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L’inizio di una cosa. Cronache e spunti dai giorni del Blocchiamo tutto
(disegno di dalila amendola) Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4 ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza. È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7 ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa “intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere? Che ognuno declini il “noi” come preferisce. Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22 settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento, deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti. Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia, da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione centrale. E così in decine di altre città d’Italia. Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina, nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo lontano. Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura. Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla ancora. Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di materiale bellico, al terminal Spinelli. Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera: nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini, improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso. La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti, nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa, all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni, i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni indotti e diffusa indifferenza.  La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene, trasgredire le regole è diventato legittimo. Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata. Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona; esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto questo.  A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città. Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università: striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo. Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa: bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni. La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla. Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva – tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio, aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito: polizia e giornalisti, non pervenuti. Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare? A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio; ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche. L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo. I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo metterci in ascolto. (redazione monitor)
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Per un embargo totale a Israele. Dal blocco di Genova alle navi in transito a Salerno
(disegno di escif) La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice 1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod. Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo. La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre, la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di Gaza. La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal porto di Salerno, come già successo più volte in passato. Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei principali produttori di armi israeliani”. Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio 2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un convoglio di aiuti umanitari. Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di nastri per mitragliatrici e per cannoni. Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato fatto ai materiali in transito, o sbarcati. La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno 2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa (Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane, hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i diritti umani). È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando “macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale produttore israeliano di sistemi d’arma.  La nave è giunta a destinazione ad Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle autorità preposte al controllo? Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano. È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa chiudere i porti rispetto a Israele». Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1 luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni) a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini. A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera. (bds salerno)
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Non è solo una partita: boicottaggio di Italia-Israele ad Udine
Il 14 ottobre si terrà ad Udine la partita Italia vs Israele valevole per le qualificazioni al prossimo mondiale di calcio maschile. Un ulteriore evento di sportwashing in cui lo stato israeliano costruisce la sua vetrina e la sua immagine nell’arena pubblica internazionale. Questo evento ha attirato l’attenzione dei comitati locali propal che si stanno […]
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La barriera invisibile. Impressioni da La luna e i calanchi di Aliano
(disegno di sam3) Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico. Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra destinazione. La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino; infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si trovano le spoglie dell’autore torinese. Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso. In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”. Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena. Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica. La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata, c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni, Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il festival. Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa, aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa. Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da essa, si rafforza. Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia – declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese. Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane. Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!». Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare consigli che crede di portata generale. Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi. Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale: quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano. Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una scelta. (marco patruno)
italia
Malinconico agosto
(disegno di canemorto) Succede che nel cuore dell’estate uno torni “giù” per qualche giorno, nel posto in cui è cresciuto. Per noi meridionali che viviamo a Nord, questa espressione – tornare giù – è densa di significati. Si tratta spesso di un viaggio a ritroso in cui quella locuzione – giù – può alludere a stati mentali, a sentimenti, a roba dell’anima, più che della geografia. E succede che fai quattro passi in quei luoghi consueti, dove hai camminato milioni di volte e che ormai riconosci a stento; e più che passeggiare stai eseguendo un obbligo, un dovere verso la tua memoria; guardare e guardarsi intorno. Case, piazze, strade, si cammina in una specie di sonnambulismo torbido. Ma quando incroci qualcuno, uno sconosciuto, un passante qualsiasi e ti capita di guardare le facce della gente – i volti e le loro maschere provvisorie – quella è un’altra storia; quello è lo sguardo che conta, se vuoi capire davvero le cose. E infatti sono  le facce a parlarmi silenziosamente, in questa mia escursione in terra irpina. Facce di gente normale che incontri per strada; facce che senza volere comunicano, parlano, si lamentano o urlano senza aprire bocca; e ti muovono qualcosa dentro, una sensazione più forte della solita noia o delusione che questi ritorni mi provocano. Perché colgo un aura di malinconia che quei volti emanano – una tristezza profonda, insondabile, eppure evidente, irredimibile. Naturalmente nessuno evoca esplicitamente questo senso di malinconia, ognuno tiene coscienziosamente in piedi la rappresentazione della propria vita agostana, tra spezzoni di vacanze e complicate reunion familiari al capezzale di vecchi con l’Alzheimer. Ma il messaggio mi arriva dentro, diretto, potente; e mi sembra inequivocabile – frutto della misteriosa telepatia del quotidiano, quella per cui basta incrociare uno sguardo per indovinare un dolore o un pezzo di vita. È pur vero che di solito vediamo quello che vogliamo vedere. Riflettiamo quello che siamo. I luoghi, i contesti, persino le pietre sono specchi che parlano la nostra lingua e ci rispondono accordandosi col nostro umore. Eppure stavolta la tristezza che aleggia nelle piazzette, nei bar, negli androni, non mi sembra propriamente un illusione. È qualcosa che si tocca, quasi.  Qualcosa che irrancidisce sotto al sole agostano. E mentre sto lì a decifrare questa sensazione che aleggia nell’aria ferma, da qualche fondo di coscienza emerge un’altra parola chiave: sconfitta. E ci sta:  la sconfitta si accoppia bene alla tristezza. Forse sto cominciando a capire qualcosa di più. Le persone sembrano così tristi perché danno l’idea di aver perso qualcosa – come reduci di guerra, però sbarbati, ben vestiti e ben nutriti. Una guerra non convenzionale, combattuta a un altro livello, su altri campi di battaglia. Ecco: il concetto di “sconfitta” è un passo avanti; siamo dentro una malinconia da perdita irreversibile. Questo è ciò che vedo nelle facce della gente che si trascina sui marciapiedi sconnessi, dello scopino che la mattina presto pulisce i resti della miserabile movida in centro, dei padri di famiglia che tornano a casa con un sacchetto della farmacia strascinando i piedi, di qualche raro giovanotto laccato e disorientato che a mezzogiorno si è appena alzato dal letto; dei pensionati che cercano con lo sguardo le luminarie agostane e non le trovano perché il comune ha finito i soldi e per quest’anno nisba. E le facce delle famiglie obese: padre madre e figlio unico, tutte taglia XXL, che litigano stancamente strattonandosi l’uno con l’altro. Ah, l’obesità: anche quella sembra parlarmi. L’obesità mi sembra in aumento, ma non è una grassezza gaudente, di chi si abbuffa per onorare la vita; no, è un lasciarsi andare – soprattutto nella palude familiare –, uno scivolamento lento, una obesità interiore, potremmo dire, una pesantezza del cuore, perché tanto non c’è molto altro da fare che entrare e uscire da rosticcerie e pizzerie e pasticcerie e riempirsi l’anima di trigliceridi. A onor del vero non mancano, la mattina presto, camminatori e runner – in luccicanti e incongrui completini colorati alla moda; ma anche loro  sembra che con quello sforzo stiano più che altro aderendo a un dettame di religiosità civile: provare a tenersi in forma è l’adempimento di un obbligo, l’adesione a un modello social o televisivo; vanno a correre la mattina presto con lo stesso spirito con cui i loro genitori andavano in chiesa. Tristezza e sconfitta. Abbasso la testa pure io. Scanso le merde dei cani e continuo ad arrovellarmi. Passo attraverso luoghi consueti ma ormai estranei. La Galleria Mancini è diventata un antro buio e deserto. Quarant’anni anni fa era l’epicentro civile della città, la sede della gloriosa US Avellino, dove tutti gli sfaccendati soggiornavano cercando di afferrare qualche novità di mercato o di spogliatoio; in questo periodo dell’anno se eri fortunato potevi incrociare don Antonio Sibilia, il presidente, di ritorno dall’Hotel Sheraton di Milano – l’uomo di cui eravamo orgogliosissimi: quale altra squadra poteva vantare un patron accusato di tentato omicidio di un procuratore della Repubblica? Adesso, quel civico è diventato, chissà perché, un rifugio di dentisti – e non trovo nessun nesso tra calcio di provincia e odontoiatria. E del resto perché mi metto a cercare nessi misteriosi tra le cose, tra i ricordi e il presente? Credo ancora alle mappe occulte? Al Segreto celato nel quotidiano? E la modestissima zona industriale, rachitica come un ragazzino mal cresciuto. Un furgoncino scarica tre operai manutentori che entrano alla Fiat, simbolo di eterne promesse di riscatto che finiscono in cassa integrazione e incentivi all’esodo. E anche l’esodo potrebbe acquisire la maiuscola e diventare l’Esodo! E assurgere finalmente a figura biblica: l’uscita da un lavoro di merda verso la terra promessa della precarietà (di merda), dei lavoretti col cognato, dell’orticello di famiglia per risparmiare sulla spesa. Perdita, sconfitta, tristezza. E a forza di rimuginare, finalmente mi si accende una lampadina di razionalità: è tutta colpa di Orhan Pamuk se sono così cupamente meditabondo. Ho in valigia Il libro nero – sono alla duecentesima lettura – e mi sono semplicemente autosuggestionato.  È lui, Pamuk, il cantore della malinconia del Bosforo, della decadenza della vecchia Istambul della sua adolescenza. La tristezza della sua prosa è contagiosa, come una scoria radioattiva. Era il  protagonista del suo libro che – moderno Hurufi inconsapevole – leggeva le lettere sui volti dei suoi concittadini, quelle lettere spaventose che definivano destini futuri e malinconie struggenti. È Pamuk che racconta del senso di sconfitta che tutti i turchi della sua generazione si portavano dietro: violentemente occidentalizzati dal terribile padre Ataturk, pieni di sensi di colpa sia per non essere riusciti a diventare davvero occidentali adempiendo al comando paterno,  sia per averci provato tradendo le glorie arcaiche – persi per sempre nel limbo struggente dei vinti, degli incompiuti. Si ma che diavolo c’entra l’Irpinia con l’Anatolia? Questa correlazione, per quanto stramba, non mi abbandona. Di quale sconfitta è portatrice la giovane ragazza che sistema nella sua vetrina mutande, calzini e capi di abbigliamento da quattro euro e cinquanta? E il vecchio barista scocciato che raccatta i giornali unti e guarda l’orologio alle sei di sera e non vede l’ora di tirare giù la serranda e andarsi a chiudere in casa? E gli anziani che deambulano come piccioni frastornati alla ricerca di un cornicione che li ripari dal sole. Che sconfitta storica stanno portando sulle loro spalle inconsapevoli, tutti costoro – bravi cristiani, innocenti, stanchi e sudati? Il Comune è in dissesto cronico permanente. Non ci sono soldi per fare nulla, neanche le mediocri  feste di paese che negli anni scorsi servivano a sollazzare il popolino – sempre pronto a lamentarsi dell’ospedale o delle strade, ma altrettanto pronto a lanciarsi nei karaoke più pacchiani. Il quadro politico è all’insegna della improvvisazione più dilettantesca, dopo l’esaurimento del vecchio ceto democristian-piddino che aveva gestito il passaggio alla seconda repubblica. Agosto in Irpinia è tradizionalmente il mese della festa, quella del rientro dei migranti, il periodo in cui le famiglie si riuniscono e si scambiano auspici e speranze per l’autunno che arriva. Ma quest’anno non mi pare vibri nessun tipo di allegria in giro. Probabilmente quando muoiono gli anziani, anche i ritorni di massa si diradano. La ricostruzione è completata – con frequenti buchi che resteranno tali per l’eternità, come la bocca sdentata di un vecchio o di un infante. Il centro storico mi sembra sempre vuoto e il generoso tentativo degli urbanisti di “riprodurlo” a tavolino, mi lascia una sensazione di tristezza ancora più devastante, come un allestimento scenico che alla millesima replica non convince più nessuno. Il 23 novembre del 1980 poche pietre erano rimaste in piedi, in quella parte antica della città. Hai voglia a ricostruire, a salvare gli archi o ricreare le topografie. La città aveva perso il suo cuore e nessun trapianto glielo avrebbe restituito. Passo davanti alla Torre dell’Orologio, anch’essa ricostruita. Mi ricordo che proprio là sotto c’era la vecchia sede di Dp; l’avevano sgomberata nell’83, mi pare, spostando le poche suppellettili col biroccio di Mandulino, che guidava a colpi di bestemmie un cavallo più anziano di lui. Intorno era tutto pericolosamente in bilico. La Torre spezzata a metà aveva troneggiato per anni su quel panorama di rovine, diventando forse il vero simbolo della città. Avrebbero dovuto lasciarla così. Adesso la nuova versione se ne sta lì, anonima, inutile, nessuno la guarda – mentre il moncone spezzato era monito, memoria, persino bellezza.  Poco più in là un brutto monumento  celebra le centinaia di caduti di quella notte  fatale, la nostra Laylatul Qadr, la nostra notte del Destino. Ma i vivi? Chi li celebra? Chi ne ascolta i lamenti sommessi? Piano piano mi si schiarisce il quadro. Si, effettivamente anche questi luoghi sono reduci da una guerra persa. Un conflitto a bassa intensità durato decenni. Anche qui la malinconia è quella di una occasione sfuggita per sempre, di un qualche tipo di tradimento. La festa è finita. I soldi sono arrivati, sono passati e non si è riusciti a usarli per dare un profilo, un volto, un anima, una vocazione nuova a questi luoghi. E sono rimasti in sospeso  tra l’antica storia di tufi sbriciolati  ed una malamodernizzazione che non porta futuro, lavoro, speranze. I fondi di coesione, il Pnrr, i progetti europei, il super-bonus e i fondi regionali: Godot attende le ultime gocce di droga che possono tenere in piedi il corpaccione esausto della provincia. Ecco la malinconia pervasiva e infettante: gli irpini, a cominciare dal capoluogo, sono in eterna transizione, come congelati dentro un lungo estenuante dopoguerra. E il terremoto è il trauma originario da cui non si guarisce – e la gente è consapevole che il meglio (se così si può dire) è ormai alle spalle. L’età delle speranze, dei progetti, dei ragazzini per strada a giocare a pallone tra barracane e tubi innocenti, dei morti seppelliti in fretta per cullare l’utopia di un riscatto, di un salto in avanti della storia. Ne parlo col mio amico Giovanni Marino, davanti alla vecchia prefettura, nella speranza che la sua saggezza diradi queste nebbie di pessimismo. Giovanni è un agitatore culturale instancabile, pubblica libri sulla memoria civile dell’Irpinia povera, lancia scrittori di periferia, organizza convegni e feste dell’Unità, legge e studia come un ventenne anche se ormai ne ha più di settanta. Giovanni è una nemesi vivente: è il cugino basso, frenetico e comunista del grande Ciriaco De Mita e prima o dopo dovrò decidermi a romanzare la  sua storia familiare. Ne verrebbe un bel racconto di queste terre e dell’Italia. Mentre il grande statista cresceva, alto, serafico, scalatore nato, nutrendosi nel brodo primordiale della Dc irpina, il cuginetto più giovane e ribelle, figlio del ramo povero della tribù, diventava attivista, sindacalista, entusiasta e velleitario prefiguratore di un altra idea di Irpinia e di cultura. Una specie di confronto a distanza tra due mondi dentro la stessa famiglia, lo stesso paese, le stesse piazzette dissestate, la stessa storia. E chiacchierando con lui – l’intellettuale di provincia pieno di ardori e buone intenzioni e proprio per questo trascurato e negletto, come nelle sceneggiature di Ettore Scola – mi viene fuori la più scontata delle conclusioni: il clima di sconfitta e tristezza che si respira qui è quello dell’Italia intera; Avellino è la metafora della nazione (e De Mita buonanima ne sarebbe stato orgoglioso); un paese senza sfide, senza speranze, senza rivolte. Dove non ci sono neanche più i soldi per festa/farina/forca e le badanti in giro sono più numerose dei giovanotti, che appena possono tagliano la corda verso l’estero o rosicchiano la rendita familiare aspettando chissà quale svolta che non arriverà. I turchi sotto Erdogan hanno avuto la loro botta adrenalinica: venti anni di bolla immobiliare, di tsunami di calcestruzzo e farlocche suggestioni neo-ottomane.  E anche la vicina Napoli emette sussulti al ritmo della macarena turistica, inseguendo disperate speranze di ricchezza, di rinascita, di emancipazione (ma quando mai un popolo si è riscattato vendendosi e friggendo zeppole e panzerotti?). Qua invece, in mezzo al verde suntuoso delle “zone interne”, nessuno reagisce più a niente. Il malato sembra rassegnato al peggio. I beati anni del terremoto. La modernità che arrivava a stanarci; non avevamo  vecchi minareti anatolici  da contemplare – i nostri, di minareti erano tutti crollati; e i tronconi rimasti ci facevano vergognare, come anche le pezze, gli stracci, i tufi senza intonaco, i cani liberi per strada, e i ragazzotti a mettersi in fila per farsi ammazzare dall’ amianto dell’Isochimica. E nessun runner  girava allora ad autoconsolarsi con una corsetta – eravamo gente seria, pia e incattivita. Meglio anticipare il rientro a Nord. Un salto al camposanto e la promessa silenziosa di non tornare – i buoni propositi che durano sempre pochi mesi. (giovanni iozzoli)
italia
Sullo Stretto il ponte non lo vogliono. Cronaca di un corteo a Messina
(fotografia di nm) Il 9 agosto un fiume di gente ha attraversato le strade di Messina per dire no al ponte. Più di diecimila persone sono scese in strada lanciando una sfida al ministro Salvini che, qualche giorno prima, durante l’approvazione del progetto definitivo del ponte da parte del Cipess, si era precipitato in città – accolto da una decina di sostenitori tra cui il sindaco della città Basile – per presentare in pompa magna il progetto, con l’avvio dei  cantieri che avverrà entro la fine del 2025, e che prevede l’inizio dei lavori a fine 2025 e soprattutto a fine degli espropri. Al termine dell’incontro, con un fare provocatorio, Salvini aveva lanciato dei bacini ai manifestanti “No ponte” che lo aspettavano fuori dal luogo in cui si teneva l’evento. La manifestazione, partita alle diciotto da piazza Cairoli, ha attraversato le principale arterie del centro, giungendo due ore dopo a piazza Duomo. Sul camion con le bandiere della Palestina e dei No ponte, campeggiava la fotografia di Santino Bonfiglio, militante morto qualche mese fa, a cui è stato dedicato il corteo. Appena dietro il camion, uno striscione con la scritta No ponte, e un pugno chiuso che spezza in due il ponte che unisce le due sponde dello Stretto. Tra i manifestanti tanta gente comune e qualche volto noto, come Antonio Mazzeo, membro dell’equipaggio della Freedom Flotilla che ha provato a rompere l’assedio a Gaza. Il corteo, sebbene sia stato circondato da un numero enorme di agenti in tenuta antisommossa – evidente il clima di intimidazione, nella nuova cornice securitaria sublimatasi con l’approvazione del ddl sicurezza – è riuscito ad affrontare con maturità le diverse provocazioni ricevute, a cominciare dal volo basso dell’elicottero della polizia al momento della partenza del corteo, e alcuni spostamenti anomali di contingenti verso una parte di manifestanti in alcuni tratti della manifestazione. Un altro elemento da sottolineare è stata la decisione di eliminare qualsiasi caratterizzazione partitica, collocando a inizio corteo le bandiere No ponte, e spostando in coda tutti i militanti con le bandiere dei propri partiti e gruppi politici. Nei primi interventi i manifestanti denunciano il tentativo di colonizzazione del progetto ponte promosso dal governo Meloni, la Società Stretto di Messina e Webuild, che alimentano la macchina ponte. In particolare il ruolo di WeBuild (ex Salini-Impregilo), a cui vengono appaltati diversi cantieri in Italia, che ha visto schizzare verso l’alto le azioni in borsa dopo l’annuncio della costruzione del ponte del 2023. Il progetto di WeBuild si realizzerà attraverso un utilizzo di tecniche invasive, cantierizzazione diffusa e alimentando criticità legate allo smaltimento di materiali tossici, come quella già verificatasi per la costruzione del raddoppio ferroviario sulla Messina-Catania, che ha inquinato di arsenico l’area di Contesse, alla periferia sud della città. (fotografia di nm) Tutte criticità che preoccupano la popolazione, visto che le aree di cantiere, tra stoccaggio di materiali e costruzione dei cavi, interesseranno tutta la città, compresi i quartieri che si trovano a più di venti chilometri di distanza rispetto a dove sorgeranno i pilastri del ponte. Il tutto verrà facilitato dal decreto infrastrutture, che per accelerare la costruzione prevede la possibilità di cantierizzazione per fasi. Dopo circa trenta minuti dalla partenza del corteo, mentre una signora esce dal proprio balcone di casa sventolando una bandiera della Palestina, un altro intervento dal camion ricorda che i territori sono di chi li abita e se ne prende cura. Un riferimento è alla legge 2001, che come avvenuto con la Tav in Val di Susa, per la costruzione delle opere pubbliche non prevede alcuna consultazione con le popolazioni locali. Tra i quattordici miliardi che serviranno per la costruzione di questa grande opera, una buona parte delle risorse potrebbe essere utilizzata invece per intervenire sulla gestione idrica o sul dissesto idrogeologico. Messina registra perdite della rete idrica che costringono la popolazione ad avere l’acqua solo per alcune ore al giorno. O la sanità, con la sua crisi economica strutturale che impedisce l’incremento dei posti letto negli ospedali, e le  assunzioni di ausiliari, Oss, infermieri e medici specializzati. (fotografia di nm) Altrettanto menzognera resta la manovra del governo di far passare il ponte come un’infrastruttura militare che rafforza i sistemi di mobilità in una regione piena di basi Nato, come emergerebbe dalla recente delibera Iropi che giustificherebbe la costruzione del ponte per facilitare lo spostamento di truppe militari nel Mediterraneo. Secondo Antonio Mazzeo a oggi non esiste alcun documento ufficiale che consideri il ponte funzionale allo spostamento di truppe, mezzi e armamenti. Eppure il dispositivo ponte continua ad essere alimentato non solo dal governo ma anche dalla magistratura, come dimostrato dalla sentenza del tribunale di Roma che ha condannato i militanti No ponte – che avevano presentato un ricorso contro la costruzione da parte della Società Stretto di Messina – al pagamento di 340 mila euro di spese legali. Ed è per questo che appena il corteo arriva a piazza Duomo, un ultimo intervento dal camion ricorda come il movimento No ponte non può fare affidamento su nessun soggetto istituzionale, consigliere o partito, ma solo sulle forze degli stessi militanti che con passione e energia continuano a sostenere la mobilitazione, da più di venti anni. Gli stessi manifestanti ricordano ai reparti mobili schierati davanti e in coda al corteo che i militanti continueranno la battaglia, sia nei cantieri dove partiranno i lavori, che davanti a ogni casa dove verrà eseguito lo sfratto per l’esproprio. Prima di entrare in piazza un ultimo coro arriva dalla folla: “Lo stretto di Messina non si tocca, lo difenderemo con la lotta!” (giuseppe mammana)
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La goccia e la pietra rovente. Cartoline dall’estate pugliese
(copertina di federico manzone) Riproponiamo a due anni di distanza queste cartoline dall’estate pugliese, dal numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città. Nel frattempo la svendita del territorio procede di emergenza in emergenza: la xylella degli ulivi, lo spopolamento, l’assalto a terre e coste per impianti eolici e fotovoltaici, il consumo di suolo per resort di lusso, la crisi idrica, la devastazione degli incendi. Mentre gli amministratori locali sembrano agiti da forze estranee e i sedicenti intellettuali fomentano lo storytelling dominante, due vicende esemplari su tutte. Lo scorso maggio i comuni attraversati dal gasdotto Tap hanno ratificato un accordo con la multinazionale che prevede il ritiro della costituzione di parte civile nel processo contro Tap, la rinuncia alle compensazioni per la costruzione dell’opera (e per il suo previsto raddoppio) e la rinuncia a qualsiasi diritto nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti, in cambio di otto milioni da parte di Tap, spiccioli per comprare il consenso del territorio, delegittimando le ragioni di chi ha lottato contro il gasdotto. La svendita continua con la sponsorizzazione da parte di Tap di festival culturali e rassegne di eventi estivi. In un paese del basso Salento, la sindaca ha emesso un’ordinanza con cui vieta iniziative politiche, manifestazioni e volantinaggi nel centro storico per la stagione estiva. Ha giustificato il divieto sottolineando l’importanza di non creare disagi ai turisti “interessati alle attività di puro svago” e di preservare la reputazione del paese, che farebbe parte dei “borghi più belli d’Italia”. La pietra è sempre più rovente, le poche sparute gocce evaporano senza tempo di scorrere. *     *     * la prima volta che ho sentito dire in salento ero ragazzina e ascoltavo una canzone di biagio antonacci che passava in ogni radio quell’estate. si era sempre usato nel salento, e nemmeno così spesso come adesso, una decina di anni dopo, che sembra un marchio registrato quando chiedo al bar del mio paese un caffè in ghiaccio col latte di mandorla e mi sento rispondere “ah, un caffè salentino!” e ritrovo lo stesso marchio in un autogrill lontano dalla puglia. anche se la musica cavalcava la moda della “vacanza in salento” a noi non importava di avere turisti tra i piedi, perché sceglievamo gli scogli più inaccessibili per passare le giornate al mare senza adulti nei paraggi. sempre in quegli anni, in viaggio a parigi trovo un enorme padiglione nella piazza della tour montparnasse con una mappa della mia regione e la scritta #weareinpuglia, e ingenuamente col mio primo smartphone scatto una foto. estate dopo estate spuntano sempre più lidi privati, alberghi, lounge bar e cocktail bar sul mare, bistrot, bancarelle di souvenir, eventi musicali invischiati in una falsa coscienza che li spaccia per rituali arcaici. negli anni quell’hashtag ha scolpito un salento ridotto a “terra del rimorso” fuori dalla storia, un non-luogo dove non c’è altro che tamburelli, balli e taralli. IL MONDO DEI (CON)VINTI riemergo come sputata dalla risacca delle pagine di recita estiva di christa wolf, libro che da qualche giorno ho finito ma continuo a riaprire, quasi che impastarmi a parole e immagini possa farmi capacitare che quello che ho letto è ancora lì. un gruppo di amici abbandona la città per cercare nella campagna isolata un rifugio alla delusione per un mondo in cui non si riconosce. alle prime pagine sono pronta a difendermi dalla nausea per la retorica della vita campestre come idillio della pienezza esistenziale, del margine come ultimo presidio di resistenza. invece lo scudo non serve, il loro non è un ritirarsi, un ripiegamento, è più una dislocazione per non lasciar opacizzare l’utopia ma senza clemenza per se stessi e gli altri. “adesso! così ci urlavano le cose pretendendo la liberazione. con la stessa intensità con cui esse erano costrette a essere se stesse, dovevamo essere noi stessi”, e mi sembra che la storia venga a stanarmi nell’interstizio dove cercavo di nascondermi. è una domenica di fine luglio, le stesse strade che fino a pochi mesi fa erano vuote ora sono un ingorgo di auto con targhe straniere, mentre palchi per spettacoli e tavolini dei ristoranti corrodono lo spazio pubblico. la campagna che domina appena fuori i piccoli nuclei abitati potrebbe essere la stessa del libro, ma qui è costretta a fare da sfondo a b&b, masserie tradite e convertite in resort di lusso, ville da affittare e sentieri da percorrere a piedi seguendo gli itinerari di qualche guida turistica che investe i passi di un significato artefatto (come se per camminare sullo sterrato servisse un animo sensibile e nobile). nelle pagine di recita estiva ricorre la foga dei figli dei contadini di sbarazzarsi di quello che resta nelle case che ereditano. utensili, vasellame, mobili che hanno accompagnato i lavori e le vite dei padri sono tracce di un mondo con cui i figli non vogliono mai più avere a che fare. mi torna in mente una scena minima che ho spiato qualche sera prima tra le stanze del museo della civiltà contadina di calimera. ascolto una signora che guida la compagna turista attraverso l’esposizione leggendo i nomi sulle targhette e traducendo il dialetto (con la pronuncia esotica volutamente marcata di chi quello stesso dialetto lo scansa come gergo volgare). davanti a un telaio antico per tessere a mano aggiunge “a casa di mia madre ne avevamo uno così, poi non so che fine ha fatto”, ma un po’ se ne vergogna e aspetta in bilico di scorgere nello sguardo dell’interlocutrice tracce di disprezzo per le origini umili o di ammirazione per le radici autentiche. come se la rimozione e la negazione di essere appartenuti a una cultura subalterna siano stati una tappa ineludibile per accedere al benessere (decenni più tardi che altrove). barattare tutto quello che avevano per emanciparsi alle novità e riguadagnare in fretta i gradini verso la vera civiltà. come una scena di lazzaro felice in cui il ragazzo riconosce delle erbe spontanee commestibili (che oggi troneggiano nei menu gourmet) ai margini delle rotaie di una periferia metropolitana, ma gli ex contadini memori delle condizioni di sfruttamento a cui erano costretti per lavorare la terra non vogliono saperne di raccoglierle, a costo di sfamarsi con patatine scadute rubate in una stazione di servizio. oltre ad aver dimenticato, qui gli “autoctoni” hanno presto introiettato la condizione di abitanti di un’enclave turistica elitaria e si sono prodigati (alcuni inconsapevolmente) ad aggiungere tinte pittoresche alle narrazioni fasulle di turismo e folklore, mentre le foto di scontrini sui social per lamentarsi dei prezzi assurdi di un caffè o di un rustico restano campo di commenti atrofici. intorno alle reti che hanno creduto di lacerare con l’emancipazione e il progresso se ne sono annodate di nuove: dallo sfruttamento dei latifondisti e delle manifatture di tabacco a quello mercificante della monocultura turistica. TURISMO O TERRORISMO cerco di non ascoltare le voci che dalla televisione ammoniscono di bere acqua e stare all’ombra, ma in uno di quei programmi saturi di già-detto che riempiono le fasce orarie in cui la gente in vacanza non vuole essere ammorbata coi tg mi capita un’intervista amichevole a massimo bray (il suo nome non mi suona vuoto perché bray è leccese e ha una casa vacanze nel mio paese; a fine intervista non manca di confessare il suo amore nostalgico per “la vecchia bottega alimentare di un paesino in provincia di lecce, marittima”). dopo gli orpelli di ministro presidente direttore, bray intraprende una crociata in difesa dei borghi e della gestione che l’italia ne fa. “l’italia è il paese che ha inventato i festival, abbiamo creato comunità grazie alla cultura”. poi stizzito reclama che “questa forma di pessimismo che ci assale deve finire, noi dobbiamo essere orgogliosi che si venga in italia”, perché “di fronte a una vita frenetica noi siamo capaci di far stare centinaia di persone in un piccolo borgo, farlo rivivere e creare quel senso di comunità”. li chiamano borghi per omologare sotto un’unica etichetta centinaia di paesi, negando a ognuno il suo carattere, la storia, la voce, il dialetto, i canti, le tradizioni che gli appartengono, schiacciando sotto una parola sola tutto quello che suona bene chiamare identità. la chiamano comunità come se la prossimità fisica di troppe persone nello stesso posto implicasse la vicinanza d’animo. poi chi l’ha detto che il borgo voglia una seconda vita da terra colonizzata? meglio morire di incuria e abbandono che schiavo della religione del marketing. non che ci sia tanto da vantarsi per il dilagare di festival, happening, performance, che incarnano il paradigma della transitorietà, dello straordinario contro l’ordinario, grandi eventi che attraggono turisti e fanno da alibi a privatizzazioni spietate invece che manutenzione sul territorio e assunzioni permanenti delle persone che quei luoghi li vivono (e che i festival sfiorano appena). forse il senso di comunità che sbandierano non è riuscito a sopravvivere all’emigrazione e allo spopolamento perché a questi paesi è stata negata l’ovvietà di immaginare un futuro. senza un orizzonte, condivisione, solidarietà, convivialità restano slogan per guide turistiche e costumi rigidi entro cui i paesani vengono relegati finendo per recitare se stessi. penso al ciclo di isteresi, un grafico di una curva chiusa su un libro di fisica all’università: certi materiali sottoposti all’azione di un campo magnetico non tornano più allo stato vergine quando l’azione cessa, restano magnetizzati anche in assenza di corrente, e ogni sostanza ha una temperatura critica oltre cui perde le proprietà che la caratterizzano. guardo le spiagge e le strade che si gonfiano fino a esplodere di corpi e auto, poi tornano sventrate e deserte per un po’ di mesi in un ciclo che si ripete. non riesco a convincermi che viviamo solo in funzione della stagione (come se l’estate fosse l’unica che conta in tutto l’anno, il resto è letargo), che siamo un posto per villeggiatura, che le case se ne stanno vuote aspettando di essere invase senza risentire dell’oltraggio che subiscono. non riesco a convincermi che non sappiamo più cosa vuol dire abitare, creare abiti, abitudini, forme di vita comune. davvero abitare è sinonimo di consumare? che cosa sono i paesi se li pensiamo a partire dall’abitare? penso ad antonio neiwiller che proprio in un paese della provincia di lecce nell’estate del 1991 diceva “io appartengo a questa terra, a questa parte della terra che ora non riconosco più. io voglio difendere differenze, particolarità, gesti, atti, io voglio ancora difendere questa parte del mondo. chi l’ha detto che tutto questo debba essere violentato così”. SE MI SVENDO NON COLLASSO a giugno una scuola di melendugno, insieme al comune e all’azienda tap (ancora sotto processo per inquinamento ambientale e contaminazione della falda acquifera), comunica di voler dedicare ai ragazzi alberi che saranno piantati nei terreni dell’impianto della multinazionale per raggiungere obiettivi di sostenibilità. dopo l’arte pubblica asservita a riqualificazioni che pretendono di risanare gli spazi urbani mentre li convertono in luoghi a uso e consumo del turismo, il capitalismo si appropria di pratiche virtuose svuotandole di senso e piegandole a scopi altri. e noi a testa bassa raccogliamo le noccioline che l’invasore ci lancia tra le sbarre dello zoo. se c’è una costante, è il salento che si vergogna di se stesso. la musica abiura le sue radici povere, travisa la funzione del canto e camuffa le condizioni bestiali di lavoro dei braccianti con un contesto bucolico in cui la miseria è ridotta a feticcio che incipria di esotico il panorama. ciò che doveva curare e salvare (il canto e la musica come terapia per il tarantismo) accelera la distruzione di un territorio e della sua storia violentata dal marketing. le contraddizioni annichilite (non è poi lo stesso meridione che tacciano di corruzione, mafia e arretratezza?), le complessità appiattite a “un’immagine dimezzata”, diceva gianni bosio: “il buon selvaggio, l’uomo che è buono in quanto dimensione astorica, l’uomo folklorico. è questa la sola misura lecita per l’uomo storico contemporaneo e subalterno per partecipare al festino della cultura politica della classe dominante. l’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo della fabbrica e dei campi, viene semplicemente ignorato”. l’istituto carpitella, fondato nel ’97 per difendere e diffondere la cultura orale del salento, tradisce radicalmente i propri scopi un anno dopo con il festival della notte della taranta che ha monopolizzato tutte le energie e i soldi nella sua organizzazione, e ogni sforzo per ricerca, studio e archiviazione della memoria tradizionale è stato stroncato (già dal palco di melpignano nella prima notte della taranta uccio aloisi ammoniva, prima ancora di battere sui tamburi, “nu s’ave perdere tiempu”, non si deve perdere tempo). schiere di assessori e di esperti usano la “pizzica” come strumento per costruirsi carriere in politica, tanti mitridate che hanno ceduto passano dalla critica totale alla collaborazione con la notte della taranta contendendosi palchi e cachet, dando l’impressione che l’interesse personale e il ritorno di immagine contino sempre più di ogni altra cosa. sembrano i protagonisti di una ballata di brecht, “oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo, ho visto solo il dito, tutto insanguinato, allora in fretta ho detto che era di mio gusto”. roberto raheli degli aramirè, editore illuminato e unico difensore incorrotto di quella cultura, che abbandonato da tutti ha abbandonato tutto nel 2007, denunciava la “deliberata manipolazione della realtà storica a uso pubblico, attraverso la creazione di una serie di icone, come quella del ragno e del tamburello, o quella del salento edonistico-dionisiaco dove tradizionalmente i contadini al termine del lavoro si riunivano nell’aia della masseria a ballare sfrenatamente la pizzica”. pasolini sperava che gli uomini avrebbero risperimentato “il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza”. ma ora che la sintesi linguistica della modernità ha abolito il passato prossimo e l’imperfetto, non ci resta che dissotterrare un passato remoto. un passato che, oltre ad aver dimenticato, abbiamo tradito: i canti che si ascoltano dai concerti restano solo “quello sforzo ingrato di dirsi vivi in una lingua morta”, per dirla con gabriele frasca; il dialetto mortificato nei ritornelli in bocca ai “grandi” nomi dello spettacolo chiamati a partecipare al festival e a distogliere ogni tentativo di scorgere il marcio delle cose, le ragazzine che credono di conoscere il ballo tradizionale del loro territorio e invece copiano le movenze seducenti del corpo di ballo sul palco disegnate da qualche coreografo, ignare che la pizzica si ballava forse due volte l’anno con una serie di restrizioni, con garbo e pudore. abbiamo tradito tutto il possibile, non c’è più niente e nessuno da tradire. che fare allora, se “tutto è in armonia nel modo sbagliato e ogni cosa va in frantumi nel modo giusto” (ancora recita estiva)? che fare dei paesi una volta che la cultura che li ha animati si è estinta con i suoi abitanti? che fare della cultura popolare, delle tradizioni, dei riti, una volta che è venuto meno il mondo che li ha generati? ATROCE PAESE CHE AMO partecipo alla presentazione di un libro di poesie in un giardino appartato dagli odori dei ristoranti e dalla musica dei locali. mi ritrovo a voler scappare tra una platea che sembra aver eletto se stessa a casta superiore. si riconoscono al primo sguardo i turisti in abiti da vacanza (e i non-turisti ne imitano lo stile): camicie di lino, cappelli panama, lunghi vestiti e caftani che cercano di apparire frugali ma so troppo bene quanti empori vendono quei tessuti spacciandoli per opere di tessitrici locali che conservano l’arte del telaio (mentre gli unici telai superstiti sfornano tessuti per dior e lecce conferisce cittadinanze onorarie a fashion designer che scelgono il salento come vetrina) per abboccare all’umiltà apparente. sono gli stessi turisti che strisciano con innaturale lentezza dentro auto troppo grosse per attraversare indenni le stradine dei paesi non progettate per il grande traffico estivo. assistono alle letture di versi come a una liturgia consolatoria che celebra il loro status di cittadini edotti all’arte, civili, che il massimo picco di adattamento all’habitat lo raggiungono mangiando la frisa con le mani e non con le posate. li riconosci mentre vagano alla ricerca di tipicità: la pasta fatta in casa diventa esclusiva dei ristoranti, il grano arso una ricercatezza culinaria e solo cinquant’anni fa l’emblema della miseria, ottenuto dalle ultime spighe bruciate sfuggite alla mietitura manuale. però loro si autoassolvono eleggendo franco arminio a profeta della nostra epoca quando canta il “bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento”. eppure gli risponde decenni prima errico malatesta: “se tu leggi i poeti li trovi tutti pieni di entusiasmo per la vita campestre. ma la verità è che i poeti che stampano libri, la terra non l’hanno zappata mai, e quelli che la zappano davvero si ammazzano di fatica, muoiono di fame, vivono peggio delle bestie, e sono calcolati come gente da nulla”. quando non c’è più un punto dove posso volgere lo sguardo senza che si facciano incontro con il loro carico pensieri caustici mi arrendo a fare un giro in campagna, anche se questo si traduce in attraversare ettari di rami secchi e tronchi sgozzati quando va bene, odore di bruciato e residui di roghi quando va male. stavolta il suono delle campane di capre e pecore mi anticipa i passi, il pastore che conosco bene quando mi vede spegne la radiolina con l’antenna che si porta nella tracolla per farsi compagnia nella desolazione dei campi. senza preamboli di circostanza mi racconta delle sanzioni di un controllo asl per piccole falle nel laboratorio in cui lavora il latte. lo aveva piastrellato e messo a norma quando uno dei figli ha deciso di continuare il suo mestiere nonostante lui lo scoraggiasse di continuo, anche con rabbia, perché “non deve fare ‘sta vita, con il mondo di oggi esci pazzo”. eppure il controllo ispettivo si incaglia per l’assenza di un certo formato specifico di trappole per topi, così ai soldi spesi per sistemare il laboratorio si aggiungono i soldi per la sanzione e le altre modifiche imposte. ormai il prezzo dei prodotti detta gli standard di lavorazione, una piccola azienda zootecnica ha le stesse spese di un’impresa di allevamento a prescindere dalla dimensione, per il mercato cinque capre o cinquecento è la stessa cosa. penso ai villani di donpasta, a santino galasso di taranto che sorride mentre dice “t’ha mettre ‘a cape ssott’ e ha sce ‘nnanz”, devi abbassare la testa e andare avanti, a totò fundarò di alcamo che fa la conserva di pomodoro a casa e si incazza perché secondo la legge quella conserva non può esistere, è illegale, ma è impossibile produrre cibi genuini rispettando le regole. penso che anche la cultura genuina può essere solo clandestina. penso a civitonia, un festival per civita di bagnoregio che in clandestinità esiste senza essere accaduto. “sappiamo bene quanto il mantra dell’accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni parola dissenziente”, scrive giovanni attili sul libro che dà un supporto fisico all’immaginare di civitonia. “sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca” (una volta in una traduzione di guido ceronetti avevo letto “si stanca qualsiasi parola, di più non puoi fargli dire”). eppure attili insiste, “la consapevolezza della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai atrofizzate con l’obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci immobilizza”. “riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento”, leggo sotto il titolo del libro, e infatti civitonia è anche un affronto al pensiero di chi governa quel territorio, è un festival che rinunciando al suo accadere si è salvato dall’essere fagocitato dall’industria turistica o dalle politiche urbane che piegano l’arte a progetti di presunta riqualificazione buoni solo per ingrassare coi fondi pubblici. “ad accendersi ancora è il segnale che dovrei fare qualcosa. ogni giorno. insomma io sono come un quadro segnaletico dove si accendono continuamente lampadine di diversi colori. sicuramente produce un bel fregio luccicante. solo che non serve a niente”, sottolineo tra le pagine di recita estiva. in matematica essere impossibilitati a eseguire operazioni è la molla per immaginare, per costruire domini numerici più ampi: dai numeri naturali agli interi negativi, dai numeri reali agli immaginari, domini che contengono ciascuno il precedente e dai loro spalti si ha una vista sempre più ampia e sfaccettata. se x2+1 resiste alla possibilità per i polinomi di essere scomposti in monomi lineari, si può scomporre abbandonando il campo dei reali e sollevandosi nel dominio degli immaginari. cosa serve allora? ammettere che i nostri mezzi sono difettati e monchi, e quindi cercare scarti, biforcazioni possibili, non soluzioni miracolose ma indizi minuti per scardinare l’inerzia e scommettere su un futuro differente. ammettere che il buio ci soffoca e cercare barlumi, intermittenze, una ricomparsa delle lucciole, forse destinate a morire travolte dalla luce sporca delle stelle di un hotel. presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare processi condivisi, farsi carico del mostruoso ma cercare angoli da cui guardarlo senza esserne assuefatti. cercare di arrivare a un risultato per vie traverse mi riporta alla matematica, al metodo dimostrativo per assurdo: si ottiene il vero facendo scaturire l’impossibile a partire dal falso, ci si situa in ciò che si ritiene essere falso e si mostra come questo conduca a una conclusione impossibile. per assurdo si dimostra un teorema fondamentale di cantor che dice che dato un insieme ci sono sempre più parti di quanti siano i suoi elementi (si dimostra che non ci possono essere tante parti quanti elementi e si sa che non possono essercene meno). il teorema di cantor confuta il dilagare dell’individualismo: il fatto che in un insieme qualunque ci siano più parti che elementi significa che la profonda risorsa di ciò che è collettivo prevale su quella dei singoli, come il coro prevaleva nelle esecuzioni musicali spontanee. fa eco il barone rampante: “le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone”. allora organizzarsi, agitarsi, frantumare la cappa del disincanto, distogliere lo sguardo dai fari del treno in corsa che sta per travolgerci. brecht incalza: “vi accontenterete del cielo che splende? sarete sfamati? sarete consolati? il mondo guarda a voi con la sua ultima speranza. più a lungo voi non potete essere contenti di una goccia simile sulla pietra rovente”. mi illudo che scrivere possa far sopravvivere qualcosa, strappare qualche brandello al vuoto che si scava, tracciare da qualche parte un solco. ma suona amaro il monito di rina durante, “tu capisci che in questa provincia senza fine rimani solo tu ultimo cavaliere senza né briglia né staffe a portare il peso di una storia che finisce”. mi illudo che cucire insieme parole che mi stagnano dentro possa avvicinarmi a una realtà che non so comprendere né contenere (e quando riesco mi lacera, perché la stessa vanga può scavare solchi dove seminare o sotterrare cadaveri). ma di fatto sto scrivendo per prendere le distanze, per espellere la materia scottante ingabbiandola in queste cartoline. allora se pure il racconto brucia la sua materia per alimentarsi, almeno che produca fiamma anziché riscaldare le ceneri. (chiara romano)
italia
Dalla giustizia alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).  Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
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La contenzione come violazione dei diritti fondamentali. La sentenza della Corte Costituzionale sui Tso
(disegno di canemorto) Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta “legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla persona interessata o al suo legale rappresentante. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele, evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. LA SENTENZA Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza. Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”. Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul giusto processo. La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si trovi in stato di “incapacità naturale”. Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice “è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale”. La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.  QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella sentenza. Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona. Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti. L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione. IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13, comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di “audizione”, e quindi di ascolto. Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle “violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”. Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo. La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
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La democrazia è anche questione di metri quadri. Un ricordo di Franco Marescotti
(disegno di cyop&kaf) Disegni, modellini, progetti su carta lucida, fotografie, libri, riviste e una grande collezione di conchiglie. Tutto nel suo camper fino a Catania, per costruire un corso di architettura nella facoltà di ingegneria. Franco Marescotti, si è trasferito in Sicilia con sua moglie Rosabella nel 1971, ed è rimasto lì fino al 1991, anno della sua scomparsa. Dagli anni Trenta del secolo scorso, Marescotti ha partecipato attivamente al dibattito sulla costruzione della città e delle periferie, con importanti scritti e pubblicazioni sulla casa per tutti e sulla prefabbricazione, collaborando a varie edizioni della Triennale di Milano e alla stesura di vari numeri della rivista Casabella. Negli anni Cinquanta ha fondato uno studio di architettura sociale dopo aver collaborato a diversi progetti per i Centri sociali cooperativi, primi esempi di progettazione partecipata. Qui insieme all’abitazione erano previsti i luoghi collettivi per il libero sviluppo della persona dove esprimere socialità e creare comunità: biblioteche, piscine, sale giochi e sale per il ballo. Il Centro sociale cooperativo Grandi e Bertacchi sul Naviglio a Milano, è un ottimo esempio di quella stagione in cui per Marescotti “la democrazia è anche una questione di metri quadri”. GLI ALLIEVI Due anni fa a Catania ho conosciuto Sabina Zappalà, un’architetta che ha lavorato nel quartiere di Librino, progettato a sud-ovest di Catania dall’architetto giapponese Kenzo Tange, per gran parte della sua vita professionale. La sua passione per l’architettura è legata a Franco Marescotti di cui è stata allieva e amica, amicizia condivisa fin dagli anni Ottanta con due giovani studenti di ingegneria Roberto De Benedictis ed Enzo Fazzino. I tre sono stati testimoni del periodo siciliano, nonché coloro che Marescotti ha scelto come eredi del suo lavoro. Un’amicizia e una frequentazione che negli anni ha unito profondamente i tre. Catania è un pezzo di terra scura affacciata sul mare, col monte Etna a fare da coronamento. Negli anni Ottanta Marescotti si stabilisce in una cittadina sul fianco del vulcano, a pochi chilometri dal comune di Valverde, dove grazie a Sabina incontro Enzo e Roberto arrivati da Siracusa. Una struttura comunale ospita il piccolo Museo delle conchiglie, una preziosa collezione appartenuta a Marescotti e venduta al Comune negli ultimi anni della sua vita. «Le conchiglie non vengono tutte dalla Sicilia – racconta Sabina –, ovunque è andato Marescotti ha raccolto conchiglie, coralli; il suo studio della casa per l’uomo mirava all’essenzialità». La ricerca teorica sulla casa moderna risale all’inizio del secolo scorso, quando diversi studi, soprattutto tedeschi, si pongono il problema dell’eccezionale sviluppo economico e del conseguente aumento demografico. Importanti urbanisti e architetti, come Hilberseimer, Mies van der Rohe e Le Corbusier, tra gli altri, compresero la necessità di ricercare una coerenza tra estetica e funzionalità nell’architettura moderna, piuttosto che la ricerca di uno stile unitario. «Marescotti – continua Sabina – aveva memoria della Sicilia già nell’immediato dopoguerra, perché faceva immersioni e conosceva le sue coste perfettamente. In fondo nelle conchiglie lui trovava l’ideale della casa per l’uomo. La conchiglia è perfetta, essenziale, autocostruita, ogni animale ha esattamente dentro di sé la matrice di ciò che è la sua casa. Probabilmente era questo uno dei motivi per cui ne era così attratto». Dopo questo passaggio presso il Museo, insieme a Sabina, Enzo, Roberto e sua moglie, ci sediamo a un bar nelle vicinanze. L’ingegnere Enzo Fazzino, tornato in Sicilia dopo molti anni di lavoro presso l’Unesco, racconta: «Ero attratto da questa figura e mi sono trovato in aula con gli studenti degli ultimi anni, si insegnava composizione architettonica. Eravamo negli anni Settanta, e si parlava di cose che non avevo mai ascoltato da nessun altra parte, sembrava non avesse niente a che fare con l’architettura. Sulla lavagna aveva disegnato una linea, l’equazione sessuale, e interrogava gli studenti su quanto si sentissero uomo o donna: tutto ciò in una facoltà di ingegneria! Credo che il messaggio di Marescotti sia sul lungo termine. Sono convinto che il suo lavoro continuerà a parlare alle persone, ben oltre l’architettura, perché parla di umanità e di impegno». L’altro amico e allievo è Roberto De Benedictis, anche lui ingegnere, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana per tre legislature fino al 2012. «La speranza di costruire ambienti urbani che fossero a misura d’uomo – dice –, doveva essere sorretta da una politica. Marescotti nutriva, o meglio, si era formato un’idea in cui era possibile coltivare questa illusione sulla scorta degli esempi che stavano fuori dall’Italia». Il dibattito sull’architettura moderna vede uno dei momenti cruciali nell’Esposizione di Stoccarda del 1927, in cui architetti di fama internazionale si misurano con la progettazione di un quartiere residenziale. Da quell’esperienza, molti furono i dibattiti sul futuro della città, che vennero poi ripresi nei Ciam (Congressi internazionali di architettura moderna): teorici, architetti, urbanisti, proposero la loro idea di sviluppo delle città, attraverso lo studio di tipologie edilizie e sistemi di prefabbricazione. A Milano, Marescotti, in sodalizio con Irenio Diotallevi, costruirà uno dei più importanti riferimenti teorici per le nuove generazioni di architetti italiani. «Dopodiché questa stagione si è conclusa, ma lui continuava a fare “casette” – continua Roberto –; progettava tipologie edilizie, quando ormai il tema non era più attuale. Negli Istituti autonomi delle case popolari ancora resisteva un barlume di studio sulle tipologie e sulle abitazioni, e fino alla metà degli anni Ottanta c’era ancora la concezione che l’edilizia popolare fosse un servizio per la società, ma di questo oggi non c’è più traccia. Marescotti credeva che l’azione degli individui potesse cambiare le cose. La politica è questo, persone che si mettono insieme e fanno cambiare le cose. E con quale strumento? Ciascuno con il suo. Lui partecipava con l’architettura, altri partecipavano con la scrittura, con la poesia, con l’arte, o con la politica in senso stretto». L’EREDITÀ  Roberto de Benedictis continua a parlare di Marescotti e del suo lascito: «Sì, noi abbiamo avuto una lettera di consegna, in cui ci ha lasciato tutto il suo lavoro, il suo materiale. Non per farne necessariamente qualcosa, ma perché non gli era rimasto molto. L’accademia lo ha rifiutato. Non era laureato e questo in Italia contava moltissimo. Negli ultimi anni ha sofferto molto perché non aveva una pensione. Ricordo che una volta lo abbiamo trovato che provava a bruciare parte del suo lavoro nel camino. Sono stati anni molto difficili per lui, di solitudine. Lo abbiamo supportato e probabilmente siamo stati gli unici. Dall’Università non l’ha cercato più nessuno, è rimasto solo, anche per il suo carattere difficile». Sabina, Enzo e Roberto, dopo svariati tentativi di consegnarli all’Università di Catania, nel 2015 hanno affidato il suo archivio all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, uno storico e importante istituto dove sono conservati molti archivi di artisti e architetti degli ultimi quattrocento anni. Proprio quest’anno, a dieci anni da quell’affidamento, l’Accademia è riuscita a digitalizzare l’archivio rendendolo pubblico lo scorso 15 maggio sul sito ufficiale. Già Francesco Moschini nel maggio 2016, all’epoca segretario generale dell’Accademia, parlava della complessità di questa figura: “Franco Marescotti ha una centralità nel dibattito architettonico che in qualche modo non viene resa pubblica e non viene resa spendibile, c’è sempre una condizione di marginalità dovuta all’integerrima e ferrea sua volontà di mantenere la dimensione etica […]. Questo forse gli ha precluso una diffusione ulteriore del proprio portato teorico e realizzativo nonostante le straordinarie esperienze e operazioni: come quella di Grandi e Bertacchi, esempi straordinari che hanno segnato in fondo una sconfitta rispetto quello che poi è successo dell’intero paese. […] Il suo archivio è composto da oltre millecinquecento disegni, un centinaio di plastici, molti materiali di documentazione fotografica, raccolte editoriali di libri e di riviste”. L’Accademia di San Luca ha messo l’archivio a disposizione degli studiosi: «Io penso che esistano autori, architetti o pensatori che sono assolutamente ignorati in vita, e poi anni, secoli dopo vengono capiti, rivalutati», chiosa EnzoFazzino. (daniele balzano)
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