(disegno di leMar)
Si ferma il piano di sviluppo industriale del centro di sperimentazione
automobilistica Nardò Technical Center nel Salento, di cui abbiamo scritto nei
mesi passati. Lo annuncia Porsche nel pomeriggio di giovedì 27 marzo, in
una nota in cui motiva la rinuncia al progetto con le attuali “prospettive
sociali, ambientali ed economiche” e “le circostanze dell’industria
automotive mondiale”. La buona notizia arriva dopo quasi venti mesi di lotte e
resistenza da parte di associazioni e comitati, a un anno esatto dalla
comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Emiliano
di sospendere l’accordo di programma con NTC, a seguito dei richiami dalla
Commissione europea. Nell’attesa che la Regione metta nero su bianco la revoca
dell’accordo di programma con NTC, è tempo di riavvolgere il nastro e smontare
le narrazioni che accompagnano la decisione di Porsche e stanno monopolizzando
gli spazi di quotidiani e pagine d’informazione.
Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti NTC con nuove piste e impianti su
duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco
mediterraneo e 351 ettari espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il
consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che
riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito
di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa
comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia
della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della
Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri
d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico”
connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza pubblica. Infatti, alla
distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di
elisoccorso attrezzato con eliporto e annesse strutture sanitarie, un centro
visite polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto
riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e
Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi
estivi hanno interessato le campagne nei terreni limitrofi all’anello di Porsche
non hanno visto i soccorsi di NTC.
L’IMBROGLIO ECOLOGICO
Le misure compensative alla distruzione del bosco sarebbero state la
rinaturalizzazione e riforestazione delle aree intorno al perimetro di NTC, ma
era impensabile rimpiazzare una comunità ecosistemica complessa e
autosufficiente con filari di alberelli bisognosi di anni e acqua per crescere,
con sole dodici specie vegetali contro le quattrocentoventi attestate nel bosco
secolare. Per fare spazio alle piste di prova per auto
elettriche, Porsche avrebbe tradito le promesse di sostenibilità del gruppo
Volkswagen, di cui fa parte: “lasciare un mondo migliore per le generazioni
future”, “sostenibilità significa mantenere a lungo termine sistemi ecologici,
sociali ed economici sostenibili a livello globale, regionale e locale”.
Per denunciare il massacro ambientale in un’area protetta e la perdita
irreversibile di biodiversità, per resistere a questa truffa ai danni della
natura e della comunità, si è costituito nell’autunno 2023 il comitato Custodi
del bosco d’Arneo, che ha promosso un ricorso al Tar a gennaio 2024 insieme a
Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, fino a ottenere dal commissario
europeo per l’ambiente Sinkevičius, a nome della Commissione europea, la
richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo il progetto e i presunti motivi di
interesse pubblico. Nei mesi è cresciuta la solidarietà e la mobilitazione
dell’opinione pubblica tedesca, con sit-in e manifestazioni a Stoccarda, patria
di Porsche, una lettera aperta ai Ceo di Porsche e Volkswagen, con
il supporto delle tre maggiori associazioni per la tutela della natura del
Baden-Württemberg, Nabu, Bund e Lnv, di Robin Wood e Fern.
L’alleanza tra associazioni pugliesi e tedesche ha portato la vicenda del bosco
d’Arneo al consiglio di amministrazione Porsche durante l’annual general
meeting di Stoccarda, la riunione annuale degli shareholders. Lì i Custodi del
bosco sono stati riconosciuti come legittimi interlocutori e portatori
d’interesse, si è messa in luce tutta l’illogicità del piano e l’incoerenza con
le politiche aziendali (seppur le risposte siano state vaghe e autoassolutorie
nonostante le domande consegnate con tre giorni di anticipo). A novembre,
durante una pacifica azione di protesta, gli attivisti di Robin Wood hanno
piantato un leccio nella Porsche-Platz a Stoccarda, che è stata simbolicamente
rinominata “Bosco d’Arneo-Platz”. Ancora, a dicembre le associazioni hanno
inviato al presidente Emiliano un documento per chiedere chiarimenti in vista
della scadenza della sospensiva e a gennaio una conferenza stampa con attivisti
dalla Germania e dal Brasile ha continuato ad alimentare quel dibattito pubblico
negato dalle istituzioni.
A ridosso di Ferragosto (con le stesse tempistiche nemiche della partecipazione
con cui un anno prima era stata diffusa la notizia del progetto), la Regione
avvia il procedimento di definizione degli obiettivi di conservazione
sito-specifici della Zona Speciale di Conservazione “Palude del Conte, dune di
Punta Prosciutto”, in cui ricade il circuito NTC. In effetti, sulla Puglia
incombono una procedura d’infrazione comunitaria del 2015 e una messa in mora
del 2019 da parte della Commissione europea, per aver omesso di stabilire nelle
ZSC misure di conservazione necessarie per gli habitat naturali presenti. Ora,
la Puglia conta ottanta siti tra ZSC e SIC, ma la Regione si attiva solo per
quello che interessa Porsche. Dalle osservazioni presentate da alcune
associazioni alla deliberazione regionale si scopre che già nel 2006 i
proprietari delle piste avevano avuto l’autorizzazione all’ampliamento su
un’area di circa trecentocinquanta ettari, con l’unica prescrizione di
realizzare opere di rinaturalizzazione su una superficie pari all’estensione
dell’habitat compromesso.
L’intero quadro della vicenda mostra un pericoloso precedente in cui stretti
vincoli ambientali non bastano più a proteggere un’area, un caso in cui il
potere economico privato cattura la scelta pubblica, celando gli interessi del
singolo operatore di mercato con il velo della pubblica utilità, a discapito dei
diritti della collettività. Come argomenta Giovanni D’Elia, il forte potere
economico di uno dei maggiori gruppi automobilistici a livello mondiale sarebbe
stato in grado di influenzare gli attori istituzionali nella gestione di una
vasta area boschiva tutelata dal diritto europeo.
A marcare questo ricatto, nel bollettino ufficiale la Regione scriveva che la
“mancata realizzazione delle quattro fasi del masterplan potrebbe comportare la
dismissione dell’impianto di prova esistente”, in quanto “il mancato adeguamento
alle nuove esigenze tecnologiche in corso nel settore automotive innescherebbe
il processo di declino tecnologico e commerciale delle attuali piste”. In più
minacciava che “con la dismissione delle attività, oltre a ricadute di natura
socio-economica, verrebbe meno il presidio dell’area attualmente assicurato da
NTC, aumentando di conseguenza il rischio di compromissione degli habitat”. Ora
che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte
nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”,
torna in mente la paura che le opposizioni al piano di ampliamento di NTC
avrebbero indotto il disinteresse di Porsche a investire e a rimanere sul
territorio. La tanto temuta “alternativa zero” che avrebbe comportato anche
“l’esaurimento del positivo indotto socio-economico generato sul territorio,
derivante dalla presenza di clienti e visitatori da tutto il mondo”,
e paventata come “non percorribile” durante la seduta a Bari della V Commissione
in Regione a novembre 2023, ora sta perfettamente in piedi e lo dice Porsche
stessa.
Ritorna il copione, tracciato da Naomi Klein nel saggio Shock economy, per cui
le crisi vengono utilizzate, dietro il pretesto dell’emergenza, come
un’opportunità per introdurre politiche economiche impopolari, quali
deregolamentazioni e privatizzazioni. L’elemento chiave è la velocità con cui
vengono attuate tali politiche, mentre il consenso popolare viene manipolato
attraverso la paura e la propaganda. Approfittando del disorientamento e della
paura causati dalla crisi, i governi agiscono rapidamente, spesso senza un
adeguato dibattito pubblico. Dopo anni di disastri ecologici con ambiente e
salute subordinati al profitto, è evidente come non possa esistere industria
sostenibile sotto il capitalismo, sostenibilità e profitto non sono
conciliabili. Il mese scorso perfino Ursula von der Leyen “si è arresa di fronte
alla narrazione industriale: mantenere alta la competitività rispettando
stringenti regole ambientali non è possibile, i conti non tornano”, scrive Irpi
Media.
IL SUD DEI RICATTI
“Chance perse”, “colpo fatale al futuro”, “clima ostile all’impresa”: sono
alcuni dei titoli allarmistici che occupano le pagine della stampa locale dopo
la rinuncia di Porsche. La generica categoria degli ambientalisti contro cui
stanno puntando il dito la Regione e le associazioni di categoria rimarca la
stigmatizzazione delle esperienza di attivazione sul territorio. Gli
ambientalisti sono solo cittadini attenti (e incensurati) che chiedono di
autodeterminarsi, che hanno utilizzato gli strumenti legislativi ordinari, senza
generare problemi di ordine pubblico durante le manifestazioni, mentre chi
cercava di aggirare i vincoli della giustizia erano altri. Non è una novità che
al sud chi respinge modelli di sviluppo imposti dall’alto sia sempre tacciato di
arretratezza e inciviltà, come fossimo poveri selvaggi da evangelizzare al
progresso, secondo la buona tradizione coloniale.
L’assessore Delli Noci, braccio destro di Emiliano, piange una “perdita enorme
per il territorio”, “gli sforzi della Regione Puglia di attrarre investimenti da
parte di grandi imprese vengono vanificati, con la grave perdita di occasioni di
crescita, di nuovi posti di lavoro e di possibilità di sviluppo”. Lo stesso
presidente Emiliano, interpellato dal Quotidiano di Puglia, dichiara: “Abbiamo
perso una grande occasione di sviluppo, centinaia di posti di lavoro e un
rimboschimento di cinquecento ettari al posto dei centocinquanta da abbattere”.
E poi preme il pulsante delle emozioni di pancia: “C’è chi sarà felice e chi si
rende conto di questi ragazzi e ragazze pugliesi che dovranno andar via a causa
di questo mancato investimento”, senza ammettere che, se migliaia di pugliesi
sono costretti a emigrare, la colpa è di politiche regionali capaci solo
di svendere una terra pur di avere il prestigio di averlo concesso.
Chi sottolinea la perdita di opportunità occupazionali, in questo perenne
ricatto salute-lavoro che attanaglia il meridione, dimentica i fatti recenti che
hanno interessato lavoratori di NTC, oltre alle vicende sindacali dei pochi
salentini che lavorano per Porsche, sottopagati e minacciati di licenziamento:
collaudatori e operai in presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda e
in sciopero della fame nel 2017, costretti per vent’anni a condizioni di lavoro
precarie. Alcuni collaudatori raccontano: “Lavoriamo rischiando la vita ogni
giorno, quaranta ore alla settimana, per una paga misera”, “stare per ore con il
piede fisso sull’acceleratore, lungo una pista che sembra non finire mai, con
gli stessi contratti che si applicano ai commessi” e non metalmeccanici.
I politici non hanno mai avuto scrupoli nell’alimentare il ricatto: la sindaca
di Porto Cesareo accusava ogni tentativo di frenare il progetto di NTC come uno
“schiaffo al territorio e alla comunità”, alle “tante attività che d’inverno
farebbero la fame”. Un anno fa Confcommercio e Federalberghi si
dicevano preoccupate che la sospensione al progetto di NTC potesse “influenzare
negativamente l’economia locale”, essendo l’attività del centro prove “risorsa
per centinaia di piccole e medie imprese e realtà del commercio locali” e “una
risorsa vitale per le strutture ricettive”. Grazie a “clienti internazionali che
visitano l’area tutto l’anno, il Salento viene promosso su scala globale”.
Quando Emiliano dichiara che la rinuncia di Porsche “anche dal punto di vista
ambientale è stato un danno, perché nel tempo avremmo quintuplicato l’area
boschiva”, finge di non sapere che se quello che la Regione auspica è un’opera
di riforestazione, questa è perseguibile senza bisogno di sacrificare gli ettari
di bosco e le specie animali che lo abitano. Poi, la riforestazione resta una
misura compensativa che (lo dice il nome) serve a bilanciare l’incidenza
negativa significativa dell’intervento, quindi per logica non può essere motivo
per attestare la bontà dell’intervento.
L’amaro in bocca dei politici locali e delle associazioni di categoria alimenta
la logica coloniale ed estrattiva in un territorio di conquista già devastato
dal disseccamento degli ulivi, consumo di suolo e desertificazione, incendi
sistematici, crisi idrica e siccità galoppante, land grabbing per impianti di
fotovoltaico, agrivoltaico ed eolico (proprio in questi giorni a Livorno si
tiene Confluenza, il primo incontro nazionale contro la speculazione energetica
ed estrattivista sui territori).
Sebbene la Puglia sia ancora in violazione della direttiva sui criteri
sito-specifici e la vicenda di Porsche abbia mostrato come bastino forti poteri
privati per far decadere i vincoli ambientali, la storia del bosco d’Arneo serve
come monito: ciò che viene presentato come necessario e inevitabile non è che
una contingenza. Gli imperativi del capitalismo non diventino una tara cognitiva
che riduce la politica a spartizione di fette di potere. Il leccio che i Custodi
del bosco e il Wwf hanno piantato lo scorso 24 gennaio a Lecce in viale De
Pietro, nell’aiuola di fronte gli uffici di NTC, sta a ricordare che bisogna
immaginare sempre altri scenari possibili oltre quello imposto. E serve
raccontare i territori e le storie con tutto ciò che preme al loro ribaltamento,
riappropriandosi della categoria dell’utopia, come scrive Alessandro Leogrande.
“Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo
sovvertimento”. (chiara romano)
Tag - italia
(disegno di escif)
A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite
decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e
studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al
Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e
si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione
di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono
nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore
aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si
sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della
governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà
l’intero sistema universitario.
Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di
chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora
con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo.
Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale
tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e
sfruttamento.
A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di
anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la
ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e
diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le
riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però,
lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei
docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama
all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza”
ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore
affligge l’università pubblica.
Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema
in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e
internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi,
incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di
insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca)
dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della
ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo,
numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle
studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture,
digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno,
concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che
rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica
che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà
un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a
rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane
dalle grandi metropoli universitarie.
Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di
alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni
socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un
lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro
di cura.
Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e
telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può
permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di
mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori
privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo.
Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un
ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi
aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con
aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo
palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi
economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione
dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri
Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di
collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con
i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca,
di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori.
Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie
assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento
a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre
quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di
rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i
tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi
agli atenei, di borse di studio e di ricerca.
Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora
incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di
discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli
atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto
Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si
inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico,
finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato
la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per
definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più
dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di
influenzare didattica e ricerca.
Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma,
Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per
opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema
universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa:
stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale
tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di
finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e
partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri,
affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla
performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca
autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato.
È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione
ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è
sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario
pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare.
Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno
capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la
necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca
tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti.
La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le
assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università.
L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti
sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)
Il Rassemblement National, dopo aver visto da vicino la vittoria alle elezioni
anticipate convocate da Macron dopo le europee, pur mantenendo percentuali
elevate, è stato sconfitto al secondo turno grazie all’accordo stipulato tra i
macronisti e l’alleanza di sinistra. La barriera antifascista, complice una
partecipazione al voto più alta delle ultime consultazioni, ha ancora una […]
Un documento di 9 pagine per 14 articoli che rimarrà in vigore per cinque anni.
Questa l’entità del protocollo tra la premier Meloni e il corrispettivo albanese
Rama, firmato il 6 novembre scorso. Un accordo che in prima istanza consentirà
al governo italiano di costruire e gestire due Centri per il rimpatri, Cpr, sul
territorio […]
In un comunicato diffuso tramite radio e tv pubblica, il presidente del Niger,
il generale Abdourahamane Tchiani, ha firmato il 25 novembre un’ordinanza che
abroga la legge del 26 maggio 2015 sul traffico illegale di migranti. Sempre il
comunicato riporta come tali norme fossero state approvate su pressione di
potenze straniere e criminalizzassero attività regolari […]
Il governo italiano è già profondamente implicato nella guerra in Palestina, dal
sostegno propagandistico che trasversalmente occupa le dimensioni politico
istituzionali ai giornali, all’invio di armi, agli accordi e alleanze tra
politici nostrani di dubbio gusto e Israele.Ciò che sta accadendo a Gaza, sotto
il silenzio assenso della comunità internazionale, sta producendo reazioni in
tutto […]
Il 2022 è stato l’annus horribilis per gli eventi suicidari avvenuti nelle
carceri italiane: ottantaquattro suicidi, un numero mai verificatosi prima, di
cui trentotto nei mesi tra giugno e agosto. Un numero così impressionante che
[...]
L'articolo Estate in prigione. Una cronaca delle sofferenze al Lorusso-Cotugno
di Torino sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
Il 2022 è stato l’annus horribilis per gli eventi suicidari avvenuti nelle
carceri italiane: ottantaquattro suicidi, un numero mai verificatosi prima, di
cui trentotto nei mesi tra giugno e agosto. Un numero così impressionante che
[...]
L'articolo Estate in prigione. Una cronaca delle sofferenze al Lorusso-Cotugno
di Torino sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
Khaled El Qaisi è un cittadino italo-palestinese, ricercatore universitario e
attivista, da ventotto giorni in carcere a Petah Tikwa in Israele, senza che
siano state formulateaccuse a suo carico. L'uomo era di ritorno dalle vacanze
[...]
L'articolo Libertà per Khaled El Qaisi. Domani presidi alle sedi Rai di
tutt’Italia sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
Khaled El Qaisi è un cittadino italo-palestinese, ricercatore universitario e
attivista, da ventotto giorni in carcere a Petah Tikwa in Israele, senza che
siano state formulateaccuse a suo carico. L'uomo era di ritorno dalle vacanze
[...]
L'articolo Libertà per Khaled El Qaisi. Domani presidi alle sedi Rai di
tutt’Italia sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.