di Laila Hassan* Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato.
Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana “La guerra di liberazione non
è un’istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso …
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(disegno di giancarlo savino)
Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun
testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati
per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da
mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo
in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti
tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente
accelerazione, ora procede a intermittenza.
Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per
rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta
tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che
si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i
riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando
parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga
traversata, ancora storditi dalla confusione.
La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea
d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi
fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da
oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così
pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa
sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben
definito.
Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin
dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli
elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla
sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa
struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo
palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da
quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di
un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo
processo.
PASSAGGI MINORI
Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba
dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un
provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di
solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia
intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un
momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si
era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su
iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui
il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio,
mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il
blocco navale israeliano.
Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il
decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era
ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la
continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio
significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula
solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei
ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo
scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella
della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in
Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto
processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica
sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni
complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile
immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella
che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano,
nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana.
RITORNO IN AULA
Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto
promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco,
visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento
di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una
bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il
divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni
politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di
un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo
di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è
arrivati fin qui, con traduzioni mancanti.
È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più
delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre
su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo
Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di
ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata
nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene
letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene
tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come
“brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di
ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a
incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice
insediamento civile.
È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione
di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata
israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un
insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il
documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla
prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul
banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che
non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel
conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà
chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende
il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto,
chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di
urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del
territorio in Cisgiordania.
Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in
tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di
occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No.
Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un
ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per
lui, a dire cos’è Avnei Hefetz.
COS’È AVNEI HEFETZ?
Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione
dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i
dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei
documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana
nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe
l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di
Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati.
Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti,
in un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica,
messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia
un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale.
Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si
continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile,
ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta,
volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una
realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato.
Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra
l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia
Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la
superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine.
Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di
là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai
spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era
stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un
check-point.
Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile
dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la
smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori
Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto
internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al
conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi
capi, riconosce subito che è un testo di denuncia.
Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto
sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e
le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di
Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora
sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata
effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun
riscontro.
Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che
attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita.
«Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli.
«No».
LE PIETRE DEL DESIDERIO
Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi
secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la
colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i
rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del
Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del
rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area
dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri
dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la
torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico
insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di
molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz.
Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”)
si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi
palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni
coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione,
scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio.
Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso
i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare
come strategico punto di sorveglianza.
L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel
2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati
per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale
inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un
altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai
coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i
contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da
check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che
prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di
poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma
radicalmente la geografia dell’area.
Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello
che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi
quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso
Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di
cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per
raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini,
ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza
legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia
dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz,
isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla
colonia.
OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI
C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima
udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui
scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non
si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla
resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa
viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene
trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la
violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la
parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta
armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario.
Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in
cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma
continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai
a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più
pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di
terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e
chi fa del terrore un metodo ordinario di governo.
Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di
imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento
italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale
delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i
fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il
fine che viene attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma
individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la
popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale
a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o
distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un
Paese o di un’organizzazione internazionale.
Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire,
costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo
che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni
disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le
colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano
a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti
ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché
abbandoni la propria terra?
Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali
come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini
palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili,
che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano
fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono
distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere.
L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la
destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe
trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania.
La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra
blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi
l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è
subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la
minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche
sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e
città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si
incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di
appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso,
perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può
dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino.
In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare
una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da
case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un
corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato
militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni
Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle
colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che
occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la
forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati
dello stesso progetto.
La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla
diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la
subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva
addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla
colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza,
entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita
e della sua possibilità di restare su quella terra.
Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze
d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni
ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere
esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e
al suo scopo di occupazione?
Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro
giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza
a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul
piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene
giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione
resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto.
A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come
atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per
attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di
terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula
ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila
a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni
probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo”
guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere
proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e
protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non
con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima
lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei
Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e
giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui
loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
(disegno di escif)
In un saggio del 1993 dal titolo Democrazia o bonapartismo, Domenico Losurdo si
interrogava sul delicato equilibrio che regge le democrazie liberali, fondato su
un suffragio universale fragile che rischiava uno svuotamento dall’interno della
sua funzione principale: assicurare la rappresentanza di ogni faccia della
società. Una deriva che Losurdo vedeva nella crescente concezione della politica
come acclamazione di un leader carismatico e investito da una moltitudine
variegata e con sempre meno riferimenti, in un mondo che di lì a poco avrebbe
visto il pieno compimento della mediatizzazione della politica con l’avvento di
Berlusconi al governo. Un bonapartismo soft che anche l’Italia avrebbe ereditato
dagli schemi politici statunitensi, fondati su collegi uninominali e leadership
riconoscibili, carismatiche ed espressione più di interessi organizzati che di
ampie basi sociali.
Questo dilemma si ripropone, oggi, proprio nella regione di provenienza del
filosofo: la Puglia. La regione adriatica, ormai annoverata tra le roccaforti
del centro-sinistra dopo vent’anni di governo regionale ininterrotto, è chiamata
al voto il 23 e il 24 novembre. Un voto che la larga maggioranza dei
commentatori ritiene dall’esito scontato, ma che nasconde al suo interno tutte
le contraddizioni di una politica ormai sempre meno pratica pubblica e sempre
più mera gestione. Una deriva manageriale che si esprime in primis nel candidato
favorito alla presidenza: Antonio Decaro. Una carriera politica iniziata come
assessore (in quota tecnica) alla mobilità e al traffico della città di Bari
della giunta Emiliano, dopo un’esperienza in consiglio regionale, viene eletto
sindaco del capoluogo pugliese per due mandati consecutivi. Una figura molto
popolare che ha sempre saputo mobilitare un elettorato trasversale, convinto da
una pratica amministrativa fondata sulle opere pubbliche, vuoi per una
deformazione professionale – Decaro è ingegnere civile –, vuoi perché permettono
di fornire una testimonianza materiale dell’operato amministrativo. Un
cavalcavia o una strada sono indicatori molto più immediati, ma soprattutto
concreti, che può apprezzare anche un elettorato disattento, come quello la cui
massima espressione politica si riduce al voto ogni tot. anni. Decaro è
l’espressione più riuscita di un modello ben preciso, quello dell’amministratore
operoso, che controlla i cantieri in città, che informa la cittadinanza
attraverso i suoi canali personali con video e foto, e che parla poco di
politica. Una deriva, quella del disaccoppiamento tra politica e amministrazione
che in Puglia ha contagiato non poche amministrazioni comunali. A tal proposito,
rimane esemplare un’affermazione del sindaco di Conversano – cittadina a trenta
chilometri dal capoluogo – che durante un consiglio comunale affermò come lui
non facesse politica, bensì il suo lavoro.
Un aspetto complementare a quello della spoliticizzazione delle cariche elettive
è quello della formazione di un vero e proprio “blocco di amministratori” che si
esprime in una ufficiosa formazione politica: il partito degli amministratori.
Una formazione che si è rivelata fondamentale per chiunque abbia aspirazioni di
governo in una regione sempre più sbilanciata verso il proprio capoluogo.
Difatti, la probabile elezione di Decaro vedrebbe per la seconda volta
consecutiva il passaggio dalla carica di sindaco di Bari a quella di presidente
della Puglia – dopo l’elezione e i due mandati di Michele Emiliano prima sindaco
di Bari fino al 2014 e poi presidente di regione fino al 2025. Ed è proprio il
dualismo tra i due “baresi” Emiliano e Decaro quello che ha deciso negli ultimi
anni le sorti politiche del resto della regione, specialmente nell’area della
città metropolitana di Bari. Secondo uno schema sempre simile. In prossimità
delle elezioni comunali nei vari territori, il notabile barese di turno –
Emiliano o Decaro – prova a insediare un sindaco “amico”, espressione della
propria corrente così da avere più peso con cui presentarsi sul palcoscenico
regionale. Un processo che ha permesso a molti personaggi dal percorso politico
“indeciso” e accidentato di riciclarsi come “espressione civica di
centrosinistra”, nonostante a volte provenissero dal centrodestra. Così da
innescare una certa dinamica di sostituzione tra politica e amministrazione, in
cui il riferimento nel comune per il “centro” non era più la segreteria locale
del principale partito di area, il Partito democratico, bensì l’amministratore –
perché portatore di un pacchetto di voti sicuro e testato, e poco importa la sua
provenienza politica. Insomma, il “vecchio” trasformismo. Solo che oggi si
chiama “civismo”. Il risultato è una classe politica “poco politica” che ha
ingrossato le fila del centrosinistra pugliese poiché assicurava loro un posto
entro cui perpetuarsi; una “borghesia lazzarona” – definizione di Alessandro
Leogrande – incastrata in giochi di potere stantii.
Assistiamo pertanto ad agili cambi di casacca, come quello di Luciana Laera, ex
sindaca di Putignano, in provincia di Bari, ed espressione della corrente
decariana, ora candidata nelle liste di Fratelli d’Italia; oppure Stefano
Lacatena, consigliere regionale uscente passato da Forza Italia alla maggioranza
di centrosinistra, non riconfermato ed escluso dalle liste che sconsolato
dichiara “probabilmente la mia casa è il centrodestra”.
Il voto di novembre sembra sancire un passo ulteriore verso l’indebolimento
della dialettica democratica pugliese, inaugurando una stagione di unanimità. La
campagna elettorale e il voto sembrano essere contrattempi sconvenienti davanti
a un esito che si preannuncia scontato e con differenze a due cifre tra le
coalizioni principali. A destra, hanno temporeggiato fino all’ultimo
nell’annuncio dell’agnello sacrificale da immolare sull’altare della certa
sconfitta; scelta poi ricaduta su un anonimo tecnico la cui massima esperienza
politica è stata perdere contro Emiliano nella corsa a sindaco di Bari nel 2004.
Mentre nel centrosinistra – che accoglie un po’ tutti – c’è la corsa alla foto
con il presidente in pectore Decaro, per posizionarsi velocemente nella scia del
leader che torna nella sua regione dopo un anno “di Erasmus” a Bruxelles, dove
il parlamento europeo è ormai appetibile solo per chi vuole poi candidarsi come
presidente di regione, o l’ha già fatto e ha terminato i mandati. In tutto
questo, ad ammutolire è la politica, la visione di quello che si vuol far
diventare la Puglia, una regione al centro di vertenze decennali, come
l’acciaieria di Taranto, che però sembra ormai devota solo al turismo, che dopo
aver completamente mangiato la costa si sta rivolgendo verso l’interno. La
“California d’Italia” che soddisfa sia la domanda di alloggi – sempre meno
disponibili per chi risiede – che di stereotipo – con una cultura popolare
masticata dalle agenzie di promozione territoriale e risputata in una versione
digeribile per ogni visitatore e conforme alle sue aspettative. Davanti al
dilemma posto da Losurdo, la regione più a est d’Italia sembra aver deciso che
sentiero percorrere. (marco patruno)
(disegno di renaud eymony)
“La stazione è blindata!” sentiamo appena arrivati a Udine con il treno. Sono le
sei di sera del 14 ottobre e l’inizio della partita fra le nazionali maschili di
calcio di Italia e Israele è previsto per le otto e quarantacinque. Due uscite
della stazione sono state bloccate e il piazzale antistante è pieno di polizia e
altre forze dell’ordine. I cestini sono stati sigillati con degli adesivi rossi
con una scritta che ne comunica la chiusura a causa del corteo.
Convocata dal Comitato per la Palestina di Udine, dal movimento BDS
(Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), dalle Comunità palestinesi del Friuli
e del Veneto, dall’associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo, comitato di Trieste e
da Calcio e Rivoluzione, la manifestazione aveva l’obiettivo di denunciare l’uso
dello sport come strumento di propaganda da parte di Israele e di chiedere al
mondo sportivo italiano in generale, e al calcio in particolare, di prendere
posizione. Si chiedeva allo stesso tempo alla Fifa di escludere le nazionali
israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali, al pari di quanto
fatto con le nazionali della Russia dopo l’attacco all’Ucraina del 2022. Con gli
stessi obiettivi, altri presidi si sono svolti in contemporanea in diverse altre
città italiane.
Giusto un anno fa la nazionale israeliana era stata già ospitata a Udine per una
partita contro l’Italia e un corteo simile aveva raccolto circa tremila
presenze. Il tema dell’uso dello sport da parte di Israele per migliorare la
propria immagine non è una novità: basti ricordare che già nel 2018 il Giro
d’Italia partì da Gerusalemme, svolgendo poi due altre tappa in Israele. Più in
generale lo sport italiano sembra avere una certa difficoltà nell’evitare il
rapporto con Stati che presentano problematiche per quanto riguarda il rispetto
dei diritti umani, come suggerisce il rapporto ormai di lunga durata della
Federazione Italiana Giuoco Calcio con l’Arabia Saudita per l’organizzazione
della Supercoppa italiana (2018, 2019, 2022, 2023, 2024 e dopo sono previste
anche le prossime edizioni).
Il concentramento in piazza della Repubblica è vicino alla stazione, bastano
pochi minuti a piedi per arrivarci: quando arriviamo le strade intorno alla
piazza sono già piene e gli spezzoni si sono costituiti. Sono arrivate oltre
trecento adesioni alla convocazione e la diversità si nota anche a un’occhiata
superficiale. Sono presenti i sindacati di base così come la Cgil, gruppi scout,
gruppi autonomi e partiti, e un nutrito spezzone studentesco. La sensazione è
che, a Trieste come a Udine, la mobilitazione per la Palestina abbia portato
nello stesso corteo soggetti che in altri campi possono faticare a parlarsi, ma
che si sono ritrovati almeno sulla partecipazione a queste iniziative.
Via Roma, la strada che collega la piazza alla stazione, ha diversi negozi
aperti, soprattutto venditori di kebab. «Credo che siano gli unici a lavorare
ancora, quasi tutti gli altri negozi della città sono chiusi», ci fa notare una
persona che abita a Udine. È così: il corteo inizia a snodarsi per le strade
della città friulana e quando si entra in centro tante serrande sono abbassate.
I pochi locali che hanno scelto di rimanere aperti hanno comunque cercato di
proteggere le vetrine. Con una nota datata 9 ottobre il prefetto di Udine aveva
proibito la vendita di bevande o cibo in contenitori di vetro o ceramica e aveva
disposto la rimozione degli arredi urbani potenzialmente pericolosi, sostenendo
che il corteo potesse essere “occasione per l’infiltrazione di frange violente,
con rischi per l’incolumità di persone e cose”, contribuendo forse a creare un
clima di timore nei confronti della manifestazione
Il corteo è animato, c’è anche una murga molto vivace e composita che dà il
ritmo. Ogni tanto qualcuno si affaccia dalle finestre, ma in generale sembra che
parte della città si sia rintanata. La manifestazione attraversa delle strade
vuote, presidiate dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Ci
sono cartelli e striscioni di diverse realtà italiane, si fanno cori e si canta.
A un certo punto, non lontano dal municipio, in pieno centro, una parte del
corteo si lancia in un coro che invita a raggiungere lo stadio dove la partita
sta ormai per iniziare. «Si vede che non sono di Udine, lo stadio da qui è molto
lontano», dice qualcuno. In effetti lo stadio Friuli, noto anche come Bluenergy,
dal nome dello sponsor principale, è collocato a circa quattro chilometri dal
centro della città ed è uno dei pochi in Italia gestito dalla squadra che ci
gioca, l’Udinese. Il corteo termina così nella grande piazza Primo maggio,
accanto alla collina su cui è collocato il castello della città. La piazza è
talmente grande, soprattutto senza le macchine che di solito lì sono
parcheggiate, che il corteo, pur numeroso (si parla di dieci o quindicimila
persone), si sparpaglia: qualcuno rimane nel giardino centrale ad ascoltare
degli interventi, altri si avvicinano a un grande tessuto su cui sono stati
scritti i nomi delle persone minorenni morte a Gaza dall’inizio dell’invasione
israeliana fino a luglio 2025.
A un tratto un nutrito gruppo di persone si dirige verso un lato della piazza,
accanto al Santuario della beata Vergine delle grazie: è una delle due strade
che dalla piazza che possono portare verso lo stadio. In breve la fila di agenti
che blocca la strada viene rinforzata, qualcuno grida «Corteo! Corteo!», ma i
due gruppi rimangono a confrontarsi per diversi minuti sulle stesse posizioni.
Nella folla si vede uno striscione che chiede la liberazione di Marwan
Barghouti.
Alcune persone del servizio d’ordine della manifestazione vanno avanti e
indietro per avvertire che eventuali spostamenti del corteo dalla piazza non
sono stati concordati e che chi non vuole esporsi deve rimanere al centro della
piazza. Poi il gruppo si sposta verso l’altra strada di uscita verso nord, dove
trova un altro schieramento di polizia. Anche qui il confronto va avanti diversi
minuti fino a quando la polizia decide di fare a più riprese ricorso agli
idranti e ai lacrimogeni, che in diversi casi atterrano vicino al centro della
piazza, respingendo indietro i manifestanti. In alto un elicottero la illumina
con un potente faro, mentre gli scontri continuano ancora per circa un’ora. Poco
a poco però la piazza si svuota, mentre la partita viene giocata in uno stadio
semivuoto. Arriva la notizia di tredici persone fermate di cui poi due arrestate
e di alcuni fogli di via dati dalla questura, sotto la quale nella notte si è
formato un presidio di solidarietà.
La manifestazione di Udine si inserisce all’interno di una mobilitazione
regionale e nazionale intensa. Solo a Trieste, nelle ultime settimane, fra
assemblee e cortei le iniziative sono state quasi quotidiane. Mentre la città si
preparava al suo consueto programma autunnale di iniziative pubbliche, i cortei
hanno portato la questione palestinese nel centro, raccogliendo una
partecipazione non comune, in un posto in cui dopo poco si ha la sensazione di
conoscere almeno di vista una buona percentuale di chi partecipa ai cortei e ai
presidi. Nel caso della mobilitazione per la Palestina sembra essersi mosso
anche chi è di solito meno incline a partecipare. In questi ultimi due mesi, in
particolare, tante persone hanno percorso le vie centrali in cortei spontanei
che nascevano da presidi chiamati anche all’ultimo momento. È stata sconvolta la
viabilità e anche la preparazione di un evento come la Barcolana, nato come
semplice regata e diventato una vetrina per la città, iniziativa fondamentale
per il programma “politico” del sindaco Roberto Dipiazza. In occasione degli
scioperi generali si è si è arrivati a bloccare per alcune ore il porto della
città, con un varco il 22 settembre e due il 3 ottobre. (alessandro stoppoloni)
(disegno di martina di gennaro)
Nel film di Scola del 1976, un giornalista si rivolge al protagonista (Nino
Manfredi): «Lei, scusi, una parola per la tv?». «Vafangul’!». In quella commedia
feroce la miseria non chiedeva compassione né sconti morali, ma rivelava tutta
la violenza sociale delle baraccopoli romane e, implicitamente, dello Stato.
Cinquant’anni dopo, la miseria è la stessa: brutta, sporca e cattiva. I fratelli
Ramponi, (Franco, Dino e Maria Luisa) vivevano da anni isolati in un casolare
fatiscente alla periferia di Castel d’Azzano, senza acqua né luce. All’alba del
14 ottobre, un’esplosione ha cancellato tutto, compresa la vita di tre
carabinieri, Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà.
“ECCO CHI SONO I FRATELLI RAMPONI”
È cambiato il modo di raccontarla, la miseria. La tragedia è stata subito
riportata come la follia di tre colpevoli assoluti. I giornali hanno fatto a
gara a titolare “Chi sono i fratelli Ramponi”, e hanno scavato nei loro
precedenti, nei loro rancori, nei video in cui denunciavano gli “avvocati che li
hanno rovinati”. La narrazione di tutte le maggiori testate italiane costruisce
una storia di malavita e devianza, dove il lessico sacrificale e religioso
riservato ai carabinieri uccisi si accompagna a quello, vagamente moraleggiante,
della follia che sostituisce il linguaggio della povertà per i Ramponi (diceva
giustamente Ellen Raskin che “i poveri sono pazzi”). Su La Repubblica, un
articolo ne fa quasi cronaca antropologica, titolando “vita da Medioevo” e
evocando così, in un sol colpo, sia le condizioni materiali che un presunto
arretramento morale e culturale. Il Corriere della Sera sposta il dramma sociale
sul piano del patriottismo: “Il governo proclama il lutto nazionale.” In un
altro articolo, Repubblica titola: “Fanno esplodere il casolare”, formulazione
che chiude nell’intenzionalità criminale ogni spazio alla possibilità del “gesto
disperato”, come recitava un titolo, sapientemente cassato dal direttore del
giornale (fittizio?) in Sbatti il mostro in prima pagina. Non è il caso di fare
polemica, spiegava Gian Maria Volonté: «Il lettore apre il giornale, guarda, se
gli va legge, se non gli va tira via, ma senza la sensazione che gli vogliamo
rompere i coglioni».
UNA STORIA DI QUOTIDIANA DISPERAZIONE
Ma dietro quei brutti volti sporchi dei Ramponi si vede chiaramente una vicenda
molto più complessa di debiti, mutui, pignoramenti, battaglie legali, accuse
incrociate, ignoranza e impotenza. Una storia che i giornali hanno preferito
comprimere nella cornice perbene del delitto e del castigo.
Tutto comincia nel 2014 con un mutuo da settantamila euro con il Credito Padano,
destinato a un frutteto. Le rate cessano presto e la banca avvia una procedura
esecutiva. I Ramponi sostengono invece, da anni, che la firma fosse falsa: «Ci
hanno portato via cose per un milione di euro», diceva Maria Luisa in un video
del 2024 (Corriere del Veneto). Quale che sia la verità legale, rimane il fatto
che tre disgraziati, già in condizioni di povertà assoluta, si sono visti
togliere l’ultimo riparo, un tetto scassato senza servizi. Alla fine hanno
reagito, a dir poco, maldestramente. La Procura di Verona oggi contesta ai tre
fratelli il reato di strage, ipotizzando che l’esplosione sia stata preparata
per uccidere. Già l’anno scorso si erano barricati in casa minacciando di farla
esplodere. Non c’è dubbio: oltre che brutti e sporchi, i Ramponi sono anche
cattivi. Sarebbe da chiedersi se lo sarebbero stati, in condizioni sociali e di
dignità diverse, o se sia un tratto antropologico dei poveri.
CRISI ABITATIVA
Eppure la notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che
il paese sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più
spesso, ai danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti:
8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto
piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non
ce la faccio più”).
15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne
si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo.
16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello
sfratto”.
19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al
balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni.
La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri
morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta
alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita
nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da
tutti. Tuttavia trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre
contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico
sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo
impermeabile a ogni analisi e, in ultima analisi, rassicurante, funzionale allo
status quo.
Questa è una costante dei casi di cronaca simili a quelli citati. Diritto alla
casa? Non se ne parla nemmeno. Povertà, ingiustizia sociale, sopruso, ignoranza?
Neanche un accenno, se non carico di giudizio morale. Si sa tutto di come
vivevano quei debosciati dei Ramponi, la loro follia, il degrado, la perversione
del bisogno. La proprietà, invece, resta anonima e inviolabile: nessun giornale,
fino al 15 ottobre, dice chi abbia promosso lo sgombero. Dalle notizie sul mutuo
si può solo ipotizzare un contenzioso bancario. La povertà ha nome e volto, la
proprietà mai; nel racconto mediatico, è una divinità incorporea che non si
nomina. I Ramponi invece hanno il physique du rôle, sono perfetti nel loro ruolo
“da Medioevo”.
IL LINGUAGGIO DEL POTERE
In questa asimmetria si gioca la partita morale, già persa, della nostra
informazione. La legge, nel suo linguaggio neutro, non distingue tra
disperazione e criminalità. Qui dovrebbe intervenire il giornalismo, che
racconta la complessità del reale, problematizza, cerca le cause oltre la
cronaca. Ma il linguaggio semplificante dei giornali mira a tutt’altro effetto:
* I verbi d’azione (“fanno esplodere”, “innescano”, “provocano”) fissano la
colpa nel gesto, non nel problema che a quel gesto ha portato.
* Gli aggettivi morali (“folli”, “pericolosi”, “isolati”, “da Medioevo”)
trasformano la miseria in colpa antropologica, e persino estetica.
* L’assenza del soggetto economico protegge, evitando ogni possibilità di
problematizzazione, la proprietà al di sopra della dignità delle persone,
siano pure i Ramponi.
* E infine, la centralità delle vittime in divisa riporta tutto al campo del
sacrificio patriottico, dissolvendo ogni questione sociopolitica, o solo
intellettualmente onesta, in un confuso senso di italianissimo orgoglio.
Ecco come si costruisce il discorso pubblico in modo che rimanga entro i limiti
dell’accettabile. “Ecco chi sono i fratelli Ramponi”, recitano i titoli. La
risposta che danno i giornali impone una domanda unica coprendo quell’altra, più
urgente, e canalizzando la curiosità del lettore su questi delinquenti senza
appello.
Ma l’altra domanda merita ancora di essere posta: perché erano ridotti a vivere
in quelle condizioni? Sono vere le accuse che fanno di truffa e falso? Cosa
spinge a far saltare in aria la propria casa, rischiando di morire, e di
uccidere, pur di non lasciarla? In altri termini: gli interessi di chi stavano
difendendo, a costo della propria vita, i tre carabinieri? Perché una cosa è
certa: lo Stato era lì per tutelare una proprietà, non persone in difficoltà
materiale e psicologica estrema, non per aiutare dei cittadini di serie B…
Brutti, sporchi, e cattivi. (antonio malatesta)
(disegno di sam3)
Sabato 4 ottobre. Come tanti e tante, più di un milione, ero a Roma a
manifestare la mia solidarietà al popolo palestinese. Non solo alle donne e ai
bambini palestinesi massacrati a Gaza dal 7 ottobre 2023. Non solo ai civili
innocenti. Ero a Roma, in quell’enorme corteo, provenendo da una storia, da una
genealogia di movimenti che, dai primi anni Novanta, mi ha permesso di
attraversare fasi e contesti diversi, a partire dalle mobilitazioni contro la
prima Guerra del Golfo nel 1991. La prima guerra in diretta televisiva, quel
conflitto capitombolato nell’immaginario collettivo alla fine del Secolo Breve.
Al tramonto di un periodo durante il quale le guerre accadevano soltanto in uno
spazio/tempo assai lontano da noi. La guerra non ci apparteneva nel quotidiano.
Quell’anno invece la guerra in Italia non è stata più fredda (quindi non
dichiarata, fatta di bombe, Gladio et similia), da quando gli aviatori Bellini e
Cocciolone (“pam pam gran pilota d’aviazion”, cantavano gli Onda Rossa Posse)
furono abbattuti con il loro caccia Tornado dalla mortificata contraerea
irachena. I due furono le pecore nere della macchina da guerra occidentale che,
finalmente libera da lacci e lacciuoli della deterrenza, poteva manifestare la
propria potenza militare. Prigionieri. Visi malconci su corpi sofferenti in
uniforme. Carne da macello postmoderna velocemente dimenticata.
Ecco. Il 12 gennaio 1991, qualche giorno prima che Cocciolone e Bellini
venissero abbattuti, residui del movimento pacifista (Comiso/euromissili), forme
epigonali di una stagione ormai tramontata (Autonomia/Coordinamento antinucleare
antimperialista), frattaglie di un quadro politico in via di estinzione
(Democrazia proletaria) e nuove forme di movimento (centri sociali in embrione,
movimento studentesco post-Pantera) dettero vita a una grande manifestazione
nazionale a Roma. Contro la guerra. Per la pace. Lo stesso giorno in cui il
congresso Usa autorizzava l’inizio della Tempesta nel deserto. Le stesse ore in
cui in Italia moriva lo scrittore Vasco Pratolini. In quel giorno di gennaio si
rimescolarono molte carte della nostra storia contemporanea. Ma ciò che ci
interessa qui sono le 200 mila persone che quel giorno animarono un corteo
sorprendente (per tanti motivi). Una mobilitazione che non si vedeva da più di
un decennio ai tempi. Che ripropose l’attualità di un passato che non passava e
non è ancora passato.
Ecco, quel corteo fu un corteo di massa. Un momento di incontro tra generazioni
diverse. Quelle che ancora subivano un riflusso micidiale. E quelle che si
affacciavano in un panorama politico sconosciuto. Le prime portatrici di
pratiche, parole, simboli assai pesanti e (probabilmente) irripetibili, le
seconde che provavano a costruire un viatico di incontro, ricomposizione,
risignificazione. Nello stesso quadrante urbano di sabato 4 ottobre 2025 (San
Giovanni, via Labicana, Esquilino) si verificarono scontri, tumulti tra autonomi
e polizia. Inizio anni Novanta. Le schermaglie durarono fino a sera inoltrata.
Ricordo, in modo fugace, i lacrimogeni lanciati dall’elicottero (rivisti anni
dopo a Genova 2001). Non riuscivo a seguire quei corpi che, muovendosi insieme,
dalla coda del corteo schizzavano fuori. E il fumo di auto incendiate. L’odore
acre. Gli autonomi? Soltanto loro?
Sabato 4 ottobre. Uno spezzone di corteo mescolato tra gli altri. Slogan forti,
eco da stadio. Tra le altre riecheggiano rime desuete (carabiniere sbirro
maledetto…), inattuali. Una parte di corteo incontrata per caso. Ci siamo
mescolati. Forse riconoscendo delle maniere, dei dettagli organizzativi. Degli
istinti. Intorno a noi niente nostalgia. Solo ragazzi e ragazze molto glamour.
Tagli di capelli, occhiali da sole, cuffie. Generazione Z, come la chiamano. Ma
già mascherata. “Siamo tutte antifasciste/Siamo tutte antisioniste”,
rigorosamente al femminile. Nonostante le fila rispondessero a maschi davvero
ben piantati. Visi scoperti, bandiere e cori al confine tra stadio e militanza.
Eppure riconosco sguardi di compagni (maschi) con cui è immediato il
riconoscersi. “Si aspetta il buio?”. Si aspetta il buio. Tutt’intorno sta
accadendo qualcosa di inaspettato, stupefacente. C’è troppa gente. Né gli
adulti, né i più giovani vi sono abituati. E poi le guardie non ci sono, o
almeno non si vedono.
Dopo il Colosseo, è quasi tramonto. Si aspettava il buio, no? Mano sulla spalla.
Fumogeni. Ci si traveste (chi ha abiti con cui travestirsi). Lo spezzone si
compatta e cambia pelle. Dietro di noi il corteo pacifico ci abbandona. Scarta
di lato prendendo una scorciatoia. Ci ritroviamo le guardie, le camionette, a
rimarcare che siamo la coda del corteo di massa (déjà-vu anni Settanta?). Ormai
lo spezzone da bianco e svestito è diventato nero e mascherato.
Basta davvero poco. Un gruppo si stacca. Prende una scalinata. Si mormora che la
polizia stia attaccando. Questa è la scintilla, peregrina.
Dal nostro punto di vista. In pochi si sono allontanati. Si è rimasti coesi.
Intorno quiete. Corteo pacifico. Tamburi. Free Palestine. Noi però in nero
stavamo. Non c’era occasione. Guardie lontane. Lontanissime. Arriviamo
all’incrocio. Un paio di black dressed si staccano. Martello in mano crepano i
vetri antiproiettile della filiale di una banca qualsiasi. Lo fanno quasi di
sorpresa per noi. Giusto qualche minuto prima, ci eravamo messi a coprire una
compagna che scriveva sul muro. Al martellatore nessuno copriva le spalle.
Perché il 4 ottobre 2025, come in altri momenti in piazza nella storia, tutti e
tutte sentiamo lo stesso mandato. E lo rivendichiamo.
Sentirsi respinti a margine di un grande corteo ci può stare. Sentirsi gridare
che non si vuole essere coinvolti in pratiche di piazza inaspettate e non
concordate fa parte del confronto. D’altra parte, nel nostro paese, restiamo
incapaci di fare i conti, in modo adulto, con il conflitto. Sia esso sociale,
generazionale, familiare, culturale… A sinistra, più che a destra. Non a caso il
4 ottobre 2025, di sera, fascistelli di Casa Pound e affini hanno sguaiatamente
messo in scena una jaquerie neofascista. Contro un bar à la page dell’Esquilino.
La risposta, troppo facile, al lancio di bottiglie contro la loro sede avvenuto
nel tardo pomeriggio… Ma vigliacchi erano e restano i (neo)fascisti.
Si arriva a San Giovanni. Travestiti ancora. Neri ma più visibili. Respinti dal
corteo molti si spogliano. Lo spogliarello avviene in penombra. Io che,
sinceramente, non mi vesto e non mi svesto. Credo che tra il fumo, il buio, la
confusione non bisogna nascondersi, mimetizzarsi. Quindi via i vestiti. Non
siamo a Carnevale.
Infatti. 4 ottobre. Sabato. Un giorno come gli altri. Non proprio. Un milione di
persone in piazza mosse da un internazionalismo inaspettato, sorprendente.
Generazioni diverse. Con il sole il corteo, gli incontri. Con il buio la
contrapposizione radicale, gli scontri. Guerriglia urbana, come piace definirla
all’informazione mainstream, provocata da una reazione scomposta delle forze
dell’ordine piombate con idranti e manganelli su un manipolo di giovanissimi
manifestanti che provavano a dare un senso al Blocchiamo tutto, dirigendosi
verso Termini. Ma non è importante stabilire chi ha iniziato. Il corteo è stata
la dimostrazione che, nel paese, esiste ancora un sentire radicale capace di dar
vita a una mobilitazione di massa limpidamente politica e senza ambiguità. Aver
paura del fuoco, del riot, stigmatizzare certe pratiche di piazza, considerare
gli scontri come manifestazione di un estremismo infantile, le barricate come
fardelli incombenti sulla integrità del movimento. Etichettare le donne (tante)
e gli uomini protagonisti della contrapposizione con la polizia come
provocatori, infiltrati, rivela la persistenza delle scorie di un passato con
cui, ancora, non si riesce a fare i conti.
Il 4 ottobre 2025 è, forse, una cesura politica e storica simile a quella
avvenuta il 13 gennaio 1991, quando una nuova generazione manifestò
l’inevitabilità del conflitto. Della contrapposizione, che non ha altra forma in
piazza se non quella dello scontro. Quella del violare il rigore metropolitano.
Ma tra i facinorosi accusati di devastazione, saccheggio, oltraggio e
resistenza, si sviluppa un tremore, un’energia, uno slancio che diventano parti
costitutive dello stare in piazza. Prendersi dei rischi. Non sorprendersi della
violenza poliziesca. Non subire. Non denunciare a posteriori soprusi. Non
lamentarsi il giorno dopo. A ciascuno il suo.
E poi, diciamoci la verità. Chi non ha paura di stare negli scontri. Come si
supera la paura? Non è mica un giro sull’ottovolante. Si rischia: di essere
arrestati, di farsi male, di morire accidentalmente. Una paura che si supera,
forse, solo se non hai nulla da perdere. Ma chi non ha nulla da perdere? (-ma)
(disegno di dalila amendola)
Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena
trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse
di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio
condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente
finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava
le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti
migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4
ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città
italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le
masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture
spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti
a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli
cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in
questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza.
È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è
soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno
deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per
destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani
per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito
dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato
alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7
ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o
meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in
piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello
con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai
portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione
di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo
settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star
system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi
può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche
di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa
“intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che
ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere
d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere?
Che ognuno declini il “noi” come preferisce.
Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo
di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era
partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei
leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva
annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare
le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e
realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22
settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt
Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei
lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud
Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel
frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di
preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento,
deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza
collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al
coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco
delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture
sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è
ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La
ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di
strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti.
Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche
vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare
l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso
dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei
portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia,
da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo
sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da
tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di
armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri
paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica
del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a
Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A
Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave
coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone
arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del
porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da
cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla
tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo
in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro
la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione
centrale. E così in decine di altre città d’Italia.
Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società
civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di
sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone
bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a
Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di
antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina,
nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo
lontano.
Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la
manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A
Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la
direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il
corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non
erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli
abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio
delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura.
Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra
mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena
impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai
balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone
abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere
di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla
ancora.
Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino
si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse
scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto
persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a
passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di
Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di
Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si
discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno
sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di
materiale bellico, al terminal Spinelli.
Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si
intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera:
nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini,
improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di
guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso.
La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti,
nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del
potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa,
all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via
Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni,
i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è
impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement
liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal
lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni
indotti e diffusa indifferenza.
La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si
parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto
della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina
tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta
l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene,
trasgredire le regole è diventato legittimo.
Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è
bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in
sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e
i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti
da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del
corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata.
Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una
camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse
prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona;
esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il
sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a
rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di
resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di
quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo
orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul
ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto
questo.
A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei
sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo
selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città.
Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati
distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università:
striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di
riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole
accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata
chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi
giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del
potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e
carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone
finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo.
Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri
non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa:
bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci
contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via
social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per
tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota
di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le
forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il
nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che
abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni.
La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla.
Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva –
tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una
protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli
adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti
mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone
romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi
tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto
di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche
cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria
Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone
tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano
neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i
fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio,
aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito:
polizia e giornalisti, non pervenuti.
Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con
leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di
pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e
ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare
che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la
quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire
dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza
di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e
immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche
a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa
possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare?
A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio
esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del
discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di
coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro
impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con
i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che
concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei
porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio;
ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare
l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e
protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di
Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai
trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo
punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di
base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili
condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche.
L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo
palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la
rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli
interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato
con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è
soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni
migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso
militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione
pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia
israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le
nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo.
I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri
schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo
finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo
potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa
meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e
idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un
movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato
dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di
riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti
non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che
abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare
a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire
quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa
trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere
ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di
spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo
farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo
metterci in ascolto. (redazione monitor)
(disegno di escif)
La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo
Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova
per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice
1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi
dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti
israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container
Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti
settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod.
Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato
le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto
tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa
contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale
esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa
un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo.
La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta
l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere
utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a
violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla
Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul
Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre,
la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane
hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di
Gaza.
La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS
spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito
dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le
ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container
di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal
porto di Salerno, come già successo più volte in passato.
Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo
Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a
Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate
all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei
principali produttori di armi israeliani”.
Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver
caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione
di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da
nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero
compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa
mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio
2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un
convoglio di aiuti umanitari.
Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer
la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare
ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di
nastri per mitragliatrici e per cannoni.
Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi
transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato
che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati
materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato
fatto ai materiali in transito, o sbarcati.
La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente
implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno
2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa
(Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di
porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane,
hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda
Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza
autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento
presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis
comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti
intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo
tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di
controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza
dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e
transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i
diritti umani).
È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto
sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha
fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando
“macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per
conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale
produttore israeliano di sistemi d’arma. La nave è giunta a destinazione ad
Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la
nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della
compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto
tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle
autorità preposte al controllo?
Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono
partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a
potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici
e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della
popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e
altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano.
È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha
dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni
Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il
problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con
Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto
internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa
chiudere i porti rispetto a Israele».
Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1
luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a
economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo
totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e
macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le
relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni)
a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i
palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro
coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità
aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività
commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano
violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo
palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una
tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale
Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti
e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini
internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini.
A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la
popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della
complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei
terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera.
(bds salerno)
Il 14 ottobre si terrà ad Udine la partita Italia vs Israele valevole per le
qualificazioni al prossimo mondiale di calcio maschile. Un ulteriore evento di
sportwashing in cui lo stato israeliano costruisce la sua vetrina e la sua
immagine nell’arena pubblica internazionale. Questo evento ha attirato
l’attenzione dei comitati locali propal che si stanno […]
(disegno di sam3)
Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due
ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di
Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico.
Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare
per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un
paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I
calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali
prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche
sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa
dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto
un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra
destinazione.
La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e
i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il
paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni
modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima
ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella
seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino;
infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra
essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si
trovano le spoglie dell’autore torinese.
Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori
definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia
lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul
sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da
Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di
scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il
sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la
decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso.
In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno
nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di
costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel
mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non
c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno
individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende
completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è
niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”.
Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e
torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a
sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno
spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a
ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se
fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena.
Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal
momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce
del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo
l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la
concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per
pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio
è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti
gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica.
La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari
parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la
festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano
dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi
al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme
a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata,
c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può
spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde
senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur
rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane
indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito
Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha
lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello
che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni,
Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il
festival.
Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su
scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di
interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza
proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa,
aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi
nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa.
Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con
cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai
suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano
in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra
conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo
offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero
Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa
esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da
essa, si rafforza.
Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad
affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il
genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto
nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel
frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono
inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia –
declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro
mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi
raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona
gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava
all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video
fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo
l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare
che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è
concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di
non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese.
Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco
informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora
e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro
opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di
dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati
economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane.
Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica
liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel
ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le
aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi
minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari
le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel
ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!».
Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di
riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese
lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni
principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli
occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a
chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato
da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa
rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non
gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia
e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge
nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato
scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo
stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire
da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è
dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio
esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare
consigli che crede di portata generale.
Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora
materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva
come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo
contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e
retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato
ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se
fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo
contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un
registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna
e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi.
Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in
villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca
di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e
dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un
luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in
carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale:
quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia
del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma
la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità
sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto
sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una
ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano.
Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha
posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival
che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi
finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia
l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che
il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti
dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni
ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle
autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano
di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le
disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una
possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una
scelta. (marco patruno)