Salvini chiede, la Calabria esegue. Il cambio di marcia della giunta calabrese
sulla costituzione di parte civile nel processo sulla strage dei migranti è
dettato dalle pressioni del vicepremier sul presidente della giunta regionale
Occhiuto
di Tiziana Barillà
Nell’aula del Tribunale di Crotone, dove è in corso il processo per i mancati
soccorsi che hanno portato alla strage di Cutro, si tiene il processo a carico
di quattro finanzieri e due ufficiali della Guardia costiera, accusati di
naufragio colposo e omicidio colposo plurimo.
Nessuno – spero – ha dimenticato che il 26 febbraio 2023, il caicco “Summer
love” si è schiantato nella secca a un chilometro dalla costa calabrese. Di
quella strage non sappiamo nemmeno il numero dei dispersi, abbiamo contato i 94
corpi che hanno raggiunto la spiaggia di Steccato di Cutro, senza vita. Di quei
morti, 35 erano bambini, persino le bare bianche erano finite.
Quello che sappiamo – invece – è che ritardi e inerzie, hanno rappresentato una
“grave negligenza, imprudenza, imperizia” da parte dei militari imputati che
hanno violato, secondo i pm, la normativa europea e nazionale in materia di
soccorsi in mare.
Il 12 maggio si è tenuta l’udienza preliminare, con 113 richieste di
costituzione di parte civile: i familiari delle vittime e i superstiti, le
associazioni e le organizzazioni non governative. Ma le istituzioni no. La
Regione Calabria no, né i Comuni di Crotone e di Cutro. Figuriamoci il governo
di Meloni, Salvini e Piantedosi.
Dopo aver loro voltato le spalle in mare, negando il soccorso, lo Stato, la
Regione e i Comuni interessati hanno voltato le spalle alle vittime di Cutro, ai
loro familiari e ai superstiti, anche in Tribunale.
La mancata costituzione di parte civile del governo era scontata, vista
l’assoluzione d’ufficio garantita ai militari dal governo ancora prima che la
Procura di Crotone e i Carabinieri concludessero le indagini. Ma i Comuni
interessati? E la Calabria di Roberto Occhiuto – lo stesso che si è battuto il
petto in quelle ore e nelle cerimonie successive?
Roberto Occhiuto, se possibile, ha fatto ancora peggio del governo
vergognosamente coerente. Fino a poco prima dell’udienza, la Regione Calabria
era l’unico ente ad aver chiesto di essere inserito tra le parti offese. Poi, ha
fatto marcia indietro per sopperire al disappunto dell’Usim, il sindacato della
guardia costiera, e al rimprovero di Matteo Salvini.
La Regione si è rimangiata tutto con una nota imbarazzata e imbarazzante,
appellandosi a un errore: credevano fosse un processo contro gli scafisti, non
contro i militari! Occhiuto, insomma, ha parlato di errore ma il sindacato dei
militari ha rivendicato il successo politico suo e di Salvini.
Roma ordina, Catanzaro obbedisce. Come da copione, di una tragica e classica
abitudine meridionale. Manza un anno alle elezioni regionali, tra lotte
intestine e un’eterna campagna elettorale da portare avanti, la retorica della
Calabria straordinaria panacea di ogni problema, non basta più.
Se c’è da impugnare il bastone, si impugni. Tanto più se bisogna puntarlo contro
centinaia di disperati, che manco votano.
La Calabria è un’altra cosa.
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Tag - migranti
La denuncia di Mediterranea: prigione e torture per donne e bambini catturati
della “Guardia costiera” nel lager libici
Gli orrori del lager di Zawhia in Libia, uno di quelli gestiti dal criminale
libico Almasri, e le uccisioni in mare, avvenute lo scorso 2 maggio, ad opera
della cosiddetta guardia costiera libica, finanziata dal governo italiano per
tenere lontano dai nostri confini i migranti.
È quello che emerge da un video diffuso dalla Ong Mediterranea, che sui social
ha diffuso il filmato raccolto da Refugees In Libya, la Ong il cui fondatore
David Yambio figura tra le personalità finite nel mirino dello spyware di
Paragon.
Il lager ripreso, secondo quanto verificato dalla posizione gps dalla quale è
stato inviato il video, è quello denominato Al – Nasr Detention Center: uno di
quelli sotto la giurisdizione di Almasri, il generale libico, ricercato dalla
Corte penale internazionale, prima arrestato e poi rilasciato e rimpatriato
dalle autorità italiane alcuni mesi fa.
“Riceviamo e pubblichiamo, grazie alla rete RefugeesinLibya, un video che
denuncia ancora crimini contro donne e bambini che tentano di fuggire
dalla Libia, dove sono sottoposti a sofferenze indicibili. Il lager di Zawiya,
situato a 50 chilometri a nord-ovest di Tripoli, è uno di quelli gestiti da
Almasri, ricercato dalla Corte Penale internazionale per crimini contro
l’umanità”, spiega Mediterranea, che ha trasmesso il video “anche agli uffici
della Corte Penale Internazionale: qualcuno nel governo italiano e nell’Unione
Europea dovrà rispondere davanti alla giustizia di questi crimini contro
l’umanità”.
In questo momento all’interno del lager ci sono oltre 100 donne, di varie
nazionalità, e decine di bambini. Per poter uscire, denuncia Mediterranea, gli
uomini di Almasri chiedono 6000 dinari per il rilascio di ogni persona.
Mediterranea riporta anche la testimonianza di Fatima Ibrahim e della sorella
Rakuya, profughe etiopi, catturate con i loro bambini e altre 130 persone dalla
cosiddetta guardia costiera libica, lo scorso 2 maggio, in acque internazionali
tra l’Italia e la Libia: “Erano salpati da Sabratha su un’imbarcazione di legno
a due ponti con oltre 130 persone imbarcate. Hanno navigato per circa un’ora
dalla costa, fino a quando le milizie sono arrivate e hanno sparato contro la
loro barca. Alcune persone sono rimaste uccise, una ragazza è sicuramente morta
per le ustioni derivanti dall’incendio del motore colpito dai colpi dei mitra. I
sopravvissuti sono stati portati nella prigione di Almasri e sono stati
spogliati, perquisiti. I miliziani hanno sottratto telefoni e soldi”.
(fonte l’Unità)
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Ennesima morte nei Centri di Permanenza per il rimpatrio (CPR). Abel Okubor, un
uomo di 37 anni originario della Nigeria, è deceduto per un presunto “malore”
sabato 3 maggio nel lager per migranti di Brindisi.
“Quando una persona di 37 anni muore in un CPR, non si può parlare semplicemente
di un malore. È fondamentale capire cosa è successo prima che quel malore
portasse alla morte. L’autopsia è fondamentale per comprendere la catena di
eventi che ha determinato questa tragedia”, ha spiegato ai microfoni di Radio
Onda d’Urto Nicola Cocco, medico della Rete Mai più Lager – No ai CPR.
Nicola Cocco ha inoltre sottolineato la responsabilità dello Stato
nell’assicurare la sicurezza e la salute di chi si trova in custodia. La morte
di Abel Okubor non è un caso isolato: i CPR italiani, da anni, sono al centro di
numerosi episodi di violenze contro i migranti e per le condizioni disumane a
cui sono costrette le persone detenute.
La situazione nei CPR, secondo Cocco, è sempre più simile a quella dei vecchi
manicomi: “molte persone che si trovano nei CPR soffrono di problemi di salute
mentale, ma non vengono adeguatamente trattate. I farmaci vengono somministrati
senza un’adeguata supervisione, spesso solo per sedare e non per curare. Questo
porta a una deriva manicomiale, dove le persone sono lasciate senza alcuna
attenzione psicologica”, ha dichiarato il medico, facendo riferimento al caso
del CPR di Gradisca d’Isonzo, dove recentemente si è registrata una situazione
di abbandono psichiatrico.
Le pessime condizioni di vita nei CPR italiani vengono ciclicamente denunciate.
Un esempio delle difficoltà quotidiane è la situazione nel CPR di Torino,
recentemente riaperto. Qui, il 1 maggio, si è verificata una protesta che è
sfociata in scontri con le forze dell’ordine, con tre feriti tra le persone
detenute.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Nicola Cocco, medico della Rete Mai più
Lager – No ai CPR. Ascolta o scarica
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La battaglia per la verità sulla morte di Wissem Abdel Latif
di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale
Ci ha chiamato l’ultima volta diversi giorni prima di morire, sentivamo che non
stava bene, ci aveva chiesto soldi per pagare un avvocato, non lo riconoscevo
dalla voce”, racconta Henda Ben Ali, 51 anni, originaria di Kebili, una
cittadina nel sud della Tunisia. È arrivata, insieme al marito Kamal Abdel
Latif, a Roma per partecipare all’udienza preliminare del processo per la morte
del figlio Wissem Abdel Latif, il ragazzo tunisino di 26 anni deceduto il 28
novembre 2021 all’ospedale San Camillo di Roma, dopo essere stato legato al
letto per cinque giorni, prima all’ospedale Grassi di Ostia e poi nel reparto
psichiatrico del San Camillo.
Nel processo, cominciato il 9 aprile, c’è solo un imputato, un infermiere del
San Camillo accusato di omicidio colposo e falso per aver somministrato una dose
eccessiva di sedativo. La famiglia assicura che Wissem era un ragazzo in salute,
sportivo, sempre allegro, senza patologie, e che era partito da casa alla fine
di settembre 2021 per cercare lavoro in Europa.
“Nessuno ci ha avvertito di quello che gli stava succedendo, l’ultima volta ci
ha telefonato parecchi giorni prima della morte, era nel Cpr di Ponte Galeria, a
Roma”, racconta Kamal, 62 anni, che ha faticato molto a ottenere il visto per
partecipare al processo in Italia. Nessuno gli aveva detto che Abdel Latif era
stato ricoverato in ospedale. Sapevano che era arrivato in Italia e che era
stato rinchiuso prima a bordo di una nave per la quarantena, poi in un Centro di
permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma non avrebbero mai immaginato di ricevere
una chiamata dal consolato che li informava che il figlio era morto. Ora
vogliono che il processo faccia luce su quello che è successo al ragazzo nei due
mesi in cui è stato in Italia.
Nel Cpr di Ponte Galeria aveva paura, non capiva perché fosse finito dentro
quella gabbia senza aver commesso alcun reato. La famiglia, parlando con il
ragazzo al telefono, si era accorta che c’era qualcosa di strano nelle parole e
nel comportamento. Aveva uno strano modo di parlare, era agitato. Ma non
immaginava quello che stava per succedergli.
Due settimane dopo la morte in ospedale, le autorità hanno avvertito il padre e
la madre del decesso: hanno parlato di “morte naturale” in seguito a un ricovero
per problemi psichiatrici, ma i familiari dicono che il ragazzo non ha mai avuto
disturbi psicologici, né fisici. “Non è vero che aveva problemi psichiatrici,
stava bene, giocava a calcio”, assicura il padre. Quattro anni dopo la morte del
figlio non ha smesso di sperare che si scopra la verità.
Prima di lasciare il suo paese Abdel Latif aveva lavorato in un ristorante, in
un hotel, in un supermercato e in un bar. Poi con la crisi economica era stato
licenziato e aveva deciso di partire, come tanti altri ragazzi nella sua
condizione. Era il primogenito di tre figli, l’unico maschio. “Era un figlio e
un amico per me”, dice il padre tra le lacrime. Il padre è un autista di
pullman, mentre la madre è impiegata al ministero del turismo. Rania, la sorella
maggiore, si è trasferita in Arabia Saudita da tre mesi, dopo la laurea, mentre
la sorella piccola va ancora a scuola e vive con i genitori. “Si dava molto da
fare, dopo le superiori si era messo a lavorare per dare una mano a casa, poi
era andato a Tunisi da Kebili”, racconta il padre.
Wissem Abdel Latif era un grande appassionato di calcio, aveva giocato in una
squadra locale, l’Oasis sportive Kebili. In alcune foto che la madre ha sul
telefono è in posa con la squadra, solleva una coppa. Sbarcato il 2 ottobre 2021
a Lampedusa dopo 18 ore di viaggio a bordo di un’imbarcazione di pescatori, è
incappato in una serie di ingiustizie e abusi che in due mesi lo hanno portato
alla morte. Alle 4 di mattina del 28 novembre è stato trovato morto su una
barella in un corridoio del reparto psichiatrico del San Camillo, ma non è
chiaro a che ora esattamente sia avvenuto il decesso. Probabilmente tra le 2.30,
ora in cui è stato controllato l’ultima volta dal personale sanitario, e le
4.20. Secondo fonti mediche, è morto per un arresto cardiaco.
L’avvocato Francesco Romeo, che rappresenta la famiglia, assicura che sul corpo
non ci sono segni di percosse, né emorragie interne o traumi. Non è chiaro però
perché Abdel Latif sia stato legato al letto mani e piedi per cinque giorni, sia
a Ostia sia a Roma. Il ragazzo era già sottoposto a sedazione con due diversi
psicofarmaci, a cui se ne è aggiunto un terzo. Nel trasferimento in barella il
ragazzo è stato slegato, per essere di nuovo messo in contenzione all’ospedale
San Camillo di Roma, senza però essere stato sottoposto a un trattamento
sanitario obbligatorio (tso).
L’avvocato Romeo sottolinea che dovrà essere chiarito perché Abdel Latif fosse
ancora in detenzione, visto che il giudice di pace di Siracusa aveva sospeso il
decreto di respingimento e il provvedimento di trattenimento nel Cpr di Ponte
Galeria quattro giorni prima della sua morte. “Da alcuni atti del procedimento
che ho avuto modo di consultare emerge che la morte poteva essere evitata. Il 24
novembre 2021, mentre il ragazzo era legato al letto nell’ospedale Grassi di
Ostia, il giudice di pace di Siracusa sospendeva l’esecutività del decreto di
respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il Cpr di Ponte
Galeria, provvedimenti emessi dal questore di Siracusa il 13 ottobre. Ma Abdel
Latif non l’ha mai saputo”, continua Romeo. Secondo il legale, sia il Cpr di
Roma sia l’avvocato che seguiva il tunisino per la richiesta di asilo avrebbero
dovuto ricevere la notizia della sospensione del provvedimento di trattenimento
e avrebbero dovuto comunicarlo al ragazzo. Inoltre non si spiega perché il
ragazzo fosse legato al letto, nonostante fosse stato sedato con diversi
psicofarmaci.
Ci sono anche altre anomalie che il processo dovrà chiarire. Dopo l’arrivo in
Italia, Abdel Latif è stato trasferito su una nave quarantena, il traghetto Gnv
Atlas, dove ha trascorso dieci giorni. Il 13 ottobre era sbarcato ad Augusta ed
era stato portato prima a Catania e poi a Roma, nel Cpr di Ponte Galeria, perché
giudicato “idoneo alla vita ristretta”, quindi in buone condizioni di salute.
Sulla nave quarantena, un traghetto privato usato per isolare i migranti
arrivati in Italia via mare per l’emergenza covid, non era stato rilevato nessun
comportamento anomalo del ragazzo, né malessere psicologico o vulnerabilità. In
un video fatto con il telefono, pubblicato online e acquisito dalla procura,
Abdel Latif racconta di essere a bordo di una nave quarantena e di temere il
rimpatrio. In un video successivo girato all’interno del Cpr di Ponte Galeria
dice che è stato arrestato, che non sa bene perché. Dice di voler fare domanda
di asilo e chiede aiuto per trovare un avvocato.
Quando entra nel Cpr di Ponte Galeria Abdel Latif è in buone condizioni
psicofisiche. Lo conferma al telefono il direttore del centro, Enzo Lattuga.
“Era depresso, ma non è mai stato aggressivo”. Dieci giorni dopo, nel colloquio
con la psicologa della struttura manifesta sintomi di sofferenza e di disagio:
ansia, tachicardia, senso di oppressione. La psicologa chiede l’intervento di
uno specialista dell’azienda sanitaria locale (asl), che avviene l’8 novembre.
Durante la visita lo psichiatra diagnostica una sofferenza mentale grave e gli
prescrive una terapia farmacologica. La diagnosi parla di “disagio
schizoaffettivo”, tra i farmaci prescritti c’è un antipsicotico, il Talofen. Il
19 novembre una nuova visita con la psicologa del Cpr riscontra che i sintomi
non sono cambiati, ma sono peggiorati, e chiede un nuovo accertamento allo
psichiatra della asl.
Probabilmente Abdel Latif non tollera i farmaci, che gli provocano depressione e
incontinenza, in certi momenti rifiuta di assumerli. Le sue ultime ore di vita
sono una lenta discesa agli inferi: il 23 novembre, dopo una nuova visita dello
psichiatra della asl è disposto il ricovero in ospedale. L’accesso al pronto
soccorso del Grassi di Ostia avviene in ambulanza intorno alle 13. Dal lì viene
trasferito in reparto verso le 19 con una diagnosi di schizofrenia.
Dopo 48 ore, per ragioni di competenza territoriale, il paziente è trasferito in
ambulanza al San Camillo. La prima nota di contenzione parla di “paziente
aggressivo”, le altre di un paziente “confuso e disorientato”. Non ci sono posti
in reparto e quindi è lasciato su una barella in corridoio. Non parla con alcun
mediatore culturale. Anche se gli esami del sangue presentano delle anomalie,
non gli viene fatto un elettrocardiogramma. A 72 ore dall’ingresso al San
Camillo, Abdel Latif muore. Avrebbe dovuto essere liberato quattro giorni prima.
In Tunisia ci sono state molte proteste per la morte del ragazzo, perché
numerosi ragazzi tunisini sono sottoposti a trattamenti simili, in quanto la
Tunisia è considerata un paese sicuro e quindi le persone sono trasferite al
loro arrivo direttamente nei Cpr per essere rimpatriate, senza che spesso gli
sia garantita la possibilità di chiedere l’asilo o siano informati dei loro
diritti. Anche molte associazioni italiane che si occupano di immigrazione, tra
cui LasciateCIEntrare e No Cpr, hanno organizzato proteste per chiedere verità e
giustizia per Wissem Abdel Latif e contro il sistema dei centri di detenzione
italiani, istituito nel 1998 ed esteso di nuovo a partire dal 2017.
Nelle stesse ore in cui cominciava il processo per la morte di Abdel Latif,
quaranta persone erano trasferite con la forza da diversi Cpr italiani a quello
di Gjadër, in Albania, suscitando critiche e proteste. Una ventina di loro sono
ancora in detenzione e le proteste sono continue all’interno del centro. “La
storia di Wissem Abdel Latif è emblematica del sistema di detenzione
amministrativa in Italia. Le persone sono sottoposte a detenzione indiscriminata
e se protestano sono sedate con psicofarmaci”, commenta Yasmine Accardo del
Comitato verità e giustizia per Wissem. Nel dicembre del 2024 il Comitato
europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o
degradanti del Consiglio d’Europa ha ripreso l’Italia per la situazione
all’interno dei Cpr, in particolare ha contestato l’uso massiccio degli
psicofarmaci all’interno di queste strutture.
In realtà questa non è una novità: l’uso della sedazione per le persone che sono
in una condizione di privazione della libertà personale era già stato denunciato
vent’anni fa da un rapporto sul centro di detenzione Serraino Vulpitta di
Trapani nel 2002. Un’inchiesta della rivista Altraeconomia del 2023 ha mostrato
che nei Cpr le persone trattenute sono “tenute buone” con un uso arbitrario ed
eccessivo dei medicinali. Nell’agosto del 2024 un altro ragazzo, Oussama
Darkaoui, 22 anni di origine marocchina, è morto nel Cpr di Palazzo San
Gervasio, dopo aver fatto due accessi in ospedale in stato di incoscienza con un
grande quantitativo di psicofarmaci nel sangue.
“Era partito per aiutarci e invece è morto come una bestia”, dice Kamal Abdel
Latif, promettendo di partecipare a tutte le udienze del processo, che
riprenderà a settembre. “Non ci fermeremo finché non sapremo la verità, la
storia di nostro figlio è la storia di tanti ragazzi che vengono trattati in
questo modo. Non deve succedere più”, conclude la madre Henda Ben Ali.
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Il report della rete Picum sottolinea l’aumento della criminalizzazione dei
migranti e della solidarietà in tutta l’Unione europea: oltre 200 i casi nel
2024
di Michele Gambirasi da il manifesto
La criminalizzazione delle migrazioni nell’Unione Europea è in crescita, che si
tratti di Ong impegnate nel soccorso e l’aiuto a persone migranti o di chi cerca
di attraversare i confini per arrivare nel continente. È quanto emerge
dall’ultimo report di Picum, organizzazione basata a Bruxelles che raccoglie
oltre 100 associazioni «che lavorano per garantire giustizia sociale e diritti
umani ai migranti privi di documenti».
Il rapporto, reso pubblico da oggi, dà conto nel 2024 di almeno 142 casi di
procedimenti legali contro operatori umanitari, «per aver agito in solidarietà
con i migranti nell’Unione europea»; sono 91 invece i casi registrati di azioni
legali direttamente contro migranti, per la maggior parte vittime delle leggi
contro la tratta di esseri umani. L’anno precedente erano stati rispettivamente
117 e 76, segnando un incremento di oltre il 20%. L’Italia è, insieme alla
Grecia, tra i paesi che registrano il maggior numero di processi in corso, su
entrambi i fronti: sono almeno 29 gli operatori di Ong indagati o che
fronteggiano processi, mentre sono 40 i casi registrati di migranti accusati.
Nella maggioranza dei casi il reato contestato è quello di «favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina» normato dall’articolo 12 del Testo unico
sull’immigrazione e ulteriormente rafforzato dall’entrata in vigore
dell’articolo 12bis a seguito del «decreto Cutro».
Numeri che rappresentano stime al ribasso, raccolti attraverso il monitoraggio
dei media a causa dei buchi e delle discrepanze nelle statistiche ufficiali.
Solo in Italia i dati raccolti da Arci Porco rosso tracciano almeno 106 casi di
migranti arrestati per il reato di favoreggiamento nel 2024, fermati non appena
arrivati in porto. In Grecia, Aegean boat report conta 228 persone arrestate
all’arrivo sulle coste elleniche. La dissonanza tra i numeri raccolti dalle Ong
e quelli presentati da Picum non è solo il risultato della difficoltà di avere
statistiche chiare, ma anche la spia del fatto che «la criminalizzazione di chi
attraversa i confini rimane un fenomeno nascosto, che rivela la tendenza dei
media a sottorappresentarlo» scrive l’organizzazione.
Nella maggior parte dei casi, comunque, la montagna partorisce un topolino. O in
alcuni casi proprio nulla. Dei 43 processi conclusi nel 2024 contro operatori
umanitari, in 41 casi si è giunti a un’assoluzione, dichiarando l’insussistenza
del fatto. Nonostante ciò, la criminalizzazione del soccorso produce in ogni
caso effetti deterrenti e ostativi nei confronti delle organizzazioni, costrette
ad affrontare processi che hanno una durata media di tre anni e che in alcuni
casi possono tenere ferme a lungo le imbarcazioni che operano in zona Sar. Nel
2024 si è chiuso in Italia il caso Iuventa, durato sette anni e che alla fine ha
visto prosciolti tutti i dieci imputati delle Ong Jugend Rettet, Save the
children e Medici senza frontiere. Sette anni nel corso dei quali la nave
Iuventa è rimasta sequestrata e in stato di fermo, comportandone un
irrimediabile danneggiamento.
Se la criminalizzazione si poggia prevalentemente sulla legislazione che
interviene sul traffico di esseri umani, le nuove direttive europee in corso di
approvazione corrono il rischio di accrescere il fenomeno secondo Picum. Tra
queste soprattutto la revisione del Facilitators package, una combinazione di
direttive e una decisione quadro dell’Ue del 2002, proposta nel 2023 dalla
Commissione europea e ancora in fase di discussione al Parlamento. La proposta,
secondo l’Ong, riconosce il contrabbando come causa principale
dell’immigrazione: «un approccio criminalizzante che contraddice l’evidenza che
la legislazione antitratta spesso danneggia, più che tutelare, i diritti dei
migranti».
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Le politiche migratorie europee. Dal 2003 i governi teorizzano il protocollo
Italia-Albania. Ora l’esecutivo europeo accelera le tappe. Da Bruxelles viene
lanciato un messaggio chiaro: il diritto alla protezione internazionale è
selettivo.
di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu da il Domani
“Una possibilità potrebbe essere quella di istituire zone protette nei paesi
terzi, dove chi arriva negli stati membri e chiede asilo potrebbe essere
trasferito per l’esame della sua richiesta”. Ventidue anni fa un documento
gettava le basi dell’attuale approccio europeo alle politiche migratorie. Un
testo che teorizzava una nuova modalità di gestione dei flussi attraverso la
costruzione di centri di transito nei paesi extra Ue. Il progetto prevedeva il
coinvolgimento di organizzazioni come Oim e Unhcr, e si proponeva di avere un
effetto deterrente alla migrazione.
L’idea è contenuta in una lettera del 10 marzo 2003 firmata dal premier
britannico laburista Tony Blair e indirizzata al presidente di turno del
Consiglio europeo, l’allora primo ministro greco Kostas Simitis. Il disegno
immaginato da Blair è oggi diventato realtà con il protocollo Italia-Albania.
Quella che la premier Giorgia Meloni definisce una soluzione innovativa non è
altro che una tendenza europea che da vent’anni si sta affermando e che, “invece
di regolare un fenomeno strettamente dipendente dall’economia, pone come
prioritaria la dimensione della sicurezza a scapito della tutela dei diritti e
delle libertà”.
È così che Chiara Favilli, docente di diritto dell’Ue all’università di Firenze
racconta il percorso intrapreso da Bruxelles. Un percorso che ha portato nel
2024 all’approvazione del Patto Ue per la migrazione e l’asilo, un pacchetto di
riforme che comprime al massimo il diritto di asilo, senza però favorire canali
di ingresso legali. Il Patto punta sull’applicazione generalizzata di procedure
accelerate, l’aumento delle espulsioni e l’uso delle zone di frontiera in un
regime detentivo per la valutazione della domanda.
“Paesi sicuri” – Il 16 aprile l’esecutivo dell’Ue ha bruciato le tappe
proponendo di anticipare alcuni elementi del Patto: le procedure accelerate per
tutte le nazionalità con tassi di accoglimento delle domande di asilo inferiori
al 20 per cento; la facoltà per gli stati membri di designare paesi sicuri. E
proprio su questo la Commissione ha tracciato la via formalizzando una lista
comune di paesi sicuri, includendo Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India,
Marocco e Tunisia, dove sabato sono state condannate per cospirazione 40
persone, tra oppositori e attivisti. “Un elenco evidentemente orientato verso la
lista stilata dall’Italia”, nota Favilli, che definisce “grezzo” il testo
presentato, con “nozioni che non hanno alcun tipo di pregnanza giuridica”.
C’è di più, l’anticipazione dimostra che “l’attuazione del protocollo
Italia-Albania non è possibile con la legislazione vigente”. Per la docente, c’è
un’inversione di tendenza: la Commissione ha dimostrato sostegno alle politiche
dei governi, abdicando al proprio ruolo di orientamento verso obiettivi comuni.
L’approccio perseguito dalla presidente Ursula von der Leyen va in questa
direzione. In carica dal 2019, per assicurarsi un secondo mandato, ha saputo
interpretare l’onda a destra e fare della questione migratoria la sua strategia
politica accelerando, prima delle elezioni europee, la firma di accordi con
paesi terzi per esternalizzare le frontiere.
La proposta della Commissione “assomiglia più a un messaggio politico che a una
proposta normativa. Ed è uno strumento di legittimazione politica dell’intesa
con l’Albania”, dice Salvatore Fachile, avvocato e socio di Asgi. “La proposta
sminuisce il ruolo della Corte di giustizia Ue, chiamata a una decisione che in
Italia ha assunto una dimensione politico-normativa enorme”, spiega Fachile.
“Si dà un segnale sul fatto che non ci saranno margini di discussione su questi
temi”, sulla scia di quanto sta accadendo in Italia, dove alle sentenze dei
giudici che non hanno convalidato i trattenimenti in Albania il governo ha
risposto con uno scontro tra poteri. La pronuncia della Corte è attesa entro
l’estate. “Potrebbe introdurre un principio utile anche in vista delle modifiche
e, nonostante le pressioni politiche, ribadire i limiti derivanti dai diritti
fondamentali”, dice Favilli.
La svolta securitaria – Dal 2003 in poi, ci sono state diverse proposte
analoghe, scartate però per ragioni di opportunità o di convenienza, anche
economica. “L’attentato alle Torri Gemelle ha condizionato la realizzazione
delle politiche migratorie dell’Unione, che allora avevano appena preso avvio. È
stato visibile in tutte le norme europee adottate, con un’ulteriore spinta dopo
la crisi dei rifugiati tra il 2015 e il 2017”, spiega Favilli. L’anno chiave è
stato il 2016, quando la Commissione ha presentato il Nuovo quadro giuridico di
partenariato con i paesi terzi, aprendo a diverse forme di cooperazione, come
l’accordo Italia-Libia del 2017 e i partenariati strategici più recenti. Anche
l’intesa con l’Albania è una di queste e “la Commissione – sottolinea Favilli –
sta facendo tutto quello che è nel suo potere per far sì che il Protocollo si
realizzi”. La linea securitaria dell’Ue emerge anche nel linguaggio. “Dalla
prima agenda europea del 2015, comincia a cambiare”, evidenzia Fachile, “la
Commissione inizia a chiedere agli stati un atteggiamento sperimentale,
irregolare. Ogni sei mesi aveva una sfumatura più aggressiva verso l’idea che
gli stati hanno una supremazia anche sul rispetto delle norme”.
Secondo l’avvocato il diritto di asilo è stato censurato invertendo la logica
della regola e dell’eccezione. “Anche se formalmente il diritto di asilo non può
essere abrogato, perché rappresenta un pilastro della democrazia occidentale
moderna, nella pratica può essere svuotato prevedendo un numero di eccezioni
così elevato da lasciare solo l’involucro”.
L’approccio securitario di Bruxelles è dimostrato anche dal rafforzamento, anno
su anno, dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere: il vero muro
dell’Unione. Dal 2023 a oggi il budget a disposizione di Frontex è aumentato di
oltre cento milioni l’anno. Nel 2023 era di 829 milioni di euro, diventati poi
922 milioni nel 2024 fino a superare la quota di un miliardo (1.1) nel 2025.
Dieci anni fa era di circa 6,3 milioni di euro. Le prime tre voci del bilancio
sono quelle relative al personale, all’acquisto degli equipaggiamenti militari
per sorvegliare le frontiere terrestri e marine, e alle operazioni di rimpatrio.
Queste nel 2024 hanno costituito il 23 per cento della spesa, 146,2 milioni di
euro (67.8 milioni nel 2022). Solo lo 0,2 per cento del budget è destinato a
questioni relative ai diritti umani, nonostante le accuse di coinvolgimento
dell’agenzia nei respingimenti dei migranti.
Dalla Spagna all’Ungheria – L’Italia non è l’unica ad aver contribuito a
sgretolare il diritto all’asilo. Lo hanno fatto anche la Spagna, a Ceuta e
Melilla, l’Ungheria al confine con la Serbia, la Grecia, coi respingimenti
illegali alle frontiere. Il nostro paese è però quello che si è prestato
all’operazione più spaventosa: “L’accordo con la Libia, con cui ha delegato alle
milizie il compito di bloccare i richiedenti asilo applicando la legge libica”,
ricorda Fachile. L’accordo Roma-Tirana è un altro tassello e l’ultimo decreto
del governo, il 37/2025, che ha trasformato i centri in Albania in Cpr, “è
un’apertura di orizzonte richiesta dalla Commissione”, spiega l’avvocato, “per
giungere all’approvazione del nuovo regolamento rimpatri. Un percorso
normo-sociale: far sì che una società digerisca un istituto per facilitare la
sua approvazione normativa”. Per 25 anni l’Ue ha gestito la politica migratoria
con un approccio difensivo e repressivo, trascurando la dimensione economica.
Per Favilli, “ha mancato completamente il suo appuntamento con la storia e ha
dimenticato che l’unica deterrenza all’immigrazione irregolare è quella
regolare”.
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La campagna contro i profughi. L’Egitto e la Tunisia “paesi sicuri” nella lista
preparata dalla commissione europea. Per giustificare la scelta si dice che i
governi hanno promesso riforme liberali. Già, intanto ammazzano le persone nel
deserto. Sicuro vuol dire che rispetta la democrazia e il diritto. È sicura la
Turchia che arresta gli oppositori? L’assurda regola del 20%
di Gianfranco Schiavone da l’Unità
Il 16 aprile 2015 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma
di nuovo Regolamento (COM – 2025 – 186 finale) finalizzato a modificare alcuni
articoli del nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 (sulle procedure per l’esame delle
domande) che andrà a sostituire la vigente Direttiva 2023/32/UE e che si
applicherà a partire dal 12.06.2026. Le proposte hanno l’obiettivo di modificare
alcuni aspetti delle procedure accelerate di frontiera e soprattutto di
anticipare l’entrata in vigore delle stesse procedure accelerate nel caso di
provenienza dei richiedenti asilo da paesi di origine ritenuti sicuri o
provenienti da paesi terzi rispetto ai quali la percentuale di decisioni di
accoglimento delle domande di asilo presentate dai cittadini di quegli stati è
pari o inferiore al 20%.
Premettendo che è censurabile la scelta della Commissione di volere modificare
un regolamento che è in vigore ma non ancora applicabile, la prima modifica che
la Commissione propone è quella di modificare l’art.61 del Regolamento procedure
allo scopo di poter automaticamente dichiarare paesi di origine sicuri tutti i
paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, salvo che in tali paesi non ci
siano situazioni di conflitto armato o le domande di asilo dei cittadini di tali
paesi vengano accolte nell’UE con una media superiore al 20%. I candidati
attuali all’adesione sono Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. La
Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo sono candidati potenziali. Anche la
Turchia rientra tra i paesi candidati anche se i negoziati sono congelati dal
2018. Apparentemente la proposta della Commissione potrebbe sembrare
ragionevole, dal momento che il primo requisito per avere lo status di candidati
è aderire ai principi dell’Unione e rispettare lo stato di diritto.
Un rapido sguardo alla lista degli aspiranti fa comprendere come si tratti
invece di una scelta del tutto impropria che confonde criteri giuridici con
criteri politici. Tra i paesi candidati figurano infatti Paesi come la Turchia
nel quale le violazioni dei diritti umani sono estese e sistematiche, come reso
evidente agli occhi del mondo anche dai tragici eventi delle ultime settimane.
Nel 2023 oltre centomila cittadini turchi hanno presentato domanda di asilo nei
paesi dell’UE, con un aumento dell’82 % rispetto all’anno precedente, divenendo
la terza nazionalità più numerosa in cerca di protezione nell’UE dopo i siriani
e gli afghani. È paradossale che l’UE condanni le violenze politiche in Turchia
e nello stesso tempo elabori proposte normative così palesemente irragionevoli.
La Commissione propone delle modifiche al testo del Regolamento procedure per
consentire agli stati la facoltà (non l’obbligo) di anticipare l’applicazione di
una nozione assai controversa già introdotta con il nuovo regolamento, ovvero la
possibilità di applicare la procedura accelerata di frontiera ai richiedenti
provenienti da un paese terzo “la cui percentuale di decisioni di riconoscimento
della protezione internazionale da parte dell’autorità accertante è, stando agli
ultimi dati medi annuali Eurostat disponibili per tutta l’Unione, pari o
inferiore al 20 %” . Poichè si trattava appunto di una misura futura la cui
applicazione sarebbe avvenuta appena a metà 2026 quasi nessuno ne ha parlato
finora. È stato introdotto nell’ordinamento giuridico una sorta di criterio
statistico di fondatezza della domanda che non appare compatibile con l’obbligo
da parte dello Stato di condurre un esame equo e completo della domanda di asilo
su base individuale.
L’incoerenza logica risulta ancor più chiara se si considera che, diversamente
da quanto un lettore assennato può pensare, la cosiddetta regola del 20% (che
non ha, nel testo di legge, neppure un nome per definirla) non si sovrappone né
sostituisce la nozione di paese di origine sicuro che continua ad essere
prevista dal nuovo Regolamento procedure. Tale normativa viene giustificata come
necessaria per limitare l’abuso della procedura di asilo da parte di persone la
cui domanda verrà quasi sicuramente rigettata. Non ci si accorge tuttavia della
irrazionalità di quanto si è proposto (e approvato); la percentuale di
accoglimento della domanda di asilo che può arrivare fino al 20% (non fino al
2%) indica un tasso affatto inconsistente rendendo confusa ed incoerente la
asserita ratio della norma. Inoltre, in modo del tutto arbitrario la percentuale
è calcolata solo sulla base delle domande accolte in sede amministrativa e non
tiene conto dei ricorsi, nonostante essi facciano pienamente parte della
procedura. Nel diritto dell’Unione con la nozione di “decisione definitiva” su
una domanda di asilo si deve infatti intendere l’esaurirsi, in senso di
accoglimento o di rigetto, di tutte le procedure. Il vero tasso di accoglimento
dovrebbe essere calcolato sulle decisioni definitive; se così fosse fatto, esso
si attesterebbe sul 30%.
Per comprendere quanto sia incredibile ciò di cui stiamo trattando faccio il
seguente esempio: se io fossi un medico e sostenessi che una malattia che ha un
tasso di mortalità del 20% o del 30% è in fondo assai poco pericolosa verrei
preso per pazzo. Se invece si sostiene che un tasso di accoglimento del 20%
delle domande di asilo è indice di una generale infondatezza l’irrazionalità di
quanto viene sostenuto passa del tutto inosservata. La realtà della vita degli
“altri” da cui dobbiamo difenderci è infatti divenuto da tempo un terreno nel
quale le nozioni giuridiche, e in generale ogni forma di logica, hanno perso il
loro significato lasciando il campo a disgustose (ma rimosse) forme di violenza
verso esseri umani.
La creazione di una lista europea di paesi di origine sicuri è nozione che non
viene affatto introdotta dalla nuova proposta di regolamento presentata dalla
Commissione ma è già presente nel Regolamento procedure. La nuova proposta si
limita a prevedere che “I paesi terzi elencati nell’allegato II sono designati
come Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione” e li indica (si tratta di
Bangladesh, Egitto, Colombia, India, Kosovo, Marocco, Tunisia). Viene così
stravolta la procedura corretta che dovrebbe essere seguita per la designazione
di paesi terzi come sicuri; innanzitutto la normativa che la prevede deve essere
applicata (cosa che al momento non è). In seguito a ciò, sulla base della
situazione oggettiva dei diversi paesi e dei criteri che la stessa normativa
prevede per effettuare la designazione come paese di origine sicuro (in primis
il requisito della democraticità dell’ordinamento di tali paesi) la Commissione
con atti delegati potrebbe predisporre una lista di paesi di origine sicuri
indicando le ragioni e le fonti che giustificano tale delicatissima scelta.
Nelle premesse alla sua nuova proposta di Regolamento che già in anticipo
contiene i futuri paesi di origine sicuri, la Commissione omette di indicare le
sue fonti; a ognuno dei paesi indicati come di origine sicura sono dedicate più
o meno dieci righe piene di affermazioni non veritiere o contestabili.
Prendiamo ad esempio l’Egitto su cui la Commissione scrive che “ Il Paese ha
ratificato i principali strumenti internazionali sui diritti umani (…) Nella sua
strategia nazionale per i diritti umani, l’Egitto ha dichiarato l’intenzione di
riformare la legge sulla detenzione preventiva, migliorare le condizioni di
detenzione, limitare il numero di reati puniti con la pena di morte e rafforzare
la cultura dei diritti umani in tutte le istituzioni governative. È necessaria
un’attuazione efficace, ma finora sono stati compiuti progressi”. Rinvii a
generici impegni e nessun riferimento alla realtà della presenza di migliaia di
detenuti politici, alla repressione di ogni forma di dissenso, al fatto che la
“tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente
nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite
dall’agenzia per la sicurezza interna” (rapporto globale di Amnesty
International 2023).
Sulla Tunisia, ignorando la violenta involuzione autoritaria in corso negli
ultimi anni, lo stesso impedimento all’ingresso nel Paese della delegazione dei
parlamentari europei avvenuto nel 2023, il pubblico linciaggio degli stranieri,
specie se di colore, la mancata applicazione della Convenzione di Ginevra, la
deportazione degli stranieri nel deserto documentata dal rapporto “State
Trafficking” presentato il 29.01.25 al Parlamento Europeo, la Commissione scrive
che la Tunisia “ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In Tunisia non è in corso alcun
conflitto armato e quindi non esiste alcuna minaccia di violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. In generale, non vi
sono persecuzioni nel Paese”. La nozione di paese di origine sicuro viene così
fatta a pezzi, ridicolizzata, stravolta, e viene sostituita da affermazioni
ideologiche e da parole prive di alcun contenuto. Non posso smettere di pensare
che la Commissione europea dovrebbe operare per “promuove l’interesse generale
dell’Unione” nonché vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il
controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea” (art. 17 del Trattato
sull’Unione Europea). È inquietante leggere i testi che oggi scrive perché mai,
almeno a mia memoria (che sfortunatamente non è più breve), è stato raggiunto un
livello così basso.
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Dopo il fermo nella giornata di ieri e il presidio serale solidale sotto la
Questura nella mattinata di oggi si è svolto il processo presso l’Ufficio
Immigrazione nei confronti di Ayoub, un attivista del centro sociale Lambretta
che è stato rilasciato.
Qui il comunicato.
Il nostro compagno è stato rilasciato, ma il razzismo istituzionale in Italia
resta una realtà strutturale.
Dopo una notte di fermo, il nostro compagno Ayoub è stato finalmente rilasciato.
La mobilitazione è stata immediata e trasversale: la lotta e la solidarietà
pagano. Siamo sollevat* ma non possiamo che ribadire quanto l’Italia continui a
essere attraversata da dinamiche sistemiche di razzismo istituzionale. Quanto
accaduto nelle ultime 24 ore non rappresenta un’eccezione, bensì una prassi
consolidata, espressione di un dispositivo giuridico e politico che criminalizza
sistematicamente le persone migranti.
Non si tratta di semplici slogan o di accuse infondate. L’arresto arbitrario e
il trattamento riservato ad Ayoub sono sintomatici di un regime di controllo e
repressione che si alimenta della condizione di irregolarità giuridica di
centinaia di migliaia di persone. Per circa un milione di persone migranti che
vivono in Italia senza documenti, l’arbitrarietà dell’azione delle forze
dell’ordine non è un’eccezione: è la regola.
Questo regime produce una condizione esistenziale sospesa: l’impossibilità di
accedere a un lavoro regolare, di stipulare un contratto di affitto, di
denunciare abusi subiti, di vivere una quotidianità dignitosa. In tale contesto,
la detenzione amministrativa e i rimpatri forzati appaiono come l’estrema
conseguenza di un meccanismo di esclusione che opera ben prima del carcere.
Ogni regime autoritario si fonda anche su forme di consenso sociale e
normalizzazione. Ed è proprio attraverso episodi come quello di Ayoub –
apparentemente marginali ma emblematici – che possiamo cogliere la misura della
violenza sistemica, della prepotenza istituzionale, dell’erosione dello stato di
diritto. Per oltre un milione di persone, l’inferno può cominciare con un
semplice controllo dei documenti, in un giorno qualsiasi.
Ayoub per adesso è libero anche grazie alla lotta e alla solidarietà. In vista
del prossimo 25 Aprile, non possiamo che rilanciare, dunque, una riflessione
profonda sul significato dell’antifascismo oggi. Se vogliamo costruire una
società antirazzista, transfemminista e antifascista, è necessario smantellare –
dalle fondamenta – le strutture di oppressione e discriminazione integrate nei
sistemi democratici occidentali. La lotta contro i neofascismi e contro la
stretta securitaria è la lotta per un’alternativa allo status quo, non un
ritorno a ciò che era prima.
Se voi fate il fascismo, noi facciamo la Resistenza.
(da Milano in Movimento)
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Dalla legge Turco-Napolitano che aveva previsto che i migranti irregolari
potessero essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, alla legge
Bossi-Fini che estendeva a sessanta giorni, al decreto Minniti-Orlando che
trasformò i Cpt in Cpr, innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il
decreto Sicurezza firmato da Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a
centottanta, riducendo nel contempo le possibilità di regolarizzazione
attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel 2023, il governo Meloni ha
innalzato la durata della detenzione fino a dodici mesi anche per i richiedenti
asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con l’Albania).
di Luna Casarotti da Monitor
L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per
il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër,
in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati
per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i
momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata
orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).
Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una
protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta
migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della
polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia
diffondere altri elementi.
L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo,
esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta
inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le
dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio
dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con
la normativa europea.
I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato
alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema
giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei
centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la
necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il
trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone
migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore
possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.
Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto
che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di
profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal
governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate
esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella
forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono
diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei
diritti umani protratte in un tempo lunghissimo.
Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero
essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata
di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di
centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto
Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr,
innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da
Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le
possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel
2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici
mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con
l’Albania).
Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente
provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa
qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I
farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”,
non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza
a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di
migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di
trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche
le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note.
Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si
continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei
confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane,
con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e
Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte
Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel
Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte
tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era
detenuto a Trapani-Milo.
Tuttavia, mentre la vita scorre fuori dalle mura di questi centri, al loro
interno il tempo sembra fermarsi. Le storie di chi è rinchiuso restano per lo
più nell’ombra, le voci soffocate, le esistenze sospese in un limbo senza
risposte. Chi vi entra, non sa cosa lo attende. Chi ne esce, porta con sé
cicatrici invisibili. Il prezzo di questa realtà lo pagano le persone costrette
all’interno, ma anche una società che, voltandosi dall’altra parte, permette che
tutto questo continui.
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Mentre le luci dei riflettori si sono concentrate sull’accordo Italia-Albania
per la creazione di un Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) in territorio
albanese continua la violenza sistemica all’interno dei CPR nel suolo italiano.
L’ultimo episodio riguarda un ragazzo di origini peruviane, con pregressi
problemi di salute e posto in isolamento nel CPR di Milano. Nonostante le sue
condizioni, è stato dichiarato “idoneo” dal personale medico, una prassi che,
secondo Nicola Cocco della Rete Mai Più Lager – No Ai CPR, intervenuto ai
microfoni di Radio Onda d’Urto, spesso relega la tutela della salute in secondo
piano.
Il ragazzo sarebbe stato ammanettato, legato ai piedi e addirittura imbavagliato
sotto una mascherina mentre veniva condotto al rimpatrio in Perù da dove era
fuggito anni fa per la Spagna, dove abitava prima di venire in visita di un
parente in Italia e trovarsi, dopo poco, bloccato in CPR.
Ma non solo. Al momento della deportazione, non gli sarebbero stati restituiti
400 euro che aveva con sè. E infine, come sottolinea Nicola Cocco, al suo arrivo
in Perù, contrariamente alla narrazione di un “ritorno a casa”, il ragazzo si è
ritrovato senza un posto dove andare.
Questo avviene mentre l’Italia continua a effettuare le deportazioni in Albania.
Gli effetti di questo accanimento crudele non sono tardati ad arrivare: sono già
stati segnalati casi di autolesionismo all’interno del CPR di Gjadër e, come
ricorda Cocco: “Stiamo attenti che quello che succede in piccola scala in
Albania succede in larga scala già sul nostro territorio.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Nicola Cocco della Rete Mai più Lager – No
ai CPR. Ascolta o scarica
Oggi, 15 aprile 2025, si terrà la seconda udienza del processo contro cinque
persone accusate di aver fornito aiuto umanitario a migranti al confine tra
Polonia e Bielorussia.
Il caso, noto come #H5Poland, è emblematico della crescente criminalizzazione
della solidarietà in Europa. Le persone imputate rischiano fino a cinque anni di
carcere per aver svolto azioni essenziali come consegnare cibo, vestiti e
trasportare famiglie in difficoltà per pochi chilometri, da una foresta al paese
più vicino.
La crisi umanitaria al confine orientale polacco è iniziata nel 2021 e coinvolge
migliaia di persone in fuga da Paesi come Afghanistan, Siria, Iraq e Somalia. Di
fronte alla militarizzazione del confine e ai respingimenti illegali attuati
dalle autorità polacche, solo i residenti locali, le reti civiche e le persone
solidali si sono attivate per fornire soccorso umanitario.
Il 22 marzo 2022, quattro volontari sono stati arrestati mentre cercavano di
aiutare una famiglia irachena e un cittadino egiziano. Uno di loro, cittadino
italiano, è stato espulso e bandito dalla Polonia per cinque anni. A dicembre
2023, anche una quinta persona è stata inclusa nel procedimento per aver offerto
ospitalità temporanea a migranti.
La prima udienza si è svolta il 28 gennaio 2025 presso il tribunale di Hajnówka.
Tutti gli imputati hanno dichiarato la propria innocenza. Il giudice ha accolto
parzialmente la richiesta della procura di svolgere il processo a porte chiuse,
limitando l’accesso di pubblico e media. Ci si attende che anche la seconda
udienza, prevista per domani, si svolga in modo simile.
Il caso dei cinque imputati non è un episodio isolato. In tutta Europa,
attivisti, volontari e persone solidali sono sempre più spesso perseguitati per
il solo fatto di salvare vite umane. In Italia, Lettonia, Belgio e altri Paesi,
la solidarietà viene trasformata in un reato. L’uso del diritto penale come
strumento politico di repressione colpisce chi agisce per il rispetto dei
diritti umani.
Aiutare non è un crimine. I pushback lo sono. Nessun essere umano è illegale.
Per questo chiediamo solidarietà e attenzione. È importante diffondere le
informazioni su questo processo, partecipare a iniziative pubbliche e, se
possibile, organizzare incontri per far conoscere questa vicenda. Chiunque
voglia approfondire o invitare gli imputati o il gruppo di supporto a
intervenire, può scrivere a h5support@riseup.net.
Questo processo riguarda tuttə. Difendere la solidarietà è un dovere collettivo.
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