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Italia-Israele, il boicottaggio sportivo e la città blindata
(disegno di renaud eymony) “La stazione è blindata!” sentiamo appena arrivati a Udine con il treno. Sono le sei di sera del 14 ottobre e l’inizio della partita fra le nazionali maschili di calcio di Italia e Israele è previsto per le otto e quarantacinque. Due uscite della stazione sono state bloccate e il piazzale antistante è pieno di polizia e altre forze dell’ordine. I cestini sono stati sigillati con degli adesivi rossi con una scritta che ne comunica la chiusura a causa del corteo. Convocata dal Comitato per la Palestina di Udine, dal movimento BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), dalle Comunità palestinesi del Friuli e del Veneto, dall’associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo, comitato di Trieste e da Calcio e Rivoluzione, la manifestazione aveva l’obiettivo di denunciare l’uso dello sport come strumento di propaganda da parte di Israele e di chiedere al mondo sportivo italiano in generale, e al calcio in particolare, di prendere posizione. Si chiedeva allo stesso tempo alla Fifa di escludere le nazionali israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali, al pari di quanto fatto con le nazionali della Russia dopo l’attacco all’Ucraina del 2022. Con gli stessi obiettivi, altri presidi si sono svolti in contemporanea in diverse altre città italiane. Giusto un anno fa la nazionale israeliana era stata già ospitata a Udine per una partita contro l’Italia e un corteo simile aveva raccolto circa tremila presenze. Il tema dell’uso dello sport da parte di Israele per migliorare la propria immagine non è una novità: basti ricordare che già nel 2018 il Giro d’Italia partì da Gerusalemme, svolgendo poi due altre tappa in Israele. Più in generale lo sport italiano sembra avere una certa difficoltà nell’evitare il rapporto con Stati che presentano problematiche per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, come suggerisce il rapporto ormai di lunga durata della Federazione Italiana Giuoco Calcio con l’Arabia Saudita per l’organizzazione della Supercoppa italiana (2018, 2019, 2022, 2023, 2024 e dopo sono previste anche le prossime edizioni). Il concentramento in piazza della Repubblica è vicino alla stazione, bastano pochi minuti a piedi per arrivarci: quando arriviamo le strade intorno alla piazza sono già piene e gli spezzoni si sono costituiti. Sono arrivate oltre trecento adesioni alla convocazione e la diversità si nota anche a un’occhiata superficiale. Sono presenti i sindacati di base così come la Cgil, gruppi scout, gruppi autonomi e partiti, e un nutrito spezzone studentesco. La sensazione è che, a Trieste come a Udine, la mobilitazione per la Palestina abbia portato nello stesso corteo soggetti che in altri campi possono faticare a parlarsi, ma che si sono ritrovati almeno sulla partecipazione a queste iniziative. Via Roma, la strada che collega la piazza alla stazione, ha diversi negozi aperti, soprattutto venditori di kebab. «Credo che siano gli unici a lavorare ancora, quasi tutti gli altri negozi della città sono chiusi», ci fa notare una persona che abita a Udine. È così: il corteo inizia a snodarsi per le strade della città friulana e quando si entra in centro tante serrande sono abbassate. I pochi locali che hanno scelto di rimanere aperti hanno comunque cercato di proteggere le vetrine. Con una nota datata 9 ottobre il prefetto di Udine aveva proibito la vendita di bevande o cibo in contenitori di vetro o ceramica e aveva disposto la rimozione degli arredi urbani potenzialmente pericolosi, sostenendo che il corteo potesse essere “occasione per l’infiltrazione di frange violente, con rischi per l’incolumità di persone e cose”, contribuendo forse a creare un clima di timore nei confronti della manifestazione Il corteo è animato, c’è anche una murga molto vivace e composita che dà il ritmo. Ogni tanto qualcuno si affaccia dalle finestre, ma in generale sembra che parte della città si sia rintanata. La manifestazione attraversa delle strade vuote, presidiate dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Ci sono cartelli e striscioni di diverse realtà italiane, si fanno cori e si canta. A un certo punto, non lontano dal municipio, in pieno centro, una parte del corteo si lancia in un coro che invita a raggiungere lo stadio dove la partita sta ormai per iniziare. «Si vede che non sono di Udine, lo stadio da qui è molto lontano», dice qualcuno. In effetti lo stadio Friuli, noto anche come Bluenergy, dal nome dello sponsor principale, è collocato a circa quattro chilometri dal centro della città ed è uno dei pochi in Italia gestito dalla squadra che ci gioca, l’Udinese. Il corteo termina così nella grande piazza Primo maggio, accanto alla collina su cui è collocato il castello della città. La piazza è talmente grande, soprattutto senza le macchine che di solito lì sono parcheggiate, che il corteo, pur numeroso (si parla di dieci o quindicimila persone), si sparpaglia: qualcuno rimane nel giardino centrale ad ascoltare degli interventi, altri si avvicinano a un grande tessuto su cui sono stati scritti i nomi delle persone minorenni morte a Gaza dall’inizio dell’invasione israeliana fino a luglio 2025. A un tratto un nutrito gruppo di persone si dirige verso un lato della piazza, accanto al Santuario della beata Vergine delle grazie: è una delle due strade che dalla piazza che possono portare verso lo stadio. In breve la fila di agenti che blocca la strada viene rinforzata, qualcuno grida «Corteo! Corteo!», ma i due gruppi rimangono a confrontarsi per diversi minuti sulle stesse posizioni. Nella folla si vede uno striscione che chiede la liberazione di Marwan Barghouti. Alcune persone del servizio d’ordine della manifestazione vanno avanti e indietro per avvertire che eventuali spostamenti del corteo dalla piazza non sono stati concordati e che chi non vuole esporsi deve rimanere al centro della piazza. Poi il gruppo si sposta verso l’altra strada di uscita verso nord, dove trova un altro schieramento di polizia. Anche qui il confronto va avanti diversi minuti fino a quando la polizia decide di fare a più riprese ricorso agli idranti e ai lacrimogeni, che in diversi casi atterrano vicino al centro della piazza, respingendo indietro i manifestanti. In alto un elicottero la illumina con un potente faro, mentre gli scontri continuano ancora per circa un’ora. Poco a poco però la piazza si svuota, mentre la partita viene giocata in uno stadio semivuoto. Arriva la notizia di tredici persone fermate di cui poi due arrestate e di alcuni fogli di via dati dalla questura, sotto la quale nella notte si è formato un presidio di solidarietà. La manifestazione di Udine si inserisce all’interno di una mobilitazione regionale e nazionale intensa. Solo a Trieste, nelle ultime settimane, fra assemblee e cortei le iniziative sono state quasi quotidiane. Mentre la città si preparava al suo consueto programma autunnale di iniziative pubbliche, i cortei hanno portato la questione palestinese nel centro, raccogliendo una partecipazione non comune, in un posto in cui dopo poco si ha la sensazione di conoscere almeno di vista una buona percentuale di chi partecipa ai cortei e ai presidi. Nel caso della mobilitazione per la Palestina sembra essersi mosso anche chi è di solito meno incline a partecipare. In questi ultimi due mesi, in particolare, tante persone hanno percorso le vie centrali in cortei spontanei che nascevano da presidi chiamati anche all’ultimo momento. È stata sconvolta la viabilità e anche la preparazione di un evento come la Barcolana, nato come semplice regata e diventato una vetrina per la città, iniziativa fondamentale per il programma “politico” del sindaco Roberto Dipiazza. In occasione degli scioperi generali si è si è arrivati a bloccare per alcune ore il porto della città, con un varco il 22 settembre e due il 3 ottobre. (alessandro stoppoloni)
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Brutti sporchi e cattivi. La povertà come colpa nella tragedia di Castel d’Azzano
(disegno di martina di gennaro) Nel film di Scola del 1976, un giornalista si rivolge al protagonista (Nino Manfredi): «Lei, scusi, una parola per la tv?». «Vafangul’!». In quella commedia feroce la miseria non chiedeva compassione né sconti morali, ma rivelava tutta la violenza sociale delle baraccopoli romane e, implicitamente, dello Stato. Cinquant’anni dopo, la miseria è la stessa: brutta, sporca e cattiva. I fratelli Ramponi, (Franco, Dino e Maria Luisa) vivevano da anni isolati in un casolare fatiscente alla periferia di Castel d’Azzano, senza acqua né luce. All’alba del 14 ottobre, un’esplosione ha cancellato tutto, compresa la vita di tre carabinieri, Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà. “ECCO CHI SONO I FRATELLI RAMPONI” È cambiato il modo di raccontarla, la miseria. La tragedia è stata subito riportata come la follia di tre colpevoli assoluti. I giornali hanno fatto a gara a titolare “Chi sono i fratelli Ramponi”, e hanno scavato nei loro precedenti, nei loro rancori, nei video in cui denunciavano gli “avvocati che li hanno rovinati”. La narrazione di tutte le maggiori testate italiane costruisce una storia di malavita e devianza, dove il lessico sacrificale e religioso riservato ai carabinieri uccisi si accompagna a quello, vagamente moraleggiante, della follia che sostituisce il linguaggio della povertà per i Ramponi (diceva giustamente Ellen Raskin che “i poveri sono pazzi”). Su La Repubblica, un articolo ne fa quasi cronaca antropologica, titolando “vita da Medioevo” e evocando così, in un sol colpo, sia le condizioni materiali che un presunto arretramento morale e culturale. Il Corriere della Sera sposta il dramma sociale sul piano del patriottismo: “Il governo proclama il lutto nazionale.” In un altro articolo, Repubblica titola: “Fanno esplodere il casolare”, formulazione che chiude nell’intenzionalità criminale ogni spazio alla possibilità del “gesto disperato”, come recitava un titolo, sapientemente cassato dal direttore del giornale (fittizio?) in Sbatti il mostro in prima pagina. Non è il caso di fare polemica, spiegava Gian Maria Volonté: «Il lettore apre il giornale, guarda, se gli va legge, se non gli va tira via, ma senza la sensazione che gli vogliamo rompere i coglioni». UNA STORIA DI QUOTIDIANA DISPERAZIONE Ma dietro quei brutti volti sporchi dei Ramponi si vede chiaramente una vicenda molto più complessa di debiti, mutui, pignoramenti, battaglie legali, accuse incrociate, ignoranza e impotenza. Una storia che i giornali hanno preferito comprimere nella cornice perbene del delitto e del castigo. Tutto comincia nel 2014 con un mutuo da settantamila euro con il Credito Padano, destinato a un frutteto. Le rate cessano presto e la banca avvia una procedura esecutiva. I Ramponi sostengono invece, da anni, che la firma fosse falsa: «Ci hanno portato via cose per un milione di euro», diceva Maria Luisa in un video del 2024 (Corriere del Veneto). Quale che sia la verità legale, rimane il fatto che tre disgraziati, già in condizioni di povertà assoluta, si sono visti togliere l’ultimo riparo, un tetto scassato senza servizi. Alla fine hanno reagito, a dir poco, maldestramente. La Procura di Verona oggi contesta ai tre fratelli il reato di strage, ipotizzando che l’esplosione sia stata preparata per uccidere. Già l’anno scorso si erano barricati in casa minacciando di farla esplodere. Non c’è dubbio: oltre che brutti e sporchi, i Ramponi sono anche cattivi. Sarebbe da chiedersi se lo sarebbero stati, in condizioni sociali e di dignità diverse, o se sia un tratto antropologico dei poveri. CRISI ABITATIVA Eppure la notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che il paese sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più spesso, ai danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti: 8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non ce la faccio più”). 15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo. 16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello sfratto”. 19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni. La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da tutti. Tuttavia trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo impermeabile a ogni analisi e, in ultima analisi, rassicurante, funzionale allo status quo. Questa è una costante dei casi di cronaca simili a quelli citati. Diritto alla casa? Non se ne parla nemmeno. Povertà, ingiustizia sociale, sopruso, ignoranza? Neanche un accenno, se non carico di giudizio morale. Si sa tutto di come vivevano quei debosciati dei Ramponi, la loro follia, il degrado, la perversione del bisogno. La proprietà, invece, resta anonima e inviolabile: nessun giornale, fino al 15 ottobre, dice chi abbia promosso lo sgombero. Dalle notizie sul mutuo si può solo ipotizzare un contenzioso bancario. La povertà ha nome e volto, la proprietà mai; nel racconto mediatico, è una divinità incorporea che non si nomina. I Ramponi invece hanno il physique du rôle, sono perfetti nel loro ruolo “da Medioevo”. IL LINGUAGGIO DEL POTERE In questa asimmetria si gioca la partita morale, già persa, della nostra informazione. La legge, nel suo linguaggio neutro, non distingue tra disperazione e criminalità. Qui dovrebbe intervenire il giornalismo, che racconta la complessità del reale, problematizza, cerca le cause oltre la cronaca. Ma il linguaggio semplificante dei giornali mira a tutt’altro effetto: * I verbi d’azione (“fanno esplodere”, “innescano”, “provocano”) fissano la colpa nel gesto, non nel problema che a quel gesto ha portato. * Gli aggettivi morali (“folli”, “pericolosi”, “isolati”, “da Medioevo”) trasformano la miseria in colpa antropologica, e persino estetica. * L’assenza del soggetto economico protegge, evitando ogni possibilità di problematizzazione, la proprietà al di sopra della dignità delle persone, siano pure i Ramponi. * E infine, la centralità delle vittime in divisa riporta tutto al campo del sacrificio patriottico, dissolvendo ogni questione sociopolitica, o solo intellettualmente onesta, in un confuso senso di italianissimo orgoglio. Ecco come si costruisce il discorso pubblico in modo che rimanga entro i limiti dell’accettabile. “Ecco chi sono i fratelli Ramponi”, recitano i titoli. La risposta che danno i giornali impone una domanda unica coprendo quell’altra, più urgente, e canalizzando la curiosità del lettore su questi delinquenti senza appello. Ma l’altra domanda merita ancora di essere posta: perché erano ridotti a vivere in quelle condizioni? Sono vere le accuse che fanno di truffa e falso? Cosa spinge a far saltare in aria la propria casa, rischiando di morire, e di uccidere, pur di non lasciarla? In altri termini: gli interessi di chi stavano difendendo, a costo della propria vita, i tre carabinieri? Perché una cosa è certa: lo Stato era lì per tutelare una proprietà, non persone in difficoltà materiale e psicologica estrema, non per aiutare dei cittadini di serie B… Brutti, sporchi, e cattivi. (antonio malatesta)
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Generazioni in corteo a Roma. Dal 1991 al 4 ottobre per Gaza
(disegno di sam3) Sabato 4 ottobre. Come tanti e tante, più di un milione, ero a Roma a manifestare la mia solidarietà al popolo palestinese. Non solo alle donne e ai bambini palestinesi massacrati a Gaza dal 7 ottobre 2023. Non solo ai civili innocenti. Ero a Roma, in quell’enorme corteo, provenendo da una storia, da una genealogia di movimenti che, dai primi anni Novanta, mi ha permesso di attraversare fasi e contesti diversi, a partire dalle mobilitazioni contro la prima Guerra del Golfo nel 1991. La prima guerra in diretta televisiva, quel conflitto capitombolato nell’immaginario collettivo alla fine del Secolo Breve. Al tramonto di un periodo durante il quale le guerre accadevano soltanto in uno spazio/tempo assai lontano da noi. La guerra non ci apparteneva nel quotidiano. Quell’anno invece la guerra in Italia non è stata più fredda (quindi non dichiarata, fatta di bombe, Gladio et similia), da quando gli aviatori Bellini e Cocciolone (“pam pam gran pilota d’aviazion”, cantavano gli Onda Rossa Posse) furono abbattuti con il loro caccia Tornado dalla mortificata contraerea irachena. I due furono le pecore nere della macchina da guerra occidentale che, finalmente libera da lacci e lacciuoli della deterrenza, poteva manifestare la propria potenza militare. Prigionieri. Visi malconci su corpi sofferenti in uniforme. Carne da macello postmoderna velocemente dimenticata. Ecco. Il 12 gennaio 1991, qualche giorno prima che Cocciolone e Bellini venissero abbattuti, residui del movimento pacifista (Comiso/euromissili), forme epigonali di una stagione ormai tramontata (Autonomia/Coordinamento antinucleare antimperialista), frattaglie di un quadro politico in via di estinzione (Democrazia proletaria) e nuove forme di movimento (centri sociali in embrione, movimento studentesco post-Pantera) dettero vita a una grande manifestazione nazionale a Roma. Contro la guerra. Per la pace. Lo stesso giorno in cui il congresso Usa autorizzava l’inizio della Tempesta nel deserto. Le stesse ore in cui in Italia moriva lo scrittore Vasco Pratolini. In quel giorno di gennaio si rimescolarono molte carte della nostra storia contemporanea. Ma ciò che ci interessa qui sono le 200 mila persone che quel giorno animarono un corteo sorprendente (per tanti motivi). Una mobilitazione che non si vedeva da più di un decennio ai tempi. Che ripropose l’attualità di un passato che non passava e non è ancora passato. Ecco, quel corteo fu un corteo di massa. Un momento di incontro tra generazioni diverse. Quelle che ancora subivano un riflusso micidiale. E quelle che si affacciavano in un panorama politico sconosciuto. Le prime portatrici di pratiche, parole, simboli assai pesanti e (probabilmente) irripetibili, le seconde che provavano a costruire un viatico di incontro, ricomposizione, risignificazione. Nello stesso quadrante urbano di sabato 4 ottobre 2025 (San Giovanni, via Labicana, Esquilino) si verificarono scontri, tumulti tra autonomi e polizia. Inizio anni Novanta. Le schermaglie durarono fino a sera inoltrata. Ricordo, in modo fugace, i lacrimogeni lanciati dall’elicottero (rivisti anni dopo a Genova 2001). Non riuscivo a seguire quei corpi che, muovendosi insieme, dalla coda del corteo schizzavano fuori. E il fumo di auto incendiate. L’odore acre. Gli autonomi? Soltanto loro? Sabato 4 ottobre. Uno spezzone di corteo mescolato tra gli altri. Slogan forti, eco da stadio. Tra le altre riecheggiano rime desuete (carabiniere sbirro maledetto…), inattuali. Una parte di corteo incontrata per caso. Ci siamo mescolati. Forse riconoscendo delle maniere, dei dettagli organizzativi. Degli istinti. Intorno a noi niente nostalgia. Solo ragazzi e ragazze molto glamour. Tagli di capelli, occhiali da sole, cuffie. Generazione Z, come la chiamano. Ma già mascherata. “Siamo tutte antifasciste/Siamo tutte antisioniste”, rigorosamente al femminile. Nonostante le fila rispondessero a maschi davvero ben piantati. Visi scoperti, bandiere e cori al confine tra stadio e militanza. Eppure riconosco sguardi di compagni (maschi) con cui è immediato il riconoscersi. “Si aspetta il buio?”. Si aspetta il buio. Tutt’intorno sta accadendo qualcosa di inaspettato, stupefacente. C’è troppa gente. Né gli adulti, né i più giovani vi sono abituati. E poi le guardie non ci sono, o almeno non si vedono. Dopo il Colosseo, è quasi tramonto. Si aspettava il buio, no? Mano sulla spalla. Fumogeni. Ci si traveste (chi ha abiti con cui travestirsi). Lo spezzone si compatta e cambia pelle. Dietro di noi il corteo pacifico ci abbandona. Scarta di lato prendendo una scorciatoia. Ci ritroviamo le guardie, le camionette, a rimarcare che siamo la coda del corteo di massa (déjà-vu anni Settanta?). Ormai lo spezzone da bianco e svestito è diventato nero e mascherato. Basta davvero poco. Un gruppo si stacca. Prende una scalinata. Si mormora che la polizia stia attaccando. Questa è la scintilla, peregrina. Dal nostro punto di vista. In pochi si sono allontanati. Si è rimasti coesi. Intorno quiete. Corteo pacifico. Tamburi. Free Palestine. Noi però in nero stavamo. Non c’era occasione. Guardie lontane. Lontanissime. Arriviamo all’incrocio. Un paio di black dressed si staccano. Martello in mano crepano i vetri antiproiettile della filiale di una banca qualsiasi. Lo fanno quasi di sorpresa per noi. Giusto qualche minuto prima, ci eravamo messi a coprire una compagna che scriveva sul muro. Al martellatore nessuno copriva le spalle. Perché il 4 ottobre 2025, come in altri momenti in piazza nella storia, tutti e tutte sentiamo lo stesso mandato. E lo rivendichiamo. Sentirsi respinti a margine di un grande corteo ci può stare. Sentirsi gridare che non si vuole essere coinvolti in pratiche di piazza inaspettate e non concordate fa parte del confronto. D’altra parte, nel nostro paese, restiamo incapaci di fare i conti, in modo adulto, con il conflitto. Sia esso sociale, generazionale, familiare, culturale… A sinistra, più che a destra. Non a caso il 4 ottobre 2025, di sera, fascistelli di Casa Pound e affini hanno sguaiatamente messo in scena una jaquerie neofascista. Contro un bar à la page dell’Esquilino. La risposta, troppo facile, al lancio di bottiglie contro la loro sede avvenuto nel tardo pomeriggio… Ma vigliacchi erano e restano i (neo)fascisti. Si arriva a San Giovanni. Travestiti ancora. Neri ma più visibili. Respinti dal corteo molti si spogliano. Lo spogliarello avviene in penombra. Io che, sinceramente, non mi vesto e non mi svesto. Credo che tra il fumo, il buio, la confusione non bisogna nascondersi, mimetizzarsi. Quindi via i vestiti. Non siamo a Carnevale. Infatti. 4 ottobre. Sabato. Un giorno come gli altri. Non proprio. Un milione di persone in piazza mosse da un internazionalismo inaspettato, sorprendente. Generazioni diverse. Con il sole il corteo, gli incontri. Con il buio la contrapposizione radicale, gli scontri. Guerriglia urbana, come piace definirla all’informazione mainstream, provocata da una reazione scomposta delle forze dell’ordine piombate con idranti e manganelli su un manipolo di giovanissimi manifestanti che provavano a dare un senso al Blocchiamo tutto, dirigendosi verso Termini. Ma non è importante stabilire chi ha iniziato. Il corteo è stata la dimostrazione che, nel paese, esiste ancora un sentire radicale capace di dar vita a una mobilitazione di massa limpidamente politica e senza ambiguità. Aver paura del fuoco, del riot, stigmatizzare certe pratiche di piazza, considerare gli scontri come manifestazione di un estremismo infantile, le barricate come fardelli incombenti sulla integrità del movimento. Etichettare le donne (tante) e gli uomini protagonisti della contrapposizione con la polizia come provocatori, infiltrati, rivela la persistenza delle scorie di un passato con cui, ancora, non si riesce a fare i conti. Il 4 ottobre 2025 è, forse, una cesura politica e storica simile a quella avvenuta il 13 gennaio 1991, quando una nuova generazione manifestò l’inevitabilità del conflitto. Della contrapposizione, che non ha altra forma in piazza se non quella dello scontro. Quella del violare il rigore metropolitano. Ma tra i facinorosi accusati di devastazione, saccheggio, oltraggio e resistenza, si sviluppa un tremore, un’energia, uno slancio che diventano parti costitutive dello stare in piazza. Prendersi dei rischi. Non sorprendersi della violenza poliziesca. Non subire. Non denunciare a posteriori soprusi. Non lamentarsi il giorno dopo. A ciascuno il suo. E poi, diciamoci la verità. Chi non ha paura di stare negli scontri. Come si supera la paura? Non è mica un giro sull’ottovolante. Si rischia: di essere arrestati, di farsi male, di morire accidentalmente. Una paura che si supera, forse, solo se non hai nulla da perdere. Ma chi non ha nulla da perdere? (-ma)
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L’inizio di una cosa. Cronache e spunti dai giorni del Blocchiamo tutto
(disegno di dalila amendola) Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4 ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza. È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7 ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa “intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere? Che ognuno declini il “noi” come preferisce. Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22 settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento, deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti. Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia, da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione centrale. E così in decine di altre città d’Italia. Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina, nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo lontano. Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura. Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla ancora. Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di materiale bellico, al terminal Spinelli. Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera: nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini, improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso. La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti, nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa, all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni, i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni indotti e diffusa indifferenza.  La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene, trasgredire le regole è diventato legittimo. Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata. Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona; esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto questo.  A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città. Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università: striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo. Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa: bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni. La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla. Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva – tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio, aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito: polizia e giornalisti, non pervenuti. Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare? A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio; ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche. L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo. I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo metterci in ascolto. (redazione monitor)
italia
Per un embargo totale a Israele. Dal blocco di Genova alle navi in transito a Salerno
(disegno di escif) La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice 1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod. Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo. La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre, la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di Gaza. La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal porto di Salerno, come già successo più volte in passato. Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei principali produttori di armi israeliani”. Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio 2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un convoglio di aiuti umanitari. Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di nastri per mitragliatrici e per cannoni. Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato fatto ai materiali in transito, o sbarcati. La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno 2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa (Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane, hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i diritti umani). È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando “macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale produttore israeliano di sistemi d’arma.  La nave è giunta a destinazione ad Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle autorità preposte al controllo? Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano. È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa chiudere i porti rispetto a Israele». Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1 luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni) a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini. A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera. (bds salerno)
italia
Non è solo una partita: boicottaggio di Italia-Israele ad Udine
Il 14 ottobre si terrà ad Udine la partita Italia vs Israele valevole per le qualificazioni al prossimo mondiale di calcio maschile. Un ulteriore evento di sportwashing in cui lo stato israeliano costruisce la sua vetrina e la sua immagine nell’arena pubblica internazionale. Questo evento ha attirato l’attenzione dei comitati locali propal che si stanno […]
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La barriera invisibile. Impressioni da La luna e i calanchi di Aliano
(disegno di sam3) Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico. Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra destinazione. La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino; infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si trovano le spoglie dell’autore torinese. Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso. In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”. Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena. Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica. La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata, c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni, Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il festival. Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa, aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa. Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da essa, si rafforza. Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia – declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese. Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane. Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!». Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare consigli che crede di portata generale. Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi. Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale: quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano. Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una scelta. (marco patruno)
italia
Malinconico agosto
(disegno di canemorto) Succede che nel cuore dell’estate uno torni “giù” per qualche giorno, nel posto in cui è cresciuto. Per noi meridionali che viviamo a Nord, questa espressione – tornare giù – è densa di significati. Si tratta spesso di un viaggio a ritroso in cui quella locuzione – giù – può alludere a stati mentali, a sentimenti, a roba dell’anima, più che della geografia. E succede che fai quattro passi in quei luoghi consueti, dove hai camminato milioni di volte e che ormai riconosci a stento; e più che passeggiare stai eseguendo un obbligo, un dovere verso la tua memoria; guardare e guardarsi intorno. Case, piazze, strade, si cammina in una specie di sonnambulismo torbido. Ma quando incroci qualcuno, uno sconosciuto, un passante qualsiasi e ti capita di guardare le facce della gente – i volti e le loro maschere provvisorie – quella è un’altra storia; quello è lo sguardo che conta, se vuoi capire davvero le cose. E infatti sono  le facce a parlarmi silenziosamente, in questa mia escursione in terra irpina. Facce di gente normale che incontri per strada; facce che senza volere comunicano, parlano, si lamentano o urlano senza aprire bocca; e ti muovono qualcosa dentro, una sensazione più forte della solita noia o delusione che questi ritorni mi provocano. Perché colgo un aura di malinconia che quei volti emanano – una tristezza profonda, insondabile, eppure evidente, irredimibile. Naturalmente nessuno evoca esplicitamente questo senso di malinconia, ognuno tiene coscienziosamente in piedi la rappresentazione della propria vita agostana, tra spezzoni di vacanze e complicate reunion familiari al capezzale di vecchi con l’Alzheimer. Ma il messaggio mi arriva dentro, diretto, potente; e mi sembra inequivocabile – frutto della misteriosa telepatia del quotidiano, quella per cui basta incrociare uno sguardo per indovinare un dolore o un pezzo di vita. È pur vero che di solito vediamo quello che vogliamo vedere. Riflettiamo quello che siamo. I luoghi, i contesti, persino le pietre sono specchi che parlano la nostra lingua e ci rispondono accordandosi col nostro umore. Eppure stavolta la tristezza che aleggia nelle piazzette, nei bar, negli androni, non mi sembra propriamente un illusione. È qualcosa che si tocca, quasi.  Qualcosa che irrancidisce sotto al sole agostano. E mentre sto lì a decifrare questa sensazione che aleggia nell’aria ferma, da qualche fondo di coscienza emerge un’altra parola chiave: sconfitta. E ci sta:  la sconfitta si accoppia bene alla tristezza. Forse sto cominciando a capire qualcosa di più. Le persone sembrano così tristi perché danno l’idea di aver perso qualcosa – come reduci di guerra, però sbarbati, ben vestiti e ben nutriti. Una guerra non convenzionale, combattuta a un altro livello, su altri campi di battaglia. Ecco: il concetto di “sconfitta” è un passo avanti; siamo dentro una malinconia da perdita irreversibile. Questo è ciò che vedo nelle facce della gente che si trascina sui marciapiedi sconnessi, dello scopino che la mattina presto pulisce i resti della miserabile movida in centro, dei padri di famiglia che tornano a casa con un sacchetto della farmacia strascinando i piedi, di qualche raro giovanotto laccato e disorientato che a mezzogiorno si è appena alzato dal letto; dei pensionati che cercano con lo sguardo le luminarie agostane e non le trovano perché il comune ha finito i soldi e per quest’anno nisba. E le facce delle famiglie obese: padre madre e figlio unico, tutte taglia XXL, che litigano stancamente strattonandosi l’uno con l’altro. Ah, l’obesità: anche quella sembra parlarmi. L’obesità mi sembra in aumento, ma non è una grassezza gaudente, di chi si abbuffa per onorare la vita; no, è un lasciarsi andare – soprattutto nella palude familiare –, uno scivolamento lento, una obesità interiore, potremmo dire, una pesantezza del cuore, perché tanto non c’è molto altro da fare che entrare e uscire da rosticcerie e pizzerie e pasticcerie e riempirsi l’anima di trigliceridi. A onor del vero non mancano, la mattina presto, camminatori e runner – in luccicanti e incongrui completini colorati alla moda; ma anche loro  sembra che con quello sforzo stiano più che altro aderendo a un dettame di religiosità civile: provare a tenersi in forma è l’adempimento di un obbligo, l’adesione a un modello social o televisivo; vanno a correre la mattina presto con lo stesso spirito con cui i loro genitori andavano in chiesa. Tristezza e sconfitta. Abbasso la testa pure io. Scanso le merde dei cani e continuo ad arrovellarmi. Passo attraverso luoghi consueti ma ormai estranei. La Galleria Mancini è diventata un antro buio e deserto. Quarant’anni anni fa era l’epicentro civile della città, la sede della gloriosa US Avellino, dove tutti gli sfaccendati soggiornavano cercando di afferrare qualche novità di mercato o di spogliatoio; in questo periodo dell’anno se eri fortunato potevi incrociare don Antonio Sibilia, il presidente, di ritorno dall’Hotel Sheraton di Milano – l’uomo di cui eravamo orgogliosissimi: quale altra squadra poteva vantare un patron accusato di tentato omicidio di un procuratore della Repubblica? Adesso, quel civico è diventato, chissà perché, un rifugio di dentisti – e non trovo nessun nesso tra calcio di provincia e odontoiatria. E del resto perché mi metto a cercare nessi misteriosi tra le cose, tra i ricordi e il presente? Credo ancora alle mappe occulte? Al Segreto celato nel quotidiano? E la modestissima zona industriale, rachitica come un ragazzino mal cresciuto. Un furgoncino scarica tre operai manutentori che entrano alla Fiat, simbolo di eterne promesse di riscatto che finiscono in cassa integrazione e incentivi all’esodo. E anche l’esodo potrebbe acquisire la maiuscola e diventare l’Esodo! E assurgere finalmente a figura biblica: l’uscita da un lavoro di merda verso la terra promessa della precarietà (di merda), dei lavoretti col cognato, dell’orticello di famiglia per risparmiare sulla spesa. Perdita, sconfitta, tristezza. E a forza di rimuginare, finalmente mi si accende una lampadina di razionalità: è tutta colpa di Orhan Pamuk se sono così cupamente meditabondo. Ho in valigia Il libro nero – sono alla duecentesima lettura – e mi sono semplicemente autosuggestionato.  È lui, Pamuk, il cantore della malinconia del Bosforo, della decadenza della vecchia Istambul della sua adolescenza. La tristezza della sua prosa è contagiosa, come una scoria radioattiva. Era il  protagonista del suo libro che – moderno Hurufi inconsapevole – leggeva le lettere sui volti dei suoi concittadini, quelle lettere spaventose che definivano destini futuri e malinconie struggenti. È Pamuk che racconta del senso di sconfitta che tutti i turchi della sua generazione si portavano dietro: violentemente occidentalizzati dal terribile padre Ataturk, pieni di sensi di colpa sia per non essere riusciti a diventare davvero occidentali adempiendo al comando paterno,  sia per averci provato tradendo le glorie arcaiche – persi per sempre nel limbo struggente dei vinti, degli incompiuti. Si ma che diavolo c’entra l’Irpinia con l’Anatolia? Questa correlazione, per quanto stramba, non mi abbandona. Di quale sconfitta è portatrice la giovane ragazza che sistema nella sua vetrina mutande, calzini e capi di abbigliamento da quattro euro e cinquanta? E il vecchio barista scocciato che raccatta i giornali unti e guarda l’orologio alle sei di sera e non vede l’ora di tirare giù la serranda e andarsi a chiudere in casa? E gli anziani che deambulano come piccioni frastornati alla ricerca di un cornicione che li ripari dal sole. Che sconfitta storica stanno portando sulle loro spalle inconsapevoli, tutti costoro – bravi cristiani, innocenti, stanchi e sudati? Il Comune è in dissesto cronico permanente. Non ci sono soldi per fare nulla, neanche le mediocri  feste di paese che negli anni scorsi servivano a sollazzare il popolino – sempre pronto a lamentarsi dell’ospedale o delle strade, ma altrettanto pronto a lanciarsi nei karaoke più pacchiani. Il quadro politico è all’insegna della improvvisazione più dilettantesca, dopo l’esaurimento del vecchio ceto democristian-piddino che aveva gestito il passaggio alla seconda repubblica. Agosto in Irpinia è tradizionalmente il mese della festa, quella del rientro dei migranti, il periodo in cui le famiglie si riuniscono e si scambiano auspici e speranze per l’autunno che arriva. Ma quest’anno non mi pare vibri nessun tipo di allegria in giro. Probabilmente quando muoiono gli anziani, anche i ritorni di massa si diradano. La ricostruzione è completata – con frequenti buchi che resteranno tali per l’eternità, come la bocca sdentata di un vecchio o di un infante. Il centro storico mi sembra sempre vuoto e il generoso tentativo degli urbanisti di “riprodurlo” a tavolino, mi lascia una sensazione di tristezza ancora più devastante, come un allestimento scenico che alla millesima replica non convince più nessuno. Il 23 novembre del 1980 poche pietre erano rimaste in piedi, in quella parte antica della città. Hai voglia a ricostruire, a salvare gli archi o ricreare le topografie. La città aveva perso il suo cuore e nessun trapianto glielo avrebbe restituito. Passo davanti alla Torre dell’Orologio, anch’essa ricostruita. Mi ricordo che proprio là sotto c’era la vecchia sede di Dp; l’avevano sgomberata nell’83, mi pare, spostando le poche suppellettili col biroccio di Mandulino, che guidava a colpi di bestemmie un cavallo più anziano di lui. Intorno era tutto pericolosamente in bilico. La Torre spezzata a metà aveva troneggiato per anni su quel panorama di rovine, diventando forse il vero simbolo della città. Avrebbero dovuto lasciarla così. Adesso la nuova versione se ne sta lì, anonima, inutile, nessuno la guarda – mentre il moncone spezzato era monito, memoria, persino bellezza.  Poco più in là un brutto monumento  celebra le centinaia di caduti di quella notte  fatale, la nostra Laylatul Qadr, la nostra notte del Destino. Ma i vivi? Chi li celebra? Chi ne ascolta i lamenti sommessi? Piano piano mi si schiarisce il quadro. Si, effettivamente anche questi luoghi sono reduci da una guerra persa. Un conflitto a bassa intensità durato decenni. Anche qui la malinconia è quella di una occasione sfuggita per sempre, di un qualche tipo di tradimento. La festa è finita. I soldi sono arrivati, sono passati e non si è riusciti a usarli per dare un profilo, un volto, un anima, una vocazione nuova a questi luoghi. E sono rimasti in sospeso  tra l’antica storia di tufi sbriciolati  ed una malamodernizzazione che non porta futuro, lavoro, speranze. I fondi di coesione, il Pnrr, i progetti europei, il super-bonus e i fondi regionali: Godot attende le ultime gocce di droga che possono tenere in piedi il corpaccione esausto della provincia. Ecco la malinconia pervasiva e infettante: gli irpini, a cominciare dal capoluogo, sono in eterna transizione, come congelati dentro un lungo estenuante dopoguerra. E il terremoto è il trauma originario da cui non si guarisce – e la gente è consapevole che il meglio (se così si può dire) è ormai alle spalle. L’età delle speranze, dei progetti, dei ragazzini per strada a giocare a pallone tra barracane e tubi innocenti, dei morti seppelliti in fretta per cullare l’utopia di un riscatto, di un salto in avanti della storia. Ne parlo col mio amico Giovanni Marino, davanti alla vecchia prefettura, nella speranza che la sua saggezza diradi queste nebbie di pessimismo. Giovanni è un agitatore culturale instancabile, pubblica libri sulla memoria civile dell’Irpinia povera, lancia scrittori di periferia, organizza convegni e feste dell’Unità, legge e studia come un ventenne anche se ormai ne ha più di settanta. Giovanni è una nemesi vivente: è il cugino basso, frenetico e comunista del grande Ciriaco De Mita e prima o dopo dovrò decidermi a romanzare la  sua storia familiare. Ne verrebbe un bel racconto di queste terre e dell’Italia. Mentre il grande statista cresceva, alto, serafico, scalatore nato, nutrendosi nel brodo primordiale della Dc irpina, il cuginetto più giovane e ribelle, figlio del ramo povero della tribù, diventava attivista, sindacalista, entusiasta e velleitario prefiguratore di un altra idea di Irpinia e di cultura. Una specie di confronto a distanza tra due mondi dentro la stessa famiglia, lo stesso paese, le stesse piazzette dissestate, la stessa storia. E chiacchierando con lui – l’intellettuale di provincia pieno di ardori e buone intenzioni e proprio per questo trascurato e negletto, come nelle sceneggiature di Ettore Scola – mi viene fuori la più scontata delle conclusioni: il clima di sconfitta e tristezza che si respira qui è quello dell’Italia intera; Avellino è la metafora della nazione (e De Mita buonanima ne sarebbe stato orgoglioso); un paese senza sfide, senza speranze, senza rivolte. Dove non ci sono neanche più i soldi per festa/farina/forca e le badanti in giro sono più numerose dei giovanotti, che appena possono tagliano la corda verso l’estero o rosicchiano la rendita familiare aspettando chissà quale svolta che non arriverà. I turchi sotto Erdogan hanno avuto la loro botta adrenalinica: venti anni di bolla immobiliare, di tsunami di calcestruzzo e farlocche suggestioni neo-ottomane.  E anche la vicina Napoli emette sussulti al ritmo della macarena turistica, inseguendo disperate speranze di ricchezza, di rinascita, di emancipazione (ma quando mai un popolo si è riscattato vendendosi e friggendo zeppole e panzerotti?). Qua invece, in mezzo al verde suntuoso delle “zone interne”, nessuno reagisce più a niente. Il malato sembra rassegnato al peggio. I beati anni del terremoto. La modernità che arrivava a stanarci; non avevamo  vecchi minareti anatolici  da contemplare – i nostri, di minareti erano tutti crollati; e i tronconi rimasti ci facevano vergognare, come anche le pezze, gli stracci, i tufi senza intonaco, i cani liberi per strada, e i ragazzotti a mettersi in fila per farsi ammazzare dall’ amianto dell’Isochimica. E nessun runner  girava allora ad autoconsolarsi con una corsetta – eravamo gente seria, pia e incattivita. Meglio anticipare il rientro a Nord. Un salto al camposanto e la promessa silenziosa di non tornare – i buoni propositi che durano sempre pochi mesi. (giovanni iozzoli)
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Sullo Stretto il ponte non lo vogliono. Cronaca di un corteo a Messina
(fotografia di nm) Il 9 agosto un fiume di gente ha attraversato le strade di Messina per dire no al ponte. Più di diecimila persone sono scese in strada lanciando una sfida al ministro Salvini che, qualche giorno prima, durante l’approvazione del progetto definitivo del ponte da parte del Cipess, si era precipitato in città – accolto da una decina di sostenitori tra cui il sindaco della città Basile – per presentare in pompa magna il progetto, con l’avvio dei  cantieri che avverrà entro la fine del 2025, e che prevede l’inizio dei lavori a fine 2025 e soprattutto a fine degli espropri. Al termine dell’incontro, con un fare provocatorio, Salvini aveva lanciato dei bacini ai manifestanti “No ponte” che lo aspettavano fuori dal luogo in cui si teneva l’evento. La manifestazione, partita alle diciotto da piazza Cairoli, ha attraversato le principale arterie del centro, giungendo due ore dopo a piazza Duomo. Sul camion con le bandiere della Palestina e dei No ponte, campeggiava la fotografia di Santino Bonfiglio, militante morto qualche mese fa, a cui è stato dedicato il corteo. Appena dietro il camion, uno striscione con la scritta No ponte, e un pugno chiuso che spezza in due il ponte che unisce le due sponde dello Stretto. Tra i manifestanti tanta gente comune e qualche volto noto, come Antonio Mazzeo, membro dell’equipaggio della Freedom Flotilla che ha provato a rompere l’assedio a Gaza. Il corteo, sebbene sia stato circondato da un numero enorme di agenti in tenuta antisommossa – evidente il clima di intimidazione, nella nuova cornice securitaria sublimatasi con l’approvazione del ddl sicurezza – è riuscito ad affrontare con maturità le diverse provocazioni ricevute, a cominciare dal volo basso dell’elicottero della polizia al momento della partenza del corteo, e alcuni spostamenti anomali di contingenti verso una parte di manifestanti in alcuni tratti della manifestazione. Un altro elemento da sottolineare è stata la decisione di eliminare qualsiasi caratterizzazione partitica, collocando a inizio corteo le bandiere No ponte, e spostando in coda tutti i militanti con le bandiere dei propri partiti e gruppi politici. Nei primi interventi i manifestanti denunciano il tentativo di colonizzazione del progetto ponte promosso dal governo Meloni, la Società Stretto di Messina e Webuild, che alimentano la macchina ponte. In particolare il ruolo di WeBuild (ex Salini-Impregilo), a cui vengono appaltati diversi cantieri in Italia, che ha visto schizzare verso l’alto le azioni in borsa dopo l’annuncio della costruzione del ponte del 2023. Il progetto di WeBuild si realizzerà attraverso un utilizzo di tecniche invasive, cantierizzazione diffusa e alimentando criticità legate allo smaltimento di materiali tossici, come quella già verificatasi per la costruzione del raddoppio ferroviario sulla Messina-Catania, che ha inquinato di arsenico l’area di Contesse, alla periferia sud della città. (fotografia di nm) Tutte criticità che preoccupano la popolazione, visto che le aree di cantiere, tra stoccaggio di materiali e costruzione dei cavi, interesseranno tutta la città, compresi i quartieri che si trovano a più di venti chilometri di distanza rispetto a dove sorgeranno i pilastri del ponte. Il tutto verrà facilitato dal decreto infrastrutture, che per accelerare la costruzione prevede la possibilità di cantierizzazione per fasi. Dopo circa trenta minuti dalla partenza del corteo, mentre una signora esce dal proprio balcone di casa sventolando una bandiera della Palestina, un altro intervento dal camion ricorda che i territori sono di chi li abita e se ne prende cura. Un riferimento è alla legge 2001, che come avvenuto con la Tav in Val di Susa, per la costruzione delle opere pubbliche non prevede alcuna consultazione con le popolazioni locali. Tra i quattordici miliardi che serviranno per la costruzione di questa grande opera, una buona parte delle risorse potrebbe essere utilizzata invece per intervenire sulla gestione idrica o sul dissesto idrogeologico. Messina registra perdite della rete idrica che costringono la popolazione ad avere l’acqua solo per alcune ore al giorno. O la sanità, con la sua crisi economica strutturale che impedisce l’incremento dei posti letto negli ospedali, e le  assunzioni di ausiliari, Oss, infermieri e medici specializzati. (fotografia di nm) Altrettanto menzognera resta la manovra del governo di far passare il ponte come un’infrastruttura militare che rafforza i sistemi di mobilità in una regione piena di basi Nato, come emergerebbe dalla recente delibera Iropi che giustificherebbe la costruzione del ponte per facilitare lo spostamento di truppe militari nel Mediterraneo. Secondo Antonio Mazzeo a oggi non esiste alcun documento ufficiale che consideri il ponte funzionale allo spostamento di truppe, mezzi e armamenti. Eppure il dispositivo ponte continua ad essere alimentato non solo dal governo ma anche dalla magistratura, come dimostrato dalla sentenza del tribunale di Roma che ha condannato i militanti No ponte – che avevano presentato un ricorso contro la costruzione da parte della Società Stretto di Messina – al pagamento di 340 mila euro di spese legali. Ed è per questo che appena il corteo arriva a piazza Duomo, un ultimo intervento dal camion ricorda come il movimento No ponte non può fare affidamento su nessun soggetto istituzionale, consigliere o partito, ma solo sulle forze degli stessi militanti che con passione e energia continuano a sostenere la mobilitazione, da più di venti anni. Gli stessi manifestanti ricordano ai reparti mobili schierati davanti e in coda al corteo che i militanti continueranno la battaglia, sia nei cantieri dove partiranno i lavori, che davanti a ogni casa dove verrà eseguito lo sfratto per l’esproprio. Prima di entrare in piazza un ultimo coro arriva dalla folla: “Lo stretto di Messina non si tocca, lo difenderemo con la lotta!” (giuseppe mammana)
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La goccia e la pietra rovente. Cartoline dall’estate pugliese
(copertina di federico manzone) Riproponiamo a due anni di distanza queste cartoline dall’estate pugliese, dal numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città. Nel frattempo la svendita del territorio procede di emergenza in emergenza: la xylella degli ulivi, lo spopolamento, l’assalto a terre e coste per impianti eolici e fotovoltaici, il consumo di suolo per resort di lusso, la crisi idrica, la devastazione degli incendi. Mentre gli amministratori locali sembrano agiti da forze estranee e i sedicenti intellettuali fomentano lo storytelling dominante, due vicende esemplari su tutte. Lo scorso maggio i comuni attraversati dal gasdotto Tap hanno ratificato un accordo con la multinazionale che prevede il ritiro della costituzione di parte civile nel processo contro Tap, la rinuncia alle compensazioni per la costruzione dell’opera (e per il suo previsto raddoppio) e la rinuncia a qualsiasi diritto nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti, in cambio di otto milioni da parte di Tap, spiccioli per comprare il consenso del territorio, delegittimando le ragioni di chi ha lottato contro il gasdotto. La svendita continua con la sponsorizzazione da parte di Tap di festival culturali e rassegne di eventi estivi. In un paese del basso Salento, la sindaca ha emesso un’ordinanza con cui vieta iniziative politiche, manifestazioni e volantinaggi nel centro storico per la stagione estiva. Ha giustificato il divieto sottolineando l’importanza di non creare disagi ai turisti “interessati alle attività di puro svago” e di preservare la reputazione del paese, che farebbe parte dei “borghi più belli d’Italia”. La pietra è sempre più rovente, le poche sparute gocce evaporano senza tempo di scorrere. *     *     * la prima volta che ho sentito dire in salento ero ragazzina e ascoltavo una canzone di biagio antonacci che passava in ogni radio quell’estate. si era sempre usato nel salento, e nemmeno così spesso come adesso, una decina di anni dopo, che sembra un marchio registrato quando chiedo al bar del mio paese un caffè in ghiaccio col latte di mandorla e mi sento rispondere “ah, un caffè salentino!” e ritrovo lo stesso marchio in un autogrill lontano dalla puglia. anche se la musica cavalcava la moda della “vacanza in salento” a noi non importava di avere turisti tra i piedi, perché sceglievamo gli scogli più inaccessibili per passare le giornate al mare senza adulti nei paraggi. sempre in quegli anni, in viaggio a parigi trovo un enorme padiglione nella piazza della tour montparnasse con una mappa della mia regione e la scritta #weareinpuglia, e ingenuamente col mio primo smartphone scatto una foto. estate dopo estate spuntano sempre più lidi privati, alberghi, lounge bar e cocktail bar sul mare, bistrot, bancarelle di souvenir, eventi musicali invischiati in una falsa coscienza che li spaccia per rituali arcaici. negli anni quell’hashtag ha scolpito un salento ridotto a “terra del rimorso” fuori dalla storia, un non-luogo dove non c’è altro che tamburelli, balli e taralli. IL MONDO DEI (CON)VINTI riemergo come sputata dalla risacca delle pagine di recita estiva di christa wolf, libro che da qualche giorno ho finito ma continuo a riaprire, quasi che impastarmi a parole e immagini possa farmi capacitare che quello che ho letto è ancora lì. un gruppo di amici abbandona la città per cercare nella campagna isolata un rifugio alla delusione per un mondo in cui non si riconosce. alle prime pagine sono pronta a difendermi dalla nausea per la retorica della vita campestre come idillio della pienezza esistenziale, del margine come ultimo presidio di resistenza. invece lo scudo non serve, il loro non è un ritirarsi, un ripiegamento, è più una dislocazione per non lasciar opacizzare l’utopia ma senza clemenza per se stessi e gli altri. “adesso! così ci urlavano le cose pretendendo la liberazione. con la stessa intensità con cui esse erano costrette a essere se stesse, dovevamo essere noi stessi”, e mi sembra che la storia venga a stanarmi nell’interstizio dove cercavo di nascondermi. è una domenica di fine luglio, le stesse strade che fino a pochi mesi fa erano vuote ora sono un ingorgo di auto con targhe straniere, mentre palchi per spettacoli e tavolini dei ristoranti corrodono lo spazio pubblico. la campagna che domina appena fuori i piccoli nuclei abitati potrebbe essere la stessa del libro, ma qui è costretta a fare da sfondo a b&b, masserie tradite e convertite in resort di lusso, ville da affittare e sentieri da percorrere a piedi seguendo gli itinerari di qualche guida turistica che investe i passi di un significato artefatto (come se per camminare sullo sterrato servisse un animo sensibile e nobile). nelle pagine di recita estiva ricorre la foga dei figli dei contadini di sbarazzarsi di quello che resta nelle case che ereditano. utensili, vasellame, mobili che hanno accompagnato i lavori e le vite dei padri sono tracce di un mondo con cui i figli non vogliono mai più avere a che fare. mi torna in mente una scena minima che ho spiato qualche sera prima tra le stanze del museo della civiltà contadina di calimera. ascolto una signora che guida la compagna turista attraverso l’esposizione leggendo i nomi sulle targhette e traducendo il dialetto (con la pronuncia esotica volutamente marcata di chi quello stesso dialetto lo scansa come gergo volgare). davanti a un telaio antico per tessere a mano aggiunge “a casa di mia madre ne avevamo uno così, poi non so che fine ha fatto”, ma un po’ se ne vergogna e aspetta in bilico di scorgere nello sguardo dell’interlocutrice tracce di disprezzo per le origini umili o di ammirazione per le radici autentiche. come se la rimozione e la negazione di essere appartenuti a una cultura subalterna siano stati una tappa ineludibile per accedere al benessere (decenni più tardi che altrove). barattare tutto quello che avevano per emanciparsi alle novità e riguadagnare in fretta i gradini verso la vera civiltà. come una scena di lazzaro felice in cui il ragazzo riconosce delle erbe spontanee commestibili (che oggi troneggiano nei menu gourmet) ai margini delle rotaie di una periferia metropolitana, ma gli ex contadini memori delle condizioni di sfruttamento a cui erano costretti per lavorare la terra non vogliono saperne di raccoglierle, a costo di sfamarsi con patatine scadute rubate in una stazione di servizio. oltre ad aver dimenticato, qui gli “autoctoni” hanno presto introiettato la condizione di abitanti di un’enclave turistica elitaria e si sono prodigati (alcuni inconsapevolmente) ad aggiungere tinte pittoresche alle narrazioni fasulle di turismo e folklore, mentre le foto di scontrini sui social per lamentarsi dei prezzi assurdi di un caffè o di un rustico restano campo di commenti atrofici. intorno alle reti che hanno creduto di lacerare con l’emancipazione e il progresso se ne sono annodate di nuove: dallo sfruttamento dei latifondisti e delle manifatture di tabacco a quello mercificante della monocultura turistica. TURISMO O TERRORISMO cerco di non ascoltare le voci che dalla televisione ammoniscono di bere acqua e stare all’ombra, ma in uno di quei programmi saturi di già-detto che riempiono le fasce orarie in cui la gente in vacanza non vuole essere ammorbata coi tg mi capita un’intervista amichevole a massimo bray (il suo nome non mi suona vuoto perché bray è leccese e ha una casa vacanze nel mio paese; a fine intervista non manca di confessare il suo amore nostalgico per “la vecchia bottega alimentare di un paesino in provincia di lecce, marittima”). dopo gli orpelli di ministro presidente direttore, bray intraprende una crociata in difesa dei borghi e della gestione che l’italia ne fa. “l’italia è il paese che ha inventato i festival, abbiamo creato comunità grazie alla cultura”. poi stizzito reclama che “questa forma di pessimismo che ci assale deve finire, noi dobbiamo essere orgogliosi che si venga in italia”, perché “di fronte a una vita frenetica noi siamo capaci di far stare centinaia di persone in un piccolo borgo, farlo rivivere e creare quel senso di comunità”. li chiamano borghi per omologare sotto un’unica etichetta centinaia di paesi, negando a ognuno il suo carattere, la storia, la voce, il dialetto, i canti, le tradizioni che gli appartengono, schiacciando sotto una parola sola tutto quello che suona bene chiamare identità. la chiamano comunità come se la prossimità fisica di troppe persone nello stesso posto implicasse la vicinanza d’animo. poi chi l’ha detto che il borgo voglia una seconda vita da terra colonizzata? meglio morire di incuria e abbandono che schiavo della religione del marketing. non che ci sia tanto da vantarsi per il dilagare di festival, happening, performance, che incarnano il paradigma della transitorietà, dello straordinario contro l’ordinario, grandi eventi che attraggono turisti e fanno da alibi a privatizzazioni spietate invece che manutenzione sul territorio e assunzioni permanenti delle persone che quei luoghi li vivono (e che i festival sfiorano appena). forse il senso di comunità che sbandierano non è riuscito a sopravvivere all’emigrazione e allo spopolamento perché a questi paesi è stata negata l’ovvietà di immaginare un futuro. senza un orizzonte, condivisione, solidarietà, convivialità restano slogan per guide turistiche e costumi rigidi entro cui i paesani vengono relegati finendo per recitare se stessi. penso al ciclo di isteresi, un grafico di una curva chiusa su un libro di fisica all’università: certi materiali sottoposti all’azione di un campo magnetico non tornano più allo stato vergine quando l’azione cessa, restano magnetizzati anche in assenza di corrente, e ogni sostanza ha una temperatura critica oltre cui perde le proprietà che la caratterizzano. guardo le spiagge e le strade che si gonfiano fino a esplodere di corpi e auto, poi tornano sventrate e deserte per un po’ di mesi in un ciclo che si ripete. non riesco a convincermi che viviamo solo in funzione della stagione (come se l’estate fosse l’unica che conta in tutto l’anno, il resto è letargo), che siamo un posto per villeggiatura, che le case se ne stanno vuote aspettando di essere invase senza risentire dell’oltraggio che subiscono. non riesco a convincermi che non sappiamo più cosa vuol dire abitare, creare abiti, abitudini, forme di vita comune. davvero abitare è sinonimo di consumare? che cosa sono i paesi se li pensiamo a partire dall’abitare? penso ad antonio neiwiller che proprio in un paese della provincia di lecce nell’estate del 1991 diceva “io appartengo a questa terra, a questa parte della terra che ora non riconosco più. io voglio difendere differenze, particolarità, gesti, atti, io voglio ancora difendere questa parte del mondo. chi l’ha detto che tutto questo debba essere violentato così”. SE MI SVENDO NON COLLASSO a giugno una scuola di melendugno, insieme al comune e all’azienda tap (ancora sotto processo per inquinamento ambientale e contaminazione della falda acquifera), comunica di voler dedicare ai ragazzi alberi che saranno piantati nei terreni dell’impianto della multinazionale per raggiungere obiettivi di sostenibilità. dopo l’arte pubblica asservita a riqualificazioni che pretendono di risanare gli spazi urbani mentre li convertono in luoghi a uso e consumo del turismo, il capitalismo si appropria di pratiche virtuose svuotandole di senso e piegandole a scopi altri. e noi a testa bassa raccogliamo le noccioline che l’invasore ci lancia tra le sbarre dello zoo. se c’è una costante, è il salento che si vergogna di se stesso. la musica abiura le sue radici povere, travisa la funzione del canto e camuffa le condizioni bestiali di lavoro dei braccianti con un contesto bucolico in cui la miseria è ridotta a feticcio che incipria di esotico il panorama. ciò che doveva curare e salvare (il canto e la musica come terapia per il tarantismo) accelera la distruzione di un territorio e della sua storia violentata dal marketing. le contraddizioni annichilite (non è poi lo stesso meridione che tacciano di corruzione, mafia e arretratezza?), le complessità appiattite a “un’immagine dimezzata”, diceva gianni bosio: “il buon selvaggio, l’uomo che è buono in quanto dimensione astorica, l’uomo folklorico. è questa la sola misura lecita per l’uomo storico contemporaneo e subalterno per partecipare al festino della cultura politica della classe dominante. l’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo della fabbrica e dei campi, viene semplicemente ignorato”. l’istituto carpitella, fondato nel ’97 per difendere e diffondere la cultura orale del salento, tradisce radicalmente i propri scopi un anno dopo con il festival della notte della taranta che ha monopolizzato tutte le energie e i soldi nella sua organizzazione, e ogni sforzo per ricerca, studio e archiviazione della memoria tradizionale è stato stroncato (già dal palco di melpignano nella prima notte della taranta uccio aloisi ammoniva, prima ancora di battere sui tamburi, “nu s’ave perdere tiempu”, non si deve perdere tempo). schiere di assessori e di esperti usano la “pizzica” come strumento per costruirsi carriere in politica, tanti mitridate che hanno ceduto passano dalla critica totale alla collaborazione con la notte della taranta contendendosi palchi e cachet, dando l’impressione che l’interesse personale e il ritorno di immagine contino sempre più di ogni altra cosa. sembrano i protagonisti di una ballata di brecht, “oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo, ho visto solo il dito, tutto insanguinato, allora in fretta ho detto che era di mio gusto”. roberto raheli degli aramirè, editore illuminato e unico difensore incorrotto di quella cultura, che abbandonato da tutti ha abbandonato tutto nel 2007, denunciava la “deliberata manipolazione della realtà storica a uso pubblico, attraverso la creazione di una serie di icone, come quella del ragno e del tamburello, o quella del salento edonistico-dionisiaco dove tradizionalmente i contadini al termine del lavoro si riunivano nell’aia della masseria a ballare sfrenatamente la pizzica”. pasolini sperava che gli uomini avrebbero risperimentato “il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza”. ma ora che la sintesi linguistica della modernità ha abolito il passato prossimo e l’imperfetto, non ci resta che dissotterrare un passato remoto. un passato che, oltre ad aver dimenticato, abbiamo tradito: i canti che si ascoltano dai concerti restano solo “quello sforzo ingrato di dirsi vivi in una lingua morta”, per dirla con gabriele frasca; il dialetto mortificato nei ritornelli in bocca ai “grandi” nomi dello spettacolo chiamati a partecipare al festival e a distogliere ogni tentativo di scorgere il marcio delle cose, le ragazzine che credono di conoscere il ballo tradizionale del loro territorio e invece copiano le movenze seducenti del corpo di ballo sul palco disegnate da qualche coreografo, ignare che la pizzica si ballava forse due volte l’anno con una serie di restrizioni, con garbo e pudore. abbiamo tradito tutto il possibile, non c’è più niente e nessuno da tradire. che fare allora, se “tutto è in armonia nel modo sbagliato e ogni cosa va in frantumi nel modo giusto” (ancora recita estiva)? che fare dei paesi una volta che la cultura che li ha animati si è estinta con i suoi abitanti? che fare della cultura popolare, delle tradizioni, dei riti, una volta che è venuto meno il mondo che li ha generati? ATROCE PAESE CHE AMO partecipo alla presentazione di un libro di poesie in un giardino appartato dagli odori dei ristoranti e dalla musica dei locali. mi ritrovo a voler scappare tra una platea che sembra aver eletto se stessa a casta superiore. si riconoscono al primo sguardo i turisti in abiti da vacanza (e i non-turisti ne imitano lo stile): camicie di lino, cappelli panama, lunghi vestiti e caftani che cercano di apparire frugali ma so troppo bene quanti empori vendono quei tessuti spacciandoli per opere di tessitrici locali che conservano l’arte del telaio (mentre gli unici telai superstiti sfornano tessuti per dior e lecce conferisce cittadinanze onorarie a fashion designer che scelgono il salento come vetrina) per abboccare all’umiltà apparente. sono gli stessi turisti che strisciano con innaturale lentezza dentro auto troppo grosse per attraversare indenni le stradine dei paesi non progettate per il grande traffico estivo. assistono alle letture di versi come a una liturgia consolatoria che celebra il loro status di cittadini edotti all’arte, civili, che il massimo picco di adattamento all’habitat lo raggiungono mangiando la frisa con le mani e non con le posate. li riconosci mentre vagano alla ricerca di tipicità: la pasta fatta in casa diventa esclusiva dei ristoranti, il grano arso una ricercatezza culinaria e solo cinquant’anni fa l’emblema della miseria, ottenuto dalle ultime spighe bruciate sfuggite alla mietitura manuale. però loro si autoassolvono eleggendo franco arminio a profeta della nostra epoca quando canta il “bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli alberi e riconosce il vento”. eppure gli risponde decenni prima errico malatesta: “se tu leggi i poeti li trovi tutti pieni di entusiasmo per la vita campestre. ma la verità è che i poeti che stampano libri, la terra non l’hanno zappata mai, e quelli che la zappano davvero si ammazzano di fatica, muoiono di fame, vivono peggio delle bestie, e sono calcolati come gente da nulla”. quando non c’è più un punto dove posso volgere lo sguardo senza che si facciano incontro con il loro carico pensieri caustici mi arrendo a fare un giro in campagna, anche se questo si traduce in attraversare ettari di rami secchi e tronchi sgozzati quando va bene, odore di bruciato e residui di roghi quando va male. stavolta il suono delle campane di capre e pecore mi anticipa i passi, il pastore che conosco bene quando mi vede spegne la radiolina con l’antenna che si porta nella tracolla per farsi compagnia nella desolazione dei campi. senza preamboli di circostanza mi racconta delle sanzioni di un controllo asl per piccole falle nel laboratorio in cui lavora il latte. lo aveva piastrellato e messo a norma quando uno dei figli ha deciso di continuare il suo mestiere nonostante lui lo scoraggiasse di continuo, anche con rabbia, perché “non deve fare ‘sta vita, con il mondo di oggi esci pazzo”. eppure il controllo ispettivo si incaglia per l’assenza di un certo formato specifico di trappole per topi, così ai soldi spesi per sistemare il laboratorio si aggiungono i soldi per la sanzione e le altre modifiche imposte. ormai il prezzo dei prodotti detta gli standard di lavorazione, una piccola azienda zootecnica ha le stesse spese di un’impresa di allevamento a prescindere dalla dimensione, per il mercato cinque capre o cinquecento è la stessa cosa. penso ai villani di donpasta, a santino galasso di taranto che sorride mentre dice “t’ha mettre ‘a cape ssott’ e ha sce ‘nnanz”, devi abbassare la testa e andare avanti, a totò fundarò di alcamo che fa la conserva di pomodoro a casa e si incazza perché secondo la legge quella conserva non può esistere, è illegale, ma è impossibile produrre cibi genuini rispettando le regole. penso che anche la cultura genuina può essere solo clandestina. penso a civitonia, un festival per civita di bagnoregio che in clandestinità esiste senza essere accaduto. “sappiamo bene quanto il mantra dell’accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni parola dissenziente”, scrive giovanni attili sul libro che dà un supporto fisico all’immaginare di civitonia. “sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca” (una volta in una traduzione di guido ceronetti avevo letto “si stanca qualsiasi parola, di più non puoi fargli dire”). eppure attili insiste, “la consapevolezza della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai atrofizzate con l’obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci immobilizza”. “riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento”, leggo sotto il titolo del libro, e infatti civitonia è anche un affronto al pensiero di chi governa quel territorio, è un festival che rinunciando al suo accadere si è salvato dall’essere fagocitato dall’industria turistica o dalle politiche urbane che piegano l’arte a progetti di presunta riqualificazione buoni solo per ingrassare coi fondi pubblici. “ad accendersi ancora è il segnale che dovrei fare qualcosa. ogni giorno. insomma io sono come un quadro segnaletico dove si accendono continuamente lampadine di diversi colori. sicuramente produce un bel fregio luccicante. solo che non serve a niente”, sottolineo tra le pagine di recita estiva. in matematica essere impossibilitati a eseguire operazioni è la molla per immaginare, per costruire domini numerici più ampi: dai numeri naturali agli interi negativi, dai numeri reali agli immaginari, domini che contengono ciascuno il precedente e dai loro spalti si ha una vista sempre più ampia e sfaccettata. se x2+1 resiste alla possibilità per i polinomi di essere scomposti in monomi lineari, si può scomporre abbandonando il campo dei reali e sollevandosi nel dominio degli immaginari. cosa serve allora? ammettere che i nostri mezzi sono difettati e monchi, e quindi cercare scarti, biforcazioni possibili, non soluzioni miracolose ma indizi minuti per scardinare l’inerzia e scommettere su un futuro differente. ammettere che il buio ci soffoca e cercare barlumi, intermittenze, una ricomparsa delle lucciole, forse destinate a morire travolte dalla luce sporca delle stelle di un hotel. presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare processi condivisi, farsi carico del mostruoso ma cercare angoli da cui guardarlo senza esserne assuefatti. cercare di arrivare a un risultato per vie traverse mi riporta alla matematica, al metodo dimostrativo per assurdo: si ottiene il vero facendo scaturire l’impossibile a partire dal falso, ci si situa in ciò che si ritiene essere falso e si mostra come questo conduca a una conclusione impossibile. per assurdo si dimostra un teorema fondamentale di cantor che dice che dato un insieme ci sono sempre più parti di quanti siano i suoi elementi (si dimostra che non ci possono essere tante parti quanti elementi e si sa che non possono essercene meno). il teorema di cantor confuta il dilagare dell’individualismo: il fatto che in un insieme qualunque ci siano più parti che elementi significa che la profonda risorsa di ciò che è collettivo prevale su quella dei singoli, come il coro prevaleva nelle esecuzioni musicali spontanee. fa eco il barone rampante: “le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone”. allora organizzarsi, agitarsi, frantumare la cappa del disincanto, distogliere lo sguardo dai fari del treno in corsa che sta per travolgerci. brecht incalza: “vi accontenterete del cielo che splende? sarete sfamati? sarete consolati? il mondo guarda a voi con la sua ultima speranza. più a lungo voi non potete essere contenti di una goccia simile sulla pietra rovente”. mi illudo che scrivere possa far sopravvivere qualcosa, strappare qualche brandello al vuoto che si scava, tracciare da qualche parte un solco. ma suona amaro il monito di rina durante, “tu capisci che in questa provincia senza fine rimani solo tu ultimo cavaliere senza né briglia né staffe a portare il peso di una storia che finisce”. mi illudo che cucire insieme parole che mi stagnano dentro possa avvicinarmi a una realtà che non so comprendere né contenere (e quando riesco mi lacera, perché la stessa vanga può scavare solchi dove seminare o sotterrare cadaveri). ma di fatto sto scrivendo per prendere le distanze, per espellere la materia scottante ingabbiandola in queste cartoline. allora se pure il racconto brucia la sua materia per alimentarsi, almeno che produca fiamma anziché riscaldare le ceneri. (chiara romano)
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