(disegno di cristina moccia)
Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino
a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro
di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino,
del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di
una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di
salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo
stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà
mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.
* * *
LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza
psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una
residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di
movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori.
RI: Perché sei recluso qui?
LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un
diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società
cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria.
Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’
insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di
psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui
avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di
dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano
arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che
mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di
portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare
da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando
nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina,
allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…».
Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile
dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e
ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la
polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante,
il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino.
RI: Adesso il Sestante è stato chiuso?
LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e
riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle
isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive
ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che
non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo
lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da
lettere dopo due.
RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate?
LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute
Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra
o con lo psicologo.
RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato?
LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza
del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno
processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di
volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo
bianco.
RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”?
LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda
disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né
di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo
in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni
auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto
che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è
discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base
ai criteri della sua Scienza.
RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo
di trattamenti sono sottoposti?
LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato
intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento
farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo
sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli
altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata,
ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al
silenzio.
RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere
alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali…
LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa
età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e
hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio
richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in
questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è
sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo
psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo
psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica
perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi
di dollari all’anno.
RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo
bianco”: cosa vuol dire?
LG: L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un
internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza
limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando
sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato
socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa
probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La
pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello
stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne
chiedono da tempo l’abrogazione.
RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide
dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che
affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che
lottava per la deistituzionalizzazione?
LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma
Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento
libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere
insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di
produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il
carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non
c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene
criminalizzata qualsiasi forma di protesta.
RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di
massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte
altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali
– basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di
precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche
hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in
altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare
di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare
con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella
psichiatria.
LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria
è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa
del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona
imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una
povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non
commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata
come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa
carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è
un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è
strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a
essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta
antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di
servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile.
Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo
in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un
lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole,
attraverso le diagnosi di DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre
patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta
la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo,
secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che
serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una
società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere
psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità,
una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale.
Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a
chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione
pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre
negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un
oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che
molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il
manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale
post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha
le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla
pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti,
territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile
ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica.
RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla
costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria
territoriale oggi?
LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I
reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai
giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi
e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato
fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni,
rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente
venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle
carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle
specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si
passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche
residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi,
dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non
esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di
rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare
cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei
politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione.
Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo
contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a
intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il
trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio,
a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo
trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse
politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle
che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli
aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i
giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che
si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe
riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera
struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque
impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione
ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la
pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che
le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non
hanno l’intenzione di concederla.
Tag - sanità
(disegno di cyop&kaf)
“[Le cure] le ho subìte non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa
un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre,
causa farmaci, non ho fatto che dormire”.
In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, Paolo Cognetti, premio Strega
per Le otto montagne, ha raccontato due settimane di ricovero in psichiatria a
seguito di un Tso, determinato dopo essere “stato morso dalla depressione”, cui
sono seguite fasi maniacali che hanno procurato allarme tra gli amici: “C’era il
timore, per me infondato – afferma lo scrittore – che potessi compiere gesti
estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”. Nel Reparto psichiatrico di
diagnosi e cura, dice ancora Cognetti, “ti svegliano alle sei di mattina e ti
obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se
fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o
partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se
dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta”.
Non abbiamo gli strumenti né vogliamo qui approfondire la vicenda personale
dello scrittore, non sappiamo se il morso della depressione fosse stato in
qualche modo precedentemente preso in carico e curato, tuttavia ci pare
importante interrogare quello che resta tra gli spazi bianchi di alcuni passaggi
di questa intervista: sono stati realizzati tutti i tentativi, pure previsti
dalla legge, per convincere e non costringere la persona alle necessità della
cura, o la presenza della polizia ad accompagnare l’ambulanza era già
costrizione? Quello che sembra essere prevalentemente un trattamento
psicofarmacologico molto pesante (“non ho fatto altro che dormire”, “ti
obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti”) può rappresentare lo
strumento prevalente della cura alla sofferenza psichica? Un’affermazione come
quella per cui si esce da un reparto ospedaliero solo facendo quello che il
personale sanitario si aspetta, quale tipologia di istituzione racconta? Ancora,
quando Cognetti afferma: “Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico
in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice.
Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. […] Per me è tempo di
alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la
verità, a costo di essere sfrontato”, quanto ci sta dicendo sullo stigma che
ancora circonda il mondo del disagio psichico? Quanto appartiene a questo ordine
del discorso il passaggio in cui l’intervistatore, senza motivazione palese, ci
tiene a sottolineare che Cognetti parla di questa esperienza con i capelli tinti
di rosso? E quanto, ancora, l’allarme determinato da comportamenti legati a una
sofferenza psichica è davvero giustificato, o quanto è legato ai processi di
normalizzazione sociale?
Questa intervista a Cognetti ci interroga sullo stato della cura della salute
mentale in Italia. Lo stesso interrogativo da cui si è mossa la seconda
Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale, convocata da decine di
organizzazioni nazionali e territoriali, e che si è svolta il 6 e 7 dicembre a
Roma, ritrovando grande partecipazione (almeno cinquecento persone, più di
centocinquanta interventi tra plenarie e tavoli tematici, di utenti, familiari,
associazioni, operatori, ricercatori), la significativa presenza di tanti
giovani, l’impegno, a partire dal riconoscimento della centralità politica del
tema della salute mentale, a una nuova stagione di mobilitazione sociale per
“riprendere” quei diritti sempre più negati dal depauperamento culturale,
operativo ed economico dei servizi pubblici di settore. Perché, come ha messo in
evidenza nella relazione introduttiva la presidente dell’Unasam Gisella Trincas,
siamo di fronte a «una crisi profonda del Servizio sanitario nazionale, in cui
si concretizzano forme di neo-istituzionalizzazione senza alcun intervento nei
servizi di comunità. C’è un impoverimento progressivo dei servizi di salute
mentale e, come mostra il Ddl Zanfini, si manifesta una tragica nostalgia del
manicomio. Eppure a tutti noi non servono ambulatori psichiatrici che dispensano
farmaci a vita senza consenso, ma centri di salute mentale di comunità.
Resistono comunque importanti esperienze nei servizi pubblici e il cambiamento è
possibile».
La necessità di non lasciarsi sopraffare dal disfattismo e di mettere in campo
forme di resistenza anche radicali è riecheggiata in più interventi. Come ha
ricordato la sociologa Mariagrazia Giannichedda: «Dobbiamo tenere insieme la
delusione e la rabbia per quanto si è determinato con la speranza che un’altra
strada è possibile. Insomma, come pure faceva Franco Basaglia, bisogna ritornare
a Gramsci, contrapponendo al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà
e della prassi». Un ottimismo che certo si scontra con l’abbandono cui sono
troppe volte destinate le persone che si affidano ai servizi, come ha raccontano
il giovane attivista per la salute mentale Elio Pitazalis, o, come ha
sottolineato la psichiatra Giovanna Del Giudice, con il permanere di pratiche
che violano i diritti umani delle persone con sofferenza mentale (innanzitutto
la contenzione, che pure non solo permane quale intervento routinario in tanti
reparti psichiatrici ospedalieri, coinvolgendo un numero crescente di minori, ma
è utilizzata anche nelle strutture per anziani, nelle comunità per persone con
disabilità, in tutte quelle nuove forme di internamento che, rispondendo a
logiche prevalentemente securitarie e di profitto, interessano oltre
trecentomila persone in Italia). Con la contenzione tornano anche strumenti che
in troppi immaginavano erroneamente appartenere al passato, come l’elettroshock,
con alcune Aziende sanitarie, come la Roma 5, che investono parte dei sessanta
milioni di euro destinati nel 2021 al rafforzamento dei Dipartimenti di salute
mentale (tra altro proprio per il superamento della contenzione meccanica in
tutti i luoghi di cura della salute mentale) nell’acquisto di nuovi macchinari
per la terapia elettroconvulsivante.
La contenzione sembra essere utilizzata anche nei Centri di permanenza per i
rimpatri destinati ai migranti, i cui dispositivi manicomializzanti sono stati
al centro di molti interventi che ne hanno denunciato disumanità e stretta
relazione con le questioni inerenti alla salute mentale. Relazione che sussiste,
evidentemente, anche con il carcere, altro tema che pure è stato più volte
richiamato e discusso. Tra gli aspetti più significativi di questa due giorni,
infatti, c’è stata proprio la tensione a superare lo specialismo disciplinare
della psichiatria, il tentativo di tornare a porre la questione della salute
mentale nel suo intreccio con i più complessivi fenomeni di quella realtà che
Sergio Piro ci ha insegnato essere costituita da “esclusione, sofferenza e
guerra” nelle sue dimensioni interconnesse globali e intra-soggettive. È in
questa prospettiva che si comprende il senso sia delle parole utilizzate da
Fabio Lotti, per il quale la «salute mentale è un imperativo per la pace», sia
della connessione, evidenziata da Maurizio Landini, tra Ddl Sicurezza e Ddl
Zanfini, quali risultati di una «stessa logica che discende da una involuzione
autoritaria, da una pericolosa deriva sociale, politica e culturale», rispetto
alle quali il segretario della Cgil ha rivendicato la necessità di una «rivolta
sociale, anche per contrastare quella pandemia neoliberale che ha portato al
dominio del mercato anche nel campo della salute».
Quindi, come ha sottolineato lo psichiatra Alessandro Saullo, a fronte di un
«violento attacco al lavoro in salute mentale, che si sta realizzando anche
imputando nuove responsabilità di tipo securitario agli operatori» bisogna
reagire «ponendo al centro i diritti sociali delle persone marginali,
contrastando la violenza istituzionale opacizzata da anni di discorsi sulla
violenza sugli operatori, stabilendo delle questioni che facciano da
spartiacque».
La conferenza si è conclusa approvando un documento che contiene dieci proposte
rivolte a governo, regioni e comuni, un decalogo che vuole rappresentare la base
programmatica sulla quale lavorare e per la quale lottare, a partire dai
prossimi mesi, in difesa di quella Legge 180 che, come ha sottolineato Stefano
Cecconi, membro del coordinamento della conferenza, travalica i confini della
salute mentale e rappresenta un cardine della nostra democrazia.
Non possiamo sapere quali saranno i reali risultati di questo impegno alla
mobilitazione, abbiamo attraversato troppe stagioni per non avere contezza del
rischio che lo stesso ceda il passo alla disillusione. C’è però un elemento di
novità che sembra emergere da questa conferenza e da tanti incontri di questi
ultimi mesi: la partecipazione attiva di tanti giovani insoddisfatti da una
formazione accademica che pure in settori come la psichiatria, l’antropologia,
la sociologia, la bioetica, appare sempre più vacua e standardizzata, incapace
di saziare il desiderio di conoscenza e rispondere ai reali bisogni dei giovani
e della società. Se riusciremo ad ascoltarli senza la pretesa di impartire
lezioni, se non avremo paura di rinunciare agli ossequi accademici e alle
commemorazioni monumentali, se sapremo metterci in dialogo accettando la
ricchezza del conflitto generazionale, se avremo l’umiltà di imparare che da
questi ragazzi si può, si deve imparare, forse non saremo costretti ad
arrenderci alla banalità del non può essere altrimenti. Ricordando, come ha
fatto Cognetti nella sua intervista, che “è vivere la cura per riuscire a
vivere”. (antonio esposito)
Aprirà domani le proprie porte alla città, con una conferenza stampa (ore 11:00)
e l'inaugurazione ufficiale, l'Ambulatorio popolare di Villa Medusa, a Bagnoli.
Lo spazio potrà contare sull'impegno di circa trenta operatori volontari [...]
L'articolo Bagnoli, apre l’ambulatorio popolare di Villa Medusa sembra essere il
primo su NapoliMONiTOR.
La situazione dei pronto soccorso italiani è di continua emergenza.
Quest’estate, il caos dell’ospedale Cardarelli di Napoli, in cui le barelle con
i malati erano ammassate a trenta centimetri l’una dall’altra, ha fatto gridare
allo scandalo. [...]
L'articolo “Il tempo qui non passa mai”. Una giornata al pronto soccorso sembra
essere il primo su NapoliMONiTOR.
il rapporto falso tra sanità e debito nella Regione Piemonte in una ricerca di
Assemblea21