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Anatomia di un’attesa. Quando il disturbo psichico incrocia il codice penale
(disegno di sam3) Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni. Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno, in attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica, ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi. Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione, favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze faticose e danni concreti. Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal 2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive, comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia diagnosi”. Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali, spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora circondato da stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato, senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte essenziale della cura. Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni. Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile. Silvio evade e viene trasferito in carcere. Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale, resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche, medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione arenatasi nel silenzio. La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica. Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione dell’ordine. Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente, poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano. Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa, trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un “dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione psichica che peggiora progressivamente. Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16 maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”, contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione. Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande complessità. Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza della propria condizione? L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche, Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere. Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione, dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e l’attenuazione del sintomo. Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi, ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela. Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa: l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato. Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale, il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la regressione si consolida, e si fa cronica. Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste, nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua tutela. Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa, perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione, rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha bisogno. Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un abbandono, o peggio ancora, come un tradimento. Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile, segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza. Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria, fatica oggi ad attivarsi. In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il suo retroterra educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura. Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a rendere la cura un’astrazione inapplicabile. Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile. Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita, ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia aperto a fatica. Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio. Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri, entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3 luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima di settembre. Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale. Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico. L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre, sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono dunque quasi naturali. La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere, Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito. Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita, lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo, dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto, ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non dover, fare il primo passo. (vera nau)
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La contenzione come violazione dei diritti fondamentali. La sentenza della Corte Costituzionale sui Tso
(disegno di canemorto) Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta “legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla persona interessata o al suo legale rappresentante. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele, evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. LA SENTENZA Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza. Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”. Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul giusto processo. La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si trovi in stato di “incapacità naturale”. Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice “è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale”. La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.  QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella sentenza. Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona. Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti. L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione. IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13, comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di “audizione”, e quindi di ascolto. Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle “violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”. Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo. La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
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Proteste e ricorsi. La battaglia per l’assistenza scolastica ai disabili in provincia di Caserta
(archivio disegni napolimonitor) Ho conosciuto S. in un pomeriggio di novembre a un evento in un centro sportivo della provincia casertana in occasione della presentazione di un progetto per l’autonomia di persone disabili. S. è una bambina, con fattezze già di adolescente, con disturbi dello spettro autistico. In quel pomeriggio, circondata da tanti ragazzi e ragazze, era in compagnia della mamma, che scoprii successivamente di una determinazione ed energia ineguagliabili, e di un’altra mamma, con il proprio figliolo disabile, che si rivelò molto legata alla famiglia di S. per le comuni battaglie che le avevano viste impegnate per il futuro dei piccoli. A quell’evento era intervenuta anche il ministro della disabilità Alessandra Locatelli, spegnendo con un nulla di fatto le speranze riposte dalla mamma di S. per un impegno concreto nel risolvere la situazione di tanti ragazzi disabili privati dell’assistenza scolastica con personale specializzato. Salutai S. e la mamma, che la portava verso l’uscita della manifestazione dove le aspettava il padre e conservai a lungo la sensazione di una fatica quotidiana sperimentata dai genitori di un soggetto autistico che non ha pause e chiama a una responsabilità poderosa, senza sconti. L’organizzazione carente delle politiche sociali nella città di Caserta ha garantito un’assistenza scolastica a S. e agli studenti come lei ad anno scolastico inoltrato, nel mese di febbraio. Le motivazioni addotte sono state il ritardo dei bandi per il conferimento del servizio a cooperative di operatori qualificati. Come ha stabilito una recente sentenza del Tar, le esigenze di bilancio non possono però considerarsi prevalenti rispetto al diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica degli studenti con disabilità: l’eventuale diminuzione delle ore di assistenza determina il risarcimento del danno. La figura dell’assistente alla comunicazione è importante per agevolare la frequenza e la permanenza dello studente, facilitarne la partecipazione alle attività didattiche in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali. Nel 2024 i genitori di S., come quelli di tanti altri alunni disabili dell’Ambito Sociale C01 di cui Caserta è l’ente capofila (gli altri comuni sono San Nicola La Strada, Casagiove e Castel Morrone), non hanno potuto che aspettare il ripristino del servizio, senza ricevere riscontri dall’amministrazione. Nel 2025 si assiste a una replica. Gli operatori delle cooperative non vengono pagati. Di proroga in proroga il servizio, iniziato a dicembre 2024, subisce due interruzioni per più di quindici giorni, una a gennaio e una a fine febbraio. Dal 14 marzo riprende con una proroga di venti giorni. Vincenzo Mataluna, direttore dell’Azienda speciale consortile, la cui creazione fu a suo tempo annunciata con grande clamore mediatico, dichiara che si sta provvedendo alla transizione delle risorse economiche dal Comune alla nuova azienda, che gestisce i servizi alla persona nell’ambito delle politiche sociali. “In realtà, l’Azienda non è operativa sul piano finanziario – dice Mataluna – e fino al 30 giugno è il Comune a svolgere la gestione dei servizi”. Il bando per assegnare il servizio non viene espletato e lunedì 7 aprile si registra un’altra interruzione. L’11 aprile, al termine di un presidio, la segreteria provinciale della Confederazione sindacati autonomi federati italiani incontra i funzionari competenti sulla questione, in presenza di una delegazione dei genitori. I funzionari mostrano una nuova determina con una proroga di dieci giorni del servizio. Questa proroga, però, non sarà accolta dalla cooperativa a causa di un numero già esorbitante di contratti temporanei che andrebbero convertiti a tempo indeterminato. Allo stesso tempo l’incontro fortuito dei familiari dei disabili, fuori al Comune, con l’assessore alle politiche sociali e vicesindaco rivela l’inerzia e l’inefficienza della macchina amministrativa. I genitori di S. ricorrono così a Osservatorio 182, un’associazione nata su iniziativa di diverse associazioni di familiari attive a livello nazionale con l’obiettivo di fornire assistenza legale a costo zero sui temi dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Con l’assistenza degli avvocati di Osservatorio 182 i genitori di S. ottengono un’ultima ordinanza del Tribunale amministrativo regionale che ordina al comune di Caserta “di provvedere al ripristino del servizio di assistenza specialistica, in favore della minore nel più breve tempo possibile”. Il 18 aprile, alla fine, il colpo di scena: il consiglio dei ministri “in considerazione degli accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata che compromettono il buon andamento dell’azione amministrativa” delibera “lo scioglimento del consiglio comunale di Caserta e l’affidamento della gestione, per diciotto mesi, a una commissione straordinaria”. La decisione segue a un’indagine sui rapporti tra esponenti della giunta e dirigenti del Comune accusati di aver concorso ad affidare appalti comunali in cambio di favori, soldi e voti a imprenditori ritenuti vicini al clan Belforte di Marcianise. La commissione straordinaria che dovrà gestire il Comune nei prossimi mesi non sarà decisiva nel risolvere i problemi nell’ambito delle politiche sociali, che si sommano a tanti altri che hanno decretato la prematura fine del governo cittadino. Se è vero che il corrente anno scolastico volge alla fine, si è rivelato fondamentale allora chiedere il risarcimento del danno all’ente e così provare a scoraggiare il ripetersi di una insufficiente gestione del servizio anche nel prossimo anno. Di recente, infatti, il Tar della Campania ha condannato il comune di Caserta al risarcimento di un danno subito da D., un bambino con disabilità, per la mancata assistenza prevista dal Piano educativo individualizzato. Il ricorso era stato presentato dagli avvocati di Osservatorio 182 in collaborazione con l’associazione Vorrei prendere il treno, entrambe attive in tutta Italia per la tutela dei diritti degli studenti con disabilità. Il Comune è stato quindi condannato a risarcire l’alunno con mille euro per ogni mese in cui l’assistenza è stata assente e con quattrocento euro per ogni mese in cui è stata erogata solo parzialmente. Una sentenza che riafferma un principio essenziale: il diritto all’inclusione scolastica non può essere ignorato, ritardato o ridotto. Ora la mamma di S. aspetta con fiducia la sentenza del Tar anche per il suo analogo ricorso. (mena moretta)
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Come nei manicomi. Nuova udienza del processo per i maltrattamenti alla Stella Maris di Pisa
(disegno di cyop&kaf) Soltanto nel 2022, donne e uomini sono stati contenuti immobilizzati a letto 7534 volte, in dodici regioni italiane. Il numero è certamente molto più alto, visto che le altre otto non hanno inviato dati utilizzabili o affermano di non averli. Tra queste la Regione Toscana: “I dati richiesti non sono detenuti dalla scrivente amministrazione”, è la sorprendente risposta ricevuta dall’amministrazione, i cui funzionari – forse ignari dell’impegno preso dall’intesa Stato-Regioni dell’aprile 2022 sul monitoraggio delle contenzioni entro luglio 2024 – hanno invitato a rivolgersi direttamente a ciascuna delle aziende sanitarie locali, oppure ai singoli reparti psichiatrici ospedalieri. Tra le varie strutture, anche in quella di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris, veniva praticata la contenzione meccanica. Per i maltrattamenti avvenuti in questo luogo è attualmente in corso un processo presso il tribunale di Pisa e domani, martedì 6 maggio, in piazza della Repubblica, in occasione della ripresa del processo – durante la quale verrà ascoltato il nuovo consulente tecnico della difesa – si terrà un presidio in solidarietà alle vittime degli abusi.   Pubblichiamo a seguire alcuni estratti del comunicato scritto dal Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud al termine dell’ultima udienza (febbraio 2025).  *     *     * Cinque testimoni della difesa sono stati ascoltati: il medico di base, due assistenti, un infermiere e uno psichiatra. Il canovaccio usato dalla difesa è stato lo stesso delle altre volte: i testimoni chiamati in aula hanno sostenuto che i violenti erano in realtà i ragazzi con autismo; nessuno di loro, hanno dichiarato, ha mai visto i colleghi maltrattare gli ospiti. Non c’è stato alcun riscontro alle riprese delle telecamere installate in sala mensa, che hanno immortalato più di duecentottanta episodi di violenza in meno di tre mesi. Una violenza non episodica ma strutturale. Eppure sia le due assistenti che l’infermiere hanno dovuto ammettere di aver ricevuto delle sanzioni disciplinari dalla direzione della Stella Maris per essere stati ripresi dalla telecamere mentre assistevano, senza intervenire, ad atti violenti contro i ragazzi (una conferma indiretta della conoscenza dei maltrattamenti da parte dei vertici della struttura). È emersa inoltre, come era già stato messo in evidenza anche durante le udienze precedenti, la mancata formazione del personale da parte della Stella Maris. Una delle due assistenti ha infatti riferito di avere conseguito l’attestato di Oss (Operatrice Socio Sanitaria) solamente nel 2018, quindi dopo gli abusi che risalgono al 2016. Molto importanti in quest’ottica sono stati gli interrogatori del dottor Marinari e dell’infermiere Biagini. Lo psichiatra ha ammesso di avere svolto un doppio ruolo, cosa abbastanza inquietante già di per sé. Come primario della psichiatria territoriale partecipava alle riunioni semestrali con la Stella Maris per la stesura dei piani individualizzati dei ragazzi, mansione per la quale seguiva soprattutto i ragazzi con autismo (il settantacinque per cento dei ragazzi di Montalto). Dopo la pensione è stato poi assoldato dalla società come consulente a contratto e poi ancora come responsabile sanitario della struttura di Montalto fino a oggi. Marinari ha affermato che da primario territoriale della psichiatria proponeva i ricoveri per i ragazzi quando i costi, in caso di assistenza domiciliare oppure di ricovero in struttura al momento della crisi, erano considerati troppo alti dalla Società della salute (consorzio di diversi comuni e delle relative unità sanitarie locali per l’erogazione di servizi sociosanitari, ndr) Ha detto testualmente: «Inserire ragazzi a Montalto era spesso un risparmio economico per la Società della salute». L’infermiere Biagini ha raccontato in maniera molto asettica il funzionamento dell’infermeria, dove la contenzione era una pratica costante e quotidiana. Ha usato queste parole: «C’era un letto con le contenzioni di tipo meccanico, con cinghie ancorate ai quattro lati del letto, più altre cinghie che venivano usate sopra queste». Come nei manicomi. L’infermiere ha detto anche che questi contenimenti provocavano spesso lesioni e lividi e a volte fratture, citando il caso di un ragazzo con una gamba rotta. Ha poi continuato dicendo che a Montalto di Fauglia non c’erano corsi di formazione su come usare questo tipo di contenzione, ma molta improvvisazione. Testualmente: «Non c’è stato nessun corso sulla contenzione, veniva detto tutto a voce». Lo stesso infermiere ha confermato l’uso dei tappeti contenitivi, pratica che era già emersa durante le scorse udienze. L’utilizzo dei tappeti contenitivi non è stato mai autorizzato né dalla Regione Toscana, né dall’Asl, né dalla Società della salute. I tappeti contenitivi non risultano essere dei dispositivi approvati da utilizzare in caso di contenzione. L’infermiere, a precisa domanda da parte di un avvocato, ha risposto che a oggi nella struttura di Marina di Pisa non usano più questo dispositivo, che è stato sostituito da una non meglio qualificata “coperta di sabbia”. Su questo ulteriore dispositivo di contenzione non è stato possibile avere altre informazioni, dal momento che nessun avvocato si è sentito di chiederne. Ma in cosa consiste questa “coperta di sabbia”? Che tipo di dispositivo è? Chi l’ha autorizzato? Qualcuno prima o poi dovrà dare una spiegazione, soprattutto per i familiari delle persone ospitate nella struttura che meritano risposte chiare e trasparenti. In generale, la Stella Maris dovrebbe avere il coraggio di prendere una posizione chiara e definitiva contro ogni metodo coercitivo e degradante. Sarebbe importante che la fondazione abbandonasse per sempre qualsiasi pratica di contenzione o di trattamento inumano. Indipendentemente dall’esito del processo, le sofferenze vissute rimarranno impresse nelle coscienze di chi li ha subite e delle loro famiglie. Esprimiamo loro tutta la nostra solidarietà. La presunta eccellenza della Stella Maris è un grande bluff. A Fauglia non venivano fornite cure o trattamenti terapeutici, ma si perpetravano atti di violenza e trattamenti degradanti e umilianti. Tutte le pratiche di contenzione, tra cui anche i tappeti contenitivi o le “coperte di sabbia” rappresentano, oltre che inaccettabili forme di abuso, uno dei tanti simboli del fallimento dell’utopia psichiatrica. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
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Quale salute mentale? Un’intervista a Luigi Gallini
(disegno di cristina moccia) Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino, del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud. Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.  *     *    * LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori. RI: Perché sei recluso qui? LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria. Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’ insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina, allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…». Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino. RI: Adesso il Sestante è stato chiuso? LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da lettere dopo due. RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate? LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra o con lo psicologo. RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato? LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo bianco. RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”? LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base ai criteri della sua Scienza. RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo di trattamenti sono sottoposti? LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata, ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al silenzio. RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali… LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi di dollari all’anno. RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo bianco”: cosa vuol dire? LG:  L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne chiedono da tempo l’abrogazione. RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che lottava per la deistituzionalizzazione? LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene criminalizzata qualsiasi forma di protesta. RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali – basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella psichiatria. LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile. Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole, attraverso le diagnosi di  DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo, secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità, una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale. Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti, territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica. RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria territoriale oggi? LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni, rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi, dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione. Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio, a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non hanno l’intenzione di concederla.
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Un’altra strada è possibile. Sulla conferenza autogestita per la salute mentale
(disegno di cyop&kaf) “[Le cure] le ho subìte non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire”. In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, Paolo Cognetti, premio Strega per Le otto montagne, ha raccontato due settimane di ricovero in psichiatria a seguito di un Tso, determinato dopo essere “stato morso dalla depressione”, cui sono seguite fasi maniacali che hanno procurato allarme tra gli amici: “C’era il timore, per me infondato – afferma lo scrittore – che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”. Nel Reparto psichiatrico di diagnosi e cura, dice ancora Cognetti, “ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta”. Non abbiamo gli strumenti né vogliamo qui approfondire la vicenda personale dello scrittore, non sappiamo se il morso della depressione fosse stato in qualche modo precedentemente preso in carico e curato, tuttavia ci pare importante interrogare quello che resta tra gli spazi bianchi di alcuni passaggi di questa intervista: sono stati realizzati tutti i tentativi, pure previsti dalla legge, per convincere e non costringere la persona alle necessità della cura, o la presenza della polizia ad accompagnare l’ambulanza era già costrizione? Quello che sembra essere prevalentemente un trattamento psicofarmacologico molto pesante (“non ho fatto altro che dormire”, “ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti”) può rappresentare lo strumento prevalente della cura alla sofferenza psichica? Un’affermazione come quella per cui si esce da un reparto ospedaliero solo facendo quello che il personale sanitario si aspetta, quale tipologia di istituzione racconta? Ancora, quando Cognetti afferma: “Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. […] Per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato”, quanto ci sta dicendo sullo stigma che ancora circonda il mondo del disagio psichico? Quanto appartiene a questo ordine del discorso il passaggio in cui l’intervistatore, senza motivazione palese, ci tiene a sottolineare che Cognetti parla di questa esperienza con i capelli tinti di rosso? E quanto, ancora, l’allarme determinato da comportamenti legati a una sofferenza psichica è davvero giustificato, o quanto è legato ai processi di normalizzazione sociale? Questa intervista a Cognetti ci interroga sullo stato della cura della salute mentale in Italia. Lo stesso interrogativo da cui si è mossa la seconda Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale, convocata da decine di organizzazioni nazionali e territoriali, e che si è svolta il 6 e 7 dicembre a Roma, ritrovando grande partecipazione (almeno cinquecento persone, più di centocinquanta interventi tra plenarie e tavoli tematici, di utenti, familiari, associazioni, operatori, ricercatori), la significativa presenza di tanti giovani, l’impegno, a partire dal riconoscimento della centralità politica del tema della salute mentale, a una nuova stagione di mobilitazione sociale per “riprendere” quei diritti sempre più negati dal depauperamento culturale, operativo ed economico dei servizi pubblici di settore. Perché, come ha messo in evidenza nella relazione introduttiva la presidente dell’Unasam Gisella Trincas, siamo di fronte a «una crisi profonda del Servizio sanitario nazionale, in cui si concretizzano forme di neo-istituzionalizzazione senza alcun intervento nei servizi di comunità. C’è un impoverimento progressivo dei servizi di salute mentale e, come mostra il Ddl Zanfini, si manifesta una tragica nostalgia del manicomio. Eppure a tutti noi non servono ambulatori psichiatrici che dispensano farmaci a vita senza consenso, ma centri di salute mentale di comunità. Resistono comunque importanti esperienze nei servizi pubblici e il cambiamento è possibile». La necessità di non lasciarsi sopraffare dal disfattismo e di mettere in campo forme di resistenza anche radicali è riecheggiata in più interventi. Come ha ricordato la sociologa Mariagrazia Giannichedda: «Dobbiamo tenere insieme la delusione e la rabbia per quanto si è determinato con la speranza che un’altra strada è possibile. Insomma, come pure faceva Franco Basaglia, bisogna ritornare a Gramsci, contrapponendo al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà e della prassi». Un ottimismo che certo si scontra con l’abbandono cui sono troppe volte destinate le persone che si affidano ai servizi, come ha raccontano il giovane attivista per la salute mentale Elio Pitazalis, o, come ha sottolineato la psichiatra Giovanna Del Giudice, con il permanere di pratiche che violano i diritti umani delle persone con sofferenza mentale (innanzitutto la contenzione, che pure non solo permane quale intervento routinario in tanti reparti psichiatrici ospedalieri, coinvolgendo un numero crescente di minori, ma è utilizzata anche nelle strutture per anziani, nelle comunità per persone con disabilità, in tutte quelle nuove forme di internamento che, rispondendo a logiche prevalentemente securitarie e di profitto, interessano oltre trecentomila persone in Italia). Con la contenzione tornano anche strumenti che in troppi immaginavano erroneamente appartenere al passato, come l’elettroshock, con alcune Aziende sanitarie, come la Roma 5, che investono parte dei sessanta milioni di euro destinati nel 2021 al rafforzamento dei Dipartimenti di salute mentale (tra altro proprio per il superamento della contenzione meccanica in tutti i luoghi di cura della salute mentale) nell’acquisto di nuovi macchinari per la terapia elettroconvulsivante. La contenzione sembra essere utilizzata anche nei Centri di permanenza per i rimpatri destinati ai migranti, i cui dispositivi manicomializzanti sono stati al centro di molti interventi che ne hanno denunciato disumanità e stretta relazione con le questioni inerenti alla salute mentale. Relazione che sussiste, evidentemente, anche con il carcere, altro tema che pure è stato più volte richiamato e discusso. Tra gli aspetti più significativi di questa due giorni, infatti, c’è stata proprio la tensione a superare lo specialismo disciplinare della psichiatria, il tentativo di tornare a porre la questione della salute mentale nel suo intreccio con i più complessivi fenomeni di quella realtà che Sergio Piro ci ha insegnato essere costituita da “esclusione, sofferenza e guerra” nelle sue dimensioni interconnesse globali e intra-soggettive. È in questa prospettiva che si comprende il senso sia delle parole utilizzate da Fabio Lotti, per il quale la «salute mentale è un imperativo per la pace», sia della connessione, evidenziata da Maurizio Landini, tra Ddl Sicurezza e Ddl Zanfini, quali risultati di una «stessa logica che discende da una involuzione autoritaria, da una pericolosa deriva sociale, politica e culturale», rispetto alle quali il segretario della Cgil ha rivendicato la necessità di una «rivolta sociale, anche per contrastare quella pandemia neoliberale che ha portato al dominio del mercato anche nel campo della salute».  Quindi, come ha sottolineato lo psichiatra Alessandro Saullo, a fronte di un «violento attacco al lavoro in salute mentale, che si sta realizzando anche imputando nuove responsabilità di tipo securitario agli operatori» bisogna reagire «ponendo al centro i diritti sociali delle persone marginali, contrastando la violenza istituzionale opacizzata da anni di discorsi sulla violenza sugli operatori, stabilendo delle questioni che facciano da spartiacque». La conferenza si è conclusa approvando un documento che contiene dieci proposte rivolte a governo, regioni e comuni, un decalogo che vuole rappresentare la base programmatica sulla quale lavorare e per la quale lottare, a partire dai prossimi mesi, in difesa di quella Legge 180 che, come ha sottolineato Stefano Cecconi, membro del coordinamento della conferenza, travalica i confini della salute mentale e rappresenta un cardine della nostra democrazia. Non possiamo sapere quali saranno i reali risultati di questo impegno alla mobilitazione, abbiamo attraversato troppe stagioni per non avere contezza del rischio che lo stesso ceda il passo alla disillusione. C’è però un elemento di novità che sembra emergere da questa conferenza e da tanti incontri di questi ultimi mesi: la partecipazione attiva di tanti giovani insoddisfatti da una formazione accademica che pure in settori come la psichiatria, l’antropologia, la sociologia, la bioetica, appare sempre più vacua e standardizzata, incapace di saziare il desiderio di conoscenza e rispondere ai reali bisogni dei giovani e della società. Se riusciremo ad ascoltarli senza la pretesa di impartire lezioni, se non avremo paura di rinunciare agli ossequi accademici e alle commemorazioni monumentali, se sapremo metterci in dialogo accettando la ricchezza del conflitto generazionale, se avremo l’umiltà di imparare che da questi ragazzi si può, si deve imparare, forse non saremo costretti ad arrenderci alla banalità del non può essere altrimenti. Ricordando, come ha fatto Cognetti nella sua intervista, che “è vivere la cura per riuscire a vivere”. (antonio esposito)
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