La fabbrica RWM da anni attiva in Sardegna in una porzione di territorio, il
Sulcis, di proprietà della tedesca Rheinmetall, vedrà molto probabilmente il via
libera per il suo ampliamento. Una questione che riguarda molti aspetti: da
quello ambientale, al ricatto sul lavoro e all’occupazione, alla volontà di
contrapporsi alla complicità del nostro Paese con il genocidio in Palestina.
La fabbrica produce bombe, sistemi di “difesa” sottomarina e controminamento,
fra cui droni che vengono venduti a Israele. La presidente della Regione Todde,
già al centro di diverse bufere e opposizione dal basso, ha annunciato la
propensione al sì per il suo ampliamento durante – ironia della sorte – il
convegno nazionale organizzato dall’Arci a Cagliari per promuovere
collaborazione e pace nel Mediterraneo.
Questa decisione implicherebbe una sanatoria de facto per gli ampliamenti già
avvenuti negli anni precedenti, non autorizzati, e la Regione avrebbe così
l’opportunità di esprimersi su una Valutazione di Impatto Ambientale postuma.
Questa decisione è stata immediatamente contestata da parte dei comitati e delle
realtà territoriali sarde che si battono contro una politica che rende la
Sardegna zona di servitù militare ed energetica.
Questa domenica ci sarà una mobilitazione davanti a RWM organizzata dai comitati
locali contro la fabbrica, che da anni si mobilitano per la sua chiusura e i
comitati per la Palestina, tutti insieme per protestare contro il suo
ampliamento.
Ne parliamo con Lisa Ferreli, caporedattrice di Sardegna che Cambia, autrice
dell’articolo dal titolo Sardegna, via libera alle bombe. Rwm verso il sì della
Regione e i movimenti insorgono
Di seguito il comunicato del comitato sardo per la Palestina
𝑫𝑨 𝑪𝑯𝑬 𝑷𝑨𝑹𝑻𝑬 𝑺𝑻𝑨𝑰?
𝗖𝗢𝗥𝗧𝗘𝗢 𝗖𝗢𝗡𝗧𝗥𝗢 𝗟’𝗔𝗠𝗣𝗟𝗜𝗔𝗠𝗘𝗡𝗧𝗢 𝗗𝗘𝗟𝗟𝗔 𝗥𝗪𝗠 |
𝗥𝗘𝗚𝗜𝗢𝗡𝗘
𝑴𝑨𝑵𝑰𝑭𝑬𝑺𝑻𝑨𝑫𝑨 𝑪𝑶𝑵𝑻𝑹𝑨 𝑺’𝑨𝑴𝑴𝑨𝑵𝑵𝑰𝑨𝑫𝑨 𝑫𝑬 𝑺𝑨 𝑹𝑾𝑴 |
𝑹𝑬𝑮𝑰𝑶𝑵𝑬, 𝑫𝑨𝑬 𝑪𝑨𝑳𝑬 𝑷𝑨𝑹𝑻𝑬 𝑰𝑺𝑻𝑨𝑺?
Domenica 14 dicembre ore 10.30
Ritrovo alla Stazione Villamassargia
𝗟’𝗥𝗪𝗠 𝗻𝗼𝗻 𝗲̀ 𝘀𝘃𝗶𝗹𝘂𝗽𝗽𝗼, 𝗻𝗼𝗻 𝗹𝗮𝘀𝗰𝗶𝗮 𝗿𝗶𝗰𝗰𝗵𝗲𝘇𝘇𝗮
𝗶𝗻 𝗦𝗮𝗿𝗱𝗲𝗴𝗻𝗮.
Gli enormi guadagni volano fuori, in Germania, in Israele.
I pochi posti di lavoro sono nulla rispetto alle risorse sottratte, al vero
sviluppo che non viene promosso per costringerci ad un lavoro indegno.
𝗜𝗹 𝘃𝗲𝗿𝗴𝗼𝗴𝗻𝗼𝘀𝗼 𝘂𝗹𝘁𝗶𝗺𝗮𝘁𝘂𝗺 𝗶𝗺𝗽𝗼𝘀𝘁𝗼 𝗱𝗮𝗹 𝗧𝗔𝗥 alla
Regione Sardegna riguardo all’ampliamento abusivo della RWM, sta volgendo al
termine e nulla sembra trapelare dal palazzo del potere. Potrebbe sembrare un
buon segnale, eppure la realtà è più cruda.
Se la Regione non si pronuncia, lo Stato metterà una pezza con il
commissariamento. E questo significa sacrificare ulteriormente la nostra terra
sull’altare dello sfruttamento e della produzione bellica.
𝗗𝗼𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗽𝗿𝗲𝘁𝗲𝗻𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗲𝘀𝗶𝗱𝗲𝗻𝘁𝗲
𝗧𝗼𝗱𝗱𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗮𝗰𝗿𝗶𝗳𝗶𝗰𝗵𝗶 𝗹𝗮 𝗦𝗮𝗿𝗱𝗲𝗴𝗻𝗮 𝗮𝗱
𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗲𝘀𝘀𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗶.
Per questo il 14 dicembre non è una semplice data: è il momento della verità.
𝗦𝗲 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗳𝗲𝗿𝗺𝗶, 𝗱𝗲𝗰𝗶𝗱𝗲𝗿𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗻𝗼𝗶.
Decideranno che la Sardegna può essere sacrificata, sfruttata, militarizzata.
La Regione tentenna, Roma scalpita, la RWM si sfrega le mani. L’unico argine
reale siamo noi: la nostra presenza, la nostra voce, la nostra determinazione.
Ognuno conta.
Ogni persona presente farà la differenza. Ogni assenza sarà vantaggio per
l’altra parte.
𝗣𝗲𝗿 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗹 𝟭𝟰 𝗱𝗶𝗰𝗲𝗺𝗯𝗿𝗲 𝗱𝗼𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲
𝗺𝗮𝗿𝗲𝗮 𝗱𝗮𝘃𝗮𝗻𝘁𝗶 𝗮𝗶 𝗰𝗮𝗻𝗰𝗲𝗹𝗹𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗥𝗪𝗠.
Per difendere la Sardegna.
Per dire NO, forte e chiaro, prima che sia troppo tardi.
𝙄𝙡 14 𝙙𝙞𝙘𝙚𝙢𝙗𝙧𝙚 𝙤 𝙘𝙞 𝙨𝙞𝙖𝙢𝙤, 𝙤 𝙙𝙚𝙘𝙞𝙙𝙤𝙣𝙤 𝙘𝙤𝙣𝙩𝙧𝙤
𝙙𝙞 𝙣𝙤𝙞.
𝙀 𝙣𝙤𝙞 𝙘𝙞 𝙨𝙖𝙧𝙚𝙢𝙤. 𝙏𝙪𝙩𝙩𝙚 𝙚 𝙩𝙪𝙩𝙩𝙞.
> Comitato Sardo di Solidarietà con la Palestina
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Sono oltre 60 gli ospedali che si sono mobilitati in tutta Italia con flash mob
e presidi per la liberazione degli oltre 90 sanitari palestinesi detenuti
illegalmente nelle carceri israeliane. Un giornata organizzata in occasione
della data nazionale e internazionale di mobilitazione “La sanità non si
imprigiona”.
Un appuntamento che fa seguito a un percorso di mobilitazione da parte dei
medici e dei sanitari riuniti nella rete Digiuno per Gaza e Sanitari per Gaza e
che prevede nuove iniziative, in particolare nella richiesta di boicottaggio dei
medicinali TEVA.
Francesco, medico per Gaza e partecipante della Freedom Flottilla ne parla ai
nostri microfoni
Davide Zappalà di Fratelli d’Italia ha presentato un emendamento al piano
sanitario che prevede il ritorno all’elettroshock in Piemonte.
La più famigerata delle torture psichiatriche potrebbe essere utilizzata con i
“depressi gravi”. Oggi si chiama Tec e viene somministrata in anestesia. Una
scarica elettrica umanitaria. Peccato che i deficit cognitivi e di memoria che
ne derivano mostrano il fine disciplinare e non terapeutico di questa pratica.
Ne abbiamo parlato con Alberto del Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
Il Collettivo è autore di un libro Elettroshock edito da Sensibili alle foglie
Ascolta la diretta:
Milioni di dollari sono stati versati da Trump per deportare i migranti che
rastrellati dall’ICE nelle città statunitensi.
ESwatini, piccolo Paese dell’Africa meridionale, governata da Mswati III,
l’ultimo monarca assoluto del continente ha ricevuto 5,1 milioni di dollari
dagli Stati Uniti. La somma è stata versata al monarca perché accolga cittadini
di Paesi terzi espulsi dall’amministrazione Trump.
Human Rights Watch ha dichiarato già a settembre di aver visionato una copia
dell’accordo secondo cui il piccolo regno sarebbe disposto a accettare fino a un
massimo di 160 deportati dagli USA. La somma è stata elargita per potenziare la
“capacità di gestione delle frontiere e delle migrazioni” del Paese.
Oltre a eSwatini, altri governi africani, come Sud Sudan, Ghana e Ruanda hanno
accettato “migranti indesiderati” dagli USA.
Intanto Washington non ha esitato a inviare 7,5 milioni di dollari alla Guinea
Equatoriale, uno dei regimi più repressivi e corrotti al mondo.
Tragica ironia i soldi sono stati prelevati dal fondo istituito dal Congresso
per rispondere alle crisi umanitarie.
Ne abbiamo parlato con Cornelia Toelgyes di Africa ExPress
Ascolta la diretta:
Il 2024 è stato un anno record per l’industria bellica con ricavi globali pari a
600 miliardi.
L’industria delle armi non conosce crisi. Trainate dalle guerre in Ucraina e
Gaza, nel 2024 le vendite dei 100 maggiori produttori al mondo sono aumentate
del 5,9%, raggiungendo un fatturato di circa 589 miliardi di euro. A mettere
nero su bianco la crescita il nuovo rapporto dello Stockholm International Peace
Research Institute (Sipri).
Gli aumenti più significativi sono stati negli Stati Uniti e in Europa. Per la
prima volta dal 2018 le cinque aziende top a livello mondiale hanno aumentato
tutte i propri ricavi.
Gli Stati Uniti continuano a fare la parte del leone. Il fatturato totale delle
39 aziende statunitensi tra le prime 100 ha raggiunto 290 miliardi di euro, con
un aumento del 3,8%. Sei delle dieci aziende più grandi sono statunitensi, tra
cui le prime tre: Lockheed Martin, RTX e Northrop Grumman. Anche i produttori di
armi europei registrano un aumento delle vendite: dei 36 censiti, 23 hanno visto
il loro fatturato crescere, con un volume totale in aumento del 13% a 131
miliardi di euro, trainato dalla domanda dovuta alla guerra in Ucraina.
Nonostante le sanzioni i ricavi russi del settore degli armamenti continuano a
crescere. Le due aziende russe più importanti, entrambe nella Top 100, Rostec e
United Shipbuilding Corporation, hanno realizzato un fatturato di 27 miliardi di
euro, con un aumento del 23%.
Un altro punto saliente documentato dal rapporto è, per la prima volta, un
numero record di aziende mediorientali nella top 100: sono nove (erano sei
l’anno scorso) con un fatturato complessivo di 27 miliardi di euro, in aumento
del 14%. Tre aziende israeliane hanno rappresentato poco più della metà del
fatturato totale, per un valore complessivo di 14miliardi di euro, in crescita
del 14%.
Ne abbiamo parlato con Renato Strumia della Sallca Cub
Ascolta la diretta:
Nelle ultime settimane sono tanti i fatti di cronaca che raccontano di episodi
di violenza tra pari che riguardano i più giovani. Spesso l’argomento viene
affrontato male, in chiave stigmatizzante e razzista. Resta il fatto che questi
episodi sono il riflesso di problemi e contraddizioni reali, che non si possono
semplicemente ignorare. Per questo, abbiamo deciso di provare a sviluppare un
approfondimento sul tema, a partire da un insieme plurale di sguardi. In queste
prime interviste, andate in onda nelle ultime due settimane, ci siamo
confrontate con il giornalista Gabriel Seroussi e la psicologa Sarah Abd El
Monem.
Con Seroussi, autore del libro La Periferia vi guarda con odio (Agenzia X,
2025), abbiamo parlato della distorsione mediatica che viene alimentata in
Italia verso i giovani delle periferie. Distanziandoci da un discorso di
criminalizzazione, gli abbiamo chiesto di raccontarci, a partire dalla sua
esperienza e dal suo lavoro, il contesto di cui tenere conto quando parliamo di
episodi di violenza in situazioni di marginalizzazione. Ci racconta anche
dell’importanza della creazione di spazi di confronto collettivi, che permettono
di far fronte alle difficoltà circostanti a partire della propria identità e
diritti.
Abd El Monem, psicologa clinica con prospettiva transculturale a Milano, ha
condiviso informazioni di stampo più prettamente psicologico, dati di cui
raramente sentiamo parlare. Sulla base della sua esperienza con le giovani
generazioni, in particolare giovani con background migratorio, dipinge un quadro
in cui non sempre i servizi di sostegno sono accessibili e adeguati. Questo in
situazioni in cui i giovani sono spesso costretti a crescere troppo in fretta e
fanno fatica a sentirsi riconosciuti nelle loro identità plurali, elementi che
possono generare, tra le tante cose, un senso di allerta costante.
Post in aggiornamento con, prossimamente, l’aggiunta di ulteriori interviste e
prospettive.
In queste settimane si sono verificati nuovi bombardamenti in Libano, in
particolare nel sud, mentre si registrano droni che sorvolano la zona e che
hanno lanciato esplosivi in diverse città come nel caso di Aitaroun, con la
scusa di voler colpire Hezbollah. Tutto questo si inserisce in un quadro
generale di un cosiddetto percorso di normalizzazione dei rapporti tra Libano e
Israele il quale include l’abbandono delle armi da parte di Hezbollah e
pressioni internazionali da parte degli Usa. In questo stesso contesto si
inserisce la visita del papa di questi giorni.
Di queste dinamiche ma anche del sentire della popolazione e delle anime che si
muovono nella società a fronte di questi passaggi abbiamo parlato con Agnese
Stracquadanio, reporter indipendente ora in Libano.
Il 28 ottobre scorso circa 140 persone, di cui 4 agenti, sono state uccise e un
centinaio sono state arrestate nel corso di un assalto condotto da 2500 membri
della Polizia Civile e della Polizia Militare brasiliane, nelle favelas di
Alemão e Penha a Rio de Janeiro. Gli agenti si sono serviti anche di elicotteri
e mezzi blindati.
Su numerosi cadaveri, alcuni con le mani legate, sono stati rinvenuti i segni di
colpi esplosi alle spalle o alla nuca. Oltre alle numerose esecuzioni
extragiudiziali, i testimoni parlano di perquisizioni ed irruzioni nelle
abitazioni private realizzate senza mandato, di torture, di colpi sparati dagli
elicotteri, di feriti morti dissanguati a causa dello stop da parte degli agenti
all’intervento dei sanitari.
Nelle proteste e manifestazioni organizzate da movimenti e associazioni e dagli
abitanti delle favelas di Rio e di altre città, sono comparsi striscioni con la
scritta “Favela Lives Matter”. Tutti denunciano «una violenza sistemica e
razzista» e puntano il dito soprattutto contro le autorità locali, allineate con
l’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro.
All’ex capo di stato, condannato a settembre a 27 anni di reclusione per il
tentato golpe del gennaio 2023, è strettamente legato Claudio Castro,
governatore dello stato di Rio de Janeiro e membro del “Partito Liberale”
dell’ex presidente di estrema destra.
Questa strage è salita agli onori delle cronache per l’enorme dispiegamento di
forze e per l’elevato numero delle vittime, ma la violenza della polizia nelle
aree dove vive la popolazione più povera e razzializzata è un fatto “normale”.
Ne abbiamo parlato con Simone Ruini
Ascolta la diretta:
Piogge torrenziali, manifestazioni oceaniche, la pressione delle comunità
indigene che ha attraversato i corridoi dei negoziati, e persino un incendio tra
i padiglioni; un susseguirsi di eventi esterni ha accompagnato il vertice.
Quelle fiamme divampate nei padiglioni non sono state altro che l’annuncio di
una fumata nera che sarebbe arrivata poche ore dopo.
Il documento finale della COP, la Mutirao decision, denunciava che il testo in
discussione era scritto di fatto dai PetroStati, grazie alle pressioni di Arabia
Saudita, Stati Uniti e Russia.
Nonostante il nome simbolico del documento finale, Mutirao, che significa lavoro
comunitario per conseguire un bene collettivo, questo testo farà il bene di
pochi lasciando liberi i paesi ricchi di continuare a devastare.
Nel documento finale non c’è alcun riferimento ai combustibili fossili, non
vengono neppure menzionati.
Il mondo si è congedato da Belém senza un piano per abbandonare gas, petrolio e
carbone tornando indietro rispetto a quanto deciso a Dubai nel 2023.
Le proteste e e danze indigene diventano una mera operazione i green whashing
dell’amministrazione brasiliana.
Ne abbiamo parlato con Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto
Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di
Scienze Polari del CNR.
Ascolta la diretta:
L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo del Comitato Militare della Nato lo ha
detto senza mezzi termini: «Dovremmo essere più proattivi e aggressivi. Un
attacco preventivo potrebbe essere considerato un’azione difensiva, ma
attenzione: è lontano dal nostro abituale modo di pensare e comportarci». Si
tratta, ha chiarito Dragone, di valutazioni, al momento. Ma valutazioni che solo
a un anno fa la dottrina militare occidentale e le leggi dei paesi dell’Alleanza
precludevano. «Stiamo valutando di agire in modo più aggressivo e preventivo,
piuttosto che reagire».
Lo scontro diretto tra Russia e Nato è sempre più vicino
Ne abbiamo parlato con Antonio Mazzeo
Ascolta la diretta: