Riceviamo e diffondiamo:
Per me la resistenza palestinese non ha il solo merito di non demordere anche
davanti alla più brutale delle oppressioni, svelandoci la forza di un popolo
fiero che si oppone alle cause della sua miseria, ma ha anche quello di aver
contagiato centinaia di migliaia di persone in tutto il pianeta, dando vita ad
una mobilitazione internazionale dalle varie forme ed espressioni. Per chi, come
me, è cresciuto nel nuovo millennio, gli esempi simili scarseggiano.
A fianco, una situazione geopolitica angosciante, tra conflitti aperti, continui
sconvolgimenti e l’opzione di una guerra nucleare dietro l’angolo.
E così inizia a scricchiolare anche il nostro privilegio europeo, gradualmente
fiaccato da un costo della vita sempre più proibitivo, mentre ci si consola con
l’idea, sbiadita anch’essa, che “tanto qui le bombe non arriveranno mai”.
Anche qui, nello Stato italiano (sotto il quale siamo costretti a vivere pur
essendo sardi) il quadro non è meno preoccupante. Se da un lato le condizioni
della vita peggiorano e i nostri territori sono sempre più esposti alla
predazione delle multinazionali (energetiche, di estrazione di materiali e così
via) dall’altro le porte del carcere si aprono sempre più facilmente per chi
decide di organizzarsi ed opporsi.
La Sardegna ne è esempio lampante: alta disoccupazione, stipendi da fame, scarsa
assistenza sanitaria. Ad aumentare sono solo i progetti di estrattivismo
energetico, gli aerei militari sulle nostre teste e le sezioni speciali nelle
prigioni. E non dimentichiamoci che cosa significa, in un periodo di conflitto
come quello che stiamo attraversando, vivere circondati da basi militari. Non
solo per l’intensificarsi delle attività, e questi ultimi giorni ne sono una
conferma, ma anche per la consapevolezza di essere sempre un “buon bersaglio”.
Io, che attualmente mi trovo agli arresti domiciliari per aver partecipato ad un
corteo a Cagliari in solidarietà al popolo palestinese e contro l’occupazione
militare in Sardegna, sono accusato proprio di alcuni dei reati (resistenza,
lesioni e minacce a pubblico ufficiale) per i quali il decreto sicurezza prevede
un aumento delle pene. Una sorte che temo toccherà a tanti e tante. Una sorte
inevitabile per chi decide di non tacere davanti ai soprusi e alle imposizioni.
Mando un saluto a Tarek, con il quale ho orgogliosamente condiviso la piazza del
5 ottobre a Roma, ad Anan, Alì e Mansour, che sulla loro pelle pagano il prezzo
del servilismo italiano nei confronti dello Stato d’Israele e a tutti i giovani
e le giovani che in giro per il mondo rischiano la propria libertà, per la
libertà del popolo palestinese e per una vita diversa.
E un abbraccio fraterno a Paolo Todde, rinchiuso nel carcere di Uta (Cagliari),
in sciopero della fame dall’8 maggio per protestare contro le condizioni
detentive.Sempri ainnantis
Sardinnia libera
Palestina libera
Casteddu, 23 giugno 2025
Luca
Tag - Rompere le righe
Riceviamo e diffondiamo:
Anan Alì Manosour 25, 26, 27 giugno
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: iran israele definitivo-1
FIN QUANDO CI SARA’ UNO STATO NON CI SARA’ MAI PACE
Presa di posizione dell’assemblea “Sabotiamo la guerra” sulla guerra
Israele-Iran
L’attacco sferrato da Israele all’Iran la notte tra il 12 e il 13 giugno
rappresenta una svolta drammatica verso la mondializzazione della guerra. Dopo
oltre tre anni di guerra tra NATO e Federazione Russia in Ucraina, dopo due anni
di genocidio in corso a Gaza, le forti tensioni in Asia Occidentale sfociano in
una nuova guerra fra potenze regionali, entrambe in possesso di armi altamente
tecnologiche, entrambe dotate di una industria nucleare, e che si è
immediatamente aperta con uno spregiudicato quanto criminale attacco proprio
contro le strutture nucleari iraniane.
Da una parte, vi è l’Iran che non dispone di armi atomiche né esistono prove che
le stia costruendo e che si sottopone ai controlli delle agenzie internazionali.
Dall’altra, Israele, che possiede armi atomiche senza dichiararle, non rispetta
trattati né accetta controlli e compie abitualmente attacchi militari senza
porsi alcun limite etico.
Se il diritto internazionale e le organizzazioni che lo rappresentano hanno
avuto la funzione di garantire l’ordine mondiale, cioè precisi rapporti di forza
e di dominio tra gli Stati, oggi, il fatto che vengano messi in discussione, in
primis da Israele e dagli Stati uniti, è un chiaro segnale della crisi globale,
della rottura dei precedenti equilibri e di ritorno alla guerra come mezzo di
risoluzione delle rivalità interstatali.
L’Iran è stato attaccato poco dopo essersi sottoposto a controlli dei suoi
impianti nucleari e durante le trattative con gli Stati Uniti in merito
all’arricchimento dell’uranio. Risulta evidente l’intento di Israele di fare
fallire le trattative e ogni ipotesi di risoluzione politica dei dissidi.
I Paesi alleati hanno immediatamente operato per respingere il contrattacco
iraniano, abbattendo decine di razzi e droni, mentre si corre il serio pericolo
di una partecipazione diretta dei Paesi occidentali (a partire dagli USA) nei
bombardamenti. Il che rappresenterebbe un’ulteriore drammatica precipitazione
della crisi.
Gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni hanno condotto la cosiddetta “guerra
infinita”, una serie ininterrotta di guerre, attacchi militari e operazioni di
destabilizzazione (dall’attacco all’Iraq al cambio di regime in Siria).
Attualmente i loro obiettivi si espandono su diversi fronti: quello Russo,
quello dell’intera Asia Occidentale e, in prospettiva, quello
dell’Indo-Pacifico. I conflitti in corso si stanno estendendo e ne nascono di
nuovi, in una tendenza verso la guerra mondiale che allo stato dell’arte appare
inarrestabile. Sullo sfondo si profilano tensioni sia politiche che militari fra
gli Stati Uniti e la Cina.
Nel mentre, all’interno dei Paesi occidentali e in particolar modo proprio
all’interno della potenza dominante nordamericana, sono in corso gravissime
crisi sociali che talvolta sembrano assumere i connotati della guerra civile.
Sappiamo che storicamente gli Stati risolvono le loro più gravi crisi interne
con la guerra.
Tornando alle vicende di questi giorni. La responsabilità di questa nuova e
gravissima esclation risiede nell’iniziativa criminale dello Stato di Israele.
Un’entità fondata sul colonialismo di insediamento, sul suprematismo razzista,
sul fanatismo religioso, sulla militarizzazione della società, avanguardia nelle
tecnologie di controllo e nella sua sperimentazione sulla popolazione
palestinese colonizzata, deportata e sterminata. Nell’azione del 7 ottobre 2023,
fra le varie contraddizioni che ha aperto, c’è sicuramente quella di aver
smascherato il vero volto di questa entità. Israele sta mettendo in atto un
genocidio, ma non riesce a sconfiggere la resistenza di un popolo,
contraddizione che prova a sublimare rilanciando con sempre nuove avventure:
dall’invasione del Libano alle innumerevoli provocazioni anche a carattere
terroristico, fino agli eventi di venerdì notte.
Bisogna quindi ribadire con forza che a Gaza è in corso un genocidio: dobbiamo
fare in modo che questa nuova guerra non serva a nasconderne il compimento.
Israele è, da un lato, la punta di lancia dell’imperialismo occidentale e
l’attore che da decenni svolge il lavoro sporco per conto degli Stati Uniti e
dell’Europa; contemporaneamente, però, la sua leadership politica fuori
controllo è in grado di condizionare a suo vantaggio le politiche delle potenze
occidentali. I nostri governanti sono pienamente corresponsabili delle atrocità
commesse da Israele, senza il sostegno di queste potenze Israele non potrebbe
condurre le proprie avventure militari e forse nemmeno sopravvivere.
L’opposizione intransigente al progetto sionista non ci porta però a sostenere
la repubblica islamica dell’Iran. Una potenza regionale, con una oligarchia di
petrolieri e un’industria, anche militare, molto sviluppata. Non parliamo
“semplicemente” di un’odiosa teocrazia, che tortura e impicca gli oppositori e
opprime in particolar modo le donne, elemento che ama sottolineare la propaganda
liberale occidentale. Parliamo di un regime che mette il suo potere oscurantista
al servizio della propria borghesia per reprimere nel terrore le lavoratrici e i
lavoratori.
Si pensi, per fare un esempio fra i tantissimi che potremmo citare – che in
qualche modo ci parla tanto della misoginia quanto del classismo all’interno del
regime – al caso della sindacalista Sharifeh Mohammadi, condannata a morte per
la sua attività di coordinamento con gli scioperi radicali che sempre più spesso
negli ultimi anni hanno attraversato il Paese.
Dal 2005 oltre 500 sindacalisti sono stati arrestati, imprigionati, o in alcuni
casi condannati a morte ed espulsi per aver creato un’organizzazione sindacale
indipendente e per aver svolto attività sindacali nel quadro degli accordi e
degli standard internazionali sul lavoro.
In una guerra fra tali odiosi regimi, gli unici eroi sono i disertori.
Come anarchici e rivoluzionari ci auguriamo la caduta del governo teocratico
iraniano, un regime oppressivo che è sorto soffocando nel sangue una generazione
di compagni rivoluzionari. Allo stesso tempo sappiamo che un regime deve cadere
sotto i colpi dell’insurrezione autenticamente popolare, mentre i cambi di
regime progettati e attuati dai capitalisti occidentali, come la storia recente
insegna, non fanno che sostituire un oppressore con un oppressore ancora più
feroce e asservito alle potenze straniere, trasformando interi paesi in inferni
sulla terra. Tenendo presente tutto ciò, invitiamo tutti i rivoluzionari e le
persone di buona volontà a guardare con gli occhi ben aperti a un possibile
sommovimento in Iran (che è al momento il principale obiettivo strategico di
Israele), stando ben attenti a distinguere il grano dal loglio e a non abboccare
a quelle false flag che sono da oltre un decennio le principali armi del soft
power occidentale per corrompere e cooptare il dissenso, portandolo sul terreno
altamente compatibile dei “diritti” liberali. In ogni caso, se anche si
producesse un autentico moto di classe (non impossibile in un Paese in cui gli
ayatollah sono andati al potere incarcerando e impiccando i rivoluzionari),
questo non dovrebbe spostare di un millimetro la nostra opposizione
intransigente al Sistema-Israele e a tutto l’imperialismo occidentale che lo
nutre.
In generale, in una guerra tra Stati, tanto più se questi sono potenze regionali
con importanti alleati internazionali, gli oppressi non hanno alleati né amici
tra i governanti, ma sono solo carne da cannone per le loro sporche guerre.
Convinti che fin quando ci sarà uno Stato non ci sarà mai pace, la nostra
posizione rimane quella internazionalista: contro ogni Stato, a partire dal
nostro. Quindi, dal nostro lato del fronte, non vogliamo sottacere le
responsabilità del governo e dei padroni italiani, che hanno le mani sporche del
sangue palestinese. Non possiamo dimenticare che la marina militare italiana
dirige l’operazione Aspide, coordinando una coalizione a cui partecipano sette
Paesi dell’Unione Europea: il compito di questa missione è contrastare l’azione
yemenita che, attaccando le navi, è riuscita a lungo a bloccare un’importante
via di comunicazione commerciale e a recare un fortissimo danno all’economia
mondiale, mettendo in atto una delle più efficaci forme di sostegno e
solidarietà alla popolazione di Gaza.
Il governo italiano offre a Israele un appoggio politico incondizionato.
L’esercito italiano e quello israeliano sono sempre più integrati, i militari si
addestrano reciprocamente, l’industria bellica italiana è il terzo esportatore
verso Israele (dopo Stati Uniti e Germania), mentre l’Italia compra dall’alleato
sionista sistemi d’arma ad alta tecnologia. Finanche le amenità del Bel Paese
sono uno dei luoghi prescelti da Israele per la “decompressione” dei propri
militari dopo i combattimenti.
I servizi segreti italiani condividono informazioni e tecnologie con gli
apparati israeliani, come dimostra da ultimo il caso Paragon. Non dimentichiamo
peraltro come la magistratura italiana sia schierata a supporto della
repressione israeliana. Come dimostra lo scandaloso processo in corso all’Aquila
contro Annan Yaeesh che vorrebbe far passare la resistenza armata palestinese,
legittima anche per il diritto internazionale, per terrorismo. L’Italia supporta
la logistica militare di Israele, come avviene con l’approdo nei porti italiani,
ad esempio delle navi ZIM, e la ricerca tecnologica finalizzata alla supremazia
militare, come avviene in numerosi atenei.
Ormai nei mezzi di comunicazione di massa italiani è quasi impossibile ricevere
informazioni che non siano sfacciata propaganda di guerra. Questi mezzi di
comunicazione sono parte integrante della macchina bellica, affermazione che è
rafforzata dalla considerazione che nell’attuale strategia di guerra occidentale
sempre più frequentemente lo spettacolo determina le scelte sul campo.
Nonostante una propaganda martellante gli sfruttati sono generalmente contrari
alla guerra, in particolare il genocidio di Gaza ha profondamente scosso
l’opinione pubblica; ma non basta una ribellione delle coscienze. Peraltro la
classi più povere delle società occidentali stanno già pagando a caro prezzo il
costo della guerra: dall’inflazione alla repressione. Di recente, il capo della
NATO Rutte ha affermato che se gli europei non vogliono tagliare la loro spesa
sanitaria a favore di quella militare (l’obiettivo dichiarato è di raggiungere
il 5% del PIL!) allora dovranno imparare a parlare russo. D’altro canto, le
politiche repressive sempre più efferate dei nostri governanti, di cui il
pacchetto sicurezza di recente approvazione (dove si reprimono i blocchi
stradali, i picchetti sindacali, le proteste in carcere, anche in forma
pacifica, e si introduce il cosiddetto “terrorismo della parola”) è soltanto il
più recente e probabilmente non definitivo approdo, vanno lette a tutti gli
effetti come delle vere e proprie politiche di guerra, anche alla luce di quelle
tensioni sociali di cui si faceva cenno.
Nei prossimi mesi sarà importante per anarchici e solidali saper collegare la
resistenza contro questa offensiva (così come la solidarietà con i nostri
compagni in varie forme perseguitati) alla lotta complessiva contro la guerra,
di cui queste operazioni sono la manifestazione sul fronte interno.
La propaganda sempre più faziosa e pervasiva, il cablaggio tecnologico delle
facoltà critiche, le sconfitte storiche del movimento operaio, una certa
predilezione per l’autoisolamento da parte delle minoranze agenti, al momento
pesano sul senso di impotenza e rassegnazione. Lo stesso livello tecnologico
della guerra guerreggiata – si pensi al confronto aeronautico e balistico tra
Israele e Iran, per non parlare delle tecnologie messe in campo da NATO e Russia
in Ucraina – spinge verso un sentimento di ineluttabilità, nell’impossibilità
per le umane forze degli sfruttati di fare qualcosa per fermarli. Eppure la
variante umana e di classe è determinante.
Sono le braccia dei portuali a caricare le armi sulle navi dirette a Israele:
quelle braccia, come ci hanno mostrato in Marocco, a Marsiglia, a Genova,
possono decidere di fermarsi. Sono i corpi dei proletari russi e ucraini a
venire gettati nelle trincee, a massacrarsi vicendevolmente per gli interessi
delle classi dirigenti russe e statunitensi (mentre Putin e Trump dialogano
amabilmente al telefono); eppure quei corpi possono disertare, e lo fanno a
decine di migliaia.
La resistenza armata del popolo palestinese, che non ha amici tra le grandi
potenze, riesce con la propria volontà e la propria azione ad opporsi ad una
delle più terribili e avanzate macchine belliche presenti sula terra. Israele ha
un dominio tecnologico esorbitante, eppure vediamo come i combattenti
palestinesi riciclano le bombe inesplose del nemico per farne degli ordigni
artigianali. La fantasia degli oppressi non conosce confini. E gli oppressi,
come diceva Errico Malatesta, sono sempre in condizione di legittima difesa, i
mezzi da adoperare, purché coerenti con i fini dell’uguaglianza e della libertà
per tutti gli esseri umani, sono solo una questione d’opportunità.
Dal nostro lato dei molteplici fronti, lottiamo per la disfatta del nostro
campo: per la sconfitta della NATO, per la distruzione del sionismo.
Trasformiamo la guerra dei padroni in guerra contro i padroni!
Assemblea “Sabotiamo la guerra”
Non c’è pace per il rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian. Dopo
che l’Assemblea trentina in solidarietà alla resistenza palestinese è andata a
cantargliele chiare sulle sue false dichiarazioni in merito all’interruzione dei
rapporti con le università israeliane, una chiara denuncia arriva adesso
direttamente da docenti e ricercatori della stessa università: l’ateneo di
Trento collabora, all’interno di un progetto chiamato “Truman”, con la divisione
israeliana di IBM (IBM! L’azienda che ieri forniva le sue schede perforate per i
lager nazisti, e che adesso fornisce i suoi sistemi informatici allo Stato
genocida d’Israele!).
Qui le puntate precedenti:
https://ilrovescio.info/2025/06/04/trento-lo-sciopero-per-la-palestina-stana-il-magnifico-rettore-deflorian/
https://ilrovescio.info/2025/06/11/luniversita-trentina-e-la-guerra-giu-la-maschera-deflorian/
Qui un articolo tratto da un giornale locale su quest’ultima vicenda, contenente
svariate informazioni sul ruolo di IBM nell’apartheid e nel genocidio dei
palestinesi:
https://www.iltquotidiano.it/articoli/nuova-collaborazione-tra-luniversita-di-trento-e-unazienda-israeliana-scoppia-la-polemica/
Qui un testo dell’Assemblea in solidarietà alla resistenza palestinese di
Trento, aggiornato a quest’ultima “scoperta”:
DEFLORIAN PARLA MA TACE SULLE COLLABORAZIONI IN CORSO
A quasi due anni dal suo inizio, l’enormità del genocidio a Gaza è diventata
innegabile.
In questo frangente rompe il silenzio dietro cui si era trincerato il rettore
dell’Università di Trento, Flavio Deflorian.
Con un editoriale per il giornale online Unitrento Mag, sulla spinta del
partecipato corteo arrivato sotto al Rettorato il 30 aprile in occasione dello
sciopero provinciale contro il genocidio, Deflorian smentisce categoricamente le
accuse mosse a lui e all’Ateneo di complicità col genocidio («aberranti
calunnie»).
Al contrario ci informa che l’Ateneo è «per la Palestina» e che «ha cercato di
sostenere concretamente il popolo palestinese».
In che modo? Fornendo «supporto alla didattica universitaria da remoto»,
ovviamente «finché è stato possibile», istituendo un dottorato sui “Peace
Studies” e promuovendo «incontri sul tema della pace».
Le collaborazioni con le «istituzioni di ricerca e formazione israeliane»,
continua Deflorian, sono al momento inattive, anche se lui spera di «poter[le]
riprendere in futuro».
E in ogni caso ci rassicura, si è sempre trattato di «collaborazione culturale e
scientifica su temi di pace».
Probabilmente Deflorian, così preso dagli impegni del suo ruolo, saranno
sfuggite alcune di queste collaborazioni.
Facile scordarsi di un progetto dal nome “Safe U-Comm”, per lo sviluppo di
comunicazioni subacque in ambito militare, portato avanti da ricercatori Italia,
Canada, Regno Unito e per l’appunto Israele, con il supporto della NATO.
Un progetto che ha visto coinvolto per Trento il Manta Lab del Disi
(Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione) e che si è concluso nel
2024, nel pieno dei bombardamenti su Gaza.
Uno dei sei progetti che vedono coinvolte istituzioni trentine di cui si trova
traccia nel portale dell’Università di Haifa.
Ma si potrebbe dire che il passato è passato, bisogna guardare all’oggi e al
futuro.
E guarda un po’, oggi il professor Paolo Casari del Disi che si occupava di
“Safe-U-Comm” dirige un altro progetto, SHIELD, sempre sulla sicurezza militare
delle comunicazioni sottomarine, sempre coi finanziamenti NATO, questa volta con
la partecipazione di cinque paesi: Italia, Canada, Regno Unito, Croazia e…
Israele!
Un progetto quello di SHIELD iniziato a marzo 2025 e che si concluderà nel
febbraio 2028 (un informazione visibile ad oggi sul sito del Manta Lab).
Mentre inizierà il 1° luglio un altro progetto che coinvolge il Disi: TRUMAN,
legato allo sviluppo dell’IA, di cui è responsabile Fausto Giunchiglia e che ha
tra i partner IBM Israel.
La presenza di IBM Israel, che fornisce tecnologie di schedatura funzionali al
controllo dei palestinesi e collabora attraverso una sussidiaria con l’esercito
israeliano, ha fatto sì che stia circolando tra i dipendenti di Unitn una
raccolta firme per chiedere lo stop al progetto.
Deflorian lo ha detto anche a Casari e a Giunchiglia che non ci sono
collaborazioni tra Unitn e l’accademia israeliana?
Anche questi progetti rientrano nei «temi di pace» di cui scrive Deflorian?
Ma, lasciando stare i singoli progetti – di cui evidentemente il rettore non è
informato – ci sono vari dati di fatto che consolidano l’immagine
dell’Università come “luogo di guerra”, su cui Deflorian elegantemente sorvola
nel suo editoriale.
Non solamente la sua personale partecipazione a MedOr, fondazione “culturale” di
Leonardo, da cui è uscito in sordina proprio dopo le proteste.
Si tratta più in generale della presenza dentro l’Ateneo di Leonardo stessa e di
altre aziende belliche (Iveco Defence, Fincantieri…). Aziende che finanziano e
partecipano ai programmi di dottorato, che presenziano agli eventi di
orientamento post-laurea come il Career Fair, che sponsorizzano il Festival
dell’Economia co-organizzato da Unitn.
Contro questa presenza ci sono stati negli ultimi anni presidii, cortei,
scioperi e anche due occupazioni dell’università.
Un’opposizione portata avanti da più realtà, da tutti e tutte coloro che non
hanno voluto restare testimoni passivi di un genocidio e che come gesto concreto
hanno deciso di andare a puntare il dito sulle collaborazioni tra Occidente e
colonialismo d’insediamento israeliano.
Troppo comodo, come fa nel suo testo Deflorian, dire che lui e l’Ateneo sono
colpevoli al pari di tutti delle «tragedia» in atto: in questi due anni c’è
stata certamente «l’ignavia» di chi non ha fatto niente, ma soprattutto l’aperta
di complicità di chi ha continuato a fare quello che faceva prima e ha
ostacolato chi cercava invece di fare qualcosa.
Le istituzioni europee, italiane e trentine sono attori di questa tragedia nella
misura in cui hanno instaurato legami e continuano ad averne con il colonialismo
d’insediamento israeliano.
Se Unitn appende teli bianchi per coprire le proprie responsabilità, bisogna
invece continuare a scrivere nero su bianco sugli striscioni che Unitn continua
a essere complice di genocidio e un ateneo che va alla guerra.
Deflorian vuole che si smetta di associare il suo nome e quello dell’Università
di Trento al genocidio e alla guerra? Si adoperi allora per la cessazione
immediata di tutti i progetti e le collaborazioni tra Unitn e Israele, nonché
per l’uscita di tutte le aziende belliche dai dipartimenti, fornendone prove ben
più solide delle sue fumose dichiarazioni.
Mentre lo Stato israeliano annega nel sangue che ha versato e, attaccando
l’Iran, si adopera per arrivare a una guerra mondiale, riprendiamo con forza
l’opposizione alle collaborazioni trentine col genocidio e colla guerra, come
forma concreta di solidarietà alla resistenza palestinese e come opposizione al
riarmo!
16 giugno 2025
Assemblea di solidarietà con la resistenza palestinese
In pdf: Risposta a Deflorian RIVISTO
Riceviamo e diffondiamo:
Ieri, 10 giugno alcune persone sono entrate al rettorato dell’Università di
Trento, dove si stava svolgendo la riunione della Consulta d’Ateneo. Alla
presenza del rettore Deflorian e dei direttori di dipartimento è stato
letto il testo seguente:
Le relazioni tra UniTn e guerra
In occasione dello sciopero generale contro la guerra e in solidarietà con gli
oppressi palestinesi, proclamato da alcuni sindacati di base in tutta la
Provincia di Trento per lo scorso venerdì 30 maggio, nella mattinata dello
stesso venerdì si è svolta a Trento una partecipata e vivace manifestazione,
conclusasi sotto il Rettorato di via Calepina con numerosi interventi (anche da
parte di studenti medi e universitari e di una ricercatrice) che esigevano, in
particolare, l’immediata interruzione delle collaborazioni tra l’Università di
Trento e gli atenei israeliani, e la fine di ogni ricerca bellica o funzionale
alla guerra. Che a esprimersi contro le complicità di UniTn e Fondazione Bruno
Kessler con guerra, colonialismo e genocidio non siano state solo delle presunte
“frange minoritarie”, deve aver molto infastidito la dirigenza universitaria,
tant’è che dopo 20 mesi di contestazioni anche interne all’ateneo e di silenzio
quasi ininterrotto da parte dei contestati, il “magnifico rettore” Flavio
Deflorian prende finalmente la parola (e coglie l’occasione per dare di
“fascisti” ai suoi contestatori). Di seguito l’intervento del cosiddetto
Magnifico e la puntuale replica dei sindacati di base che hanno chiamato lo
sciopero, e che adesso sfidano il rettore a un confronto pubblico.
https://mag.unitn.it/editoriali/121400/per-la-palestina-e-l-antifascismo
https://www.agenziagiornalisticaopinione.it/opinionews-tn-aa/cub-e-sbm-trento-replica-al-rettore-unit-deflorian-noi-la-riteniamo-moralmente-complice-del-primo-genocidio-automatizzato-della-storia-dellumanita/#google_vignette
Ringraziando chi l’ha fatta e ce l’ha inviata, diffondiamo la traduzione di
questo interessante comunicato di “due bande anarchiche” passate all’azione.
Qui il testo originale:
https://attaque.noblogs.org/post/2025/05/25/communique-du-sabotage-contre-des-installations-electriques-sur-la-cote-dazur/
Questa la traduzione:
TAGLIO_!_Comunicato_del_sabotaggio_contro_gli_impianti_elettrici
Riceviamo e diffondiamo:
BOLZANO – 2 GIUGNO H 9 PIAZZA DOMENICANI
MANIFESTAZIONE CONTRO IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE
UNA REPUBBLICA AFFONDATA SULLA GUERRA
UN GOVERNO COMPLICE DI UN GENOCIDIO
Il 20 maggio Israele ha iniziato l’operazione militare “Carri di Gedeone” ossia
la soluzione finale della questione palestinese. L’obiettivo dichiarato
pubblicamente dal terrorista di Stato Netanyahu è quello di occupare in maniera
permanente la Striscia di Gaza e costringere i palestinesi a lasciare la propria
terra, resa inadatta alla vita dopo 20 mesi di bombardamenti quotidiani che
hanno sterminato i palestinesi e devastato tutte le infrastrutture civili e il
sistema sanitario. Da oltre due mesi a Gaza non entrano cibo e medicine,
numerosi bambini e anziani sono morti di fame o per le conseguenze della
malnutrizione. Innumerevoli sono i palestinesi morti per mancanza di cure e
medicine. La salute psichica dei gazawi é compromessa. Nei lager israeliani
decine di migliaia di prigionieri palestinesi sono vittime di torture
terrificanti, spesso fino alla morte. Sono oltre 70.000 i palestinesi sterminati
dai sionisti, fra di essi almeno 20.000 bambini, una cifra che delinea come
quello a Gaza sia un infanticidio di massa senza precedenti.
Come ha scritto Yousef Hamdouna, il genocidio di Gaza rappresenta un momento
cruciale di trasformazione nell’approccio alla questione dei popoli sottoposti a
occupazione. L’obiettivo di Israele è disgregare la società palestinese,
ricostruendola secondo le proprie condizioni. L’uso della fame come arma non può
essere compreso se non come parte del più grande esperimento di ingegneria
sociale violenta condotto su un intero popolo, attuato attraverso fasi precise e
pianificate. In questo quadro la fame non è solo uno strumento di sottomissione,
ma un mezzo con cui Israele intende riscrivere la struttura psicologica e
sociale della società palestinese spostandone le priorità: dal pensiero rivolto
alla liberazione collettiva al pensiero rivolto alla sopravvivenza individuale a
qualunque costo: un corpo senza anima, disposto ad accettare di sopravvivere
senza alcuna prospettiva politica e senza diritti.
Mentre il Genocidio del popolo palestinese procede in un bagno di sangue
quotidiano, un sondaggio condotto dalla Pennsylvania State University rileva
come il 47% degli israeliani approvi lo sterminio dei palestinesi mentre l´82%
appoggia la loro deportazione. Il primo genocidio automatizzato e in diretta
televisiva della storia é normalizzato democraticamente al punto che in Israele
é diventato un argomento di discussione parlamentare. Ci sono infatti ministri
che organizzano convegni per la colonizzazione di Gaza mentre altri deputati
affermano, senza troppi problemi, la necessitá di sterminare i bambini
palestinesi. Ma tale barbarie non sarebbe stata possibile senza la costante
disumanizzazione del popolo palestinese e della sua Resistenza operata dai
principali media occidentali, i quali hanno rilanciato le menzogne della
propaganda israeliana distorcendo la realtá, rovesciando le responsabilitá,
violentando il linguaggio.
Questo orrore è reso possibile dall´appoggio politico, economico e militare
fornito dagli Stati Uniti e dall´Unione Europea. Anche il Governo italiano e il
suo apparato militare-industriale é complice di questo genocidio. I piloti dei
cacciabombardieri israeliani si sono addestrati anche in Italia nel corso di
esercitazioni compiute con l´Aeronautica italiana. I cannoni da 76 mm delle
corvette con cui Israele bombarda Gaza dal mare sono forniti da Oto Melara, del
gruppo Leonardo, la stessa multinazionale che ha acquistato il 10% della
Start-up altoatesina Flying Basket, i cui droni sono in uso anche presso la
173ma Airborne Brigade dell´Esercito degli Stati Uniti, di stanza a Vicenza.
Dopo oltre 3 anni di guerra fra NATO e Russia sul suolo ucraino e 20 mesi di
genocidio a Gaza, é sempre piú evidente che siamo entrati in una fase di scontro
fra le principali potenze per l´egemonia e la spartizione/saccheggio di risorse.
In questo quadro il piano ReArm Europe/Readiness 2030 varato lo scorso marzo
dalla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, col quale si
intendono mobilitare 800 miliardi di euro per la difesa (che verranno tolti a
sanitá, istruzione pubblica, servizi), costituisce un salto di qualità senza
precedenti negli ultimi decenni nella corsa al riarmo. Un´economia sempre piú di
guerra in cui aziende dell´apparato militare industriale come Leonardo,
Rheinmetall e Iveco Defence Vehicles stanno maturando profitti osceni.
Questa corsa al riarmo sta producendo effetti devastanti sulle vite dei
proletari ai quattro angoli del pianeta: centinaia di migliaia morti sui teatri
di guerra e di genocidio, peggioramento delle condizioni di lavoro, salariali e
di esistenza in tutto l’occidente a causa dei tagli alla spesa sociale e
all’attacco frontale ai diritti e alle agibilità delle lotte e del dissenso
sindacale e sociale. In tal senso il DL sicurezza da stato di polizia varato dal
Governo Meloni rappresenta un attacco preventivo senza precedenti alla classe
lavoratrice.
Sabbia e non olio negli ingranaggi della guerra e del Genocidio! Non un soldo
non un uomo per le loro guerre!
FERMIAMO IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE!
NO AL RIARMO! NO AL DECRETO SICUREZZA!
Assemblea solidale con il popolo palestinese – Bolzano
freepalestinebz@inventati.org – Telegram “Free Palestine BZ”
Cosa fare, nella sezione “semi-liberi” di un carcere, contro l’orrore di Gaza?
Il nostro amico e compagno Massimo ha deciso di partecipare allo sciopero
generale “Fermiamo il genocidio” (proclamato nella provincia di Trento da due
sindacati di base per il prossimo 30 maggio). Nel suo caso, uno sciopero “un po’
paradossale”, perché consiste nel rimanere in carcere invece di uscire per
lavorare. Il testo che segue ne spiega le ragioni.
Preferisco di no
Benché nella mia esistenza non abbia trascorso che una manciata di anni recluso,
si tratta comunque di molto più tempo di quello che ho passato lavorando come
salariato. Di conseguenza, tra i metodi di lotta che ho praticato non rientrava
fino ad oggi lo sciopero, se non nella forma indiretta dell’appoggio solidale. I
casi della vita (e della repressione) fanno sì che in questo momento io sia
contemporaneamente un lavoratore dipendente e un detenuto in semi-libertà (o
semi-prigionia). Mi trovo quindi nella situazione un po’ paradossale di poter
scioperare, scegliendo di non uscire dal carcere per farlo.
Lo sciopero generale “Fermiamo il genocidio” indetto a livello provinciale dai
sindacati di base Cub Trento e Sbm per venerdì 30 maggio me ne dà l’occasione.
L’orrore di Gaza, la cui violenza genocida sta oggi assumendo i caratteri della
vera e propria soluzione finale, è un pungolo fisso che sento nel costato e
nello spirito. Da quando sono qui non ho smesso di chiedermi cosa posso fare che
abbia un minimo di senso. Non perché m’illuda di poter mettere chissà quale peso
sulla bilancia della storia, ma perché non posso accettare che la
normalizzazione del massacro guadagni terreno nella mia coscienza. Rinunciare a
qualche ora di “libertà”, standomene in carcere con indosso una maglietta sulla
resistenza palestinese e una kefiah, mi accomunerà se non altro a quei milioni
di persone nel mondo che non sanno esattamente cosa fare ma che non possono far
finta di niente.
Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh ha scritto, nella sua potente e
commovente dichiarazione, di sentirsi un privilegiato rispetto al suo popolo
stretto tra le bombe, la fame e la violenza assassina dei coloni. Se è un
“privilegio” per un palestinese la prigionia nella sezione di Alta Sorveglianza
di Terni – la stessa in cui è rinchiuso il mio amico e compagno Juan –, la mia
condizione è allora un doppio privilegio. Se sono convinto che senza azioni
diffuse e risolute non si può spezzare l’infame complicità dello Stato e del
capitalismo italiani (delle loro fabbriche di armi, delle loro banche, dei loro
porti, della loro logistica, dei loro centri di ricerca, delle loro università)
con il regime sionista, mi piace la proposta di uno sciopero economico, sociale
e umano, perché la non-collaborazione individuale e collettiva è parte
necessaria di un movimento internazionalista di solidarietà. L’anarchico
francese Albert Libertad lo chiamava, più di un secolo fa, «sciopero dei gesti
inutili». Se generalizzato, lo sciopero dalle attività anti-ecologiche e
anti-sociali su cui si fondano e con cui si riproducono lo Stato e il capitale
potrebbe sfidare il più oppressivo dei regimi. Il punto è che nella storia la
non-collaborazione non è mai riuscita a sottrarre così tanta legna da spegnere
il fuoco del potere – di qui la necessità di altre pratiche di resistenza e di
lotta. Ad ogni modo, l’espressione «preferisco di no» è il lievito di ogni
rivolta morale – sempre possibile, anche quando si è all’angolo (o in una
cella).
Nel ringraziare chi ha proclamato lo sciopero, e nello stringere idealmente la
mano a tutti quelli che il 30 maggio cercheranno di essere sabbia e non olio
negli ingranaggi automatizzati del genocidio, posso solo dire che la mia
“libertà” oggi vale ben poco senza la liberazione del popolo palestinese, la cui
indomita resistenza perfora i muri (persino quelli delle carceri).
Servano le sbarre a ricordarmi la sua prigionia. Possano queste mie povere
parole servire come monito a non cedere al comfort della rassegnazione. Come
occasione, anche, perché «possiamo intanto che abbiamo cuore».
«Durano i sentimenti / più del tuo corpo / e del mio»
Francesca Matteoni
«A dire che non siamo che occasioni, contenitori provvisori di qualcosa che
comunque esisteva, esiste ed esisterà: prima, durante e dopo di noi, che
possiamo. Ma possiamo intanto che abbiamo cuore»
Maria Grazia Calandrone
Carcere di Trento, 14 maggio 2025
Massimo Passamani
Riportiamo di seguito il testo d’indizione dello sciopero, anche per rendere più
comprensibili alcuni riferimenti contenuti nella “dichiarazione” di Massimo:
UNO SCIOPERO PER GAZA
Non ci sono più parole. Siamo di fronte al piano esplicito, formale, dichiarato,
di soluzione finale della questione palestinese. Dopo 19 mesi di violenza
genocida ed ecocidia contro gli abitanti e la terra di Gaza, il Gabinetto di
guerra israeliano ha approvato il piano di invasione del 90% della Striscia. Si
chiama «Operazione Carri di Gedeone».
Più di due milioni di palestinesi verrebbero sfollati a forza e rinchiusi nel
restante 10%, un territorio grande come Mantova, una città di quarantamila
abitanti. Intanto continua il blocco di cibo e acqua, con immagini strazianti di
bambini scheletrici che si aggirano tra cumuli di macerie. Alla morte o
deportazione dei gazawi si aggiunge l’intento esplicito di annettere la
Cisgiordania, cioè di realizzare il «Grande Israele» senza più tracce del popolo
palestinese. Il tutto con la complicità dell’intero Occidente (governo italiano
compreso). Il parlamentare del Likud (lo stesso partito di Netanyahu) Moshe
Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14: «Sì, farò morire di
fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere». Queste, invece, le
parole del dissidente israeliano Gideon Levy: «Non esiste più “permesso” e
“proibito” riguardo alla malvagità di Israele nei confronti dei palestinesi. È
permesso uccidere decine di prigionieri e far morire di fame un intero popolo.
Un tempo ci vergognavamo di tali azioni; la perdita della vergogna sta ora
smantellando ogni barriera rimanente».
Di fronte a un tale orrore che si compie in diretta, continuare la nostra vita
quotidiana come se nulla fosse ci è semplicemente insopportabile. E sappiamo di
essere in tanti a provare un sentimento simile di angoscia, di impotenza, di
rabbia. Per questo lanciamo uno sciopero generale per l’intera giornata di
venerdì 30 maggio.
Uno sciopero che non sia solo astensione del lavoro – un’astensione che vorremmo
la più ampia possibile e in grado di incidere sull’economia –, ma astensione da
tutto quell’insieme di gesti che riproducono la normalità sociale: fare la
spese, prendere un mezzo di trasporto, andare al bar, in banca, alla posta,
prelevare dal bancomat, collegarsi a Internet ecc. Insomma, uno sciopero
economico, sociale e umano affinché pensieri e gesti siano rivolti, almeno per
un giorno, unicamente al popolo palestinese, alla sua indicibile sofferenza e
alla sua indomita resistenza. Per questo stiamo pensando anche a un momento in
un cui trovarsi collettivamente per leggere riflessioni, appelli, poesie e altre
testimonianze da Gaza e per raccogliere fondi per la sua popolazione. Usciamo
dalla logica delle parrocchie politiche con uno sforzo comune: diffondiamo il
senso della giornata del 30, partecipiamo e invitiamo a partecipare. In gioco,
insieme alle sorti di un intero popolo, è ciò che rimane della nostra umanità.
Trento, 9 maggio 2025
CUB Trento e SBM
(Ci facciamo promotori dello sciopero perché come organizzazioni sindacali ci
sentiamo in dovere di farlo e per dare copertura a chi, in tempo di genocidio,
sa da che parte della storia collocarsi)
Pubblichiamo il testo di un intervento fatto da un compagno davanti al centro di
ricerca FBK (Trento) in occasione del corteo dello scorso 10 maggio, al fianco
della resistenza palestinese e contro le collaborazioni con lo Stato di Israele:
FBK per l’incarcerazione tecnologica e la guerra
Viviamo un presente che ci obbliga ogni giorno di più a fare scelte che possono
cambiare le nostre vite. Più la Società-macchina si struttura e si rende
concreta, maggiormente si palesa il bisogno vitale di osservare con attenzione
la quotidianità che ci sovrasta. La caratteristica della macchina non è solo la
sua efficacia, ma soprattutto la sua programmazione, l’incapacità di cambiare
rotta, l’obbedienza automatica. Ecco perché l’apparato tecnico ha bisogno di
corpi-macchina. Se gli inferni di Gaza e della Cisgiordania ci stanno lentamente
abituando ad un mondo disumano, è perché anche le nostre vite possono diventare
quelle di esseri simili a macchine obbedienti.
È in questo tipo di mondo che lo Stato, con la sua guerra interna, ci vorrebbe
muti e incoscienti di fronte alla catastrofe. È in questo tipo di mondo che
laboratori, università, aziende divengono le retrovie dei conflitti globali. E
questo è il mondo che si sta apparecchiando esattamente qui, anche all’interno
delle Università e delle aziende trentine e del nucleo che fa da capofila: FBK.
La storia della Fondazione Bruno Kessler è una storia di sangue. Sono
innumerevoli i progetti di ricerca ad uso duale o strettamente militari che la
vedono coinvolta. Dall’inizio degli anni 2000, con la firma degli accordi con lo
Stato di Israele nell’ambito delle tecno-scienze e dell’intelligenza artificiale
(soprattutto attraverso il ruolo di Oliviero Stock); al 2006, quando la
fondazione firma insieme al gruppo Eurotech (controllato in parte da Leonardo),
l’accordo per la creazione dei computer indossabili Zypad nell’ambito del
progetto “Soldato Futuro” (oggi denominato “Soldato Sicuro”). Saranno gli stessi
nano-pc che nel 2007 voleranno in Iraq con le forze armate americane.
Negli stessi anni e in quelli successivi, attraverso la promozione del
laboratorio “Eledia” (che si trova all’interno della Facoltà di Ingegneria e
Scienze Informatiche), porta avanti studi d’avanguardia a livello nazionale sui
meta-materiali. Materiali fondamentali in ambito bellico per la costruzione di
aerei da combattimento in grado di rendersi invisibili ai radar, i cosiddetti
caccia di sesta generazione. FBK gestisce anche uno dei principali centri
italiani di Microsoft. È di pochi anni fa il progetto COSBI (acronimo di Centro
per la Biologia Computazionale dei Sistemi e frutto di una collaborazione tra
Microsoft Research e Università di Trento). Gli studi del centro sono diretti
allo sviluppo e all’applicazione di tecnologie di linguaggio informatico per
riprodurre, simulare e analizzare sistemi biologici complessi (finalità del
progetto quello di ridurre tutte le attività umane ad un sistema di calcolo).
Anche se può sembrare un progetto meno direttamente coinvolto con il mondo
militare e l’industria bellica, non è un caso che i principali interlocutori di
COSBI siano stati Leonardo ed Eurotech. Il progetto forse più consistente è però
quello che riguarda la progettazione della smart city. Iniziato con la
partecipazione della Fondazione al progetto “Forensor” che nel 2017, insieme
all’azienda STMicroelectronics, all’azienda israeliana Emza Visual Sense
(specializzata in videosorveglianza e miniaturizzazione dei sensori di
sicurezza), all’azienda Almaviva (che sviluppa e fornisce tecnologie innovative
per le Forze Armate e di Polizia), da vita ai sensori e alle telecamere
ultra-sensibili per la raccolta di dati, con il fine di riconoscere eventi
criminali pre-determinati. Questi sono stati i progetti che hanno dato vita,
successivamente e fino ad oggi, ai progetti di controllo sociale “Marvel” e
“Precrisis”. Se pensiamo, per esempio, ai sistemi “Blue wolf” e “Red Wolf”
utilizzati dall’esercito israeliano per identificare e bombardare la popolazione
palestinese, non facciamo fatica ad immaginare che l’insediamento dello Stato di
Israele nei territori occupati e il genocidio di oggi sono possibili anche
grazie a queste ricerche. E che, come ritorno della guerra, il
laboratorio-israele sia una prova sul campo per il dominio globale di domani.
È inutile dichiarare che la guerra fa schifo se non si vuole comprendere la sua
funzione di controllo e di dominio sociale. Non serve a nulla fingere di
piangere i suoi morti se non si vede che essa è la manifestazione della potenza
necessaria alla Società tecnica nella quale siamo incarcerati. La guerra la si
combatte a partire dalle sue retrovie, se vogliamo che la solidarietà
internazionale possa mandare qualche segnale di fumo concreto. Ogni giorno in
cui dimentichiamo l’Apartheid e il genocidio automatizzati è un giorno che ci
porta più vicini all’abisso dello Stato totale. Non voler vedere che la guerra
parte da qui, significa accettare questo abisso.
Solo guardando in faccia l’enorme macchina bellica nella quale si è trasformata
la società intera, la resistenza palestinese può essere riconosciuta come ciò
che è: la resistenza di tutti noi ad un mondo che il cuore non lo possiede più.
Qui in pdf: FBK e guerra