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Dalla giustizia alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).  Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
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La contenzione come violazione dei diritti fondamentali. La sentenza della Corte Costituzionale sui Tso
(disegno di canemorto) Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta “legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla persona interessata o al suo legale rappresentante. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele, evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. LA SENTENZA Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza. Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”. Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul giusto processo. La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si trovi in stato di “incapacità naturale”. Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice “è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale”. La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.  QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella sentenza. Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona. Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti. L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione. IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13, comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di “audizione”, e quindi di ascolto. Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle “violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”. Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo. La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
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La democrazia è anche questione di metri quadri. Un ricordo di Franco Marescotti
(disegno di cyop&kaf) Disegni, modellini, progetti su carta lucida, fotografie, libri, riviste e una grande collezione di conchiglie. Tutto nel suo camper fino a Catania, per costruire un corso di architettura nella facoltà di ingegneria. Franco Marescotti, si è trasferito in Sicilia con sua moglie Rosabella nel 1971, ed è rimasto lì fino al 1991, anno della sua scomparsa. Dagli anni Trenta del secolo scorso, Marescotti ha partecipato attivamente al dibattito sulla costruzione della città e delle periferie, con importanti scritti e pubblicazioni sulla casa per tutti e sulla prefabbricazione, collaborando a varie edizioni della Triennale di Milano e alla stesura di vari numeri della rivista Casabella. Negli anni Cinquanta ha fondato uno studio di architettura sociale dopo aver collaborato a diversi progetti per i Centri sociali cooperativi, primi esempi di progettazione partecipata. Qui insieme all’abitazione erano previsti i luoghi collettivi per il libero sviluppo della persona dove esprimere socialità e creare comunità: biblioteche, piscine, sale giochi e sale per il ballo. Il Centro sociale cooperativo Grandi e Bertacchi sul Naviglio a Milano, è un ottimo esempio di quella stagione in cui per Marescotti “la democrazia è anche una questione di metri quadri”. GLI ALLIEVI Due anni fa a Catania ho conosciuto Sabina Zappalà, un’architetta che ha lavorato nel quartiere di Librino, progettato a sud-ovest di Catania dall’architetto giapponese Kenzo Tange, per gran parte della sua vita professionale. La sua passione per l’architettura è legata a Franco Marescotti di cui è stata allieva e amica, amicizia condivisa fin dagli anni Ottanta con due giovani studenti di ingegneria Roberto De Benedictis ed Enzo Fazzino. I tre sono stati testimoni del periodo siciliano, nonché coloro che Marescotti ha scelto come eredi del suo lavoro. Un’amicizia e una frequentazione che negli anni ha unito profondamente i tre. Catania è un pezzo di terra scura affacciata sul mare, col monte Etna a fare da coronamento. Negli anni Ottanta Marescotti si stabilisce in una cittadina sul fianco del vulcano, a pochi chilometri dal comune di Valverde, dove grazie a Sabina incontro Enzo e Roberto arrivati da Siracusa. Una struttura comunale ospita il piccolo Museo delle conchiglie, una preziosa collezione appartenuta a Marescotti e venduta al Comune negli ultimi anni della sua vita. «Le conchiglie non vengono tutte dalla Sicilia – racconta Sabina –, ovunque è andato Marescotti ha raccolto conchiglie, coralli; il suo studio della casa per l’uomo mirava all’essenzialità». La ricerca teorica sulla casa moderna risale all’inizio del secolo scorso, quando diversi studi, soprattutto tedeschi, si pongono il problema dell’eccezionale sviluppo economico e del conseguente aumento demografico. Importanti urbanisti e architetti, come Hilberseimer, Mies van der Rohe e Le Corbusier, tra gli altri, compresero la necessità di ricercare una coerenza tra estetica e funzionalità nell’architettura moderna, piuttosto che la ricerca di uno stile unitario. «Marescotti – continua Sabina – aveva memoria della Sicilia già nell’immediato dopoguerra, perché faceva immersioni e conosceva le sue coste perfettamente. In fondo nelle conchiglie lui trovava l’ideale della casa per l’uomo. La conchiglia è perfetta, essenziale, autocostruita, ogni animale ha esattamente dentro di sé la matrice di ciò che è la sua casa. Probabilmente era questo uno dei motivi per cui ne era così attratto». Dopo questo passaggio presso il Museo, insieme a Sabina, Enzo, Roberto e sua moglie, ci sediamo a un bar nelle vicinanze. L’ingegnere Enzo Fazzino, tornato in Sicilia dopo molti anni di lavoro presso l’Unesco, racconta: «Ero attratto da questa figura e mi sono trovato in aula con gli studenti degli ultimi anni, si insegnava composizione architettonica. Eravamo negli anni Settanta, e si parlava di cose che non avevo mai ascoltato da nessun altra parte, sembrava non avesse niente a che fare con l’architettura. Sulla lavagna aveva disegnato una linea, l’equazione sessuale, e interrogava gli studenti su quanto si sentissero uomo o donna: tutto ciò in una facoltà di ingegneria! Credo che il messaggio di Marescotti sia sul lungo termine. Sono convinto che il suo lavoro continuerà a parlare alle persone, ben oltre l’architettura, perché parla di umanità e di impegno». L’altro amico e allievo è Roberto De Benedictis, anche lui ingegnere, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana per tre legislature fino al 2012. «La speranza di costruire ambienti urbani che fossero a misura d’uomo – dice –, doveva essere sorretta da una politica. Marescotti nutriva, o meglio, si era formato un’idea in cui era possibile coltivare questa illusione sulla scorta degli esempi che stavano fuori dall’Italia». Il dibattito sull’architettura moderna vede uno dei momenti cruciali nell’Esposizione di Stoccarda del 1927, in cui architetti di fama internazionale si misurano con la progettazione di un quartiere residenziale. Da quell’esperienza, molti furono i dibattiti sul futuro della città, che vennero poi ripresi nei Ciam (Congressi internazionali di architettura moderna): teorici, architetti, urbanisti, proposero la loro idea di sviluppo delle città, attraverso lo studio di tipologie edilizie e sistemi di prefabbricazione. A Milano, Marescotti, in sodalizio con Irenio Diotallevi, costruirà uno dei più importanti riferimenti teorici per le nuove generazioni di architetti italiani. «Dopodiché questa stagione si è conclusa, ma lui continuava a fare “casette” – continua Roberto –; progettava tipologie edilizie, quando ormai il tema non era più attuale. Negli Istituti autonomi delle case popolari ancora resisteva un barlume di studio sulle tipologie e sulle abitazioni, e fino alla metà degli anni Ottanta c’era ancora la concezione che l’edilizia popolare fosse un servizio per la società, ma di questo oggi non c’è più traccia. Marescotti credeva che l’azione degli individui potesse cambiare le cose. La politica è questo, persone che si mettono insieme e fanno cambiare le cose. E con quale strumento? Ciascuno con il suo. Lui partecipava con l’architettura, altri partecipavano con la scrittura, con la poesia, con l’arte, o con la politica in senso stretto». L’EREDITÀ  Roberto de Benedictis continua a parlare di Marescotti e del suo lascito: «Sì, noi abbiamo avuto una lettera di consegna, in cui ci ha lasciato tutto il suo lavoro, il suo materiale. Non per farne necessariamente qualcosa, ma perché non gli era rimasto molto. L’accademia lo ha rifiutato. Non era laureato e questo in Italia contava moltissimo. Negli ultimi anni ha sofferto molto perché non aveva una pensione. Ricordo che una volta lo abbiamo trovato che provava a bruciare parte del suo lavoro nel camino. Sono stati anni molto difficili per lui, di solitudine. Lo abbiamo supportato e probabilmente siamo stati gli unici. Dall’Università non l’ha cercato più nessuno, è rimasto solo, anche per il suo carattere difficile». Sabina, Enzo e Roberto, dopo svariati tentativi di consegnarli all’Università di Catania, nel 2015 hanno affidato il suo archivio all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, uno storico e importante istituto dove sono conservati molti archivi di artisti e architetti degli ultimi quattrocento anni. Proprio quest’anno, a dieci anni da quell’affidamento, l’Accademia è riuscita a digitalizzare l’archivio rendendolo pubblico lo scorso 15 maggio sul sito ufficiale. Già Francesco Moschini nel maggio 2016, all’epoca segretario generale dell’Accademia, parlava della complessità di questa figura: “Franco Marescotti ha una centralità nel dibattito architettonico che in qualche modo non viene resa pubblica e non viene resa spendibile, c’è sempre una condizione di marginalità dovuta all’integerrima e ferrea sua volontà di mantenere la dimensione etica […]. Questo forse gli ha precluso una diffusione ulteriore del proprio portato teorico e realizzativo nonostante le straordinarie esperienze e operazioni: come quella di Grandi e Bertacchi, esempi straordinari che hanno segnato in fondo una sconfitta rispetto quello che poi è successo dell’intero paese. […] Il suo archivio è composto da oltre millecinquecento disegni, un centinaio di plastici, molti materiali di documentazione fotografica, raccolte editoriali di libri e di riviste”. L’Accademia di San Luca ha messo l’archivio a disposizione degli studiosi: «Io penso che esistano autori, architetti o pensatori che sono assolutamente ignorati in vita, e poi anni, secoli dopo vengono capiti, rivalutati», chiosa EnzoFazzino. (daniele balzano)
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spazi pubblici
Se non sai il perché, è perché una ragione non esiste. Breve storia delle zone rosse urbane
(disegno di ginevra naviglio) Qualche anno fa a Roma, nel parcheggio attiguo a una di quelle strutture denominate dalle amministrazioni pubbliche “residence” ma che tutto possiedono al loro interno fuorché servizi, comodità, spazio e manutenzione, si era fermata a vivere una famiglia di sinti napoletani. La loro epopea aveva avuto inizio molti anni prima, quando erano stati sgomberati da un campo poco fuori il comune di Napoli. Da tempo, ormai, avevano deciso che la loro casa sarebbe diventata l’unica cosa che possedevano, ossia il camper. Da qui, si dicevano, non possono sgomberarci. In parte era vero, in parte no. All’alba una pattuglia della polizia si accostò accanto al camper con le sirene spiegate. Chiesero i documenti al padre e dopo un rapido controllo trovarono dei vecchi precedenti. Erano passati dieci anni da quando aveva scontato l’ultimo giorno di galera e, nel frattempo, gli erano nati tre figli, aveva iniziato un nuovo lavoro e aveva cambiato città. Ma aver scontato una pena non bastava a cancellare la sua presunta pericolosità, anzi, in qualche modo ne costituiva una conferma. Fu così che l’uomo ricevette un foglio, che scoprì poi essere un foglio di via obbligatorio, ovvero una misura limitativa della libertà di movimento di natura amministrativa prevista dall’articolo 2 del decreto legislativo 159/2011 (conosciuto come Codice antimafia e delle misure di prevenzione).  Lo strumento agisce preventivamente, nel senso che non occorre aver commesso un reato, basta essere considerato un soggetto pericoloso tanto da impedirgli il ritorno in un determinato luogo fino a un massimo di tre anni. Mesi dopo ripassai davanti a quel parcheggio, quella famiglia era scomparsa, ma di camper simili ne tornarono a decine. Avevano appena sgomberato altre aree della città e le persone, non sapendo dove andare, si rifugiarono nel luogo più vicino. Dal 2011 a oggi è stato fatto un utilizzo esplicitamente politico di questo strumento preventivo: non solo persone senza casa, ma anche militanti che protestano davanti alle carceri, attivisti del clima, lavoratori in sciopero sono solo alcune delle categorie colpite. Un provvedimento che ha le sue origini nel fascismo (il confino per gli oppositori politici) e che si è adattato alle maglie larghe di questo stato di diritto, finendo per censurare, controllare e intimidire il dissenso. Come ha spiegato bene l’avvocato Nicola Canestrini sono misure “basate sul sospetto: prevedere il futuro e sulla base di questo giudizio prognostico stabilire la probabilità, la possibilità che un soggetto sia pericoloso e quindi evitare che commetta dei reati. Un po’ come in Minority Report con Tom Cruise, dove i Precog dicevano quello che succedeva. Ma nella realtà è assai più preoccupante: sono misure che incidono moltissimo sulla libertà delle persone, la libertà di movimento, circolazione, proprietà”. Evidentemente non era abbastanza. Nel 2017 è stato introdotto un ulteriore strumento giuridico finalizzato a garantire l’ordine pubblico e la sicurezza: il Divieto di accesso a spazi pubblici (Daspo urbano), simile al Daspo sportivo ma adattato ai contesti cittadini. Considerato meno afflittivo del foglio di via obbligatorio, in quanto pregiudica l’ingresso solo a determinate aree della municipalità e perché la sua violazione non comporta un illecito penale ma una sanzione amministrativa pecuniaria (fino a trecento euro), in realtà evidenzia una preoccupante tendenza: l’amministrativizzazione del diritto penale; che, come spiega Federica Borlizzi riprendendo l’analisi del giurista Luigi Ferrajoli, “nasconde la consapevolezza del legislatore di poter giocare sul nomen iuris delle sanzioni, con delle misure afflittive denominate ‘amministrative’ che, tuttavia, nella sostanza costituiscono delle vere e proprie pene”. Per quanto ampia e discrezionale l’applicazione di questi strumenti sia, tuttavia, non sono sembrati abbastanza all’attuale ministero dell’Interno che, se possibile, è riuscito nell’impresa di portare alle estreme conseguenze la possibilità di decidere su chi ha il diritto di vivere nelle nostre città. L’istituzione delle cosiddette zone rosse si inserisce in una logica strutturale di gestione urbana che promuove metropoli sempre più disgregate al loro interno, con interi quartieri commissariati e residenti colpevolizzati in base a fasce d’età, classe sociale e background migratorio. Attivate prima a Bologna e poi a Firenze negli ultimi mesi del 2024, le zone rosse hanno comportato l’allontanamento di centinaia di persone dai Comuni in cui erano solite abitare o semplicemente stare. È la presenza stessa a essere punita, l’esistenza in quanto essere umano che copre con il proprio corpo un segmento di spazio urbano: lo chiarisce bene la circolare del prefetto di Milano del 27 dicembre scorso che, istituendo la zona rossa anche nel capoluogo lombardo, intende “fronteggiare la  presenza di soggetti molesti e aggressivi, dediti alla commissione di reati e non in regola con la normativa in materia di immigrazione, tale da  incidere negativamente sulla percezione di sicurezza dei cittadini e dei turisti che fruiranno di quelle aree”. L’entusiasmo del ministro Piantedosi rispetto al moltiplicarsi delle zone rosse in Italia (dopo Bologna e Firenze anche Milano, Napoli e Roma) si percepisce dal tono esaltato di queste sue dichiarazioni: “Da quando l’ho emanata ci sono stati seicentomila identificazioni e cinquemila allontanamenti, che hanno portato a numerosi arresti e rimpatri. Sono numeri importanti che testimoniano il valore positivo dell’iniziativa, peraltro molto apprezzata dai cittadini” (Il Messaggero Veneto, 3 giugno). A chi fa notare al ministro che c’è un rischio ghettizzazione nei territori colpiti dal provvedimento, Piantedosi risponde: “La ghettizzazione avviene quando si verifica l’assenza di iniziative dello Stato. La presenza delle forze di polizia è stata sempre molto ambita sotto ogni latitudine e chi sostiene il contrario lo fa solo per un pregiudizio ideologico che non trova corrispondenza nelle aspirazioni dei cittadini. C’è chi vorrebbe attenuare la presenza dello Stato invece di rafforzarla. Sono le posizioni di chi guarda con ostilità alle forze di polizia. Noi pensiamo esattamente l’opposto. Più polizia c’è sul territorio e meglio è». Tra le risposte più inquietanti c’è quella che riguarda i tempi. Poiché se le zone rosse sono prorogabili quando le circostanze lo richiedono, di fatto, è ipotizzabile che esse possano durare senza alcun tipo di limitazione: “Si va avanti finché serve”, chiosa il capo del Viminale. Mentre il governo tira dritto, costruendo tramite decreti e circolari prefettizie città punitive, c’è però chi si oppone e reagisce. Nei giorni scorsi, infatti, è stato presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale di Napoli il ricorso per l’annullamento dell’ordinanza del prefetto che proroga per ulteriori tre mesi il divieto di stazionamento in ampie aree del centro cittadino per soggetti ritenuti “aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”, in base a semplici segnalazioni di polizia. Tra i ricorrenti compaiono associazioni come A Buon Diritto, ASGI, Libridazioni, ma anche cittadini e residenti nelle zone colpite dal provvedimento, rappresentanti istituzionali e spazi sociali. «Il ricorso – spiega l’avvocata Stella Arena – è stato redatto con la collaborazione di Andrea Eugenio Chiappetta, dottorando di ricerca in diritto costituzionale, rispondendo a un’esigenza venuta dal basso: le realtà che insistono nelle aree della città indicate nell’ordinanza prefettizia, e che in città stabilmente lavorano per dare risposte di inclusione (oltre che culturali e sociali) hanno ritenuto necessario auto-convocarsi e rispondere legalmente a quella che ritengono una limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti. Il provvedimento impugnato fonda l’adozione di misure limitative delle libertà fondamentali sulla base di meri indizi o segnalazioni, senza la necessità di un accertamento giudiziario, configurando una presunzione di pericolosità che è giuridicamente inammissibile». L’udienza del ricorso è fissata per il 17 giugno, data in cui il Tar potrebbe quindi annullare un’ordinanza che è lesiva dei principi fondamentali di un ordinamento democratico. Come spiega la rete No alle zone rosse di Napoli, infatti, questo dispositivo può riguardare chiunque – da piazza Garibaldi a via Mezzocannone, da piazza Bellini a molte altre aree ancora – venga ritenuto un ostacolo all’accessibilità e alla fruizione delle stesse, sia colto in stato di manifesta ubriachezza o a compiere atti contrari alla pubblica decenza; pratichi accattonaggio; sia stato segnalato per reati  in materia di stupefacenti, contro la persona, predatori, invasioni di terreni o edifici, porto abusivo di armi o oggetti atti a offendere. La rete, che comprende anche molti spazi liberati che provano a resistere e difendere chi abita la città, attende. Nel frattempo, si è mobilitata affinché più cittadini possibili sappiano che cosa significa passeggiare all’interno di una zona rossa.  Se vieni allontanato e non sai il perché, è molto probabile che la ragione non esista. (marica fantauzzi)
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Referendum su diritto al lavoro e alla cittadinanza. Alcuni spunti di riflessione
Un milione di italiani (non sono italiani) è un cortometraggio documentario di Maurizio Braucci sul tema del riconoscimento della cittadinanza italiana a ragazzi e ragazze con background migratorio nati in Italia. I minori di seconda o nuova generazione nati in Italia sono un milione e trecentomila circa, e solo una piccola parte tra loro (duecento novantamila) ha ottenuto la cittadinanza. Allo stato attuale, il dieci per cento del totale di tutti gli studenti ha origine straniera e il sessantacinque per cento è nato o nata in Italia. Il quinto quesito del referendum abrogativo per il quale si può votare oggi e domani propone di dimezzare da dieci a cinque anni il tempo di residenza legale in Italia per poter richiedere la cittadinanza, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992. In chiusura di questo testo potrete leggere la testimonianza scritta da una nostra giovane lettrice, K., che ci ha proposto di pubblicare una parte della sua storia proprio nei giorni in cui i suoi concittadini andranno a esprimere il proprio parere su questioni che la riguardano molto da vicino.  Di fondamentale importanza sono anche gli altri quattro quesiti del referendum, che si esprimono sulla legislazione riguardante il mondo del lavoro. Il primo chiede l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti prevista dal Jobs Act: nelle imprese con più di quindici dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 2015 in poi non possono rientrare al loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo (la legge oggi impedisce il reintegro anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto di lavoro). Il secondo riguarda la cancellazione del tetto all’indennità sui licenziamenti nelle piccole imprese: oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere sei mensilità di risarcimento, anche qualora un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto di lavoro. Il terzo quesito propone una riduzione del lavoro precario attraverso l’eliminazione di norme sull’utilizzo dei contratti a termine (in Italia circa due milioni e trecentomila persone hanno oggi contratti di lavoro a tempo determinato). Il quarto, infine, interviene su salute e sicurezza sul lavoro, proponendo di modificare le norme che impediscono, in caso di infortunio sul luogo di lavoro, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante e all’imprenditore committente. *     *     *  Io tra di voi. Uno scritto di K.E. Ho diciannove anni e vivo nella periferia ovest di Napoli. Sono originaria della capitale del Burkina Faso, Ouagadougou. Vivo in Italia da molto tempo, dodici anni circa. Frequento il liceo scientifico, sono all’ultimo anno. Ho molte passioni, soprattutto mi piacciono i libri e la musica.  Tanti ragazzi e ragazze come me vivono un’esperienza insidiosa con il permesso di soggiorno. Per ottenerlo, è necessaria una grossa trafila che verifichi i requisiti, che cambiano in base al motivo della richiesta: lavoro, famiglia, studio, eccetera. Si può fare domanda tramite il kit postale o in questura. In base al motivo di soggiorno, è necessario presentare specifici documenti, come il passaporto in corso di validità, il visto d’ingresso, la dichiarazione di ospitalità per chi non ha un domicilio fisso. Anche per il rinnovo si riparte ogni volta da zero, con gli stessi tempi infiniti. La mia famiglia ha iniziato la procedura ad agosto 2024 e i documenti sono arrivati solo qualche giorno fa. Durante il periodo di richiesta per me sarebbe risultato molto difficile spostarmi dall’Italia poiché il documento risultava scaduto (nonostante la specifica “soggiorno a durata illimitata”). L’unica soluzione sarebbe stata provare di aver fatto la domanda di richiesta, ma anche in quel caso vi è altra infinita burocrazia da affrontare. Le file sono lunghissime, le persone vengono spesso trattate con sufficienza, come se stessero chiedendo qualcosa che non gli spetta. C’è poco rispetto per la dignità delle persone. I documenti richiesti sono tanti, alcuni inutili e ridondanti. In più, gli uffici (l’ufficio immigrazione, i Caf, gli uffici postali) si regolano in maniera discordante sulle modalità con cui va fatta la pratica. In questo modo creano confusione sulle responsabilità durante le varie fasi del processo (dalla richiesta all’invio della pratica). Vi è poca attenzione sui dati nei documenti: spesso vengono riportati in maniera sbagliata, costringendo le persone a rifarli per colpe non proprie e  spesso con costi aggiuntivi (già la pratica in sé ha costi importanti). Quando si va negli uffici si vive in uno stato di ansia. L’assenza di un solo documento fa saltare l’appuntamento, che poi è difficile riottenere in tempi brevi. Le persone si portano indietro qualsiasi carta, anche inutile, per la paura di essere mandate via. Chi non ci passa direttamente non ha idea di quanto sia difficile, frustrante e stancante tutto questo. Le persone sono costrette a rinunciare a un’intera giornata di lavoro, e non sempre si ottengono i permessi facilmente; si aspetta una intera giornata in piedi, con appuntamenti dati a un certo orario ma che poi slittano di ore, perché tutto si basa su numeri su foglietti di carta, raccomandazioni e caos. Se non riuscissi a ottenere il permesso di soggiorno mi risulterebbe impossibile continuare gli studi o trovare un lavoro, spostarmi, rinnovare i miei documenti e di conseguenza la mia stessa permanenza in Italia non sarebbe possibile. Ma io voglio continuare a studiare e costruirmi un futuro qui.  La cittadinanza è fondamentale perché rispetto al permesso di soggiorno ti permette una vita più libera: puoi spostarti, lavorare, votare. Ma soprattutto puoi dire basta a questo percorso lungo e stressante di continui rinnovi e burocrazia. La residenza legale e continuativa in Italia è il requisito fondamentale per richiedere la cittadinanza tramite naturalizzazione. La cosa assurda è che allo stato attuale, allo scattare dei dieci anni, la cittadinanza non viene rilasciata automaticamente, e anche in questo caso è necessario un infinito iter di documentazioni  e attese: deposito dei documenti, richiesta, eventuale accettazione della domanda, giuramento, rilascio. Per i cittadini non nati qui, ma che a loro volta qui hanno vissuto continuativamente per dieci anni, i costi crescono: la legalizzazione dei documenti va fatta all’ambasciata italiana più vicina al paese di provenienza, e a questa spesa vanno aggiunti i costi per farli rispedire in Italia, oppure andarli a recuperare di persona. 
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Riflessioni sul referendum per la riforma della legge sulla cittadinanza
(disegno di salvatore liberti) L’8 e il 9 giugno è necessario che tutte e tutti andiamo a votare per la riforma della cittadinanza. È vero che quanto si va a votare è una proposta al ribasso rispetto alla richiesta avanzata per anni da larghe mobilitazioni, animate soprattutto dai figli e dalle figlie delle migrazioni, per un cambiamento più radicale della legge n. 91 del 1992. Tuttavia, è un atto importante da compiere: questo voto può avere delle ripercussioni rilevanti sulla vita di milioni di persone e sull’Italia stessa, e pertanto va decisamente sostenuto, non solo votando ma anche impegnandosi ad allargare la base dei votanti in un clima politico in cui domina un assordante silenzio sul referendum. Tra due settimane gli italiani e le italiane che godono del privilegio di essere cittadini e cittadine saranno chiamati a votare per coloro che non lo hanno affinché si abbassi da dieci a cinque anni il tempo di residenza continuativo in Italia per fare richiesta di cittadinanza, mentre rimangono invariati tutti gli altri criteri previsti dalla legge per la richiesta di naturalizzazione: conoscenza della lingua italiana, reddito adeguato, assenza di precedenti penali, rispetto degli obblighi fiscali, assenza di minacce alla sicurezza dello Stato. Il quesito referendario non mette in discussione il principio dello ius sanguinis su cui si basa il sistema italiano e vale a dire che la cittadinanza di una persona si determina in base alla cittadinanza dei genitori, indipendentemente dal luogo di nascita. Si limita a proporre un correttivo del quadro legislativo vigente, e d’altronde non avrebbe potuto proporre qualcosa di molto diverso, in quanto tale strumento può portare solo a un atto abrogativo e non a una nuova proposta di legge. Malgrado le ampie e importanti mobilitazioni per il cosiddetto ius soli (il principio giuridico secondo cui una persona ottiene la cittadinanza in base al luogo di nascita, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori), o le dichiarazioni a favore delle varianti più blande, quali quelle dello ius scholae (principio secondo cui un minore straniero ottiene la cittadinanza dopo aver completato un ciclo scolastico in Italia) e ius culturae (principio che prevede la concessione della cittadinanza ai minori stranieri che sono ben integrati nella cultura italiana, per esempio tramite scuola o altri percorsi formativi), sia i governi di destra che quelli di sinistra succedutisi negli anni al governo del paese, hanno scelto di rimanere ancorati a una visione della cittadinanza basata sul principio dello ius sanguinis, che priva bambini e giovani del diritto a essere formalmente italiani seppur nati e/o cresciuti in questo paese, solo perché i loro genitori non sono italiani. Come conseguenza di questa scelta, oggi l’undici per cento dei minori in Italia non ha la cittadinanza italiana, tra di loro tre su quattro sono nati in Italia, gli altri vi sono arrivati in fasi diverse della loro giovane vita. Siamo di fronte a una situazione di discriminazione formale che nega loro possibilità e opportunità, come partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare ed essere votati, poter partecipare a concorsi pubblici, oltre a creare un senso di non appartenenza al paese in cui si nasce e si cresce. Una radicale riforma della legge sulla cittadinanza è pertanto necessaria.   È importante però sottolineare che l’ottenimento della cittadinanza formale non è sufficiente in sé per essere considerati italiani. Lo racconta bene Salwa, ventitré anni, d’origine egiziana: «È vero che ho preso la cittadinanza italiana ma mi guardano da straniera, da terrorista. È vero che lo Stato mi ha riconosciuta come italiana, ma alla fine è un pezzo di carta, la gente non mi riconosce; quindi, mi sento come se non valesse. Dal punto di vista burocratico mi ha facilitato un sacco di cose però non vengo vista come un’italiana quindi è una presa in giro». A causa del colore della pelle, del nome o del cognome che si ha, della religione che si professa, degli abiti che si indossano, molte persone, incluso chi nasce e/o cresce in questo paese, sovente non sono riconosciute come cittadine e cittadini alla pari, sebbene loro e spesso anche i loro genitori, se non addirittura i loro nonni, abbiano un passaporto italiano. Una situazione di discriminazione sostanziale che non permette a tanti e tante di sentirsi pienamente parte di un paese di cui sono sempre più linfa vitale. Questo stato di fatto non richiede solo un cambiamento della legge per l’ottenimento della cittadinanza ma anche una trasformazione nella mentalità e nelle prospettive riguardanti l’idea di identità, stato-nazione, italianità. Il punto centrale è quello di pensare e di costruire un progetto nazionale nuovo, basato sul riconoscimento di tutte le componenti della società italiana, e che prevede reali diritti di cittadinanza per chiunque viva e cresca in Italia, mentre vengono garantiti strumenti materiali ed economici per poter pienamente far parte del paese. Senza questi ultimi, non vi può essere un pieno e reale accesso ai diritti di cui si può godere con un passaporto italiano. La questione della classe è una questione tutt’altro che superata, sebbene sia sempre meno affrontata nei dibattiti pubblici. Quando poi la si interseca con questioni quali quella di genere o quella generazionale, mostra tutta la sua pervasività nel continuare a dividere e governare le società in cui viviamo. Come scriveva bell hooks, “la classe conta”; e – possiamo aggiungere – plasma tutti i contesti che attraversiamo. La questione economica e dell’accesso ai diritti socio-economici non può essere disgiunta da un radicale discorso su cosa sia la cittadinanza. Queste considerazioni ci spingono a dire che dopo questo referendum bisognerà continuare a impegnarsi per una più radicale riforma della cittadinanza basata su riconoscimento e rispetto nei confronti di chi vive in Italia. Dunque, l’8 e il 9 giugno andiamo a votare e facciamo votare sì alla riforma della cittadinanza; dal 10 giugno impegniamoci per un radicale ripensamento del concetto di cittadinanza. (renata pepicelli)
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Una questione nucleare. La Basilicata e il Centro Trisaia di Rotondella
(disegno di andrea nolè) Nel 1959 Feltrinelli dà alle stampe Sud e magia di Ernesto de Martino, libro che raccoglie un insieme di studi condotti da un gruppo di ricerca in alcuni paesi della Lucania. Negli stessi anni il Centro nazionale per l’energia nucleare (Cnen) individua il luogo in cui costruire la sua seconda sede, lungo la Statale 106 che collega Taranto a Reggio Calabria, in una contrada del comune di Rotondella in Basilicata. La contrada Trisaia da quel giorno cessa di esistere per fondersi con la funzione prescelta: il Centro Trisaia. Ma perché la Basilicata, perché proprio in quelle terre? «Ho sempre pensato che ci sia una connessione tra questi due eventi, concettualmente distanti, come una sorta di sillogismo storico, politico e antropologico, tra l’individuazione della Trisaia e l’uscita di Sud e magia. Poi, certo, un grosso contribuito è stato dato da Emilio Colombo all’epoca ministro dell’industria», dice Claudio Persiano dell’Arci di Rotondella, alludendo all’idea della “scoperta” come colonizzazione di terre remote, sfruttamento di colonie interne senza problemi con la gente del posto. Di scoperta si parla anche negli studi etno-antropologici compiuti da de Martino nelle “terre dell’osso” – i cui fini erano però ben altri –, nei paesi dimenticati da Cristo per indagare quella civiltà contadina inchiodata al destino inamovibile e ai confini della Storia, al di fuori di qualsiasi idea di classe e di trasformazione dello stato di cose presente. In altra occasione, quando ho posto la stessa domanda a Casimiro Longaretti, tra i promotori dei campeggi di lotta contro il nucleare lungo la costa jonica degli anni Settanta, anch’egli ha fatto riferimento a una condizione antropologica di subalternità a motivo delle scelte politiche di insediamento della Trisaia. «La mia regione non viene scelta a caso – dice Longaretti –. È nota, infatti, la sudditanza del popolo lucano al potere centrale dello Stato. La Dc e il clero hanno sempre avuto libero arbitrio sulla sorte degli abitanti di questa desolata regione del Sud. Per noi lucani il detto “o briganti o emigranti” è quanto mai vero, siamo stati sempre trattati marginalmente dal potere centrale; fateci caso, la Basilicata non viene mai nominata nemmeno nell’informazione meteo; ci orientiamo con il bollettino delle regioni confinanti». Ma Colombo, “figlio prediletto della Lucania”, ha la vista lunga. Quel contadiname senza senno né sorte potrebbe tornargli utile – pensa il plenipotenziario della Dc. Voti, consenso e mediazione locale, a suon di prebende, clientele e posti di lavoro, sono una miniera preziosa. Coglie la palla al balzo e dà il via all’istituzione della sede lucana, strategicamente importante per lo sviluppo del paese e il progresso della sua regione. Tra l’altro in un luogo logisticamente baricentrale, crocevia di più regioni – Calabria, Puglia e la stessa Basilicata. Così nel 1962 il Cnel acquista i terreni in Trisaia, a un paio di chilometri dalla spiaggia jonica, mentre l’inaugurazione del Centro Ricerche Enea e del suo impianto avvengono nel 1968. SCANZANO E LE SCORIE Nel Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi parla della condizione dei “suoi” contadini: “E quella gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica e alle teorie dei partiti, sentiva rinascere in sé l’anima dei briganti. Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi, un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si danno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli”. D’altronde è quanto avvenuto nel novembre 2003. La protesta di una regione contro il decreto 314 voluto dal secondo governo Berlusconi che avrebbe dato il via alla realizzazione del deposito nazionale di scorie nucleari nelle cave di salgemma di Terzo Cavone, nel comune di Scanzano Jonico, a una ventina di chilometri dalla Trisaia. Nei giorni della protesta migliaia di persone partecipano a blocchi stradali, cortei, comizi; occupano il municipio, il sito prescelto e la stazione ferroviaria con la “marcia dei centomila” del 23 novembre. Due giorni dopo un altro corteo, a Roma stavolta. Il 26 si tiene un convegno davanti al presidio, pieno di persone e di telecamere, con una processione di politici di ogni colore. Il 27 novembre arriva la notizia: il nome di Scanzano sparisce dal decreto. «È rimasto poco – continua Claudio Persiano –. L’associazione ambientalista “ScanZiamo le scorie”. E niente più. Quella potenza e quella coscienza esplose nei quindici giorni di mobilitazione sono rientrate nei ranghi. Poi è tornata la pletora di politici locali, i mediatori di clientele dei politici nazionali, luogotenenti del potere che con la Trisaia hanno sempre fatto affari. Perché la Trisaia ha distribuito soldi, commesse, posti di lavoro e incarichi». Non proprio, però. L’ipoteca che lascia la Trisaia, nonostante le proteste contro ulteriori forme di inquinamento, è quanto raccolto dall’Istituto Superiore di Sanità. Un rapporto, su incarico del ministero della salute, ha indagato lo stato di salute degli abitanti di nove comuni italiani in cui erano presenti impianti nucleari. L’indagine del 2015 ha confrontato i tassi di mortalità per diverse patologie, focalizzandosi in particolare su ventiquattro tipi di tumori potenzialmente collegati all’esposizione a radiazioni ionizzanti. I risultati hanno mostrato che, nella maggior parte dei casi, la mortalità era inferiore rispetto alla media regionale. Alcuni eccessi osservati non sono stati ritenuti riconducibili direttamente alla radioattività, poiché avrebbero richiesto esposizioni elevate e continuative, incompatibili con il normale funzionamento degli impianti. Lo studio ha analizzato diversi scenari di esposizione, da quelli legati al normale funzionamento a ipotesi più critiche. Il rapporto sottolinea la necessità di un monitoraggio costante della salute pubblica e dei livelli di esposizione, soprattutto in vista di futuri progetti legati alla gestione dei rifiuti radioattivi. Sta di fatto però che, quando al monitoraggio si sostituiscono interessi privati, in un mix di correità e “familismo amorale” tra lobby e classi dirigenti per trovare scorciatoie nella gestione e nello stoccaggio di materiale radioattivo, appaiono le peggiori infamità. L’Italia, peraltro, ha un grosso problema che si trascina da decenni riguardo al monitoraggio di tale materiale. E di infamità da quelle parti ce ne sono tante, assai spesso sottaciute. Anche qui vige la morale dei Carmine Schiavone, che a chi gli chiedesse conto degli sversamenti nel casertano, cioè sotto casa sua, rispondeva: “Ma tu quanto tempo vuoi campare?”. L’ULTIMA INCHIESTA Il 27 maggio si terrà la seconda udienza del Tribunale di Potenza sull’inchiesta condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia sull’inquinamento della falda idrica nel sito Enea – Sogin (Società per lo smantellamento degli impianti nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi), in particolare all’interno dell’Impianto di trattamento e rifabbricazione elementi di combustibile (Itrec) che si trova dentro la Trisaia. A dire il vero è la terza, seppur distinta, inchiesta sulla Itrec. «I fatti risalgono all’aprile 2018 – racconta Claudio –, quando scattarono i sigilli a tre vasche di raccolta dell’impianto Itrec di Rotondella. Sarebbero servite allo sversamento in mare di circa 65 mila metri cubi di acqua contaminata da sostanze cancerogene quali il cromo esavalente e, senza alcun trattamento, attraverso una condotta di scarico non autorizzata. Anche se in realtà la vicenda è iniziata nel 2014-15. La Sogin monitora le acque di falda tramite una serie di peziometri, cioè strumenti che servono a evitare che le acque e le piscine non si contaminino fra di loro. Questi piezometri restituiscono dei valori di cromo esavalente, trielina, tricloroetilene e altri elementi, molto elevati rispetto ai limiti di legge. Così nel 2015, la Sogin comunica questa rilevanza, e nello stesso anno parte il monitoraggio da parte dell’Arpab (l’Agenzia regionale per l’ambiente). Nel 2017 questi dati vengono poi raccolti dall’Asm, l’Azienda sanitaria di Matera e dal comune di Rotondella. Intanto il sindaco emana un divieto di emungimento delle acque sotterranee nella zona della Trisaia. E nel 2018 gli organi di stampa danno notizia della terza inchiesta condotta negli anni sull’Itrec e il Centro Enea». L’accusa è nei confronti di tredici indagati, tutti direttori, dirigenti e tecnici della Sogin, dell’Ufficio ambiente della provincia di Matera, del centro ricerche Enea, del dipartimento fusione nucleare e tecnologie per la sicurezza dell’Enea, dell’ufficio suolo e rifiuti dell’Arpab di Matera. Insomma, nomi di un certo calibro della politica ambientale regionale e nazionale. Nell’udienza di fine mese il tribunale potentino riconoscerà la parte civile per i comuni di Rotondella e di Policoro; le associazioni Legambiente Basilicata, Cova Contro, ScanZiamo le scorie, Arci Basilicata e Arci La tarantola di Rotondella. In altre parole, riconoscerà quello che è un monitoraggio popolare, dal basso, talvolta sotterraneo eppure esistente, che ha cercato di contrastare il saccheggio dei beni comuni della Lucania. Che è invero il sedimento di memorie collettive e di lotte degli anni Settanta. Gli echi delle proteste di Scanzano, e di tutta la regione, risalgono infatti ai campeggi di lotta lungo la costa jonica di fine anni Settanta, da cui è nato il Coordinamento nazionale antinucleare e antimperialista promotore del referendum abrogativo del nucleare nel novembre 1987. L’opposizione al nucleare inizia a Montalto di Castro (VT) nel ’77. L’anno successivo, dal 29 luglio al 6 agosto, Radio Onda Rossa, gli autonomi di via dei Volsci di Roma insieme a compagni lucani, tra cui Casimiro Longaretti, organizzano un campeggio di lotta a Nova Siri Marina, a soli quattro chilometri dalla Trisaia. Militanti di Nova Siri, Rotondella, Policoro, Pisticci, Ferrandina, Valsinni, San Giorgio Lucano e di altri comuni della provincia di Matera si ritrovano a collaborare nella realizzazione dell’evento. Rispondono alla chiamata compagni dei paesi dell’alto Jonio cosentino, prossimi a Nova Siri, così come i pugliesi, in particolare i tarantini e i brindisini. Durante il campeggio vengono organizzati interventi ai cancelli dello zuccherificio di Policoro, distante una trentina di chilometri dal campeggio, e nell’area industriale della valle del fiume Basento, tra Pisticci Scalo e Ferrandina, dove sono situate l’Anic, la Liquichimica e altre piccole fabbriche dell’indotto. Si parla con i lavoratori delle condizioni di lavoro, dei turni massacranti, di lavoro straordinario non retribuito e tanto altro. Gli operai sembrano quasi stupiti nell’apprendere da ragazzi che vengono da lontano quanto le condizioni lavorative in fabbrica siano di assoluto sfruttamento: a loro basta fornire alla famiglia quel minimo di salario a fine mese per poter campare, e perciò sono grati a padroni e padrini per la “magnanimità”. Altri gruppi di campeggianti si spingono a un’oretta d’auto fino a Taranto ai cancelli dell’Italsider. Nelle piazze dei paesi dell’entroterra lucano nascono assemblee spontanee sui diritti negati e sul lavoro massacrante e sottopagato; sulle donne sfruttate nei pesanti lavori agricoli, dentro le serre a temperature insopportabili per la produzione di frutta e verdure, sottoposte al dileggio dell’agrario di turno o dei caporali. «Prima di allora – ricorda Casimiro Longaretti – si parlava della Trisaia come di un posto di lavoro ambito, con una paga mensile appetibile rispetto al salario da fame degli operai di altre categorie, ma nessuno aveva mai spiegato loro la pericolosità di quel tipo di lavoro e che tipo di materiali venissero trattati; nessuno aveva mai spiegato cosa comportasse stare all’interno di quel ciclo infernale, a contatto con materiale nucleare altamente radioattivo». Dopo una settimana di preparativi e informazione alla popolazione dei paesi limitrofi, si arriva alla manifestazione conclusiva: sabato 5 agosto 1978, giorno dell’anniversario della strage nucleare di Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, per mano degli Usa. Il corteo partecipatissimo si muove verso la Trisaia sulla statale 106: striscioni contro il nucleare, contro la galera e la repressione, contro gli agrari; cartelli con i nomi dei padroni che sfruttano gli operai, contro l’inettitudine dei sindacati incapaci di contrastare i caporali; striscioni che denunciano la permissività del Pci, la sua connivenza e il suo guadagno percentuale sull’assunzione dei suoi protetti nelle varie aziende del metapontino. L’anno successivo, più o meno nello stesso periodo e sempre all’interno della pineta a un passo dallo Jonio a Marina di Nova Siri, i comitati autonomi operai di Roma e i compagni lucani ripropongono l’impegno. La partecipazione al secondo campeggio No Nuke è addirittura superiore all’anno precedente. «Malgrado tutte le avversità create dal compromesso storico – ricorda Casimiro – la lotta contro l’Energia Padrona non si fermava. La domanda che ritornava spesso durante le settimane preparatorie, era relativa al perché proprio la Lucania fosse stata prescelta per ospitare l’energia nucleare. La risposta sintetizzava tutta la storia dell’Italia unita. La Basilicata è la regione del Mezzogiorno che storicamente ha fatto registrare meno tensioni sociali. I moti di piazza si erano fermati agli anni Cinquanta, con le lotte per le terre dell’ente per la riforma agraria. Nel contempo un grande bisogno di lavoro, rispetto al quale non è mai importata la qualità e se esso comportasse un particolare pericolo per l’ambiente e per la popolazione locale. Le lobby energetiche italiane non fecero mai mistero di questa scelta. I salari erano molto bassi in Lucania, e in più vi era l’opportunità per loro, con una maggiore produzione di energia, di attivare l’automazione delle linee di produzione nelle fabbriche del Nord, il che avrebbe permesso una drastica riduzione della mano d’opera e, di conseguenza, l’espulsione di migliaia di operai. Così, il ricatto del bisogno di lavoro tra le masse del Sud sarebbe enormemente cresciuto. La gente del posto, invece, considerava questa scelta come una manna dal cielo e poco importava loro della sicurezza e della qualità del lavoro». Le tensioni politiche nel paese si avvertono tutte durante gli incontri, nonostante il posto stupendo e il mare che ritma le giornate. Il “teorema Calogero” aleggia tutt’intorno, la retata repressiva del 7 aprile è ancora calda: un minestrone di accuse contro l’area dell’Autonomia operaia. Così il dibattito tra i campeggiatori è condizionato dall’inquietante retroscena. «Ancora oggi – ammette Casimiro – molte persone sono grate ai partecipanti dei due campeggi per aver dato loro una indicazione su quanto fosse pericoloso quello che si celava dietro le reti di recinzione del Cnen. Grazie a quelle mobilitazioni le persone hanno compreso che il potere delle lobby può essere sconfitto solamente prendendo coscienza e opponendosi compatti. È l’esempio di Scanzano Jonico del 2003». (francesco festa)
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Seppelliamo l’università (prima che lei seppellisca noi)
(disegno di martina di gennaro) Quello per un maggiore finanziamento dell’università pubblica italiana è senza dubbio uno dei tanti ritornelli che hanno compiuto la maggiore età riecheggiando nelle piazze italiane. Praticamente a vuoto: se c’è stata infatti qualche controtendenza al più generale trend di tagli alla spesa per la ricerca, è stato più per unicum occasionali (come le borse Pnrr post-emergenza Covid) che per la spinta arrivata dai movimenti di lotta. Tranne rare eccezioni, a scandire la richiesta sono sempre quelli che, eventualmente, ne trarrebbero giovamento in termini di assunzione (quella categoria di precari che restano fuori per un pelo dai meccanismi della cooptazione). A manifestarsi, anche a questo giro di boa, infatti, sono stati quasi solo l’attuale generazione di dottorandi, gli assegnisti e qualche ricercatore più agée. Pochissime voci si levano dai palazzi dorati dei baroni, dei loro coscritti e delle anime pie, e ne è una prova tangibile il sostegno della Conferenza dei rettori (Crui) al colpo di grazia targato Anna Maria Bernini. Men che meno protesta la base di giovani ricercatori che in questo quarto di secolo hanno transitato per l’accademia italiana, rimanendone tagliati fuori circa il novanta per cento di quelli che la tentano, cioè circa novemila dei diecimila dottorandi annui (di questi, il quattordici per cento circa ha intrapreso un esodo che li ha portati nelle università estere, mentre gli altri hanno trovato sbocchi in professioni diverse: il venti per cento, per esempio, ha ripiegato sull’insegnamento nel sistema scolastico). Queste persone sono felicemente uscite dal sistema torbido dell’università, fatto di ricatti, vessazioni, angherie, battaglie fra correnti, favoritismi, nepotismi e un livello qualitativo sempre più basso. Ben quattro su dieci non ripeterebbero l’esperienza del dottorato (dato Istat, 2018) tanto che viene da pensare che forse è anche in ragione di questo che non arriva, da loro, alcun invito a un ripensamento, né alcun appello a favore dei finanziamenti per la ricerca. Eppure farebbe la differenza, se oltre duecentomila ex-dottorandi (a fronte di centotrentamila strutturati accademici) lottassero per migliorare gli investimenti pubblici per quello che, nei loro anni migliori, hanno pensato potesse essere un modo utile di stare al mondo. Da questo dato di partenza andrebbe forse analizzata la condizione attuale di una battaglia che, nella sua perenne ricorsività, rischia di perdere a ogni giro credibilità e richiamo. Se a difendere l’idea di aumentare i finanziamenti all’attuale università è soprattutto chi ne avrebbe un diretto interesse, l’alveo all’interno del quale ci muoviamo diventa quello di una lotta meramente sindacale, una lotta, cioè, fatta per migliorare le condizioni di chi è già dentro o che, al massimo, a questo mondo gira un po’ intorno. Non che questo sia sbagliato, anzi: riconoscerla in questi termini permetterebbe probabilmente un cambio di strategia che forse la renderebbe efficace. Ma così non va. La richiesta di aumentare i finanziamenti alle università pubbliche, infatti, è sempre accompagnata da ragionamenti ideologici di pretesa di universalistica. Si cerca di argomentare rispetto al ruolo del sapere come strumento di crescita della società, o di convincere della necessità di investire nella ricerca per migliorare l’innovazione. Battaglie sacrosante, che dovrebbero trovare anzi ben più ampie alleanze sociali. Se solo fossero vere. Se cioè, davvero, l’università servisse a contribuire, anche per una piccola parte, al servizio pubblico cui pretende di farsi carico. Ancora: se fosse davvero tangibile queto presunto ruolo virtuoso dell’università nei processi democratici, nell’innovazione, nella produzione di conoscenza pubblica, il tema riguardante il suo futuro non travalicherebbe forse gli asfittici cortili delle facoltà? Resta da chiedersi quali siano i motivi per cui l’università ha perso la sua vocazione, e quindi anche la sua funzione. La colpa è forse della burocratizzazione che schiaccia la vita lavorativa degli accademici? Della perenne competizione cui sono costretti i gruppi di ricerca per praticare la loro sopravvivenza? Che abbia colpa un modello intrinsecamente disciplinare e incapace di trasformarsi per rispondere alle sfide dell’oggi? Che la responsabilità risieda, ancora, nei meccanismi di cooptazione che asfissiano il ricambio basato sul merito, incorporando personale sempre meno capace e libere? Probabilmente, la risposta è nella somma di tutte queste e molte altre cose. Il fatto centrale, tuttavia, è che non possiamo più ignorare il gap che c’è tra società e università, quella distanza che isola e fa riecheggiare nel vuoto la richiesta di adeguare, per esempio, i finanziamenti agli standard europei. Continuare a raccontare che possiamo spegnere l’incendio con un arredamento rinnovato, mentre fuori brucia l’intera città, non è utile alla causa, e venticinque anni di progressivo isolamento dovrebbero contribuire a farci venire il dubbio. Davvero si crede possibile che in un contesto in cui il disinvestimento pubblico colpisce direttamente la vita del paese, nei crudi termini materiali di infrastrutture scolastiche, mediche, di mobilità e trasporti, di tenuta dei territori ai disastri ambientali e idro-geologici si possano stringere alleanze, e pretendere  di mettere la salvaguardia dell’università tra le priorità delle lotte sociali? Allo stesso modo: si crede davvero che raggiungere standard di finanziamenti di livello europei contribuisca ad avere migliori università? Naturalmente non si tratta di buttare al fiume il bambino con l’acqua sporca. Siamo tutti consci di piccole ma importanti sacche di resistenza, che con salti carpiati ed esercizi faticosissimi mantengono viva l’eredità della via italiana. Ma se parliamo di una crisi sistemica, con danni alle fondamenta, non possiamo di certo cullarci sulle rare riserve indiane delle “eccellenze”. Ciò che dovremmo piuttosto fare è forse prendere atto della portata della sfida e contribuire a smantellare l’attuale ordine delle cose. Se il sistema è irriformabile, non lo sono le ragioni che gli hanno dato vita e l’hanno fatto esistere fino a oggi.  Non esistono scorciatoie: dobbiamo immaginare le universitas del domani, una evoluzione di quella di oggi che, agonizzante, muore. Rimanere aggrappati a piangerla e implorare i medici perché possa respirare altri cinque minuti sta facendo sfuggire di mano l’occasione di vederne rinascere i principi fondativi. Gli Stati Uniti sono i precursori dei peggiori trend che, a scalare toccano gli altri paesi occidentali, che prontamente gli vanno a ruota. Tra gli obiettivi dell’amministrazione Trump, in continuità con le tendenze già intuite dalle forze di mercato, c’è la definitiva distruzione dell’università americana e la sua trasformazione in fondazioni private che con quei meccanismi (di mercato) funzionino. La destra ha colto, in America, la crisi dell’università, e la sua separazione dalle necessità del corpo sociale per minarne i principi fondativi; per mettere in dubbio, cioè, l’idea che il sapere e la scienza siano strumenti utili al miglioramento delle condizioni della specie umana. Stanno distruggendo l’università per trasformarla in uno strumento al servizio del mercato, approfittando della crepa aperta con la società per trarne vantaggio. La destra mondiale sta dimostrando di avere, su questo come in altri campi, la carta vincente di volere immaginare il futuro. A differenza dei progressisti-liberali lavora ancora agli immaginari, piuttosto che aggrapparsi al mantenimento dello stato di cose presenti. Così è riuscita a concepire il superamento dell’università, chiaramente a favore degli interessi di mercato. E la sta praticando con misure draconiane.  Se le forze trasformative non si faranno carico di una capacità immaginativa all’altezza soccomberanno sotto gli stessi colpi, e l’unica differenza con gli Usa sarà nella tempistica: ci vorrà un po’ più di tempo per picconare una istituzione millenaria, elitaria e ancora molto radicata nella cultura europea, ma quel giorno arriverà, magari sull’onda di altre urgenze come un riarmo qualsiasi. Il solco è tracciato, e se non saremo capaci di cambiargli verso, ci resteremo seppelliti dentro. (lori sodo)
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Il bosco tra le piste Porsche è salvo, ma non l’ha salvato la Regione Puglia
(disegno di leMar) Si ferma il piano di sviluppo industriale del centro di sperimentazione automobilistica Nardò Technical Center nel Salento, di cui abbiamo scritto nei mesi passati. Lo annuncia Porsche nel pomeriggio di giovedì 27 marzo, in una nota in cui motiva la rinuncia al progetto con le attuali “prospettive sociali, ambientali ed economiche” e “le circostanze dell’industria automotive mondiale”. La buona notizia arriva dopo quasi venti mesi di lotte e resistenza da parte di associazioni e comitati, a un anno esatto dalla comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Emiliano di sospendere l’accordo di programma con NTC, a seguito dei richiami dalla Commissione europea. Nell’attesa che la Regione metta nero su bianco la revoca dell’accordo di programma con NTC, è tempo di riavvolgere il nastro e smontare le narrazioni che accompagnano la decisione di Porsche e stanno monopolizzando gli spazi di quotidiani e pagine d’informazione.  Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti NTC con nuove piste e impianti su duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco mediterraneo e 351 ettari espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico” connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza  pubblica. Infatti, alla distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di elisoccorso attrezzato con eliporto e annesse strutture sanitarie, un centro visite polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi estivi hanno interessato le campagne nei terreni limitrofi all’anello di Porsche non hanno visto i soccorsi di NTC. L’IMBROGLIO ECOLOGICO Le misure compensative alla distruzione del bosco sarebbero state la rinaturalizzazione e riforestazione delle aree intorno al perimetro di NTC, ma era impensabile rimpiazzare una comunità ecosistemica complessa e autosufficiente con filari di alberelli bisognosi di anni e acqua per crescere, con sole dodici specie vegetali contro le quattrocentoventi attestate nel bosco secolare. Per fare spazio alle piste di prova per auto elettriche, Porsche avrebbe tradito le promesse di sostenibilità del gruppo Volkswagen, di cui fa parte: “lasciare un mondo migliore per le generazioni future”, “sostenibilità significa mantenere a lungo termine sistemi ecologici, sociali ed economici sostenibili a livello globale, regionale e locale”. Per denunciare il massacro ambientale in un’area protetta e la perdita irreversibile di biodiversità, per resistere a questa truffa ai danni della natura e della comunità, si è costituito nell’autunno 2023 il comitato Custodi del bosco d’Arneo, che ha promosso un ricorso al Tar a gennaio 2024 insieme a Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, fino a ottenere dal commissario europeo per l’ambiente Sinkevičius, a nome della Commissione europea, la richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo il progetto e i presunti motivi di interesse pubblico. Nei mesi è cresciuta la solidarietà e la mobilitazione dell’opinione pubblica tedesca, con sit-in e manifestazioni a Stoccarda, patria di Porsche, una lettera aperta ai Ceo di Porsche e Volkswagen, con il supporto delle tre maggiori associazioni per la tutela della natura del Baden-Württemberg, Nabu, Bund e Lnv, di Robin Wood e Fern. L’alleanza tra associazioni pugliesi e tedesche ha portato la vicenda del bosco d’Arneo al consiglio di amministrazione Porsche durante l’annual general meeting di Stoccarda, la  riunione annuale degli shareholders. Lì i Custodi del bosco sono stati riconosciuti come legittimi interlocutori e portatori d’interesse, si è messa in luce tutta l’illogicità del piano e l’incoerenza con le politiche aziendali (seppur le risposte siano state vaghe e autoassolutorie nonostante le domande consegnate con tre giorni di anticipo). A novembre, durante una pacifica azione di protesta, gli attivisti di Robin Wood hanno piantato un leccio nella Porsche-Platz a Stoccarda, che è stata simbolicamente rinominata “Bosco d’Arneo-Platz”. Ancora, a dicembre le associazioni hanno inviato al presidente Emiliano un documento per chiedere chiarimenti in vista della scadenza della sospensiva e a gennaio una conferenza stampa con attivisti dalla Germania e dal Brasile ha continuato ad alimentare quel dibattito pubblico negato dalle istituzioni. A ridosso di Ferragosto (con le stesse tempistiche nemiche della partecipazione con cui un anno prima era stata diffusa la notizia del progetto), la Regione avvia il procedimento di definizione degli obiettivi di conservazione sito-specifici della Zona Speciale di Conservazione “Palude del Conte, dune di Punta Prosciutto”, in cui ricade il circuito NTC. In effetti, sulla Puglia incombono una procedura d’infrazione comunitaria del 2015 e una messa in mora del 2019 da parte della Commissione europea, per aver  omesso di stabilire nelle ZSC misure di conservazione necessarie per gli habitat naturali presenti. Ora, la Puglia conta ottanta siti tra ZSC e SIC, ma la Regione si attiva solo per quello che interessa Porsche. Dalle osservazioni presentate da alcune associazioni alla deliberazione regionale si scopre che già nel 2006 i proprietari delle piste avevano avuto l’autorizzazione all’ampliamento su un’area di circa trecentocinquanta ettari, con l’unica prescrizione di realizzare opere di rinaturalizzazione su una superficie pari all’estensione dell’habitat compromesso. L’intero quadro della vicenda mostra un pericoloso precedente in cui stretti vincoli ambientali non bastano più a proteggere un’area, un caso in cui il potere economico privato cattura la scelta pubblica, celando gli interessi del singolo operatore di mercato con il velo della pubblica utilità, a discapito dei diritti della collettività. Come argomenta Giovanni D’Elia, il forte potere economico di uno dei maggiori gruppi automobilistici a livello mondiale sarebbe stato in grado di influenzare gli attori istituzionali nella gestione di una vasta area boschiva tutelata dal diritto europeo. A marcare questo ricatto, nel bollettino ufficiale la Regione scriveva che la “mancata realizzazione delle quattro fasi del masterplan potrebbe comportare la dismissione dell’impianto di prova esistente”, in quanto “il mancato adeguamento alle nuove esigenze tecnologiche in corso nel settore automotive innescherebbe il processo di declino tecnologico e commerciale delle attuali piste”. In più minacciava che “con la dismissione delle attività, oltre a ricadute di natura socio-economica, verrebbe meno il presidio dell’area attualmente assicurato da NTC, aumentando di conseguenza il rischio di compromissione degli habitat”. Ora che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”, torna in mente la paura che le opposizioni al piano di ampliamento di NTC avrebbero indotto il disinteresse di Porsche a investire e a rimanere sul territorio. La tanto temuta “alternativa zero” che avrebbe comportato anche “l’esaurimento del positivo indotto socio-economico generato sul territorio, derivante dalla presenza di clienti e visitatori da tutto il mondo”, e paventata come “non percorribile” durante la seduta a Bari della V Commissione in Regione a novembre 2023, ora sta perfettamente in piedi e lo dice Porsche stessa. Ritorna il copione, tracciato da Naomi Klein nel saggio Shock economy, per cui le crisi vengono utilizzate, dietro il pretesto dell’emergenza, come un’opportunità per introdurre politiche economiche impopolari, quali deregolamentazioni e privatizzazioni. L’elemento chiave è la velocità con cui vengono attuate tali politiche, mentre il consenso popolare viene manipolato attraverso la paura e la propaganda. Approfittando del disorientamento e della paura causati dalla crisi, i governi agiscono rapidamente, spesso senza un adeguato dibattito pubblico. Dopo anni di disastri ecologici con ambiente e salute subordinati al profitto, è evidente come non possa esistere industria sostenibile sotto il capitalismo, sostenibilità e profitto non sono conciliabili. Il mese scorso perfino Ursula von der Leyen “si è arresa di fronte alla narrazione industriale: mantenere alta la competitività rispettando stringenti regole ambientali non è possibile, i conti non tornano”, scrive Irpi Media. IL SUD DEI RICATTI “Chance perse”, “colpo fatale al futuro”, “clima ostile all’impresa”: sono alcuni dei titoli allarmistici che occupano le pagine della stampa locale dopo la rinuncia di Porsche. La generica categoria degli ambientalisti contro cui stanno puntando il dito la Regione e le associazioni di categoria rimarca  la stigmatizzazione delle esperienza di attivazione sul territorio. Gli ambientalisti sono solo cittadini attenti (e incensurati) che chiedono di autodeterminarsi, che hanno utilizzato gli strumenti legislativi ordinari, senza generare problemi di ordine pubblico durante le manifestazioni, mentre chi cercava di aggirare i vincoli della giustizia erano altri. Non è una novità che al sud chi respinge modelli di sviluppo imposti dall’alto sia sempre tacciato di arretratezza e inciviltà, come fossimo poveri selvaggi da evangelizzare al progresso, secondo la buona tradizione coloniale. L’assessore Delli Noci, braccio destro di Emiliano, piange una “perdita enorme per il territorio”, “gli sforzi della Regione Puglia di attrarre investimenti da parte di grandi imprese vengono vanificati, con la grave perdita di occasioni di crescita, di nuovi posti di lavoro e di possibilità di sviluppo”. Lo stesso presidente Emiliano, interpellato dal Quotidiano di Puglia, dichiara: “Abbiamo perso una grande occasione di sviluppo, centinaia di posti di lavoro e un rimboschimento di cinquecento ettari al posto dei centocinquanta da abbattere”. E poi preme il pulsante delle emozioni di pancia: “C’è chi sarà felice e chi si rende conto di questi ragazzi e ragazze pugliesi che dovranno andar via a causa di questo mancato investimento”, senza ammettere che, se migliaia di pugliesi sono costretti a emigrare, la colpa è di politiche regionali capaci solo di svendere una terra pur di avere il prestigio di averlo concesso. Chi sottolinea la perdita di opportunità occupazionali, in questo perenne ricatto salute-lavoro che attanaglia il meridione, dimentica i fatti recenti che hanno interessato lavoratori di NTC, oltre alle vicende sindacali dei pochi salentini che lavorano per Porsche, sottopagati e minacciati di licenziamento: collaudatori e operai in presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda e in sciopero della fame nel 2017, costretti per vent’anni a condizioni di lavoro precarie. Alcuni collaudatori raccontano: “Lavoriamo rischiando la vita ogni giorno, quaranta ore alla settimana, per una paga misera”, “stare per ore con il piede fisso sull’acceleratore, lungo una pista che sembra non finire mai, con gli stessi contratti che si applicano ai commessi” e non metalmeccanici. I politici non hanno mai avuto scrupoli nell’alimentare il ricatto: la sindaca di Porto Cesareo accusava ogni tentativo di frenare il progetto di NTC come uno “schiaffo al territorio e alla comunità”, alle “tante attività che d’inverno farebbero la fame”. Un anno fa Confcommercio e Federalberghi si dicevano preoccupate che la sospensione al progetto di NTC potesse “influenzare negativamente l’economia locale”, essendo l’attività del centro prove “risorsa per centinaia di piccole e medie imprese e realtà del commercio locali” e “una risorsa vitale per le strutture ricettive”. Grazie a “clienti internazionali che visitano l’area tutto l’anno, il Salento viene promosso su scala globale”. Quando Emiliano dichiara che la rinuncia di Porsche “anche dal punto di vista ambientale è stato un danno, perché nel tempo avremmo quintuplicato l’area boschiva”, finge di non sapere che se quello che la Regione auspica è un’opera di riforestazione, questa è perseguibile senza bisogno di sacrificare gli ettari di bosco e le specie animali che lo abitano. Poi, la riforestazione resta una misura compensativa che (lo dice il nome) serve a bilanciare l’incidenza negativa significativa dell’intervento, quindi per logica non può essere motivo per attestare la bontà dell’intervento. L’amaro in bocca dei politici locali e delle associazioni di categoria alimenta la logica coloniale ed estrattiva in un territorio di conquista già devastato dal disseccamento degli ulivi, consumo di suolo e desertificazione, incendi sistematici, crisi idrica e siccità galoppante, land grabbing per impianti di fotovoltaico, agrivoltaico ed eolico (proprio in questi giorni a Livorno si tiene Confluenza, il primo incontro nazionale contro la speculazione energetica ed estrattivista sui territori). Sebbene la Puglia sia ancora in violazione della direttiva sui criteri sito-specifici e la vicenda di Porsche abbia mostrato come bastino forti poteri privati per far decadere i vincoli ambientali, la storia del bosco d’Arneo serve come monito: ciò che viene presentato come necessario e inevitabile non è che una contingenza. Gli imperativi del capitalismo non diventino una tara cognitiva che riduce la politica a spartizione di fette di potere. Il leccio che i Custodi del bosco e il Wwf hanno piantato lo scorso 24 gennaio a Lecce in viale De Pietro, nell’aiuola di fronte gli uffici di NTC, sta a ricordare che bisogna immaginare sempre altri scenari possibili oltre quello imposto. E serve raccontare i territori e le storie con tutto ciò che preme al loro ribaltamento, riappropriandosi della categoria dell’utopia, come scrive Alessandro Leogrande. “Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo sovvertimento”. (chiara romano)
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