Un’altra strada è possibile. Sulla conferenza autogestita per la salute mentale(disegno di cyop&kaf)
“[Le cure] le ho subìte non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa
un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre,
causa farmaci, non ho fatto che dormire”.
In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, Paolo Cognetti, premio Strega
per Le otto montagne, ha raccontato due settimane di ricovero in psichiatria a
seguito di un Tso, determinato dopo essere “stato morso dalla depressione”, cui
sono seguite fasi maniacali che hanno procurato allarme tra gli amici: “C’era il
timore, per me infondato – afferma lo scrittore – che potessi compiere gesti
estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”. Nel Reparto psichiatrico di
diagnosi e cura, dice ancora Cognetti, “ti svegliano alle sei di mattina e ti
obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se
fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o
partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se
dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta”.
Non abbiamo gli strumenti né vogliamo qui approfondire la vicenda personale
dello scrittore, non sappiamo se il morso della depressione fosse stato in
qualche modo precedentemente preso in carico e curato, tuttavia ci pare
importante interrogare quello che resta tra gli spazi bianchi di alcuni passaggi
di questa intervista: sono stati realizzati tutti i tentativi, pure previsti
dalla legge, per convincere e non costringere la persona alle necessità della
cura, o la presenza della polizia ad accompagnare l’ambulanza era già
costrizione? Quello che sembra essere prevalentemente un trattamento
psicofarmacologico molto pesante (“non ho fatto altro che dormire”, “ti
obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti”) può rappresentare lo
strumento prevalente della cura alla sofferenza psichica? Un’affermazione come
quella per cui si esce da un reparto ospedaliero solo facendo quello che il
personale sanitario si aspetta, quale tipologia di istituzione racconta? Ancora,
quando Cognetti afferma: “Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico
in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice.
Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. […] Per me è tempo di
alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la
verità, a costo di essere sfrontato”, quanto ci sta dicendo sullo stigma che
ancora circonda il mondo del disagio psichico? Quanto appartiene a questo ordine
del discorso il passaggio in cui l’intervistatore, senza motivazione palese, ci
tiene a sottolineare che Cognetti parla di questa esperienza con i capelli tinti
di rosso? E quanto, ancora, l’allarme determinato da comportamenti legati a una
sofferenza psichica è davvero giustificato, o quanto è legato ai processi di
normalizzazione sociale?
Questa intervista a Cognetti ci interroga sullo stato della cura della salute
mentale in Italia. Lo stesso interrogativo da cui si è mossa la seconda
Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale, convocata da decine di
organizzazioni nazionali e territoriali, e che si è svolta il 6 e 7 dicembre a
Roma, ritrovando grande partecipazione (almeno cinquecento persone, più di
centocinquanta interventi tra plenarie e tavoli tematici, di utenti, familiari,
associazioni, operatori, ricercatori), la significativa presenza di tanti
giovani, l’impegno, a partire dal riconoscimento della centralità politica del
tema della salute mentale, a una nuova stagione di mobilitazione sociale per
“riprendere” quei diritti sempre più negati dal depauperamento culturale,
operativo ed economico dei servizi pubblici di settore. Perché, come ha messo in
evidenza nella relazione introduttiva la presidente dell’Unasam Gisella Trincas,
siamo di fronte a «una crisi profonda del Servizio sanitario nazionale, in cui
si concretizzano forme di neo-istituzionalizzazione senza alcun intervento nei
servizi di comunità. C’è un impoverimento progressivo dei servizi di salute
mentale e, come mostra il Ddl Zanfini, si manifesta una tragica nostalgia del
manicomio. Eppure a tutti noi non servono ambulatori psichiatrici che dispensano
farmaci a vita senza consenso, ma centri di salute mentale di comunità.
Resistono comunque importanti esperienze nei servizi pubblici e il cambiamento è
possibile».
La necessità di non lasciarsi sopraffare dal disfattismo e di mettere in campo
forme di resistenza anche radicali è riecheggiata in più interventi. Come ha
ricordato la sociologa Mariagrazia Giannichedda: «Dobbiamo tenere insieme la
delusione e la rabbia per quanto si è determinato con la speranza che un’altra
strada è possibile. Insomma, come pure faceva Franco Basaglia, bisogna ritornare
a Gramsci, contrapponendo al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà
e della prassi». Un ottimismo che certo si scontra con l’abbandono cui sono
troppe volte destinate le persone che si affidano ai servizi, come ha raccontano
il giovane attivista per la salute mentale Elio Pitazalis, o, come ha
sottolineato la psichiatra Giovanna Del Giudice, con il permanere di pratiche
che violano i diritti umani delle persone con sofferenza mentale (innanzitutto
la contenzione, che pure non solo permane quale intervento routinario in tanti
reparti psichiatrici ospedalieri, coinvolgendo un numero crescente di minori, ma
è utilizzata anche nelle strutture per anziani, nelle comunità per persone con
disabilità, in tutte quelle nuove forme di internamento che, rispondendo a
logiche prevalentemente securitarie e di profitto, interessano oltre
trecentomila persone in Italia). Con la contenzione tornano anche strumenti che
in troppi immaginavano erroneamente appartenere al passato, come l’elettroshock,
con alcune Aziende sanitarie, come la Roma 5, che investono parte dei sessanta
milioni di euro destinati nel 2021 al rafforzamento dei Dipartimenti di salute
mentale (tra altro proprio per il superamento della contenzione meccanica in
tutti i luoghi di cura della salute mentale) nell’acquisto di nuovi macchinari
per la terapia elettroconvulsivante.
La contenzione sembra essere utilizzata anche nei Centri di permanenza per i
rimpatri destinati ai migranti, i cui dispositivi manicomializzanti sono stati
al centro di molti interventi che ne hanno denunciato disumanità e stretta
relazione con le questioni inerenti alla salute mentale. Relazione che sussiste,
evidentemente, anche con il carcere, altro tema che pure è stato più volte
richiamato e discusso. Tra gli aspetti più significativi di questa due giorni,
infatti, c’è stata proprio la tensione a superare lo specialismo disciplinare
della psichiatria, il tentativo di tornare a porre la questione della salute
mentale nel suo intreccio con i più complessivi fenomeni di quella realtà che
Sergio Piro ci ha insegnato essere costituita da “esclusione, sofferenza e
guerra” nelle sue dimensioni interconnesse globali e intra-soggettive. È in
questa prospettiva che si comprende il senso sia delle parole utilizzate da
Fabio Lotti, per il quale la «salute mentale è un imperativo per la pace», sia
della connessione, evidenziata da Maurizio Landini, tra Ddl Sicurezza e Ddl
Zanfini, quali risultati di una «stessa logica che discende da una involuzione
autoritaria, da una pericolosa deriva sociale, politica e culturale», rispetto
alle quali il segretario della Cgil ha rivendicato la necessità di una «rivolta
sociale, anche per contrastare quella pandemia neoliberale che ha portato al
dominio del mercato anche nel campo della salute».
Quindi, come ha sottolineato lo psichiatra Alessandro Saullo, a fronte di un
«violento attacco al lavoro in salute mentale, che si sta realizzando anche
imputando nuove responsabilità di tipo securitario agli operatori» bisogna
reagire «ponendo al centro i diritti sociali delle persone marginali,
contrastando la violenza istituzionale opacizzata da anni di discorsi sulla
violenza sugli operatori, stabilendo delle questioni che facciano da
spartiacque».
La conferenza si è conclusa approvando un documento che contiene dieci proposte
rivolte a governo, regioni e comuni, un decalogo che vuole rappresentare la base
programmatica sulla quale lavorare e per la quale lottare, a partire dai
prossimi mesi, in difesa di quella Legge 180 che, come ha sottolineato Stefano
Cecconi, membro del coordinamento della conferenza, travalica i confini della
salute mentale e rappresenta un cardine della nostra democrazia.
Non possiamo sapere quali saranno i reali risultati di questo impegno alla
mobilitazione, abbiamo attraversato troppe stagioni per non avere contezza del
rischio che lo stesso ceda il passo alla disillusione. C’è però un elemento di
novità che sembra emergere da questa conferenza e da tanti incontri di questi
ultimi mesi: la partecipazione attiva di tanti giovani insoddisfatti da una
formazione accademica che pure in settori come la psichiatria, l’antropologia,
la sociologia, la bioetica, appare sempre più vacua e standardizzata, incapace
di saziare il desiderio di conoscenza e rispondere ai reali bisogni dei giovani
e della società. Se riusciremo ad ascoltarli senza la pretesa di impartire
lezioni, se non avremo paura di rinunciare agli ossequi accademici e alle
commemorazioni monumentali, se sapremo metterci in dialogo accettando la
ricchezza del conflitto generazionale, se avremo l’umiltà di imparare che da
questi ragazzi si può, si deve imparare, forse non saremo costretti ad
arrenderci alla banalità del non può essere altrimenti. Ricordando, come ha
fatto Cognetti nella sua intervista, che “è vivere la cura per riuscire a
vivere”. (antonio esposito)