(disegno di renaud eymony)
“La stazione è blindata!” sentiamo appena arrivati a Udine con il treno. Sono le
sei di sera del 14 ottobre e l’inizio della partita fra le nazionali maschili di
calcio di Italia e Israele è previsto per le otto e quarantacinque. Due uscite
della stazione sono state bloccate e il piazzale antistante è pieno di polizia e
altre forze dell’ordine. I cestini sono stati sigillati con degli adesivi rossi
con una scritta che ne comunica la chiusura a causa del corteo.
Convocata dal Comitato per la Palestina di Udine, dal movimento BDS
(Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), dalle Comunità palestinesi del Friuli
e del Veneto, dall’associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo, comitato di Trieste e
da Calcio e Rivoluzione, la manifestazione aveva l’obiettivo di denunciare l’uso
dello sport come strumento di propaganda da parte di Israele e di chiedere al
mondo sportivo italiano in generale, e al calcio in particolare, di prendere
posizione. Si chiedeva allo stesso tempo alla Fifa di escludere le nazionali
israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali, al pari di quanto
fatto con le nazionali della Russia dopo l’attacco all’Ucraina del 2022. Con gli
stessi obiettivi, altri presidi si sono svolti in contemporanea in diverse altre
città italiane.
Giusto un anno fa la nazionale israeliana era stata già ospitata a Udine per una
partita contro l’Italia e un corteo simile aveva raccolto circa tremila
presenze. Il tema dell’uso dello sport da parte di Israele per migliorare la
propria immagine non è una novità: basti ricordare che già nel 2018 il Giro
d’Italia partì da Gerusalemme, svolgendo poi due altre tappa in Israele. Più in
generale lo sport italiano sembra avere una certa difficoltà nell’evitare il
rapporto con Stati che presentano problematiche per quanto riguarda il rispetto
dei diritti umani, come suggerisce il rapporto ormai di lunga durata della
Federazione Italiana Giuoco Calcio con l’Arabia Saudita per l’organizzazione
della Supercoppa italiana (2018, 2019, 2022, 2023, 2024 e dopo sono previste
anche le prossime edizioni).
Il concentramento in piazza della Repubblica è vicino alla stazione, bastano
pochi minuti a piedi per arrivarci: quando arriviamo le strade intorno alla
piazza sono già piene e gli spezzoni si sono costituiti. Sono arrivate oltre
trecento adesioni alla convocazione e la diversità si nota anche a un’occhiata
superficiale. Sono presenti i sindacati di base così come la Cgil, gruppi scout,
gruppi autonomi e partiti, e un nutrito spezzone studentesco. La sensazione è
che, a Trieste come a Udine, la mobilitazione per la Palestina abbia portato
nello stesso corteo soggetti che in altri campi possono faticare a parlarsi, ma
che si sono ritrovati almeno sulla partecipazione a queste iniziative.
Via Roma, la strada che collega la piazza alla stazione, ha diversi negozi
aperti, soprattutto venditori di kebab. «Credo che siano gli unici a lavorare
ancora, quasi tutti gli altri negozi della città sono chiusi», ci fa notare una
persona che abita a Udine. È così: il corteo inizia a snodarsi per le strade
della città friulana e quando si entra in centro tante serrande sono abbassate.
I pochi locali che hanno scelto di rimanere aperti hanno comunque cercato di
proteggere le vetrine. Con una nota datata 9 ottobre il prefetto di Udine aveva
proibito la vendita di bevande o cibo in contenitori di vetro o ceramica e aveva
disposto la rimozione degli arredi urbani potenzialmente pericolosi, sostenendo
che il corteo potesse essere “occasione per l’infiltrazione di frange violente,
con rischi per l’incolumità di persone e cose”, contribuendo forse a creare un
clima di timore nei confronti della manifestazione
Il corteo è animato, c’è anche una murga molto vivace e composita che dà il
ritmo. Ogni tanto qualcuno si affaccia dalle finestre, ma in generale sembra che
parte della città si sia rintanata. La manifestazione attraversa delle strade
vuote, presidiate dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Ci
sono cartelli e striscioni di diverse realtà italiane, si fanno cori e si canta.
A un certo punto, non lontano dal municipio, in pieno centro, una parte del
corteo si lancia in un coro che invita a raggiungere lo stadio dove la partita
sta ormai per iniziare. «Si vede che non sono di Udine, lo stadio da qui è molto
lontano», dice qualcuno. In effetti lo stadio Friuli, noto anche come Bluenergy,
dal nome dello sponsor principale, è collocato a circa quattro chilometri dal
centro della città ed è uno dei pochi in Italia gestito dalla squadra che ci
gioca, l’Udinese. Il corteo termina così nella grande piazza Primo maggio,
accanto alla collina su cui è collocato il castello della città. La piazza è
talmente grande, soprattutto senza le macchine che di solito lì sono
parcheggiate, che il corteo, pur numeroso (si parla di dieci o quindicimila
persone), si sparpaglia: qualcuno rimane nel giardino centrale ad ascoltare
degli interventi, altri si avvicinano a un grande tessuto su cui sono stati
scritti i nomi delle persone minorenni morte a Gaza dall’inizio dell’invasione
israeliana fino a luglio 2025.
A un tratto un nutrito gruppo di persone si dirige verso un lato della piazza,
accanto al Santuario della beata Vergine delle grazie: è una delle due strade
che dalla piazza che possono portare verso lo stadio. In breve la fila di agenti
che blocca la strada viene rinforzata, qualcuno grida «Corteo! Corteo!», ma i
due gruppi rimangono a confrontarsi per diversi minuti sulle stesse posizioni.
Nella folla si vede uno striscione che chiede la liberazione di Marwan
Barghouti.
Alcune persone del servizio d’ordine della manifestazione vanno avanti e
indietro per avvertire che eventuali spostamenti del corteo dalla piazza non
sono stati concordati e che chi non vuole esporsi deve rimanere al centro della
piazza. Poi il gruppo si sposta verso l’altra strada di uscita verso nord, dove
trova un altro schieramento di polizia. Anche qui il confronto va avanti diversi
minuti fino a quando la polizia decide di fare a più riprese ricorso agli
idranti e ai lacrimogeni, che in diversi casi atterrano vicino al centro della
piazza, respingendo indietro i manifestanti. In alto un elicottero la illumina
con un potente faro, mentre gli scontri continuano ancora per circa un’ora. Poco
a poco però la piazza si svuota, mentre la partita viene giocata in uno stadio
semivuoto. Arriva la notizia di tredici persone fermate di cui poi due arrestate
e di alcuni fogli di via dati dalla questura, sotto la quale nella notte si è
formato un presidio di solidarietà.
La manifestazione di Udine si inserisce all’interno di una mobilitazione
regionale e nazionale intensa. Solo a Trieste, nelle ultime settimane, fra
assemblee e cortei le iniziative sono state quasi quotidiane. Mentre la città si
preparava al suo consueto programma autunnale di iniziative pubbliche, i cortei
hanno portato la questione palestinese nel centro, raccogliendo una
partecipazione non comune, in un posto in cui dopo poco si ha la sensazione di
conoscere almeno di vista una buona percentuale di chi partecipa ai cortei e ai
presidi. Nel caso della mobilitazione per la Palestina sembra essersi mosso
anche chi è di solito meno incline a partecipare. In questi ultimi due mesi, in
particolare, tante persone hanno percorso le vie centrali in cortei spontanei
che nascevano da presidi chiamati anche all’ultimo momento. È stata sconvolta la
viabilità e anche la preparazione di un evento come la Barcolana, nato come
semplice regata e diventato una vetrina per la città, iniziativa fondamentale
per il programma “politico” del sindaco Roberto Dipiazza. In occasione degli
scioperi generali si è si è arrivati a bloccare per alcune ore il porto della
città, con un varco il 22 settembre e due il 3 ottobre. (alessandro stoppoloni)
Tag - italia
(disegno di martina di gennaro)
Nel film di Scola del 1976, un giornalista si rivolge al protagonista (Nino
Manfredi): «Lei, scusi, una parola per la tv?». «Vafangul’!». In quella commedia
feroce la miseria non chiedeva compassione né sconti morali, ma rivelava tutta
la violenza sociale delle baraccopoli romane e, implicitamente, dello Stato.
Cinquant’anni dopo, la miseria è la stessa: brutta, sporca e cattiva. I fratelli
Ramponi, (Franco, Dino e Maria Luisa) vivevano da anni isolati in un casolare
fatiscente alla periferia di Castel d’Azzano, senza acqua né luce. All’alba del
14 ottobre, un’esplosione ha cancellato tutto, compresa la vita di tre
carabinieri, Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà.
“ECCO CHI SONO I FRATELLI RAMPONI”
È cambiato il modo di raccontarla, la miseria. La tragedia è stata subito
riportata come la follia di tre colpevoli assoluti. I giornali hanno fatto a
gara a titolare “Chi sono i fratelli Ramponi”, e hanno scavato nei loro
precedenti, nei loro rancori, nei video in cui denunciavano gli “avvocati che li
hanno rovinati”. La narrazione di tutte le maggiori testate italiane costruisce
una storia di malavita e devianza, dove il lessico sacrificale e religioso
riservato ai carabinieri uccisi si accompagna a quello, vagamente moraleggiante,
della follia che sostituisce il linguaggio della povertà per i Ramponi (diceva
giustamente Ellen Raskin che “i poveri sono pazzi”). Su La Repubblica, un
articolo ne fa quasi cronaca antropologica, titolando “vita da Medioevo” e
evocando così, in un sol colpo, sia le condizioni materiali che un presunto
arretramento morale e culturale. Il Corriere della Sera sposta il dramma sociale
sul piano del patriottismo: “Il governo proclama il lutto nazionale.” In un
altro articolo, Repubblica titola: “Fanno esplodere il casolare”, formulazione
che chiude nell’intenzionalità criminale ogni spazio alla possibilità del “gesto
disperato”, come recitava un titolo, sapientemente cassato dal direttore del
giornale (fittizio?) in Sbatti il mostro in prima pagina. Non è il caso di fare
polemica, spiegava Gian Maria Volonté: «Il lettore apre il giornale, guarda, se
gli va legge, se non gli va tira via, ma senza la sensazione che gli vogliamo
rompere i coglioni».
UNA STORIA DI QUOTIDIANA DISPERAZIONE
Ma dietro quei brutti volti sporchi dei Ramponi si vede chiaramente una vicenda
molto più complessa di debiti, mutui, pignoramenti, battaglie legali, accuse
incrociate, ignoranza e impotenza. Una storia che i giornali hanno preferito
comprimere nella cornice perbene del delitto e del castigo.
Tutto comincia nel 2014 con un mutuo da settantamila euro con il Credito Padano,
destinato a un frutteto. Le rate cessano presto e la banca avvia una procedura
esecutiva. I Ramponi sostengono invece, da anni, che la firma fosse falsa: «Ci
hanno portato via cose per un milione di euro», diceva Maria Luisa in un video
del 2024 (Corriere del Veneto). Quale che sia la verità legale, rimane il fatto
che tre disgraziati, già in condizioni di povertà assoluta, si sono visti
togliere l’ultimo riparo, un tetto scassato senza servizi. Alla fine hanno
reagito, a dir poco, maldestramente. La Procura di Verona oggi contesta ai tre
fratelli il reato di strage, ipotizzando che l’esplosione sia stata preparata
per uccidere. Già l’anno scorso si erano barricati in casa minacciando di farla
esplodere. Non c’è dubbio: oltre che brutti e sporchi, i Ramponi sono anche
cattivi. Sarebbe da chiedersi se lo sarebbero stati, in condizioni sociali e di
dignità diverse, o se sia un tratto antropologico dei poveri.
CRISI ABITATIVA
Eppure la notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che
il paese sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più
spesso, ai danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti:
8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto
piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non
ce la faccio più”).
15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne
si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo.
16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello
sfratto”.
19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al
balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni.
La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri
morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta
alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita
nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da
tutti. Tuttavia trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre
contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico
sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo
impermeabile a ogni analisi e, in ultima analisi, rassicurante, funzionale allo
status quo.
Questa è una costante dei casi di cronaca simili a quelli citati. Diritto alla
casa? Non se ne parla nemmeno. Povertà, ingiustizia sociale, sopruso, ignoranza?
Neanche un accenno, se non carico di giudizio morale. Si sa tutto di come
vivevano quei debosciati dei Ramponi, la loro follia, il degrado, la perversione
del bisogno. La proprietà, invece, resta anonima e inviolabile: nessun giornale,
fino al 15 ottobre, dice chi abbia promosso lo sgombero. Dalle notizie sul mutuo
si può solo ipotizzare un contenzioso bancario. La povertà ha nome e volto, la
proprietà mai; nel racconto mediatico, è una divinità incorporea che non si
nomina. I Ramponi invece hanno il physique du rôle, sono perfetti nel loro ruolo
“da Medioevo”.
IL LINGUAGGIO DEL POTERE
In questa asimmetria si gioca la partita morale, già persa, della nostra
informazione. La legge, nel suo linguaggio neutro, non distingue tra
disperazione e criminalità. Qui dovrebbe intervenire il giornalismo, che
racconta la complessità del reale, problematizza, cerca le cause oltre la
cronaca. Ma il linguaggio semplificante dei giornali mira a tutt’altro effetto:
 * I verbi d’azione (“fanno esplodere”, “innescano”, “provocano”) fissano la
   colpa nel gesto, non nel problema che a quel gesto ha portato.
 * Gli aggettivi morali (“folli”, “pericolosi”, “isolati”, “da Medioevo”)
   trasformano la miseria in colpa antropologica, e persino estetica.
 * L’assenza del soggetto economico protegge, evitando ogni possibilità di
   problematizzazione, la proprietà al di sopra della dignità delle persone,
   siano pure i Ramponi.
 * E infine, la centralità delle vittime in divisa riporta tutto al campo del
   sacrificio patriottico, dissolvendo ogni questione sociopolitica, o solo
   intellettualmente onesta, in un confuso senso di italianissimo orgoglio.
Ecco come si costruisce il discorso pubblico in modo che rimanga entro i limiti
dell’accettabile. “Ecco chi sono i fratelli Ramponi”, recitano i titoli. La
risposta che danno i giornali impone una domanda unica coprendo quell’altra, più
urgente, e canalizzando la curiosità del lettore su questi delinquenti senza
appello.
Ma l’altra domanda merita ancora di essere posta: perché erano ridotti a vivere
in quelle condizioni? Sono vere le accuse che fanno di truffa e falso? Cosa
spinge a far saltare in aria la propria casa, rischiando di morire, e di
uccidere, pur di non lasciarla? In altri termini: gli interessi di chi stavano
difendendo, a costo della propria vita, i tre carabinieri? Perché una cosa è
certa: lo Stato era lì per tutelare una proprietà, non persone in difficoltà
materiale e psicologica estrema, non per aiutare dei cittadini di serie B…
Brutti, sporchi, e cattivi. (antonio malatesta)
(disegno di sam3)
Sabato 4 ottobre. Come tanti e tante, più di un milione, ero a Roma a
manifestare la mia solidarietà al popolo palestinese. Non solo alle donne e ai
bambini palestinesi massacrati a Gaza dal 7 ottobre 2023. Non solo ai civili
innocenti. Ero a Roma, in quell’enorme corteo, provenendo da una storia, da una
genealogia di movimenti che, dai primi anni Novanta, mi ha permesso di
attraversare fasi e contesti diversi, a partire dalle mobilitazioni contro la
prima Guerra del Golfo nel 1991. La prima guerra in diretta televisiva, quel
conflitto capitombolato nell’immaginario collettivo alla fine del Secolo Breve.
Al tramonto di un periodo durante il quale le guerre accadevano soltanto in uno
spazio/tempo assai lontano da noi. La guerra non ci apparteneva nel quotidiano.
Quell’anno invece la guerra in Italia non è stata più fredda (quindi non
dichiarata, fatta di bombe, Gladio et similia), da quando gli aviatori Bellini e
Cocciolone (“pam pam gran pilota d’aviazion”, cantavano gli Onda Rossa Posse)
furono abbattuti con il loro caccia Tornado dalla mortificata contraerea
irachena. I due furono le pecore nere della macchina da guerra occidentale che,
finalmente libera da lacci e lacciuoli della deterrenza, poteva manifestare la
propria potenza militare. Prigionieri. Visi malconci su corpi sofferenti in
uniforme. Carne da macello postmoderna velocemente dimenticata.
Ecco. Il 12 gennaio 1991, qualche giorno prima che Cocciolone e Bellini
venissero abbattuti, residui del movimento pacifista (Comiso/euromissili), forme
epigonali di una stagione ormai tramontata (Autonomia/Coordinamento antinucleare
antimperialista), frattaglie di un quadro politico in via di estinzione
(Democrazia proletaria) e nuove forme di movimento (centri sociali in embrione,
movimento studentesco post-Pantera) dettero vita a una grande manifestazione
nazionale a Roma. Contro la guerra. Per la pace. Lo stesso giorno in cui il
congresso Usa autorizzava l’inizio della Tempesta nel deserto. Le stesse ore in
cui in Italia moriva lo scrittore Vasco Pratolini. In quel giorno di gennaio si
rimescolarono molte carte della nostra storia contemporanea. Ma ciò che ci
interessa qui sono le 200 mila persone che quel giorno animarono un corteo
sorprendente (per tanti motivi). Una mobilitazione che non si vedeva da più di
un decennio ai tempi. Che ripropose l’attualità di un passato che non passava e
non è ancora passato.
Ecco, quel corteo fu un corteo di massa. Un momento di incontro tra generazioni
diverse. Quelle che ancora subivano un riflusso micidiale. E quelle che si
affacciavano in un panorama politico sconosciuto. Le prime portatrici di
pratiche, parole, simboli assai pesanti e (probabilmente) irripetibili, le
seconde che provavano a costruire un viatico di incontro, ricomposizione,
risignificazione. Nello stesso quadrante urbano di sabato 4 ottobre 2025 (San
Giovanni, via Labicana, Esquilino) si verificarono scontri, tumulti tra autonomi
e polizia. Inizio anni Novanta. Le schermaglie durarono fino a sera inoltrata.
Ricordo, in modo fugace, i lacrimogeni lanciati dall’elicottero (rivisti anni
dopo a Genova 2001). Non riuscivo a seguire quei corpi che, muovendosi insieme,
dalla coda del corteo schizzavano fuori. E il fumo di auto incendiate. L’odore
acre. Gli autonomi? Soltanto loro?
Sabato 4 ottobre. Uno spezzone di corteo mescolato tra gli altri. Slogan forti,
eco da stadio. Tra le altre riecheggiano rime desuete (carabiniere sbirro
maledetto…), inattuali. Una parte di corteo incontrata per caso. Ci siamo
mescolati. Forse riconoscendo delle maniere, dei dettagli organizzativi. Degli
istinti. Intorno a noi niente nostalgia. Solo ragazzi e ragazze molto glamour.
Tagli di capelli, occhiali da sole, cuffie. Generazione Z, come la chiamano. Ma
già mascherata. “Siamo tutte antifasciste/Siamo tutte antisioniste”,
rigorosamente al femminile. Nonostante le fila rispondessero a maschi davvero
ben piantati. Visi scoperti, bandiere e cori al confine tra stadio e militanza.
Eppure riconosco sguardi di compagni (maschi) con cui è immediato il
riconoscersi. “Si aspetta il buio?”. Si aspetta il buio. Tutt’intorno sta
accadendo qualcosa di inaspettato, stupefacente. C’è troppa gente. Né gli
adulti, né i più giovani vi sono abituati. E poi le guardie non ci sono, o
almeno non si vedono.
Dopo il Colosseo, è quasi tramonto. Si aspettava il buio, no? Mano sulla spalla.
Fumogeni. Ci si traveste (chi ha abiti con cui travestirsi). Lo spezzone si
compatta e cambia pelle. Dietro di noi il corteo pacifico ci abbandona. Scarta
di lato prendendo una scorciatoia. Ci ritroviamo le guardie, le camionette, a
rimarcare che siamo la coda del corteo di massa (déjà-vu anni Settanta?). Ormai
lo spezzone da bianco e svestito è diventato nero e mascherato.
Basta davvero poco. Un gruppo si stacca. Prende una scalinata. Si mormora che la
polizia stia attaccando. Questa è la scintilla, peregrina.
Dal nostro punto di vista. In pochi si sono allontanati. Si è rimasti coesi.
Intorno quiete. Corteo pacifico. Tamburi. Free Palestine. Noi però in nero
stavamo. Non c’era occasione. Guardie lontane. Lontanissime. Arriviamo
all’incrocio. Un paio di black dressed si staccano. Martello in mano crepano i
vetri antiproiettile della filiale di una banca qualsiasi. Lo fanno quasi di
sorpresa per noi. Giusto qualche minuto prima, ci eravamo messi a coprire una
compagna che scriveva sul muro. Al martellatore nessuno copriva le spalle.
Perché il 4 ottobre 2025, come in altri momenti in piazza nella storia, tutti e
tutte sentiamo lo stesso mandato. E lo rivendichiamo.
Sentirsi respinti a margine di un grande corteo ci può stare. Sentirsi gridare
che non si vuole essere coinvolti in pratiche di piazza inaspettate e non
concordate fa parte del confronto. D’altra parte, nel nostro paese, restiamo
incapaci di fare i conti, in modo adulto, con il conflitto. Sia esso sociale,
generazionale, familiare, culturale… A sinistra, più che a destra. Non a caso il
4 ottobre 2025, di sera, fascistelli di Casa Pound e affini hanno sguaiatamente
messo in scena una jaquerie neofascista. Contro un bar à la page dell’Esquilino.
La risposta, troppo facile, al lancio di bottiglie contro la loro sede avvenuto
nel tardo pomeriggio… Ma vigliacchi erano e restano i (neo)fascisti.
Si arriva a San Giovanni. Travestiti ancora. Neri ma più visibili. Respinti dal
corteo molti si spogliano. Lo spogliarello avviene in penombra. Io che,
sinceramente, non mi vesto e non mi svesto. Credo che tra il fumo, il buio, la
confusione non bisogna nascondersi, mimetizzarsi. Quindi via i vestiti. Non
siamo a Carnevale.
Infatti. 4 ottobre. Sabato. Un giorno come gli altri. Non proprio. Un milione di
persone in piazza mosse da un internazionalismo inaspettato, sorprendente.
Generazioni diverse. Con il sole il corteo, gli incontri. Con il buio la
contrapposizione radicale, gli scontri. Guerriglia urbana, come piace definirla
all’informazione mainstream, provocata da una reazione scomposta delle forze
dell’ordine piombate con idranti e manganelli su un manipolo di giovanissimi
manifestanti che provavano a dare un senso al Blocchiamo tutto, dirigendosi
verso Termini. Ma non è importante stabilire chi ha iniziato. Il corteo è stata
la dimostrazione che, nel paese, esiste ancora un sentire radicale capace di dar
vita a una mobilitazione di massa limpidamente politica e senza ambiguità. Aver
paura del fuoco, del riot, stigmatizzare certe pratiche di piazza, considerare
gli scontri come manifestazione di un estremismo infantile, le barricate come
fardelli incombenti sulla integrità del movimento. Etichettare le donne (tante)
e gli uomini protagonisti della contrapposizione con la polizia come
provocatori, infiltrati, rivela la persistenza delle scorie di un passato con
cui, ancora, non si riesce a fare i conti.
Il 4 ottobre 2025 è, forse, una cesura politica e storica simile a quella
avvenuta il 13 gennaio 1991, quando una nuova generazione manifestò
l’inevitabilità del conflitto. Della contrapposizione, che non ha altra forma in
piazza se non quella dello scontro. Quella del violare il rigore metropolitano.
Ma tra i facinorosi accusati di devastazione, saccheggio, oltraggio e
resistenza, si sviluppa un tremore, un’energia, uno slancio che diventano parti
costitutive dello stare in piazza. Prendersi dei rischi. Non sorprendersi della
violenza poliziesca. Non subire. Non denunciare a posteriori soprusi. Non
lamentarsi il giorno dopo. A ciascuno il suo.
E poi, diciamoci la verità. Chi non ha paura di stare negli scontri. Come si
supera la paura? Non è mica un giro sull’ottovolante. Si rischia: di essere
arrestati, di farsi male, di morire accidentalmente. Una paura che si supera,
forse, solo se non hai nulla da perdere. Ma chi non ha nulla da perdere? (-ma)
(disegno di dalila amendola)
Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena
trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse
di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio
condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente
finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava
le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti
migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4
ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città
italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le
masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture
spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti
a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli
cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in
questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza.
È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è
soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno
deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per
destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani
per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito
dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato
alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7
ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o
meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in
piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello
con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai
portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione
di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo
settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star
system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi
può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche
di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa
“intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che
ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere
d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere?
Che ognuno declini il “noi” come preferisce.
Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo
di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era
partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei
leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva
annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare
le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e
realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22
settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt
Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei
lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud
Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel
frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di
preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento,
deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza
collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al
coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco
delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture
sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è
ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La
ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di
strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti.
Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche
vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare
l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso
dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei
portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia,
da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo
sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da
tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di
armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri
paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica
del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a
Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A
Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave
coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone
arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del
porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da
cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla
tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo
in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro
la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione
centrale. E così in decine di altre città d’Italia.
Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società
civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di
sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone
bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a
Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di
antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina,
nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo
lontano.
Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la
manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A
Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la
direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il
corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non
erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli
abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio
delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura.
Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra
mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena
impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai
balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone
abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere
di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla
ancora.
Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino
si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse
scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto
persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a
passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di
Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di
Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si
discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno
sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di
materiale bellico, al terminal Spinelli.
Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si
intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera:
nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini,
improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di
guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso.
La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti,
nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del
potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa,
all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via
Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni,
i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è
impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement
liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal
lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni
indotti e diffusa indifferenza. 
La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si
parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto
della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina
tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta
l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene,
trasgredire le regole è diventato legittimo.
Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è
bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in
sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e
i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti
da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del
corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata.
Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una
camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse
prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona;
esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il
sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a
rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di
resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di
quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo
orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul
ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto
questo. 
A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei
sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo
selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città.
Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati
distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università:
striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di
riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole
accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata
chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi
giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del
potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e
carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone
finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo.
Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri
non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa:
bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci
contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via
social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per
tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota
di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le
forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il
nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che
abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni.
La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla.
Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva –
tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una
protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli
adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti
mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone
romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi
tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto
di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche
cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria
Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone
tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano
neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i
fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio,
aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito:
polizia e giornalisti, non pervenuti.
Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con
leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di
pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e
ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare
che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la
quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire
dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza
di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e
immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche
a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa
possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare?
A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio
esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del
discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di
coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro
impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con
i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che
concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei
porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio;
ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare
l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e
protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di
Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai
trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo
punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di
base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili
condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche.
L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo
palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la
rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli
interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato
con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è
soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni
migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso
militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione
pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia
israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le
nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo.
I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri
schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo
finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo
potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa
meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e
idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un
movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato
dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di
riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti
non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che
abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare
a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire
quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa
trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere
ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di
spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo
farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo
metterci in ascolto. (redazione monitor)
(disegno di escif)
La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo
Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova
per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice
1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi
dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti
israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container
Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti
settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod.
Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato
le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto
tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa
contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale
esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa
un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo.
La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta
l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere
utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a
violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla
Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul
Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre,
la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane
hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di
Gaza.
La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS
spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito
dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le
ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container
di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal
porto di Salerno, come già successo più volte in passato.
Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo
Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a
Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate
all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei
principali produttori di armi israeliani”.
Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver
caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione
di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da
nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero
compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa
mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio
2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un
convoglio di aiuti umanitari.
Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer
la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare
ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di
nastri per mitragliatrici e per cannoni.
Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi
transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato
che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati
materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato
fatto ai materiali in transito, o sbarcati.
La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente
implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno
2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa
(Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di
porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane,
hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda
Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza
autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento
presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis
comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti
intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo
tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di
controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza
dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e
transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i
diritti umani).
È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto
sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha
fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando
“macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per
conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale
produttore israeliano di sistemi d’arma.  La nave è giunta a destinazione ad
Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la
nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della
compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto
tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle
autorità preposte al controllo?
Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono
partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a
potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici
e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della
popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e
altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano.
È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha
dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni
Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il
problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con
Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto
internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa
chiudere i porti rispetto a Israele».
Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1
luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a
economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo
totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e
macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le
relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni)
a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i
palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro
coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità
aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività
commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano
violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo
palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una
tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale
Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti
e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini
internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini.
A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la
popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della
complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei
terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera.
(bds salerno)
Il 14 ottobre si terrà ad Udine la partita Italia vs Israele valevole per le
qualificazioni al prossimo mondiale di calcio maschile. Un ulteriore evento di
sportwashing in cui lo stato israeliano costruisce la sua vetrina e la sua
immagine nell’arena pubblica internazionale. Questo evento ha attirato
l’attenzione dei comitati locali propal che si stanno […]
(disegno di sam3)
Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due
ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di
Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico.
Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare
per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un
paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I
calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali
prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche
sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa
dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto
un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra
destinazione.
La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e
i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il
paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni
modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima
ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella
seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino;
infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra
essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si
trovano le spoglie dell’autore torinese.
Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori
definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia
lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul
sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da
Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di
scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il
sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la
decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso.
In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno
nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di
costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel
mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non
c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno
individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende
completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è
niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”.
Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e
torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a
sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno
spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a
ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se
fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena.
Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal
momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce
del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo
l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la
concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per
pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio
è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti
gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica.
La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari
parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la
festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano
dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi
al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme
a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata,
c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può
spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde
senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur
rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane
indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito
Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha
lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello
che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni,
Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il
festival.
Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su
scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di
interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza
proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa,
aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi
nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa.
Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con
cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai
suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano
in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra
conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo
offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero
Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa
esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da
essa, si rafforza.
Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad
affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il
genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto
nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel
frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono
inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia –
declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro
mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi
raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona
gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava
all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video
fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo
l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare
che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è
concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di
non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese.
Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco
informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora
e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro
opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di
dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati
economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane.
Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica
liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel
ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le
aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi
minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari
le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel
ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!».
Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di
riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese
lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni
principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli
occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a
chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato
da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa
rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non
gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia
e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge
nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato
scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo
stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire
da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è
dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio
esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare
consigli che crede di portata generale.
Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora
materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva
come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo
contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e
retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato
ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se
fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo
contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un
registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna
e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi.
Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in
villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca
di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e
dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un
luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in
carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale:
quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia
del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma
la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità
sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto
sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una
ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano.
Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha
posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival
che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi
finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia
l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che
il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti
dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni
ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle
autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano
di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le
disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una
possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una
scelta. (marco patruno)
(disegno di canemorto)
Succede che nel cuore dell’estate uno torni “giù” per qualche giorno, nel posto
in cui è cresciuto. Per noi meridionali che viviamo a Nord, questa espressione –
tornare giù – è densa di significati. Si tratta spesso di un viaggio a ritroso
in cui quella locuzione – giù – può alludere a stati mentali, a sentimenti, a
roba dell’anima, più che della geografia.
E succede che fai quattro passi in quei luoghi consueti, dove hai camminato
milioni di volte e che ormai riconosci a stento; e più che passeggiare stai
eseguendo un obbligo, un dovere verso la tua memoria; guardare e guardarsi
intorno. Case, piazze, strade, si cammina in una specie di sonnambulismo
torbido. Ma quando incroci qualcuno, uno sconosciuto, un passante qualsiasi e ti
capita di guardare le facce della gente – i volti e le loro maschere provvisorie
– quella è un’altra storia; quello è lo sguardo che conta, se vuoi capire
davvero le cose.
E infatti sono  le facce a parlarmi silenziosamente, in questa mia escursione in
terra irpina. Facce di gente normale che incontri per strada; facce che senza
volere comunicano, parlano, si lamentano o urlano senza aprire bocca; e ti
muovono qualcosa dentro, una sensazione più forte della solita noia o delusione
che questi ritorni mi provocano. Perché colgo un aura di malinconia che quei
volti emanano – una tristezza profonda, insondabile, eppure evidente,
irredimibile. Naturalmente nessuno evoca esplicitamente questo senso di
malinconia, ognuno tiene coscienziosamente in piedi la rappresentazione della
propria vita agostana, tra spezzoni di vacanze e complicate reunion familiari al
capezzale di vecchi con l’Alzheimer. Ma il messaggio mi arriva dentro, diretto,
potente; e mi sembra inequivocabile – frutto della misteriosa telepatia del
quotidiano, quella per cui basta incrociare uno sguardo per indovinare un dolore
o un pezzo di vita.
È pur vero che di solito vediamo quello che vogliamo vedere. Riflettiamo quello
che siamo. I luoghi, i contesti, persino le pietre sono specchi che parlano la
nostra lingua e ci rispondono accordandosi col nostro umore. Eppure stavolta la
tristezza che aleggia nelle piazzette, nei bar, negli androni, non mi sembra
propriamente un illusione. È qualcosa che si tocca, quasi.  Qualcosa che
irrancidisce sotto al sole agostano.
E mentre sto lì a decifrare questa sensazione che aleggia nell’aria ferma, da
qualche fondo di coscienza emerge un’altra parola chiave: sconfitta. E ci sta: 
la sconfitta si accoppia bene alla tristezza. Forse sto cominciando a capire
qualcosa di più. Le persone sembrano così tristi perché danno l’idea di aver
perso qualcosa – come reduci di guerra, però sbarbati, ben vestiti e ben
nutriti. Una guerra non convenzionale, combattuta a un altro livello, su altri
campi di battaglia. Ecco: il concetto di “sconfitta” è un passo avanti; siamo
dentro una malinconia da perdita irreversibile. Questo è ciò che vedo nelle
facce della gente che si trascina sui marciapiedi sconnessi, dello scopino che
la mattina presto pulisce i resti della miserabile movida in centro, dei padri
di famiglia che tornano a casa con un sacchetto della farmacia strascinando i
piedi, di qualche raro giovanotto laccato e disorientato che a mezzogiorno si è
appena alzato dal letto; dei pensionati che cercano con lo sguardo le luminarie
agostane e non le trovano perché il comune ha finito i soldi e per quest’anno
nisba. E le facce delle famiglie obese: padre madre e figlio unico, tutte taglia
XXL, che litigano stancamente strattonandosi l’uno con l’altro.
Ah, l’obesità: anche quella sembra parlarmi. L’obesità mi sembra in aumento, ma
non è una grassezza gaudente, di chi si abbuffa per onorare la vita; no, è un
lasciarsi andare – soprattutto nella palude familiare –, uno scivolamento lento,
una obesità interiore, potremmo dire, una pesantezza del cuore, perché tanto non
c’è molto altro da fare che entrare e uscire da rosticcerie e pizzerie e
pasticcerie e riempirsi l’anima di trigliceridi. A onor del vero non mancano, la
mattina presto, camminatori e runner – in luccicanti e incongrui completini
colorati alla moda; ma anche loro  sembra che con quello sforzo stiano più che
altro aderendo a un dettame di religiosità civile: provare a tenersi in forma è
l’adempimento di un obbligo, l’adesione a un modello social o televisivo; vanno
a correre la mattina presto con lo stesso spirito con cui i loro genitori
andavano in chiesa.
Tristezza e sconfitta. Abbasso la testa pure io. Scanso le merde dei cani e
continuo ad arrovellarmi. Passo attraverso luoghi consueti ma ormai estranei. La
Galleria Mancini è diventata un antro buio e deserto. Quarant’anni anni fa era
l’epicentro civile della città, la sede della gloriosa US Avellino, dove tutti
gli sfaccendati soggiornavano cercando di afferrare qualche novità di mercato o
di spogliatoio; in questo periodo dell’anno se eri fortunato potevi incrociare
don Antonio Sibilia, il presidente, di ritorno dall’Hotel Sheraton di Milano –
l’uomo di cui eravamo orgogliosissimi: quale altra squadra poteva vantare un
patron accusato di tentato omicidio di un procuratore della Repubblica? Adesso,
quel civico è diventato, chissà perché, un rifugio di dentisti – e non trovo
nessun nesso tra calcio di provincia e odontoiatria. E del resto perché mi metto
a cercare nessi misteriosi tra le cose, tra i ricordi e il presente? Credo
ancora alle mappe occulte? Al Segreto celato nel quotidiano?
E la modestissima zona industriale, rachitica come un ragazzino mal cresciuto.
Un furgoncino scarica tre operai manutentori che entrano alla Fiat, simbolo di
eterne promesse di riscatto che finiscono in cassa integrazione e incentivi
all’esodo. E anche l’esodo potrebbe acquisire la maiuscola e diventare
l’Esodo! E assurgere finalmente a figura biblica: l’uscita da un lavoro di merda
verso la terra promessa della precarietà (di merda), dei lavoretti col cognato,
dell’orticello di famiglia per risparmiare sulla spesa.
Perdita, sconfitta, tristezza. E a forza di rimuginare, finalmente mi si accende
una lampadina di razionalità: è tutta colpa di Orhan Pamuk se sono così
cupamente meditabondo. Ho in valigia Il libro nero – sono alla duecentesima
lettura – e mi sono semplicemente autosuggestionato.  È lui, Pamuk, il cantore
della malinconia del Bosforo, della decadenza della vecchia Istambul della sua
adolescenza. La tristezza della sua prosa è contagiosa, come una scoria
radioattiva. Era il  protagonista del suo libro che – moderno Hurufi
inconsapevole – leggeva le lettere sui volti dei suoi concittadini, quelle
lettere spaventose che definivano destini futuri e malinconie struggenti. È
Pamuk che racconta del senso di sconfitta che tutti i turchi della sua
generazione si portavano dietro: violentemente occidentalizzati dal terribile
padre Ataturk, pieni di sensi di colpa sia per non essere riusciti a diventare
davvero occidentali adempiendo al comando paterno,  sia per averci provato
tradendo le glorie arcaiche – persi per sempre nel limbo struggente dei vinti,
degli incompiuti.
Si ma che diavolo c’entra l’Irpinia con l’Anatolia? Questa correlazione, per
quanto stramba, non mi abbandona. Di quale sconfitta è portatrice la giovane
ragazza che sistema nella sua vetrina mutande, calzini e capi di abbigliamento
da quattro euro e cinquanta? E il vecchio barista scocciato che raccatta i
giornali unti e guarda l’orologio alle sei di sera e non vede l’ora di tirare
giù la serranda e andarsi a chiudere in casa? E gli anziani che deambulano come
piccioni frastornati alla ricerca di un cornicione che li ripari dal sole. Che
sconfitta storica stanno portando sulle loro spalle inconsapevoli, tutti costoro
– bravi cristiani, innocenti, stanchi e sudati?
Il Comune è in dissesto cronico permanente. Non ci sono soldi per fare nulla,
neanche le mediocri  feste di paese che negli anni scorsi servivano a sollazzare
il popolino – sempre pronto a lamentarsi dell’ospedale o delle strade, ma
altrettanto pronto a lanciarsi nei karaoke più pacchiani. Il quadro politico è
all’insegna della improvvisazione più dilettantesca, dopo l’esaurimento del
vecchio ceto democristian-piddino che aveva gestito il passaggio alla seconda
repubblica. Agosto in Irpinia è tradizionalmente il mese della festa, quella del
rientro dei migranti, il periodo in cui le famiglie si riuniscono e si scambiano
auspici e speranze per l’autunno che arriva. Ma quest’anno non mi pare vibri
nessun tipo di allegria in giro. Probabilmente quando muoiono gli anziani, anche
i ritorni di massa si diradano. La ricostruzione è completata – con frequenti
buchi che resteranno tali per l’eternità, come la bocca sdentata di un vecchio o
di un infante. Il centro storico mi sembra sempre vuoto e il generoso tentativo
degli urbanisti di “riprodurlo” a tavolino, mi lascia una sensazione di
tristezza ancora più devastante, come un allestimento scenico che alla millesima
replica non convince più nessuno.
Il 23 novembre del 1980 poche pietre erano rimaste in piedi, in quella parte
antica della città. Hai voglia a ricostruire, a salvare gli archi o ricreare le
topografie. La città aveva perso il suo cuore e nessun trapianto glielo avrebbe
restituito. Passo davanti alla Torre dell’Orologio, anch’essa ricostruita. Mi
ricordo che proprio là sotto c’era la vecchia sede di Dp; l’avevano sgomberata
nell’83, mi pare, spostando le poche suppellettili col biroccio di Mandulino,
che guidava a colpi di bestemmie un cavallo più anziano di lui. Intorno era
tutto pericolosamente in bilico. La Torre spezzata a metà aveva troneggiato per
anni su quel panorama di rovine, diventando forse il vero simbolo della città.
Avrebbero dovuto lasciarla così. Adesso la nuova versione se ne sta lì, anonima,
inutile, nessuno la guarda – mentre il moncone spezzato era monito, memoria,
persino bellezza.  Poco più in là un brutto monumento  celebra le centinaia di
caduti di quella notte  fatale, la nostra Laylatul Qadr, la nostra notte del
Destino. Ma i vivi? Chi li celebra? Chi ne ascolta i lamenti sommessi?
Piano piano mi si schiarisce il quadro. Si, effettivamente anche questi luoghi
sono reduci da una guerra persa. Un conflitto a bassa intensità durato decenni.
Anche qui la malinconia è quella di una occasione sfuggita per sempre, di un
qualche tipo di tradimento. La festa è finita. I soldi sono arrivati, sono
passati e non si è riusciti a usarli per dare un profilo, un volto, un anima,
una vocazione nuova a questi luoghi. E sono rimasti in sospeso  tra l’antica
storia di tufi sbriciolati  ed una malamodernizzazione che non porta futuro,
lavoro, speranze. I fondi di coesione, il Pnrr, i progetti europei, il
super-bonus e i fondi regionali: Godot attende le ultime gocce di droga che
possono tenere in piedi il corpaccione esausto della provincia. Ecco la
malinconia pervasiva e infettante: gli irpini, a cominciare dal capoluogo, sono
in eterna transizione, come congelati dentro un lungo estenuante dopoguerra. E
il terremoto è il trauma originario da cui non si guarisce – e la gente è
consapevole che il meglio (se così si può dire) è ormai alle spalle. L’età delle
speranze, dei progetti, dei ragazzini per strada a giocare a pallone tra
barracane e tubi innocenti, dei morti seppelliti in fretta per cullare l’utopia
di un riscatto, di un salto in avanti della storia.
Ne parlo col mio amico Giovanni Marino, davanti alla vecchia prefettura, nella
speranza che la sua saggezza diradi queste nebbie di pessimismo. Giovanni è un
agitatore culturale instancabile, pubblica libri sulla memoria civile
dell’Irpinia povera, lancia scrittori di periferia, organizza convegni e feste
dell’Unità, legge e studia come un ventenne anche se ormai ne ha più di
settanta. Giovanni è una nemesi vivente: è il cugino basso, frenetico e
comunista del grande Ciriaco De Mita e prima o dopo dovrò decidermi a romanzare
la  sua storia familiare. Ne verrebbe un bel racconto di queste terre e
dell’Italia. Mentre il grande statista cresceva, alto, serafico, scalatore nato,
nutrendosi nel brodo primordiale della Dc irpina, il cuginetto più giovane e
ribelle, figlio del ramo povero della tribù, diventava attivista, sindacalista,
entusiasta e velleitario prefiguratore di un altra idea di Irpinia e di cultura.
Una specie di confronto a distanza tra due mondi dentro la stessa famiglia, lo
stesso paese, le stesse piazzette dissestate, la stessa storia. E chiacchierando
con lui – l’intellettuale di provincia pieno di ardori e buone intenzioni e
proprio per questo trascurato e negletto, come nelle sceneggiature di Ettore
Scola – mi viene fuori la più scontata delle conclusioni: il clima di sconfitta
e tristezza che si respira qui è quello dell’Italia intera; Avellino è la
metafora della nazione (e De Mita buonanima ne sarebbe stato orgoglioso); un
paese senza sfide, senza speranze, senza rivolte. Dove non ci sono neanche più i
soldi per festa/farina/forca e le badanti in giro sono più numerose dei
giovanotti, che appena possono tagliano la corda verso l’estero o rosicchiano la
rendita familiare aspettando chissà quale svolta che non arriverà.
I turchi sotto Erdogan hanno avuto la loro botta adrenalinica: venti anni di
bolla immobiliare, di tsunami di calcestruzzo e farlocche suggestioni
neo-ottomane.  E anche la vicina Napoli emette sussulti al ritmo della macarena
turistica, inseguendo disperate speranze di ricchezza, di rinascita, di
emancipazione (ma quando mai un popolo si è riscattato vendendosi e friggendo
zeppole e panzerotti?). Qua invece, in mezzo al verde suntuoso delle “zone
interne”, nessuno reagisce più a niente. Il malato sembra rassegnato al peggio.
I beati anni del terremoto. La modernità che arrivava a stanarci; non avevamo 
vecchi minareti anatolici  da contemplare – i nostri, di minareti erano tutti
crollati; e i tronconi rimasti ci facevano vergognare, come anche le pezze, gli
stracci, i tufi senza intonaco, i cani liberi per strada, e i ragazzotti a
mettersi in fila per farsi ammazzare dall’ amianto dell’Isochimica. E nessun
runner  girava allora ad autoconsolarsi con una corsetta – eravamo gente seria,
pia e incattivita.
Meglio anticipare il rientro a Nord. Un salto al camposanto e la promessa
silenziosa di non tornare – i buoni propositi che durano sempre pochi mesi.
(giovanni iozzoli)
(fotografia di nm)
Il 9 agosto un fiume di gente ha attraversato le strade di Messina per dire no
al ponte. Più di diecimila persone sono scese in strada lanciando una sfida al
ministro Salvini che, qualche giorno prima, durante l’approvazione del progetto
definitivo del ponte da parte del Cipess, si era precipitato in città – accolto
da una decina di sostenitori tra cui il sindaco della città Basile – per
presentare in pompa magna il progetto, con l’avvio dei  cantieri che avverrà
entro la fine del 2025, e che prevede l’inizio dei lavori a fine 2025 e
soprattutto a fine degli espropri.
Al termine dell’incontro, con un fare provocatorio, Salvini aveva lanciato dei
bacini ai manifestanti “No ponte” che lo aspettavano fuori dal luogo in cui si
teneva l’evento.
La manifestazione, partita alle diciotto da piazza Cairoli, ha attraversato le
principale arterie del centro, giungendo due ore dopo a piazza Duomo.
Sul camion con le bandiere della Palestina e dei No ponte, campeggiava la
fotografia di Santino Bonfiglio, militante morto qualche mese fa, a cui è stato
dedicato il corteo.
Appena dietro il camion, uno striscione con la scritta No ponte, e un pugno
chiuso che spezza in due il ponte che unisce le due sponde dello Stretto.
Tra i manifestanti tanta gente comune e qualche volto noto, come Antonio Mazzeo,
membro dell’equipaggio della Freedom Flotilla che ha provato a rompere l’assedio
a Gaza.
Il corteo, sebbene sia stato circondato da un numero enorme di agenti in tenuta
antisommossa – evidente il clima di intimidazione, nella nuova cornice
securitaria sublimatasi con l’approvazione del ddl sicurezza – è riuscito ad
affrontare con maturità le diverse provocazioni ricevute, a cominciare dal volo
basso dell’elicottero della polizia al momento della partenza del corteo, e
alcuni spostamenti anomali di contingenti verso una parte di manifestanti in
alcuni tratti della manifestazione.
Un altro elemento da sottolineare è stata la decisione di eliminare qualsiasi
caratterizzazione partitica, collocando a inizio corteo le bandiere No ponte, e
spostando in coda tutti i militanti con le bandiere dei propri partiti e gruppi
politici.
Nei primi interventi i manifestanti denunciano il tentativo di colonizzazione
del progetto ponte promosso dal governo Meloni, la Società Stretto di Messina e
Webuild, che alimentano la macchina ponte.
In particolare il ruolo di WeBuild (ex Salini-Impregilo), a cui vengono
appaltati diversi cantieri in Italia, che ha visto schizzare verso l’alto le
azioni in borsa dopo l’annuncio della costruzione del ponte del 2023.
Il progetto di WeBuild si realizzerà attraverso un utilizzo di tecniche
invasive, cantierizzazione diffusa e alimentando criticità legate allo
smaltimento di materiali tossici, come quella già verificatasi per la
costruzione del raddoppio ferroviario sulla Messina-Catania, che ha inquinato di
arsenico l’area di Contesse, alla periferia sud della città.
(fotografia di nm)
Tutte criticità che preoccupano la popolazione, visto che le aree di cantiere,
tra stoccaggio di materiali e costruzione dei cavi, interesseranno tutta la
città, compresi i quartieri che si trovano a più di venti chilometri di distanza
rispetto a dove sorgeranno i pilastri del ponte. Il tutto verrà facilitato dal
decreto infrastrutture, che per accelerare la costruzione prevede la possibilità
di cantierizzazione per fasi.
Dopo circa trenta minuti dalla partenza del corteo, mentre una signora esce dal
proprio balcone di casa sventolando una bandiera della Palestina, un altro
intervento dal camion ricorda che i territori sono di chi li abita e se ne
prende cura. Un riferimento è alla legge 2001, che come avvenuto con la Tav in
Val di Susa, per la costruzione delle opere pubbliche non prevede alcuna
consultazione con le popolazioni locali.
Tra i quattordici miliardi che serviranno per la costruzione di questa grande
opera, una buona parte delle risorse potrebbe essere utilizzata invece per
intervenire sulla gestione idrica o sul dissesto idrogeologico.
Messina registra perdite della rete idrica che costringono la popolazione ad
avere l’acqua solo per alcune ore al giorno. O la sanità, con la sua crisi
economica strutturale che impedisce l’incremento dei posti letto negli ospedali,
e le  assunzioni di ausiliari, Oss, infermieri e medici specializzati.
(fotografia di nm)
Altrettanto menzognera resta la manovra del governo di far passare il ponte come
un’infrastruttura militare che rafforza i sistemi di mobilità in una regione
piena di basi Nato, come emergerebbe dalla recente delibera Iropi che
giustificherebbe la costruzione del ponte per facilitare lo spostamento di
truppe militari nel Mediterraneo.
Secondo Antonio Mazzeo a oggi non esiste alcun documento ufficiale che consideri
il ponte funzionale allo spostamento di truppe, mezzi e armamenti. Eppure il
dispositivo ponte continua ad essere alimentato non solo dal governo ma anche
dalla magistratura, come dimostrato dalla sentenza del tribunale di Roma che ha
condannato i militanti No ponte – che avevano presentato un ricorso contro la
costruzione da parte della Società Stretto di Messina – al pagamento di 340 mila
euro di spese legali.
Ed è per questo che appena il corteo arriva a piazza Duomo, un ultimo intervento
dal camion ricorda come il movimento No ponte non può fare affidamento su nessun
soggetto istituzionale, consigliere o partito, ma solo sulle forze degli stessi
militanti che con passione e energia continuano a sostenere la mobilitazione, da
più di venti anni.
Gli stessi manifestanti ricordano ai reparti mobili schierati davanti e in coda
al corteo che i militanti continueranno la battaglia, sia nei cantieri dove
partiranno i lavori, che davanti a ogni casa dove verrà eseguito lo sfratto per
l’esproprio.
Prima di entrare in piazza un ultimo coro arriva dalla folla: “Lo stretto di
Messina non si tocca, lo difenderemo con la lotta!” (giuseppe mammana)
(copertina di federico manzone)
Riproponiamo a due anni di distanza queste cartoline dall’estate pugliese, dal
numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città. Nel frattempo la svendita del
territorio procede di emergenza in emergenza: la xylella degli ulivi, lo
spopolamento, l’assalto a terre e coste per impianti eolici e fotovoltaici, il
consumo di suolo per resort di lusso, la crisi idrica, la devastazione degli
incendi. Mentre gli amministratori locali sembrano agiti da forze estranee e i
sedicenti intellettuali fomentano lo storytelling dominante, due vicende
esemplari su tutte.
Lo scorso maggio i comuni attraversati dal gasdotto Tap hanno ratificato un
accordo con la multinazionale che prevede il ritiro della costituzione di parte
civile nel processo contro Tap, la rinuncia alle compensazioni per la
costruzione dell’opera (e per il suo previsto raddoppio) e la rinuncia a
qualsiasi diritto nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti, in cambio di
otto milioni da parte di Tap, spiccioli per comprare il consenso del territorio,
delegittimando le ragioni di chi ha lottato contro il gasdotto. La svendita
continua con la sponsorizzazione da parte di Tap di festival culturali e
rassegne di eventi estivi.
In un paese del basso Salento, la sindaca ha emesso un’ordinanza con cui vieta
iniziative politiche, manifestazioni e volantinaggi nel centro storico per la
stagione estiva. Ha giustificato il divieto sottolineando l’importanza di non
creare disagi ai turisti “interessati alle attività di puro svago” e di
preservare la reputazione del paese, che farebbe parte dei “borghi più belli
d’Italia”.
La pietra è sempre più rovente, le poche sparute gocce evaporano senza tempo di
scorrere.
*     *     *
la prima volta che ho sentito dire in salento ero ragazzina e ascoltavo una
canzone di biagio antonacci che passava in ogni radio quell’estate. si era
sempre usato nel salento, e nemmeno così spesso come adesso, una decina di anni
dopo, che sembra un marchio registrato quando chiedo al bar del mio paese un
caffè in ghiaccio col latte di mandorla e mi sento rispondere “ah, un caffè
salentino!” e ritrovo lo stesso marchio in un autogrill lontano dalla puglia.
anche se la musica cavalcava la moda della “vacanza in salento” a noi non
importava di avere turisti tra i piedi, perché sceglievamo gli scogli più
inaccessibili per passare le giornate al mare senza adulti nei paraggi. sempre
in quegli anni, in viaggio a parigi trovo un enorme padiglione nella piazza
della tour montparnasse con una mappa della mia regione e la scritta
#weareinpuglia, e ingenuamente col mio primo smartphone scatto una foto. estate
dopo estate spuntano sempre più lidi privati, alberghi, lounge bar e cocktail
bar sul mare, bistrot, bancarelle di souvenir, eventi musicali invischiati in
una falsa coscienza che li spaccia per rituali arcaici. negli anni quell’hashtag
ha scolpito un salento ridotto a “terra del rimorso” fuori dalla storia, un
non-luogo dove non c’è altro che tamburelli, balli e taralli.
IL MONDO DEI (CON)VINTI
riemergo come sputata dalla risacca delle pagine di recita estiva di christa
wolf, libro che da qualche giorno ho finito ma continuo a riaprire, quasi che
impastarmi a parole e immagini possa farmi capacitare che quello che ho letto è
ancora lì. un gruppo di amici abbandona la città per cercare nella campagna
isolata un rifugio alla delusione per un mondo in cui non si riconosce. alle
prime pagine sono pronta a difendermi dalla nausea per la retorica della vita
campestre come idillio della pienezza esistenziale, del margine come ultimo
presidio di resistenza. invece lo scudo non serve, il loro non è un ritirarsi,
un ripiegamento, è più una dislocazione per non lasciar opacizzare l’utopia ma
senza clemenza per se stessi e gli altri. “adesso! così ci urlavano le cose
pretendendo la liberazione. con la stessa intensità con cui esse erano costrette
a essere se stesse, dovevamo essere noi stessi”, e mi sembra che la storia venga
a stanarmi nell’interstizio dove cercavo di nascondermi. è una domenica di fine
luglio, le stesse strade che fino a pochi mesi fa erano vuote ora sono un
ingorgo di auto con targhe straniere, mentre palchi per spettacoli e tavolini
dei ristoranti corrodono lo spazio pubblico. la campagna che domina appena fuori
i piccoli nuclei abitati potrebbe essere la stessa del libro, ma qui è costretta
a fare da sfondo a b&b, masserie tradite e convertite in resort di lusso, ville
da affittare e sentieri da percorrere a piedi seguendo gli itinerari di qualche
guida turistica che investe i passi di un significato artefatto (come se per
camminare sullo sterrato servisse un animo sensibile e nobile).
nelle pagine di recita estiva ricorre la foga dei figli dei contadini di
sbarazzarsi di quello che resta nelle case che ereditano. utensili, vasellame,
mobili che hanno accompagnato i lavori e le vite dei padri sono tracce di un
mondo con cui i figli non vogliono mai più avere a che fare. mi torna in mente
una scena minima che ho spiato qualche sera prima tra le stanze del museo della
civiltà contadina di calimera. ascolto una signora che guida la compagna turista
attraverso l’esposizione leggendo i nomi sulle targhette e traducendo il
dialetto (con la pronuncia esotica volutamente marcata di chi quello stesso
dialetto lo scansa come gergo volgare). davanti a un telaio antico per tessere a
mano aggiunge “a casa di mia madre ne avevamo uno così, poi non so che fine ha
fatto”, ma un po’ se ne vergogna e aspetta in bilico di scorgere nello sguardo
dell’interlocutrice tracce di disprezzo per le origini umili o di ammirazione
per le radici autentiche. come se la rimozione e la negazione di essere
appartenuti a una cultura subalterna siano stati una tappa ineludibile per
accedere al benessere (decenni più tardi che altrove). barattare tutto quello
che avevano per emanciparsi alle novità e riguadagnare in fretta i gradini verso
la vera civiltà. come una scena di lazzaro felice in cui il ragazzo riconosce
delle erbe spontanee commestibili (che oggi troneggiano nei menu gourmet) ai
margini delle rotaie di una periferia metropolitana, ma gli ex contadini memori
delle condizioni di sfruttamento a cui erano costretti per lavorare la terra non
vogliono saperne di raccoglierle, a costo di sfamarsi con patatine scadute
rubate in una stazione di servizio.
oltre ad aver dimenticato, qui gli “autoctoni” hanno presto introiettato la
condizione di abitanti di un’enclave turistica elitaria e si sono prodigati
(alcuni inconsapevolmente) ad aggiungere tinte pittoresche alle narrazioni
fasulle di turismo e folklore, mentre le foto di scontrini sui social per
lamentarsi dei prezzi assurdi di un caffè o di un rustico restano campo di
commenti atrofici. intorno alle reti che hanno creduto di lacerare con
l’emancipazione e il progresso se ne sono annodate di nuove: dallo sfruttamento
dei latifondisti e delle manifatture di tabacco a quello mercificante della
monocultura turistica.
TURISMO O TERRORISMO
cerco di non ascoltare le voci che dalla televisione ammoniscono di bere acqua e
stare all’ombra, ma in uno di quei programmi saturi di già-detto che riempiono
le fasce orarie in cui la gente in vacanza non vuole essere ammorbata coi tg mi
capita un’intervista amichevole a massimo bray (il suo nome non mi suona vuoto
perché bray è leccese e ha una casa vacanze nel mio paese; a fine intervista non
manca di confessare il suo amore nostalgico per “la vecchia bottega alimentare
di un paesino in provincia di lecce, marittima”). dopo gli orpelli di ministro
presidente direttore, bray intraprende una crociata in difesa dei borghi e della
gestione che l’italia ne fa. “l’italia è il paese che ha inventato i festival,
abbiamo creato comunità grazie alla cultura”. poi stizzito reclama che “questa
forma di pessimismo che ci assale deve finire, noi dobbiamo essere orgogliosi
che si venga in italia”, perché “di fronte a una vita frenetica noi siamo capaci
di far stare centinaia di persone in un piccolo borgo, farlo rivivere e creare
quel senso di comunità”.
li chiamano borghi per omologare sotto un’unica etichetta centinaia di paesi,
negando a ognuno il suo carattere, la storia, la voce, il dialetto, i canti, le
tradizioni che gli appartengono, schiacciando sotto una parola sola tutto quello
che suona bene chiamare identità. la chiamano comunità come se la prossimità
fisica di troppe persone nello stesso posto implicasse la vicinanza d’animo. poi
chi l’ha detto che il borgo voglia una seconda vita da terra colonizzata? meglio
morire di incuria e abbandono che schiavo della religione del marketing. non che
ci sia tanto da vantarsi per il dilagare di festival, happening, performance,
che incarnano il paradigma della transitorietà, dello straordinario contro
l’ordinario, grandi eventi che attraggono turisti e fanno da alibi a
privatizzazioni spietate invece che manutenzione sul territorio e assunzioni
permanenti delle persone che quei luoghi li vivono (e che i festival sfiorano
appena). forse il senso di comunità che sbandierano non è riuscito a
sopravvivere all’emigrazione e allo spopolamento perché a questi paesi è stata
negata l’ovvietà di immaginare un futuro. senza un orizzonte, condivisione,
solidarietà, convivialità restano slogan per guide turistiche e costumi rigidi
entro cui i paesani vengono relegati finendo per recitare se stessi.
penso al ciclo di isteresi, un grafico di una curva chiusa su un libro di fisica
all’università: certi materiali sottoposti all’azione di un campo magnetico non
tornano più allo stato vergine quando l’azione cessa, restano magnetizzati anche
in assenza di corrente, e ogni sostanza ha una temperatura critica oltre cui
perde le proprietà che la caratterizzano. guardo le spiagge e le strade che si
gonfiano fino a esplodere di corpi e auto, poi tornano sventrate e deserte per
un po’ di mesi in un ciclo che si ripete. non riesco a convincermi che viviamo
solo in funzione della stagione (come se l’estate fosse l’unica che conta in
tutto l’anno, il resto è letargo), che siamo un posto per villeggiatura, che le
case se ne stanno vuote aspettando di essere invase senza risentire
dell’oltraggio che subiscono. non riesco a convincermi che non sappiamo più cosa
vuol dire abitare, creare abiti, abitudini, forme di vita comune. davvero
abitare è sinonimo di consumare? che cosa sono i paesi se li pensiamo a partire
dall’abitare? penso ad antonio neiwiller che proprio in un paese della provincia
di lecce nell’estate del 1991 diceva “io appartengo a questa terra, a questa
parte della terra che ora non riconosco più. io voglio difendere differenze,
particolarità, gesti, atti, io voglio ancora difendere questa parte del mondo.
chi l’ha detto che tutto questo debba essere violentato così”.
SE MI SVENDO NON COLLASSO
a giugno una scuola di melendugno, insieme al comune e all’azienda tap (ancora
sotto processo per inquinamento ambientale e contaminazione della falda
acquifera), comunica di voler dedicare ai ragazzi alberi che saranno piantati
nei terreni dell’impianto della multinazionale per raggiungere obiettivi di
sostenibilità. dopo l’arte pubblica asservita a riqualificazioni che pretendono
di risanare gli spazi urbani mentre li convertono in luoghi a uso e consumo del
turismo, il capitalismo si appropria di pratiche virtuose svuotandole di senso e
piegandole a scopi altri. e noi a testa bassa raccogliamo le noccioline che
l’invasore ci lancia tra le sbarre dello zoo.
se c’è una costante, è il salento che si vergogna di se stesso. la musica abiura
le sue radici povere, travisa la funzione del canto e camuffa le condizioni
bestiali di lavoro dei braccianti con un contesto bucolico in cui la miseria è
ridotta a feticcio che incipria di esotico il panorama. ciò che doveva curare e
salvare (il canto e la musica come terapia per il tarantismo) accelera la
distruzione di un territorio e della sua storia violentata dal marketing. le
contraddizioni annichilite (non è poi lo stesso meridione che tacciano di
corruzione, mafia e arretratezza?), le complessità appiattite a “un’immagine
dimezzata”, diceva gianni bosio: “il buon selvaggio, l’uomo che è buono in
quanto dimensione astorica, l’uomo folklorico. è questa la sola misura lecita
per l’uomo storico contemporaneo e subalterno per partecipare al festino della
cultura politica della classe dominante. l’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo
della fabbrica e dei campi, viene semplicemente ignorato”.
l’istituto carpitella, fondato nel ’97 per difendere e diffondere la cultura
orale del salento, tradisce radicalmente i propri scopi un anno dopo con il
festival della notte della taranta che ha monopolizzato tutte le energie e i
soldi nella sua organizzazione, e ogni sforzo per ricerca, studio e
archiviazione della memoria tradizionale è stato stroncato (già dal palco di
melpignano nella prima notte della taranta uccio aloisi ammoniva, prima ancora
di battere sui tamburi, “nu s’ave perdere tiempu”, non si deve perdere tempo).
schiere di assessori e di esperti usano la “pizzica” come strumento per
costruirsi carriere in politica, tanti mitridate che hanno ceduto passano dalla
critica totale alla collaborazione con la notte della taranta contendendosi
palchi e cachet, dando l’impressione che l’interesse personale e il ritorno di
immagine contino sempre più di ogni altra cosa. sembrano i protagonisti di una
ballata di brecht, “oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo, ho visto solo il
dito, tutto insanguinato, allora in fretta ho detto che era di mio gusto”.
roberto raheli degli aramirè, editore illuminato e unico difensore incorrotto di
quella cultura, che abbandonato da tutti ha abbandonato tutto nel 2007,
denunciava la “deliberata manipolazione della realtà storica a uso pubblico,
attraverso la creazione di una serie di icone, come quella del ragno e del
tamburello, o quella del salento edonistico-dionisiaco dove tradizionalmente i
contadini al termine del lavoro si riunivano nell’aia della masseria a ballare
sfrenatamente la pizzica”.
pasolini sperava che gli uomini avrebbero risperimentato “il loro passato, dopo
averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di
frenetica incoscienza”. ma ora che la sintesi linguistica della modernità ha
abolito il passato prossimo e l’imperfetto, non ci resta che dissotterrare un
passato remoto. un passato che, oltre ad aver dimenticato, abbiamo tradito: i
canti che si ascoltano dai concerti restano solo “quello sforzo ingrato di dirsi
vivi in una lingua morta”, per dirla con gabriele frasca; il dialetto
mortificato nei ritornelli in bocca ai “grandi” nomi dello spettacolo chiamati a
partecipare al festival e a distogliere ogni tentativo di scorgere il marcio
delle cose, le ragazzine che credono di conoscere il ballo tradizionale del loro
territorio e invece copiano le movenze seducenti del corpo di ballo sul palco
disegnate da qualche coreografo, ignare che la pizzica si ballava forse due
volte l’anno con una serie di restrizioni, con garbo e pudore. abbiamo tradito
tutto il possibile, non c’è più niente e nessuno da tradire. che fare allora, se
“tutto è in armonia nel modo sbagliato e ogni cosa va in frantumi nel modo
giusto” (ancora recita estiva)? che fare dei paesi una volta che la cultura che
li ha animati si è estinta con i suoi abitanti? che fare della cultura popolare,
delle tradizioni, dei riti, una volta che è venuto meno il mondo che li ha
generati?
ATROCE PAESE CHE AMO
partecipo alla presentazione di un libro di poesie in un giardino appartato
dagli odori dei ristoranti e dalla musica dei locali. mi ritrovo a voler
scappare tra una platea che sembra aver eletto se stessa a casta superiore. si
riconoscono al primo sguardo i turisti in abiti da vacanza (e i non-turisti ne
imitano lo stile): camicie di lino, cappelli panama, lunghi vestiti e caftani
che cercano di apparire frugali ma so troppo bene quanti empori vendono quei
tessuti spacciandoli per opere di tessitrici locali che conservano l’arte del
telaio (mentre gli unici telai superstiti sfornano tessuti per dior e lecce
conferisce cittadinanze onorarie a fashion designer che scelgono il salento come
vetrina) per abboccare all’umiltà apparente. sono gli stessi turisti che
strisciano con innaturale lentezza dentro auto troppo grosse per attraversare
indenni le stradine dei paesi non progettate per il grande traffico estivo.
assistono alle letture di versi come a una liturgia consolatoria che celebra il
loro status di cittadini edotti all’arte, civili, che il massimo picco di
adattamento all’habitat lo raggiungono mangiando la frisa con le mani e non con
le posate. li riconosci mentre vagano alla ricerca di tipicità: la pasta fatta
in casa diventa esclusiva dei ristoranti, il grano arso una ricercatezza
culinaria e solo cinquant’anni fa l’emblema della miseria, ottenuto dalle ultime
spighe bruciate sfuggite alla mietitura manuale. però loro si autoassolvono
eleggendo franco arminio a profeta della nostra epoca quando canta il “bisogno
di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli
alberi e riconosce il vento”. eppure gli risponde decenni prima errico
malatesta: “se tu leggi i poeti li trovi tutti pieni di entusiasmo per la vita
campestre. ma la verità è che i poeti che stampano libri, la terra non l’hanno
zappata mai, e quelli che la zappano davvero si ammazzano di fatica, muoiono di
fame, vivono peggio delle bestie, e sono calcolati come gente da nulla”.
quando non c’è più un punto dove posso volgere lo sguardo senza che si facciano
incontro con il loro carico pensieri caustici mi arrendo a fare un giro in
campagna, anche se questo si traduce in attraversare ettari di rami secchi e
tronchi sgozzati quando va bene, odore di bruciato e residui di roghi quando va
male. stavolta il suono delle campane di capre e pecore mi anticipa i passi, il
pastore che conosco bene quando mi vede spegne la radiolina con l’antenna che si
porta nella tracolla per farsi compagnia nella desolazione dei campi. senza
preamboli di circostanza mi racconta delle sanzioni di un controllo asl per
piccole falle nel laboratorio in cui lavora il latte. lo aveva piastrellato e
messo a norma quando uno dei figli ha deciso di continuare il suo mestiere
nonostante lui lo scoraggiasse di continuo, anche con rabbia, perché “non deve
fare ‘sta vita, con il mondo di oggi esci pazzo”. eppure il controllo ispettivo
si incaglia per l’assenza di un certo formato specifico di trappole per topi,
così ai soldi spesi per sistemare il laboratorio si aggiungono i soldi per la
sanzione e le altre modifiche imposte. ormai il prezzo dei prodotti detta gli
standard di lavorazione, una piccola azienda zootecnica ha le stesse spese di
un’impresa di allevamento a prescindere dalla dimensione, per il mercato cinque
capre o cinquecento è la stessa cosa. penso ai villani di donpasta, a santino
galasso di taranto che sorride mentre dice “t’ha mettre ‘a cape ssott’ e ha sce
‘nnanz”, devi abbassare la testa e andare avanti, a totò fundarò di alcamo che
fa la conserva di pomodoro a casa e si incazza perché secondo la legge quella
conserva non può esistere, è illegale, ma è impossibile produrre cibi genuini
rispettando le regole. penso che anche la cultura genuina può essere solo
clandestina. penso a civitonia, un festival per civita di bagnoregio che in
clandestinità esiste senza essere accaduto. “sappiamo bene quanto il mantra
dell’accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni
parola dissenziente”, scrive giovanni attili sul libro che dà un supporto fisico
all’immaginare di civitonia. “sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca”
(una volta in una traduzione di guido ceronetti avevo letto “si stanca qualsiasi
parola, di più non puoi fargli dire”). eppure attili insiste, “la consapevolezza
della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai
atrofizzate con l’obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci
immobilizza”.
“riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento”, leggo sotto il titolo del
libro, e infatti civitonia è anche un affronto al pensiero di chi governa quel
territorio, è un festival che rinunciando al suo accadere si è salvato
dall’essere fagocitato dall’industria turistica o dalle politiche urbane che
piegano l’arte a progetti di presunta riqualificazione buoni solo per ingrassare
coi fondi pubblici.
“ad accendersi ancora è il segnale che dovrei fare qualcosa. ogni giorno.
insomma io sono come un quadro segnaletico dove si accendono continuamente
lampadine di diversi colori. sicuramente produce un bel fregio luccicante. solo
che non serve a niente”, sottolineo tra le pagine di recita estiva. in
matematica essere impossibilitati a eseguire operazioni è la molla per
immaginare, per costruire domini numerici più ampi: dai numeri naturali agli
interi negativi, dai numeri reali agli immaginari, domini che contengono
ciascuno il precedente e dai loro spalti si ha una vista sempre più ampia e
sfaccettata. se x2+1 resiste alla possibilità per i polinomi di essere scomposti
in monomi lineari, si può scomporre abbandonando il campo dei reali e
sollevandosi nel dominio degli immaginari.
cosa serve allora? ammettere che i nostri mezzi sono difettati e monchi, e
quindi cercare scarti, biforcazioni possibili, non soluzioni miracolose ma
indizi minuti per scardinare l’inerzia e scommettere su un futuro differente.
ammettere che il buio ci soffoca e cercare barlumi, intermittenze, una
ricomparsa delle lucciole, forse destinate a morire travolte dalla luce sporca
delle stelle di un hotel. presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare
processi condivisi, farsi carico del mostruoso ma cercare angoli da cui
guardarlo senza esserne assuefatti. cercare di arrivare a un risultato per vie
traverse mi riporta alla matematica, al metodo dimostrativo per assurdo: si
ottiene il vero facendo scaturire l’impossibile a partire dal falso, ci si situa
in ciò che si ritiene essere falso e si mostra come questo conduca a una
conclusione impossibile.
per assurdo si dimostra un teorema fondamentale di cantor che dice che dato un
insieme ci sono sempre più parti di quanti siano i suoi elementi (si dimostra
che non ci possono essere tante parti quanti elementi e si sa che non possono
essercene meno). il teorema di cantor confuta il dilagare dell’individualismo:
il fatto che in un insieme qualunque ci siano più parti che elementi significa
che la profonda risorsa di ciò che è collettivo prevale su quella dei singoli,
come il coro prevaleva nelle esecuzioni musicali spontanee. fa eco il barone
rampante: “le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti
migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per
proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale
la pena di volere cose buone”. allora organizzarsi, agitarsi, frantumare la
cappa del disincanto, distogliere lo sguardo dai fari del treno in corsa che sta
per travolgerci. brecht incalza: “vi accontenterete del cielo che splende?
sarete sfamati? sarete consolati? il mondo guarda a voi con la sua ultima
speranza. più a lungo voi non potete essere contenti di una goccia simile sulla
pietra rovente”.
mi illudo che scrivere possa far sopravvivere qualcosa, strappare qualche
brandello al vuoto che si scava, tracciare da qualche parte un solco. ma suona
amaro il monito di rina durante, “tu capisci che in questa provincia senza fine
rimani solo tu ultimo cavaliere senza né briglia né staffe a portare il peso di
una storia che finisce”. mi illudo che cucire insieme parole che mi stagnano
dentro possa avvicinarmi a una realtà che non so comprendere né contenere (e
quando riesco mi lacera, perché la stessa vanga può scavare solchi dove seminare
o sotterrare cadaveri). ma di fatto sto scrivendo per prendere le distanze, per
espellere la materia scottante ingabbiandola in queste cartoline. allora se pure
il racconto brucia la sua materia per alimentarsi, almeno che produca fiamma
anziché riscaldare le ceneri. (chiara romano)