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Una lettera di Luca sulla resistenza palestinese
Riceviamo e diffondiamo: Per me la resistenza palestinese non ha il solo merito di non demordere anche davanti alla più brutale delle oppressioni, svelandoci la forza di un popolo fiero che si oppone alle cause della sua miseria, ma ha anche quello di aver contagiato centinaia di migliaia di persone in tutto il pianeta, dando vita ad una mobilitazione internazionale dalle varie forme ed espressioni. Per chi, come me, è cresciuto nel nuovo millennio, gli esempi simili scarseggiano. A fianco, una situazione geopolitica angosciante, tra conflitti aperti, continui sconvolgimenti e l’opzione di una guerra nucleare dietro l’angolo. E così inizia a scricchiolare anche il nostro privilegio europeo, gradualmente fiaccato da un costo della vita sempre più proibitivo, mentre ci si consola con l’idea, sbiadita anch’essa, che “tanto qui le bombe non arriveranno mai”. Anche qui, nello Stato italiano (sotto il quale siamo costretti a vivere pur essendo sardi) il quadro non è meno preoccupante. Se da un lato le condizioni della vita peggiorano e i nostri territori sono sempre più esposti alla predazione delle multinazionali (energetiche, di estrazione di materiali e così via) dall’altro le porte del carcere si aprono sempre più facilmente per chi decide di organizzarsi ed opporsi. La Sardegna ne è esempio lampante: alta disoccupazione, stipendi da fame, scarsa assistenza sanitaria. Ad aumentare sono solo i progetti di estrattivismo energetico, gli aerei militari sulle nostre teste e le sezioni speciali nelle prigioni. E non dimentichiamoci che cosa significa, in un periodo di conflitto come quello che stiamo attraversando, vivere circondati da basi militari. Non solo per l’intensificarsi delle attività, e questi ultimi giorni ne sono una conferma, ma anche per la consapevolezza di essere sempre un “buon bersaglio”. Io, che attualmente mi trovo agli arresti domiciliari per aver partecipato ad un corteo a Cagliari in solidarietà al popolo palestinese e contro l’occupazione militare in Sardegna, sono accusato proprio di alcuni dei reati (resistenza, lesioni e minacce a pubblico ufficiale) per i quali il decreto sicurezza prevede un aumento delle pene. Una sorte che temo toccherà a tanti e tante. Una sorte inevitabile per chi decide di non tacere davanti ai soprusi e alle imposizioni. Mando un saluto a Tarek, con il quale ho orgogliosamente condiviso la piazza del 5 ottobre a Roma, ad Anan, Alì e Mansour, che sulla loro pelle pagano il prezzo del servilismo italiano nei confronti dello Stato d’Israele e a tutti i giovani e le giovani che in giro per il mondo rischiano la propria libertà, per la libertà del popolo palestinese e per una vita diversa. E un abbraccio fraterno a Paolo Todde, rinchiuso nel carcere di Uta (Cagliari), in sciopero della fame dall’8 maggio per protestare contro le condizioni detentive.Sempri ainnantis Sardinnia libera Palestina libera Casteddu, 23 giugno 2025 Luca
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Finché ci sarà uno Stato… Presa di posizione sulla guerra Israele-Iran
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: iran israele definitivo-1 FIN QUANDO CI SARA’ UNO STATO NON CI SARA’ MAI PACE Presa di posizione dell’assemblea “Sabotiamo la guerra” sulla guerra Israele-Iran L’attacco sferrato da Israele all’Iran la notte tra il 12 e il 13 giugno rappresenta una svolta drammatica verso la mondializzazione della guerra. Dopo oltre tre anni di guerra tra NATO e Federazione Russia in Ucraina, dopo due anni di genocidio in corso a Gaza, le forti tensioni in Asia Occidentale sfociano in una nuova guerra fra potenze regionali, entrambe in possesso di armi altamente tecnologiche, entrambe dotate di una industria nucleare, e che si è immediatamente aperta con uno spregiudicato quanto criminale attacco proprio contro le strutture nucleari iraniane. Da una parte, vi è l’Iran che non dispone di armi atomiche né esistono prove che le stia costruendo e che si sottopone ai controlli delle agenzie internazionali. Dall’altra, Israele, che possiede armi atomiche senza dichiararle, non rispetta trattati né accetta controlli e compie abitualmente attacchi militari senza porsi alcun limite etico. Se il diritto internazionale e le organizzazioni che lo rappresentano hanno avuto la funzione di garantire l’ordine mondiale, cioè precisi rapporti di forza e di dominio tra gli Stati, oggi, il fatto che vengano messi in discussione, in primis da Israele e dagli Stati uniti, è un chiaro segnale della crisi globale, della rottura dei precedenti equilibri e di ritorno alla guerra come mezzo di risoluzione delle rivalità interstatali. L’Iran è stato attaccato poco dopo essersi sottoposto a controlli dei suoi impianti nucleari e durante le trattative con gli Stati Uniti in merito all’arricchimento dell’uranio. Risulta evidente l’intento di Israele di fare fallire le trattative e ogni ipotesi di risoluzione politica dei dissidi. I Paesi alleati hanno immediatamente operato per respingere il contrattacco iraniano, abbattendo decine di razzi e droni, mentre si corre il serio pericolo di una partecipazione diretta dei Paesi occidentali (a partire dagli USA) nei bombardamenti. Il che rappresenterebbe un’ulteriore drammatica precipitazione della crisi. Gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni hanno condotto la cosiddetta “guerra infinita”, una serie ininterrotta di guerre, attacchi militari e operazioni di destabilizzazione (dall’attacco all’Iraq al cambio di regime in Siria). Attualmente i loro obiettivi si espandono su diversi fronti: quello Russo, quello dell’intera Asia Occidentale e, in prospettiva, quello dell’Indo-Pacifico. I conflitti in corso si stanno estendendo e ne nascono di nuovi, in una tendenza verso la guerra mondiale che allo stato dell’arte appare inarrestabile. Sullo sfondo si profilano tensioni sia politiche che militari fra gli Stati Uniti e la Cina. Nel mentre, all’interno dei Paesi occidentali e in particolar modo proprio all’interno della potenza dominante nordamericana, sono in corso gravissime crisi sociali che talvolta sembrano assumere i connotati della guerra civile. Sappiamo che storicamente gli Stati risolvono le loro più gravi crisi interne con la guerra. Tornando alle vicende di questi giorni. La responsabilità di questa nuova e gravissima esclation risiede nell’iniziativa criminale dello Stato di Israele. Un’entità fondata sul colonialismo di insediamento, sul suprematismo razzista, sul fanatismo religioso, sulla militarizzazione della società, avanguardia nelle tecnologie di controllo e nella sua sperimentazione sulla popolazione palestinese colonizzata, deportata e sterminata. Nell’azione del 7 ottobre 2023, fra le varie contraddizioni che ha aperto, c’è sicuramente quella di aver smascherato il vero volto di questa entità. Israele sta mettendo in atto un genocidio, ma non riesce a sconfiggere la resistenza di un popolo, contraddizione che prova a sublimare rilanciando con sempre nuove avventure: dall’invasione del Libano alle innumerevoli provocazioni anche a carattere terroristico, fino agli eventi di venerdì notte. Bisogna quindi ribadire con forza che a Gaza è in corso un genocidio: dobbiamo fare in modo che questa nuova guerra non serva a nasconderne il compimento. Israele è, da un lato, la punta di lancia dell’imperialismo occidentale e l’attore che da decenni svolge il lavoro sporco per conto degli Stati Uniti e dell’Europa; contemporaneamente, però, la sua leadership politica fuori controllo è in grado di condizionare a suo vantaggio le politiche delle potenze occidentali. I nostri governanti sono pienamente corresponsabili delle atrocità commesse da Israele, senza il sostegno di queste potenze Israele non potrebbe condurre le proprie avventure militari e forse nemmeno sopravvivere. L’opposizione intransigente al progetto sionista non ci porta però a sostenere la repubblica islamica dell’Iran. Una potenza regionale, con una oligarchia di petrolieri e un’industria, anche militare, molto sviluppata. Non parliamo “semplicemente” di un’odiosa teocrazia, che tortura e impicca gli oppositori e opprime in particolar modo le donne, elemento che ama sottolineare la propaganda liberale occidentale. Parliamo di un regime che mette il suo potere oscurantista al servizio della propria borghesia per reprimere nel terrore le lavoratrici e i lavoratori. Si pensi, per fare un esempio fra i tantissimi che potremmo citare – che in qualche modo ci parla tanto della misoginia quanto del classismo all’interno del regime – al caso della sindacalista Sharifeh Mohammadi, condannata a morte per la sua attività di coordinamento con gli scioperi radicali che sempre più spesso negli ultimi anni hanno attraversato il Paese. Dal 2005 oltre 500 sindacalisti sono stati arrestati, imprigionati, o in alcuni casi condannati a morte ed espulsi per aver creato un’organizzazione sindacale indipendente e per aver svolto attività sindacali nel quadro degli accordi e degli standard internazionali sul lavoro. In una guerra fra tali odiosi regimi, gli unici eroi sono i disertori. Come anarchici e rivoluzionari ci auguriamo la caduta del governo teocratico iraniano, un regime oppressivo che è sorto soffocando nel sangue una generazione di compagni rivoluzionari. Allo stesso tempo sappiamo che un regime deve cadere sotto i colpi dell’insurrezione autenticamente popolare, mentre i cambi di regime progettati e attuati dai capitalisti occidentali, come la storia recente insegna, non fanno che sostituire un oppressore con un oppressore ancora più feroce e asservito alle potenze straniere, trasformando interi paesi in inferni sulla terra. Tenendo presente tutto ciò, invitiamo tutti i rivoluzionari e le persone di buona volontà a guardare con gli occhi ben aperti a un possibile sommovimento in Iran (che è al momento il principale obiettivo strategico di Israele), stando ben attenti a distinguere il grano dal loglio e a non abboccare a quelle false flag che sono da oltre un decennio le principali armi del soft power occidentale per corrompere e cooptare il dissenso, portandolo sul terreno altamente compatibile dei “diritti” liberali. In ogni caso, se anche si producesse un autentico moto di classe (non impossibile in un Paese in cui gli ayatollah sono andati al potere incarcerando e impiccando i rivoluzionari), questo non dovrebbe spostare di un millimetro la nostra opposizione intransigente al Sistema-Israele e a tutto l’imperialismo occidentale che lo nutre. In generale, in una guerra tra Stati, tanto più se questi sono potenze regionali con importanti alleati internazionali, gli oppressi non hanno alleati né amici tra i governanti, ma sono solo carne da cannone per le loro sporche guerre. Convinti che fin quando ci sarà uno Stato non ci sarà mai pace, la nostra posizione rimane quella internazionalista: contro ogni Stato, a partire dal nostro. Quindi, dal nostro lato del fronte, non vogliamo sottacere le responsabilità del governo e dei padroni italiani, che hanno le mani sporche del sangue palestinese. Non possiamo dimenticare che la marina militare italiana dirige l’operazione Aspide, coordinando una coalizione a cui partecipano sette Paesi dell’Unione Europea: il compito di questa missione è contrastare l’azione yemenita che, attaccando le navi, è riuscita a lungo a bloccare un’importante via di comunicazione commerciale e a recare un fortissimo danno all’economia mondiale, mettendo in atto una delle più efficaci forme di sostegno e solidarietà alla popolazione di Gaza. Il governo italiano offre a Israele un appoggio politico incondizionato. L’esercito italiano e quello israeliano sono sempre più integrati, i militari si addestrano reciprocamente, l’industria bellica italiana è il terzo esportatore verso Israele (dopo Stati Uniti e Germania), mentre l’Italia compra dall’alleato sionista sistemi d’arma ad alta tecnologia. Finanche le amenità del Bel Paese sono uno dei luoghi prescelti da Israele per la “decompressione” dei propri militari dopo i combattimenti. I servizi segreti italiani condividono informazioni e tecnologie con gli apparati israeliani, come dimostra da ultimo il caso Paragon. Non dimentichiamo peraltro come la magistratura italiana sia schierata a supporto della repressione israeliana. Come dimostra lo scandaloso processo in corso all’Aquila contro Annan Yaeesh che vorrebbe far passare la resistenza armata palestinese, legittima anche per il diritto internazionale, per terrorismo. L’Italia supporta la logistica militare di Israele, come avviene con l’approdo nei porti italiani, ad esempio delle navi ZIM, e la ricerca tecnologica finalizzata alla supremazia militare, come avviene in numerosi atenei. Ormai nei mezzi di comunicazione di massa italiani è quasi impossibile ricevere informazioni che non siano sfacciata propaganda di guerra. Questi mezzi di comunicazione sono parte integrante della macchina bellica, affermazione che è rafforzata dalla considerazione che nell’attuale strategia di guerra occidentale sempre più frequentemente lo spettacolo determina le scelte sul campo. Nonostante una propaganda martellante gli sfruttati sono generalmente contrari alla guerra, in particolare il genocidio di Gaza ha profondamente scosso l’opinione pubblica; ma non basta una ribellione delle coscienze. Peraltro la classi più povere delle società occidentali stanno già pagando a caro prezzo il costo della guerra: dall’inflazione alla repressione. Di recente, il capo della NATO Rutte ha affermato che se gli europei non vogliono tagliare la loro spesa sanitaria a favore di quella militare (l’obiettivo dichiarato è di raggiungere il 5% del PIL!) allora dovranno imparare a parlare russo. D’altro canto, le politiche repressive sempre più efferate dei nostri governanti, di cui il pacchetto sicurezza di recente approvazione (dove si reprimono i blocchi stradali, i picchetti sindacali, le proteste in carcere, anche in forma pacifica, e si introduce il cosiddetto “terrorismo della parola”) è soltanto il più recente e probabilmente non definitivo approdo, vanno lette a tutti gli effetti come delle vere e proprie politiche di guerra, anche alla luce di quelle tensioni sociali di cui si faceva cenno. Nei prossimi mesi sarà importante per anarchici e solidali saper collegare la resistenza contro questa offensiva (così come la solidarietà con i nostri compagni in varie forme perseguitati) alla lotta complessiva contro la guerra, di cui queste operazioni sono la manifestazione sul fronte interno. La propaganda sempre più faziosa e pervasiva, il cablaggio tecnologico delle facoltà critiche, le sconfitte storiche del movimento operaio, una certa predilezione per l’autoisolamento da parte delle minoranze agenti, al momento pesano sul senso di impotenza e rassegnazione. Lo stesso livello tecnologico della guerra guerreggiata – si pensi al confronto aeronautico e balistico tra Israele e Iran, per non parlare delle tecnologie messe in campo da NATO e Russia in Ucraina – spinge verso un sentimento di ineluttabilità, nell’impossibilità per le umane forze degli sfruttati di fare qualcosa per fermarli. Eppure la variante umana e di classe è determinante. Sono le braccia dei portuali a caricare le armi sulle navi dirette a Israele: quelle braccia, come ci hanno mostrato in Marocco, a Marsiglia, a Genova, possono decidere di fermarsi. Sono i corpi dei proletari russi e ucraini a venire gettati nelle trincee, a massacrarsi vicendevolmente per gli interessi delle classi dirigenti russe e statunitensi (mentre Putin e Trump dialogano amabilmente al telefono); eppure quei corpi possono disertare, e lo fanno a decine di migliaia. La resistenza armata del popolo palestinese, che non ha amici tra le grandi potenze, riesce con la propria volontà e la propria azione ad opporsi ad una delle più terribili e avanzate macchine belliche presenti sula terra. Israele ha un dominio tecnologico esorbitante, eppure vediamo come i combattenti palestinesi riciclano le bombe inesplose del nemico per farne degli ordigni artigianali. La fantasia degli oppressi non conosce confini. E gli oppressi, come diceva Errico Malatesta, sono sempre in condizione di legittima difesa, i mezzi da adoperare, purché coerenti con i fini dell’uguaglianza e della libertà per tutti gli esseri umani, sono solo una questione d’opportunità. Dal nostro lato dei molteplici fronti, lottiamo per la disfatta del nostro campo: per la sconfitta della NATO, per la distruzione del sionismo. Trasformiamo la guerra dei padroni in guerra contro i padroni! Assemblea “Sabotiamo la guerra”
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In primo piano
The TRUMAN Show. L’università di Trento collabora anche con Israel IBM
Non c’è pace per il rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian. Dopo che l’Assemblea trentina in solidarietà alla resistenza palestinese è andata a cantargliele chiare sulle sue false dichiarazioni in merito all’interruzione dei rapporti con le università israeliane, una chiara denuncia arriva adesso direttamente da docenti e ricercatori della stessa università: l’ateneo di Trento collabora, all’interno di un progetto chiamato “Truman”, con la divisione israeliana di IBM (IBM! L’azienda che ieri forniva le sue schede perforate per i lager nazisti, e che adesso fornisce i suoi sistemi informatici allo Stato genocida d’Israele!). Qui le puntate precedenti: https://ilrovescio.info/2025/06/04/trento-lo-sciopero-per-la-palestina-stana-il-magnifico-rettore-deflorian/ https://ilrovescio.info/2025/06/11/luniversita-trentina-e-la-guerra-giu-la-maschera-deflorian/ Qui un articolo tratto da un giornale locale su quest’ultima vicenda, contenente svariate informazioni sul ruolo di IBM nell’apartheid e nel genocidio dei palestinesi: https://www.iltquotidiano.it/articoli/nuova-collaborazione-tra-luniversita-di-trento-e-unazienda-israeliana-scoppia-la-polemica/ Qui un testo dell’Assemblea in solidarietà alla resistenza palestinese di Trento, aggiornato a quest’ultima “scoperta”: DEFLORIAN PARLA MA TACE SULLE COLLABORAZIONI IN CORSO A quasi due anni dal suo inizio, l’enormità del genocidio a Gaza è diventata innegabile. In questo frangente rompe il silenzio dietro cui si era trincerato il rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian. Con un editoriale per il giornale online Unitrento Mag, sulla spinta del partecipato corteo arrivato sotto al Rettorato il 30 aprile in occasione dello sciopero provinciale contro il genocidio, Deflorian smentisce categoricamente le accuse mosse a lui e all’Ateneo di complicità col genocidio («aberranti calunnie»). Al contrario ci informa che l’Ateneo è «per la Palestina» e che «ha cercato di sostenere concretamente il popolo palestinese». In che modo? Fornendo «supporto alla didattica universitaria da remoto», ovviamente «finché è stato possibile», istituendo un dottorato sui “Peace Studies” e promuovendo «incontri sul tema della pace». Le collaborazioni con le «istituzioni di ricerca e formazione israeliane», continua Deflorian, sono al momento inattive, anche se lui spera di «poter[le] riprendere in futuro». E in ogni caso ci rassicura, si è sempre trattato di «collaborazione culturale e scientifica su temi di pace». Probabilmente Deflorian, così preso dagli impegni del suo ruolo, saranno sfuggite alcune di queste collaborazioni. Facile scordarsi di un progetto dal nome “Safe U-Comm”, per lo sviluppo di comunicazioni subacque in ambito militare, portato avanti da ricercatori Italia, Canada, Regno Unito e per l’appunto Israele, con il supporto della NATO. Un progetto che ha visto coinvolto per Trento il Manta Lab del Disi (Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione) e che si è concluso nel 2024, nel pieno dei bombardamenti su Gaza. Uno dei sei progetti che vedono coinvolte istituzioni trentine di cui si trova traccia nel portale dell’Università di Haifa. Ma si potrebbe dire che il passato è passato, bisogna guardare all’oggi e al futuro. E guarda un po’, oggi il professor Paolo Casari del Disi che si occupava di “Safe-U-Comm” dirige un altro progetto, SHIELD, sempre sulla sicurezza militare delle comunicazioni sottomarine, sempre coi finanziamenti NATO, questa volta con la partecipazione di cinque paesi: Italia, Canada, Regno Unito, Croazia e… Israele! Un progetto quello di SHIELD iniziato a marzo 2025 e che si concluderà nel febbraio 2028 (un informazione visibile ad oggi sul sito del Manta Lab). Mentre inizierà il 1° luglio un altro progetto che coinvolge il Disi: TRUMAN, legato allo sviluppo dell’IA, di cui è responsabile Fausto Giunchiglia e che ha tra i partner IBM Israel. La presenza di IBM Israel, che fornisce tecnologie di schedatura funzionali al controllo dei palestinesi e collabora attraverso una sussidiaria con l’esercito israeliano, ha fatto sì che stia circolando tra i dipendenti di Unitn una raccolta firme per chiedere lo stop al progetto. Deflorian lo ha detto anche a Casari e a Giunchiglia che non ci sono collaborazioni tra Unitn e l’accademia israeliana? Anche questi progetti rientrano nei «temi di pace» di cui scrive Deflorian? Ma, lasciando stare i singoli progetti – di cui evidentemente il rettore non è informato – ci sono vari dati di fatto che consolidano l’immagine dell’Università come “luogo di guerra”, su cui Deflorian elegantemente sorvola nel suo editoriale. Non solamente la sua personale partecipazione a MedOr, fondazione “culturale” di Leonardo, da cui è uscito in sordina proprio dopo le proteste. Si tratta più in generale della presenza dentro l’Ateneo di Leonardo stessa e di altre aziende belliche (Iveco Defence, Fincantieri…). Aziende che finanziano e partecipano ai programmi di dottorato, che presenziano agli eventi di orientamento post-laurea come il Career Fair, che sponsorizzano il Festival dell’Economia co-organizzato da Unitn. Contro questa presenza ci sono stati negli ultimi anni presidii, cortei, scioperi e anche due occupazioni dell’università. Un’opposizione portata avanti da più realtà, da tutti e tutte coloro che non hanno voluto restare testimoni passivi di un genocidio e che come gesto concreto hanno deciso di andare a puntare il dito sulle collaborazioni tra Occidente e colonialismo d’insediamento israeliano. Troppo comodo, come fa nel suo testo Deflorian, dire che lui e l’Ateneo sono colpevoli al pari di tutti delle «tragedia» in atto: in questi due anni c’è stata certamente «l’ignavia» di chi non ha fatto niente, ma soprattutto l’aperta di complicità di chi ha continuato a fare quello che faceva prima e ha ostacolato chi cercava invece di fare qualcosa. Le istituzioni europee, italiane e trentine sono attori di questa tragedia nella misura in cui hanno instaurato legami e continuano ad averne con il colonialismo d’insediamento israeliano. Se Unitn appende teli bianchi per coprire le proprie responsabilità, bisogna invece continuare a scrivere nero su bianco sugli striscioni che Unitn continua a essere complice di genocidio e un ateneo che va alla guerra. Deflorian vuole che si smetta di associare il suo nome e quello dell’Università di Trento al genocidio e alla guerra? Si adoperi allora per la cessazione immediata di tutti i progetti e le collaborazioni tra Unitn e Israele, nonché per l’uscita di tutte le aziende belliche dai dipartimenti, fornendone prove ben più solide delle sue fumose dichiarazioni. Mentre lo Stato israeliano annega nel sangue che ha versato e, attaccando l’Iran, si adopera per arrivare a una guerra mondiale, riprendiamo con forza l’opposizione alle collaborazioni trentine col genocidio e colla guerra, come forma concreta di solidarietà alla resistenza palestinese e come opposizione al riarmo! 16 giugno 2025 Assemblea di solidarietà con la resistenza palestinese In pdf: Risposta a Deflorian RIVISTO  
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Stato di emergenza
Trento: lo sciopero per la Palestina stana il “magnifico rettore” Deflorian
In occasione dello sciopero generale contro la guerra e in solidarietà con gli oppressi palestinesi,  proclamato da alcuni sindacati di base in tutta la Provincia di Trento per lo scorso venerdì 30 maggio, nella mattinata dello stesso venerdì si è svolta a Trento una partecipata e vivace manifestazione, conclusasi sotto il Rettorato di via Calepina con numerosi interventi (anche da parte di studenti medi e universitari e di una ricercatrice) che esigevano, in particolare, l’immediata interruzione delle collaborazioni tra l’Università di Trento e gli atenei israeliani, e la fine di ogni ricerca bellica o funzionale alla guerra. Che a esprimersi contro le complicità di UniTn e Fondazione Bruno Kessler con guerra, colonialismo e genocidio non siano state solo delle presunte “frange minoritarie”, deve aver molto infastidito la dirigenza universitaria, tant’è che dopo 20 mesi di contestazioni anche interne all’ateneo e di silenzio quasi ininterrotto da parte dei contestati, il “magnifico rettore” Flavio Deflorian prende finalmente la parola (e coglie l’occasione per dare di “fascisti” ai suoi contestatori). Di seguito l’intervento del cosiddetto Magnifico e la puntuale replica dei sindacati di base che hanno chiamato lo sciopero, e che adesso sfidano il rettore a un confronto pubblico. https://mag.unitn.it/editoriali/121400/per-la-palestina-e-l-antifascismo https://www.agenziagiornalisticaopinione.it/opinionews-tn-aa/cub-e-sbm-trento-replica-al-rettore-unit-deflorian-noi-la-riteniamo-moralmente-complice-del-primo-genocidio-automatizzato-della-storia-dellumanita/#google_vignette
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Stato di emergenza
[it, fr] E allora… taglio! Comunicato sul sabotaggio di impianti elettrici in Costa Azzurra
Ringraziando chi l’ha fatta e ce l’ha inviata, diffondiamo la traduzione di questo interessante comunicato di “due bande anarchiche” passate all’azione. Qui il testo originale: https://attaque.noblogs.org/post/2025/05/25/communique-du-sabotage-contre-des-installations-electriques-sur-la-cote-dazur/ Questa la traduzione: TAGLIO_!_Comunicato_del_sabotaggio_contro_gli_impianti_elettrici
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Azioni
Babele
Una repubblica affondata sulla guerra, un governo complice di un genocidio. Manifestazione a Bolzano il 2 giugno
Riceviamo e diffondiamo: BOLZANO – 2 GIUGNO H 9 PIAZZA DOMENICANI MANIFESTAZIONE CONTRO IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE   UNA REPUBBLICA AFFONDATA SULLA GUERRA   UN GOVERNO COMPLICE DI UN GENOCIDIO   Il 20 maggio Israele ha iniziato l’operazione militare “Carri di Gedeone” ossia la soluzione finale della questione palestinese. L’obiettivo dichiarato pubblicamente dal terrorista di Stato Netanyahu è quello di occupare in maniera permanente la Striscia di Gaza e costringere i palestinesi a lasciare la propria terra, resa inadatta alla vita dopo 20 mesi di bombardamenti quotidiani che hanno sterminato i palestinesi e devastato tutte le infrastrutture civili e il sistema sanitario. Da oltre due mesi a Gaza non entrano cibo e medicine, numerosi bambini e anziani sono morti di fame o per le conseguenze della malnutrizione. Innumerevoli sono i palestinesi morti per mancanza di cure e medicine. La salute psichica dei gazawi é compromessa. Nei lager israeliani decine di migliaia di prigionieri palestinesi sono vittime di torture terrificanti, spesso fino alla morte. Sono oltre 70.000 i palestinesi sterminati dai sionisti, fra di essi almeno 20.000 bambini, una cifra che delinea come quello a Gaza sia un infanticidio di massa senza precedenti.   Come ha scritto Yousef Hamdouna, il genocidio di Gaza rappresenta un momento cruciale di trasformazione nell’approccio alla questione dei popoli sottoposti a occupazione. L’obiettivo di Israele è disgregare la società palestinese, ricostruendola secondo le proprie condizioni. L’uso della fame come arma non può essere compreso se non come parte del più grande esperimento di ingegneria sociale violenta condotto su un intero popolo, attuato attraverso fasi precise e pianificate. In questo quadro la fame non è solo uno strumento di sottomissione, ma un mezzo con cui Israele intende riscrivere la struttura psicologica e sociale della società palestinese spostandone le priorità: dal pensiero rivolto alla liberazione collettiva al pensiero rivolto alla sopravvivenza individuale a qualunque costo: un corpo senza anima, disposto ad accettare di sopravvivere senza alcuna prospettiva politica e senza diritti.   Mentre il Genocidio del popolo palestinese procede in un bagno di sangue quotidiano, un sondaggio condotto dalla Pennsylvania State University rileva come il 47% degli israeliani approvi lo sterminio dei palestinesi mentre l´82% appoggia la loro deportazione. Il primo genocidio automatizzato e in diretta televisiva della storia é normalizzato democraticamente al punto che in Israele é diventato un argomento di discussione parlamentare. Ci sono infatti ministri che organizzano convegni per la colonizzazione di Gaza mentre altri deputati affermano, senza troppi problemi, la necessitá di sterminare i bambini palestinesi. Ma tale barbarie non sarebbe stata possibile senza la costante disumanizzazione del popolo palestinese e della sua Resistenza operata dai principali media occidentali, i quali hanno rilanciato le menzogne della propaganda israeliana distorcendo la realtá, rovesciando le responsabilitá, violentando il linguaggio.   Questo orrore è reso possibile dall´appoggio politico, economico e militare fornito dagli Stati Uniti e dall´Unione Europea. Anche il Governo italiano e il suo apparato militare-industriale é complice di questo genocidio. I piloti dei cacciabombardieri israeliani si sono addestrati anche in Italia nel corso di esercitazioni compiute con l´Aeronautica italiana. I cannoni da 76 mm delle corvette con cui Israele bombarda Gaza dal mare sono forniti da Oto Melara, del gruppo Leonardo, la stessa multinazionale che ha acquistato il 10% della Start-up altoatesina Flying Basket, i cui droni sono in uso anche presso la 173ma Airborne Brigade dell´Esercito degli Stati Uniti, di stanza a Vicenza. Dopo oltre 3 anni di guerra fra NATO e Russia sul suolo ucraino e 20 mesi di genocidio a Gaza, é sempre piú evidente che siamo entrati in una fase di scontro fra le principali potenze per l´egemonia e la spartizione/saccheggio di risorse. In questo quadro il piano ReArm Europe/Readiness 2030 varato lo scorso marzo dalla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, col quale si intendono mobilitare 800 miliardi di euro per la difesa (che verranno tolti a sanitá, istruzione pubblica, servizi), costituisce un salto di qualità senza precedenti negli ultimi decenni nella corsa al riarmo. Un´economia sempre piú di guerra in cui aziende dell´apparato militare industriale come Leonardo, Rheinmetall e Iveco Defence Vehicles stanno maturando profitti osceni. Questa corsa al riarmo sta producendo effetti devastanti sulle vite dei proletari ai quattro angoli del pianeta: centinaia di migliaia morti sui teatri di guerra e di genocidio, peggioramento delle condizioni di lavoro, salariali e di esistenza in tutto l’occidente a causa dei tagli alla spesa sociale e all’attacco frontale ai diritti e alle agibilità delle lotte e del dissenso sindacale e sociale. In tal senso il DL sicurezza da stato di polizia varato dal Governo Meloni rappresenta un attacco preventivo senza precedenti alla classe lavoratrice. Sabbia e non olio negli ingranaggi della guerra e del Genocidio! Non un soldo non un uomo per le loro guerre!   FERMIAMO IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE!   NO AL RIARMO! NO AL DECRETO SICUREZZA!   Assemblea solidale con il popolo palestinese – Bolzano   freepalestinebz@inventati.org – Telegram “Free Palestine BZ”
Iniziative
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Preferisco di no
  Cosa fare, nella sezione “semi-liberi” di un carcere, contro l’orrore di Gaza? Il nostro amico e compagno Massimo ha deciso di partecipare allo sciopero generale “Fermiamo il genocidio” (proclamato nella provincia di Trento da due sindacati di base per il prossimo 30 maggio). Nel suo caso, uno sciopero “un po’ paradossale”, perché consiste nel rimanere in carcere invece di uscire per lavorare. Il testo che segue ne spiega le ragioni. Preferisco di no Benché nella mia esistenza non abbia trascorso che una manciata di anni recluso, si tratta comunque di molto più tempo di quello che ho passato lavorando come salariato. Di conseguenza, tra i metodi di lotta che ho praticato non rientrava fino ad oggi lo sciopero, se non nella forma indiretta dell’appoggio solidale. I casi della vita (e della repressione) fanno sì che in questo momento io sia contemporaneamente un lavoratore dipendente e un detenuto in semi-libertà (o semi-prigionia). Mi trovo quindi nella situazione un po’ paradossale di poter scioperare, scegliendo di non uscire dal carcere per farlo. Lo sciopero generale “Fermiamo il genocidio” indetto a livello provinciale dai sindacati di base Cub Trento e Sbm per venerdì 30 maggio me ne dà l’occasione. L’orrore di Gaza, la cui violenza genocida sta oggi assumendo i caratteri della vera e propria soluzione finale, è un pungolo fisso che sento nel costato e nello spirito. Da quando sono qui non ho smesso di chiedermi cosa posso fare che abbia un minimo di senso. Non perché m’illuda di poter mettere chissà quale peso sulla bilancia della storia, ma perché non posso accettare che la normalizzazione del massacro guadagni terreno nella mia coscienza. Rinunciare a qualche ora di “libertà”, standomene in carcere con indosso una maglietta sulla resistenza palestinese e una kefiah, mi accomunerà se non altro a quei milioni di persone nel mondo che non sanno esattamente cosa fare ma che non possono far finta di niente. Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh ha scritto, nella sua potente e commovente dichiarazione, di sentirsi un privilegiato rispetto al suo popolo stretto tra le bombe, la fame e la violenza assassina dei coloni. Se è un “privilegio” per un palestinese la prigionia nella sezione di Alta Sorveglianza di Terni – la stessa in cui è rinchiuso il mio amico e compagno Juan –, la mia condizione è allora un doppio privilegio. Se sono convinto che senza azioni diffuse e risolute non si può spezzare l’infame complicità dello Stato e del capitalismo italiani (delle loro fabbriche di armi, delle loro banche, dei loro porti, della loro logistica, dei loro centri di ricerca, delle loro università) con il regime sionista, mi piace la proposta di uno sciopero economico, sociale e umano, perché la non-collaborazione individuale e collettiva è parte necessaria di un movimento internazionalista di solidarietà. L’anarchico francese Albert Libertad lo chiamava, più di un secolo fa, «sciopero dei gesti inutili». Se generalizzato, lo sciopero dalle attività anti-ecologiche e anti-sociali su cui si fondano e con cui si riproducono lo Stato e il capitale potrebbe sfidare il più oppressivo dei regimi. Il punto è che nella storia la non-collaborazione non è mai riuscita a sottrarre così tanta legna da spegnere il fuoco del potere – di qui la necessità di altre pratiche di resistenza e di lotta. Ad ogni modo, l’espressione «preferisco di no» è il lievito di ogni rivolta morale – sempre possibile, anche quando si è all’angolo (o in una cella). Nel ringraziare chi ha proclamato lo sciopero, e nello stringere idealmente la mano a tutti quelli che il 30 maggio cercheranno di essere sabbia e non olio negli ingranaggi automatizzati del genocidio, posso solo dire che la mia “libertà” oggi vale ben poco senza la liberazione del popolo palestinese, la cui indomita resistenza perfora i muri (persino quelli delle carceri). Servano le sbarre a ricordarmi la sua prigionia. Possano queste mie povere parole servire come monito a non cedere al comfort della rassegnazione. Come occasione, anche, perché «possiamo intanto che abbiamo cuore». «Durano i sentimenti / più del tuo corpo / e del mio» Francesca Matteoni «A dire che non siamo che occasioni, contenitori provvisori di qualcosa che comunque esisteva, esiste ed esisterà: prima, durante e dopo di noi, che possiamo. Ma possiamo intanto che abbiamo cuore» Maria Grazia Calandrone Carcere di Trento, 14 maggio 2025 Massimo Passamani Riportiamo di seguito il testo d’indizione dello sciopero, anche per rendere più comprensibili alcuni riferimenti contenuti nella “dichiarazione” di Massimo: UNO SCIOPERO PER GAZA Non ci sono più parole. Siamo di fronte al piano esplicito, formale, dichiarato, di soluzione finale della questione palestinese. Dopo 19 mesi di violenza genocida ed ecocidia contro gli abitanti e la terra di Gaza, il Gabinetto di guerra israeliano ha approvato il piano di invasione del 90% della Striscia. Si chiama «Operazione Carri di Gedeone». Più di due milioni di palestinesi verrebbero sfollati a forza e rinchiusi nel restante 10%, un territorio grande come Mantova, una città di quarantamila abitanti. Intanto continua il blocco di cibo e acqua, con immagini strazianti di bambini scheletrici che si aggirano tra cumuli di macerie. Alla morte o deportazione dei gazawi si aggiunge l’intento esplicito di annettere la Cisgiordania, cioè di realizzare il «Grande Israele» senza più tracce del popolo palestinese. Il tutto con la complicità dell’intero Occidente (governo italiano compreso). Il parlamentare del Likud (lo stesso partito di Netanyahu) Moshe Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14: «Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere». Queste, invece, le parole del dissidente israeliano Gideon Levy: «Non esiste più “permesso” e “proibito” riguardo alla malvagità di Israele nei confronti dei palestinesi. È permesso uccidere decine di prigionieri e far morire di fame un intero popolo. Un tempo ci vergognavamo di tali azioni; la perdita della vergogna sta ora smantellando ogni barriera rimanente». Di fronte a un tale orrore che si compie in diretta, continuare la nostra vita quotidiana come se nulla fosse ci è semplicemente insopportabile. E sappiamo di essere in tanti a provare un sentimento simile di angoscia, di impotenza, di rabbia. Per questo lanciamo uno sciopero generale per l’intera giornata di venerdì 30 maggio. Uno sciopero che non sia solo astensione del lavoro – un’astensione che vorremmo la più ampia possibile e in grado di incidere sull’economia –, ma astensione da tutto quell’insieme di gesti che riproducono la normalità sociale: fare la spese, prendere un mezzo di trasporto, andare al bar, in banca, alla posta, prelevare dal bancomat, collegarsi a Internet ecc. Insomma, uno sciopero economico, sociale e umano affinché pensieri e gesti siano rivolti, almeno per un giorno, unicamente al popolo palestinese, alla sua indicibile sofferenza e alla sua indomita resistenza. Per questo stiamo pensando anche a un momento in un cui trovarsi collettivamente per leggere riflessioni, appelli, poesie e altre testimonianze da Gaza e per raccogliere fondi per la sua popolazione. Usciamo dalla logica delle parrocchie politiche con uno sforzo comune: diffondiamo il senso della giornata del 30, partecipiamo e invitiamo a partecipare. In gioco, insieme alle sorti di un intero popolo, è ciò che rimane della nostra umanità. Trento, 9 maggio 2025 CUB Trento e SBM (Ci facciamo promotori dello sciopero perché come organizzazioni sindacali ci sentiamo in dovere di farlo e per dare copertura a chi, in tempo di genocidio, sa da che parte della storia collocarsi)
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In primo piano
FBK: per la guerra e l’incarcerazione tecnologica della società
Pubblichiamo il testo di un intervento fatto da un compagno davanti al centro di ricerca FBK (Trento) in occasione del corteo dello scorso 10 maggio, al fianco della resistenza palestinese e contro le collaborazioni con lo Stato di Israele: FBK per l’incarcerazione tecnologica e la guerra Viviamo un presente che ci obbliga ogni giorno di più a fare scelte che possono cambiare le nostre vite. Più la Società-macchina si struttura e si rende concreta, maggiormente si palesa il bisogno vitale di osservare con attenzione la quotidianità che ci sovrasta. La caratteristica della macchina non è solo la sua efficacia, ma soprattutto la sua programmazione, l’incapacità di cambiare rotta, l’obbedienza automatica. Ecco perché l’apparato tecnico ha bisogno di corpi-macchina. Se gli inferni di Gaza e della Cisgiordania ci stanno lentamente abituando ad un mondo disumano, è perché anche le nostre vite possono diventare quelle di esseri simili a macchine obbedienti. È in questo tipo di mondo che lo Stato, con la sua guerra interna, ci vorrebbe muti e incoscienti di fronte alla catastrofe. È in questo tipo di mondo che laboratori, università, aziende divengono le retrovie dei conflitti globali. E questo è il mondo che si sta apparecchiando esattamente qui, anche all’interno delle Università e delle aziende trentine e del nucleo che fa da capofila: FBK. La storia della Fondazione Bruno Kessler è una storia di sangue. Sono innumerevoli i progetti di ricerca ad uso duale o strettamente militari che la vedono coinvolta. Dall’inizio degli anni 2000, con la firma degli accordi con lo Stato di Israele nell’ambito delle tecno-scienze e dell’intelligenza artificiale (soprattutto attraverso il ruolo di Oliviero Stock); al 2006, quando la fondazione firma insieme al gruppo Eurotech (controllato in parte da Leonardo), l’accordo per la creazione dei computer indossabili Zypad nell’ambito del progetto “Soldato Futuro” (oggi denominato “Soldato Sicuro”). Saranno gli stessi nano-pc che nel 2007 voleranno in Iraq con le forze armate americane. Negli stessi anni e in quelli successivi, attraverso la promozione del laboratorio “Eledia” (che si trova all’interno della Facoltà di Ingegneria e Scienze Informatiche), porta avanti studi d’avanguardia a livello nazionale sui meta-materiali. Materiali fondamentali in ambito bellico per la costruzione di aerei da combattimento in grado di rendersi invisibili ai radar, i cosiddetti caccia di sesta generazione. FBK gestisce anche uno dei principali centri italiani di Microsoft. È di pochi anni fa il progetto COSBI (acronimo di Centro per la Biologia Computazionale dei Sistemi e frutto di una collaborazione tra Microsoft Research e Università di Trento). Gli studi del centro sono diretti allo sviluppo e all’applicazione di tecnologie di linguaggio informatico per riprodurre, simulare e analizzare sistemi biologici complessi (finalità del progetto quello di ridurre tutte le attività umane ad un sistema di calcolo). Anche se può sembrare un progetto meno direttamente coinvolto con il mondo militare e l’industria bellica, non è un caso che i principali interlocutori di COSBI siano stati Leonardo ed Eurotech. Il progetto forse più consistente è però quello che riguarda la progettazione della smart city. Iniziato con la partecipazione della Fondazione al progetto “Forensor” che nel 2017, insieme all’azienda STMicroelectronics, all’azienda israeliana Emza Visual Sense (specializzata in videosorveglianza e miniaturizzazione dei sensori di sicurezza), all’azienda Almaviva (che sviluppa e fornisce tecnologie innovative per le Forze Armate e di Polizia), da vita ai sensori e alle telecamere ultra-sensibili per la raccolta di dati, con il fine di riconoscere eventi criminali pre-determinati. Questi sono stati i progetti che hanno dato vita, successivamente e fino ad oggi, ai progetti di controllo sociale “Marvel” e “Precrisis”. Se pensiamo, per esempio, ai sistemi “Blue wolf” e “Red Wolf” utilizzati dall’esercito israeliano per identificare e bombardare la popolazione palestinese, non facciamo fatica ad immaginare che l’insediamento dello Stato di Israele nei territori occupati e il genocidio di oggi sono possibili anche grazie a queste ricerche. E che, come ritorno della guerra, il laboratorio-israele sia una prova sul campo per il dominio globale di domani. È inutile dichiarare che la guerra fa schifo se non si vuole comprendere la sua funzione di controllo e di dominio sociale. Non serve a nulla fingere di piangere i suoi morti se non si vede che essa è la manifestazione della potenza necessaria alla Società tecnica nella quale siamo incarcerati. La guerra la si combatte a partire dalle sue retrovie, se vogliamo che la solidarietà internazionale possa mandare qualche segnale di fumo concreto. Ogni giorno in cui dimentichiamo l’Apartheid e il genocidio automatizzati è un giorno che ci porta più vicini all’abisso dello Stato totale. Non voler vedere che la guerra parte da qui, significa accettare questo abisso. Solo guardando in faccia l’enorme macchina bellica nella quale si è trasformata la società intera, la resistenza palestinese può essere riconosciuta come ciò che è: la resistenza di tutti noi ad un mondo che il cuore non lo possiede più. Qui in pdf: FBK e guerra  
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