(disegno di salvatore liberti)
L’8 e il 9 giugno è necessario che tutte e tutti andiamo a votare per la riforma
della cittadinanza. È vero che quanto si va a votare è una proposta al ribasso
rispetto alla richiesta avanzata per anni da larghe mobilitazioni, animate
soprattutto dai figli e dalle figlie delle migrazioni, per un cambiamento più
radicale della legge n. 91 del 1992. Tuttavia, è un atto importante da compiere:
questo voto può avere delle ripercussioni rilevanti sulla vita di milioni di
persone e sull’Italia stessa, e pertanto va decisamente sostenuto, non solo
votando ma anche impegnandosi ad allargare la base dei votanti in un clima
politico in cui domina un assordante silenzio sul referendum.
Tra due settimane gli italiani e le italiane che godono del privilegio di essere
cittadini e cittadine saranno chiamati a votare per coloro che non lo hanno
affinché si abbassi da dieci a cinque anni il tempo di residenza continuativo in
Italia per fare richiesta di cittadinanza, mentre rimangono invariati tutti gli
altri criteri previsti dalla legge per la richiesta di naturalizzazione:
conoscenza della lingua italiana, reddito adeguato, assenza di precedenti
penali, rispetto degli obblighi fiscali, assenza di minacce alla sicurezza dello
Stato. Il quesito referendario non mette in discussione il principio dello ius
sanguinis su cui si basa il sistema italiano e vale a dire che la cittadinanza
di una persona si determina in base alla cittadinanza dei genitori,
indipendentemente dal luogo di nascita. Si limita a proporre un correttivo del
quadro legislativo vigente, e d’altronde non avrebbe potuto proporre qualcosa di
molto diverso, in quanto tale strumento può portare solo a un atto abrogativo e
non a una nuova proposta di legge.
Malgrado le ampie e importanti mobilitazioni per il cosiddetto ius soli (il
principio giuridico secondo cui una persona ottiene la cittadinanza in base al
luogo di nascita, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori), o le
dichiarazioni a favore delle varianti più blande, quali quelle dello ius
scholae (principio secondo cui un minore straniero ottiene la cittadinanza dopo
aver completato un ciclo scolastico in Italia) e ius culturae (principio che
prevede la concessione della cittadinanza ai minori stranieri che sono ben
integrati nella cultura italiana, per esempio tramite scuola o altri percorsi
formativi), sia i governi di destra che quelli di sinistra succedutisi negli
anni al governo del paese, hanno scelto di rimanere ancorati a una visione della
cittadinanza basata sul principio dello ius sanguinis, che priva bambini e
giovani del diritto a essere formalmente italiani seppur nati e/o cresciuti in
questo paese, solo perché i loro genitori non sono italiani. Come conseguenza di
questa scelta, oggi l’undici per cento dei minori in Italia non ha la
cittadinanza italiana, tra di loro tre su quattro sono nati in Italia, gli altri
vi sono arrivati in fasi diverse della loro giovane vita. Siamo di fronte a una
situazione di discriminazione formale che nega loro possibilità e opportunità,
come partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare
l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare ed essere
votati, poter partecipare a concorsi pubblici, oltre a creare un senso di non
appartenenza al paese in cui si nasce e si cresce. Una radicale riforma della
legge sulla cittadinanza è pertanto necessaria.
È importante però sottolineare che l’ottenimento della cittadinanza formale non
è sufficiente in sé per essere considerati italiani. Lo racconta bene Salwa,
ventitré anni, d’origine egiziana: «È vero che ho preso la cittadinanza italiana
ma mi guardano da straniera, da terrorista. È vero che lo Stato mi ha
riconosciuta come italiana, ma alla fine è un pezzo di carta, la gente non mi
riconosce; quindi, mi sento come se non valesse. Dal punto di vista burocratico
mi ha facilitato un sacco di cose però non vengo vista come un’italiana quindi è
una presa in giro». A causa del colore della pelle, del nome o del cognome che
si ha, della religione che si professa, degli abiti che si indossano, molte
persone, incluso chi nasce e/o cresce in questo paese, sovente non sono
riconosciute come cittadine e cittadini alla pari, sebbene loro e spesso anche i
loro genitori, se non addirittura i loro nonni, abbiano un passaporto italiano.
Una situazione di discriminazione sostanziale che non permette a tanti e tante
di sentirsi pienamente parte di un paese di cui sono sempre più linfa vitale.
Questo stato di fatto non richiede solo un cambiamento della legge per
l’ottenimento della cittadinanza ma anche una trasformazione nella mentalità e
nelle prospettive riguardanti l’idea di identità, stato-nazione, italianità. Il
punto centrale è quello di pensare e di costruire un progetto nazionale nuovo,
basato sul riconoscimento di tutte le componenti della società italiana, e che
prevede reali diritti di cittadinanza per chiunque viva e cresca in Italia,
mentre vengono garantiti strumenti materiali ed economici per poter pienamente
far parte del paese. Senza questi ultimi, non vi può essere un pieno e reale
accesso ai diritti di cui si può godere con un passaporto italiano. La questione
della classe è una questione tutt’altro che superata, sebbene sia sempre meno
affrontata nei dibattiti pubblici. Quando poi la si interseca con questioni
quali quella di genere o quella generazionale, mostra tutta la sua pervasività
nel continuare a dividere e governare le società in cui viviamo. Come
scriveva bell hooks, “la classe conta”; e – possiamo aggiungere – plasma tutti i
contesti che attraversiamo. La questione economica e dell’accesso ai diritti
socio-economici non può essere disgiunta da un radicale discorso su cosa sia la
cittadinanza.
Queste considerazioni ci spingono a dire che dopo questo referendum bisognerà
continuare a impegnarsi per una più radicale riforma della cittadinanza basata
su riconoscimento e rispetto nei confronti di chi vive in Italia. Dunque, l’8 e
il 9 giugno andiamo a votare e facciamo votare sì alla riforma della
cittadinanza; dal 10 giugno impegniamoci per un radicale ripensamento del
concetto di cittadinanza. (renata pepicelli)
Tag - italia
Venerdì sera una potente rivolta è scoppiata nell’area bianca del CPR di Torino:
le fiamme hanno divampato all’interno della struttura fino a raggiungere il
tetto. Ad oggi, a meno di due mesi dalla riapertura del centro, le rivolte dei
reclusi hanno di fatto reso inagibili due terzi della struttura attualmente in
uso. A seguito della […]
(disegno di andrea nolè)
Nel 1959 Feltrinelli dà alle stampe Sud e magia di Ernesto de Martino, libro che
raccoglie un insieme di studi condotti da un gruppo di ricerca in alcuni paesi
della Lucania. Negli stessi anni il Centro nazionale per l’energia nucleare
(Cnen) individua il luogo in cui costruire la sua seconda sede, lungo la Statale
106 che collega Taranto a Reggio Calabria, in una contrada del comune di
Rotondella in Basilicata. La contrada Trisaia da quel giorno cessa di esistere
per fondersi con la funzione prescelta: il Centro Trisaia. Ma perché la
Basilicata, perché proprio in quelle terre?
«Ho sempre pensato che ci sia una connessione tra questi due eventi,
concettualmente distanti, come una sorta di sillogismo storico, politico e
antropologico, tra l’individuazione della Trisaia e l’uscita di Sud e magia.
Poi, certo, un grosso contribuito è stato dato da Emilio Colombo all’epoca
ministro dell’industria», dice Claudio Persiano dell’Arci di Rotondella,
alludendo all’idea della “scoperta” come colonizzazione di terre remote,
sfruttamento di colonie interne senza problemi con la gente del posto. Di
scoperta si parla anche negli studi etno-antropologici compiuti da de Martino
nelle “terre dell’osso” – i cui fini erano però ben altri –, nei paesi
dimenticati da Cristo per indagare quella civiltà contadina inchiodata al
destino inamovibile e ai confini della Storia, al di fuori di qualsiasi idea di
classe e di trasformazione dello stato di cose presente.
In altra occasione, quando ho posto la stessa domanda a Casimiro Longaretti, tra
i promotori dei campeggi di lotta contro il nucleare lungo la costa jonica degli
anni Settanta, anch’egli ha fatto riferimento a una condizione antropologica di
subalternità a motivo delle scelte politiche di insediamento della Trisaia. «La
mia regione non viene scelta a caso – dice Longaretti –. È nota, infatti, la
sudditanza del popolo lucano al potere centrale dello Stato. La Dc e il clero
hanno sempre avuto libero arbitrio sulla sorte degli abitanti di questa desolata
regione del Sud. Per noi lucani il detto “o briganti o emigranti” è quanto mai
vero, siamo stati sempre trattati marginalmente dal potere centrale; fateci
caso, la Basilicata non viene mai nominata nemmeno nell’informazione meteo; ci
orientiamo con il bollettino delle regioni confinanti».
Ma Colombo, “figlio prediletto della Lucania”, ha la vista lunga. Quel
contadiname senza senno né sorte potrebbe tornargli utile – pensa il
plenipotenziario della Dc. Voti, consenso e mediazione locale, a suon di
prebende, clientele e posti di lavoro, sono una miniera preziosa. Coglie la
palla al balzo e dà il via all’istituzione della sede lucana, strategicamente
importante per lo sviluppo del paese e il progresso della sua regione. Tra
l’altro in un luogo logisticamente baricentrale, crocevia di più regioni –
Calabria, Puglia e la stessa Basilicata. Così nel 1962 il Cnel acquista i
terreni in Trisaia, a un paio di chilometri dalla spiaggia jonica, mentre
l’inaugurazione del Centro Ricerche Enea e del suo impianto avvengono nel 1968.
SCANZANO E LE SCORIE
Nel Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi parla della condizione dei “suoi”
contadini: “E quella gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle
ragioni della politica e alle teorie dei partiti, sentiva rinascere in sé
l’anima dei briganti. Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di
questi uomini compressi, un risentimento antichissimo e potente affiora, per un
motivo umano; e si danno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei
carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia
spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti,
come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli”.
D’altronde è quanto avvenuto nel novembre 2003. La protesta di una regione
contro il decreto 314 voluto dal secondo governo Berlusconi che avrebbe dato il
via alla realizzazione del deposito nazionale di scorie nucleari nelle cave di
salgemma di Terzo Cavone, nel comune di Scanzano Jonico, a una ventina di
chilometri dalla Trisaia. Nei giorni della protesta migliaia di persone
partecipano a blocchi stradali, cortei, comizi; occupano il municipio, il sito
prescelto e la stazione ferroviaria con la “marcia dei centomila” del 23
novembre. Due giorni dopo un altro corteo, a Roma stavolta. Il 26 si tiene un
convegno davanti al presidio, pieno di persone e di telecamere, con una
processione di politici di ogni colore. Il 27 novembre arriva la notizia: il
nome di Scanzano sparisce dal decreto.
«È rimasto poco – continua Claudio Persiano –. L’associazione ambientalista
“ScanZiamo le scorie”. E niente più. Quella potenza e quella coscienza esplose
nei quindici giorni di mobilitazione sono rientrate nei ranghi. Poi è tornata la
pletora di politici locali, i mediatori di clientele dei politici nazionali,
luogotenenti del potere che con la Trisaia hanno sempre fatto affari. Perché la
Trisaia ha distribuito soldi, commesse, posti di lavoro e incarichi».
Non proprio, però. L’ipoteca che lascia la Trisaia, nonostante le proteste
contro ulteriori forme di inquinamento, è quanto raccolto dall’Istituto
Superiore di Sanità. Un rapporto, su incarico del ministero della salute, ha
indagato lo stato di salute degli abitanti di nove comuni italiani in cui erano
presenti impianti nucleari. L’indagine del 2015 ha confrontato i tassi di
mortalità per diverse patologie, focalizzandosi in particolare su ventiquattro
tipi di tumori potenzialmente collegati all’esposizione a radiazioni ionizzanti.
I risultati hanno mostrato che, nella maggior parte dei casi, la mortalità era
inferiore rispetto alla media regionale. Alcuni eccessi osservati non sono stati
ritenuti riconducibili direttamente alla radioattività, poiché avrebbero
richiesto esposizioni elevate e continuative, incompatibili con il normale
funzionamento degli impianti. Lo studio ha analizzato diversi scenari di
esposizione, da quelli legati al normale funzionamento a ipotesi più critiche.
Il rapporto sottolinea la necessità di un monitoraggio costante della salute
pubblica e dei livelli di esposizione, soprattutto in vista di futuri progetti
legati alla gestione dei rifiuti radioattivi.
Sta di fatto però che, quando al monitoraggio si sostituiscono interessi
privati, in un mix di correità e “familismo amorale” tra lobby e classi
dirigenti per trovare scorciatoie nella gestione e nello stoccaggio di materiale
radioattivo, appaiono le peggiori infamità. L’Italia, peraltro, ha un grosso
problema che si trascina da decenni riguardo al monitoraggio di tale materiale.
E di infamità da quelle parti ce ne sono tante, assai spesso sottaciute. Anche
qui vige la morale dei Carmine Schiavone, che a chi gli chiedesse conto degli
sversamenti nel casertano, cioè sotto casa sua, rispondeva: “Ma tu quanto tempo
vuoi campare?”.
L’ULTIMA INCHIESTA
Il 27 maggio si terrà la seconda udienza del Tribunale di Potenza sull’inchiesta
condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia sull’inquinamento della falda
idrica nel sito Enea – Sogin (Società per lo smantellamento degli impianti
nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi), in particolare all’interno
dell’Impianto di trattamento e rifabbricazione elementi di combustibile (Itrec)
che si trova dentro la Trisaia. A dire il vero è la terza, seppur distinta,
inchiesta sulla Itrec.
«I fatti risalgono all’aprile 2018 – racconta Claudio –, quando scattarono i
sigilli a tre vasche di raccolta dell’impianto Itrec di Rotondella. Sarebbero
servite allo sversamento in mare di circa 65 mila metri cubi di acqua
contaminata da sostanze cancerogene quali il cromo esavalente e, senza alcun
trattamento, attraverso una condotta di scarico non autorizzata. Anche se in
realtà la vicenda è iniziata nel 2014-15. La Sogin monitora le acque di falda
tramite una serie di peziometri, cioè strumenti che servono a evitare che le
acque e le piscine non si contaminino fra di loro. Questi piezometri
restituiscono dei valori di cromo esavalente, trielina, tricloroetilene e altri
elementi, molto elevati rispetto ai limiti di legge. Così nel 2015, la Sogin
comunica questa rilevanza, e nello stesso anno parte il monitoraggio da parte
dell’Arpab (l’Agenzia regionale per l’ambiente). Nel 2017 questi dati vengono
poi raccolti dall’Asm, l’Azienda sanitaria di Matera e dal comune di Rotondella.
Intanto il sindaco emana un divieto di emungimento delle acque sotterranee nella
zona della Trisaia. E nel 2018 gli organi di stampa danno notizia della terza
inchiesta condotta negli anni sull’Itrec e il Centro Enea».
L’accusa è nei confronti di tredici indagati, tutti direttori, dirigenti e
tecnici della Sogin, dell’Ufficio ambiente della provincia di Matera, del centro
ricerche Enea, del dipartimento fusione nucleare e tecnologie per la sicurezza
dell’Enea, dell’ufficio suolo e rifiuti dell’Arpab di Matera. Insomma, nomi di
un certo calibro della politica ambientale regionale e nazionale.
Nell’udienza di fine mese il tribunale potentino riconoscerà la parte civile per
i comuni di Rotondella e di Policoro; le associazioni Legambiente Basilicata,
Cova Contro, ScanZiamo le scorie, Arci Basilicata e Arci La tarantola di
Rotondella. In altre parole, riconoscerà quello che è un monitoraggio popolare,
dal basso, talvolta sotterraneo eppure esistente, che ha cercato di contrastare
il saccheggio dei beni comuni della Lucania. Che è invero il sedimento di
memorie collettive e di lotte degli anni Settanta.
Gli echi delle proteste di Scanzano, e di tutta la regione, risalgono infatti ai
campeggi di lotta lungo la costa jonica di fine anni Settanta, da cui è nato il
Coordinamento nazionale antinucleare e antimperialista promotore del referendum
abrogativo del nucleare nel novembre 1987.
L’opposizione al nucleare inizia a Montalto di Castro (VT) nel ’77. L’anno
successivo, dal 29 luglio al 6 agosto, Radio Onda Rossa, gli autonomi di via dei
Volsci di Roma insieme a compagni lucani, tra cui Casimiro Longaretti,
organizzano un campeggio di lotta a Nova Siri Marina, a soli quattro chilometri
dalla Trisaia. Militanti di Nova Siri, Rotondella, Policoro, Pisticci,
Ferrandina, Valsinni, San Giorgio Lucano e di altri comuni della provincia di
Matera si ritrovano a collaborare nella realizzazione dell’evento. Rispondono
alla chiamata compagni dei paesi dell’alto Jonio cosentino, prossimi a Nova
Siri, così come i pugliesi, in particolare i tarantini e i brindisini.
Durante il campeggio vengono organizzati interventi ai cancelli dello
zuccherificio di Policoro, distante una trentina di chilometri dal campeggio, e
nell’area industriale della valle del fiume Basento, tra Pisticci Scalo e
Ferrandina, dove sono situate l’Anic, la Liquichimica e altre piccole fabbriche
dell’indotto. Si parla con i lavoratori delle condizioni di lavoro, dei turni
massacranti, di lavoro straordinario non retribuito e tanto altro. Gli operai
sembrano quasi stupiti nell’apprendere da ragazzi che vengono da lontano quanto
le condizioni lavorative in fabbrica siano di assoluto sfruttamento: a loro
basta fornire alla famiglia quel minimo di salario a fine mese per poter
campare, e perciò sono grati a padroni e padrini per la “magnanimità”. Altri
gruppi di campeggianti si spingono a un’oretta d’auto fino a Taranto ai cancelli
dell’Italsider. Nelle piazze dei paesi dell’entroterra lucano nascono assemblee
spontanee sui diritti negati e sul lavoro massacrante e sottopagato; sulle donne
sfruttate nei pesanti lavori agricoli, dentro le serre a temperature
insopportabili per la produzione di frutta e verdure, sottoposte al dileggio
dell’agrario di turno o dei caporali. «Prima di allora – ricorda Casimiro
Longaretti – si parlava della Trisaia come di un posto di lavoro ambito, con una
paga mensile appetibile rispetto al salario da fame degli operai di altre
categorie, ma nessuno aveva mai spiegato loro la pericolosità di quel tipo di
lavoro e che tipo di materiali venissero trattati; nessuno aveva mai spiegato
cosa comportasse stare all’interno di quel ciclo infernale, a contatto con
materiale nucleare altamente radioattivo».
Dopo una settimana di preparativi e informazione alla popolazione dei paesi
limitrofi, si arriva alla manifestazione conclusiva: sabato 5 agosto 1978,
giorno dell’anniversario della strage nucleare di Hiroshima e Nagasaki, in
Giappone, per mano degli Usa. Il corteo partecipatissimo si muove verso la
Trisaia sulla statale 106: striscioni contro il nucleare, contro la galera e la
repressione, contro gli agrari; cartelli con i nomi dei padroni che sfruttano
gli operai, contro l’inettitudine dei sindacati incapaci di contrastare i
caporali; striscioni che denunciano la permissività del Pci, la sua connivenza e
il suo guadagno percentuale sull’assunzione dei suoi protetti nelle varie
aziende del metapontino.
L’anno successivo, più o meno nello stesso periodo e sempre all’interno della
pineta a un passo dallo Jonio a Marina di Nova Siri, i comitati autonomi operai
di Roma e i compagni lucani ripropongono l’impegno. La partecipazione al secondo
campeggio No Nuke è addirittura superiore all’anno precedente. «Malgrado tutte
le avversità create dal compromesso storico – ricorda Casimiro – la lotta contro
l’Energia Padrona non si fermava. La domanda che ritornava spesso durante le
settimane preparatorie, era relativa al perché proprio la Lucania fosse stata
prescelta per ospitare l’energia nucleare. La risposta sintetizzava tutta la
storia dell’Italia unita. La Basilicata è la regione del Mezzogiorno che
storicamente ha fatto registrare meno tensioni sociali. I moti di piazza si
erano fermati agli anni Cinquanta, con le lotte per le terre dell’ente per la
riforma agraria. Nel contempo un grande bisogno di lavoro, rispetto al quale non
è mai importata la qualità e se esso comportasse un particolare pericolo per
l’ambiente e per la popolazione locale. Le lobby energetiche italiane non fecero
mai mistero di questa scelta. I salari erano molto bassi in Lucania, e in più vi
era l’opportunità per loro, con una maggiore produzione di energia, di attivare
l’automazione delle linee di produzione nelle fabbriche del Nord, il che avrebbe
permesso una drastica riduzione della mano d’opera e, di conseguenza,
l’espulsione di migliaia di operai. Così, il ricatto del bisogno di lavoro tra
le masse del Sud sarebbe enormemente cresciuto. La gente del posto, invece,
considerava questa scelta come una manna dal cielo e poco importava loro della
sicurezza e della qualità del lavoro».
Le tensioni politiche nel paese si avvertono tutte durante gli incontri,
nonostante il posto stupendo e il mare che ritma le giornate. Il “teorema
Calogero” aleggia tutt’intorno, la retata repressiva del 7 aprile è ancora
calda: un minestrone di accuse contro l’area dell’Autonomia operaia. Così il
dibattito tra i campeggiatori è condizionato dall’inquietante retroscena.
«Ancora oggi – ammette Casimiro – molte persone sono grate ai partecipanti dei
due campeggi per aver dato loro una indicazione su quanto fosse pericoloso
quello che si celava dietro le reti di recinzione del Cnen. Grazie a quelle
mobilitazioni le persone hanno compreso che il potere delle lobby può essere
sconfitto solamente prendendo coscienza e opponendosi compatti. È l’esempio di
Scanzano Jonico del 2003». (francesco festa)
(disegno di martina di gennaro)
Quello per un maggiore finanziamento dell’università pubblica italiana è senza
dubbio uno dei tanti ritornelli che hanno compiuto la maggiore età riecheggiando
nelle piazze italiane. Praticamente a vuoto: se c’è stata infatti qualche
controtendenza al più generale trend di tagli alla spesa per la ricerca, è stato
più per unicum occasionali (come le borse Pnrr post-emergenza Covid) che per la
spinta arrivata dai movimenti di lotta.
Tranne rare eccezioni, a scandire la richiesta sono sempre quelli che,
eventualmente, ne trarrebbero giovamento in termini di assunzione (quella
categoria di precari che restano fuori per un pelo dai meccanismi della
cooptazione). A manifestarsi, anche a questo giro di boa, infatti, sono stati
quasi solo l’attuale generazione di dottorandi, gli assegnisti e qualche
ricercatore più agée. Pochissime voci si levano dai palazzi dorati dei baroni,
dei loro coscritti e delle anime pie, e ne è una prova tangibile il sostegno
della Conferenza dei rettori (Crui) al colpo di grazia targato Anna Maria
Bernini.
Men che meno protesta la base di giovani ricercatori che in questo quarto di
secolo hanno transitato per l’accademia italiana, rimanendone tagliati fuori
circa il novanta per cento di quelli che la tentano, cioè circa novemila dei
diecimila dottorandi annui (di questi, il quattordici per cento circa ha
intrapreso un esodo che li ha portati nelle università estere, mentre gli altri
hanno trovato sbocchi in professioni diverse: il venti per cento, per esempio,
ha ripiegato sull’insegnamento nel sistema scolastico).
Queste persone sono felicemente uscite dal sistema torbido
dell’università, fatto di ricatti, vessazioni, angherie, battaglie fra correnti,
favoritismi, nepotismi e un livello qualitativo sempre più basso. Ben quattro su
dieci non ripeterebbero l’esperienza del dottorato (dato Istat, 2018) tanto che
viene da pensare che forse è anche in ragione di questo che non arriva, da loro,
alcun invito a un ripensamento, né alcun appello a favore dei finanziamenti per
la ricerca.
Eppure farebbe la differenza, se oltre duecentomila ex-dottorandi (a fronte di
centotrentamila strutturati accademici) lottassero per migliorare gli
investimenti pubblici per quello che, nei loro anni migliori, hanno pensato
potesse essere un modo utile di stare al mondo.
Da questo dato di partenza andrebbe forse analizzata la condizione attuale di
una battaglia che, nella sua perenne ricorsività, rischia di perdere a ogni giro
credibilità e richiamo. Se a difendere l’idea di aumentare i finanziamenti
all’attuale università è soprattutto chi ne avrebbe un diretto interesse,
l’alveo all’interno del quale ci muoviamo diventa quello di una lotta meramente
sindacale, una lotta, cioè, fatta per migliorare le condizioni di chi è già
dentro o che, al massimo, a questo mondo gira un po’ intorno. Non che questo sia
sbagliato, anzi: riconoscerla in questi termini permetterebbe probabilmente un
cambio di strategia che forse la renderebbe efficace. Ma così non va.
La richiesta di aumentare i finanziamenti alle università pubbliche, infatti, è
sempre accompagnata da ragionamenti ideologici di pretesa di universalistica. Si
cerca di argomentare rispetto al ruolo del sapere come strumento di crescita
della società, o di convincere della necessità di investire nella ricerca per
migliorare l’innovazione. Battaglie sacrosante, che dovrebbero trovare anzi ben
più ampie alleanze sociali. Se solo fossero vere. Se cioè, davvero, l’università
servisse a contribuire, anche per una piccola parte, al servizio pubblico cui
pretende di farsi carico. Ancora: se fosse davvero tangibile queto presunto
ruolo virtuoso dell’università nei processi democratici, nell’innovazione, nella
produzione di conoscenza pubblica, il tema riguardante il suo futuro non
travalicherebbe forse gli asfittici cortili delle facoltà?
Resta da chiedersi quali siano i motivi per cui l’università ha perso la sua
vocazione, e quindi anche la sua funzione. La colpa è forse della
burocratizzazione che schiaccia la vita lavorativa degli accademici? Della
perenne competizione cui sono costretti i gruppi di ricerca per praticare la
loro sopravvivenza? Che abbia colpa un modello intrinsecamente disciplinare e
incapace di trasformarsi per rispondere alle sfide dell’oggi? Che la
responsabilità risieda, ancora, nei meccanismi di cooptazione che asfissiano il
ricambio basato sul merito, incorporando personale sempre meno capace e libere?
Probabilmente, la risposta è nella somma di tutte queste e molte altre cose. Il
fatto centrale, tuttavia, è che non possiamo più ignorare il gap che c’è tra
società e università, quella distanza che isola e fa riecheggiare nel vuoto la
richiesta di adeguare, per esempio, i finanziamenti agli standard europei.
Continuare a raccontare che possiamo spegnere l’incendio con un arredamento rinnovato,
mentre fuori brucia l’intera città, non è utile alla causa, e venticinque anni
di progressivo isolamento dovrebbero contribuire a farci venire il dubbio.
Davvero si crede possibile che in un contesto in cui il disinvestimento pubblico
colpisce direttamente la vita del paese, nei crudi termini materiali di
infrastrutture scolastiche, mediche, di mobilità e trasporti, di tenuta dei
territori ai disastri ambientali e idro-geologici si possano stringere alleanze,
e pretendere di mettere la salvaguardia dell’università tra le priorità delle
lotte sociali? Allo stesso modo: si crede davvero che raggiungere standard di
finanziamenti di livello europei contribuisca ad avere migliori università?
Naturalmente non si tratta di buttare al fiume il bambino con l’acqua sporca.
Siamo tutti consci di piccole ma importanti sacche di resistenza, che con salti
carpiati ed esercizi faticosissimi mantengono viva l’eredità della via
italiana. Ma se parliamo di una crisi sistemica, con danni alle fondamenta, non
possiamo di certo cullarci sulle rare riserve indiane delle “eccellenze”.
Ciò che dovremmo piuttosto fare è forse prendere atto della portata della sfida
e contribuire a smantellare l’attuale ordine delle cose. Se il sistema è
irriformabile, non lo sono le ragioni che gli hanno dato vita e l’hanno fatto
esistere fino a oggi.
Non esistono scorciatoie: dobbiamo immaginare le universitas del domani, una
evoluzione di quella di oggi che, agonizzante, muore. Rimanere aggrappati a
piangerla e implorare i medici perché possa respirare altri cinque minuti sta
facendo sfuggire di mano l’occasione di vederne rinascere i principi fondativi.
Gli Stati Uniti sono i precursori dei peggiori trend che, a scalare toccano gli
altri paesi occidentali, che prontamente gli vanno a ruota. Tra gli obiettivi
dell’amministrazione Trump, in continuità con le tendenze già intuite dalle
forze di mercato, c’è la definitiva distruzione dell’università americana e la
sua trasformazione in fondazioni private che con quei meccanismi (di mercato)
funzionino. La destra ha colto, in America, la crisi dell’università, e la sua
separazione dalle necessità del corpo sociale per minarne i principi fondativi;
per mettere in dubbio, cioè, l’idea che il sapere e la scienza siano strumenti
utili al miglioramento delle condizioni della specie umana. Stanno distruggendo
l’università per trasformarla in uno strumento al servizio del mercato,
approfittando della crepa aperta con la società per trarne vantaggio.
La destra mondiale sta dimostrando di avere, su questo come in altri campi, la
carta vincente di volere immaginare il futuro. A differenza dei
progressisti-liberali lavora ancora agli immaginari, piuttosto che aggrapparsi
al mantenimento dello stato di cose presenti. Così è riuscita a concepire il
superamento dell’università, chiaramente a favore degli interessi di mercato. E
la sta praticando con misure draconiane.
Se le forze trasformative non si faranno carico di una capacità immaginativa
all’altezza soccomberanno sotto gli stessi colpi, e l’unica differenza con gli
Usa sarà nella tempistica: ci vorrà un po’ più di tempo per picconare una
istituzione millenaria, elitaria e ancora molto radicata nella cultura europea,
ma quel giorno arriverà, magari sull’onda di altre urgenze come un riarmo
qualsiasi. Il solco è tracciato, e se non saremo capaci di cambiargli verso, ci
resteremo seppelliti dentro. (lori sodo)
(disegno di leMar)
Si ferma il piano di sviluppo industriale del centro di sperimentazione
automobilistica Nardò Technical Center nel Salento, di cui abbiamo scritto nei
mesi passati. Lo annuncia Porsche nel pomeriggio di giovedì 27 marzo, in
una nota in cui motiva la rinuncia al progetto con le attuali “prospettive
sociali, ambientali ed economiche” e “le circostanze dell’industria
automotive mondiale”. La buona notizia arriva dopo quasi venti mesi di lotte e
resistenza da parte di associazioni e comitati, a un anno esatto dalla
comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Emiliano
di sospendere l’accordo di programma con NTC, a seguito dei richiami dalla
Commissione europea. Nell’attesa che la Regione metta nero su bianco la revoca
dell’accordo di programma con NTC, è tempo di riavvolgere il nastro e smontare
le narrazioni che accompagnano la decisione di Porsche e stanno monopolizzando
gli spazi di quotidiani e pagine d’informazione.
Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti NTC con nuove piste e impianti su
duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco
mediterraneo e 351 ettari espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il
consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che
riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito
di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa
comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia
della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della
Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri
d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico”
connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza pubblica. Infatti, alla
distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di
elisoccorso attrezzato con eliporto e annesse strutture sanitarie, un centro
visite polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto
riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e
Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi
estivi hanno interessato le campagne nei terreni limitrofi all’anello di Porsche
non hanno visto i soccorsi di NTC.
L’IMBROGLIO ECOLOGICO
Le misure compensative alla distruzione del bosco sarebbero state la
rinaturalizzazione e riforestazione delle aree intorno al perimetro di NTC, ma
era impensabile rimpiazzare una comunità ecosistemica complessa e
autosufficiente con filari di alberelli bisognosi di anni e acqua per crescere,
con sole dodici specie vegetali contro le quattrocentoventi attestate nel bosco
secolare. Per fare spazio alle piste di prova per auto
elettriche, Porsche avrebbe tradito le promesse di sostenibilità del gruppo
Volkswagen, di cui fa parte: “lasciare un mondo migliore per le generazioni
future”, “sostenibilità significa mantenere a lungo termine sistemi ecologici,
sociali ed economici sostenibili a livello globale, regionale e locale”.
Per denunciare il massacro ambientale in un’area protetta e la perdita
irreversibile di biodiversità, per resistere a questa truffa ai danni della
natura e della comunità, si è costituito nell’autunno 2023 il comitato Custodi
del bosco d’Arneo, che ha promosso un ricorso al Tar a gennaio 2024 insieme a
Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, fino a ottenere dal commissario
europeo per l’ambiente Sinkevičius, a nome della Commissione europea, la
richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo il progetto e i presunti motivi di
interesse pubblico. Nei mesi è cresciuta la solidarietà e la mobilitazione
dell’opinione pubblica tedesca, con sit-in e manifestazioni a Stoccarda, patria
di Porsche, una lettera aperta ai Ceo di Porsche e Volkswagen, con
il supporto delle tre maggiori associazioni per la tutela della natura del
Baden-Württemberg, Nabu, Bund e Lnv, di Robin Wood e Fern.
L’alleanza tra associazioni pugliesi e tedesche ha portato la vicenda del bosco
d’Arneo al consiglio di amministrazione Porsche durante l’annual general
meeting di Stoccarda, la riunione annuale degli shareholders. Lì i Custodi del
bosco sono stati riconosciuti come legittimi interlocutori e portatori
d’interesse, si è messa in luce tutta l’illogicità del piano e l’incoerenza con
le politiche aziendali (seppur le risposte siano state vaghe e autoassolutorie
nonostante le domande consegnate con tre giorni di anticipo). A novembre,
durante una pacifica azione di protesta, gli attivisti di Robin Wood hanno
piantato un leccio nella Porsche-Platz a Stoccarda, che è stata simbolicamente
rinominata “Bosco d’Arneo-Platz”. Ancora, a dicembre le associazioni hanno
inviato al presidente Emiliano un documento per chiedere chiarimenti in vista
della scadenza della sospensiva e a gennaio una conferenza stampa con attivisti
dalla Germania e dal Brasile ha continuato ad alimentare quel dibattito pubblico
negato dalle istituzioni.
A ridosso di Ferragosto (con le stesse tempistiche nemiche della partecipazione
con cui un anno prima era stata diffusa la notizia del progetto), la Regione
avvia il procedimento di definizione degli obiettivi di conservazione
sito-specifici della Zona Speciale di Conservazione “Palude del Conte, dune di
Punta Prosciutto”, in cui ricade il circuito NTC. In effetti, sulla Puglia
incombono una procedura d’infrazione comunitaria del 2015 e una messa in mora
del 2019 da parte della Commissione europea, per aver omesso di stabilire nelle
ZSC misure di conservazione necessarie per gli habitat naturali presenti. Ora,
la Puglia conta ottanta siti tra ZSC e SIC, ma la Regione si attiva solo per
quello che interessa Porsche. Dalle osservazioni presentate da alcune
associazioni alla deliberazione regionale si scopre che già nel 2006 i
proprietari delle piste avevano avuto l’autorizzazione all’ampliamento su
un’area di circa trecentocinquanta ettari, con l’unica prescrizione di
realizzare opere di rinaturalizzazione su una superficie pari all’estensione
dell’habitat compromesso.
L’intero quadro della vicenda mostra un pericoloso precedente in cui stretti
vincoli ambientali non bastano più a proteggere un’area, un caso in cui il
potere economico privato cattura la scelta pubblica, celando gli interessi del
singolo operatore di mercato con il velo della pubblica utilità, a discapito dei
diritti della collettività. Come argomenta Giovanni D’Elia, il forte potere
economico di uno dei maggiori gruppi automobilistici a livello mondiale sarebbe
stato in grado di influenzare gli attori istituzionali nella gestione di una
vasta area boschiva tutelata dal diritto europeo.
A marcare questo ricatto, nel bollettino ufficiale la Regione scriveva che la
“mancata realizzazione delle quattro fasi del masterplan potrebbe comportare la
dismissione dell’impianto di prova esistente”, in quanto “il mancato adeguamento
alle nuove esigenze tecnologiche in corso nel settore automotive innescherebbe
il processo di declino tecnologico e commerciale delle attuali piste”. In più
minacciava che “con la dismissione delle attività, oltre a ricadute di natura
socio-economica, verrebbe meno il presidio dell’area attualmente assicurato da
NTC, aumentando di conseguenza il rischio di compromissione degli habitat”. Ora
che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte
nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”,
torna in mente la paura che le opposizioni al piano di ampliamento di NTC
avrebbero indotto il disinteresse di Porsche a investire e a rimanere sul
territorio. La tanto temuta “alternativa zero” che avrebbe comportato anche
“l’esaurimento del positivo indotto socio-economico generato sul territorio,
derivante dalla presenza di clienti e visitatori da tutto il mondo”,
e paventata come “non percorribile” durante la seduta a Bari della V Commissione
in Regione a novembre 2023, ora sta perfettamente in piedi e lo dice Porsche
stessa.
Ritorna il copione, tracciato da Naomi Klein nel saggio Shock economy, per cui
le crisi vengono utilizzate, dietro il pretesto dell’emergenza, come
un’opportunità per introdurre politiche economiche impopolari, quali
deregolamentazioni e privatizzazioni. L’elemento chiave è la velocità con cui
vengono attuate tali politiche, mentre il consenso popolare viene manipolato
attraverso la paura e la propaganda. Approfittando del disorientamento e della
paura causati dalla crisi, i governi agiscono rapidamente, spesso senza un
adeguato dibattito pubblico. Dopo anni di disastri ecologici con ambiente e
salute subordinati al profitto, è evidente come non possa esistere industria
sostenibile sotto il capitalismo, sostenibilità e profitto non sono
conciliabili. Il mese scorso perfino Ursula von der Leyen “si è arresa di fronte
alla narrazione industriale: mantenere alta la competitività rispettando
stringenti regole ambientali non è possibile, i conti non tornano”, scrive Irpi
Media.
IL SUD DEI RICATTI
“Chance perse”, “colpo fatale al futuro”, “clima ostile all’impresa”: sono
alcuni dei titoli allarmistici che occupano le pagine della stampa locale dopo
la rinuncia di Porsche. La generica categoria degli ambientalisti contro cui
stanno puntando il dito la Regione e le associazioni di categoria rimarca la
stigmatizzazione delle esperienza di attivazione sul territorio. Gli
ambientalisti sono solo cittadini attenti (e incensurati) che chiedono di
autodeterminarsi, che hanno utilizzato gli strumenti legislativi ordinari, senza
generare problemi di ordine pubblico durante le manifestazioni, mentre chi
cercava di aggirare i vincoli della giustizia erano altri. Non è una novità che
al sud chi respinge modelli di sviluppo imposti dall’alto sia sempre tacciato di
arretratezza e inciviltà, come fossimo poveri selvaggi da evangelizzare al
progresso, secondo la buona tradizione coloniale.
L’assessore Delli Noci, braccio destro di Emiliano, piange una “perdita enorme
per il territorio”, “gli sforzi della Regione Puglia di attrarre investimenti da
parte di grandi imprese vengono vanificati, con la grave perdita di occasioni di
crescita, di nuovi posti di lavoro e di possibilità di sviluppo”. Lo stesso
presidente Emiliano, interpellato dal Quotidiano di Puglia, dichiara: “Abbiamo
perso una grande occasione di sviluppo, centinaia di posti di lavoro e un
rimboschimento di cinquecento ettari al posto dei centocinquanta da abbattere”.
E poi preme il pulsante delle emozioni di pancia: “C’è chi sarà felice e chi si
rende conto di questi ragazzi e ragazze pugliesi che dovranno andar via a causa
di questo mancato investimento”, senza ammettere che, se migliaia di pugliesi
sono costretti a emigrare, la colpa è di politiche regionali capaci solo
di svendere una terra pur di avere il prestigio di averlo concesso.
Chi sottolinea la perdita di opportunità occupazionali, in questo perenne
ricatto salute-lavoro che attanaglia il meridione, dimentica i fatti recenti che
hanno interessato lavoratori di NTC, oltre alle vicende sindacali dei pochi
salentini che lavorano per Porsche, sottopagati e minacciati di licenziamento:
collaudatori e operai in presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda e
in sciopero della fame nel 2017, costretti per vent’anni a condizioni di lavoro
precarie. Alcuni collaudatori raccontano: “Lavoriamo rischiando la vita ogni
giorno, quaranta ore alla settimana, per una paga misera”, “stare per ore con il
piede fisso sull’acceleratore, lungo una pista che sembra non finire mai, con
gli stessi contratti che si applicano ai commessi” e non metalmeccanici.
I politici non hanno mai avuto scrupoli nell’alimentare il ricatto: la sindaca
di Porto Cesareo accusava ogni tentativo di frenare il progetto di NTC come uno
“schiaffo al territorio e alla comunità”, alle “tante attività che d’inverno
farebbero la fame”. Un anno fa Confcommercio e Federalberghi si
dicevano preoccupate che la sospensione al progetto di NTC potesse “influenzare
negativamente l’economia locale”, essendo l’attività del centro prove “risorsa
per centinaia di piccole e medie imprese e realtà del commercio locali” e “una
risorsa vitale per le strutture ricettive”. Grazie a “clienti internazionali che
visitano l’area tutto l’anno, il Salento viene promosso su scala globale”.
Quando Emiliano dichiara che la rinuncia di Porsche “anche dal punto di vista
ambientale è stato un danno, perché nel tempo avremmo quintuplicato l’area
boschiva”, finge di non sapere che se quello che la Regione auspica è un’opera
di riforestazione, questa è perseguibile senza bisogno di sacrificare gli ettari
di bosco e le specie animali che lo abitano. Poi, la riforestazione resta una
misura compensativa che (lo dice il nome) serve a bilanciare l’incidenza
negativa significativa dell’intervento, quindi per logica non può essere motivo
per attestare la bontà dell’intervento.
L’amaro in bocca dei politici locali e delle associazioni di categoria alimenta
la logica coloniale ed estrattiva in un territorio di conquista già devastato
dal disseccamento degli ulivi, consumo di suolo e desertificazione, incendi
sistematici, crisi idrica e siccità galoppante, land grabbing per impianti di
fotovoltaico, agrivoltaico ed eolico (proprio in questi giorni a Livorno si
tiene Confluenza, il primo incontro nazionale contro la speculazione energetica
ed estrattivista sui territori).
Sebbene la Puglia sia ancora in violazione della direttiva sui criteri
sito-specifici e la vicenda di Porsche abbia mostrato come bastino forti poteri
privati per far decadere i vincoli ambientali, la storia del bosco d’Arneo serve
come monito: ciò che viene presentato come necessario e inevitabile non è che
una contingenza. Gli imperativi del capitalismo non diventino una tara cognitiva
che riduce la politica a spartizione di fette di potere. Il leccio che i Custodi
del bosco e il Wwf hanno piantato lo scorso 24 gennaio a Lecce in viale De
Pietro, nell’aiuola di fronte gli uffici di NTC, sta a ricordare che bisogna
immaginare sempre altri scenari possibili oltre quello imposto. E serve
raccontare i territori e le storie con tutto ciò che preme al loro ribaltamento,
riappropriandosi della categoria dell’utopia, come scrive Alessandro Leogrande.
“Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo
sovvertimento”. (chiara romano)
(disegno di escif)
A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite
decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e
studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al
Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e
si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione
di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono
nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore
aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si
sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della
governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà
l’intero sistema universitario.
Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di
chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora
con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo.
Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale
tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e
sfruttamento.
A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di
anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la
ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e
diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le
riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però,
lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei
docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama
all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza”
ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore
affligge l’università pubblica.
Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema
in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e
internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi,
incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di
insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca)
dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della
ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo,
numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle
studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture,
digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno,
concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che
rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica
che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà
un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a
rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane
dalle grandi metropoli universitarie.
Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di
alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni
socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un
lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro
di cura.
Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e
telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può
permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di
mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori
privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo.
Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un
ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi
aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con
aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo
palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi
economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione
dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri
Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di
collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con
i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca,
di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori.
Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie
assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento
a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre
quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di
rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i
tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi
agli atenei, di borse di studio e di ricerca.
Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora
incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di
discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli
atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto
Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si
inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico,
finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato
la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per
definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più
dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di
influenzare didattica e ricerca.
Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma,
Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per
opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema
universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa:
stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale
tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di
finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e
partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri,
affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla
performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca
autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato.
È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione
ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è
sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario
pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare.
Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno
capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la
necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca
tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti.
La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le
assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università.
L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti
sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)
Il Rassemblement National, dopo aver visto da vicino la vittoria alle elezioni
anticipate convocate da Macron dopo le europee, pur mantenendo percentuali
elevate, è stato sconfitto al secondo turno grazie all’accordo stipulato tra i
macronisti e l’alleanza di sinistra. La barriera antifascista, complice una
partecipazione al voto più alta delle ultime consultazioni, ha ancora una […]
Un documento di 9 pagine per 14 articoli che rimarrà in vigore per cinque anni.
Questa l’entità del protocollo tra la premier Meloni e il corrispettivo albanese
Rama, firmato il 6 novembre scorso. Un accordo che in prima istanza consentirà
al governo italiano di costruire e gestire due Centri per il rimpatri, Cpr, sul
territorio […]
In un comunicato diffuso tramite radio e tv pubblica, il presidente del Niger,
il generale Abdourahamane Tchiani, ha firmato il 25 novembre un’ordinanza che
abroga la legge del 26 maggio 2015 sul traffico illegale di migranti. Sempre il
comunicato riporta come tali norme fossero state approvate su pressione di
potenze straniere e criminalizzassero attività regolari […]
Il governo italiano è già profondamente implicato nella guerra in Palestina, dal
sostegno propagandistico che trasversalmente occupa le dimensioni politico
istituzionali ai giornali, all’invio di armi, agli accordi e alleanze tra
politici nostrani di dubbio gusto e Israele.Ciò che sta accadendo a Gaza, sotto
il silenzio assenso della comunità internazionale, sta producendo reazioni in
tutto […]