(disegno di escif)
A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite
decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e
studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al
Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e
si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione
di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono
nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore
aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si
sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della
governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà
l’intero sistema universitario.
Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di
chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora
con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo.
Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale
tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e
sfruttamento.
A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di
anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la
ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e
diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le
riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però,
lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei
docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama
all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza”
ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore
affligge l’università pubblica.
Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema
in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e
internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi,
incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di
insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca)
dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della
ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo,
numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle
studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture,
digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno,
concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che
rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica
che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà
un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a
rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane
dalle grandi metropoli universitarie.
Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di
alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni
socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un
lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro
di cura.
Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e
telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può
permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di
mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori
privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo.
Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un
ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi
aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con
aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo
palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi
economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione
dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri
Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di
collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con
i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca,
di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori.
Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie
assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento
a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre
quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di
rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i
tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi
agli atenei, di borse di studio e di ricerca.
Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora
incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di
discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli
atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto
Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si
inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico,
finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato
la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per
definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più
dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di
influenzare didattica e ricerca.
Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma,
Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per
opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema
universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa:
stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale
tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di
finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e
partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri,
affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla
performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca
autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato.
È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione
ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è
sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario
pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare.
Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno
capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la
necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca
tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti.
La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le
assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università.
L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti
sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)
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