Tramandare il fuoco. Per un approccio libertario alla questione palestinese. Una critica a essenzialismo e nazionalismo

Anarres - Wednesday, July 24, 2024

Tramandare il fuoco

Per un approccio libertario alla questione palestinese. Una critica a essenzialismo e nazionalismo

Introduzione

Quest’opuscolo è frutto di un confronto collettivo durato, a fasi alterne, alcuni mesi. È diviso in tre piccoli saggi, che, sebbene redatti da singol* com­pagn*, sono stati let­ti e rielaborati collet­ti­vamente.

Abbiamo scelto di mantenere lo stile peculiare di cia­scu­no scritto. Come vedrete i testi, pur pensati da ango­la­zio­ni diverse, si intersecano spesso: ci augu­ria­mo che que­sto intersecarsi abbia comunque evi­ta­to la ridon­dan­za.

Non siamo storici, sociologi, politologi o filosofi e non pre­ten­diamo di esserlo.

Siamo antimilitaristi ed anarchici ed è interrogando il no­stro posizio­na­men­to, verificandone costan­te­men­te la va­li­dità interpretativa, che ab­bia­mo lavorato singolar­mente e collettivamente.

Quest’opuscolo nasce dalla necessità di immaginare e pra­ti­care una diversa prospettiva politica alla lotta con­tro il genocidio a Gaza. E, più in generale, a tutte le guer­re e ad ogni dinamica escludente.

Abbiamo avuto ed abbiamo un’enorme difficoltà ad attraversare i movimenti che sono nati per contrastare il terribile massacro attuato dal governo israeliano nella Striscia di Gaza.

Uno scenario in bianco e nero, come certe pellicole dove i buoni sono assolutamente buoni ed i cattivi asso­lu­ta­men­te cattivi.

Non è così, non è mai così.

E, lo diciamo chiaro, non ci accontentiamo dei grigi: aspi­ria­mo ad una tavolozza ampia, plurale, aperta.

Con il passare dei mesi abbiamo temuto che arrivasse l’as­suefazione all’orrore. Già sta accadendo in Ucraina, già avviene nei tanti luoghi del pianeta, dove si con­su­ma­no tragedie immani nel silenzio dei più.

Di un fatto siamo certi, perché rappresenta un orizzonte etico ineludibile. Non ci rassegneremo mai all’inelut­ta­bi­li­tà dei massacri, degli stupri, delle torture.

Il nostro impegno non è venuto mai meno, nonostante la no­stra sostanziale estraneità a manifestazioni aperte, se non promosse, da esponenti religiosi e da nazionalisti.

Ab­biamo costruito piazze, cortei e momenti di riflessione e lotta contro la fabbricazione ed il commercio di armi, i poligoni e le basi militari, la collusione tra scuola, uni­ver­si­tà e guerra, contro la militarizzazione delle periferie, del­le frontiere, dei cpr…

Abbiamo sostenuto disertori ed oppositori in Russia e in Ucrai­na. Abbiamo appoggiato gli anarchici sudanesi che si battono contro i macellai che si contendono il ter­ri­to­rio.

Siamo al fianco di chi lotta contro sfruttatori ed op­pres­so­ri nel “proprio” paese, noi lottiamo contro sfruttatori ed oppressori nel “nostro” paese.

Noi siamo dalla parte delle vittime. Dalle parte delle bam­bine e dei bambini, degli uomini e delle donne uccise, massacrate, affamate, umiliate.

In ogni dove. Sempre.

Per una più agevole lettura potete anche scaricare qui il pdf dell’opuscolo

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I sommersi e i salvati

Anomalie di movimento e questione palestinese

L’approccio prevalente dei movimenti di emancipazione politica e sociale alla questione palestinese rappresenta un’anomalia tanto forte e radicata da non essere percepita come tale.

L’immane massacro della popolazione gazawi e i movimenti di appoggio alla “resistenza” palestinese sviluppatisi nel nostro paese dopo il 7 ottobre 2023 hanno evidenziato crepe che hanno radici profonde, tutte da indagare e comprendere.

Ci muove una necessità forte, perché al di là delle peculiarità della questione palestinese, temi quali il nazionalismo, il declino dell’approccio di classe, l’affermarsi di dinamiche identitarie essenzialiste e di una concezione distorta dei processi decoloniali ci interrogano tutti sulle prospettive di un movimento di emancipazione sociale, individuale, politica capace di trasformare l’esistente all’insegna di un concreto affermarsi di libertà, uguaglianza, solidarietà. Una concretezza che fa tesoro degli ultimi 150 anni di critica all’astrazione dei principi che hanno informato di sé le rivoluzioni liberali: formalmente universali ma, nei fatti, escludenti. I processi di soggettivazione degli esclusi dall’astratto universale che si impone con le rotture rivoluzionarie tra la fine del Seicento e la fine del Settecento hanno innescato percorsi trasformativi, in cui le differenze e, quindi, il frantumarsi del soggetto politico borghese, maschio, eterosessuale, ricco, di cultura europea definiscono un orizzonte di lotta inedito. Si è trattato di un percorso lungo, non terminato, che oggi rischia di perdersi in mille rivoli identitari chiusi in se stessi che negoziano il diritto all’alterità con il riconoscimento di qualsiasi altro percorso identitario.

Una trappola dall’agro sapore essenzialista. 1

Domanda apparentemente paradossale

Israele è il nemico assoluto? Un cancro che va debellato a costo di uccidere buona parte di chi ci vive? E di cacciare chi resta?

Nessuno ammetterebbe esplicitamente di auspicare il genocidio dei cittadini israeliani.

Eppure.

Movimenti “radicali” da mesi scendono in piazza brandendo bandiere palestinesi e scandendo lo slogan “from the river to the sea Palestine will be free”. Questo slogan ha un significato inequivocabile.

Eppure.

Questi movimenti sono animati anche da gruppi e persone che, in altri contesti, si battono ogni giorno per l’universalità di libertà, uguaglianza e giustizia sociale.

Uno slogan analogo “from the river to the sea” è usato dai nazionalisti di destra israeliani che vorrebbero annettere definitivamente Cisgiordania e Gaza.

Chiunque lo enunci, palestinese o israeliano, auspica il genocidio di tutti gli israeliani o di tutti i palestinesi.

Chiunque lo pronunci ha un approccio squisitamente essenzialista, perché considera tutti gli individui, tutti i gruppi sociali, tutte le donne, tutti gli uomini e tutti i bambini nemici da annientare, investiti da una colpa collettiva, quella di esistere e di essere diversi. Un approccio simile a quello di Arnaud Amaury durante la crociata contro i catari, che, ad un soldato che gli chiedeva come fare a distinguere gli eretici rispose: “Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi”.

Qualcuno potrebbe facilmente obiettare che oggi è proprio Israele che sta provando ad uccidere e a cacciare via tutt* gli abitanti della Striscia di Gaza. E, più lentamente, ma inesorabilmente sta facendo pulizia etnica anche in Cisgiordania.

Senza dubbio. È un orrore che continua senza tregua, da quando, su scala numericamente inferiore, truppe palestinesi hanno massacrato, stuprato e torturato oltre milleduecento israeliani. L’attacco dell’esercito israeliano scattato immediatamente dopo la strage del 7 ottobre, ha fatto decine di migliaia di morti e trasformato buona parte del territorio Gazawi in un cumulo di macerie.

I fascisti confessionali al governo in Israele, i fascisti confessionali al governo a Gaza hanno lo stesso obiettivo. Ammazzare il maggior numero di abitanti e cacciare via gli altri.

Gli uni hanno i mezzi per farlo. Gli altri no.

Entrambi godono di forti appoggi, con una sostanziale differenza. Gli Stati Uniti, sebbene insofferenti verso le politiche governative israeliane, mantengono il proprio appoggio politico e militare. I paesi arabi e musulmani dell’area, sebbene formalmente filo-palestinesi, non muovono un dito a favore della popolazione gazawi.

Domanda. È legittimo ritenere che tutti gli israeliani approvino le politiche del “loro” governo?

Domanda. È legittimo ritenere che tutti i palestinesi approvino le politiche dei “loro” governi?

Si tratta di domande retoriche? Purtroppo no. Manifesti, slogan, documenti del movimento che nel nostro paese supporta la “resistenza palestinese”, identificata con chi ha attuato i massacri del 7 ottobre in Israele, descrivono il paese come privo di opposizione all’occupazione militare e al genocidio dei gazawi.

Eppure.

Ci sono testimonianze, appelli alla solidarietà che testimoniamo un’opposizione concreta alle politiche del governo israeliano. Non ultime quelle dei refusenik che rifiutano il militare e i massacri e rischiano il carcere.

Anche a Gaza e in Cisgiordania ci sono voci critiche verso Hamas e i suoi alleati: sono voci flebili, ma ci sono. Non se ne trova traccia nei documenti dei sostenitori della “resistenza palestinese”.

Negli stessi documenti non c’è traccia di critica ad Hamas, nonostante sia un’organizzazione confessionale, la cui polizia segreta, oltre ad indagare e perseguire giornalisti ed oppositori politici, ha anche compiti di disciplinamento morale.

Eppure.

Nel dicembre del 2023, due mesi dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani, nel sud della Striscia ci sono state manifestazioni di protesta contro Hamas, accusata di accaparrare cibo e medicine per rivenderle a caro prezzo.

I movimenti che in Israele hanno contestato la riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu, hanno avuto una buona copertura mediatica dai media italiani.

Le proteste contro Hamas e la sua dirigenza che, nello stesso periodo, hanno scosso la Striscia di Gaza hanno avuto un rilievo decisamente minore.

Nell’estate del 2023 migliaia di ragazzi sono scesi in strada, soprattutto nel sud della Striscia, per protestare per l’elettricità e contro la corruzione, chiamando in causa lo stesso Haniyeh, il capo politico di Hamas. 2

Fa un gran comodo al governo israeliano e a chi lo appoggia sostenere che la popolazione di Gaza si identifica in toto con il proprio governo. Ci pare legittimo chiederci perché gran parte dei movimenti che si battono per fermare le atrocità israeliane non voglia dare il rilievo che merita al fatto che il consenso intorno ad Hamas e alla sua dirigenza è tutt’altro che unanime.

Diamo uno sguardo al contesto: in un’area piccolissima, semidesertica, con scarsissime risorse idriche, schiacciata da anni di chiusura ed embargo, con una densità di popolazione altissima ed un tasso di disoccupazione spaventoso, la sopravvivenza della popolazione dipende dagli aiuti esterni. Oltre a quelli delle Nazioni Unite sono stati fondamentali quelli del Qatar, petromonarchia che sostiene i Fratelli Musulmani nel Mediterraneo Orientale, nel Maghreb, nel Mashrek e in Europa. Va da sé che il sostegno del Qatar non arriva direttamente alla popolazione, ma è diretto ad Hamas. Hamas distribuisce la carità islamica a chi si conforma ai precetti e alle direttive dell’organizzazione.

In questo modo, specie a Gaza, la popolazione palestinese, la più laica del Mediterraneo Orientale, si è progressivamente spostata su posizioni fondamentaliste islamiche.

Israele, con un machiavellismo degno di miglior causa, ha inizialmente favorito la crescita di Hamas, nella convinzione che il passaggio all’estremismo islamico avrebbe ridotto le simpatie verso il nazionalismo palestinese. Un errore di prospettiva piuttosto grave.

Nello stesso periodo anche in Israele l’alleanza tra il Li­kud ed i partiti religiosi ha spostato l’asse politico della po­li­ti­ca istituzionale verso una prospettiva fondamen­ta­li­sta ebraica.

Hamas ha l’obiettivo di annientare tutti gli israeliani, la destra religiosa israeliana quello di annientare tutti i palestinesi.

Siamo arrivati ad un punto di non ritorno? Ci auguriamo di no. Ma, soprattutto, proviamo ad indagare le crepe per stendere fili di solidarietà attiva a chi, ovunque in quell’area, si muova in una prospettiva internazionalista e libertaria. Non si deve concedere alcuna indulgenza ai fascisti confessionali israeliani e, con altrettanta forza, la si deve negare ai fascisti confessionali di Hamas.

L’invenzione del nazionalismo

Il governo israeliano mira alla “Grande Israele”, che si estenderebbe dal fiume Giordano sino al Mediterraneo.

Le varie fazioni palestinesi vogliono il “ritorno” alla “Palestina storica”, dal fiume Giordano al Mediterraneo.

Israele e la Palestina storica sono invenzioni culturali, che diventano vere perché qualcuno le ritiene tali.

Le entità statali che, nell’area che chiamiamo Medio Oriente, nascono dopo la fine degli imperi coloniali ottomano, inglese e francese sono del tutto artificiali. Tutti gli Stati lo sono.

Paradossalmente la colonizzazione culturale fa sì che i nazionalismi europei divengano il modello cui si sono ispirate anche le lotte anticoloniali, come quella israeliana e palestinese.

Una parentesi necessaria

Chi mira alla costruzione di uno Stato-Nazione pretende di fondarne la legittimità sull’esistenza di una comunità linguistica e culturale omogenea, che aspirerebbe ad una propria “casa” comune. Nei fatti sappiamo bene che comunità linguistiche e culturali omogenee, quando esistono, sono la conseguenza e non la causa della nascita di uno stato.

Senza andare lontano è sufficiente pensare a quante lingue diverse si parlassero nel nostro paese prima del 1861. Neppure i monarchi sabaudi che annetterono al proprio regno la penisola e la Sicilia parlavano l’italiano.

Unificazione linguistica e culturale è stato un processo che ha seguito e non preceduto la nascita del regno d’Italia. Un processo imposto con la forza delle leggi e la violenza dell’esercito. Una violenza che è proseguita dopo l’annessione di Trento, Trieste, Istria e Dalmazia, luoghi dove esisteva una forte multiculturalità, che la monarchia sabauda provò a distruggere con la forza.

La celebre frase “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani” ci mostra come l’asservimento culturale sia necessario al rafforzamento del consenso all’occupazione dei territori, all’esistenza stessa del nuovo Stato. Gli elementi simbolici che ne disegnano l’identità sono i tasselli necessari a comporre il mosaico “unitario” della “nazione”.

La riuscita di queste operazioni, che si ripresentano simili a diverse latitudini, non dipende dall’essere “vere”, “autentiche” quanto dalla capacità di costruire un immaginario collettivo.

In ogni dove ci sono dispositivi culturali nei quali giacciono memorie (reali o presunte tali), racconti, origini mitologiche: i nazionalismi vi attingono per costruire un’identità forte. Un’identità più è forte più è escludente verso gli “stranieri” che ci vivono accanto, verso chi non rispetta i canoni di genere prevalenti, verso chi, in qualunque modo rischia di far crollare il castello di carte nazionalista. Chi non fa parte del “popolo” e dei valori che esso incarna non può essere parte della nazione.

Quando Umberto Bossi decise di inventare la Padania sapeva che per far nascere una nazione dalle sue fantasie geografiche era necessario un immaginario fondativo, una serie di rappresentazioni mitiche che dessero densità simbolica a territori contigui ma differenti nelle lingue e nella percezione di sé. Il sole delle alpi, i celti, le cerimonie alle sorgenti del Po e a Venezia erano alcuni degli elementi di cui si avvalse il fondatore della Lega Nord per dare forza emotiva al suo progetto di Padania.

Senza un forte afflato emotivo non c’è il popolo come anima delle nazioni. La nozione stessa di popolo è un costrutto culturale funzionale alla legittimazione degli stati-nazione.

Bossi ed i suoi fallirono. Ma il loro approccio era lo stesso, con tasselli culturali diversi, di cui si avvalgono i nazionalismi ad ogni latitudine. La Padania, vista la vicinanza temporale dell’esperienza, rende facile cogliere l’artificiosità nella fondazione delle nazioni.

Uniformare, compattare, rendere simili o espellere sono dinamiche tipiche dell’approccio nazionalista: che si basi su una presunta radice biologica, o su un’identità culturale o su un mixer delle due il nazionalismo, per esistere, deve escludere, tagliare fuori gli esseri umani non conformi.

Non ci sono nazionalismi buoni. Il nazionalismo degli sconfitti non è migliore di quello dei vincitori.

Facciamo gran fatica a comprendere come gruppi e persone che partecipano a movimenti contro le frontiere, le guerre, la repressione dei migranti, possano sostenere un qualsiasi nazionalismo, foss’anche quello perdente dei palestinesi.

Intendiamoci. Il nostro sostegno ai bambini e alle bambine, alle donne e agli uomini di Gaza e Cisgiordania vittime di una violenza dall’intento genocida è senza se e senza ma. Tuttavia non sventoleremo mai la bandiera nazionale palestinese.

Siamo troppo occupati e calpestare e bruciare la “nostra”.

Il nazionalismo palestinese ed il regno di Giordania3

Nel Mediterraneo Orientale la politica della Gran Bretagna, che spinse sull’accelleratore dei nazionalismi arabi ed ebraici durante la prima guerra mondiale – da Lawrence d’Arabia alla dichiarazione Balfour – divenne un boomerang per il dominio inglese, che si trovò a fare i conti con diversi opposti nazionalismi, che in comune avevano solo il desiderio di liberarsi dal giogo coloniale.

Quanto è avvenuto dopo il maggio 1948, quando i britannici lasciarono i territori occupati in quelli che divennero i confini dello Stato di Israele sino al 1967, è la diretta conseguenza dell’affermarsi di istanze nazionaliste contrapposte.

Dopo la guerra civile del 1948 buona parte dei palestinesi che vivevano nei territori controllati da Israele fu obbligata a prendere la strada dell’esilio. Quelli che rimasero, circa il 20%, divennero cittadini di serie B dello Stato ebraico.

La Cisgiordania e la Transgiordania, dove oggi come allora la popolazione era in prevalenza palestinese, vennero annesse al regno hashemita di Giordania. La Striscia di Gaza finì sotto il controllo egiziano.

Circa vent’anni dopo, era il 1967, la coalizione araba (Siria, Egitto, Giordania, Iraq), venne sconfitta nella guerra dei Sei Giorni ed Israele occupò la Cisgiordania, le alture del Golan in Siria, la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza.

Tre anni dopo in Giordania ci fu una sanguinosa guerra civile tra le organizzazioni armate palestinesi e l’esercito giordano, che si concluse nel luglio del 1971 con l’espulsione delle organizzazioni politico-militari palestinesi.

Oggi circa il 70% della popolazione giordana è di origine palestinese: in parte palestinesi che vivevano in Transgiordania dopo la fine del mandato inglese e la nascita del regno di Giordania nel 1946, in parte profughi del 1948 e della guerra dei Sei Giorni.

Nel 2014, quando la guerra civile in Siria obbligò alla fuga i palestinesi incalzati dall’ISIS, la Giordania, che pure accolse migliaia di siriani arabi e non, chiuse le porte a chi fuggiva dal campo profughi palestinese di Yarmuk, arrivando a sparare a quelli che riuscivano comunque a passare la frontiera.

Non solo. Il regno di Giordania nega la nazionalità ai palestinesi che la richiedono e, in alcuni casi, la toglie a chi l’ha acquisita.

Eppure.

Le politiche del regno di Giordania nei confronti dei palestinesi sottoposti alla propria giurisdizione sono state e continuano ad essere includenti verso chi riconosce la legittimità dello Stato hashemita, ed escludenti verso i nazionalisti palestinesi.

È un elemento che a nostro avviso necessita di una riflessione attenta: perché il ruolo di una dinastia che proviene dalla penisola arabica, con significative collusioni storiche con il colonialismo britannico è stato ed è tanto sottovalutato dai movimenti che appoggiano il nazionalismo palestinese?

Un’ipotesi a nostro avviso congrua è il mancato riconoscimento della natura coloniale del Regno di Giordania, l’unico pezzo di territorio rimasto nelle mani della dinastia hashemita, dopo il risarcimento che le venne offerto per l’appoggio agli inglesi durante la prima guerra mondiale.

Un approccio distorto alla decolonialità

Il concetto di decolonialità è uscito da tempo dagli spazi accademici per deflagrare all’interno della riflessione e della prassi dei movimenti di emancipazione politica e sociale più radicali. Purtroppo spesso ne è stata ignorata la carica sovversiva finendo con lo scivolare in dinamiche paradossalmente essenzialiste4

Nei movimenti di appoggio al nazionalismo palestinese questa dinamica è sin troppo evidente. La nozione di popolo ne è il cardine. Assumerla all’interno di una prospettiva che si pretende decoloniale è una incredibile aporia, poiché ogni concetto costitutivamente escludente è estraneo a quest’approccio. Non esiste “un” punto di vista dei colonizzati, ma tanti diversi punti di vista e diversi posizionamenti spesso divergenti, che non possono essere inscatolati nel concetto di popolo.

Riconoscere l’importanza che la liberazione scaturisca dalla volontà dei soggetti direttamente coinvolti non comporta un’adesione “automatica” ed acritica a qualunque iniziativa di soggettività investite storicamente e culturalmente dall’oppressione coloniale.

Parimenti l’assunzione su di sé di una colpa collettiva, effetto dell’essere nati e di vivere in ambiti statuali che hanno attuato feroci politiche coloniali e post coloniali, è una dinamica speculare gravida di pessime conseguenze. Chi la attua nega la libertà di critica di qualunque approccio o iniziativa provenga da soggettività colonizzate (o razzializzate o escluse per ragioni di genere ed identità).

Non siamo colonialist* perché l’Italia ha fatto guerre per conquistare e sfruttare la Cirenaica, la Tripolitania, la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia, la Slovenia, la Croazia, l’Albania, il Dodecaneso… ed oggi perpetua la propria azione in missioni militari all’estero per difendere gli interessi delle industrie armiere ed energetiche.

Non siamo colonialist* perché il governo del paese dove viviamo è colonialista.

La memoria nel suo informare di sé il nostro presente è un meccanismo complesso e variabile. Abbiamo tutti a disposizione una cassetta degli attrezzi culturale cui attingiamo per comprendere e cercare di modificare il mondo intollerabile in cui siamo forzati e vivere.

Nella cassetta, che ovviamente non è per tutt* la stessa, ci sono tante memorie, che arrivano da fonti diverse. Alcune restano sepolte per decenni ma poi riemergono. Altre ancora si sono dissolte, perché nessuno le ha fatte proprie mantenendole vive. Vi sono casi in cui non c’è memoria perché non ci sono più quelli che l’avrebbero potuta tramandare.

In ognuno di questi dispositivi c’è di tutto: spetta a noi scegliere. La nostra è anche, sempre, una scelta di campo.

Nel nostro campo c’è Augusto Masetti, che nel 1911 manifestò il suo rifiuto a partire per la conquista della Libia, sparando al suo colonnello ed affrontandone le conseguenze. Ci sono i disertori e gli ammutinati della Grande Guerra di espansione coloniale ad est. Ci sono quelli che partirono per combattere a sostegno della rivoluzione anarchica contro fascisti, nazionalisti e clericali in Spagna. Ci sono quelli che rifiutarono di fare i soldati e finirono nelle carceri militari della Repubblica Italiana. Ci sono le donne e uomini che si sono opposti e continuano ad opporsi all’oppressione di classe, alle cesure identitarie, alle guerre, alla negazione dei percorsi di autonomia delle donne e delle identità non conformi.

L’approccio decoloniale ci offre l’opportunità di chiudere la parabola degli universali escludenti per approdare ad un universale plurale che si esperisca nella molteplicità dei percorsi, delle relazioni, delle possibilità che la pratica della libertà nell’uguaglianza e nella solidarietà aprono a tutt*, in ogni dove.5

Purtroppo oggi alla prospettiva decoloniale “Manca un’elaborazione di questa idea che la separi da nazionalismi, comunitarismi e approcci basati su una prospettiva unica (piuttosto che su intersezioni) che rischiano di farla diventare una concezione escludente quando non lo è.

Come elaborata originariamente dal collettivo Modernità-Colonialità-Decolonialità (MCD) e poi arricchita dai contributi del femminismo indigeno, dagli studi sul pluriverso e dalle epistemologie del Sud per non citare che alcuni dei principali ambiti di discussione, la decolonialità6 mira a superare i limiti di precedenti approcci.

Si tratta in particolare del culturalismo dei Postcolonial Studies, che si sono spesso limitati a critiche della colonialità che restavano limitate a un’analisi del discorso e confinate in ambiti accademici, e dell’economicismo di teorie quali lo sviluppo ineguale o il sistema mondo, incapaci di includere quello che gli approcci decoloniali chiamano la “decolonizzazione epistemica”. In questo senso, i punti qualificanti della decolonialità sono la necessità di non limitarsi alla pura teoria per connettersi a lotte e situazioni reali, di riscoprire modi di pensare al di fuori delle tradizioni intellettuali europee e di costruire ponti di solidarietà militanti attraverso diverse culture e assi di intervento.”7

Ponti di solidarietà. Questo è il nocciolo della questione. Costruire legami, intersezioni, percorsi comuni, cercando di comprendere ed essere compresi offre ai movimenti di emancipazione sociale l’occasione preziosa di allargare il proprio orizzonte interpretativo e di lotta.

La memoria è un ingranaggio collettivo che deve essere curato ed alimentato costantemente.

Lo sguardo classista e internazionalista

Dal nostro itinerario politico e culturale traiamo gli strumenti per frantumare la nozione di popolo, prendendo le mosse anche dalla cesura di classe. Nel Diciannovesimo secolo dal rifiuto della servitù salariata, dalla consapevolezza che la piramide sociale era frutto di una relazione sociale basata sul diritto alla proprietà privata, sul lavoro come merce negoziabile a poco prezzo, scaturirono lotte che portarono ad un’alleanza transnazionale degli oppressi e degli sfruttati, la Prima Internazionale. Il terreno della lotta di classe contribuì ad indebolire l’idea, costituti­vamente interclassista, di popolo. La consapevolezza che sfruttati e sfruttatori erano gli stessi al di là di ogni confine nazionale, rese possibile la costruzione di ponti solidali tra i lavoratori e lavoratrici di ogni paese. Con la rottura della Prima Internazionale e la nascita dell’Internazionale antiautoritaria a Saint Imier nel 1872 la lotta contro lo sfruttamento capitalista si saldò con quella contro l’oppressione statuale.

In ambiti coloniali o post coloniali i colonizzati diventano forza lavoro a poco prezzo. A lungo i palestinesi sono stati lavoratori a buon mercato in vari settori dell’economia israeliana. Oggi sono stati in parte sostituiti da immigrati con la cittadinanza ebraica provenienti dalla Russia. La cesura di classe esiste anche a Gaza, in Cisgiordania e in Israele. Creare relazioni solidali tra lavoratori e lavoratrici, precari e disoccupati che vivono una comune condizione di sfruttamento è un modo concreto e simbolicamente potente di far saltare la legittimità di qualsiasi entità nazionale.

Eppure.

Tanta parte dei movimenti continua a considerare prioritaria la questione nazionale, come se la lotta di classe avesse bisogno di uno Stato-nazione nuovo di zecca. Certa “sinistra” si è ancorata a quest’opzione sin dai tempi della divisione del mondo in blocchi.

Eppure.

Di fronte al lento precipitare verso la colonizzazione e la trasformazione della Cisgiordania in un insieme di bantustan scollegati gli uni dagli altri servirebbero saldi ponti tra sfruttati che sappiano supportare l’abbattimento di muri, barriere, confini. Fuori da una logica nazionalista potrebbe emergere lo spazio per alleanze che estirpino alle radici il conflitto che da 76 anni insanguina il Mediterraneo Orientale.

Per fermare il tremendo massacro in atto nella Striscia servirebbe un’insurrezione generalizzata in Israele, in Cisgiordania e a Gaza. Un’insurrezione contro i propri governi, i propri governanti, le proprie istituzioni religiose. Difficile? Sicuramente. Ma certo anche l’unica possibilità per centinaia di migliaia di uomini, donne, bambine e bambini.

L’antimilitarismo, le università e la questione palestinese

I movimenti che si sono sviluppati nelle università hanno il merito di aver colto il nesso fondamentale tra ricerca accademica ed industria bellica, in un intrecciarsi di interessi che pongono al centro la logica del dominio e quella del profitto, fuori e contro ogni supposta neutralità di un’indagine scientifica che si muove seguendo gli indirizzi dei committenti di turno. Hanno tuttavia un forte limite sia nella definizione degli obiettivi che nelle modalità nel perseguirli.

L’enorme emozione che accompagna i massacri con finalità genocide della popolazione gazawi, finisce con il porre in primo piano solo la critica e il boicottaggio verso lo Stato di Israele, dimenticando che il nostro paese (e le sue università) sono in prima fila in numerosi teatri di guerra, che restano sullo sfondo, avvolti in un oblio pericoloso, che rischia di renderci complici di infiniti orrori.

Qualcuno potrebbe obiettare che la tragedia che si consuma a Gaza è prioritaria, dimenticando che in questi stessi mesi nelle guerre dimenticate di mezzo mondo vengono perpetrati massacri orrendi. Pensiamo al Sudan, al Congo, all’Eritrea, alle regioni curdofone nel nord dell’Iraq.

Ci limitiamo per brevità al Sudan.

Nei due anni precedenti lo scoppio della guerra civile che ha ridotto in macerie il Sudan, ucciso o obbligato a lasciare le proprie case centinaia di migliaia di persone, l’Italia ha fornito armi alle RSF, le Rapid Support Force di Dagalo, ex comandante degli Janjaweed, i “diavoli a cavallo”. In questa guerra Dagalo e i suoi sono tornati al loro sport preferito, quello per cui erano noti da decenni, ossia bruciare i villaggi, stuprare le donne, uccidere gli uomini e arruolare i bambini.

L’Italia contava su Dagalo per bloccare le partenze di migranti da quell’area. Dagalo ricambia il sostegno da par suo, nel silenzio dei media e, purtroppo, di tanta parte dei movimenti.

Purtroppo nelle acampade studentesche l’emergere di un’attitudine antimilitarista non si è saldata con una significativa critica ai nazionalismi, pur presente nelle componenti studentesche che sostengono l’esperienza di sottrazione alle dinamiche dello Stato-nazione in Rojava.

Se la lotta contro tutte le guerre, e, in particolare, quelle dove il nostro paese ha un ruolo diretto, riuscisse a concretarsi in lotta agli accordi tra l’industria armiera e le università, investendo tutte le intese di cooperazione bellica e non solo quelle con Israele, i movimenti nati in questa primavera avrebbero la postura necessaria a gettare sabbia negli ingranaggi ben oliati delle scuole e università colluse con la guerra. Compresa quella ai poveri che si combatte per le strade delle nostre città.

Una critica radicale oltre a denunciare e combattere il sempre più stretto rapporto tra Università e ricerca bellica si interroga sul ruolo delle Università e sulla necessità di espropriazione permanente di ambiti di studio e ricerca al servizio dell’imperialismo e della logica capitalista.

I sommersi e i salvati

Nei lager nazisti sopravvivevano qualche mese in più solo quelli che si rendevano utili in qualche modo al funzionamento della città-fabbrica della morte. Chi ne diveniva complice, degradando l’ultimo granello di dignità che gli veniva lasciato, aveva una chance di farcela. Ma il prezzo era enorme.

L’orrore concentrazionario nazista, come i gulag staliniani, non rappresentano un’anomalia, una crepa nell’ordine del mondo, ma una possibilità sempre aperta.

Gaza oggi è una sorta di lager a cielo aperto: chi non viene sventrato dalle bombe e dai missili israeliani sopravvive solo se riesce ad avere qualche razione in più per non soccombere alla fame. Una chance che viene offerta soprattutto a chi è vicino al regime. Chi ha denaro e relazioni paga e fugge.

0Noi che viviamo lontano dalle bombe e dai ricatti di una trappola senza uscita dobbiamo avere la lucidità e la forza per contribuire ad aprire le porte di Gaza e frantumarne le mura, perché ci sia vita, dignità, libertà per tutt*.

Ma serve uno sguardo dritto.

Le persone massacrate dalle milizie di Hamas il 7 ottobre pesano tanto quanto quelle dei feroci attacchi israeliani a Gaza.

Il governo israeliano non si fermerà se chi vive in quel paese non lo caccerà via. Il governo di Gaza non si fermerà finché i gazawi non se ne libereranno.

Alle nostre latitudini c’è chi evoca i fantasmi del sionismo globale che ci burattina tutti. Altrettanto insidiose sono le destre sioniste che considerano tutti i gazawi parte della jihad mondiale.

Nessuno può essere marchiato per una colpa collettiva.

In questo mare di merda razzista, a sparire, vittime due volte, sono proprio uomini, donne, bambine e bambini di Gaza. Destinati al martirio e, quindi, sacrificabili per Hamas, corpi in eccesso per i fautori della Grande Israele.

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Il secolo che non vuole finire

Le radici del conflitto Arabo-Israeliano sono profondamente radicate nella storia del Novecento. Il progetto arabo-nazionalista e il progetto sionista si sviluppano all’interno delle dinamiche del nazionalismo che caratterizza l’inizio del novecento prima e dello scontro tra blocchi poi.

Il sionismo viene inizialmente considerato, a inizio Novecento, con sospetto da una rilevante parte delle comunità ebraiche europee le quali aspiravano a un’assimilazione, fosse tramite i mezzi delle democrazie liberali o tramite i movimenti rivoluzionari, entro le società europee.

Il progetto genocidiario, quasi pienamente compiuto, del fascismo tedesco, che sfruttò anche gli storici sentimenti antisemiti delle popolazioni dell’Est Europa, così come la collaborazione del fascismo italiano e francese, comportò la completa distruzione delle comunità ebraiche in Europa Orientale all’interno delle linee guida del General Plan Ost.8

Il fallimento delle democrazie liberali nel bloccare i piani genocidiari anche solo fornendo rifugio a chi fuggiva dalla Germania prima e dall’Europa poi, da ricordare il blocco dell’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria imposto dalle autorità del Regno Unito nel 1939 o il caso dei profughi della SS St. Luis respinti dagli USA e rimandati a morire in Germania, così come l’abominevole approccio opportunista dell’URSS segnarono la fine dell’opposizione al sionismo entro quel che rimaneva di quel mondo Yddish superstite della Shoa. I sopravvissuti che provavano a tornare negli shtetl di origine venivano cacciati, quando non direttamente uccisi, dai polacchi, ucraini, lituani e russi che avevano occupato i villaggi depopolati. I venti di antisemitismo che soffiavano nella Russia staliniana, basti pensare alla costruzione del così detto Complotto dei Medici 9, non rassicurarono di certo i sopravvissuti, anche quelli più legati al movimento operaio, movimento in cui le masse ebraiche dell’Est Europa pure avevano espresso un grande numero di militanti.

Se le comunità ebraiche italiane e francesi, pur profondamente colpite dalla Shoa e dal collaborazionismo locale, poterono ancora trovare una casa al loro ritorno dai campi di sterminio così non fu per quel che rimaneva delle popolazioni ebraiche dell’Est.

Questa situazione pose le basi dell’emigrazione di massa verso il nascente stato di Israele.

Gli anni Venti e Trenta

Nel corso degli anni ’20 e ’30 si inizia a incancrenire lo scontro nell’ex regione Ottomana conosciuta come Palestina, sotto dominio britannico dal termine della Prima Guerra Mondiale.

Vi sono più fattori che contribuirono a questo. L’approccio del sionismo revisionista, che darà poi origine all’Irgun e al Lehi 10, si iscrive pienamente entro quella mistica del sangue e del suolo che in quegli anni permeavano il discorso politico europeo. Al contempo il sionismo socialista subisce il peso delle proprie contraddizioni: la forzatura di un progetto che fosse contemporaneamente classista e nazionalista ripiega sempre più verso forme di nazionalismo a tinte proletarie, ben esemplificate dalla direttiva del “Lavoro Ebraico” voluta dalla dirigenza del’Histadrut 11.

Questo non accade per qualche arcano complotto colonizzatore ma per una corrosione dei principi del classismo rivoluzionario che avveniva negli anni della reazione seguita allo slancio rivoluzionario post Prima Guerra Mondiale. Contemporaneamente il nazionalismo arabo prende forma e anche qua vediamo all’opera quella mistica del sangue e del suolo, d’altra parte le élite dei popoli colonizzati andavano a studiare nelle università delle élite dei colonizzatori. È sbagliato affermare che l’erodersi dei rapporti tra la popolazione araba e la popolazione ebraica della Vecchia Yishuv sia semplicemente figlia dell’emergere della Nuova Yishuv 12 sionista. Il pogrom di Hebron del 1929 colpì con ferocia i membri della comunità ebraica da sempre lì residente, una comunità ebraica della Vecchia Yishuv, antisionista per motivi di carattere religioso.

L’immigrazione ebraica nell’ex provincia di Siria Ottomana metteva in crisi l’idea di supremazia Araba in una terra pregna di un forte significato religioso data la presenza di Al-Aqsa / Monte del Tempio 13. Lo scontro tra due progetti nazionalisti nella stessa terra era inevitabile.

L’ambiguo colonialismo britannico

L’ambiguità del dominio coloniale del Regno Unito inasprì lo scontro. Se questo in una prima fase favorì l’immigrazione ebraica con la dichiarazione di Balfour, seguendo il razionale di insediare una popolazione vista come affine e funzionale allo sviluppo economico e al mantenimento del dominio coloniale, successivamente fece un dietro front limitando l’emigrazione ebraica e, in diversi casi, lasciando scannare i contendenti. Vi sono diverse spiegazioni, non mutualmente escludenti, a questo comportamento del governo di Londra. In primo luogo vi era l’uso del classico strumento del divide et impera: fintanto che arabi ed ebrei si ammazzavano tra di loro non se la prendevano più di tanto con il dominio coloniale. Secondariamente il sionismo si dimostra un progetto politico ben poco controllabile e strumentalizzabile: figlio del sentimento di rivalsa di una popolazione che da secoli subiva discriminazioni in terra europea e che vedeva crescere i sentimenti antisemiti anche in paesi fino a quel momento giudicati come relativamente sicuri – la Germania, l’Italia e l’Austria – aveva ben poco voglia di essere strumento dell’imperialismo di Sua Maestà.

Quello che doveva essere un matrimonio di reciproco interesse, condito da misticheggianti vagheggiamenti anglicani su Gerusalemme, celebrato da Lord Balfour divenne uno scontro tra le politiche coloniali del Regno Unito e il tentativo di creazione di uno spazio sicuro per le masse ebraiche che si sentivano sempre più strette nella morsa dei nazionalismi europei.

L’espulsione delle comunità ebraiche dai paesi arabi

Contemporaneamente iniziava il processo di espulsione delle comunità ebraiche dai paesi arabi. In Iraq il governo fascista di Rashid Ali al-Gaylani scatenò i pogrom – conosciuti come Farhud – del 1941. Se fino a quel momento il sionismo aveva avuto poca presa in una comunità ebraica, quella irachena, che puntava all’assimilazione, dopo il Farhud l’emigrazione verso il focolaio nazionale ebraico divenne una scelta obbligata per molti.

Nel Marocco, sottoposto alla dominazione coloniale francese e al controllo del regime di Vichy, le comunità ebraiche locali subirono una crescente ostilità che le spinse verso una quasi totale emigrazione verso il nascente stato di Israele. Simili situazioni si ebbero in Algeria, Tunisia, Yemen, Siria e Libano.

Questo processo di espulsione si ebbe a partire dagli anni ’20 e fu originato da più fattori: le tradizionali forme di antisemitismo presenti in quei paesi furono esacerbate dai tentativi di ingegneria sociale del colonialismo europeo, soprattutto francese, il quale in Algeria concesse la cittadinanza agli appartenenti alla locale comunità ebraica, cittadinanza da cui erano esclusi gli arabi, e dall’emergere di un nazionalismo arabo che poneva l’accento sulla supremazia di un’identità araba e islamica sulle altre popolazioni locali.

Il 1948: il grande esodo palestinese

Gli eventi del 1948 che portarono alla convulsa nascita dello Stato di Israele, appoggiato dai capofila di ambo i blocchi ma osteggiato dal decadente impero inglese, provocò l’esodo di centinaia di migliaia di arabi di Palestina. Se i proprietari fondiari arabi e i ceti mercantili semplicemente spostarono i loro interessi in Egitto, in Libano e Giordania, i contadini rimasti senza terra e diseredati presero la via dei campi profughi.

Per comprendere il comportamento di USA e URSS bisogna tenere conto di come ambo le potenze avevano la necessità di ridimensionare l’impero britannico. Gli USA in nome dell’apertura di nuovi spazi commerciali e politici a cui avere accesso senza l’ingombrante mediazione di Londra e in continuità ideologica del progetto di autodeterminazione dei popoli in un quadro borghese caro a Wilson, l’URSS aveva ben presente che la classe dirigente del nascente stato israeliano, appartenente al sionismo socialista, era filo-sovietica e progettava di attirare Israele entro la propria sfera di influenza. La fine della monarchia filo-britannica in Egitto fece cambiare fronte all’URSS, che passò dal fornire armi agli israeliani al fornirle agli egiziani, giudicando il Cairo un partner più interessante. Il Regno Unito per tentare di mantenere il controllo di Suez si alleò con Tel Aviv nella disastrosa operazione del 1956.

Il cambio di campo dello stato Israeliano, da stato non allineato e con rapporti con ambo i blocchi, a stato inserito nel blocco atlantico si compì a partire da questo episodio.

La guerra dei Sei Giorni e la conquista di Gerusalemme

Gli anni ’50 e ’60 sono segnati da un continuo stato di tensione tra i vari paesi confinanti. Il tentativo nasseriano di unificare lo spazio politico arabo nella Repubblica Araba Unita14 avrà come suo fulcro l’opposizione allo stato Israeliano. Al di là delle pesanti contraddizioni interne al progetto, che fallirà nel giro di pochi anni, uno dei colpi finali fu dato dal fallimento del confronto sul piano militare con Israele. Il tentativo di attacco combinato delle forze arabe del giugno del ’67 si concluse con un violentissimo attacco preventivo attuato dall’IDF che portò alla completa distruzione dell’aviazione egiziana, l’occupazione dell’intero Sinai, di Gaza, fino ad allora sotto controllo egiziano, e di buona parte del Golan e, soprattutto, alla conquista di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, fino a quel momento rimaste sotto il controllo giordano.

La conquista di Gerusalemme è da considerarsi come un importante punto di rottura da un punto di vista culturale, dato il ruolo svolto da questa città per tutte e tre le così dette Religioni del Libro in quanto profezia sostanziatasi.

Per il sionismo religioso la conquista di Gerusalemme e Monte del Tempio fornì il carburante ideologico per la sua espansione, facendolo passare da movimento relativamente marginale a importante movimento di massa. Contemporaneamente il cristianesimo dispensazionalista 15 vide nella riconquista di Gerusalemme l’avverarsi delle visioni profetiche sulla fine dei tempi e l’avvicinarsi del Millennio.

Per parte del mondo islamico si trattò sempre di una profezia di fine dei tempi.

Israele/Giordania: un rapporto ambiguo

A partire dal periodo successivo alla Guerra dei Sei Giorni si creerà un sempre più ambiguo rapporto tra il regno Hashemita di Giordania, l’unica monarchia dell’area non spazzata via dalle rivoluzioni social-nazionali degli anni ’50, e Israele. Ci sono diversi fattori da tenere in considerazione: la Giordania aveva mantenuto saldi rapporti con il Regno Unito e, tramite di esso, si era legata al blocco atlantico; cresceva la preoccupazione dell’élite giordana di fronte alla presenza di imponenti masse di profughi palestinesi che si organizzavano parallelamente allo stato giordano entro i confini di esso; il regno era interessato a mantenere il controllo, fonte di prestigio, di Al- Aqsa, di cui, comunque, mantiene, e manteneva già all’epoca, la custodia anche se questa è territorialmente inglobata da Israele.

La questione della scomoda presenza dell’OLP verrà risolta manu militari dalla monarchia con il Settembre Nero del 1970. Contemporaneamente verranno creati dei contatti ai vertici tra la monarchia giordana e il governo israeliano. La Giordania si allontanò così tanto dagli altri paesi arabi al punto che Re Hussein, alla vigilia della guerra dello Yom Kippur del ’73, si recò personalmente e in segreto a incontrarare il primo ministro israeliano Golda Meir per informarla delle intenzioni egiziane e siriane, nel tentativo di sventare la guerra.

Proprio la guerra dello Yom Kippur vedrà il definitivo tramonto delle ipotesi arabe di vittoria militare contro Israele. Una guerra iniziata in una posizione di vantaggio, con un attacco a sorpresa su due fronti e l’impiego di innovative tattiche e armamenti che permettevano alla fanteria di tenere testa alle forze corazzate e di mitigare la superiori capacità aeree di Israele, venne completamente rovesciata in meno di due settimane: le divisioni corazzate siriane che avevano quasi sfondato sul Golan costrette a una poco dignitosa rotta; l’esercito israeliano a poche decine di chilometri da Damasco; la terza armata egiziana accerchiata dallo scavallamento del canale effettuato dagli israeliani, i quali giungevano anche a un centinaio di chilometri da una sguarnita Cairo.

Una pace armata

Se tramontarono le ipotesi egiziane e siriane di vittoria contro Israele tramontò anche l’idea israeliana, che aveva tenuto banco dalla fulminante vittoria del ’67, di potere mantenere indefinitamente i vicini sotto scacco. Il processo di pace tra stati era così sbloccato. Furono questi gli eventi che portarono alla normalizzazione dei rapporti tra Israele, Egitto e Giordania, patrocinati dagli USA i quali attirarono l’Egitto di Sadat, e ancora più di Mubarak dopo l’omicidio per mano islamista di Sadat, nella propria sfera di influenza.

Il progetto nazionalista, seppure laico e socialista, dell’OLP adotta la retorica terzomondista tipica dell’élite delle nazioni subordinate che tentavano di ricavare il loro spazio sotto l’egida dell’URSS, e prende corpo dopo il completo fallimento degli stati arabi nel fornire una soluzione mediante la guerra alla questione palestinese. Ma anche il progetto dell’OLP non andrà a buon fine.

Il sostanziale fallimento dell’OLP è segnato dall’espulsione dalla Giordania nel settembre del ’70, dal ricorso a una demenziale – e infame – strategia di attacchi contro la popolazione civile – non solo in Israele ma anche in paesi terzi – e dall’incapacità di reggere il confronto militare, anche in termini asimmetrici, con l’esercito israeliano. Il normalizzarsi dei rapporti con la Giordania e l’Egitto sotto l’egida statunitense lasciarono campo libero ai governi del Likud, giunti al potere in Israele a fine anni ’70, per attaccare in profondità l’OLP in Libano, annullandone la capacità militare.

Virata a destra

Dalla fine degli anni ’70 si vede lo spostamento a destra della politica Israeliana, sono gli anni dei rapporti stretti con il regime suprematista sudafricano e della nascita del movimento dei coloni, della collaborazione con le compagini fasciste dei maroniti in Libano. Nel corso degli anni ’80 l’emergere dei movimenti millenaristi evangelici negli Stati Uniti fanno da volano al messianesismo ebraico. Se inizialmente il sionismo ultranazionalista e religioso è relegato in un angolo della politica israeliana nei successivi venti anni si assisterà alla crescente legittimazione dei figli politici del rabbi Kahane 16.

In questi anni sorge la questione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Siamo di fronte a un fenomeno peculiare. Se inizialmente gli insediamenti nei territori occupati, attuati da organizzazioni del sionismo religioso, vennero gestiti ambiguamente dai governi labouristi, i quali li vedevano come possibile merce per scambi territoriali con i paesi vicini e una risposta alla perenne questione della profondità strategica 17, le organizzazioni dei coloni riuscirono a ricavarsi un sempre maggiore spazio politico. Quando a fine anni ’70 il Likud, erede del Sionismo Revisionista, giunse al potere vi giunse grazie ai voti e alla mobilitazione dei coloni. Nel corso degli anni ’80 e ’90 le fronde più oltranziste di questi vennero comunque mantenute ai margini e un ulteriore giro repressivo avverrà dopo l’omicidio di Rabin nel 1994, omicidio compiuto da un kahanista. Dalle stesse file proveniva l’attentatore della Tomba dei Patriarchi.

L’omicidio di Rabin nei fatti segnerà la fine del processo di pace, molto contestato in campo palestinese in quanto eccessivamente sbilanciato verso Israele, e quella finestra di soluzione diplomatica che si era aperta in seguito alla Prima Intifada si chiuderà nel giro di pochi anni.

Specularmente in campo palestinese si assiste alla progressiva perdita di potere dell’OLP a favore di soggetti come Hamas e il JIP o Hezbollah in Libano. La fine della narrazione terzomondista ha lasciato spazio all’islamismo militante ispirato dalla controrivoluzione komeynista in Iran.

Questo processo è dovuto a più fattori: l’OLP ha puntato tutto sul processo di pace, ma questo, oltre a essere contestato per la sua impostazione generale si è interrotto; l’OLP assume sempre più il ruolo di polizia interna nelle aree sottoposte all’autorità dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese); l’OLP è, in definitiva, un partito corrotto e clientelare, più interessato a incassare i soldi degli aiuti internazionali e a piazzare cugini e nipoti dei dirigenti nei posti pubblici e nelle “baracche del potere” che a portare avanti le istanze politiche per cui è nato.

Nel corso degli anni novanta e duemila si assisterà al disimpegno Israeliano in Libano prima e nella Striscia di Gaza poi. Nel caso del ritiro, per decisione unilaterale, dalla striscia di Gaza attuato dal governo Sharon a metà anni duemila verranno demoliti diversi insediamenti dei coloni, causando una prima frattura tra un governo del Likud, per altro guidato da un falco, e il movimento dei coloni stesso.

Contemporaneamente il campo islamista palestinese colpirà ripetutamente i civili israeliani, con uno stillicidio di attacchi suicidi contro i mezzi di trasporto di massa e i locali pubblici.

La strategia di Sharon di disimpegnarsi da Gaza, lasciandola al governo dell’ANP, per impegnarsi a rafforzare gli insediamenti in Cisgiordania e contenere Hezbollah fallirà: l’OLP perderà le elezioni contro Hamas, aprendo una fase di guerra civile nel campo palestinese, e Sharon finirà fuori dai giochi, a causa di un colpo apoplettico che gli farà passare il resto della sua “vita” in stato vegetativo.

Le successive coalizioni governative israeliane, spostate sempre più a destra, avranno come obbiettivo principale il contenimento dell’Iran e di Hezbollah – il Partito di Dio libanese che non può essere considerato come un semplice proxy iraniano – e assicurarsi che in campo palestinese non emerga nessun soggetto in grado di opporsi a quello che si è oramai consolidato come un sistema di apartheid.

È impossibile affrontare in questa sede la complessa situazione del Mediterraneo Orientale degli ultimi 20 anni, dall’intervento statunitense in Iraq alle Primavere Arabe, dalla Primavere Arabe alla controrivoluzione islamista, dall’interventismo Turco in Levante alla mezzaluna sciita, in queste pagine: non lo faremo.

La strategia israeliana nel ventunesimo secolo

Per quanto riguarda la strategia israeliana delineatasi negli anni dieci del ventunesimo secolo basti dire che gli eventi del sette ottobre ne hanno segnato il fallimento, causando – per altro – una profonda frattura con gli USA.

Vale, però, la pena di provare a inquadrare l’evoluzione del quadro politico israeliano e palestinese in quelle che sono state le linee di tendenza degli ultimi quarant’anni a livello globale.

Innanzi tutto l’emergere di movimenti politici di ispirazione religiosa, Hamas e JIP in Palestina, il Kach e i suoi derivati in Israele, non è una peculiarità di quell’area geografica.

Il sionismo toranico-nazionalista, o Hardal, da non confondersi con altre correnti sioniste religiose storiche, nasce e si rafforza negli stessi anni in cui negli Stati Uniti si assiste all’imporsi nel campo politico repubblicano di movimenti evangelici di destra, quell’insieme di chiese carismatiche evangeliche che forniranno i voti per le presidenze Reagan e Bush, e in misura minore per quella Trump, e che sposterà estremamente a destra la politica statunitense. Il filo-sionismo della destra evangelica statunitense ha una base religiosa e si intreccia con gli interessi economici del comparto bellico USA. Per approfondimenti sul tema si rimanda al testo di Gorenberg citato in nota.

Questi movimenti, che in entrambi i casi hanno una composizione interclassista, emergono con forza negli stessi anni in cui il Neoliberismo si impone e vi è un significativo arretramento delle conquiste sociali dei decenni precedenti. In Israele questo significa lo smantellamento del forte stato sociale, la crisi di Kibbutz e Moshav, la perdita di voti per i partiti della sinistra, che hanno abbracciato il neoliberismo e in più non hanno portato a casa un processo di pace degno di questo nome. L’emergere di una dimensione religiosa da risposte in termini di salvezza davanti a un mondo che nel giro di pochi anni si è completamente ristrutturato.

Dal lato arabo-palestinese l’incapacità dei partiti socialisti e nazionalisti di portare effettivamente a casa un risultato decente, l’assunzione di politiche neoliberiste per accedere ai fondi del Fondo Monetario Internazionale, causeranno le stesse dinamiche. L’emergere di soggetti come Hamas e la JIP sono figlie del fallimento dell’OLP. L’assunzione di una prospettiva di stampo millenarista, comune sia ai partiti Hardal, che ai partiti Islamisti, l’atmosfera da costante fine dei tempi in cui al razionale delle decisioni prese dalle borghesie nazionali si intrecciano visioni religiose di stampo apocalittico, come ben dimostra l’importanza assunta dal Monte del Tempio / Al-Aqsa, sono la cifra di questi anni.

Allo stesso tempo in campo israeliano il governo Netanyahu per sopravvivere agli scandali, e alle conseguenti inchieste giudiziarie, causate dalle ingenti mazzette incassate dal primo ministro e dal suo diretto entourage politico e familiare, hanno portato il Likud a contare sempre di più sui partiti di ispirazione Hardal. Alla necessità di Netanyahu di sopravvivere politicamente e giudiziariamente si è unita la volontà dei partiti fascisti Hardalim di realizzare la sempreverde, per il fascismo, unione mistica tra popolo e governo. In quest’ottica si può inquadrare il tentativo di riforma giudiziaria, ovvero il tentativo di annullare l’indipendenza del potere giudiziario, tra i caposaldi dello stato liberale.

È una dinamica simile a quella della critica dalla destra bannoniana alla burocrazia federale negli USA che ha caratterizzato il primo periodo della presidenza Trump.

È, sopratutto, una dinamica speculare a quella della creazione di stati-partito a ispirazione religiosa che ha segnato gli ultimi trenta anni nel mondo islamico nel Levante.

Una qualsiasi possibilità di emancipazione passerà dalla necessità di farla finita con queste forze politico-religiose e con il sistema economico che le ha evocate e alimentate.

Non sarà l’appiattimento acritico verso il nazionalismo religioso, qualunque nazionalismo religioso o laico, anche quando questo si candiderà come bandiera degli oppressi, a fornire una via di uscita.

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Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro dell’essenzialismo 18

Primissimi passi di indagine fenomenologica

Riteniamo particolarmente utile ai fini della trattazione rilevare il predominio di alcune parole d’ordine rossobrune e comunitariste nel dibattito politico contemporaneo. Leitmotiv come il superamento dell’annosa distinzione tra la categoria di destra e la categoria di sinistra, oppure il ritorno di fiamma dello spirito di popolo in sostituzione alla lotta di classe, con annessa legittimazione e rafforzamento del potere statale che di tale “spirito” dovrebbe farsi portatore, li ritroviamo sovente nell’agone politico democratico, nell’opinione pubblica e nei principali organi di informazione.

Segue la percezione di un’identità minacciata dalle politiche neoliberiste, dall’omologazione della società di massa, dal dominio globale della merce che svuota la forma del suo contenuto e tenta di penetrare le coscienze per plasmarle. L’evidente senso di smarrimento, unitamente al progressivo impoverimento del ceto medio che sente vacillare i propri diritti, ha finito per innescare un po’ ovunque un potente rigurgito sovranista, concretizzatosi nel ripiegamento su un modello di comunità chiusa che si costituisce nella negazione, nell’esclusione dell’altr*, dando seguito al disperato tentativo di rimettere ordine al caos sistemico caratterizzato dall’avanzata del moloch del capitalismo globalizzato. La ricetta dell’identità forte cavalca la paura montante di chi si sente derubato del proprio domani, fornendogli l’illusione di una facile via di fuga salvifica. Infine, troviamo il cambio di paradigma che segna il passaggio dall’ormai obsoleto razzismo “scientifico” (tendenza ad affibbiare criteri di superiorità o inferiorità al patrimonio genetico di un determinato gruppo umano in contrapposizione a un altro) al più moderno razzismo differenzialista, da cui deriva un convinto contrasto all’immigrazione su basi di salvaguardia dell’indipendenza, dell’autenticità, dell’integrità culturale, agitando lo spauracchio della mescolanza, che rischierebbe di contaminare una presunta “purezza della tradizione”.

L’innegabile successo dei concetti chiave appena messi in luce – a poco a poco innestati e radicati in tradizioni anche distanti tra loro, con significativi slittamenti concettuali e sociali riscontrabili nella produzione di idee dal basso – è sia inquadrabile come fenomeno reattivo al capitalismo trionfante, alla precarietà strutturale e all’incertezza del futuro, sia incoraggiato da un’ambiguità di fondo che contraddistingue in modo determinante e inequivocabile questo impianto teorico, che ben si sposa con il clima generale della postmodernità: un eterno presente anomico, caratterizzato da una produzione di senso usa e getta.

La colonizzazione dell’immaginario, parzialmente raggiunta da un modo di pensare fondamentalmente reazionario che finisce per negare con forza il diritto al dissenso interno, ha radici molto lontane nel tempo, dal Nazionalbolscevismo nato nel contesto della Repubblica di Weimar in Germania, alla destra extraparlamentare ispirata alla Nouvelle Droite di Alain De Benoist in Francia, fino al revisionismo del marxismo in chiave campista e anti-atlantista, operata da Costanzo Preve in Italia.

Uno degli effetti perniciosi è l’identificazione del nemico esclusivamente nello “straniero”, soggetto immediatamente ascrivibile a un blocco nazionale inalterabile, considerato territorialmente, culturalmente e mentalmente omogeneo.

Spesso il nemico lo abbiamo in casa, parla la nostra lingua, ha gli stessi usi e costumi. Come affermava Brecht, il nemico – il padrone che sfrutta o il governo che ci manda in guerra – marcia sempre alla nostra testa.

È quindi più che mai importante dare battaglia culturale per porre un freno a una tendenza che ha subito una netta accelerazione negli ultimi anni e che a lungo andare non può che causare ulteriori danni all’elaborazione di analisi e strumenti di lotta in seno ai movimenti sociali.

La Cultura elevata a Essenza

Focalizziamo la nostra attenzione sulla piaga del differenzialismo culturale, figlio di un processo di essenzializzazione e mitizzazione della cultura. La cultura viene concepita come una natura assolutizzata, come una categoria a-storica, ben definita e immutabile, e in quanto tale esente da valutazioni e critiche.

Quest’ultima assume ben presto le sembianze di un’entità monolitica non meticciabile, non contaminabile, sclerotizzata nel tempo e nello spazio, e infine perfettamente sovrapponibile a una concezione interclassista di popolo, che smette così di conservare al suo interno qualsivoglia differenza di classe, discriminazione sociale o di genere. Seguendo questo filone logico, ne consegue che ad acquistare dignità ontologica è esclusivamente la “cultura” di un determinato “popolo”, pensata e percepita come un’imponente costruzione omogenea che persegue l’unanimismo, ovvero mira ad assimilare ed estinguere in se stessa tutte le sue parti, anche le più conflittuali e antitetiche del corpo sociale, fagocitate, private della propria specificità e del proprio potenziale di rottura.

La mancanza di una scappatoia semantica rispetto a un’operazione autoritaria di sussunzione conduce a cortocircuiti e pone difficoltà di problematizzazione. Esempi concreti di questa concezione deformante possono essere individuati nella maldestra giustificazione delle mutilazioni genitali femminili effettuate in età infantile in paesi come la Somalia, piuttosto che la Repubblica di Guinea o l’Arabia Saudita, o ancora dell’obbligo di indossare l’hijab nella teocrazia a guida ayatollah.

Il muro di incomunicabilità eretto da taluni esponenti della sinistra radicale che infantilizza gli individui giudicandoli totalmente in balia dell’ambiente culturale e sociale nel quale sono inseriti, vede come drammatica conseguenza l’invisibilizzazione dei percorsi di lotta ed emancipazione che si sviluppano in quegli stessi territori. È il caso delle donne guineane e somale che si oppongono quotidia­na­men­te all’orrore delle mutilazioni, risultato di un’impostazione misogina e patriarcale della società, oppure delle donne che in Iran rivendicano a loro rischio e pericolo il diritto di non nascondere il proprio corpo, ribellandosi alle imposizioni di un fondamentalismo religioso per sua stessa natura nemico della libertà.

Esprimere solidarietà concreta con chi non accetta l’ordine costituito e le sue leggi decidendo di prendere in mano il proprio futuro, qualunque sia il contesto di riferimento, è il primo passo per l’edificazione di un mondo di libere ed eguali.

Quale universale?

L’universale occidentale, costitutivamente escludente e marginalizzante nei confronti di tutt* coloro che non sono considerat* pienamente cittadini (poveri, migranti, donne, soggettività non conformi alla norma etero-cispatriarcale, ecc.), e il relativismo assoluto, sostanzialmente acritico nei confronti di usanze e pratiche potenzialmente deleterie o oppressive, sono due facce della stessa medaglia. Entrambi i sistemi si collocano in posizione equidistante rispetto a un’idea di universale plurale in via di costruzione, che non può che scaturire dai percorsi di lotta intrapresi dai movimenti, attraversati innanzitutto da coloro che si soggettivano a partire dalla presa di consapevolezza della propria condizione.

Non è mera astrazione, ma la prospettiva concreta del pluriverso, un mondo nel quale convivono più mondi, nel quale sia possibile valorizzare al massimo la diversità nell’uguaglianza. Occorre gettare le zavorre culturali per esperire una pluralità di approcci libertari che favorisca l’approdo all’individuo, anziché consolidarlo come punto di partenza inscatolato in ruoli imposti dalle logiche del dominio.

L’altro da noi è differente, ma non per questo più o meno degno, più o meno valido.

L’altro è in realtà lo spazio dell’incontro, del confronto paritario, dello scambio arricchente, della contaminazione, della critica, della crescita collettiva attraverso la ricerca di punti di contatto e comunanza di intenti.

Un’occasione di intessere alleanze arrivando a conclusioni simili, battendo sentieri non identici ma nemmeno incompatibili. Terreno fertile per praticare dal basso relazioni sociali egualitarie ed inclusive. La dimensione del particolare è in quest’ottica un valore aggiunto in potenza, mai un ostacolo a priori. Ciò che ci unisce, lo affermiamo con convinzione, è più forte di ciò che ci divide.

Uno sguardo critico entro le mura di casa

I movimenti del nuovo millennio hanno fatto propri alcuni strumenti della decolonialità per ampliare lo sguardo.

L’idea di smontare una visione del mondo pregiudiziale e appiattente, derivata dalla standardizzazione di chiavi interpretative prodotte in seno alle culture di origine europea – concetti di civiltà, progresso, tempo lineare, abitare domestico, sviluppo infinito… – ha finito spesso per incagliarsi nelle maglie del determinismo essenzialista.

La considerazione del binomio “colonizzato-colonizzatore”, non tanto come una realtà contingente definita da specifici attori in gioco, ma come un dato a-storico, invariabile, alla stregua di un assunto metafisico fuori dal tempo, porta a conclusioni quantomeno discutibili.

Ne deriva che chi il caso ha fatto nascere in Occidente è costitutivamente investito di un peccato originale con il quale è costretto a convivere e fare i conti, portandoselo sul groppone fino alla fine dei suoi giorni. Poco importa quali siano i suoi punti di riferimento politico-culturali o la natura del suo rapporto con le istituzioni autoritarie realmente responsabili di predazione delle risorse naturali e imprese genocidarie in giro per il globo. Il suo destino è segnato, iscritto indelebilmente nella natura. L’assunzione della colpa si configura come una condanna collettiva con importanti ricadute sull’autodeterminazione individuale.

Non solo. Per quanto riguarda i movimenti che si muovono su specifiche istanze emerge una sempre più marcata difficoltà di incontro e compenetrazione tra culture politiche differenti, spesso vissute come interferenze indesiderate.

La postura prevalente è quella della presuntuosa salita in cattedra, del settarismo, del trinceramento in una torre d’avorio. La diversità si carica così di segno gerarchico, mutando in una singolare forma di diseguaglianza che trova la propria legittimità nell’assunzione escludente di categorie che ricalcano le molteplici cesure imposte dal patriarcato e dalla colonizzazione, pretendendo di confinare in un’identità data a priori, non solo la capacità di comprensione dell’oppressione, ma persino la facoltà stessa di opporvisi. Se non sei soggett* a una particolare forma di oppressione non puoi coglierne “l’essenza”, non puoi criticare le scelte, le pratiche e le modalità organizzative di chi vi si ribella.

La situazione che si viene a creare presenta gruppi e ambiti sociali a compartimenti stagni, disposti soltanto a recepire una supina solidarietà esterna, perché sostanzialmente dominati dalla diffidenza e dalla paralisi della critica.

Mala tempora currunt. In certi casi si è arrivat* al punto di negare la parola o di limitare fortemente la libertà di espressione basandosi su premesse identitarie che non tengono minimamente conto dei posizionamenti scelti e assunti dai soggetti al di fuori dei processi di razzializzazione, sessualizzazione, ecc.

In estrema sintesi, l’unica identità che parrebbe davvero contare a partire da tali presupposti, è quella calata dall’alto, assegnata dall’esterno. Un’identità innata, fissa, rigida, congelata, nella quale l’individuo finisce per esaurirsi.

Posizioni contraddittorie e risvolti funesti

Va da sé che ci troviamo dinanzi ad una colossale contraddizione.

Gli stessi rivoli del movimento transfemminista queer che dalla fine del XX secolo si sono battuti a vario titolo per sbarazzarsi una volta per tutte della pesante sentenza biologica che grava sui corpi di coloro che non si riconoscono nel sesso attribuito loro alla nascita, cui si pretende corrispondano precise caratteristiche e ruoli di genere; gli stessi che hanno reso obsoleto il femminismo della differenza, saldo su posizioni gerarchiche e trans-escludenti; gli stessi che hanno sgomitato per lasciarsi finalmente alle spalle la logica binaria in favore dell’autodeterminazione delle soggettività lgbtqia+, ora sembrerebbero incapaci di fare tesoro di tale impostazione di pensiero e portare fino in fondo le proprie premesse rivoluzionarie, cogliendo a pieno la portata della sfida epocale che ci si pone di fronte.

Rompere l’ordine essenzialista che fonda e sorregge l’ordine patriarcale dovrebbe sapersi accompagnare ad un netto rifiuto dell’essenzializzazione della cultura, che allo stesso modo del binarismo di genere, considera le identità come “sostanze” naturali e immutabili, inchiodate ad un copione già scritto.

Dimostrarsi all’altezza di una radicale e necessaria relativizzazione della dicotomia natura/cultura, ponendola al servizio di un’autonoma produzione di senso e di organizzazione di conflitto dal basso: è la sfida del nostro tempo. Un tempo segnato da uno scenario imperialistico multipolare, tra blocchi di potere consolidati e nazionalismi emergenti, piccole patrie ed identitarismi prefiguranti comunità escludenti. Necessita di un impegno inderogabile che ci mette collettivamente a dura prova, pena l’inesorabile capitolazione di ogni reale ambizione di allargare i margini di autonomia e libertà a qualsiasi latitudine.

Specialmente la questione israelo-palestinese ha rivelato una miopia che non ammette alibi.

Negli ultimi mesi non ci si è limitat* ad esprimere solidarietà con la popolazione palestinese vittima dell’occupazione militare e dei criminali attacchi dello Stato d’Israele nei territori di Gaza e Cisgiordania, la si è interamente e tacitamente identificata in Hamas. Si è scelto di serrare gli occhi per non vedere ciò che davvero rappresenta: un’organizzazione politica e paramilitare islamista che incarna alla perfezione gli interessi della borghesia locale e che ha tenuto per anni i proletari palestinesi in condizione di feroce assoggettamento. Di riflesso, i civili israeliani sono stati tutti a più riprese e indistintamente additati come coloni o attivi sostenitori del governo Netanyahu e delle direttive belliche che stanno decretando il terribile massacro di popolazione civile. Grande è la confusione sotto il cielo. L’implicita connivenza di una parte consistente delle reti queer radicali con i principali propugnatori del fascismo isla­mi­co, così come l’accreditamento della vulgata che vorreb­be le classi subalterne israeliane e palestinesi come pe­rennemente cristallizzate in una comunità nazionale, ri­schia di minare la credibilità dei movimenti che si svilup­pa­no a livello locale e la praticabilità dei percorsi rivo­lu­zio­nari. A dire il vero, nonostante le condizioni politiche proi­bitive, da una parte e dall’altra del fronte di guerra nel Mediterraneo Orientale, c’è chi non si è lasciato am­ma­liare dalle sirene nazionaliste e religiose, chi mani­fe­sta, chi obietta, chi diserta. Sono i refusenik israeliani che rifiutano la guerra. Sono gli abitanti di Gaza scesi in piaz­za al grido di “vogliamo vivere”, protestando contro le libertà negate e il clima di repressione interna, ben pri­ma dell’escalation di ten­sio­ne post-pogrom del 7 ot­to­bre 2023. Purtroppo lo si igno­ra scientemente, insistendo nel privilegiare una nar­ra­zio­ne in bianco e nero, senza sfumature di grigio, dove vige un affratellamento secon­do il motto “il nemico del mio ne­mi­co è mio amico”. L’im­posizione della Shari’a a Gaza non sembra costituire un problema da affrontare.

Mentre si può dire si sia colto nel segno riconoscendo in Stato, Chiesa, associazioni antiabortiste e catto-fascisti una coalizione oscurantista e liberticida, lo stesso non è valso per il pericolo di instaurazione di un regime teo­cra­tico.

I precetti del Corano vedono nel matrimonio e nella ma­ter­nità un “destino naturale”, offendono la dignità della donna relegandola a oggetto sessuale dell’uomo mu­sul­ma­no e a macchina garante della procreazione e del li­gnag­gio. L’incontestabile Legge di Allah prevede che persone sospettate di essere contro natura e/o andare contro l’ordine morale islamico vengano perse­gui­tate, torturate o uccise. La stessa Hamas, per gover­na­re al me­glio la Striscia di Gaza, utilizza l’SSG – Servizio di Si­cu­rezza Generale, una rete di intelligence, che, tra gli altri, svolge il compito di polizia morale sul modello di quel­la iraniana. Tra i suoi compiti, quello di investigare sull’integrità delle donne, far rispettare norme di “de­co­ro” e presentabilità. L’omosessualità è ovviamente ban­di­ta.

L’approvazione indiscriminata di tutte le spinte prove­nien­ti dal fronte pro-Pal ha portato alla mini­miz­za­zio­ne, o, peggio, alla difesa dell’attacco del 7 ottobre in quanto atto di resistenza popolare.

Una “resistenza” che non solo ha provocato la morte di più di milleduecento persone di cui oltre ottocento civili, non solo ha preso di mira kibbutz di estrema sinistra e un festival di musica elettronica, il Nova, ma è stata ca­rat­terizzata da numerosi stupri e tremende violenze ses­suali, reiterate anche sugli ostaggi, e adoperate come ar­ma di guerra dalle milizie di Hamas.

Onestamente, non sapremmo come descrivere un tale po­sizionamento dei movimenti, capaci persino di provare sim­patia per chi costitutivamente ne nega identità e percorsi.

La definizione dei propri obiettivi e la scelta dei mezzi che coerentemente si confanno al loro raggiungimento, è una scommessa non di poco conto per i movimenti contemporanei. L’appoggio all’instaurazione di uno Sta­to-nazione, con al seguito il proprio padronato e un eser­ci­to schierato a protezione dei sacri confini che ce­men­ta­no l’odio tra i popoli, è assai diverso dal sostegno alle mi­lizie rivoluzionarie che difendono l’esperienza del confederalismo democratico nel Rojava, dove al con­tra­rio vi è stato un reale tentativo di superare le divisioni etniche, religiose, culturali, di genere, ecc. in una dimen­sio­ne internazionalista e pluralista, nient’af­fatto nazio­na­li­sta ed escludente.

Riteniamo quanto mai urgente rinnovare l’invito a sviluppare gli anticorpi contro schemi di ragionamento semplicistici che rinchiudono tra le sbarre invisibili dell’essenzialismo la libertà di ciascun* e consegnano lotte di liberazione e riscatto nelle mani di carnefici che hanno da offrire solo schiavitù e tirannia.

Tramandare il fuoco

Sussiste una speranza di fuoriuscita da questo quadro spaventoso? In primis può essere dirimente evidenziare il fatto che siamo tutt* mutàgeni culturali, ossia agenti potenzialmente trasformativi. Senz’altro siamo attra­ver­sat* dall’ambiente culturale e sociale in cui viviamo, ne subiamo l’influenza, ma non ne siamo mai passivamente e integralmente determinat*. Anche se fossimo forzat* a vivere nella peggiore delle distopie totalitarie, persi­ste­reb­be sempre uno scarto, ed è proprio lavorando a partire da questo scarto che tutt* possono essere parte attiva del processo, capaci cioè di sottrarsi alla fasci­na­zio­ne dell’istituito, incidendo volontariamente e coscien­te­mente nella realtà materiale e simbolica, da­re forma a immaginari utopici concretabili grazie al con­flitto autor­ga­nizzato e contribuire ad operare una tra­sfor­ma­zione radicale dell’esistente.

In ogni momento storico si sono fatte largo le dissidenze. In ogni frangente della nostra esistenza possiamo agire in quanto rivoluzionari, contrapponendo ad ogni forma di dominio istanze di libertà e di giustizia sociale. La cultura è dinamica, fluida, mutevole, in continuo divenire, per­ché emerge dall’interazione permanente degli esseri uma­ni.

Chiaramente è di fondamentale importanza saper com­pie­re un lungo ed inesauribile sforzo di decostruzione del sé, riconoscere il privilegio e sapersene spogliare quando investit*, schierandosi al fianco di coloro che vivono l’op­pres­sione e lo sfruttamento sulla propria pelle, rifiutare il ruolo in cui ci vorrebbero inchiodare allo scopo di riprodurre dinamiche di comando-obbedienza. Allo stesso tempo, però, è importante sentirsi liber* di prendere orgogliosamente parola nel solco di una tradizione di pensiero non dogmatica di segno anarchico. L’anarchismo è una proposta politica i cui capisaldi si possono considerare universalmente validi e consustanziali a qualsiasi progetto che rappresenti un’alternativa allo stato di cose presente, seppur declinabili in modi diversi in base ai soggetti che se ne fanno promotori e al contesto nel quale la proposta trova spazio e prende piede.

L’orgoglio di sentirsi parte di una minoranza agente che persevera nell’operare nella storia ma contro la storia. Quella storia segnata dalla riproduzione delle gerarchie di potere e dalle ingiustizie alla quale decidiamo di non piegarci, perché la nostra è innanzitutto una spinta etica. È un’urgenza di mutamento sociale scaturita dall’evidenza delle misere condizioni materiali e morali in cui versa la stragrande maggioranza dell’umanità; un’aspirazione il cui motore non è una presunta necessità “naturale” ma la libera volontà umana.

Parafrasando il compositore austriaco Gustav Mahler: «tradizione non è vegliare le ceneri, ma tramandare il fuoco»; ed ecco che la fiaccola dell’anarchia si rivela essere oggi più che mai un faro di speranza che può illuminare il cammino degli oppressi.

1 Per un approfondimento del concetto di essenzialismo nei movimenti anche in riferimento alla questione palestinese cfr, in questo stesso saggio, “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro dell’essenzialismo”

2Cfr. l’articolo dell’8 agosto 2023 di Paola Caridi su Lettera 22 “Gaza, proteste (non solo) per l’elettricità” ttps://www.lettera22.it/gaza-proteste-per-lelettricita-e-non-solo/

3Per una lettura più approfondita cfr., in questo stesso saggio, il testo “Il secolo che non vuole finire”

4Cfr nota 1

5Cfr nota 1

6Cfr. “Anarchia e decolonialità”, video dell’incontro del 22 marzo 2024 https://www.anarresinfo.org/video-anarchia-e-decolonialita/

7Cfr. dall’introduzione all’incontro su “Anarchia e decolonialità”.

8 General Plan Ost: la strategia nazista di insediamento e gestione dello spazio europeo-orientale, considerato come spazio vitale per il popolo tedesco. Questa strategia prevedeva la riduzione numerica della popolazione slava, la schiavizzazione dei sopravvissuti e il totale sterminio delle popolazioni ebraiche e rom.

9 Il così detto Complotto dei Medici è una teoria del complotto inventata da pezzi degli apparati di sicurezza staliniana con cui vennero colpiti una serie di importanti medici di origine ebraica in URSS.

10Gruppi paramilitari afferenti al Sionismo Revisionista. Particolare enfasi veniva posta sulla lotta contro la dominazione britannica, tanto da definirsi forza antimperialista. Parte dei membri del Lehi negli anni ’50 entrarono nella Semitic Action, un gruppo che proponeva l’unione di tutte le popolazioni semitiche della regione, realizzando una confederazione arabo-ebraica, in funzione anti-occidentale.

11Histadrut, ovvero e La Federazione Generale dei Lavoratori in Terra d’Israele, il principale sindacato Israeliano, di orientamento sionista di sinistra. La direttiva così detta “del Lavoro Ebraico” indicava a quei settori di economia cooperativa, principalmente agricola, che facevano riferimento al sindacato, di preferire il lavoro di membri della comunità ebraica a quello arabo.

12 Vecchia e Nuova Yishuv, ovvero la popolazione ebraica in Israele. Per vecchia Yishuv si intende la popolazione ebraica residente prima dell’immigrazione sionista.

13Al-Aqsa / Monte del Tempio, l’area su cui sorgeva l’antico Tempio di Gerusalemme e su cui, nei secoli successivi, è sorta la moschea di Al-Aqsa. Per uno studio complessivo del significato di tale luogo si rimanda al libro “The end of days: fundamentalism and the struggle for the Temple Mount”, di Gorenberg, Gershom, Oxford University Press, New York, 2002.

14La denominazione “Repubblica Araba Unita” rappresentava un’entità statale costituita da Siria ed Egitto, cui si unì successivamente lo Yemen del nord.

15Dispensazionalismo, dottrina teologica tipica di alcune branche dell’evangelismo che pone l’accento su di una divisione della storia umana in diversi periodi storici di diverso significato teologico che vengono dispensati dalla divinità.

16Meir David Kahane, rabbino israelo statunitense fondatore del Kach, partito di estrema destra israeliano dal cui milieu arrivarno sia l’attentatore dell Tomba dei Patriarchi che l’omicida di Rabin. Dal Kach discende direttamente il partito Otzma Yehudit, presente nel governo Nethanyau.

17 La questione della profondità strategica, ovvero la distanza tra le possibili linee del fronte e i centri geografici vitali di un paese, è stato il cruccio della politica Israeliana fino alle conquiste territoriali della Guerra dei Sei Giorni. Il Sinai venne restituito agli egiziani in cambio del processo di pace sotto egida statunitense, il Golan rimane tuttora sotto controllo Israeliano.

18Idea secondo la quale esistono delle spiegazioni ultime oltre le quali non v’è più conoscenza possibile. Verità definitive, date una volta per tutte, in grado di decretare l’oggettiva impossibilità del cambiamento.

Federazione Anarchica Tprinese
Assemblea Antimilitarista – Torino

I quaderni di Anarres
luglio 2024