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Oltre il banco degli imputati. La resistenza palestinese sotto processo a L’Aquila
(disegno di giancarlo savino) Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente accelerazione, ora procede a intermittenza. Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga traversata, ancora storditi dalla confusione. La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben definito. Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo processo. PASSAGGI MINORI Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio, mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il blocco navale israeliano. Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano, nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana. RITORNO IN AULA Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco, visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è arrivati fin qui, con traduzioni mancanti. È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come “brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice insediamento civile. È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto, chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del territorio in Cisgiordania. Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No. Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per lui, a dire cos’è Avnei Hefetz. COS’È AVNEI HEFETZ? Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati. Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti, in  un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica, messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale. Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile, ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta, volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato. Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine. Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un check-point. Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi capi, riconosce subito che è un testo di denuncia. Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun riscontro. Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita. «Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli. «No». LE PIETRE DEL DESIDERIO Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz. Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”) si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione, scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio. Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare come strategico punto di sorveglianza. L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel 2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma radicalmente la geografia dell’area. Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini, ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz, isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla colonia. OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario. Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e chi fa del terrore un metodo ordinario di governo. Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il fine che viene  attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale. Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire, costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché abbandoni la propria terra? Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili, che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere. L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania. La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso, perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino. In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati dello stesso progetto. La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza, entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita e della sua possibilità di restare su quella terra. Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e al suo scopo di occupazione? Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto. A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo” guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
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La Puglia alle urne tra bonapartismo e trasformismo
(disegno di escif) In un saggio del 1993 dal titolo Democrazia o bonapartismo, Domenico Losurdo si interrogava sul delicato equilibrio che regge le democrazie liberali, fondato su un suffragio universale fragile che rischiava uno svuotamento dall’interno della sua funzione principale: assicurare la rappresentanza di ogni faccia della società. Una deriva che Losurdo vedeva nella crescente concezione della politica come acclamazione di un leader carismatico e investito da una moltitudine variegata e con sempre meno riferimenti, in un mondo che di lì a poco avrebbe visto il pieno compimento della mediatizzazione della politica con l’avvento di Berlusconi al governo. Un bonapartismo soft che anche l’Italia avrebbe ereditato dagli schemi politici statunitensi, fondati su collegi uninominali e leadership riconoscibili, carismatiche ed espressione più di interessi organizzati che di ampie basi sociali. Questo dilemma si ripropone, oggi, proprio nella regione di provenienza del filosofo: la Puglia. La regione adriatica, ormai annoverata tra le roccaforti del centro-sinistra dopo vent’anni di governo regionale ininterrotto, è chiamata al voto il 23 e il 24 novembre. Un voto che la larga maggioranza dei commentatori ritiene dall’esito scontato, ma che nasconde al suo interno tutte le contraddizioni di una politica ormai sempre meno pratica pubblica e sempre più mera gestione. Una deriva manageriale che si esprime in primis nel candidato favorito alla presidenza: Antonio Decaro. Una carriera politica iniziata come assessore (in quota tecnica) alla mobilità e al traffico della città di Bari della giunta Emiliano, dopo un’esperienza in consiglio regionale, viene eletto sindaco del capoluogo pugliese per due mandati consecutivi. Una figura molto popolare che ha sempre saputo mobilitare un elettorato trasversale, convinto da una pratica amministrativa fondata sulle opere pubbliche, vuoi per una deformazione professionale – Decaro è ingegnere civile –, vuoi perché permettono di fornire una testimonianza materiale dell’operato amministrativo. Un cavalcavia o una strada sono indicatori molto più immediati, ma soprattutto concreti, che può apprezzare anche un elettorato disattento, come quello la cui massima espressione politica si riduce al voto ogni tot. anni. Decaro è l’espressione più riuscita di un modello ben preciso, quello dell’amministratore operoso, che controlla i cantieri in città, che informa la cittadinanza attraverso i suoi canali personali con video e foto, e che parla poco di politica. Una deriva, quella del disaccoppiamento tra politica e amministrazione che in Puglia ha contagiato non poche amministrazioni comunali. A tal proposito, rimane esemplare un’affermazione del sindaco di Conversano – cittadina a trenta chilometri dal capoluogo – che durante un consiglio comunale affermò come lui non facesse politica, bensì il suo lavoro. Un aspetto complementare a quello della spoliticizzazione delle cariche elettive è quello della formazione di un vero e proprio “blocco di amministratori” che si esprime in una ufficiosa formazione politica: il partito degli amministratori. Una formazione che si è rivelata fondamentale per chiunque abbia aspirazioni di governo in una regione sempre più sbilanciata verso il proprio capoluogo. Difatti, la probabile elezione di Decaro vedrebbe per la seconda volta consecutiva il passaggio dalla carica di sindaco di Bari a quella di presidente della Puglia – dopo l’elezione e i due mandati di Michele Emiliano prima sindaco di Bari fino al 2014 e poi presidente di regione fino al 2025. Ed è proprio il dualismo tra i due “baresi” Emiliano e Decaro quello che ha deciso negli ultimi anni le sorti politiche del resto della regione, specialmente nell’area della città metropolitana di Bari. Secondo uno schema sempre simile. In prossimità delle elezioni comunali nei vari territori, il notabile barese di turno – Emiliano o Decaro – prova a insediare un sindaco “amico”, espressione della propria corrente così da avere più peso con cui presentarsi sul palcoscenico regionale. Un processo che ha permesso a molti personaggi dal percorso politico “indeciso” e accidentato di riciclarsi come “espressione civica di centrosinistra”, nonostante a volte provenissero dal centrodestra. Così da innescare una certa dinamica di sostituzione tra politica e amministrazione, in cui il riferimento nel comune per il “centro” non era più la segreteria locale del principale partito di area, il Partito democratico, bensì l’amministratore – perché portatore di un pacchetto di voti sicuro e testato, e poco importa la sua provenienza politica. Insomma, il “vecchio” trasformismo. Solo che oggi si chiama “civismo”. Il risultato è una classe politica “poco politica” che ha ingrossato le fila del centrosinistra pugliese poiché assicurava loro un posto entro cui perpetuarsi; una “borghesia lazzarona” – definizione di Alessandro Leogrande – incastrata in giochi di potere stantii. Assistiamo pertanto ad agili cambi di casacca, come quello di Luciana Laera, ex sindaca di Putignano, in provincia di Bari, ed espressione della corrente decariana, ora candidata nelle liste di Fratelli d’Italia; oppure Stefano Lacatena, consigliere regionale uscente passato da Forza Italia alla maggioranza di centrosinistra, non riconfermato ed escluso dalle liste che sconsolato dichiara “probabilmente la mia casa è il centrodestra”. Il voto di novembre sembra sancire un passo ulteriore verso l’indebolimento della dialettica democratica pugliese, inaugurando una stagione di unanimità. La campagna elettorale e il voto sembrano essere contrattempi sconvenienti davanti a un esito che si preannuncia scontato e con differenze a due cifre tra le coalizioni principali. A destra, hanno temporeggiato fino all’ultimo nell’annuncio dell’agnello sacrificale da immolare sull’altare della certa sconfitta; scelta poi ricaduta su un anonimo tecnico la cui massima esperienza politica è stata perdere contro Emiliano nella corsa a sindaco di Bari nel 2004. Mentre nel centrosinistra – che accoglie un po’ tutti – c’è la corsa alla foto con il presidente in pectore Decaro, per posizionarsi velocemente nella scia del leader che torna nella sua regione dopo un anno “di Erasmus” a Bruxelles, dove il parlamento europeo è ormai appetibile solo per chi vuole poi candidarsi come presidente di regione, o l’ha già fatto e ha terminato i mandati. In tutto questo, ad ammutolire è la politica, la visione di quello che si vuol far diventare la Puglia, una regione al centro di vertenze decennali, come l’acciaieria di Taranto, che però sembra ormai devota solo al turismo, che dopo aver completamente mangiato la costa si sta rivolgendo verso l’interno. La “California d’Italia” che soddisfa sia la domanda di alloggi – sempre meno disponibili per chi risiede – che di stereotipo – con una cultura popolare masticata dalle agenzie di promozione territoriale e risputata in una versione digeribile per ogni visitatore e conforme alle sue aspettative. Davanti al dilemma posto da Losurdo, la regione più a est d’Italia sembra aver deciso che sentiero percorrere. (marco patruno)
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Italia-Israele, il boicottaggio sportivo e la città blindata
(disegno di renaud eymony) “La stazione è blindata!” sentiamo appena arrivati a Udine con il treno. Sono le sei di sera del 14 ottobre e l’inizio della partita fra le nazionali maschili di calcio di Italia e Israele è previsto per le otto e quarantacinque. Due uscite della stazione sono state bloccate e il piazzale antistante è pieno di polizia e altre forze dell’ordine. I cestini sono stati sigillati con degli adesivi rossi con una scritta che ne comunica la chiusura a causa del corteo. Convocata dal Comitato per la Palestina di Udine, dal movimento BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), dalle Comunità palestinesi del Friuli e del Veneto, dall’associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo, comitato di Trieste e da Calcio e Rivoluzione, la manifestazione aveva l’obiettivo di denunciare l’uso dello sport come strumento di propaganda da parte di Israele e di chiedere al mondo sportivo italiano in generale, e al calcio in particolare, di prendere posizione. Si chiedeva allo stesso tempo alla Fifa di escludere le nazionali israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali, al pari di quanto fatto con le nazionali della Russia dopo l’attacco all’Ucraina del 2022. Con gli stessi obiettivi, altri presidi si sono svolti in contemporanea in diverse altre città italiane. Giusto un anno fa la nazionale israeliana era stata già ospitata a Udine per una partita contro l’Italia e un corteo simile aveva raccolto circa tremila presenze. Il tema dell’uso dello sport da parte di Israele per migliorare la propria immagine non è una novità: basti ricordare che già nel 2018 il Giro d’Italia partì da Gerusalemme, svolgendo poi due altre tappa in Israele. Più in generale lo sport italiano sembra avere una certa difficoltà nell’evitare il rapporto con Stati che presentano problematiche per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, come suggerisce il rapporto ormai di lunga durata della Federazione Italiana Giuoco Calcio con l’Arabia Saudita per l’organizzazione della Supercoppa italiana (2018, 2019, 2022, 2023, 2024 e dopo sono previste anche le prossime edizioni). Il concentramento in piazza della Repubblica è vicino alla stazione, bastano pochi minuti a piedi per arrivarci: quando arriviamo le strade intorno alla piazza sono già piene e gli spezzoni si sono costituiti. Sono arrivate oltre trecento adesioni alla convocazione e la diversità si nota anche a un’occhiata superficiale. Sono presenti i sindacati di base così come la Cgil, gruppi scout, gruppi autonomi e partiti, e un nutrito spezzone studentesco. La sensazione è che, a Trieste come a Udine, la mobilitazione per la Palestina abbia portato nello stesso corteo soggetti che in altri campi possono faticare a parlarsi, ma che si sono ritrovati almeno sulla partecipazione a queste iniziative. Via Roma, la strada che collega la piazza alla stazione, ha diversi negozi aperti, soprattutto venditori di kebab. «Credo che siano gli unici a lavorare ancora, quasi tutti gli altri negozi della città sono chiusi», ci fa notare una persona che abita a Udine. È così: il corteo inizia a snodarsi per le strade della città friulana e quando si entra in centro tante serrande sono abbassate. I pochi locali che hanno scelto di rimanere aperti hanno comunque cercato di proteggere le vetrine. Con una nota datata 9 ottobre il prefetto di Udine aveva proibito la vendita di bevande o cibo in contenitori di vetro o ceramica e aveva disposto la rimozione degli arredi urbani potenzialmente pericolosi, sostenendo che il corteo potesse essere “occasione per l’infiltrazione di frange violente, con rischi per l’incolumità di persone e cose”, contribuendo forse a creare un clima di timore nei confronti della manifestazione Il corteo è animato, c’è anche una murga molto vivace e composita che dà il ritmo. Ogni tanto qualcuno si affaccia dalle finestre, ma in generale sembra che parte della città si sia rintanata. La manifestazione attraversa delle strade vuote, presidiate dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Ci sono cartelli e striscioni di diverse realtà italiane, si fanno cori e si canta. A un certo punto, non lontano dal municipio, in pieno centro, una parte del corteo si lancia in un coro che invita a raggiungere lo stadio dove la partita sta ormai per iniziare. «Si vede che non sono di Udine, lo stadio da qui è molto lontano», dice qualcuno. In effetti lo stadio Friuli, noto anche come Bluenergy, dal nome dello sponsor principale, è collocato a circa quattro chilometri dal centro della città ed è uno dei pochi in Italia gestito dalla squadra che ci gioca, l’Udinese. Il corteo termina così nella grande piazza Primo maggio, accanto alla collina su cui è collocato il castello della città. La piazza è talmente grande, soprattutto senza le macchine che di solito lì sono parcheggiate, che il corteo, pur numeroso (si parla di dieci o quindicimila persone), si sparpaglia: qualcuno rimane nel giardino centrale ad ascoltare degli interventi, altri si avvicinano a un grande tessuto su cui sono stati scritti i nomi delle persone minorenni morte a Gaza dall’inizio dell’invasione israeliana fino a luglio 2025. A un tratto un nutrito gruppo di persone si dirige verso un lato della piazza, accanto al Santuario della beata Vergine delle grazie: è una delle due strade che dalla piazza che possono portare verso lo stadio. In breve la fila di agenti che blocca la strada viene rinforzata, qualcuno grida «Corteo! Corteo!», ma i due gruppi rimangono a confrontarsi per diversi minuti sulle stesse posizioni. Nella folla si vede uno striscione che chiede la liberazione di Marwan Barghouti. Alcune persone del servizio d’ordine della manifestazione vanno avanti e indietro per avvertire che eventuali spostamenti del corteo dalla piazza non sono stati concordati e che chi non vuole esporsi deve rimanere al centro della piazza. Poi il gruppo si sposta verso l’altra strada di uscita verso nord, dove trova un altro schieramento di polizia. Anche qui il confronto va avanti diversi minuti fino a quando la polizia decide di fare a più riprese ricorso agli idranti e ai lacrimogeni, che in diversi casi atterrano vicino al centro della piazza, respingendo indietro i manifestanti. In alto un elicottero la illumina con un potente faro, mentre gli scontri continuano ancora per circa un’ora. Poco a poco però la piazza si svuota, mentre la partita viene giocata in uno stadio semivuoto. Arriva la notizia di tredici persone fermate di cui poi due arrestate e di alcuni fogli di via dati dalla questura, sotto la quale nella notte si è formato un presidio di solidarietà. La manifestazione di Udine si inserisce all’interno di una mobilitazione regionale e nazionale intensa. Solo a Trieste, nelle ultime settimane, fra assemblee e cortei le iniziative sono state quasi quotidiane. Mentre la città si preparava al suo consueto programma autunnale di iniziative pubbliche, i cortei hanno portato la questione palestinese nel centro, raccogliendo una partecipazione non comune, in un posto in cui dopo poco si ha la sensazione di conoscere almeno di vista una buona percentuale di chi partecipa ai cortei e ai presidi. Nel caso della mobilitazione per la Palestina sembra essersi mosso anche chi è di solito meno incline a partecipare. In questi ultimi due mesi, in particolare, tante persone hanno percorso le vie centrali in cortei spontanei che nascevano da presidi chiamati anche all’ultimo momento. È stata sconvolta la viabilità e anche la preparazione di un evento come la Barcolana, nato come semplice regata e diventato una vetrina per la città, iniziativa fondamentale per il programma “politico” del sindaco Roberto Dipiazza. In occasione degli scioperi generali si è si è arrivati a bloccare per alcune ore il porto della città, con un varco il 22 settembre e due il 3 ottobre. (alessandro stoppoloni)
italia
sport
Brutti sporchi e cattivi. La povertà come colpa nella tragedia di Castel d’Azzano
(disegno di martina di gennaro) Nel film di Scola del 1976, un giornalista si rivolge al protagonista (Nino Manfredi): «Lei, scusi, una parola per la tv?». «Vafangul’!». In quella commedia feroce la miseria non chiedeva compassione né sconti morali, ma rivelava tutta la violenza sociale delle baraccopoli romane e, implicitamente, dello Stato. Cinquant’anni dopo, la miseria è la stessa: brutta, sporca e cattiva. I fratelli Ramponi, (Franco, Dino e Maria Luisa) vivevano da anni isolati in un casolare fatiscente alla periferia di Castel d’Azzano, senza acqua né luce. All’alba del 14 ottobre, un’esplosione ha cancellato tutto, compresa la vita di tre carabinieri, Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà. “ECCO CHI SONO I FRATELLI RAMPONI” È cambiato il modo di raccontarla, la miseria. La tragedia è stata subito riportata come la follia di tre colpevoli assoluti. I giornali hanno fatto a gara a titolare “Chi sono i fratelli Ramponi”, e hanno scavato nei loro precedenti, nei loro rancori, nei video in cui denunciavano gli “avvocati che li hanno rovinati”. La narrazione di tutte le maggiori testate italiane costruisce una storia di malavita e devianza, dove il lessico sacrificale e religioso riservato ai carabinieri uccisi si accompagna a quello, vagamente moraleggiante, della follia che sostituisce il linguaggio della povertà per i Ramponi (diceva giustamente Ellen Raskin che “i poveri sono pazzi”). Su La Repubblica, un articolo ne fa quasi cronaca antropologica, titolando “vita da Medioevo” e evocando così, in un sol colpo, sia le condizioni materiali che un presunto arretramento morale e culturale. Il Corriere della Sera sposta il dramma sociale sul piano del patriottismo: “Il governo proclama il lutto nazionale.” In un altro articolo, Repubblica titola: “Fanno esplodere il casolare”, formulazione che chiude nell’intenzionalità criminale ogni spazio alla possibilità del “gesto disperato”, come recitava un titolo, sapientemente cassato dal direttore del giornale (fittizio?) in Sbatti il mostro in prima pagina. Non è il caso di fare polemica, spiegava Gian Maria Volonté: «Il lettore apre il giornale, guarda, se gli va legge, se non gli va tira via, ma senza la sensazione che gli vogliamo rompere i coglioni». UNA STORIA DI QUOTIDIANA DISPERAZIONE Ma dietro quei brutti volti sporchi dei Ramponi si vede chiaramente una vicenda molto più complessa di debiti, mutui, pignoramenti, battaglie legali, accuse incrociate, ignoranza e impotenza. Una storia che i giornali hanno preferito comprimere nella cornice perbene del delitto e del castigo. Tutto comincia nel 2014 con un mutuo da settantamila euro con il Credito Padano, destinato a un frutteto. Le rate cessano presto e la banca avvia una procedura esecutiva. I Ramponi sostengono invece, da anni, che la firma fosse falsa: «Ci hanno portato via cose per un milione di euro», diceva Maria Luisa in un video del 2024 (Corriere del Veneto). Quale che sia la verità legale, rimane il fatto che tre disgraziati, già in condizioni di povertà assoluta, si sono visti togliere l’ultimo riparo, un tetto scassato senza servizi. Alla fine hanno reagito, a dir poco, maldestramente. La Procura di Verona oggi contesta ai tre fratelli il reato di strage, ipotizzando che l’esplosione sia stata preparata per uccidere. Già l’anno scorso si erano barricati in casa minacciando di farla esplodere. Non c’è dubbio: oltre che brutti e sporchi, i Ramponi sono anche cattivi. Sarebbe da chiedersi se lo sarebbero stati, in condizioni sociali e di dignità diverse, o se sia un tratto antropologico dei poveri. CRISI ABITATIVA Eppure la notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che il paese sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più spesso, ai danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti: 8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non ce la faccio più”). 15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo. 16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello sfratto”. 19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni. La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da tutti. Tuttavia trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo impermeabile a ogni analisi e, in ultima analisi, rassicurante, funzionale allo status quo. Questa è una costante dei casi di cronaca simili a quelli citati. Diritto alla casa? Non se ne parla nemmeno. Povertà, ingiustizia sociale, sopruso, ignoranza? Neanche un accenno, se non carico di giudizio morale. Si sa tutto di come vivevano quei debosciati dei Ramponi, la loro follia, il degrado, la perversione del bisogno. La proprietà, invece, resta anonima e inviolabile: nessun giornale, fino al 15 ottobre, dice chi abbia promosso lo sgombero. Dalle notizie sul mutuo si può solo ipotizzare un contenzioso bancario. La povertà ha nome e volto, la proprietà mai; nel racconto mediatico, è una divinità incorporea che non si nomina. I Ramponi invece hanno il physique du rôle, sono perfetti nel loro ruolo “da Medioevo”. IL LINGUAGGIO DEL POTERE In questa asimmetria si gioca la partita morale, già persa, della nostra informazione. La legge, nel suo linguaggio neutro, non distingue tra disperazione e criminalità. Qui dovrebbe intervenire il giornalismo, che racconta la complessità del reale, problematizza, cerca le cause oltre la cronaca. Ma il linguaggio semplificante dei giornali mira a tutt’altro effetto: * I verbi d’azione (“fanno esplodere”, “innescano”, “provocano”) fissano la colpa nel gesto, non nel problema che a quel gesto ha portato. * Gli aggettivi morali (“folli”, “pericolosi”, “isolati”, “da Medioevo”) trasformano la miseria in colpa antropologica, e persino estetica. * L’assenza del soggetto economico protegge, evitando ogni possibilità di problematizzazione, la proprietà al di sopra della dignità delle persone, siano pure i Ramponi. * E infine, la centralità delle vittime in divisa riporta tutto al campo del sacrificio patriottico, dissolvendo ogni questione sociopolitica, o solo intellettualmente onesta, in un confuso senso di italianissimo orgoglio. Ecco come si costruisce il discorso pubblico in modo che rimanga entro i limiti dell’accettabile. “Ecco chi sono i fratelli Ramponi”, recitano i titoli. La risposta che danno i giornali impone una domanda unica coprendo quell’altra, più urgente, e canalizzando la curiosità del lettore su questi delinquenti senza appello. Ma l’altra domanda merita ancora di essere posta: perché erano ridotti a vivere in quelle condizioni? Sono vere le accuse che fanno di truffa e falso? Cosa spinge a far saltare in aria la propria casa, rischiando di morire, e di uccidere, pur di non lasciarla? In altri termini: gli interessi di chi stavano difendendo, a costo della propria vita, i tre carabinieri? Perché una cosa è certa: lo Stato era lì per tutelare una proprietà, non persone in difficoltà materiale e psicologica estrema, non per aiutare dei cittadini di serie B… Brutti, sporchi, e cattivi. (antonio malatesta)
italia
Generazioni in corteo a Roma. Dal 1991 al 4 ottobre per Gaza
(disegno di sam3) Sabato 4 ottobre. Come tanti e tante, più di un milione, ero a Roma a manifestare la mia solidarietà al popolo palestinese. Non solo alle donne e ai bambini palestinesi massacrati a Gaza dal 7 ottobre 2023. Non solo ai civili innocenti. Ero a Roma, in quell’enorme corteo, provenendo da una storia, da una genealogia di movimenti che, dai primi anni Novanta, mi ha permesso di attraversare fasi e contesti diversi, a partire dalle mobilitazioni contro la prima Guerra del Golfo nel 1991. La prima guerra in diretta televisiva, quel conflitto capitombolato nell’immaginario collettivo alla fine del Secolo Breve. Al tramonto di un periodo durante il quale le guerre accadevano soltanto in uno spazio/tempo assai lontano da noi. La guerra non ci apparteneva nel quotidiano. Quell’anno invece la guerra in Italia non è stata più fredda (quindi non dichiarata, fatta di bombe, Gladio et similia), da quando gli aviatori Bellini e Cocciolone (“pam pam gran pilota d’aviazion”, cantavano gli Onda Rossa Posse) furono abbattuti con il loro caccia Tornado dalla mortificata contraerea irachena. I due furono le pecore nere della macchina da guerra occidentale che, finalmente libera da lacci e lacciuoli della deterrenza, poteva manifestare la propria potenza militare. Prigionieri. Visi malconci su corpi sofferenti in uniforme. Carne da macello postmoderna velocemente dimenticata. Ecco. Il 12 gennaio 1991, qualche giorno prima che Cocciolone e Bellini venissero abbattuti, residui del movimento pacifista (Comiso/euromissili), forme epigonali di una stagione ormai tramontata (Autonomia/Coordinamento antinucleare antimperialista), frattaglie di un quadro politico in via di estinzione (Democrazia proletaria) e nuove forme di movimento (centri sociali in embrione, movimento studentesco post-Pantera) dettero vita a una grande manifestazione nazionale a Roma. Contro la guerra. Per la pace. Lo stesso giorno in cui il congresso Usa autorizzava l’inizio della Tempesta nel deserto. Le stesse ore in cui in Italia moriva lo scrittore Vasco Pratolini. In quel giorno di gennaio si rimescolarono molte carte della nostra storia contemporanea. Ma ciò che ci interessa qui sono le 200 mila persone che quel giorno animarono un corteo sorprendente (per tanti motivi). Una mobilitazione che non si vedeva da più di un decennio ai tempi. Che ripropose l’attualità di un passato che non passava e non è ancora passato. Ecco, quel corteo fu un corteo di massa. Un momento di incontro tra generazioni diverse. Quelle che ancora subivano un riflusso micidiale. E quelle che si affacciavano in un panorama politico sconosciuto. Le prime portatrici di pratiche, parole, simboli assai pesanti e (probabilmente) irripetibili, le seconde che provavano a costruire un viatico di incontro, ricomposizione, risignificazione. Nello stesso quadrante urbano di sabato 4 ottobre 2025 (San Giovanni, via Labicana, Esquilino) si verificarono scontri, tumulti tra autonomi e polizia. Inizio anni Novanta. Le schermaglie durarono fino a sera inoltrata. Ricordo, in modo fugace, i lacrimogeni lanciati dall’elicottero (rivisti anni dopo a Genova 2001). Non riuscivo a seguire quei corpi che, muovendosi insieme, dalla coda del corteo schizzavano fuori. E il fumo di auto incendiate. L’odore acre. Gli autonomi? Soltanto loro? Sabato 4 ottobre. Uno spezzone di corteo mescolato tra gli altri. Slogan forti, eco da stadio. Tra le altre riecheggiano rime desuete (carabiniere sbirro maledetto…), inattuali. Una parte di corteo incontrata per caso. Ci siamo mescolati. Forse riconoscendo delle maniere, dei dettagli organizzativi. Degli istinti. Intorno a noi niente nostalgia. Solo ragazzi e ragazze molto glamour. Tagli di capelli, occhiali da sole, cuffie. Generazione Z, come la chiamano. Ma già mascherata. “Siamo tutte antifasciste/Siamo tutte antisioniste”, rigorosamente al femminile. Nonostante le fila rispondessero a maschi davvero ben piantati. Visi scoperti, bandiere e cori al confine tra stadio e militanza. Eppure riconosco sguardi di compagni (maschi) con cui è immediato il riconoscersi. “Si aspetta il buio?”. Si aspetta il buio. Tutt’intorno sta accadendo qualcosa di inaspettato, stupefacente. C’è troppa gente. Né gli adulti, né i più giovani vi sono abituati. E poi le guardie non ci sono, o almeno non si vedono. Dopo il Colosseo, è quasi tramonto. Si aspettava il buio, no? Mano sulla spalla. Fumogeni. Ci si traveste (chi ha abiti con cui travestirsi). Lo spezzone si compatta e cambia pelle. Dietro di noi il corteo pacifico ci abbandona. Scarta di lato prendendo una scorciatoia. Ci ritroviamo le guardie, le camionette, a rimarcare che siamo la coda del corteo di massa (déjà-vu anni Settanta?). Ormai lo spezzone da bianco e svestito è diventato nero e mascherato. Basta davvero poco. Un gruppo si stacca. Prende una scalinata. Si mormora che la polizia stia attaccando. Questa è la scintilla, peregrina. Dal nostro punto di vista. In pochi si sono allontanati. Si è rimasti coesi. Intorno quiete. Corteo pacifico. Tamburi. Free Palestine. Noi però in nero stavamo. Non c’era occasione. Guardie lontane. Lontanissime. Arriviamo all’incrocio. Un paio di black dressed si staccano. Martello in mano crepano i vetri antiproiettile della filiale di una banca qualsiasi. Lo fanno quasi di sorpresa per noi. Giusto qualche minuto prima, ci eravamo messi a coprire una compagna che scriveva sul muro. Al martellatore nessuno copriva le spalle. Perché il 4 ottobre 2025, come in altri momenti in piazza nella storia, tutti e tutte sentiamo lo stesso mandato. E lo rivendichiamo. Sentirsi respinti a margine di un grande corteo ci può stare. Sentirsi gridare che non si vuole essere coinvolti in pratiche di piazza inaspettate e non concordate fa parte del confronto. D’altra parte, nel nostro paese, restiamo incapaci di fare i conti, in modo adulto, con il conflitto. Sia esso sociale, generazionale, familiare, culturale… A sinistra, più che a destra. Non a caso il 4 ottobre 2025, di sera, fascistelli di Casa Pound e affini hanno sguaiatamente messo in scena una jaquerie neofascista. Contro un bar à la page dell’Esquilino. La risposta, troppo facile, al lancio di bottiglie contro la loro sede avvenuto nel tardo pomeriggio… Ma vigliacchi erano e restano i (neo)fascisti. Si arriva a San Giovanni. Travestiti ancora. Neri ma più visibili. Respinti dal corteo molti si spogliano. Lo spogliarello avviene in penombra. Io che, sinceramente, non mi vesto e non mi svesto. Credo che tra il fumo, il buio, la confusione non bisogna nascondersi, mimetizzarsi. Quindi via i vestiti. Non siamo a Carnevale. Infatti. 4 ottobre. Sabato. Un giorno come gli altri. Non proprio. Un milione di persone in piazza mosse da un internazionalismo inaspettato, sorprendente. Generazioni diverse. Con il sole il corteo, gli incontri. Con il buio la contrapposizione radicale, gli scontri. Guerriglia urbana, come piace definirla all’informazione mainstream, provocata da una reazione scomposta delle forze dell’ordine piombate con idranti e manganelli su un manipolo di giovanissimi manifestanti che provavano a dare un senso al Blocchiamo tutto, dirigendosi verso Termini. Ma non è importante stabilire chi ha iniziato. Il corteo è stata la dimostrazione che, nel paese, esiste ancora un sentire radicale capace di dar vita a una mobilitazione di massa limpidamente politica e senza ambiguità. Aver paura del fuoco, del riot, stigmatizzare certe pratiche di piazza, considerare gli scontri come manifestazione di un estremismo infantile, le barricate come fardelli incombenti sulla integrità del movimento. Etichettare le donne (tante) e gli uomini protagonisti della contrapposizione con la polizia come provocatori, infiltrati, rivela la persistenza delle scorie di un passato con cui, ancora, non si riesce a fare i conti. Il 4 ottobre 2025 è, forse, una cesura politica e storica simile a quella avvenuta il 13 gennaio 1991, quando una nuova generazione manifestò l’inevitabilità del conflitto. Della contrapposizione, che non ha altra forma in piazza se non quella dello scontro. Quella del violare il rigore metropolitano. Ma tra i facinorosi accusati di devastazione, saccheggio, oltraggio e resistenza, si sviluppa un tremore, un’energia, uno slancio che diventano parti costitutive dello stare in piazza. Prendersi dei rischi. Non sorprendersi della violenza poliziesca. Non subire. Non denunciare a posteriori soprusi. Non lamentarsi il giorno dopo. A ciascuno il suo. E poi, diciamoci la verità. Chi non ha paura di stare negli scontri. Come si supera la paura? Non è mica un giro sull’ottovolante. Si rischia: di essere arrestati, di farsi male, di morire accidentalmente. Una paura che si supera, forse, solo se non hai nulla da perdere. Ma chi non ha nulla da perdere? (-ma)
italia
L’inizio di una cosa. Cronache e spunti dai giorni del Blocchiamo tutto
(disegno di dalila amendola) Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4 ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza. È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7 ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa “intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere? Che ognuno declini il “noi” come preferisce. Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22 settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento, deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti. Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia, da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione centrale. E così in decine di altre città d’Italia. Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina, nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo lontano. Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura. Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla ancora. Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di materiale bellico, al terminal Spinelli. Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera: nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini, improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso. La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti, nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa, all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni, i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni indotti e diffusa indifferenza.  La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene, trasgredire le regole è diventato legittimo. Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata. Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona; esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto questo.  A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città. Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università: striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo. Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa: bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni. La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla. Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva – tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio, aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito: polizia e giornalisti, non pervenuti. Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare? A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio; ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche. L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo. I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo metterci in ascolto. (redazione monitor)
italia
Per un embargo totale a Israele. Dal blocco di Genova alle navi in transito a Salerno
(disegno di escif) La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice 1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod. Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo. La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre, la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di Gaza. La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal porto di Salerno, come già successo più volte in passato. Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei principali produttori di armi israeliani”. Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio 2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un convoglio di aiuti umanitari. Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di nastri per mitragliatrici e per cannoni. Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato fatto ai materiali in transito, o sbarcati. La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno 2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa (Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane, hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i diritti umani). È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando “macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale produttore israeliano di sistemi d’arma.  La nave è giunta a destinazione ad Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle autorità preposte al controllo? Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano. È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa chiudere i porti rispetto a Israele». Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1 luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni) a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini. A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera. (bds salerno)
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Non è solo una partita: boicottaggio di Italia-Israele ad Udine
Il 14 ottobre si terrà ad Udine la partita Italia vs Israele valevole per le qualificazioni al prossimo mondiale di calcio maschile. Un ulteriore evento di sportwashing in cui lo stato israeliano costruisce la sua vetrina e la sua immagine nell’arena pubblica internazionale. Questo evento ha attirato l’attenzione dei comitati locali propal che si stanno […]
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La barriera invisibile. Impressioni da La luna e i calanchi di Aliano
(disegno di sam3) Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico. Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra destinazione. La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino; infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si trovano le spoglie dell’autore torinese. Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso. In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”. Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena. Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica. La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata, c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni, Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il festival. Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa, aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa. Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da essa, si rafforza. Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia – declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese. Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane. Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!». Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare consigli che crede di portata generale. Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi. Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale: quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano. Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una scelta. (marco patruno)
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