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“No Meloni day” a Torino, blocchi, cariche e un arresto
Contro l’escalation bellica e i tagli alle scuole e alle università, e in solidarietà con la Palestina, venerdì, è stata una giornata di lotta e sciopero studentesco in decine di città italiane, organizzato da collettivi studenteschi e dal movimento Fridays For Future, per denunciare anche “una situazione drammatica per la scuola, con investimenti a pioggia nell’economia bellica e poco o nulla per formazione, istruzione, cultura”. La giornata di mobilitazione di venerdì è stata anche definita come “No Meloni Day”, con il blocco non solo di scuole, ma anche di Università, con scioperi, presidi e manifestazioni. Ieri, domenica, all’alba gli agenti della Digos di Torino hanno fatto irruzione a casa di uno studente diciottenne, attivista dei collettivi studenteschi torinesi, che è stato arrestato e posto agli arresti domiciliari. Stamattina comparirà davanti al giudice per il processo per direttissima. L’operazione è stata eseguita in flagranza differita, una procedura che permette l’arresto anche a distanza di ore dal fatto. La reazione del mondo studentesco non si è fatta attendere, con un comunicato di diffuso ieri e che riportiamo per intero e diversi appuntamenti: oggi alle ore 16 davanti alla Prefettura in Piazza castello, domani alle ore 18, appuntamento a Palazzo Nuovo per l’assembea pubblica di Torino per Gaza e il 28 novembre, giornata di sciopero generale. Abbiamo chiesto a uno studente del collettivo del liceo Einstein di raccontarci la giornata di venerdì e di darci più informazioni rispetto all’arresto di ieri e ai prossimi appuntamenti. Di seguito, il comunicato uscito ieri dal Collettivo Gioberti di Torino, Assemblea studentesca e KSA Torino a seguito dell’arresto in flagranza differita nei confronti di Omar, uno studente del liceo Gioberti che ha partecipato alla manifestazione studentesca di venerdì 14 novembre. Stamattina, domenica 16 novembre, la polizia è piombata in casa di uno studente appena diciottenne, portandolo in questura per poi metterlo ai domiciliari, impedendogli categoricamente di andare a scuola nei prossimi giorni, il suo processo è fissato per domani in direttissima e non gli sono neanche stati consegnati gli atti per preparare la difesa, che invece che in mesi dovrà essere preparata in ore. Omar non è che uno studente, un compagno di scuola e di lotta, un coetaneo che la polizia ha deciso di individuare come soggetto su cui accanirsi violentemente per colpire ed intimidire tutti coloro che hanno preso parte allo sciopero di venerdì 14 novembre. È evidente infatti, che quest’azione miri a rompere l’unità e la coesione studentesca andatasi a creare dopo mesi di mobilitazioni e occupazioni che hanno visto protagoniste più di quaranta scuole Torinesi, nel tentativo di spaventare lə innumerevoli studentə che si sono viste protagoniste delle piazza di venerdì e provando a sminuire le azioni che sono state fatte a seguito di decisioni COLLETTIVE, riducendole ad un atto dislocato e facendone gravare le conseguenze su una singola persona. In una giornata che ha visto un grande coinvolgimento da parte delle scuole, la risposta da parte delle forze dell’ordine non è stata che violenta, prima a Porta Nuova e in un secondo tempo a Città Metropolitana, luogo in cui ci siamo diretti per portare ancora un volta alla luce le gravi mancanze a livello strutturale e finanziario nell’istituzione scolastica, situazioni di disagio per cui lə studentə hanno bloccato le scuole dimostrando, come al liceo Lagrange, che nel momento in cui si fa pressione i fondi per ristrutturare le scuole magicamente compaiono. Alla città metropolitana c’eravamo tutte e rivendichiamo collettivamente ciò che invece la questura di Torino affilia ad una sola persona, e ricordiamo che i famosi scontri per i quali viene accusato Omar sono partiti dopo che la polizia ha chiuso uno studente in uno stanzino e gli ha spaccato la testa, prendendolo in ostaggio. Del resto, questo modus operandi non ci è nuovo. è un copione già scritto infatti, quello in cui le dimensioni di scontro di piazza collettive vengano depoliticizzate e ridotte a meri atti di violenza imputabili a singole soggettività, unico modo per legittimare la repressione su chi lotta contro gli sporchi interessi governativi, contro una scuola asservita alla conversione bellica, contro al taglio sempre crescente di fondi al welfare pubblico in favore del suprematismo occidentale a suon di bombe. Siamo indignati, incazzati, ma non così sorpresi da queste dinamiche repressive, infantili e quasi di ripicca da parte del governo, che si vede messo all’angolo dai giovani ormai esasperati che non si tirano indietro nel mostrare il loro dissenso ad un governo complice che giorno dopo giorno mette sempre più da parte la scuola, preparandosi a tagliare 600 milioni di euro dall’istruzione per investirli nell’industria bellica. Ma non basteranno i manganelli a farci abbassare la testa. Siamo tenaci, furiosi e non abbiamo paura di alzare la voce continuando a bloccare tutto per un futuro diverso,per un mondo nuovo. In piazza con Omar c’eravamo tutti. Non era da solo, e per quanto possano provare a confinarlo in casa e ad isolarlo non lo sarà nemmeno ora. Non gliela daremo vinta, la lotta è appena iniziata, torniamo nelle nostre scuole, alziamo la voce,disertiamo le lezioni, blocchiamo tutto, prendiamoci gli spazi scolastici che in quanto studenti ci appartengono e dimostriamo che gli studenti sono una collettività unita a cui i loro sporchi giochi di potere di divisione e repressione delle lotte Omar ha il diritto di andare a scuola esattamente come tutti noi. Se non lo potrà fare lui, non lo farà nessuno. Omar libero subito
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Il primo argomento della serata è stato quello del settore comunicazione, in particolare con Ivan Corvasce di SLC CGIL, abbiamo parlato della cessione da parte di TIM del suo ramo di azienda Telecontact. Quest’ ultima realtà impiega quasi 1600 operatori telefonici dislocati in tutta Italia, occupati nell’assistenza clienti di TIM, ma con la cessione all’srl DNA, il loro futuro diventa molto incerto. Proprio per questo motivo, all’incontro con l’azienda, i sindacati non hanno sottoscritto alcun accordo, ma anzi hanno lanciato uno stato d’agitazione con astensione del lavoro per le ultime due ore di turno fino al 17 novembre, data in cui è stato indetto uno sciopero nazionale. Buon ascolto -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Il secondo approfondimento della puntata lo abbiamo fatto in compagnia di un gruppo di docenti,alcuni che hanno lavorato in passato e altri che lavorano tutt’ ora, all’istituto tecnico e tecnologico Carlo Grassi di Torino. Abbiamo voluto dar loro voce per denunciare una situazione che è sì, particolarmente critica nello specifico, ma che è anche emblematica dello strapotere donato legislativamente alla figura del dirigente scolastico in generale. Negli ultimi anni infatti l’offerta formativa dell’istituto si è abbassata drasticamente, a favore invece di un alto numero di iscritti, ma il personale intervistato testimonia una situazione ben più grave con “presunte gravi e reiterate irregolarità disciplinari, gestionali,amministrative-contabili e possibili illeciti di rilevanza penale”. Dal numero di insegnanti che si dimettono da questo istituto ogni anno (dai 15 alla ventina) si suppone un ambiente opprimente ed oppressivo per i docenti non allineati al pensiero della dirigenza, tanto che uno dei nostri intervistati (tutt’ora in servizio al Grassi) ha preferito restare nell’anonimato. Vi lasciamo perciò a queste testimonianze utili a maggior ragione in vista del prossimo open Day della scuola, per aiutare genitori e studenti ad agire una scelta più consapevole sull’iscrizione. Buon ascolto
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Scampia, una scuola occupata per Gaza (e non solo)
(disegno di francesca ferrara) Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente, con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che li guida rende la loro azione più di una semplice protesta. Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri, che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia, spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato. Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie; discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel genocidio. Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione, nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più rispetto agli altri». Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone. Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia: una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri, non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta chiamati “alternanza scuola-lavoro”. L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza. Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”. D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli, con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”.  L’obiettivo di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita». L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente. (pasquale frattini)
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4 novembre a Torino. Blocchi, contestazioni, azioni dirette
Il 4 novembre, nell’anniversario della “vittoria” nella prima guerra mondiale, in Italia si festeggiano le forze armate, si festeggia un immane massacro per spostare un confine. In quella guerra a migliaia scelsero di gettare le armi e finirono davanti ai plotoni di esecuzione. La memoria dei disertori e dei senzapatria di allora vive nella solidarietà concreta con chi oggi diserta le guerre che insanguinano il pianeta. Le celebrazioni militari del 4 novembre, servono a giustificare enormi spese militari, l’invio delle armi e l’impegno diretto dell’Italia nelle missioni militari all’estero, in difesa dei propri interessi neocoloniali. In ogni dove ci sono governi che pretendono che si uccida per spostare un confine, per annientare i “nemici”, altri esseri umani massacrati in nome della patria, della religione, degli interessi di pochi potenti. In ogni dove c’è chi si oppone, c’è chi diserta le guerre degli Stati, chi straccia le bandiere di ogni nazione, perché sa che solo un’umanità internazionale, plurale e solidale potrà costruire un mondo senza guerre. Il governo Meloni attua continue campagne di propaganda militarista, per arruolare i corpi e le coscienze, per assuefarci ad uno stato di guerra permanente. Una buona ragione per cambiare di segno al 4 novembre, per trasformarlo da festa delle forze armate a festa dei disertori, per smilitarizzare la nostra città. Siamo stati nelle piazze delle cerimonie militariste, davanti alle fabbriche d’armi, nella lotta contro la militarizzazione delle scuole. L’Assemblea Antimilitarista torinese già il 2 novembre era all’Oval Lingotto per informare chi visitava le installazioni artistiche ospitate al centro congressi che in quello stesso luogo un mese dopo si sarebbe svolta la decima edizione dell’Aerospace and defense meetings mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra. Nella mattinata del 4 novembre, durante il cambio turno, c’è stata un’azione di blocco con slogan, fumogeni e lo striscione “Spezziamo le ali al militarismo” ai cancelli della Thales Alenia Space,. La Thales, una delle maggiori aziende aerospaziali del Piemonte, specializzata in satelliti, fornisce all’aeronautica militare “gli occhi” per orientare droni e velivoli da guerra sui loro obiettivi. “Contro la guerra e chi la arma”. Questo striscione è stato appeso alla passerella pedonale di fronte all’Oval Lingotto. L’ufficio scolastico regionale il 4 novembre è stato pesantemente militarizzato per il presidio lanciato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole. Nella “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate” le istituzioni locali e gli istituti scolastici sono invitati per legge a promuovere eventi, incontri, etc sul tema dell’unità nazionale, della difesa della “Patria”, sulla sicurezza e sul mestiere delle armi. Quest’anno, in un clima di guerra interna ed esterna, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università aveva promosso “La scuola non si arruola” un convegno on line di formazione degli insegnanti. Il Ministero lo ha vietato perché “i contenuti non sono coerenti con la formazione degli insegnanti”. Una censura senza precedenti, cui l’Osservatorio ha risposto con un convegno su youtube. L’assemblea antimilitarista ha aperto lo striscione “fuori i militari dalle scuole” davanti alla polizia in assetto antisommossa. Tanti gli interventi che hanno sottolineato la volontà di opporsi alla retorica patriottica, lottando per smilitarizzare le scuole. Gli antimilitaristi sono poi riusciti ad eludere l’occhiuta sorveglianza di Ros e Digos entrando di corsa in piazza Castello mentre cominciavano a suonare le bande. Ancora una volta, la piazza sequestrata dai militari per la cerimonia del 4 novembre, è stata attraversata dalla protesta dei senzapatria. Con lo striscione “Disertare la guerra!” tra slogan, interventi e fumogeni abbiamo bucato il blocco degli agenti dell’antisommossa che hanno provato a spingerci fuori. Una lunga giornata di informazione e lotta. Al termine ci siamo dati appuntamento al 29 novembre per il corteo antimilitarista “Via i mercanti d’armi”.
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Polizia violenta davanti al liceo Einstein di Torino. Il comunicato dei genitori
(incisione di felice pignataro) Lunedì 27 ottobre un piccolo gruppo di studenti di estrema destra ha organizzato un volantinaggio davanti all’ingresso dell’Einstein, liceo torinese in Barriera di Milano. A difendere il volantinaggio erano presenti numerosi agenti in tenuta antisommossa e Digos. Studenti e studentesse del liceo hanno organizzato una contestazione e la repressione della polizia è stata dura. Uno studente contestatore è stato fermato, ammanettato e portato in questura. Pubblichiamo un comunicato di genitori di studenti e studentesse dell’Einstein. Dal comunicato emerge il silenzio di una dirigenza scolastica che già in passato si è distinta per aver appoggiato la repressione e negato attenzione e dialogo nei confronti della componente studentesca. La pubblicazione del comunicato non è solo un gesto di vicinanza e solidarietà a chi scrive, ma è anche un’opportunità per stimolare un ragionamento complessivo sulla repressione e il soffocamento della democrazia all’interno della scuola: un fenomeno che ha una rilevanza nazionale, non solo locale. *   *   * Noi, genitori delle studentesse e degli studenti del liceo Einstein, sentiamo il dovere civile e morale di denunciare pubblicamente quanto accaduto il 27/10/2025 mattina, perché ciò che è successo davanti alla scuola non può essere considerata una semplice questione di ordine pubblico. È stato invece un fatto gravissimo, che chiama in causa la responsabilità della scuola e di tutti gli adulti presenti. Questa mattina tre ragazzi di Gioventù Nazionale (maggiorenni ed esterni alla scuola) si sono presentati davanti alla sede del liceo Einstein di via Bologna scortati da decine di agenti della Digos e dalla Celere, in assetto antisommossa, per distribuire volantini politici e fare propaganda agli studenti, minacciando e aggredendo chi si rifiutava di prendere i depliant. L’intervento delle forze dell’ordine, attivatosi in forma subito violenta nei confronti dei soli studenti e studentesse, compresi coloro che stavano semplicemente entrando a scuola senza prendere parte al diverbio, si è concluso con un ragazzo minorenne portato via in manette, davanti ai suoi compagni, nel silenzio generale da parte dei docenti presenti e della dirigenza scolastica. In quei momenti nessun professore, nessun rappresentante della dirigenza è uscito, se non a cose fatte per invitare chi era rimasto fuori a entrare nelle aule. Nessuno ha provato a mediare, a proteggere e a evitare che una scena così violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi di tutte le studentesse e degli studenti, lasciati soli. Noi rifiutiamo questo silenzio. Una scuola che tace davanti alla violenza, davanti alla propaganda di chi diffonde odio e discriminazione, smette di essere un luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. La scuola dovrebbe insegnare ai ragazzi a riconoscere e a respingere ogni forma di sopraffazione e non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere nei confronti degli studenti che la frequentano. Lo studente è stato trattato e ammanettato come un criminale, e questo accade mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico, compromettendo l’ingresso a scuola. Non possiamo e non vogliamo accettarlo. Denunciamo pubblicamente la gravità di questo episodio, il silenzio che lo ha accompagnato e la mancanza di tutela nei confronti di tutte le studentesse e di tutti gli studenti, molti dei quali ancora minorenni. Ci aspettiamo che l’intera comunità scolastica – studenti, docenti e famiglie – rifletta su ciò che è avvenuto e che da questo silenzio si levi una voce chiara e univoca, affinché fatti di tale gravità rimangano episodi isolati. Ci auguriamo inoltre che, se dovesse ripresentarsi una situazione simile, il coinvolgimento dei docenti e della dirigenza si esplichi in modo da preservare le studentesse e gli studenti. (alcuni genitori dell’einstein)
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I tentativi di Valditara nel censurare l’educazione sessuo-affettiva
Questo governo e il ministro Valditara fanno di nuovo parlare di se, continuando la battaglia contro l’educazione sessuo-affettiva nella scuola pubblica italiana. Proprio la settimana scorsa la Commissione Cultura della Camera ha approvato un emendamento al disegno di legge Valditara sul consenso informato, estendendo il divieto di attività in merito anche alla scuola secondaria di […]
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A Bologna il decreto sicurezza entra a scuola dalla porta principale
(disegno di otarebill) Negli anni Novanta veniva chiamata “novembrite”, un neologismo tutto interno al mondo della scuola, che indicava quel periodo in cui si moltiplicavano in tutto il paese, le proteste e le occupazioni degli istituti. Oggi, dopo anni di riforme e decreti sempre più restrittivi, si è arrivati alla concessione da parte dei presidi, della settimana dello studente; un rito stanco che prevede un paio di giorni in cui la didattica tradizionale viene sostituita da attività ricreative miste a noiose conferenze. Non è così in tutta Italia, tantomeno a Bologna, dove gli studenti dello storico liceo classico Minghetti, promuovendo uno stato di agitazione basato su contenuti chiari, sono arrivati a occupare la scuola. Lo scorso 18 marzo hanno convocato un’assemblea nel cortile della sede centrale del liceo e hanno proclamato l’occupazione della scuola. Forte la volontà di “esprimere il dissenso al piano per il riarmo europeo, al Ddl sicurezza, alla riforma della scuola Valditara e alle complicità del nostro governo con la pulizia etnica in corso contro il popolo palestinese”. Dopo alcune “positive interlocuzioni”, come aveva dichiarato la stessa dirigenza, che spingeranno quest’ultima ad accettare i quattro giorni di occupazione e la sospensione dell’attività didattica, gli studenti vengono a sapere leggendo i giornali, alla fine dell’occupazione, di denunce penali e provvedimenti disciplinari. Il collegio docenti ha votato infatti quasi all’unanimità la mozione della dirigenza con l’indicazione ai consigli di classe (l’unico organo collegiale deputato a deliberare in questa materia) di sospendere con 6 in condotta gli studenti denunciati. Sempre da fonti stampa gli studenti vengono a sapere che il preside ha inoltre sporto denuncia per interruzioni di pubblico servizio a carico di cinque tra loro che hanno partecipato alla mobilitazione. Tali denunce non sono “contro ignoti”, come da prassi consolidata per le occupazioni scolastiche, ma segnalano nomi e cognomi all’autorità giudiziaria. Seppure non pubblicata, arriva a qualche rappresentante d’istituto anche una lettera firmata da alcuni docenti del liceo, in cui si parla di “ennesima azione illegale, violenta e antidemocratica” da parte di una “minuscola minoranza di studenti”, come a lasciare intendere che il liceo Minghetti sia teatro ricorrente di comportamenti fuori controllo, addirittura illegali, da parte di studenti estremisti. Preoccupati da queste comunicazioni indirette, circa duecento genitori riescono in poche ore a convocare una riunione on line e decidono di pubblicare una lettera che in meno di mezza giornata verrà firmata da più di cinquecento genitori. Nella lettera, indirizzata alle istituzioni scolastiche e politiche cittadine, esprimono forte preoccupazione per le recenti decisioni della dirigenza scolastica e del collegio dei docenti, poiché queste “rischiano di compromettere seriamente il patto educativo su cui si fonda la comunità scolastica”. D’altronde, scrivono i genitori, poco chiaro è perché sia stato segnalato alla magistratura un numero ristretto di studenti per un’azione collettiva che ha coinvolto centinaia di ragazze e ragazzi – probabilmente i denunciati, i cui nomi non sono ancora stati resi pubblici, sono proprio gli studenti che hanno cercato il dialogo con la dirigenza, ovvero coloro che hanno voluto assumersi la responsabilità di favorire un confronto, il che confermerebbe l’utilizzo delle sanzioni come una forma di repressione della libertà di parola e di protesta. In poco tempo, si solleva così in città un dibattito che porta alla richiesta di un’interrogazione parlamentare al ministro dell’istruzione e del merito e a un appello degli studenti del liceo Minghetti per chiedere supporto alla loro richiesta alla scuola di ritirare le sanzioni disciplinari, che trova il consenso, in poche ore, di più di diecimila firmatari. Eppure, arriva a pochi giorni dalla fine dell’occupazione la conferma della presa di posizione: “A occupazione terminata il collegio dei docenti, riunitosi martedì 25 marzo, a larga maggioranza ha ritenuto opportuno invitare i consigli di classe interessati a sanzionare studenti e studentesse identificabili come organizzatori dell’occupazione con tre giorni di sospensione, convertibili in lavori socialmente utili, e con il voto di 6 in condotta, che nei termini dell’attuale normativa prevede ‘l’assegnazione di un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale’ da presentare in sede d’esame per gli studenti delle classi terminali e all’inizio dell’anno scolastico successivo per gli altri. […] Una sanzione moderata e dal valore educativo, ben più mite di quella prevista dal regolamento. L’intento del collegio docenti, non certo punitivo in senso reazionario, ma fermamente fondato su principi educativi, è stato quello di valorizzare in chiave di cittadinanza il rapporto tra le proprie azioni e le conseguenze che ne derivano e di promuovere il senso del limite come strumento di maturazione e di crescita”. Il 17 aprile viene convocato presso il liceo Minghetti un consiglio di istituto. Una settimana prima alcuni consigli di classe avevano scelto di ritirare le denunce disciplinari; a due studenti, però, in un consiglio di classe che ha svolto le veci di un vero e proprio tribunale vengono confermate le condanne; tutto ciò mentre le cinque denunce penali, viene annunciato nel consiglio di istituto, seguiranno il loro corso. In questo modo, per ragioni in buona parte sconosciute, sette studenti andranno incontro, nella loro giovane età, a indagini e processi, pagando il costo per centinaia di studenti che hanno partecipato all’occupazione.   Il “caso Minghetti” fa subito scuola. Nell’istituto Majorana di San Lazzaro di Savena, a pochi chilometri dal capoluogo regionale, su invito della dirigente scolastica viene tenuta una lezione di legalità tenuta da “alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine”. Polizia locale e carabinieri si alternano a spiegare agli studenti “quali sono, in termini di legalità e normative, i rischi in cui possono incorrere in caso di occupazione della scuola”. Secondo loro “occupare abusivamente un istituto scolastico è un reato ed è disciplinato dall’art. 633 del codice penale”. Questo nonostante la Corte di Cassazione, il 30 marzo 2000, abbia dichiarato come “Non è applicabile l’art. 633 alle occupazioni studentesche perché tale norma ha lo scopo di punire solo l’arbitraria invasione di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima […]. L’edificio scolastico, inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività scolastica in senso stretto”. Le forze dell’ordine schierate al Majorana spiegano ai ragazzi come “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1032”. In un sol colpo, la scuola pubblica abdica così alla propria funzione invocando un intervento educante di soggetti che educanti non sono per natura ma repressivi, e per giunta sottoponendo alle giovani generazioni lezioni finalizzate unicamente a creare uno stato di paura e assoggettamento. Eppure, la primaria funzione della scuola è proprio quella di educare al cambiamento, alla trasformazione, finanche alla trasgressione se utile e necessario, come ci hanno insegnato i più insigni pedagogisti, e non a una passiva subalternità a norme che vengono pure stravolte da chi dovrebbe tutelarle. La comunità scolastica è un insieme di tasselli e di certo quelli imprescindibili sono gli studenti: senza di loro la scuola non esisterebbe. E così mentre gli adulti agitano sanzioni e rinnovata sicurezza, sempre di più non solo i dirigenti, ma anche la maggior parte del corpo docente – ed è questo che preoccupa di più – non comprendono come di fronte a un modo in fiamme gli studenti chiedano spazi di ascolto e libertà.   In questi giorni guardiamo con stupore quello che sta accadendo nelle università americane. Ma anche a casa nostra c’è un clima di terrore: il decreto sicurezza è entrato in vigore, il ministro riscrive i programmi a partire dalla Bibbia, la guerra divampa, gli studenti vengono minacciati e sanzionati, le assemblee e i diritti negati. Per chi ancora crede nella scuola, e nell’università, come palestre di cittadinanza è arrivato il momento di rivederci oltre i banchi. (giuseppe scandurra) 
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