo grazie alle sue
infrastrutture. Questo ha dato il destro al nostro interlocutore per inquadrare
quella economia nella regione.
Un terzo contributo alla trasmissione è stato assicurato da Giuliano Battiston,
che ci ha illustrato la situazione afgana a 4 anni dal ritorno dei talebani
mentre è in corso una guerra vera e propria a cavallo del confine tracciato da
Durand un secolo e mezzo fa, dividendo clan tra territorio pakistano e
territorio controllato da Kabul. Tra terremoti, gender apartheid, remigrazione
(9 milioni di profughi in Iran e PAkistan rischiano il rimpatrio), bombardamenti
e indifferenza occidentale si assiste a nuove relazioni internazionali tra il
potere dei talebani afgani e grandi potenze come Russia e India (motivo dei
dissapori con Islamabad)
ANOMALIA ZOHRAN?
Come nella cultura pop dei film di Mira Nair si alleano i più diversi bisognosi
anche nella squadra di suo figlio Zohran si è assistito a un successo derivante
dal concentramento di bisogni che sono stati finalmente nominati, ed è bastato
questo per travolgere l’establishment. Da ultimo persino Obama ci ha messo il
cappello democratico su un’operazione del tutto nata dal basso che ha potuto
contare sul moltiplicatore della rete social per ridicolizzare la tracotanza
menzognera dello strapotere trumpiano dal lato della narrazione che s’impone,
dando voce alla coalizione interclassista dei multimiliardari e dei deprivati
redneck razzisti per tradizione e cultura della America Profonda che odia
proprio i woke newyorkesi, i quali a loro volta rappresentano l’altro lato della
narrazione dell’establishment.
La vittoria di Zohran Mamdani non è ascrivibile al Partito democratico, che se
l’è intestata. Chi ha portato alle urne l’America avversa a Trump sono stati gli
argomenti condivisi da chi abita New York senza avere le risorse per
sopravviverci, non la struttura del partito, né le sue strategie.
Ma basta questo per collocare Zohran Mamdani in un circuito virtuoso di lotta
sociale, senza la superficialità populista delle promesse, anche se queste sono
lo specchio delle reali necessità per consentire la sopravvivenza dei
newyorchesi alla New York delle lobbies che hanno appoggiato Cuomo? E riuscirà
la squadra di avvocati subito schierata a salvarlo dallo strapotere di Potus? Un
po’ questo è il centro della nostra chiacchierata con Giovanna Branca che ha
seguito per “il manifesto” l’elezione per il sindaco della Grande Mela.
CATASTE DI CADAVERI SOSTENGONO LE INFRASTRUTTURE DI DAR ES SALAAM
Abbiamo sentito Elio Brando, perché ci eravamo lasciati il 18 ottobre con
Freddie del Curatolo reduce dall’aver appena insufflato il dubbio ad alti
funzionari governativi in una Dar es Salaam blindata che i giovani potessero
assumere come modello la Generazione Z dei paesi limitrofi, ottenendo una
risposta che non ammetteva repliche: «Qui non ne hanno bisogno». Avevamo
immaginato alludessero al fatto che la Tanzania è un paese in pieno sviluppo,
grazie alla collocazione strategica delle sue infrastrutture e dei suoi porti;
probabilmente era invece una risposta minacciosa, che alludeva all’apparato
repressivo connaturato al regime che Samia Suluhu Hassan ha ereditato dal
sanguinario Magufuli, di cui era vicepresidente.
E infatti già il 21 ottobre stesso si sono sollevate proteste con urne ancora
aperte e dichiarazione di elezione della presidente, fino a una insurrezione
stroncata con centinaia di morti, la cifra esatta delle cataste di cadaveri non
è ancora chiara e forse non si saprà mai, ma si parla di più di 700 morti.
Abbiamo preso spunto dalle violenze postelettorali in Tanzania per aprire una
finestra sulla regione e per cogliere se l’establishment avesse compreso quanto
una società in evoluzione rapida potesse ancora accettare dei giochetti della
vecchia politica e quanto conta la generazione Z negli equilibri dei paesi
africani più in sviluppo. Qui si innesca un’analisi dei movimenti di
contestazione diversi che si sono affacciati nella regione, a cominciare dal
Kenya per arrivare al Madagascar e ora in Tanzania, comparando le differenze tra
le istanze e le forme di lotta e la composizione sociale dei “ribelli” e invece
la composizione del dissenso e dell’opposizione nei paesi che compongono la
regione africana che si affaccia sull’Oceano indiano. E poi le modalità della
collaborazione tra i governi nella repressione in opposizione ai rapporti tra
contestatori. Allargando un po’ lo sguardo Elio Brando ci ha aiutato da un lato
a descrivere le compromissioni di potenze locali (Turchia, Sauditi, Emirates…
Israele), che occupano direttamente o sovvenzionano proxy war o gruppi jihadisti
e poi il coinvolgimento delle grandi potenze (Cina, Usa, Russia… India) per lo
più relativo a infrastrutture e sfruttamento di risorse attraverso corridoi
comunicativi e porti; dall’altro l’importanza per l’economia mondiale di siti
come i porti tanzaniani – Dar es Salaam in primis –, di infrastrutture come il
corridoio di Lobito e la risposta cinese corrispondente, ferrovie e
infrastrutture in generale. Dove il colonialismo parla più cinese.
ANCORA UNA GUERRA SULLA DURAND LINE
In guerra con il Pakistan ma diplomaticamente riequilibrati con India, Sauditi,
Emirates… Usa
Dall’ultimo vergognoso volo partito da Kabul nell’agosto del 2021 in Occidente è
stata messa la sordina sull’Afghanistan, ma forse questo è il frutto di come si
è sbagliato l’approccio, procedendo per preconcetti di cui si andava a cercare
una conferma, senza realmente guardare il panorama del paese: di questo Giuliano
Battiston ha discusso in un’intervista con un grande fotografo, Lorenzo Tugnoli
per “Alias” e poi ripreso su “Lettera22”.
Dopo la guerra, quella conclusa da Biden con la fuga precipitosa, bisogna
cambiare ulteriormente le lenti dell’ottica con cui illustrare il paese dopo 4
anni di nuovo con i talebani al potere tra terremoti, apartheid di genere,
povertà. E nei rapporti con l’esterno come si possono inquadrare le relazioni
con le potenze che hanno riconosciuto il paese: la Russia, ma anche l’India,
innescando così i conflitti con il Pakistan, con cui esplodono vere e proprie
guerre al confine della Durand Line su questioni relative al rifugio concesso ai
talebani delle famiglie pakistane del Waziristan (il Ttp), ma anche il rimpatrio
forzato dei 9 milioni di rifugiati afgani a Quetta, Islamabad, Karachi… o in
Iran. Una guerra che ha visto protagonisti Qatar e Turchia a intessere colloqui
di pace.
Il confine settentrionale tra Afghanistan e Pakistan è da tempo causa di
tensioni tra i due Paesi, in particolare in questa ultima settimana si sono
registrati scontri, bombardamenti e un'escalation durata più giorni.