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Centri per migranti in Albania: di male in peggio
Il fallimento dei centri costruiti in Albania per il trattenimento di richiedenti asilo le cui domande sono esaminate con procedura accelerata non potrebbe essere più clamoroso. Per riguadagnare credibilità il Governo corre ai ripari e vara un decreto legge con cui li trasforma in centri per il rimpatrio. Ma il rimedio è peggiore del male: la soluzione è in evidente contrasto con il diritto europeo e rischia nuove bocciature. di Gianfranco Schiavone da Volere la Luna Il Protocollo Italia-Albania ratificato con la legge 21 febbraio 2024 n. 14 prevede che nelle strutture in Albania «possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso» (art. 3 comma 2) nei cui confronti risulta possibile applicare la cosiddetta procedura accelerata di frontiera per l’esame delle domande di asilo. Per realizzare tale finalità è stata prevista, nella struttura di Gjader, una parte di notevoli dimensioni, da adibire a funzioni di hotspot (o centro di accoglienza) e una, molto più piccola, da adibire a centro per il rimpatrio (CPR) per coloro la cui domanda di asilo sia stata rigettata e in sede di ricorso, se presentato, non sia stata concessa la sospensione dell’allontanamento. Quanto accaduto negli ultimi mesi è ben noto. Non torno dunque sulle gravi problematiche di legittimità di questa procedura, ma mi limito a evidenziare che, nel recentissimo decreto legge n. 37 del 28 marzo, il Governo, pur negando, contro ogni evidenza, che il testo del Protocollo sia stato modificato in aspetti sostanziali ha cancellato l’esclusività di funzioni sopra indicata prevedendo che nel piccolo CPR interno al centro di Gjader possano essere condotte anche le persone che si trovano in Italia e che sono «destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati ai sensi dell’articolo 14 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998» (art. 1, comma 1, lettera a). Inoltre, si è previsto che il trasferimento effettuato dalle strutture di cui all’articolo 14, comma 1, del testo unico immigrazione (cioè i CPR ubicati in Italia) al CPR interno alla struttura di di Gjader «non fa venire meno il titolo del trattenimento adottato ai sensi del medesimo articolo 14, né produce effetti sulla procedura amministrativa cui lo straniero è sottoposto» (art. 1, comma 2, lettera b). In sintesi, secondo la nuova disciplina che passerà nei prossimi giorni all’esame del Parlamento, è possibile aprire un ordinario centro di detenzione amministrativa per eseguire coattivamente le espulsioni anche fuori dal territorio nazionale e chi vi verrà trasportato non si troverà neppure all’estero in quanto rimarrà sotto la giurisdizione italiana. L’eventuale rimpatrio verso il Paese di origine sarà infatti eventualmente attuato solo facendo rientrare la persona espulsa in Italia al termine del trattenimento in Albania . La nuova trovata del Governo italiano per salvare i centri in Albania finora falliti pone una questione giuridica e politica di enorme rilievo che può essere sintetizzata nella seguente domanda: può uno Stato membro dell’Unione Europea collocare uno straniero, di cui è stata già decisa l’espulsione coattiva da attuarsi attraverso il trattenimento amministrativo, in una struttura ubicata fuori dal proprio territorio, in un paese terzo, assicurando comunque il rispetto delle procedure e degli standard previsti dal diritto europeo sugli allontanamenti forzati? È possibile aprire una tale tipologia di centri oggi in Albania e domani magari altrove anche dall’altra parte del mondo? Come la protezione internazionale, anche la materia dei rimpatri dei cittadini stranieri che non sono in regola con le norme sul soggiorno in uno Stato membro dell’Unione è regolata, seppure in modo più scarno rispetto al diritto di asilo, dal diritto dell’Unione Europea sulla base della Direttiva 115/08/CE (oggetto, tra l’altro, di una proposta di riforma presentata pochi giorni fa dalla Commissione). In tale direttiva la nozione di “allontanamento” viene definita come «l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro» (art. 3, par. 5) e per “rimpatrio” si intende «il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente» (par. 3). Il rimpatrio normalmente si conclude nel paese di origine ma – va detto per inciso – può concludersi anche in un paese terzo che svolge la funzione di «paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese» (par. 3, seconda parte). In tal caso il paese terzo si assume interamente la responsabilità della condizione giuridica della persona espulsa e il processo di rimpatrio realizzato dallo Stato membro dell’Unione si conclude con l’allontanamento della persona in tale Paese. Non è questo, ovviamente, il caso dell’accordo tra Italia e Albania, la quale ultima non si assume in alcun modo la gestione degli espulsi né dei richiedenti asilo. Il diritto dell’Unione non autorizza in alcun modo la collocazione e la gestione da parte di un Paese UE di una propria struttura di trattenimento al di fuori del territorio dell’Unione: ciò in base sia alla interpretazione letterale che a un’interpretazione sistematica e teleologica della norma. Lontano dalle esasperazioni politiche che agitano il nostro oscuro presente, il diritto UE non ha mai contemplato la possibilità che centri di trattenimento europei possano venire aperti a piacimento in giro per il mondo e tuttora prevede che il trattenimento per eseguire l’espulsione dal territorio di uno Stato membro può essere applicato solo come ultima ratio, se non «possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive» e «soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento» (art. 15, par. 1), inteso, come sopra indicato, come trasporto fisico fuori dal territorio UE. Il trattenimento deve essere il più breve possibile, deve essere periodicamente riesaminato per valutare in concreto se ci sono le ragioni per proseguirlo e «se non c’è alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi […], il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata» (art. 15, par. 4). Gli stranieri trattenuti devono avere la possibilità «di entrare in contatto, a tempo debito, con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti» (art. 16, par. 2) nonché con organizzazioni non governative di tutela, le quali «hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea» (art. 16, par. 4). L’accesso a tali diritti deve essere effettivo: non può stare solo scritto sulla carta e non essere concretamente esercitabile, come avverrebbe in caso di strutture ubicate al di fuori del territorio dello Stato membro dell’UE. Se il centro di detenzione si trova in Albania o in Zimbabwe o in Kazakistan o chissà dove, infatti, il familiare non può in concreto incontrare chi è trattenuto. La esternalizzazione al di fuori dei confini dei centri di detenzione amministrativa renderebbe difficile anche lo svolgimento ordinario delle visite ispettive svolte da parlamentari e le stesse funzioni di monitoraggio e controllo svolte dal Garante nazionale per le persone private della libertà personale non potrebbero essere svolte in modo efficace. La conclusione è evidente: in centri di detenzione ubicati al di fuori degli Stati dell’Unione non è possibile attuare il trattenimento «nel pieno rispetto dei diritti fondamentali» (considerando n. 17) e si può ben dire che le persone in essi rinchiuse sarebbero di fatto ostaggi di un potere arbitrario. A quanto sopra il Governo italiano risponde sostenendo che i CPR in Italia sono pienamente equivalenti con il CPR in Albania in quanto entrambi sottoposti alla giurisdizione italiana e che il trasporto all’estero delle persone espulse sarebbe una semplice “finzione” e conclude affermando il pieno rispetto, nei trasferimenti coattivi indicati, sia delle garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione sia delle previsioni del diritto europeo. È peraltro evidente, alla luce di quanto si è detto, che tali fumose tesi sono semplicemente una sorta di gioco di parole o di truffa delle etichette per coprire l’ennesimo radicale strappo che si sta consumando nel nostro ordinamento giuridico. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
migranti
Pestaggio brutale al Cpr di Trapani
Cpr Milo di Trapani: Rappresaglia con i manganelli per aver sorpreso un migrante che con uno smartphone tentava di denunciare un tentativo di suicidio per impiccagione. “Aiuto! Aiuto! No, no!”. Sono grida disperate. I trattenuti più giovani volevano parlare con i genitori, ma i telefoni sono sistematicamente sequestrati o danneggiati di Angela Nocioni da l’Unità Ascoltatele, se potete, a questo link: https://video.unita.it/pestaggio-al-cpr-di-trapani/ Vengono dal centro per il rimpatrio di Milo, a Trapani. Sono state registrate durante un pestaggio lunedì 24 marzo dentro il Cpr. Agenti in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione e hanno manganellato furiosamente tutti i presenti. Sangue e ferite. Si è salvato solo chi è riuscito a nascondersi sotto il letto. Nei Cpr sono rinchiuse persone in detenzione amministrativa, ossia persone che non sono nemmeno accusate di aver compiuto reati. A parte le espulsioni giudiziarie che sono una esigua minoranza, si tratta di persone ritenute – non da giudici ma da funzionari delle prefetture – migranti da rimpatriare, privati della libertà e rinchiusi in celle in violazione della Costituzione italiana. La rete Mai più lager – No ai Cpr denuncia: “Ci è arrivato questo video registrato da una videocamera rotta insieme a messaggi da una persona in lacrime che chiedeva aiuto per le persone detenute lì dentro che ci ha detto: ‘Siamo tutti pieni di sangue, ci hanno menato tutti quanti! Aiutateci!’. Una persona è stata sorpresa con uno smartphone mentre filmava l’ennesima “corda” di questi giorni, ossia un tentativo di impiccarsi. Di qui la rappresaglia. In quel Cpr non sono ammessi neppure i cellulari non smartphone: ci sono solo poche e costosissime cabine telefoniche. Questo isolamento fa del Cpr di Milo uno di quelli dove si viene trasferiti per punizione: da lì non può venire fuori nulla”. È stato portato in ospedale qualcuno dei detenuti picchiati? Non ce li portano mai, per evitare che riferiscano. Denuncia Teresa Florio, una delle attiviste di Mai più lager: “Insieme a quelli di Macomer, Caltanissetta e Brindisi, dei 10 Cpr esistenti in Italua, quello di Trapani è uno di quelli dai quali trapelano meno notizie. Ma le poche volte che si è aperto uno spiraglio, abbiamo intravisto l’inferno. Non da meno è il Cpr di Bari, dal quale, pure con i telefoni solo-voce, arrivano quasi quotidiane notizie di pestaggi da parte delle forze dell’ordine, a danno di persone che semplicemente rivendicano il proprio diritto di cura e di difesa, e conferme della presenza di gente malata (persone affette da epilessia, tbc latenti, e fratture, anche craniche). Il fatto che al Cpr di Milano ci siano detenute persone con gravi problemi psichiatrici è stato denunciato più volte. L’ultima volta che siamo riusciti ad entrare, il 3 marzo scorso, abbiamo trovato un signore con più di cinquant’anni, del Senegal, che non voleva parlare con nessuno, non voleva che lo guardassimo in faccia, mentre gli parlavamo stava sempre con le coperte tirate fin sopra la testa. E un ragazzo del Salvador, magro e barbuto (c’è solo un rasoio e un solo tagliaunghie per tutto il settore) che si è presentato come un dj in tournée e ci ha accusato di avergli rubato i suoi risparmi. Lui, di solito, nel mezzo della notte, si spogliava completamente e inscenava una sorta di passerella. Sia lui sia il signore senegalese sono incontinenti fecali. Ma di tutto questo, il personale del gestore del Cpr presente nel corso dell’accesso si è detto non essere mai stato prima a conoscenza. L’attuale gestore, la Cooperativa Ekene, è lo stesso che gestisce il Cpr di Gradisca dal 2019”. Dal 2019 al Cpr di Gradisca ci sono stati 4 morti. La Cooperativa Ekene gestisce ora anche il Cpr di Ponte Galeria a Roma. Di malati e pestaggi, da parte non solo delle forze dell’ordine ma anche del personale dipendente dal gestore, parla il report “A porte chiuse” scritto dalla rete Mai più lager No ai Cpr insieme agli attivisti del Naga depositato in allegato ad un esposto alla Procura di Oristano il 20 febbraio scorso. Racconta Teresa Florio che nel documento a disposizione della Procura c’è anche segnalata “la presenza di una persona con gravi problemi psichiatrici, che al colloquio con noi si è presentata come statunitense, con il nome di Richard Nixon, e con la famiglia in uno yacht in rada che l’attendeva. Un altro ragazzo di 20 anni è stato trovato con il colpo completamente devastato da centinaia da tagli profondi per autolesionismo. Mangiava e beveva le sue feci e la sua urina. Nel report sul Cpr Macomer, abbiamo riportato le parole di un ex detenuto che raccontava come ‘più di 17 carabinieri sono entrati nel blocco C, camera 20 alle 3:30 del mattino. Un tunisino ha rifiutato di tornare in patria ed è stato massacrato da tre o quattro agenti, quando si stancava un carabiniere di colpire è il turno dell’altro e così per quasi quattro ore di tortura e abuso di potere davanti all’ispettore di polizia e il responsabile della polizia di turno. C’erano le telecamere. Sopra al letto a castello lo stavano picchiando. Fuori dalla porta hanno circondato la stanza. Ci sono delle telecamere fuori alle finestre, rivolte verso l’abitazione, secondo me hanno ripreso tutto’. Di solito – continua Teresa Florio – i pestaggi si svolgono, a suon di manganelli o calci e pugni, spessissimo a danno di persone ammanettate, ad opera di agenti in tenuta anche antisommossa, nelle celle o nei bagni, o nei luoghi dell’infermeria (l’obbligo di referto dei dottori è quotidianamente violato), cioè gli unici luoghi senza telecamere e senza testimoni. Per lo stesso regolamento ministeriale del 2022 (l’unica disciplina dei Cpr, a parte l’articolo 14 del testo unico immigrazione) le persone con fragilità non dovrebbero essere rinchiuse lì dentro. La domanda che puntualmente ci fanno i detenuti che, per intenderci, stanno meno male degli altri è ‘perché sono qui?’ gli risulta incredibile poter essere privati della libertà personale senza aver commesso alcun reato, ma solo perché provengono da un paese straniero. Peraltro in Italia l’ordinamento non concede nei fatti possibilità di regolarizzazione sul territorio. E la prospettiva di non sapere se e quando si verrà rilasciati o deportati, è logorante. Di qui la nostra campagna per invitare i medici delle strutture sanitarie pubbliche, incaricate delle visite di idoneità per l’ingresso nei Cpr a considerare in scienza e coscienza che in definitiva, sulla scorta delle evidenze scientifiche e documentali, alla luce dei principi di deontologia medica, nessuno dovrebbe essere considerato idoneo alla vita in detenzione amministrativa”. Questo succede in Italia, nei buchi neri dei 10 Cpr che non sono distanti da noi, sono nelle nostre città. Immaginate cosa può accadere se davvero, come ha annunciato il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, andasse in porto il piano del governo Meloni di trasformare in Cpr le celle costruite dall’Italia a Shenjin e Gadjer in Albania. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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migranti
Mediterranea: “Mantovano ha ammesso che siamo stati spiati dai servizi segreti con il software paragon”
“Abbiamo appreso da fonti giornalistiche che, finalmente, il sottosegretario Alfredo Mantovano, delegato dal governo, ha ammesso che Mediterranea e i suoi attivisti sono stati spiati dai servizi segreti con il software militare Paragon Graphite, perché considerati pericolo per la sicurezza nazionale”. Lo afferma un comunicato di Mediterranea Saving Humans. “L’attività di spionaggio – prosegue la nota – è stata richiesta dal governo Meloni e autorizzata dal procuratore generale presso la corte d’appello di Roma. Questa legale ma illegittima attività, che colpisce attivisti e oppositori politici del governo, nei loro piani non doveva venire alla luce. E invece il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: è stata smascherata a livello mondiale una operazione segreta, degna di un regime”. Il riferimento è al caso di spionaggio su attivisti e giornalisti italiani, avvisati dalle app di messaggistica della violazione dei propri dispositivi telefonici da parte dello spyware Graphite, prodotto dall’azienda israeliana Paragon. “Per questo governo – commentano attiviste e attivisti di Msh – un criminale del calibro del capo milizia libico Najeem Osema Almasri Habish, fatto fuggire dall’arresto e riportato a casa con un volo di Stato, è una risorsa nazionale. Dunque, chi si adopera per salvare vite, per questo governo è un pericolo per la sicurezza nazionale; chi invece uccide persone innocenti e accumula milioni di euro attraverso affari criminali, è sotto protezione”. “Mantovano – aggiungono da Mediterranea – Tenta di coprirsi attraverso l’alibi della legge, ma per autorizzare un’attività del genere senza violare la Costituzione devono esserci fondati motivi. Cinque procure stanno indagando, e noi confidiamo sul fatto che qualcuno abbia il coraggio di andare fino in fondo e dimostrare, come risulta palese, che questo è un abuso di potere, non altro”. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuto Luca Casarini, fondatore di Mediterranea Saving Humans e tra gli attivisti spiati tramite Graphite. Ascolta o scarica.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
migranti
Razzismo sistemico e razzializzazione della criminalità
La propaganda mediatica portata avanti dalle istituzioni che mostrano un’immagine semplificata delle persone straniere: un unico indistinto fatto di persone ai margini, criminali, di cui sospettare, avere paura e da tenere lontane. di Cronache di ordinario razzismo Una settimana fa è diventato virale un video in cui un ragazzo con background migratorio viene aggredito, accusato di aver rubato una collana. Gli aggressori appartengono al cosiddetto Movimento articolo 52, un gruppo organizzato fatto di giovani – spesso minorenni – che nella città di Milano e anche in altre parti d’Italia, in nome del “contrasto al degrado” e alla microcriminalità, compie delle vere e proprio ronde definite principalmente dalla stampa come “anti-maranza”. Il termine “maranza” viene usato per definire in maniera dispregiativa i giovani originari del maghreb, come sinonimo di un certo tipo di criminale. Non è la prima volta che gruppi si organizzano per “proteggere” i quartieri, denunciando l’inefficienza dello Stato. A Roma lo youtuber  Er Cicalone filma e diffonde video in cui – insieme ad altre persone – ferma, anche con violenza, borseggiatrici Rom alimentando il dibattito sulla “percezione” di insicurezza che secondo alcuni sarebbe diffusa tra i cittadini. Cosa ci racconta tutto ciò? Viviana Gravano in Dis-cordare, ricerche artistiche sull’eredità del fascismo in Italia (2024), a partire da Walter Benjamin, nota come la memoria collettiva si accende e dà significato alla sua storia nel momento in cui sorge un’urgenza. Nella settimana in cui i riflettori si accendono sul razzismo, in occasione della giornata contro la discriminazione “razziale” del 21 Marzo, non sembra che il momento attuale, fatto di violenza contro persone di origine straniera, proponga una riflessione collettiva seria e organica sugli effetti del razzismo sistemico. Questi stessi episodi di violenza organizzata, sbattuta sui social nella speranza che ci sia un effetto emulazione, vengono raccontati come anomalie, come casi isolati, nonostante siano un prodotto di diversi fattori, tra cui il razzismo nella sua dimensione strutturale. Il razzismo sistemico Come abbiamo ricordato più volte, il razzismo è costituito da «ogni teoria, ideologia, idea, atteggiamento, dichiarazione, atto e comportamento che hanno la finalità di legittimare, incitare, istigare o compiere discriminazioni, abusi, molestie, minacce, violenze verbali o fisiche nei confronti di individui o di gruppi assumendo a pretesto la loro origine nazionale o etnica, le convinzioni e pratiche religiose oppure i tratti somatici, la differenza “culturale” reale o presunta». Da questa definizione e a partire dalla postura che il concetto di razzismo ci fa assumere, non possiamo che guardare quegli episodi sopracitati non come un’anomalia, ma come un qualcosa di drammaticamente ordinario e frutto di dinamiche sociali, strutturate e sistemiche. Lo stesso razzismo è strutturale e sistemico in quanto si dipana in vari contesti sociali a partire dalle nostre interazioni, il nostro linguaggio, i modi di dire, le rappresentazioni, le narrazioni fatte da media tradizionali e infine nei vari livelli delle istituzioni, intrecciandosi ad altre forme di disparità sistemiche come il sessismo, il classismo, l’omolesbobitransfobia e l’abilismo. La presenza del razzismo sistemico, radicato ovunque non può non interrogarci sul radicamento culturale che il discorso e l’immaginario razzista hanno prodotto. Come anche denunciato nell’ultimo rapporto Ecri di cui abbiamo parlato lo scorso autunno, il carattere sistemico del razzismo si evince in particolar modo nella propaganda mediatica portata avanti dalle istituzioni che mostrano un’immagine semplificata delle persone straniere: un unico indistinto fatto di persone ai margini, criminali, di cui sospettare, avere paura e da tenere lontane. Una retorica martellante che ha irrimediabilmente influenzato il senso comune di moltissime persone. Ciò crea progressivamente una serie di fratture all’interno del tessuto sociale, con il risultato di isolare e marginalizzare sempre di più le persone di origine straniera o razzializzate dai contesti di riferimento, acuendo il senso di sospetto e di insicurezza da parte delle persone “italiane autoctone”.  Sono semplici parole che dette da chi ha potere – di informazione o di dettare l’agenda del dibattito politico – possono cambiare la percezione dello stato delle cose, indipendentemente da come esse siano nella realtà. E’ così che il “pericolo” viene incarnato da persone in realtà fragilizzate, creando un silente e incosciente consenso attorno ad una serie di dispositivi normativi che non fanno che perpetuare ulteriori forme di razzismo, in questo caso istituzionale. Razzializzazione della criminalità Ma cosa si nasconde in questa risposta violenta di una parte della società? Forse uno degli effetti più immediati del razzismo sistemico, e da cui sale quell’urgenza nell’attuale di riflettere e agire sul presente, è la razzializzazione della criminalità, in particolare la cosiddetta microcriminalità. Per razzializzazione della criminalità si intende quel fenomeno che tende a veicolare l’idea secondo cui a compiere principalmente determinati reati – da quelli minori come scippi e spacci fino a quelli più gravi come aggressioni e stupri – sono soprattutto le persone migranti. Più volte abbiamo problematizzato il binomio radicato migrante=criminale, ma la nuova fase sociale e politica in cui il discorso egemone si fa sempre più esplicitamente razzista ci richiede un’ulteriore analisi e una risposta urgente al sorgere della violenza. Quando un ministro dichiara che bisognerebbe togliere la cittadinanza a chi compie reati,  un giornalista afferma che aggredirebbe i musulmani poiché propensi alla violenza, o una presidente del consiglio – all’epoca dei fatti in campagna elettorale – rende pubblico un video di uno stupro, non si sta dando semplicemente un’opinione o facendo informazione. Si sta ipostatizzando un’immagine e quell’immagine razzializza un fenomeno giocando – ancora una volta – sulle cosiddette percezioni di sicurezza e sul senso di paura. In una ricerca di Ipsos del 2018 nell’ambito del progetto More in Common (qui il report) che analizza l’atteggiamento degli italiani nei confronti delle migrazioni, emerge come i segmenti delle persone più preoccupate per la sicurezza siano quelli che in realtà hanno meno a che fare con le persone migranti nella propria quotidianità. Quell’assenza di relazione permette di far sedimentare l’idea che le persone di origine straniera siano criminali e – come non di rado succede – può far esplodere le tensioni che si creano in forme di violenza più o meno organizzata da parte della cittadinanza. Purtroppo, spesso questa escalation di violenza si presenta in concomitanza con una stretta istituzionale sulla sicurezza, come stiamo vedendo con il cosiddetto DDL Sicurezza e l’istituzione delle Zone Rosse. Anche in questo caso, questi dispositivi normativi che vanno a ledere i diritti di tutte le persone, trovano facile consenso poiché sono presentati come strumenti di contrasto contro chi genererebbe insicurezza e criminalità: le persone di origine straniera. Il razzismo sistemico alimenta sé stesso riempiendo le fratture del tessuto sociale e degli immaginari collettivi. Il 21 Marzo del 2025 arriva su uno sfondo inquietante, mentre si moltiplicano gruppi su Telegram che hanno lo scopo di colpire una determinata categoria di persone: questo attuale, questo presente chiama l’urgenza di praticare un antirazzismo sistemico, non attraverso la semplice retorica della singola giornata, ma a partire dalla quotidianità riempiendo con le relazioni, l’informazione e il pensiero critico quegli spazi oggi sin troppo colmi di paura, insicurezza indotta e violenza. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
migranti
razzismo
La storia di Hassan, morto di cancro e processato senza avvocato nè interprete
Da cinque anni nessuno parlava con lui. Era malatissimo. Lo accusavano di essere uno scafista, difesa zero. Le ultime ore libero, accolto da Mimmo Lucano di Angela Nocioni da l’Unità Ha giallo anche il bianco degli occhi. Indica il fianco, la schiena, dice in arabo che lì ha dolore, ma nessuno lo ascolta. Da cinque anni nessuno comunica con lui nella sua lingua. Nessuno al carcere di Arghillà, al nord di Reggio Calabria, parla arabo. C’è bisogno di parlare arabo per capire che una persona che si piega in due dalle fitte al fegato va portata in ospedale? Fine pena: metà marzo. Quando, a gennaio, il medico del carcere gli fa fare una ecografia, la diagnosi confermata dalla tac è ‘tumore al pancreas al quarto stadio con metastasi’. Il tribunale di sorveglianza decide che quello stato è non compatibile con la detenzione. Il caso non gli era mai stato segnalato prima. Non c’è un avvocato? No, al processo c’era un difensore d’ufficio ma il detenuto non sa neanche il suo nome, “ricordo solo che aveva i capelli lunghi” dice. Il 24 febbraio viene scarcerato. Ricoverato a Reggio, viene trasferito a Locri. Non sanno dove mandarlo a morire. Ormai non c’è più nulla da fare e per le cure palliative non c’è posto neanche all’hospice. Lui non può camminare, parla a fatica, come si tira su dal letto si piega in due per le fitte. La primaria di oncologia chiama il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. L’avvocato di Lucano si occupa di tutte le carte necessarie al trasferimento e il 2 marzo un’ambulanza porta il detenuto nel Villaggio globale di Riace che, smantellato da Salvini, è tornato in funzione con volontari. A Riace, di fronte a un interprete, il detenuto scarcerato per morire dice: “Finalmente posso parlare la mia lingua”. La sua storia l’ha trovata e raccontata Simona Musco, per il Dubbio. Lui è arrivato in Calabria con uno sbarco a Roccella Jonica il 19 ottobre del 2021. Condannato in primo grado per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dal Tribunale di Locri, la fabbrica degli scafisti: ne sfornano a volontà. Al carcere di Locri c’è un piano terra traboccante di mani nere che sporgono dalle sbarre: tutti immigrati, tutti giovanissimi, tutti dentro ex articolo 12 del testo unico immigrazione. Condanna confermata in appello il 17 gennaio del 2023 e in via definitiva il 2 giugno del 2023. Bisogna andarli a vedere questi processi, raccontarli. Ascoltare i testimoni, la pubblica accusa, gli interpreti della polizia, cercare gli accusatori e vedere se qualcuno s’è preoccupato d’averli disponibili per l’esame probatorio. A Riace gli chiedono di contattare la famiglia, di chiamare i suoi cinque figli. Non vuole. “Non voglio che mi vedano così, avevo promesso a tutti che dall’Italia li avrei aiutati”. Lui si chiamava Habashy Rashed Hassan Arafa, veniva dall’Egitto. E’ morto ieri, primo giorno di primavera. Dell’Italia ha visto solo il carcere. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
migranti
Marjan Jamali, un’altra vittima del decreto Cutro attende il Riesame
Marjan Jamali il 24 marzo comparirà davanti al tribunale di Locri per un’udienza decisiva del processo in cui è accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti da il manifesto «Come avete visto dai documenti a vostra disposizione, da oltre un anno sono detenuta, prima in carcere ed ora agli arresti domiciliari, anche se non ho fatto nulla. Io sono sicura di non aver commesso alcun reato. Perché devo soffrire se non ho fatto niente?». Tre giorni cruciali per la libertà di una donna iraniana innocente. Il destino di Marjan Jamali si deciderà tra lunedì e giovedì prossimi. Da quasi un anno agli arresti domiciliari a Camini, in provincia di Reggio Calabria, in una casa del progetto Sai gestita dalla cooperativa sociale Eurocoop, il 24 marzo Marjan comparirà davanti al tribunale di Locri per un’udienza decisiva del processo in cui è accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tre giorni dopo, la richiesta di scarcerazione sarà discussa dal tribunale del Riesame di Reggio Calabria. In fuga dalla persecuzione del regime iraniano e dalle violenze del compagno, come migliaia di altre donne ha cercato rifugio in Europa, attraversando il Mediterraneo a bordo di una delle innumerevoli scialuppe cariche di speranze, in compagnia del figlioletto di otto anni nell’ottobre del 2023. Marjan ha denunciato di aver subito un tentativo di stupro, durante la traversata, da parte di tre cittadini iracheni. Sono le stesse persone che, dopo lo sbarco in Calabria, hanno iniziato ad additarla come “scafista” davanti alle autorità italiane. È bastato questo a farle stringere i polsi con le manette ed ad allontanarla dal suo bambino, per diversi mesi affidato ai Servizi sociali, poi riassegnatole dopo la concessione degli arresti domiciliari. «Continuano ad emergere elementi – dichiara l’avvocato Giancarlo Liberati, legale di Marjan – che attestano quanto questo genere di processi rischino di fermarsi al livello sommario come quello delle indagini condotte subito dopo lo sbarco. Portare alla luce la verità sembra essere prerogativa delle sole investigazioni difensive. A ciò si aggiunga che Jamali è stata anche indagata per aver fornito false generalità. Lei, invece, non ha mai fatto mistero del fatto che i suoi documenti fossero accessibili dal suo telefono». Il caso di Marjan è comune a centinaia di altre persone detenute nelle carceri italiane, perché accusate di aver cagionato «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina». Il reato è previsto dal famigerato “decreto Cutro” approvato dopo la strage del 26 febbraio 2023, quando un naufragio provocò la morte di 94 persone migranti annegate nel mare Jonio calabrese. Piuttosto che indagare sulle responsabilità nella catena dei soccorsi, la presidente del Consiglio Meloni lanciò il surreale anatema contro i «trafficanti da braccare sul globo terracqueo». Anche in ragione delle manifestazioni e degli esposti presentati in Procura dalle associazioni antirazziste per i diritti dei rifugiati, le stesse che accolsero i naufraghi superstiti della strage e i loro familiari nei giorni successivi alla strage, lo scorso 6 marzo si è aperto a Crotone il processo a tre agenti della Guardia di Finanza e tre della Guardia Costiera accusati di naufragio e omicidio colposo. Domenica sarà una giornata di mobilitazione in Calabria sui diritti umani, l’accoglienza e l’autogoverno dei territori. Oltre al consueto presidio davanti al tribunale di Locri, organizzato dal Comitato Free Marjian, alle 9, su iniziativa della professoressa Mariafrancesca D’Agostino, il dipartimento Scienze politiche e sociali dell’università della Calabria ospiterà una lectio magistralis di Maysoon Majidi, giornalista e attivista curdo-iraniana di recente scarcerata dopo essere stata a lungo detenuta per le stesse ipotesi di reato ascritte a Marjan; la scrittrice GulalaS alih, presidente dell’Unione donne italiane e curde; Alessandro Metz, armatore di nave Mare Jonio. Alle 17 tutti si ritroveranno a Cosenza, dove l’organizzazione politica e sociale La Base organizza un dibattito dal titolo “Periferie senza padroni. Autonomia e umanità”, al quale parteciperanno anche i vescovi di Cassano allo Jonio e Cosenza, Francesco Savino e Giovanni Checchinato. > Marjan Jamali, in fuga dall’Iran trova l’inferno in Italia > Il dramma di Marjan > Due storie, un solo destino. Marjan come Maysoon > Marjan è innocente: liberatela!     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Il torturatore libico Al-Kikli in Italia
Dopo Almasri, per un altro torturatore libico porte aperte in Italia ai peggiori criminali libici.  Nel Belpaese fa nuovamente la sua comparsa Abdel Ghani al-Kikli capo del Ssa, accusato di torture, violenze e stupri e denunciato per crimini contro l’umanità alla Cpi Porte aperte in Italia ai peggiori criminali libici, almeno finché non è il momento di arrestarli e consegnarli alla giustizia internazionale. Dopo la vicenda del generale Almasri, il comandante libico che la Corte penale internazionale voleva in cella e che il governo italiano ha invece liberato e riconsegnato a Tripoli con un volo di Stato dei servizi segreti, nel Belpaese fa nuovamente la sua comparsa Abdel Ghani al-Kikli. Meglio conosciuto come Gheniwa, dal 2021 è il capo dello Stability Support Apparatus, milizia attiva a terra e a mare. A segnalare il caso è Repubblica, ma la presenza in Italia di Gheniwa è confermata anche dalla Ong Refugees in Libya e dal dissidente libico Husam El Gomati, tra gli spiati nel “caso Paragon”. Al-Kikli è da tempo nel mirino di organizzazioni internazionali come l’Onu e Amnesty International, che lo accusano di aver commesso torture, stupri ed esecuzioni extragiudiziali nei centri di detenzione libici: il Centro Europeo per i Diritti Umani e Costituzionali ha presentato alla Corte penale internazionale un dossier di centinaia di pagine con oltre 500 episodi di violenza attribuiti al comandante. Forte di questo “curriculum”, al-Kikli sarebbe sbarcato all’aeroporto romano di Fiumicino il 20 marzo con un volo privato, assieme ad una delegazione di alto livello, per fare visita al ministro libico degli Affari Interni, Adel Jumaa Amer, ricoverato all’European Hospital dell’Eur. Gheniwa è un “habitué” del nostro Paese, nonostante le accuse che pendono sulla sua testa. Lo scorso luglio il comandante libico aveva assistito alle finali del Campionato nazionale libico, ospitate nel nostro Paese su iniziativa del governo Meloni, dopo gli accordi siglati a Tripoli con il premier libico Dabaiba. (Fonte l’Unità) > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Ennesima strage di migranti al largo di Lampedusa
Ancora una strage di migranti al largo di Lampedusa. Sarebbero almeno 40 i dispersi, sei invece i morti già accertati, nel naufragio avvenuto a più riprese di un gommone partito domenica da Sfax, in Tunisia. Nella notte tra martedì 18 e mercoledì 19 marzo la Guardia costiera italiana e la Guardia di finanza hanno fatto sbarcare a Lampedusa 10 persone avvistate al largo dell’isolotto di Lampione: erano a bordo di un gommone semiaffondato che, secondo le testimonianze dei superstiti, era partito dal Paese nel nord Africa con a bordo 56 persone. Le motovedette hanno recuperato fino a questa mattina i cadaveri di sei persone, ne risulterebbero dunque disperse almeno quaranta. Stando a quanto raccontato da alcuni dei dieci superstiti, il naufragio sarebbe avvenuto a più riprese. I primi problemi si sono verificati dopo meno di 24 ore di navigazione, quando forse a causa del mare agitato diverse persone a bordo del gommone sono cadute in acqua mentre si trovavano in acque internazionali. L’imbarcazione di fortuna ha comunque proseguito la sua navigazione e nel pomeriggio di martedì, quando era ormai quasi affondato, è stato intercettato vicino all’isolotto di Lampione dai mezzi della Guardia costiera italiana e della Guardia di finanza, che hanno tratto in salvo sei uomini e 4 donne. Subito dopo lo sbarco due persone sono state portate all’ambulatorio medico, ma dopo una serie di controlli sono state spostate all’hotspot dell’isola, il centro di prima accoglienza per persone migranti. Questa mattina sono riprese le operazioni di ricerca. Dopo i 10 naufraghi, sull’isola sono giunti altri 40 migranti (9 donne e 2 minori) ivoriani, senegalesi, guineani e malesi: anche loro hanno riferito d’essere partiti da Sfax e hanno viaggiato su barchino di metallo di 8 metri. Questa mattina invece la nave della Ong Aurora Sar ha soccorso al largo dell’isola un barchino con a bordo 26 persone, compresi 4 minorenni. Sono bengalesi, sudanesi, siriani, nigeriani ed egiziani. Il gruppo, che ha riferito d’essere partito lunedì sera da Sabratha in Libia, è stato sbarcato a molo Favarolo: al momento le presenze all’hotspot di Lampedusa sono salite a 256. (fonte l’Unità) > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Così l’Europa legalizza la vendita di esseri umani: la direttiva rimpatri
Secondo la proposta di riforma (peggiorativa) dell’Unione Europea, potranno essere espulsi anche i minori non accompagnati. Non si prevedono i centri nei paesi terzi (come nel patto Italia-Albania), ma si apre la strada a uno scenario anche peggiore… di Gianfranco Schiavone da l’Unità “Un nuovo minimo per l’Europa”, così Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio delle istituzioni europee di Amnesty International, si è espressa commentando a caldo la proposta di revisione della Direttiva rimpatri presentata l’11 marzo 2025 dalla Commissione Europea. Un giudizio tagliente ma per nulla eccessivo e che mi sento di condividere. La lettura della proposta del “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un sistema comune per il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nell’Unione è irregolare, e abroga la direttiva 2008/115/CE” (Strasburgo, 11.3.2025 COM(2025) 101) stordisce infatti per l’estremismo di molte delle proposte che vi sono contenute. Mettendo a confronto il testo della vigente Direttiva 2008/115/CE (che, giova ricordarlo con amara ironia, venne definita a suo tempo, la “direttiva della vergogna”) con la proposta di nuovo Regolamento presentato dalla Commissione, si può subito notare come si preveda una generale compressione delle garanzie poste a salvaguardia dei diritti delle persone espulse, ed in particolare di quelle che sono trattenute al fine di eseguire l’espulsione. Nella proposta la decisione di rimpatrio “deve essere emessa per iscritto e deve essere motivata in fatto e in diritto, nonché fornire informazioni sui rimedi giuridici disponibili e sui termini per esperirli” (art. 7 par.2) ma la traduzione del provvedimento può avvenire anche oralmente (par 5). Quando non è possibile determinare un paese di rimpatrio sulla base delle informazioni a disposizione al momento dell’emissione della decisione di rimpatrio si propone che la decisione stessa possa “indicare provvisoriamente uno o più paesi di rimpatrio” (par.4) come se si trattasse di una sorta di gioco con più opzioni. Mentre nella vigente Direttiva il rientro volontario costituisce (purtroppo spesso solo sulla carta e non nella realtà) la misura prioritaria da adottarsi nella generalità dei casi con le sole esclusioni della sussistenza di un rischio di fuga o nel caso lo straniero costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, nella nuova proposta della Commissione, anche se viene meticolosamente dettagliata (art.21) la condotta a cui deve attenersi chi beneficia del rientro volontario, l’istituto giuridico viene ridimensionato nella sua portata volendo limitare l’applicazione a casi “debitamente giustificati e quando il cittadino di un paese terzo sta chiaramente cooperando” (art. 12 par.6) mentre scompare il riferimento all’obbligo attuale di adottare una misura coercitiva di allontanamento solamente “in ultima istanza” (art. 8 par. 4 della Direttiva) a favore di un più blando obbligo di prevedere che “le misure coercitive adottate per garantire l’allontanamento devono essere necessarie e proporzionate” (art. 12 par.4). Si propone che la durata del divieto di reingresso passi da cinque a dieci anni (art. 10 par.6) estendibili di ulteriori cinque sulla base di “una valutazione individuale che tiene conto di tutte le circostanze pertinenti” lo si ritenga necessario, in sostanza più o meno quando si vuole. Dilatando in modo abnorme il divieto di reingresso dello straniero si vorrebbe incentivare i rimpatri; un ragionamento privo di logica perché semmai la misura da adottare sarebbe quella opposta: può essere spinto a collaborare al proprio allontanamento solo chi può ragionevolmente coltivare l’aspettativa di poter tornare accedendo ancora a percorsi legali, in circostanze diverse e in tempi ragionevoli. La proposta della Commissione rende possibile effettuare anche l’espulsione del minore straniero non accompagnato (ora sempre proibita dalla normativa interna italiana), seppure con alcune garanzie procedurali e previo accertamento che il minore “sarà restituito a un membro della sua famiglia, a un tutore designato o a strutture di accoglienza adeguate nel paese di ritorno” (art. 20 par. 3). E’ facile immaginare cosa accadrà: nel caso la legislazione interna dello Stato UE non tuteli dall’allontanamento i minori non accompagnati (l’Italia manterrà il divieto di espulsione attuale?) essi si sottrarranno ai controlli e fuggiranno dalle comunità di accoglienza popolando le strade delle città europee. Anche se la detenzione amministrativa può essere applicata “solo per preparare il rimpatrio o eseguire l’allontanamento” (art. 29 par.1) e deve avvenire “sulla base di una valutazione individuale di ciascun caso e solo nella misura in cui il trattenimento è proporzionato” (par.2) le fattispecie che possono legittimare il trattenimento sono così estese da poter coprire quasi tutte le situazioni, e comunque la possibilità di applicare il trattenimento “per determinare o verificare la (…) identità o nazionalità” dello straniero rende questa misura (pur facoltativa) la scelta che si applicherà alla maggior parte delle situazioni. Il periodo massimo della detenzione, attualmente fissato a 18 mesi, viene ulteriormente esteso prevedendo che possa durare fino a massimo di dodici mesi, prorogabile però di altri dodici mesi (art. 33) e ulteriormente estendibile in casi di stranieri autori di alcuni reati. L’attuale Direttiva europea prevede che “quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le condizioni di cui al paragrafo 1, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata” (Direttiva art. 15 par.4). Questo fondamentale criterio è cassato nella nuova proposta di Regolamento; si continua a prevedere che la detenzione venga periodicamente rivista ad intervalli regolari (art. 33) ma venendo meno il criterio sopraccitato la revisione stessa diviene sterile misura burocratica. Si finisce in tal modo per alterare la natura stessa della detenzione amministrativa sempre richiamata giurisprudenza dalla Corte di Giustizia, ovvero una misura che può essere applicata solo per eseguire l’allontanamento nel minor tempo possibile, mentre ora assume in modo netto la nuova forma di una sanzione extra penale. Il tema che più ha attirato l’attenzione politica e mediatica è tuttavia se la proposta contenga o no la possibilità di realizzare delle strutture detentive in paesi terzi dove trattenere i migranti espulsi sotto la giurisdizione di un paese UE, ovvero se legittimi o meno l’esperimento italiano in Albania. La risposta a mio avviso è no: per “allontanamento” il testo della proposta di regolamento intende l’esecuzione di una decisione di rimpatrio da parte delle autorità competenti attraverso il trasporto fisico fuori dal territorio dello Stato membro (art.4). Tale freno al muscoloso esperimento italiano è però paradossale conseguenza del fatto che Commissione propone un approccio ancor più estremo ovvero apre alla possibilità che gli Stati UE possano concludere accordi con paesi terzi che possono diventare “paesi di ritorno” (art.4 par.1) anche se non sono né paesi di origine degli espulsi né hanno alcun legame con gli stessi. L’accordo tra il Paese UE e quello di ritorno deve prevedere le modalità di gestione degli stranieri che gli sono stati consegnati ma comunque il paese europeo di invio pone fine alla sua giurisdizione sulle persone espulse, mentre nel caso italo-albanese si verifica una delocalizzazione delle strutture di detenzione amministrativa sotto giurisdizione italiana. Salvo un generico e inconsistente obbligo di stipulare accordi solo con Paesi nei quali siano “rispettati gli standard e i principi internazionali in materia di diritti umani in conformità con il diritto internazionale, compreso il principio di non respingimento” (art. 17 par.1) il testo proposto non impone vincoli di alcun tipo al Paese terzo divenuto “di ritorno” su cosa può o non può fare con gli stranieri di cui è divenuto responsabile, come e per quanto tempo trattenerli, dove e in quali condizioni di detenzione e neppure se il rimpatrio, per così dire finale, verso il paese di origine sarà effettuato oppure se i deportati dall’Europa potranno restare nel nuovo Paese, magari disperdendosi e venendo più o meno rapidamente reimmessi nel traffico internazionale di esseri umani. Perché mai un Paese terzo dovrebbe decidere di prendere quegli stranieri che noi non vogliamo? L’unica o principale ragione che potrebbe spingere a una decisione così assurda per il governo di qualsiasi paese è la prospettiva di un elevato guadagno. L’accordo tra il Paese europeo e il Paese terzo di ritorno si configura dunque a tutti gli effetti come una vendita di esseri umani la quale verrebbe legalizzata nel XXI secolo, solo in forme nuove rispetto al passato. Pur consapevole della cupezza del periodo storico che stiamo vivendo mai avrei pensato che simili proposte avrebbero potuto essere elaborate e presentate da un’istituzione europea. Se non siamo ancora dentro l’Unione all’ora più buia, siamo a quella che appena la precede. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Migranti, nel Cpr Ponte Galeria “situazione peggiore che nelle carceri”
L’ispezione della Commissione capitolina Politiche sociali e della Salute, l’audizione della Asl Roma 3 sul Cpr di Ponte Galeria. “Luoghi di privazione dei diritti fondamentali”. “I cpr vanno chiusi” Decine di uomini che vagano in enormi gabbie, palesemente sedati da psicofarmaci, con evidenti difficoltà a parlare: è la quotidianità nel Centro per il Rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma sud. Ed è quello a cui hanno assistito i rappresentanti della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute che raccontano quella visita nel corso dell’audizione della Asl Roma 3. Le condizioni sanitarie e di vita degli ospiti del Cpr di Ponte Galeria è stato al centro dell’audizione della Asl Roma 3 da parte della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute. Situato a Roma sud, il Cpr si trova in via Cesare Chiodi, nei pressi della Fiera di Roma e dell’aeroporto internazionale di Fiumicino. “Abbiamo visitato il Cpr di Ponte Galeria e siamo rimaste abbastanza mortificate dalla situazione che abbiamo trovato al suo interno– ha denunciato in apertura la consigliera Tiziana Biolghini, vicepresidente vicario della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute- con decine di uomini che vagavano in queste enormi gabbie, palesemente sedati da psicofarmaci, con evidenti difficoltà a parlare proprio a causa della sedazione”. “Ci ha molto colpito il fatto che vi siano spazi inutilizzati: forse- ha proseguito- invece che vagare ore e ore, in un movimento perpetuo, sarebbe meglio utilizzare gli spazi per l’attività sportiva e lo spazio mensa, dove in passato venivano organizzati anche alcuni laboratori. Riutilizzare questi spazi favorirebbe la socializzazione e aumenterebbe la sicurezza, poiché non vi sarebbe più l’attuale abbrutimento psicofisico che caratterizza gli ospiti del Cpr”. “Dalla Commissione di oggi– ha spiegato all’agenzia Dire la presidente della Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute, Nella Converti– si evince ancora una volta che i Cpr non solo sono luoghi totalmente inadatti alla funzione che dovrebbero svolgere, ma sono luoghi di privazione dei diritti fondamentali. Persone con fragilità importanti, una volta dichiarate non idonee ad essere trattenute, vengono praticamente abbandonate per strada, senza che vi sia una reale presa in carico e senza che l’amministrazione capitolina riesca ad intercettarle per tempo. Sono quelle stesse persone vulnerabili che vivono nelle nostre strade”. “I CPR VANNO CHIUSI” “Il confronto con la Asl Roma 3 è stato utile e interessante. Consapevoli che i Cpr vadano chiusi- ha evidenziato Converti- nel frattempo stiamo vigilando e lavorando affinché vengano potenziati i servizi. Le condizioni all’interno del Cpr di Ponte Galeria sono ancora più severe rispetto a quelle previste per gli istituti penitenziari, ad esempio non è previsto alcuno spazio di socialità. Nonostante queste persone non abbiano commesso alcun reato, ma un illecito, sono trattenute con privazione totale della loro libertà e non possono godere di diritti fondamentali”. “La Commissione– ha inoltre affermato- continuerà la sua azione di sorveglianza, anche in collaborazione con la Asl per migliorare le condizioni di vita all’interno di quel luogo e, soprattutto, capire come prendere in carico le persone che fuoriescono. Ribadiamo che l’obiettivo politico è arrivare alla chiusura di questi luoghi che violano i diritti umani e nel frattempo sostenere le persone ivi trattenute”. CHI HA PROBLEMI DI SALUTE ‘CERTIFICATI’ VIENE ABBANDONATO IN STRADA: “UNA VOLTA FUORI, NON POSSIAMO CONTROLLARE COSA FA” “Il certificato di idoneità alla vita in comunità ristretta– ha informato Doriana Leotta, referente sanitario aziendale per la Asl Roma 3 del Cpr- viene rilasciato in assenza di patologie contagiose, di positività all’Hiv, di soggetto di minore età o sospetta minore età, di gravidanza o di sospetta gravidanza. In quest’ultimo caso la persona interessata viene accompagnata dalle Forze dell’Ordine al Pronto soccorso ginecologico del Grassi per accertare che la dichiarazione corrisponda alla realtà”. Leotta ha poi reso noto che “tutte le patologie che a seguito della visita risultano scompensate, come ad esempio il diabete, una cardiopatia, un’ipertensione non controllata precludono l’ingresso e il trattenimento al Cpr: queste persone, dunque, ritornano sul territorio, non hanno la possibilità di essere trattenute per l’eventuale rimpatrio dopo gli accertamenti di Forze dell’Ordine e Prefettura”. Ma prima di essere rimesse sul territorio, queste persone vengono curate? “No– ha risposto Leotta- le visite vengono svolte per il trattenimento che deve essere effettuato entro 48 ore da quando le Forze dell’Ordine hanno fermato la persona sul territorio, priva di documenti e del permesso di soggiorno. Queste 48 ore vengono utilizzate soprattutto dalla Questura, che esegue gli accertamenti del caso, e dal giudice, che decreta che la persona deve essere trattenuta in uno dei Cpr del territorio italiano”. Dunque, una persona con una cardiopatia viene lasciata in mezzo alla strada? “Proprio perchè i tempi per stabilire l’idoneità sono quelli di una visita che non presuppone indagini ematiche ed elettrocardiogramma– ha replicato la referente sanitaria aziendale per la Asl Roma 3 del Cpr- se queste persone presentano un problema che possa essere ritenuto pericoloso per la propria vita, le stesse vengono inviate al Pronto soccorso del più vicino ospedale per fare indagini più approfondite. In ambulatorio noi non abbiamo nè mezzi diagnostici, nè mediatori culturali”. Doriana Leotta ha poi tenuto a precisare che “la tipologia delle persone che si trovano all’interno del Centro per il Rimpatrio di Ponte Galeria è mutata, soprattutto negli ultimi anni. Una volta il Cpr era solo femminile e la maggior parte delle donne presenti era vittima di tratta. Venivano immediatamente contattati i centri antiviolenza e la donna veniva spostata. Inoltre si tratta di persone che vivono sul territorio anche da 20-30 anni, lavorando in nero o privi di permesso di soggiorno perché licenziati. Sono persone che, nella maggior parte dei casi, conoscono perfettamente l’italiano, anche se a volte dichiarano di non capire”. La Asl Roma 3, comunque, non ha un controllo diretto sulla persona che viene decretata non più idonea a rimanere nel Cpr. “La persona esce dal Cpr con la documentazione di tutte le indagini sanitarie svolte. Viene invitata ad andare più vicino Dipartimento di salute mentale– ha reso noto Leotta- ma, essendo libera, una volta su territorio può ritornare anche da dove è partita, dall’altra parte di Roma. Non abbiamo un incarico, un mandato della parte sociale di questa persona, non possiamo controllare cosa faccia”. Dalla Commissione capitolina Politiche Sociali e della Salute arriva infine una mano tesa alla Asl Roma 3, affinché sia effettivamente garantito il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone trattenute. “Sarebbe opportuno comunicare con noi– ha concluso la presidente Converti- soprattutto per quanto riguarda i soggetti più vulnerabili, che non sempre sono pronti a seguire le indicazioni che ricevono. Forse una comunicazione preventiva prima del loro rilascio ci permetterebbe di intercettarli, prenderli in carico e accompagnarli in un percorso. Come Roma Capitale e come amministrazione capitolina vogliamo dimostrare la volontà di capire, proprio insieme alla Asl Roma 3, i modi per sapere chi siano queste persone, in quali condizioni escono da quella struttura e cosa possiamo fare noi per loro”. (fonte:  DIRE agenzia di stampa nazionale) Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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