Contro l’escalation bellica e i tagli alle scuole e alle università, e in
solidarietà con la Palestina, venerdì, è stata una giornata di lotta e sciopero
studentesco in decine di città italiane, organizzato da collettivi studenteschi
e dal movimento Fridays For Future, per denunciare anche “una situazione
drammatica per la scuola, con investimenti a pioggia nell’economia bellica e
poco o nulla per formazione, istruzione, cultura”. La giornata di mobilitazione
di venerdì è stata anche definita come “No Meloni Day”, con il blocco non solo
di scuole, ma anche di Università, con scioperi, presidi e manifestazioni.
Ieri, domenica, all’alba gli agenti della Digos di Torino hanno fatto irruzione
a casa di uno studente diciottenne, attivista dei collettivi studenteschi
torinesi, che è stato arrestato e posto agli arresti domiciliari.
Stamattina comparirà davanti al giudice per il processo per direttissima.
L’operazione è stata eseguita in flagranza differita, una procedura che permette
l’arresto anche a distanza di ore dal fatto.
La reazione del mondo studentesco non si è fatta attendere, con un comunicato di
diffuso ieri e che riportiamo per intero e diversi appuntamenti: oggi alle ore
16 davanti alla Prefettura in Piazza castello, domani alle ore 18, appuntamento
a Palazzo Nuovo per l’assembea pubblica di Torino per Gaza e il 28 novembre,
giornata di sciopero generale.
Abbiamo chiesto a uno studente del collettivo del liceo Einstein di raccontarci
la giornata di venerdì e di darci più informazioni rispetto all’arresto di ieri
e ai prossimi appuntamenti.
Di seguito, il comunicato uscito ieri dal Collettivo Gioberti di Torino,
Assemblea studentesca e KSA Torino a seguito dell’arresto in flagranza differita
nei confronti di Omar, uno studente del liceo Gioberti che ha partecipato alla
manifestazione studentesca di venerdì 14 novembre.
Stamattina, domenica 16 novembre, la polizia è piombata in casa di uno
studente appena diciottenne, portandolo in questura per poi metterlo ai
domiciliari, impedendogli categoricamente di andare a scuola nei
prossimi giorni, il suo processo è fissato per domani in direttissima e non gli
sono neanche stati consegnati gli atti per preparare la difesa, che invece che
in mesi dovrà essere preparata in ore.
Omar non è che uno studente, un compagno di scuola e di lotta, un
coetaneo che la polizia ha deciso di individuare come soggetto su cui
accanirsi violentemente per colpire ed intimidire tutti coloro che hanno
preso parte allo sciopero di venerdì 14 novembre.
È evidente infatti, che quest’azione miri a rompere l’unità e la coesione
studentesca andatasi a creare dopo mesi di mobilitazioni e occupazioni che hanno
visto protagoniste più di quaranta scuole Torinesi, nel tentativo di spaventare
lə innumerevoli studentə che si sono viste protagoniste delle piazza di venerdì
e provando a sminuire le azioni che sono state fatte a seguito di decisioni
COLLETTIVE, riducendole ad un atto dislocato e facendone gravare le conseguenze
su una singola persona.
In una giornata che ha visto un grande coinvolgimento da parte delle
scuole, la risposta da parte delle forze dell’ordine non è stata che
violenta, prima a Porta Nuova e in un secondo tempo a Città
Metropolitana, luogo in cui ci siamo diretti per portare ancora un volta
alla luce le gravi mancanze a livello strutturale e finanziario nell’istituzione
scolastica, situazioni di disagio per cui lə studentə hanno bloccato le scuole
dimostrando, come al liceo Lagrange, che nel
momento in cui si fa pressione i fondi per ristrutturare le scuole
magicamente compaiono.
Alla città metropolitana c’eravamo tutte e rivendichiamo collettivamente ciò che
invece la questura di Torino affilia ad una sola persona, e ricordiamo che i
famosi scontri per i quali viene accusato Omar sono partiti dopo che la polizia
ha chiuso uno studente in uno stanzino e gli ha spaccato la testa, prendendolo
in ostaggio.
Del resto, questo modus operandi non ci è nuovo. è un copione già
scritto infatti, quello in cui le dimensioni di scontro di piazza collettive
vengano depoliticizzate e ridotte a meri atti di violenza imputabili a
singole soggettività, unico modo per legittimare la repressione su chi
lotta contro gli sporchi interessi governativi, contro una scuola asservita alla
conversione bellica, contro al taglio sempre crescente di fondi al welfare
pubblico in favore del suprematismo occidentale a suon di bombe.
Siamo indignati, incazzati, ma non così sorpresi da queste dinamiche
repressive, infantili e quasi di ripicca da parte del governo, che si vede
messo all’angolo dai giovani ormai esasperati che non si tirano indietro
nel mostrare il loro dissenso ad un governo complice che giorno dopo
giorno mette sempre più da parte la scuola, preparandosi a tagliare 600
milioni di euro dall’istruzione per investirli nell’industria bellica.
Ma non basteranno i manganelli a farci abbassare la testa.
Siamo tenaci, furiosi e non abbiamo paura di alzare la voce continuando
a bloccare tutto per un futuro diverso,per un mondo nuovo.
In piazza con Omar c’eravamo tutti. Non era da solo, e per quanto
possano provare a confinarlo in casa e ad isolarlo non lo sarà nemmeno
ora.
Non gliela daremo vinta, la lotta è appena iniziata, torniamo nelle nostre
scuole, alziamo la voce,disertiamo le lezioni, blocchiamo tutto,
prendiamoci gli spazi scolastici che in quanto studenti ci appartengono e
dimostriamo che gli studenti sono una collettività unita a cui i loro sporchi
giochi di potere di divisione e repressione delle lotte
Omar ha il diritto di andare a scuola esattamente come tutti noi.
Se non lo potrà fare lui, non lo farà nessuno.
Omar libero subito
Tag - scuola
Il primo argomento della serata è stato quello del settore comunicazione, in
particolare con Ivan Corvasce di SLC CGIL, abbiamo parlato della cessione da
parte di TIM del suo ramo di azienda Telecontact. Quest’ ultima realtà impiega
quasi 1600 operatori telefonici dislocati in tutta Italia, occupati
nell’assistenza clienti di TIM, ma con la cessione all’srl DNA, il loro futuro
diventa molto incerto. Proprio per questo motivo, all’incontro con l’azienda, i
sindacati non hanno sottoscritto alcun accordo, ma anzi hanno lanciato uno stato
d’agitazione con astensione del lavoro per le ultime due ore di turno fino al 17
novembre, data in cui è stato indetto uno sciopero nazionale.
Buon ascolto
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Il secondo approfondimento della puntata lo abbiamo fatto in compagnia di un
gruppo di docenti,alcuni che hanno lavorato in passato e altri che lavorano
tutt’ ora, all’istituto tecnico e tecnologico Carlo Grassi di Torino. Abbiamo
voluto dar loro voce per denunciare una situazione che è sì, particolarmente
critica nello specifico, ma che è anche emblematica dello strapotere donato
legislativamente alla figura del dirigente scolastico in generale. Negli ultimi
anni infatti l’offerta formativa dell’istituto si è abbassata drasticamente, a
favore invece di un alto numero di iscritti, ma il personale intervistato
testimonia una situazione ben più grave con “presunte gravi e reiterate
irregolarità disciplinari, gestionali,amministrative-contabili e possibili
illeciti di rilevanza penale”.
Dal numero di insegnanti che si dimettono da questo istituto ogni anno (dai 15
alla ventina) si suppone un ambiente opprimente ed oppressivo per i docenti non
allineati al pensiero della dirigenza, tanto che uno dei nostri intervistati
(tutt’ora in servizio al Grassi) ha preferito restare nell’anonimato. Vi
lasciamo perciò a queste testimonianze utili a maggior ragione in vista del
prossimo open Day della scuola, per aiutare genitori e studenti ad agire una
scelta più consapevole sull’iscrizione.
Buon ascolto
(disegno di francesca ferrara)
Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio
di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente,
con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate
d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a
dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a
sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi
della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni
angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in
tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che
li guida rende la loro azione più di una semplice protesta.
Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi
dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del
futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È
anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri,
che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia,
spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato.
Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al
primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi
della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie;
discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian
piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice
una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in
modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro
intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni
denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e
Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che
sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera
a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel
genocidio.
Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che
alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo
sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di
civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si
continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando
le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può
andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa
Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la
rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come
il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La
Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione,
nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva
sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le
lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a
costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo
dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le
responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più
rispetto agli altri».
Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della
scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone.
Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia:
una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare
di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non
sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece
di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti
hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i
materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più
obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per
molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri,
non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai
Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta
chiamati “alternanza scuola-lavoro”.
L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare
l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi
nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati
incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per
carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in
centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice
addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza.
Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un
comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa
Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e
marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice
degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e
simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come
Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e
all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il
carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”.
D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento
che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà
hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio
rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo
che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che
l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è
cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e
formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito
il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli,
con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto
periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il
coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione
all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e
studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo
qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non
rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha
spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”. L’obiettivo
di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche
faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita».
L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande
più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un
luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno
raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro
aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la
scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente.
(pasquale frattini)
di Valentina Pazé* La politica insiste nel preparare la guerra ma, per fortuna,
l’attrazione per le armi appartiene più alla classe politica che ai cittadini.
“La scuola non si arruola”, …
Il 4 novembre, nell’anniversario della “vittoria” nella prima guerra mondiale,
in Italia si festeggiano le forze armate, si festeggia un immane massacro per
spostare un confine.
In quella guerra a migliaia scelsero di gettare le armi e finirono davanti ai
plotoni di esecuzione.
La memoria dei disertori e dei senzapatria di allora vive nella solidarietà
concreta con chi oggi diserta le guerre che insanguinano il pianeta.
Le celebrazioni militari del 4 novembre, servono a giustificare enormi spese
militari, l’invio delle armi e l’impegno diretto dell’Italia nelle missioni
militari all’estero, in difesa dei propri interessi neocoloniali.
In ogni dove ci sono governi che pretendono che si uccida per spostare un
confine, per annientare i “nemici”, altri esseri umani massacrati in nome della
patria, della religione, degli interessi di pochi potenti.
In ogni dove c’è chi si oppone, c’è chi diserta le guerre degli Stati, chi
straccia le bandiere di ogni nazione, perché sa che solo un’umanità
internazionale, plurale e solidale potrà costruire un mondo senza guerre.
Il governo Meloni attua continue campagne di propaganda militarista, per
arruolare i corpi e le coscienze, per assuefarci ad uno stato di guerra
permanente.
Una buona ragione per cambiare di segno al 4 novembre, per trasformarlo da festa
delle forze armate a festa dei disertori, per smilitarizzare la nostra città.
Siamo stati nelle piazze delle cerimonie militariste, davanti alle fabbriche
d’armi, nella lotta contro la militarizzazione delle scuole.
L’Assemblea Antimilitarista torinese già il 2 novembre era all’Oval Lingotto per
informare chi visitava le installazioni artistiche ospitate al centro congressi
che in quello stesso luogo un mese dopo si sarebbe svolta la decima edizione
dell’Aerospace and defense meetings mercato internazionale dell’industria
aerospaziale di guerra.
Nella mattinata del 4 novembre, durante il cambio turno, c’è stata un’azione di
blocco con slogan, fumogeni e lo striscione “Spezziamo le ali al militarismo” ai
cancelli della Thales Alenia Space,.
La Thales, una delle maggiori aziende aerospaziali del Piemonte, specializzata
in satelliti, fornisce all’aeronautica militare “gli occhi” per orientare droni
e velivoli da guerra sui loro obiettivi.
“Contro la guerra e chi la arma”. Questo striscione è stato appeso alla
passerella pedonale di fronte all’Oval Lingotto.
L’ufficio scolastico regionale il 4 novembre è stato pesantemente militarizzato
per il presidio lanciato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle
scuole.
Nella “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate” le istituzioni locali
e gli istituti scolastici sono invitati per legge a promuovere eventi, incontri,
etc sul tema dell’unità nazionale, della difesa della “Patria”, sulla sicurezza
e sul mestiere delle armi.
Quest’anno, in un clima di guerra interna ed esterna, l’Osservatorio contro la
militarizzazione delle scuole e delle Università aveva promosso “La scuola non
si arruola” un convegno on line di formazione degli insegnanti. Il Ministero lo
ha vietato perché “i contenuti non sono coerenti con la formazione degli
insegnanti”. Una censura senza precedenti, cui l’Osservatorio ha risposto con un
convegno su youtube.
L’assemblea antimilitarista ha aperto lo striscione “fuori i militari dalle
scuole” davanti alla polizia in assetto antisommossa. Tanti gli interventi che
hanno sottolineato la volontà di opporsi alla retorica patriottica, lottando per
smilitarizzare le scuole.
Gli antimilitaristi sono poi riusciti ad eludere l’occhiuta sorveglianza di Ros
e Digos entrando di corsa in piazza Castello mentre cominciavano a suonare le
bande. Ancora una volta, la piazza sequestrata dai militari per la cerimonia del
4 novembre, è stata attraversata dalla protesta dei senzapatria.
Con lo striscione “Disertare la guerra!” tra slogan, interventi e fumogeni
abbiamo bucato il blocco degli agenti dell’antisommossa che hanno provato a
spingerci fuori.
Una lunga giornata di informazione e lotta. Al termine ci siamo dati
appuntamento al 29 novembre per il corteo antimilitarista “Via i mercanti
d’armi”.
Il primo approfondimento della serata lo abbiamo fatto in compagnia di Marco
Veruggio del puntocritco.info, per commentare insieme l’annuncio da parte di
Amazon di voler procedere a licenziare 14mila suoi dipendenti. Abbiamo provato
ad andare alle radici di questa scelta, passando in rassegna i vari motivi che
hanno portato a ciò; ma abbiamo anche analizzato […]
(incisione di felice pignataro)
Lunedì 27 ottobre un piccolo gruppo di studenti di estrema destra ha organizzato
un volantinaggio davanti all’ingresso dell’Einstein, liceo torinese in Barriera
di Milano. A difendere il volantinaggio erano presenti numerosi agenti in tenuta
antisommossa e Digos. Studenti e studentesse del liceo hanno organizzato una
contestazione e la repressione della polizia è stata dura. Uno studente
contestatore è stato fermato, ammanettato e portato in questura. Pubblichiamo un
comunicato di genitori di studenti e studentesse dell’Einstein. Dal comunicato
emerge il silenzio di una dirigenza scolastica che già in passato si è distinta
per aver appoggiato la repressione e negato attenzione e dialogo nei confronti
della componente studentesca. La pubblicazione del comunicato non è solo un
gesto di vicinanza e solidarietà a chi scrive, ma è anche un’opportunità per
stimolare un ragionamento complessivo sulla repressione e il soffocamento della
democrazia all’interno della scuola: un fenomeno che ha una rilevanza nazionale,
non solo locale.
* * *
Noi, genitori delle studentesse e degli studenti del liceo Einstein, sentiamo il
dovere civile e morale di denunciare pubblicamente quanto accaduto il 27/10/2025
mattina, perché ciò che è successo davanti alla scuola non può essere
considerata una semplice questione di ordine pubblico. È stato invece un fatto
gravissimo, che chiama in causa la responsabilità della scuola e di tutti gli
adulti presenti.
Questa mattina tre ragazzi di Gioventù Nazionale (maggiorenni ed esterni alla
scuola) si sono presentati davanti alla sede del liceo Einstein di via Bologna
scortati da decine di agenti della Digos e dalla Celere, in assetto
antisommossa, per distribuire volantini politici e fare propaganda agli
studenti, minacciando e aggredendo chi si rifiutava di prendere i depliant.
L’intervento delle forze dell’ordine, attivatosi in forma subito violenta nei
confronti dei soli studenti e studentesse, compresi coloro che stavano
semplicemente entrando a scuola senza prendere parte al diverbio, si è concluso
con un ragazzo minorenne portato via in manette, davanti ai suoi compagni, nel
silenzio generale da parte dei docenti presenti e della dirigenza scolastica.
In quei momenti nessun professore, nessun rappresentante della dirigenza è
uscito, se non a cose fatte per invitare chi era rimasto fuori a entrare nelle
aule. Nessuno ha provato a mediare, a proteggere e a evitare che una scena così
violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi di tutte le studentesse e
degli studenti, lasciati soli.
Noi rifiutiamo questo silenzio. Una scuola che tace davanti alla violenza,
davanti alla propaganda di chi diffonde odio e discriminazione, smette di essere
un luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. La scuola dovrebbe
insegnare ai ragazzi a riconoscere e a respingere ogni forma di sopraffazione e
non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere nei confronti degli
studenti che la frequentano.
Lo studente è stato trattato e ammanettato come un criminale, e questo accade
mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione
vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico,
compromettendo l’ingresso a scuola. Non possiamo e non vogliamo accettarlo.
Denunciamo pubblicamente la gravità di questo episodio, il silenzio che lo ha
accompagnato e la mancanza di tutela nei confronti di tutte le studentesse e di
tutti gli studenti, molti dei quali ancora minorenni. Ci aspettiamo che l’intera
comunità scolastica – studenti, docenti e famiglie – rifletta su ciò che è
avvenuto e che da questo silenzio si levi una voce chiara e univoca, affinché
fatti di tale gravità rimangano episodi isolati. Ci auguriamo inoltre che, se
dovesse ripresentarsi una situazione simile, il coinvolgimento dei docenti e
della dirigenza si esplichi in modo da preservare le studentesse e gli studenti.
(alcuni genitori dell’einstein)
Questo governo e il ministro Valditara fanno di nuovo parlare di se, continuando
la battaglia contro l’educazione sessuo-affettiva nella scuola pubblica
italiana. Proprio la settimana scorsa la Commissione Cultura della Camera ha
approvato un emendamento al disegno di legge Valditara sul consenso informato,
estendendo il divieto di attività in merito anche alla scuola secondaria di […]
(disegno di otarebill)
Negli anni Novanta veniva chiamata “novembrite”, un neologismo tutto interno al
mondo della scuola, che indicava quel periodo in cui si moltiplicavano in tutto
il paese, le proteste e le occupazioni degli istituti. Oggi, dopo anni di
riforme e decreti sempre più restrittivi, si è arrivati alla concessione da
parte dei presidi, della settimana dello studente; un rito stanco che prevede un
paio di giorni in cui la didattica tradizionale viene sostituita da attività
ricreative miste a noiose conferenze.
Non è così in tutta Italia, tantomeno a Bologna, dove gli studenti dello storico
liceo classico Minghetti, promuovendo uno stato di agitazione basato su
contenuti chiari, sono arrivati a occupare la scuola. Lo scorso 18 marzo hanno
convocato un’assemblea nel cortile della sede centrale del liceo e hanno
proclamato l’occupazione della scuola. Forte la volontà di “esprimere il
dissenso al piano per il riarmo europeo, al Ddl sicurezza, alla riforma della
scuola Valditara e alle complicità del nostro governo con la pulizia etnica in
corso contro il popolo palestinese”.
Dopo alcune “positive interlocuzioni”, come aveva dichiarato la stessa
dirigenza, che spingeranno quest’ultima ad accettare i quattro giorni di
occupazione e la sospensione dell’attività didattica, gli studenti vengono a
sapere leggendo i giornali, alla fine dell’occupazione, di denunce penali e
provvedimenti disciplinari. Il collegio docenti ha votato infatti quasi
all’unanimità la mozione della dirigenza con l’indicazione ai consigli di classe
(l’unico organo collegiale deputato a deliberare in questa materia) di
sospendere con 6 in condotta gli studenti denunciati. Sempre da fonti stampa gli
studenti vengono a sapere che il preside ha inoltre sporto denuncia per
interruzioni di pubblico servizio a carico di cinque tra loro che hanno
partecipato alla mobilitazione. Tali denunce non sono “contro ignoti”, come da
prassi consolidata per le occupazioni scolastiche, ma segnalano nomi e cognomi
all’autorità giudiziaria. Seppure non pubblicata, arriva a qualche
rappresentante d’istituto anche una lettera firmata da alcuni docenti del liceo,
in cui si parla di “ennesima azione illegale, violenta e antidemocratica” da
parte di una “minuscola minoranza di studenti”, come a lasciare intendere che il
liceo Minghetti sia teatro ricorrente di comportamenti fuori controllo,
addirittura illegali, da parte di studenti estremisti.
Preoccupati da queste comunicazioni indirette, circa duecento genitori riescono
in poche ore a convocare una riunione on line e decidono di pubblicare una
lettera che in meno di mezza giornata verrà firmata da più di cinquecento
genitori. Nella lettera, indirizzata alle istituzioni scolastiche e politiche
cittadine, esprimono forte preoccupazione per le recenti decisioni della
dirigenza scolastica e del collegio dei docenti, poiché queste “rischiano di
compromettere seriamente il patto educativo su cui si fonda la comunità
scolastica”.
D’altronde, scrivono i genitori, poco chiaro è perché sia stato segnalato alla
magistratura un numero ristretto di studenti per un’azione collettiva che ha
coinvolto centinaia di ragazze e ragazzi – probabilmente i denunciati, i cui
nomi non sono ancora stati resi pubblici, sono proprio gli studenti che hanno
cercato il dialogo con la dirigenza, ovvero coloro che hanno voluto assumersi la
responsabilità di favorire un confronto, il che confermerebbe l’utilizzo delle
sanzioni come una forma di repressione della libertà di parola e di protesta.
In poco tempo, si solleva così in città un dibattito che porta alla richiesta di
un’interrogazione parlamentare al ministro dell’istruzione e del merito e a un
appello degli studenti del liceo Minghetti per chiedere supporto alla loro
richiesta alla scuola di ritirare le sanzioni disciplinari, che trova il
consenso, in poche ore, di più di diecimila firmatari.
Eppure, arriva a pochi giorni dalla fine dell’occupazione la conferma della
presa di posizione: “A occupazione terminata il collegio dei docenti, riunitosi
martedì 25 marzo, a larga maggioranza ha ritenuto opportuno invitare i consigli
di classe interessati a sanzionare studenti e studentesse identificabili come
organizzatori dell’occupazione con tre giorni di sospensione, convertibili in
lavori socialmente utili, e con il voto di 6 in condotta, che nei termini
dell’attuale normativa prevede ‘l’assegnazione di un elaborato critico in
materia di cittadinanza attiva e solidale’ da presentare in sede d’esame per gli
studenti delle classi terminali e all’inizio dell’anno scolastico successivo per
gli altri. […] Una sanzione moderata e dal valore educativo, ben più mite di
quella prevista dal regolamento. L’intento del collegio docenti, non certo
punitivo in senso reazionario, ma fermamente fondato su principi educativi, è
stato quello di valorizzare in chiave di cittadinanza il rapporto tra le proprie
azioni e le conseguenze che ne derivano e di promuovere il senso del limite come
strumento di maturazione e di crescita”.
Il 17 aprile viene convocato presso il liceo Minghetti un consiglio di istituto.
Una settimana prima alcuni consigli di classe avevano scelto di ritirare le
denunce disciplinari; a due studenti, però, in un consiglio di classe che ha
svolto le veci di un vero e proprio tribunale vengono confermate le condanne;
tutto ciò mentre le cinque denunce penali, viene annunciato nel consiglio di
istituto, seguiranno il loro corso. In questo modo, per ragioni in buona parte
sconosciute, sette studenti andranno incontro, nella loro giovane età, a
indagini e processi, pagando il costo per centinaia di studenti che hanno
partecipato all’occupazione.
Il “caso Minghetti” fa subito scuola. Nell’istituto Majorana di San Lazzaro di
Savena, a pochi chilometri dal capoluogo regionale, su invito della dirigente
scolastica viene tenuta una lezione di legalità tenuta da “alcuni rappresentanti
delle forze dell’ordine”. Polizia locale e carabinieri si alternano a spiegare
agli studenti “quali sono, in termini di legalità e normative, i rischi in cui
possono incorrere in caso di occupazione della scuola”. Secondo loro “occupare
abusivamente un istituto scolastico è un reato ed è disciplinato dall’art. 633
del codice penale”. Questo nonostante la Corte di Cassazione, il 30 marzo 2000,
abbia dichiarato come “Non è applicabile l’art. 633 alle occupazioni
studentesche perché tale norma ha lo scopo di punire solo l’arbitraria invasione
di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima […]. L’edificio scolastico,
inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli
studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della
comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro
limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è
prevista l’attività scolastica in senso stretto”.
Le forze dell’ordine schierate al Majorana spiegano ai ragazzi come “chiunque
invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di
occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona
offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro
1032”. In un sol colpo, la scuola pubblica abdica così alla propria funzione
invocando un intervento educante di soggetti che educanti non sono per natura ma
repressivi, e per giunta sottoponendo alle giovani generazioni lezioni
finalizzate unicamente a creare uno stato di paura e assoggettamento. Eppure, la
primaria funzione della scuola è proprio quella di educare al cambiamento, alla
trasformazione, finanche alla trasgressione se utile e necessario, come ci hanno
insegnato i più insigni pedagogisti, e non a una passiva subalternità a norme
che vengono pure stravolte da chi dovrebbe tutelarle.
La comunità scolastica è un insieme di tasselli e di certo quelli
imprescindibili sono gli studenti: senza di loro la scuola non esisterebbe. E
così mentre gli adulti agitano sanzioni e rinnovata sicurezza, sempre di più non
solo i dirigenti, ma anche la maggior parte del corpo docente – ed è questo che
preoccupa di più – non comprendono come di fronte a un modo in fiamme gli
studenti chiedano spazi di ascolto e libertà.
In questi giorni guardiamo con stupore quello che sta accadendo nelle università
americane. Ma anche a casa nostra c’è un clima di terrore: il decreto sicurezza
è entrato in vigore, il ministro riscrive i programmi a partire dalla Bibbia, la
guerra divampa, gli studenti vengono minacciati e sanzionati, le assemblee e i
diritti negati. Per chi ancora crede nella scuola, e nell’università, come
palestre di cittadinanza è arrivato il momento di rivederci oltre i banchi.
(giuseppe scandurra)
Le nuove indicazioni per la scuola primaria e dell’infanzia che sono state
diffuse da una settimana ci riportano ad un clima da Minculpop, allo slogan
“libro e moschetto, fascista perfetto”. Ad una prima lettura sembra un ritorno
al passato. Il latino nelle medie, le poesie imparate a memoria, il focus sulla
storia patria rimandano direttamente […]