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Riflessioni sul referendum per la riforma della legge sulla cittadinanza
(disegno di salvatore liberti) L’8 e il 9 giugno è necessario che tutte e tutti andiamo a votare per la riforma della cittadinanza. È vero che quanto si va a votare è una proposta al ribasso rispetto alla richiesta avanzata per anni da larghe mobilitazioni, animate soprattutto dai figli e dalle figlie delle migrazioni, per un cambiamento più radicale della legge n. 91 del 1992. Tuttavia, è un atto importante da compiere: questo voto può avere delle ripercussioni rilevanti sulla vita di milioni di persone e sull’Italia stessa, e pertanto va decisamente sostenuto, non solo votando ma anche impegnandosi ad allargare la base dei votanti in un clima politico in cui domina un assordante silenzio sul referendum. Tra due settimane gli italiani e le italiane che godono del privilegio di essere cittadini e cittadine saranno chiamati a votare per coloro che non lo hanno affinché si abbassi da dieci a cinque anni il tempo di residenza continuativo in Italia per fare richiesta di cittadinanza, mentre rimangono invariati tutti gli altri criteri previsti dalla legge per la richiesta di naturalizzazione: conoscenza della lingua italiana, reddito adeguato, assenza di precedenti penali, rispetto degli obblighi fiscali, assenza di minacce alla sicurezza dello Stato. Il quesito referendario non mette in discussione il principio dello ius sanguinis su cui si basa il sistema italiano e vale a dire che la cittadinanza di una persona si determina in base alla cittadinanza dei genitori, indipendentemente dal luogo di nascita. Si limita a proporre un correttivo del quadro legislativo vigente, e d’altronde non avrebbe potuto proporre qualcosa di molto diverso, in quanto tale strumento può portare solo a un atto abrogativo e non a una nuova proposta di legge. Malgrado le ampie e importanti mobilitazioni per il cosiddetto ius soli (il principio giuridico secondo cui una persona ottiene la cittadinanza in base al luogo di nascita, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori), o le dichiarazioni a favore delle varianti più blande, quali quelle dello ius scholae (principio secondo cui un minore straniero ottiene la cittadinanza dopo aver completato un ciclo scolastico in Italia) e ius culturae (principio che prevede la concessione della cittadinanza ai minori stranieri che sono ben integrati nella cultura italiana, per esempio tramite scuola o altri percorsi formativi), sia i governi di destra che quelli di sinistra succedutisi negli anni al governo del paese, hanno scelto di rimanere ancorati a una visione della cittadinanza basata sul principio dello ius sanguinis, che priva bambini e giovani del diritto a essere formalmente italiani seppur nati e/o cresciuti in questo paese, solo perché i loro genitori non sono italiani. Come conseguenza di questa scelta, oggi l’undici per cento dei minori in Italia non ha la cittadinanza italiana, tra di loro tre su quattro sono nati in Italia, gli altri vi sono arrivati in fasi diverse della loro giovane vita. Siamo di fronte a una situazione di discriminazione formale che nega loro possibilità e opportunità, come partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare ed essere votati, poter partecipare a concorsi pubblici, oltre a creare un senso di non appartenenza al paese in cui si nasce e si cresce. Una radicale riforma della legge sulla cittadinanza è pertanto necessaria.   È importante però sottolineare che l’ottenimento della cittadinanza formale non è sufficiente in sé per essere considerati italiani. Lo racconta bene Salwa, ventitré anni, d’origine egiziana: «È vero che ho preso la cittadinanza italiana ma mi guardano da straniera, da terrorista. È vero che lo Stato mi ha riconosciuta come italiana, ma alla fine è un pezzo di carta, la gente non mi riconosce; quindi, mi sento come se non valesse. Dal punto di vista burocratico mi ha facilitato un sacco di cose però non vengo vista come un’italiana quindi è una presa in giro». A causa del colore della pelle, del nome o del cognome che si ha, della religione che si professa, degli abiti che si indossano, molte persone, incluso chi nasce e/o cresce in questo paese, sovente non sono riconosciute come cittadine e cittadini alla pari, sebbene loro e spesso anche i loro genitori, se non addirittura i loro nonni, abbiano un passaporto italiano. Una situazione di discriminazione sostanziale che non permette a tanti e tante di sentirsi pienamente parte di un paese di cui sono sempre più linfa vitale. Questo stato di fatto non richiede solo un cambiamento della legge per l’ottenimento della cittadinanza ma anche una trasformazione nella mentalità e nelle prospettive riguardanti l’idea di identità, stato-nazione, italianità. Il punto centrale è quello di pensare e di costruire un progetto nazionale nuovo, basato sul riconoscimento di tutte le componenti della società italiana, e che prevede reali diritti di cittadinanza per chiunque viva e cresca in Italia, mentre vengono garantiti strumenti materiali ed economici per poter pienamente far parte del paese. Senza questi ultimi, non vi può essere un pieno e reale accesso ai diritti di cui si può godere con un passaporto italiano. La questione della classe è una questione tutt’altro che superata, sebbene sia sempre meno affrontata nei dibattiti pubblici. Quando poi la si interseca con questioni quali quella di genere o quella generazionale, mostra tutta la sua pervasività nel continuare a dividere e governare le società in cui viviamo. Come scriveva bell hooks, “la classe conta”; e – possiamo aggiungere – plasma tutti i contesti che attraversiamo. La questione economica e dell’accesso ai diritti socio-economici non può essere disgiunta da un radicale discorso su cosa sia la cittadinanza. Queste considerazioni ci spingono a dire che dopo questo referendum bisognerà continuare a impegnarsi per una più radicale riforma della cittadinanza basata su riconoscimento e rispetto nei confronti di chi vive in Italia. Dunque, l’8 e il 9 giugno andiamo a votare e facciamo votare sì alla riforma della cittadinanza; dal 10 giugno impegniamoci per un radicale ripensamento del concetto di cittadinanza. (renata pepicelli)
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Una questione nucleare. La Basilicata e il Centro Trisaia di Rotondella
(disegno di andrea nolè) Nel 1959 Feltrinelli dà alle stampe Sud e magia di Ernesto de Martino, libro che raccoglie un insieme di studi condotti da un gruppo di ricerca in alcuni paesi della Lucania. Negli stessi anni il Centro nazionale per l’energia nucleare (Cnen) individua il luogo in cui costruire la sua seconda sede, lungo la Statale 106 che collega Taranto a Reggio Calabria, in una contrada del comune di Rotondella in Basilicata. La contrada Trisaia da quel giorno cessa di esistere per fondersi con la funzione prescelta: il Centro Trisaia. Ma perché la Basilicata, perché proprio in quelle terre? «Ho sempre pensato che ci sia una connessione tra questi due eventi, concettualmente distanti, come una sorta di sillogismo storico, politico e antropologico, tra l’individuazione della Trisaia e l’uscita di Sud e magia. Poi, certo, un grosso contribuito è stato dato da Emilio Colombo all’epoca ministro dell’industria», dice Claudio Persiano dell’Arci di Rotondella, alludendo all’idea della “scoperta” come colonizzazione di terre remote, sfruttamento di colonie interne senza problemi con la gente del posto. Di scoperta si parla anche negli studi etno-antropologici compiuti da de Martino nelle “terre dell’osso” – i cui fini erano però ben altri –, nei paesi dimenticati da Cristo per indagare quella civiltà contadina inchiodata al destino inamovibile e ai confini della Storia, al di fuori di qualsiasi idea di classe e di trasformazione dello stato di cose presente. In altra occasione, quando ho posto la stessa domanda a Casimiro Longaretti, tra i promotori dei campeggi di lotta contro il nucleare lungo la costa jonica degli anni Settanta, anch’egli ha fatto riferimento a una condizione antropologica di subalternità a motivo delle scelte politiche di insediamento della Trisaia. «La mia regione non viene scelta a caso – dice Longaretti –. È nota, infatti, la sudditanza del popolo lucano al potere centrale dello Stato. La Dc e il clero hanno sempre avuto libero arbitrio sulla sorte degli abitanti di questa desolata regione del Sud. Per noi lucani il detto “o briganti o emigranti” è quanto mai vero, siamo stati sempre trattati marginalmente dal potere centrale; fateci caso, la Basilicata non viene mai nominata nemmeno nell’informazione meteo; ci orientiamo con il bollettino delle regioni confinanti». Ma Colombo, “figlio prediletto della Lucania”, ha la vista lunga. Quel contadiname senza senno né sorte potrebbe tornargli utile – pensa il plenipotenziario della Dc. Voti, consenso e mediazione locale, a suon di prebende, clientele e posti di lavoro, sono una miniera preziosa. Coglie la palla al balzo e dà il via all’istituzione della sede lucana, strategicamente importante per lo sviluppo del paese e il progresso della sua regione. Tra l’altro in un luogo logisticamente baricentrale, crocevia di più regioni – Calabria, Puglia e la stessa Basilicata. Così nel 1962 il Cnel acquista i terreni in Trisaia, a un paio di chilometri dalla spiaggia jonica, mentre l’inaugurazione del Centro Ricerche Enea e del suo impianto avvengono nel 1968. SCANZANO E LE SCORIE Nel Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi parla della condizione dei “suoi” contadini: “E quella gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica e alle teorie dei partiti, sentiva rinascere in sé l’anima dei briganti. Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi, un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si danno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli”. D’altronde è quanto avvenuto nel novembre 2003. La protesta di una regione contro il decreto 314 voluto dal secondo governo Berlusconi che avrebbe dato il via alla realizzazione del deposito nazionale di scorie nucleari nelle cave di salgemma di Terzo Cavone, nel comune di Scanzano Jonico, a una ventina di chilometri dalla Trisaia. Nei giorni della protesta migliaia di persone partecipano a blocchi stradali, cortei, comizi; occupano il municipio, il sito prescelto e la stazione ferroviaria con la “marcia dei centomila” del 23 novembre. Due giorni dopo un altro corteo, a Roma stavolta. Il 26 si tiene un convegno davanti al presidio, pieno di persone e di telecamere, con una processione di politici di ogni colore. Il 27 novembre arriva la notizia: il nome di Scanzano sparisce dal decreto. «È rimasto poco – continua Claudio Persiano –. L’associazione ambientalista “ScanZiamo le scorie”. E niente più. Quella potenza e quella coscienza esplose nei quindici giorni di mobilitazione sono rientrate nei ranghi. Poi è tornata la pletora di politici locali, i mediatori di clientele dei politici nazionali, luogotenenti del potere che con la Trisaia hanno sempre fatto affari. Perché la Trisaia ha distribuito soldi, commesse, posti di lavoro e incarichi». Non proprio, però. L’ipoteca che lascia la Trisaia, nonostante le proteste contro ulteriori forme di inquinamento, è quanto raccolto dall’Istituto Superiore di Sanità. Un rapporto, su incarico del ministero della salute, ha indagato lo stato di salute degli abitanti di nove comuni italiani in cui erano presenti impianti nucleari. L’indagine del 2015 ha confrontato i tassi di mortalità per diverse patologie, focalizzandosi in particolare su ventiquattro tipi di tumori potenzialmente collegati all’esposizione a radiazioni ionizzanti. I risultati hanno mostrato che, nella maggior parte dei casi, la mortalità era inferiore rispetto alla media regionale. Alcuni eccessi osservati non sono stati ritenuti riconducibili direttamente alla radioattività, poiché avrebbero richiesto esposizioni elevate e continuative, incompatibili con il normale funzionamento degli impianti. Lo studio ha analizzato diversi scenari di esposizione, da quelli legati al normale funzionamento a ipotesi più critiche. Il rapporto sottolinea la necessità di un monitoraggio costante della salute pubblica e dei livelli di esposizione, soprattutto in vista di futuri progetti legati alla gestione dei rifiuti radioattivi. Sta di fatto però che, quando al monitoraggio si sostituiscono interessi privati, in un mix di correità e “familismo amorale” tra lobby e classi dirigenti per trovare scorciatoie nella gestione e nello stoccaggio di materiale radioattivo, appaiono le peggiori infamità. L’Italia, peraltro, ha un grosso problema che si trascina da decenni riguardo al monitoraggio di tale materiale. E di infamità da quelle parti ce ne sono tante, assai spesso sottaciute. Anche qui vige la morale dei Carmine Schiavone, che a chi gli chiedesse conto degli sversamenti nel casertano, cioè sotto casa sua, rispondeva: “Ma tu quanto tempo vuoi campare?”. L’ULTIMA INCHIESTA Il 27 maggio si terrà la seconda udienza del Tribunale di Potenza sull’inchiesta condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia sull’inquinamento della falda idrica nel sito Enea – Sogin (Società per lo smantellamento degli impianti nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi), in particolare all’interno dell’Impianto di trattamento e rifabbricazione elementi di combustibile (Itrec) che si trova dentro la Trisaia. A dire il vero è la terza, seppur distinta, inchiesta sulla Itrec. «I fatti risalgono all’aprile 2018 – racconta Claudio –, quando scattarono i sigilli a tre vasche di raccolta dell’impianto Itrec di Rotondella. Sarebbero servite allo sversamento in mare di circa 65 mila metri cubi di acqua contaminata da sostanze cancerogene quali il cromo esavalente e, senza alcun trattamento, attraverso una condotta di scarico non autorizzata. Anche se in realtà la vicenda è iniziata nel 2014-15. La Sogin monitora le acque di falda tramite una serie di peziometri, cioè strumenti che servono a evitare che le acque e le piscine non si contaminino fra di loro. Questi piezometri restituiscono dei valori di cromo esavalente, trielina, tricloroetilene e altri elementi, molto elevati rispetto ai limiti di legge. Così nel 2015, la Sogin comunica questa rilevanza, e nello stesso anno parte il monitoraggio da parte dell’Arpab (l’Agenzia regionale per l’ambiente). Nel 2017 questi dati vengono poi raccolti dall’Asm, l’Azienda sanitaria di Matera e dal comune di Rotondella. Intanto il sindaco emana un divieto di emungimento delle acque sotterranee nella zona della Trisaia. E nel 2018 gli organi di stampa danno notizia della terza inchiesta condotta negli anni sull’Itrec e il Centro Enea». L’accusa è nei confronti di tredici indagati, tutti direttori, dirigenti e tecnici della Sogin, dell’Ufficio ambiente della provincia di Matera, del centro ricerche Enea, del dipartimento fusione nucleare e tecnologie per la sicurezza dell’Enea, dell’ufficio suolo e rifiuti dell’Arpab di Matera. Insomma, nomi di un certo calibro della politica ambientale regionale e nazionale. Nell’udienza di fine mese il tribunale potentino riconoscerà la parte civile per i comuni di Rotondella e di Policoro; le associazioni Legambiente Basilicata, Cova Contro, ScanZiamo le scorie, Arci Basilicata e Arci La tarantola di Rotondella. In altre parole, riconoscerà quello che è un monitoraggio popolare, dal basso, talvolta sotterraneo eppure esistente, che ha cercato di contrastare il saccheggio dei beni comuni della Lucania. Che è invero il sedimento di memorie collettive e di lotte degli anni Settanta. Gli echi delle proteste di Scanzano, e di tutta la regione, risalgono infatti ai campeggi di lotta lungo la costa jonica di fine anni Settanta, da cui è nato il Coordinamento nazionale antinucleare e antimperialista promotore del referendum abrogativo del nucleare nel novembre 1987. L’opposizione al nucleare inizia a Montalto di Castro (VT) nel ’77. L’anno successivo, dal 29 luglio al 6 agosto, Radio Onda Rossa, gli autonomi di via dei Volsci di Roma insieme a compagni lucani, tra cui Casimiro Longaretti, organizzano un campeggio di lotta a Nova Siri Marina, a soli quattro chilometri dalla Trisaia. Militanti di Nova Siri, Rotondella, Policoro, Pisticci, Ferrandina, Valsinni, San Giorgio Lucano e di altri comuni della provincia di Matera si ritrovano a collaborare nella realizzazione dell’evento. Rispondono alla chiamata compagni dei paesi dell’alto Jonio cosentino, prossimi a Nova Siri, così come i pugliesi, in particolare i tarantini e i brindisini. Durante il campeggio vengono organizzati interventi ai cancelli dello zuccherificio di Policoro, distante una trentina di chilometri dal campeggio, e nell’area industriale della valle del fiume Basento, tra Pisticci Scalo e Ferrandina, dove sono situate l’Anic, la Liquichimica e altre piccole fabbriche dell’indotto. Si parla con i lavoratori delle condizioni di lavoro, dei turni massacranti, di lavoro straordinario non retribuito e tanto altro. Gli operai sembrano quasi stupiti nell’apprendere da ragazzi che vengono da lontano quanto le condizioni lavorative in fabbrica siano di assoluto sfruttamento: a loro basta fornire alla famiglia quel minimo di salario a fine mese per poter campare, e perciò sono grati a padroni e padrini per la “magnanimità”. Altri gruppi di campeggianti si spingono a un’oretta d’auto fino a Taranto ai cancelli dell’Italsider. Nelle piazze dei paesi dell’entroterra lucano nascono assemblee spontanee sui diritti negati e sul lavoro massacrante e sottopagato; sulle donne sfruttate nei pesanti lavori agricoli, dentro le serre a temperature insopportabili per la produzione di frutta e verdure, sottoposte al dileggio dell’agrario di turno o dei caporali. «Prima di allora – ricorda Casimiro Longaretti – si parlava della Trisaia come di un posto di lavoro ambito, con una paga mensile appetibile rispetto al salario da fame degli operai di altre categorie, ma nessuno aveva mai spiegato loro la pericolosità di quel tipo di lavoro e che tipo di materiali venissero trattati; nessuno aveva mai spiegato cosa comportasse stare all’interno di quel ciclo infernale, a contatto con materiale nucleare altamente radioattivo». Dopo una settimana di preparativi e informazione alla popolazione dei paesi limitrofi, si arriva alla manifestazione conclusiva: sabato 5 agosto 1978, giorno dell’anniversario della strage nucleare di Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, per mano degli Usa. Il corteo partecipatissimo si muove verso la Trisaia sulla statale 106: striscioni contro il nucleare, contro la galera e la repressione, contro gli agrari; cartelli con i nomi dei padroni che sfruttano gli operai, contro l’inettitudine dei sindacati incapaci di contrastare i caporali; striscioni che denunciano la permissività del Pci, la sua connivenza e il suo guadagno percentuale sull’assunzione dei suoi protetti nelle varie aziende del metapontino. L’anno successivo, più o meno nello stesso periodo e sempre all’interno della pineta a un passo dallo Jonio a Marina di Nova Siri, i comitati autonomi operai di Roma e i compagni lucani ripropongono l’impegno. La partecipazione al secondo campeggio No Nuke è addirittura superiore all’anno precedente. «Malgrado tutte le avversità create dal compromesso storico – ricorda Casimiro – la lotta contro l’Energia Padrona non si fermava. La domanda che ritornava spesso durante le settimane preparatorie, era relativa al perché proprio la Lucania fosse stata prescelta per ospitare l’energia nucleare. La risposta sintetizzava tutta la storia dell’Italia unita. La Basilicata è la regione del Mezzogiorno che storicamente ha fatto registrare meno tensioni sociali. I moti di piazza si erano fermati agli anni Cinquanta, con le lotte per le terre dell’ente per la riforma agraria. Nel contempo un grande bisogno di lavoro, rispetto al quale non è mai importata la qualità e se esso comportasse un particolare pericolo per l’ambiente e per la popolazione locale. Le lobby energetiche italiane non fecero mai mistero di questa scelta. I salari erano molto bassi in Lucania, e in più vi era l’opportunità per loro, con una maggiore produzione di energia, di attivare l’automazione delle linee di produzione nelle fabbriche del Nord, il che avrebbe permesso una drastica riduzione della mano d’opera e, di conseguenza, l’espulsione di migliaia di operai. Così, il ricatto del bisogno di lavoro tra le masse del Sud sarebbe enormemente cresciuto. La gente del posto, invece, considerava questa scelta come una manna dal cielo e poco importava loro della sicurezza e della qualità del lavoro». Le tensioni politiche nel paese si avvertono tutte durante gli incontri, nonostante il posto stupendo e il mare che ritma le giornate. Il “teorema Calogero” aleggia tutt’intorno, la retata repressiva del 7 aprile è ancora calda: un minestrone di accuse contro l’area dell’Autonomia operaia. Così il dibattito tra i campeggiatori è condizionato dall’inquietante retroscena. «Ancora oggi – ammette Casimiro – molte persone sono grate ai partecipanti dei due campeggi per aver dato loro una indicazione su quanto fosse pericoloso quello che si celava dietro le reti di recinzione del Cnen. Grazie a quelle mobilitazioni le persone hanno compreso che il potere delle lobby può essere sconfitto solamente prendendo coscienza e opponendosi compatti. È l’esempio di Scanzano Jonico del 2003». (francesco festa)
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Seppelliamo l’università (prima che lei seppellisca noi)
(disegno di martina di gennaro) Quello per un maggiore finanziamento dell’università pubblica italiana è senza dubbio uno dei tanti ritornelli che hanno compiuto la maggiore età riecheggiando nelle piazze italiane. Praticamente a vuoto: se c’è stata infatti qualche controtendenza al più generale trend di tagli alla spesa per la ricerca, è stato più per unicum occasionali (come le borse Pnrr post-emergenza Covid) che per la spinta arrivata dai movimenti di lotta. Tranne rare eccezioni, a scandire la richiesta sono sempre quelli che, eventualmente, ne trarrebbero giovamento in termini di assunzione (quella categoria di precari che restano fuori per un pelo dai meccanismi della cooptazione). A manifestarsi, anche a questo giro di boa, infatti, sono stati quasi solo l’attuale generazione di dottorandi, gli assegnisti e qualche ricercatore più agée. Pochissime voci si levano dai palazzi dorati dei baroni, dei loro coscritti e delle anime pie, e ne è una prova tangibile il sostegno della Conferenza dei rettori (Crui) al colpo di grazia targato Anna Maria Bernini. Men che meno protesta la base di giovani ricercatori che in questo quarto di secolo hanno transitato per l’accademia italiana, rimanendone tagliati fuori circa il novanta per cento di quelli che la tentano, cioè circa novemila dei diecimila dottorandi annui (di questi, il quattordici per cento circa ha intrapreso un esodo che li ha portati nelle università estere, mentre gli altri hanno trovato sbocchi in professioni diverse: il venti per cento, per esempio, ha ripiegato sull’insegnamento nel sistema scolastico). Queste persone sono felicemente uscite dal sistema torbido dell’università, fatto di ricatti, vessazioni, angherie, battaglie fra correnti, favoritismi, nepotismi e un livello qualitativo sempre più basso. Ben quattro su dieci non ripeterebbero l’esperienza del dottorato (dato Istat, 2018) tanto che viene da pensare che forse è anche in ragione di questo che non arriva, da loro, alcun invito a un ripensamento, né alcun appello a favore dei finanziamenti per la ricerca. Eppure farebbe la differenza, se oltre duecentomila ex-dottorandi (a fronte di centotrentamila strutturati accademici) lottassero per migliorare gli investimenti pubblici per quello che, nei loro anni migliori, hanno pensato potesse essere un modo utile di stare al mondo. Da questo dato di partenza andrebbe forse analizzata la condizione attuale di una battaglia che, nella sua perenne ricorsività, rischia di perdere a ogni giro credibilità e richiamo. Se a difendere l’idea di aumentare i finanziamenti all’attuale università è soprattutto chi ne avrebbe un diretto interesse, l’alveo all’interno del quale ci muoviamo diventa quello di una lotta meramente sindacale, una lotta, cioè, fatta per migliorare le condizioni di chi è già dentro o che, al massimo, a questo mondo gira un po’ intorno. Non che questo sia sbagliato, anzi: riconoscerla in questi termini permetterebbe probabilmente un cambio di strategia che forse la renderebbe efficace. Ma così non va. La richiesta di aumentare i finanziamenti alle università pubbliche, infatti, è sempre accompagnata da ragionamenti ideologici di pretesa di universalistica. Si cerca di argomentare rispetto al ruolo del sapere come strumento di crescita della società, o di convincere della necessità di investire nella ricerca per migliorare l’innovazione. Battaglie sacrosante, che dovrebbero trovare anzi ben più ampie alleanze sociali. Se solo fossero vere. Se cioè, davvero, l’università servisse a contribuire, anche per una piccola parte, al servizio pubblico cui pretende di farsi carico. Ancora: se fosse davvero tangibile queto presunto ruolo virtuoso dell’università nei processi democratici, nell’innovazione, nella produzione di conoscenza pubblica, il tema riguardante il suo futuro non travalicherebbe forse gli asfittici cortili delle facoltà? Resta da chiedersi quali siano i motivi per cui l’università ha perso la sua vocazione, e quindi anche la sua funzione. La colpa è forse della burocratizzazione che schiaccia la vita lavorativa degli accademici? Della perenne competizione cui sono costretti i gruppi di ricerca per praticare la loro sopravvivenza? Che abbia colpa un modello intrinsecamente disciplinare e incapace di trasformarsi per rispondere alle sfide dell’oggi? Che la responsabilità risieda, ancora, nei meccanismi di cooptazione che asfissiano il ricambio basato sul merito, incorporando personale sempre meno capace e libere? Probabilmente, la risposta è nella somma di tutte queste e molte altre cose. Il fatto centrale, tuttavia, è che non possiamo più ignorare il gap che c’è tra società e università, quella distanza che isola e fa riecheggiare nel vuoto la richiesta di adeguare, per esempio, i finanziamenti agli standard europei. Continuare a raccontare che possiamo spegnere l’incendio con un arredamento rinnovato, mentre fuori brucia l’intera città, non è utile alla causa, e venticinque anni di progressivo isolamento dovrebbero contribuire a farci venire il dubbio. Davvero si crede possibile che in un contesto in cui il disinvestimento pubblico colpisce direttamente la vita del paese, nei crudi termini materiali di infrastrutture scolastiche, mediche, di mobilità e trasporti, di tenuta dei territori ai disastri ambientali e idro-geologici si possano stringere alleanze, e pretendere  di mettere la salvaguardia dell’università tra le priorità delle lotte sociali? Allo stesso modo: si crede davvero che raggiungere standard di finanziamenti di livello europei contribuisca ad avere migliori università? Naturalmente non si tratta di buttare al fiume il bambino con l’acqua sporca. Siamo tutti consci di piccole ma importanti sacche di resistenza, che con salti carpiati ed esercizi faticosissimi mantengono viva l’eredità della via italiana. Ma se parliamo di una crisi sistemica, con danni alle fondamenta, non possiamo di certo cullarci sulle rare riserve indiane delle “eccellenze”. Ciò che dovremmo piuttosto fare è forse prendere atto della portata della sfida e contribuire a smantellare l’attuale ordine delle cose. Se il sistema è irriformabile, non lo sono le ragioni che gli hanno dato vita e l’hanno fatto esistere fino a oggi.  Non esistono scorciatoie: dobbiamo immaginare le universitas del domani, una evoluzione di quella di oggi che, agonizzante, muore. Rimanere aggrappati a piangerla e implorare i medici perché possa respirare altri cinque minuti sta facendo sfuggire di mano l’occasione di vederne rinascere i principi fondativi. Gli Stati Uniti sono i precursori dei peggiori trend che, a scalare toccano gli altri paesi occidentali, che prontamente gli vanno a ruota. Tra gli obiettivi dell’amministrazione Trump, in continuità con le tendenze già intuite dalle forze di mercato, c’è la definitiva distruzione dell’università americana e la sua trasformazione in fondazioni private che con quei meccanismi (di mercato) funzionino. La destra ha colto, in America, la crisi dell’università, e la sua separazione dalle necessità del corpo sociale per minarne i principi fondativi; per mettere in dubbio, cioè, l’idea che il sapere e la scienza siano strumenti utili al miglioramento delle condizioni della specie umana. Stanno distruggendo l’università per trasformarla in uno strumento al servizio del mercato, approfittando della crepa aperta con la società per trarne vantaggio. La destra mondiale sta dimostrando di avere, su questo come in altri campi, la carta vincente di volere immaginare il futuro. A differenza dei progressisti-liberali lavora ancora agli immaginari, piuttosto che aggrapparsi al mantenimento dello stato di cose presenti. Così è riuscita a concepire il superamento dell’università, chiaramente a favore degli interessi di mercato. E la sta praticando con misure draconiane.  Se le forze trasformative non si faranno carico di una capacità immaginativa all’altezza soccomberanno sotto gli stessi colpi, e l’unica differenza con gli Usa sarà nella tempistica: ci vorrà un po’ più di tempo per picconare una istituzione millenaria, elitaria e ancora molto radicata nella cultura europea, ma quel giorno arriverà, magari sull’onda di altre urgenze come un riarmo qualsiasi. Il solco è tracciato, e se non saremo capaci di cambiargli verso, ci resteremo seppelliti dentro. (lori sodo)
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Il bosco tra le piste Porsche è salvo, ma non l’ha salvato la Regione Puglia
(disegno di leMar) Si ferma il piano di sviluppo industriale del centro di sperimentazione automobilistica Nardò Technical Center nel Salento, di cui abbiamo scritto nei mesi passati. Lo annuncia Porsche nel pomeriggio di giovedì 27 marzo, in una nota in cui motiva la rinuncia al progetto con le attuali “prospettive sociali, ambientali ed economiche” e “le circostanze dell’industria automotive mondiale”. La buona notizia arriva dopo quasi venti mesi di lotte e resistenza da parte di associazioni e comitati, a un anno esatto dalla comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Emiliano di sospendere l’accordo di programma con NTC, a seguito dei richiami dalla Commissione europea. Nell’attesa che la Regione metta nero su bianco la revoca dell’accordo di programma con NTC, è tempo di riavvolgere il nastro e smontare le narrazioni che accompagnano la decisione di Porsche e stanno monopolizzando gli spazi di quotidiani e pagine d’informazione.  Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti NTC con nuove piste e impianti su duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco mediterraneo e 351 ettari espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico” connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza  pubblica. Infatti, alla distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di elisoccorso attrezzato con eliporto e annesse strutture sanitarie, un centro visite polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi estivi hanno interessato le campagne nei terreni limitrofi all’anello di Porsche non hanno visto i soccorsi di NTC. L’IMBROGLIO ECOLOGICO Le misure compensative alla distruzione del bosco sarebbero state la rinaturalizzazione e riforestazione delle aree intorno al perimetro di NTC, ma era impensabile rimpiazzare una comunità ecosistemica complessa e autosufficiente con filari di alberelli bisognosi di anni e acqua per crescere, con sole dodici specie vegetali contro le quattrocentoventi attestate nel bosco secolare. Per fare spazio alle piste di prova per auto elettriche, Porsche avrebbe tradito le promesse di sostenibilità del gruppo Volkswagen, di cui fa parte: “lasciare un mondo migliore per le generazioni future”, “sostenibilità significa mantenere a lungo termine sistemi ecologici, sociali ed economici sostenibili a livello globale, regionale e locale”. Per denunciare il massacro ambientale in un’area protetta e la perdita irreversibile di biodiversità, per resistere a questa truffa ai danni della natura e della comunità, si è costituito nell’autunno 2023 il comitato Custodi del bosco d’Arneo, che ha promosso un ricorso al Tar a gennaio 2024 insieme a Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, fino a ottenere dal commissario europeo per l’ambiente Sinkevičius, a nome della Commissione europea, la richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo il progetto e i presunti motivi di interesse pubblico. Nei mesi è cresciuta la solidarietà e la mobilitazione dell’opinione pubblica tedesca, con sit-in e manifestazioni a Stoccarda, patria di Porsche, una lettera aperta ai Ceo di Porsche e Volkswagen, con il supporto delle tre maggiori associazioni per la tutela della natura del Baden-Württemberg, Nabu, Bund e Lnv, di Robin Wood e Fern. L’alleanza tra associazioni pugliesi e tedesche ha portato la vicenda del bosco d’Arneo al consiglio di amministrazione Porsche durante l’annual general meeting di Stoccarda, la  riunione annuale degli shareholders. Lì i Custodi del bosco sono stati riconosciuti come legittimi interlocutori e portatori d’interesse, si è messa in luce tutta l’illogicità del piano e l’incoerenza con le politiche aziendali (seppur le risposte siano state vaghe e autoassolutorie nonostante le domande consegnate con tre giorni di anticipo). A novembre, durante una pacifica azione di protesta, gli attivisti di Robin Wood hanno piantato un leccio nella Porsche-Platz a Stoccarda, che è stata simbolicamente rinominata “Bosco d’Arneo-Platz”. Ancora, a dicembre le associazioni hanno inviato al presidente Emiliano un documento per chiedere chiarimenti in vista della scadenza della sospensiva e a gennaio una conferenza stampa con attivisti dalla Germania e dal Brasile ha continuato ad alimentare quel dibattito pubblico negato dalle istituzioni. A ridosso di Ferragosto (con le stesse tempistiche nemiche della partecipazione con cui un anno prima era stata diffusa la notizia del progetto), la Regione avvia il procedimento di definizione degli obiettivi di conservazione sito-specifici della Zona Speciale di Conservazione “Palude del Conte, dune di Punta Prosciutto”, in cui ricade il circuito NTC. In effetti, sulla Puglia incombono una procedura d’infrazione comunitaria del 2015 e una messa in mora del 2019 da parte della Commissione europea, per aver  omesso di stabilire nelle ZSC misure di conservazione necessarie per gli habitat naturali presenti. Ora, la Puglia conta ottanta siti tra ZSC e SIC, ma la Regione si attiva solo per quello che interessa Porsche. Dalle osservazioni presentate da alcune associazioni alla deliberazione regionale si scopre che già nel 2006 i proprietari delle piste avevano avuto l’autorizzazione all’ampliamento su un’area di circa trecentocinquanta ettari, con l’unica prescrizione di realizzare opere di rinaturalizzazione su una superficie pari all’estensione dell’habitat compromesso. L’intero quadro della vicenda mostra un pericoloso precedente in cui stretti vincoli ambientali non bastano più a proteggere un’area, un caso in cui il potere economico privato cattura la scelta pubblica, celando gli interessi del singolo operatore di mercato con il velo della pubblica utilità, a discapito dei diritti della collettività. Come argomenta Giovanni D’Elia, il forte potere economico di uno dei maggiori gruppi automobilistici a livello mondiale sarebbe stato in grado di influenzare gli attori istituzionali nella gestione di una vasta area boschiva tutelata dal diritto europeo. A marcare questo ricatto, nel bollettino ufficiale la Regione scriveva che la “mancata realizzazione delle quattro fasi del masterplan potrebbe comportare la dismissione dell’impianto di prova esistente”, in quanto “il mancato adeguamento alle nuove esigenze tecnologiche in corso nel settore automotive innescherebbe il processo di declino tecnologico e commerciale delle attuali piste”. In più minacciava che “con la dismissione delle attività, oltre a ricadute di natura socio-economica, verrebbe meno il presidio dell’area attualmente assicurato da NTC, aumentando di conseguenza il rischio di compromissione degli habitat”. Ora che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”, torna in mente la paura che le opposizioni al piano di ampliamento di NTC avrebbero indotto il disinteresse di Porsche a investire e a rimanere sul territorio. La tanto temuta “alternativa zero” che avrebbe comportato anche “l’esaurimento del positivo indotto socio-economico generato sul territorio, derivante dalla presenza di clienti e visitatori da tutto il mondo”, e paventata come “non percorribile” durante la seduta a Bari della V Commissione in Regione a novembre 2023, ora sta perfettamente in piedi e lo dice Porsche stessa. Ritorna il copione, tracciato da Naomi Klein nel saggio Shock economy, per cui le crisi vengono utilizzate, dietro il pretesto dell’emergenza, come un’opportunità per introdurre politiche economiche impopolari, quali deregolamentazioni e privatizzazioni. L’elemento chiave è la velocità con cui vengono attuate tali politiche, mentre il consenso popolare viene manipolato attraverso la paura e la propaganda. Approfittando del disorientamento e della paura causati dalla crisi, i governi agiscono rapidamente, spesso senza un adeguato dibattito pubblico. Dopo anni di disastri ecologici con ambiente e salute subordinati al profitto, è evidente come non possa esistere industria sostenibile sotto il capitalismo, sostenibilità e profitto non sono conciliabili. Il mese scorso perfino Ursula von der Leyen “si è arresa di fronte alla narrazione industriale: mantenere alta la competitività rispettando stringenti regole ambientali non è possibile, i conti non tornano”, scrive Irpi Media. IL SUD DEI RICATTI “Chance perse”, “colpo fatale al futuro”, “clima ostile all’impresa”: sono alcuni dei titoli allarmistici che occupano le pagine della stampa locale dopo la rinuncia di Porsche. La generica categoria degli ambientalisti contro cui stanno puntando il dito la Regione e le associazioni di categoria rimarca  la stigmatizzazione delle esperienza di attivazione sul territorio. Gli ambientalisti sono solo cittadini attenti (e incensurati) che chiedono di autodeterminarsi, che hanno utilizzato gli strumenti legislativi ordinari, senza generare problemi di ordine pubblico durante le manifestazioni, mentre chi cercava di aggirare i vincoli della giustizia erano altri. Non è una novità che al sud chi respinge modelli di sviluppo imposti dall’alto sia sempre tacciato di arretratezza e inciviltà, come fossimo poveri selvaggi da evangelizzare al progresso, secondo la buona tradizione coloniale. L’assessore Delli Noci, braccio destro di Emiliano, piange una “perdita enorme per il territorio”, “gli sforzi della Regione Puglia di attrarre investimenti da parte di grandi imprese vengono vanificati, con la grave perdita di occasioni di crescita, di nuovi posti di lavoro e di possibilità di sviluppo”. Lo stesso presidente Emiliano, interpellato dal Quotidiano di Puglia, dichiara: “Abbiamo perso una grande occasione di sviluppo, centinaia di posti di lavoro e un rimboschimento di cinquecento ettari al posto dei centocinquanta da abbattere”. E poi preme il pulsante delle emozioni di pancia: “C’è chi sarà felice e chi si rende conto di questi ragazzi e ragazze pugliesi che dovranno andar via a causa di questo mancato investimento”, senza ammettere che, se migliaia di pugliesi sono costretti a emigrare, la colpa è di politiche regionali capaci solo di svendere una terra pur di avere il prestigio di averlo concesso. Chi sottolinea la perdita di opportunità occupazionali, in questo perenne ricatto salute-lavoro che attanaglia il meridione, dimentica i fatti recenti che hanno interessato lavoratori di NTC, oltre alle vicende sindacali dei pochi salentini che lavorano per Porsche, sottopagati e minacciati di licenziamento: collaudatori e operai in presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda e in sciopero della fame nel 2017, costretti per vent’anni a condizioni di lavoro precarie. Alcuni collaudatori raccontano: “Lavoriamo rischiando la vita ogni giorno, quaranta ore alla settimana, per una paga misera”, “stare per ore con il piede fisso sull’acceleratore, lungo una pista che sembra non finire mai, con gli stessi contratti che si applicano ai commessi” e non metalmeccanici. I politici non hanno mai avuto scrupoli nell’alimentare il ricatto: la sindaca di Porto Cesareo accusava ogni tentativo di frenare il progetto di NTC come uno “schiaffo al territorio e alla comunità”, alle “tante attività che d’inverno farebbero la fame”. Un anno fa Confcommercio e Federalberghi si dicevano preoccupate che la sospensione al progetto di NTC potesse “influenzare negativamente l’economia locale”, essendo l’attività del centro prove “risorsa per centinaia di piccole e medie imprese e realtà del commercio locali” e “una risorsa vitale per le strutture ricettive”. Grazie a “clienti internazionali che visitano l’area tutto l’anno, il Salento viene promosso su scala globale”. Quando Emiliano dichiara che la rinuncia di Porsche “anche dal punto di vista ambientale è stato un danno, perché nel tempo avremmo quintuplicato l’area boschiva”, finge di non sapere che se quello che la Regione auspica è un’opera di riforestazione, questa è perseguibile senza bisogno di sacrificare gli ettari di bosco e le specie animali che lo abitano. Poi, la riforestazione resta una misura compensativa che (lo dice il nome) serve a bilanciare l’incidenza negativa significativa dell’intervento, quindi per logica non può essere motivo per attestare la bontà dell’intervento. L’amaro in bocca dei politici locali e delle associazioni di categoria alimenta la logica coloniale ed estrattiva in un territorio di conquista già devastato dal disseccamento degli ulivi, consumo di suolo e desertificazione, incendi sistematici, crisi idrica e siccità galoppante, land grabbing per impianti di fotovoltaico, agrivoltaico ed eolico (proprio in questi giorni a Livorno si tiene Confluenza, il primo incontro nazionale contro la speculazione energetica ed estrattivista sui territori). Sebbene la Puglia sia ancora in violazione della direttiva sui criteri sito-specifici e la vicenda di Porsche abbia mostrato come bastino forti poteri privati per far decadere i vincoli ambientali, la storia del bosco d’Arneo serve come monito: ciò che viene presentato come necessario e inevitabile non è che una contingenza. Gli imperativi del capitalismo non diventino una tara cognitiva che riduce la politica a spartizione di fette di potere. Il leccio che i Custodi del bosco e il Wwf hanno piantato lo scorso 24 gennaio a Lecce in viale De Pietro, nell’aiuola di fronte gli uffici di NTC, sta a ricordare che bisogna immaginare sempre altri scenari possibili oltre quello imposto. E serve raccontare i territori e le storie con tutto ciò che preme al loro ribaltamento, riappropriandosi della categoria dell’utopia, come scrive Alessandro Leogrande. “Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo sovvertimento”. (chiara romano)
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Università e precariato. Le prospettive della mobilitazione contro la riforma Bernini
(disegno di escif) A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà l’intero sistema universitario. Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo. Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e sfruttamento. A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però, lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza” ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore affligge l’università pubblica. Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi, incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca) dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo, numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture, digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno, concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane dalle grandi metropoli universitarie. Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro di cura. Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo. Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca, di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori. Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi agli atenei, di borse di studio e di ricerca. Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico, finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di influenzare didattica e ricerca. Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma, Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa: stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri, affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato. È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare. Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti. La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università. L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)
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