Le politiche migratorie europee. Dal 2003 i governi teorizzano il protocollo
Italia-Albania. Ora l’esecutivo europeo accelera le tappe. Da Bruxelles viene
lanciato un messaggio chiaro: il diritto alla protezione internazionale è
selettivo.
di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu da il Domani
“Una possibilità potrebbe essere quella di istituire zone protette nei paesi
terzi, dove chi arriva negli stati membri e chiede asilo potrebbe essere
trasferito per l’esame della sua richiesta”. Ventidue anni fa un documento
gettava le basi dell’attuale approccio europeo alle politiche migratorie. Un
testo che teorizzava una nuova modalità di gestione dei flussi attraverso la
costruzione di centri di transito nei paesi extra Ue. Il progetto prevedeva il
coinvolgimento di organizzazioni come Oim e Unhcr, e si proponeva di avere un
effetto deterrente alla migrazione.
L’idea è contenuta in una lettera del 10 marzo 2003 firmata dal premier
britannico laburista Tony Blair e indirizzata al presidente di turno del
Consiglio europeo, l’allora primo ministro greco Kostas Simitis. Il disegno
immaginato da Blair è oggi diventato realtà con il protocollo Italia-Albania.
Quella che la premier Giorgia Meloni definisce una soluzione innovativa non è
altro che una tendenza europea che da vent’anni si sta affermando e che, “invece
di regolare un fenomeno strettamente dipendente dall’economia, pone come
prioritaria la dimensione della sicurezza a scapito della tutela dei diritti e
delle libertà”.
È così che Chiara Favilli, docente di diritto dell’Ue all’università di Firenze
racconta il percorso intrapreso da Bruxelles. Un percorso che ha portato nel
2024 all’approvazione del Patto Ue per la migrazione e l’asilo, un pacchetto di
riforme che comprime al massimo il diritto di asilo, senza però favorire canali
di ingresso legali. Il Patto punta sull’applicazione generalizzata di procedure
accelerate, l’aumento delle espulsioni e l’uso delle zone di frontiera in un
regime detentivo per la valutazione della domanda.
“Paesi sicuri” – Il 16 aprile l’esecutivo dell’Ue ha bruciato le tappe
proponendo di anticipare alcuni elementi del Patto: le procedure accelerate per
tutte le nazionalità con tassi di accoglimento delle domande di asilo inferiori
al 20 per cento; la facoltà per gli stati membri di designare paesi sicuri. E
proprio su questo la Commissione ha tracciato la via formalizzando una lista
comune di paesi sicuri, includendo Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India,
Marocco e Tunisia, dove sabato sono state condannate per cospirazione 40
persone, tra oppositori e attivisti. “Un elenco evidentemente orientato verso la
lista stilata dall’Italia”, nota Favilli, che definisce “grezzo” il testo
presentato, con “nozioni che non hanno alcun tipo di pregnanza giuridica”.
C’è di più, l’anticipazione dimostra che “l’attuazione del protocollo
Italia-Albania non è possibile con la legislazione vigente”. Per la docente, c’è
un’inversione di tendenza: la Commissione ha dimostrato sostegno alle politiche
dei governi, abdicando al proprio ruolo di orientamento verso obiettivi comuni.
L’approccio perseguito dalla presidente Ursula von der Leyen va in questa
direzione. In carica dal 2019, per assicurarsi un secondo mandato, ha saputo
interpretare l’onda a destra e fare della questione migratoria la sua strategia
politica accelerando, prima delle elezioni europee, la firma di accordi con
paesi terzi per esternalizzare le frontiere.
La proposta della Commissione “assomiglia più a un messaggio politico che a una
proposta normativa. Ed è uno strumento di legittimazione politica dell’intesa
con l’Albania”, dice Salvatore Fachile, avvocato e socio di Asgi. “La proposta
sminuisce il ruolo della Corte di giustizia Ue, chiamata a una decisione che in
Italia ha assunto una dimensione politico-normativa enorme”, spiega Fachile.
“Si dà un segnale sul fatto che non ci saranno margini di discussione su questi
temi”, sulla scia di quanto sta accadendo in Italia, dove alle sentenze dei
giudici che non hanno convalidato i trattenimenti in Albania il governo ha
risposto con uno scontro tra poteri. La pronuncia della Corte è attesa entro
l’estate. “Potrebbe introdurre un principio utile anche in vista delle modifiche
e, nonostante le pressioni politiche, ribadire i limiti derivanti dai diritti
fondamentali”, dice Favilli.
La svolta securitaria – Dal 2003 in poi, ci sono state diverse proposte
analoghe, scartate però per ragioni di opportunità o di convenienza, anche
economica. “L’attentato alle Torri Gemelle ha condizionato la realizzazione
delle politiche migratorie dell’Unione, che allora avevano appena preso avvio. È
stato visibile in tutte le norme europee adottate, con un’ulteriore spinta dopo
la crisi dei rifugiati tra il 2015 e il 2017”, spiega Favilli. L’anno chiave è
stato il 2016, quando la Commissione ha presentato il Nuovo quadro giuridico di
partenariato con i paesi terzi, aprendo a diverse forme di cooperazione, come
l’accordo Italia-Libia del 2017 e i partenariati strategici più recenti. Anche
l’intesa con l’Albania è una di queste e “la Commissione – sottolinea Favilli –
sta facendo tutto quello che è nel suo potere per far sì che il Protocollo si
realizzi”. La linea securitaria dell’Ue emerge anche nel linguaggio. “Dalla
prima agenda europea del 2015, comincia a cambiare”, evidenzia Fachile, “la
Commissione inizia a chiedere agli stati un atteggiamento sperimentale,
irregolare. Ogni sei mesi aveva una sfumatura più aggressiva verso l’idea che
gli stati hanno una supremazia anche sul rispetto delle norme”.
Secondo l’avvocato il diritto di asilo è stato censurato invertendo la logica
della regola e dell’eccezione. “Anche se formalmente il diritto di asilo non può
essere abrogato, perché rappresenta un pilastro della democrazia occidentale
moderna, nella pratica può essere svuotato prevedendo un numero di eccezioni
così elevato da lasciare solo l’involucro”.
L’approccio securitario di Bruxelles è dimostrato anche dal rafforzamento, anno
su anno, dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere: il vero muro
dell’Unione. Dal 2023 a oggi il budget a disposizione di Frontex è aumentato di
oltre cento milioni l’anno. Nel 2023 era di 829 milioni di euro, diventati poi
922 milioni nel 2024 fino a superare la quota di un miliardo (1.1) nel 2025.
Dieci anni fa era di circa 6,3 milioni di euro. Le prime tre voci del bilancio
sono quelle relative al personale, all’acquisto degli equipaggiamenti militari
per sorvegliare le frontiere terrestri e marine, e alle operazioni di rimpatrio.
Queste nel 2024 hanno costituito il 23 per cento della spesa, 146,2 milioni di
euro (67.8 milioni nel 2022). Solo lo 0,2 per cento del budget è destinato a
questioni relative ai diritti umani, nonostante le accuse di coinvolgimento
dell’agenzia nei respingimenti dei migranti.
Dalla Spagna all’Ungheria – L’Italia non è l’unica ad aver contribuito a
sgretolare il diritto all’asilo. Lo hanno fatto anche la Spagna, a Ceuta e
Melilla, l’Ungheria al confine con la Serbia, la Grecia, coi respingimenti
illegali alle frontiere. Il nostro paese è però quello che si è prestato
all’operazione più spaventosa: “L’accordo con la Libia, con cui ha delegato alle
milizie il compito di bloccare i richiedenti asilo applicando la legge libica”,
ricorda Fachile. L’accordo Roma-Tirana è un altro tassello e l’ultimo decreto
del governo, il 37/2025, che ha trasformato i centri in Albania in Cpr, “è
un’apertura di orizzonte richiesta dalla Commissione”, spiega l’avvocato, “per
giungere all’approvazione del nuovo regolamento rimpatri. Un percorso
normo-sociale: far sì che una società digerisca un istituto per facilitare la
sua approvazione normativa”. Per 25 anni l’Ue ha gestito la politica migratoria
con un approccio difensivo e repressivo, trascurando la dimensione economica.
Per Favilli, “ha mancato completamente il suo appuntamento con la storia e ha
dimenticato che l’unica deterrenza all’immigrazione irregolare è quella
regolare”.
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Tag - migranti
La campagna contro i profughi. L’Egitto e la Tunisia “paesi sicuri” nella lista
preparata dalla commissione europea. Per giustificare la scelta si dice che i
governi hanno promesso riforme liberali. Già, intanto ammazzano le persone nel
deserto. Sicuro vuol dire che rispetta la democrazia e il diritto. È sicura la
Turchia che arresta gli oppositori? L’assurda regola del 20%
di Gianfranco Schiavone da l’Unità
Il 16 aprile 2015 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma
di nuovo Regolamento (COM – 2025 – 186 finale) finalizzato a modificare alcuni
articoli del nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 (sulle procedure per l’esame delle
domande) che andrà a sostituire la vigente Direttiva 2023/32/UE e che si
applicherà a partire dal 12.06.2026. Le proposte hanno l’obiettivo di modificare
alcuni aspetti delle procedure accelerate di frontiera e soprattutto di
anticipare l’entrata in vigore delle stesse procedure accelerate nel caso di
provenienza dei richiedenti asilo da paesi di origine ritenuti sicuri o
provenienti da paesi terzi rispetto ai quali la percentuale di decisioni di
accoglimento delle domande di asilo presentate dai cittadini di quegli stati è
pari o inferiore al 20%.
Premettendo che è censurabile la scelta della Commissione di volere modificare
un regolamento che è in vigore ma non ancora applicabile, la prima modifica che
la Commissione propone è quella di modificare l’art.61 del Regolamento procedure
allo scopo di poter automaticamente dichiarare paesi di origine sicuri tutti i
paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, salvo che in tali paesi non ci
siano situazioni di conflitto armato o le domande di asilo dei cittadini di tali
paesi vengano accolte nell’UE con una media superiore al 20%. I candidati
attuali all’adesione sono Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. La
Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo sono candidati potenziali. Anche la
Turchia rientra tra i paesi candidati anche se i negoziati sono congelati dal
2018. Apparentemente la proposta della Commissione potrebbe sembrare
ragionevole, dal momento che il primo requisito per avere lo status di candidati
è aderire ai principi dell’Unione e rispettare lo stato di diritto.
Un rapido sguardo alla lista degli aspiranti fa comprendere come si tratti
invece di una scelta del tutto impropria che confonde criteri giuridici con
criteri politici. Tra i paesi candidati figurano infatti Paesi come la Turchia
nel quale le violazioni dei diritti umani sono estese e sistematiche, come reso
evidente agli occhi del mondo anche dai tragici eventi delle ultime settimane.
Nel 2023 oltre centomila cittadini turchi hanno presentato domanda di asilo nei
paesi dell’UE, con un aumento dell’82 % rispetto all’anno precedente, divenendo
la terza nazionalità più numerosa in cerca di protezione nell’UE dopo i siriani
e gli afghani. È paradossale che l’UE condanni le violenze politiche in Turchia
e nello stesso tempo elabori proposte normative così palesemente irragionevoli.
La Commissione propone delle modifiche al testo del Regolamento procedure per
consentire agli stati la facoltà (non l’obbligo) di anticipare l’applicazione di
una nozione assai controversa già introdotta con il nuovo regolamento, ovvero la
possibilità di applicare la procedura accelerata di frontiera ai richiedenti
provenienti da un paese terzo “la cui percentuale di decisioni di riconoscimento
della protezione internazionale da parte dell’autorità accertante è, stando agli
ultimi dati medi annuali Eurostat disponibili per tutta l’Unione, pari o
inferiore al 20 %” . Poichè si trattava appunto di una misura futura la cui
applicazione sarebbe avvenuta appena a metà 2026 quasi nessuno ne ha parlato
finora. È stato introdotto nell’ordinamento giuridico una sorta di criterio
statistico di fondatezza della domanda che non appare compatibile con l’obbligo
da parte dello Stato di condurre un esame equo e completo della domanda di asilo
su base individuale.
L’incoerenza logica risulta ancor più chiara se si considera che, diversamente
da quanto un lettore assennato può pensare, la cosiddetta regola del 20% (che
non ha, nel testo di legge, neppure un nome per definirla) non si sovrappone né
sostituisce la nozione di paese di origine sicuro che continua ad essere
prevista dal nuovo Regolamento procedure. Tale normativa viene giustificata come
necessaria per limitare l’abuso della procedura di asilo da parte di persone la
cui domanda verrà quasi sicuramente rigettata. Non ci si accorge tuttavia della
irrazionalità di quanto si è proposto (e approvato); la percentuale di
accoglimento della domanda di asilo che può arrivare fino al 20% (non fino al
2%) indica un tasso affatto inconsistente rendendo confusa ed incoerente la
asserita ratio della norma. Inoltre, in modo del tutto arbitrario la percentuale
è calcolata solo sulla base delle domande accolte in sede amministrativa e non
tiene conto dei ricorsi, nonostante essi facciano pienamente parte della
procedura. Nel diritto dell’Unione con la nozione di “decisione definitiva” su
una domanda di asilo si deve infatti intendere l’esaurirsi, in senso di
accoglimento o di rigetto, di tutte le procedure. Il vero tasso di accoglimento
dovrebbe essere calcolato sulle decisioni definitive; se così fosse fatto, esso
si attesterebbe sul 30%.
Per comprendere quanto sia incredibile ciò di cui stiamo trattando faccio il
seguente esempio: se io fossi un medico e sostenessi che una malattia che ha un
tasso di mortalità del 20% o del 30% è in fondo assai poco pericolosa verrei
preso per pazzo. Se invece si sostiene che un tasso di accoglimento del 20%
delle domande di asilo è indice di una generale infondatezza l’irrazionalità di
quanto viene sostenuto passa del tutto inosservata. La realtà della vita degli
“altri” da cui dobbiamo difenderci è infatti divenuto da tempo un terreno nel
quale le nozioni giuridiche, e in generale ogni forma di logica, hanno perso il
loro significato lasciando il campo a disgustose (ma rimosse) forme di violenza
verso esseri umani.
La creazione di una lista europea di paesi di origine sicuri è nozione che non
viene affatto introdotta dalla nuova proposta di regolamento presentata dalla
Commissione ma è già presente nel Regolamento procedure. La nuova proposta si
limita a prevedere che “I paesi terzi elencati nell’allegato II sono designati
come Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione” e li indica (si tratta di
Bangladesh, Egitto, Colombia, India, Kosovo, Marocco, Tunisia). Viene così
stravolta la procedura corretta che dovrebbe essere seguita per la designazione
di paesi terzi come sicuri; innanzitutto la normativa che la prevede deve essere
applicata (cosa che al momento non è). In seguito a ciò, sulla base della
situazione oggettiva dei diversi paesi e dei criteri che la stessa normativa
prevede per effettuare la designazione come paese di origine sicuro (in primis
il requisito della democraticità dell’ordinamento di tali paesi) la Commissione
con atti delegati potrebbe predisporre una lista di paesi di origine sicuri
indicando le ragioni e le fonti che giustificano tale delicatissima scelta.
Nelle premesse alla sua nuova proposta di Regolamento che già in anticipo
contiene i futuri paesi di origine sicuri, la Commissione omette di indicare le
sue fonti; a ognuno dei paesi indicati come di origine sicura sono dedicate più
o meno dieci righe piene di affermazioni non veritiere o contestabili.
Prendiamo ad esempio l’Egitto su cui la Commissione scrive che “ Il Paese ha
ratificato i principali strumenti internazionali sui diritti umani (…) Nella sua
strategia nazionale per i diritti umani, l’Egitto ha dichiarato l’intenzione di
riformare la legge sulla detenzione preventiva, migliorare le condizioni di
detenzione, limitare il numero di reati puniti con la pena di morte e rafforzare
la cultura dei diritti umani in tutte le istituzioni governative. È necessaria
un’attuazione efficace, ma finora sono stati compiuti progressi”. Rinvii a
generici impegni e nessun riferimento alla realtà della presenza di migliaia di
detenuti politici, alla repressione di ogni forma di dissenso, al fatto che la
“tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente
nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite
dall’agenzia per la sicurezza interna” (rapporto globale di Amnesty
International 2023).
Sulla Tunisia, ignorando la violenta involuzione autoritaria in corso negli
ultimi anni, lo stesso impedimento all’ingresso nel Paese della delegazione dei
parlamentari europei avvenuto nel 2023, il pubblico linciaggio degli stranieri,
specie se di colore, la mancata applicazione della Convenzione di Ginevra, la
deportazione degli stranieri nel deserto documentata dal rapporto “State
Trafficking” presentato il 29.01.25 al Parlamento Europeo, la Commissione scrive
che la Tunisia “ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In Tunisia non è in corso alcun
conflitto armato e quindi non esiste alcuna minaccia di violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. In generale, non vi
sono persecuzioni nel Paese”. La nozione di paese di origine sicuro viene così
fatta a pezzi, ridicolizzata, stravolta, e viene sostituita da affermazioni
ideologiche e da parole prive di alcun contenuto. Non posso smettere di pensare
che la Commissione europea dovrebbe operare per “promuove l’interesse generale
dell’Unione” nonché vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il
controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea” (art. 17 del Trattato
sull’Unione Europea). È inquietante leggere i testi che oggi scrive perché mai,
almeno a mia memoria (che sfortunatamente non è più breve), è stato raggiunto un
livello così basso.
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Dopo il fermo nella giornata di ieri e il presidio serale solidale sotto la
Questura nella mattinata di oggi si è svolto il processo presso l’Ufficio
Immigrazione nei confronti di Ayoub, un attivista del centro sociale Lambretta
che è stato rilasciato.
Qui il comunicato.
Il nostro compagno è stato rilasciato, ma il razzismo istituzionale in Italia
resta una realtà strutturale.
Dopo una notte di fermo, il nostro compagno Ayoub è stato finalmente rilasciato.
La mobilitazione è stata immediata e trasversale: la lotta e la solidarietà
pagano. Siamo sollevat* ma non possiamo che ribadire quanto l’Italia continui a
essere attraversata da dinamiche sistemiche di razzismo istituzionale. Quanto
accaduto nelle ultime 24 ore non rappresenta un’eccezione, bensì una prassi
consolidata, espressione di un dispositivo giuridico e politico che criminalizza
sistematicamente le persone migranti.
Non si tratta di semplici slogan o di accuse infondate. L’arresto arbitrario e
il trattamento riservato ad Ayoub sono sintomatici di un regime di controllo e
repressione che si alimenta della condizione di irregolarità giuridica di
centinaia di migliaia di persone. Per circa un milione di persone migranti che
vivono in Italia senza documenti, l’arbitrarietà dell’azione delle forze
dell’ordine non è un’eccezione: è la regola.
Questo regime produce una condizione esistenziale sospesa: l’impossibilità di
accedere a un lavoro regolare, di stipulare un contratto di affitto, di
denunciare abusi subiti, di vivere una quotidianità dignitosa. In tale contesto,
la detenzione amministrativa e i rimpatri forzati appaiono come l’estrema
conseguenza di un meccanismo di esclusione che opera ben prima del carcere.
Ogni regime autoritario si fonda anche su forme di consenso sociale e
normalizzazione. Ed è proprio attraverso episodi come quello di Ayoub –
apparentemente marginali ma emblematici – che possiamo cogliere la misura della
violenza sistemica, della prepotenza istituzionale, dell’erosione dello stato di
diritto. Per oltre un milione di persone, l’inferno può cominciare con un
semplice controllo dei documenti, in un giorno qualsiasi.
Ayoub per adesso è libero anche grazie alla lotta e alla solidarietà. In vista
del prossimo 25 Aprile, non possiamo che rilanciare, dunque, una riflessione
profonda sul significato dell’antifascismo oggi. Se vogliamo costruire una
società antirazzista, transfemminista e antifascista, è necessario smantellare –
dalle fondamenta – le strutture di oppressione e discriminazione integrate nei
sistemi democratici occidentali. La lotta contro i neofascismi e contro la
stretta securitaria è la lotta per un’alternativa allo status quo, non un
ritorno a ciò che era prima.
Se voi fate il fascismo, noi facciamo la Resistenza.
(da Milano in Movimento)
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Dalla legge Turco-Napolitano che aveva previsto che i migranti irregolari
potessero essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, alla legge
Bossi-Fini che estendeva a sessanta giorni, al decreto Minniti-Orlando che
trasformò i Cpt in Cpr, innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il
decreto Sicurezza firmato da Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a
centottanta, riducendo nel contempo le possibilità di regolarizzazione
attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel 2023, il governo Meloni ha
innalzato la durata della detenzione fino a dodici mesi anche per i richiedenti
asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con l’Albania).
di Luna Casarotti da Monitor
L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per
il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër,
in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati
per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i
momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata
orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).
Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una
protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta
migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della
polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia
diffondere altri elementi.
L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo,
esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta
inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le
dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio
dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con
la normativa europea.
I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato
alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema
giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei
centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la
necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il
trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone
migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore
possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.
Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto
che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di
profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal
governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate
esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella
forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono
diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei
diritti umani protratte in un tempo lunghissimo.
Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero
essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata
di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di
centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto
Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr,
innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da
Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le
possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel
2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici
mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con
l’Albania).
Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente
provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa
qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I
farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”,
non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza
a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di
migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di
trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche
le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note.
Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si
continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei
confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane,
con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e
Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte
Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel
Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte
tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era
detenuto a Trapani-Milo.
Tuttavia, mentre la vita scorre fuori dalle mura di questi centri, al loro
interno il tempo sembra fermarsi. Le storie di chi è rinchiuso restano per lo
più nell’ombra, le voci soffocate, le esistenze sospese in un limbo senza
risposte. Chi vi entra, non sa cosa lo attende. Chi ne esce, porta con sé
cicatrici invisibili. Il prezzo di questa realtà lo pagano le persone costrette
all’interno, ma anche una società che, voltandosi dall’altra parte, permette che
tutto questo continui.
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Mentre le luci dei riflettori si sono concentrate sull’accordo Italia-Albania
per la creazione di un Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) in territorio
albanese continua la violenza sistemica all’interno dei CPR nel suolo italiano.
L’ultimo episodio riguarda un ragazzo di origini peruviane, con pregressi
problemi di salute e posto in isolamento nel CPR di Milano. Nonostante le sue
condizioni, è stato dichiarato “idoneo” dal personale medico, una prassi che,
secondo Nicola Cocco della Rete Mai Più Lager – No Ai CPR, intervenuto ai
microfoni di Radio Onda d’Urto, spesso relega la tutela della salute in secondo
piano.
Il ragazzo sarebbe stato ammanettato, legato ai piedi e addirittura imbavagliato
sotto una mascherina mentre veniva condotto al rimpatrio in Perù da dove era
fuggito anni fa per la Spagna, dove abitava prima di venire in visita di un
parente in Italia e trovarsi, dopo poco, bloccato in CPR.
Ma non solo. Al momento della deportazione, non gli sarebbero stati restituiti
400 euro che aveva con sè. E infine, come sottolinea Nicola Cocco, al suo arrivo
in Perù, contrariamente alla narrazione di un “ritorno a casa”, il ragazzo si è
ritrovato senza un posto dove andare.
Questo avviene mentre l’Italia continua a effettuare le deportazioni in Albania.
Gli effetti di questo accanimento crudele non sono tardati ad arrivare: sono già
stati segnalati casi di autolesionismo all’interno del CPR di Gjadër e, come
ricorda Cocco: “Stiamo attenti che quello che succede in piccola scala in
Albania succede in larga scala già sul nostro territorio.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Nicola Cocco della Rete Mai più Lager – No
ai CPR. Ascolta o scarica
Oggi, 15 aprile 2025, si terrà la seconda udienza del processo contro cinque
persone accusate di aver fornito aiuto umanitario a migranti al confine tra
Polonia e Bielorussia.
Il caso, noto come #H5Poland, è emblematico della crescente criminalizzazione
della solidarietà in Europa. Le persone imputate rischiano fino a cinque anni di
carcere per aver svolto azioni essenziali come consegnare cibo, vestiti e
trasportare famiglie in difficoltà per pochi chilometri, da una foresta al paese
più vicino.
La crisi umanitaria al confine orientale polacco è iniziata nel 2021 e coinvolge
migliaia di persone in fuga da Paesi come Afghanistan, Siria, Iraq e Somalia. Di
fronte alla militarizzazione del confine e ai respingimenti illegali attuati
dalle autorità polacche, solo i residenti locali, le reti civiche e le persone
solidali si sono attivate per fornire soccorso umanitario.
Il 22 marzo 2022, quattro volontari sono stati arrestati mentre cercavano di
aiutare una famiglia irachena e un cittadino egiziano. Uno di loro, cittadino
italiano, è stato espulso e bandito dalla Polonia per cinque anni. A dicembre
2023, anche una quinta persona è stata inclusa nel procedimento per aver offerto
ospitalità temporanea a migranti.
La prima udienza si è svolta il 28 gennaio 2025 presso il tribunale di Hajnówka.
Tutti gli imputati hanno dichiarato la propria innocenza. Il giudice ha accolto
parzialmente la richiesta della procura di svolgere il processo a porte chiuse,
limitando l’accesso di pubblico e media. Ci si attende che anche la seconda
udienza, prevista per domani, si svolga in modo simile.
Il caso dei cinque imputati non è un episodio isolato. In tutta Europa,
attivisti, volontari e persone solidali sono sempre più spesso perseguitati per
il solo fatto di salvare vite umane. In Italia, Lettonia, Belgio e altri Paesi,
la solidarietà viene trasformata in un reato. L’uso del diritto penale come
strumento politico di repressione colpisce chi agisce per il rispetto dei
diritti umani.
Aiutare non è un crimine. I pushback lo sono. Nessun essere umano è illegale.
Per questo chiediamo solidarietà e attenzione. È importante diffondere le
informazioni su questo processo, partecipare a iniziative pubbliche e, se
possibile, organizzare incontri per far conoscere questa vicenda. Chiunque
voglia approfondire o invitare gli imputati o il gruppo di supporto a
intervenire, può scrivere a h5support@riseup.net.
Questo processo riguarda tuttə. Difendere la solidarietà è un dovere collettivo.
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I 40 migranti deportati in Albania, tra polsi legati e polizia in assetto
antisommossa
di Fulvio Vassallo Paleologo da Adif
1. Secondo la normativa europea (Decisione Ce 573/2004), come ribadisce il
Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, ed anche come
rilevato in più occasioni dal Garante nazionale per i detenuti, nei
trasferimenti di persone private della libertà personale in vista del rimpatrio,
la coercizione può essere esercitata nei confronti dei rimpatriandi, che
rifiutano o si oppongono all’allontanamento, entro limiti precisi. Secondo le
linee guida di Frontex il rischio di fuga non puo essere meramente “ipotetico”,
ma “serio ed immediato”. In diverse occasioni e’ stato criticato il ricorso
all’uso generalizzato e prolungato delle fascette ai polsi, modalità di
contenzione che attentano alla dignità della persona e possono tradursi in
trattamenti inumani o degradanti. L’imposizione di fascette ai polsi accresce e
non diminuisce il rischio di atti di autolesionismo.
Tutte le misure coercitive devono essere proporzionate e non eccedere un uso
ragionevole della forza. Le stesse misure devono essere applicate sulla base di
una valtazione individuale e solo quando necessario, non per tutto il tempo del
trasferimento. Queste regole, tuttavia, sono violate in modo eclatante con i
trasferimenti forzati in Albania, “in maniera sistematica, senza valutazione
della necessità e proporzionalità della misura”, come verificato anche in
passato, dalla ricerca “Rimpatri forzati e pratiche di monitoraggio“, pubblicata
dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari assieme
all’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a limitazioni della libertà
personale della Puglia.
Il vero motivo delle fascette ai polsi dei migranti “espellendi” trasferiti ieri
dai CPR italiani, e quindi dal CPR di Brindisi (Restinco) in Albania lo ha
fornito il ministro dell’interno Piantedosi, rispondendo alla domanda di un
giornalista nella conferenza stampa a margine del Vertice dei ministri
dell’interno MED 5, di Italia, Malta, Spagna, Grecia e Cipro, concluso oggi a
Napoli. Il titolare del Viminale ha affermato che si tratta di individui
considerati pericolosi. “Delle 40 persone trasportate in Albania, ci sono ben
cinque casi di condanne per violenza sessuale, un caso di tentato omicidio,
avevano precedenti condanne per armi, reati contro la proprietà, furto,
resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali”, ha detto Piantedosi,
aggiungendo che “C’è un ampio campionario di precedenti, che ci permette di
identificare la caratterizzazione delle persone giudicate pericolose e, come
tali, soggette a detenzione, come previsto dalla nostra legge”. Se le persone
trasferite in Albania fossero davvero responsabili di reati tanto gravi, o
presentassero profili di pericolosità tanto elevati, avrebbero dovuto essere
ristretti in un istituto di pena, perchè il trattenimento amministrativo è
finalizzato all’allontanamento forzato dal territorio, non alla sanzione o
all’isolamento di soggetti pregiudicati o particolarmente pericolosi. Per non
parlare della funzione rieducativa della pena, principio costituzionale (art.27)
che ormai, non solo per gli stranieri, è stato ridotto a carta straccia.
2. L’accertamento della pericolosità sociale dello straniero e l’eventuale
espulsione sono regolamentati dall’art. 13 del Testo unico sull’immigrazione
(decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286). Il prefetto può disporre
l’espulsione dello straniero soltanto se appartiene a taluna delle categorie
indicate negli articoli 1, 4 e 16, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.
159 (Codice delle leggi antimafia, e dunque soggetti abitualmente dediti a
traffici delittuosi, che vivono con i proventi di attività delittuose, o dediti
alla commissione di reati, o che mettono in pericolo l’integrità fisica o morale
dei minorenni). Se l’autorità amministrativa (prefetto) ha il potere di
dichiarare la pericolosità sociale dello straniero, questi può fare ricorso al
giudice di pace, fino alla Corte di Cassazione, per dimostrare che non
sussistevano motivi di pericolosità sociale idonei a consentire la
sua espulsione. La pericolosità della persona dunque può essere un presupposto
per l’adozione di una misura espulsiva e del conseguente trattenimento
amministrativo, ma non può costituire il presupposto per il trasferimento da un
centro di detenzione ad un altro CPR, soprattutto se ubicato nel territorio di
uno Stato terzo, quasi come se si trattasse di un CPR “di massima sicurezza”.
Per la giurisprudenza, la valutazione della pericolosità sociale non può essere
direttamente collegata alla condizione di straniero irregolare, e soprattutto
nel caso di reati in materia di stupefacenti di più lieve entità va accertata
caso per caso, senza automatismi.
Secondo l’art.14 comma 1 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98, “Quando non è
possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla
frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano
la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento, il questore
dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario
presso il centro di permanenza per i rimpatri più vicino, tra quelli individuati
o costituiti con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze”. A tal fine effettua richiesta di assegnazione
del posto alla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle
frontiere del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno,
di cui all’articolo 35 della legge 30 luglio 2002, n. 189, che può disporre
anche il trasferimento dello straniero in altro centro”.
In base all’ art.14.comma 1.1 del citato Testo unico sull’immigrazione, “Il
trattenimento dello straniero di cui non è possibile eseguire con immediatezza
l’espulsione o il respingimento alla frontiera è disposto con priorità per
coloro che siano considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica o
che siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per i reati di
cui all’articolo 4, comma 3, terzo periodo, e all’articolo 5, comma 5-bis,
nonché per coloro che siano cittadini di Paesi terzi con i quali sono vigenti
accordi di cooperazione o altre intese in materia di rimpatrio, o che provengano
da essi”.
L’art.15 del Testo unico sull’immigrazione n.286/98 prevede l’espulsione a
titolo di misura di sicurezza fornendo disposizioni per l’esecuzione
dell’espulsione dello straniero che sia condannato per taluno dei delitti
previsti dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, sempre che
risulti socialmente pericoloso. L’art.16 dello stesso Testo unico prevede
l‘espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione in
casi tassativamente indicati dalla legge, in generale, nel caso di pene
detentive inferiori a due anni. In questi casi però, “quando non è possibile
effettuare il rimpatrio dello straniero per cause di forza maggiore, l’autorità
giudiziaria dispone il ripristino dello stato di detenzione per il tempo
strettamente necessario all’esecuzione del provvedimento di espulsione”.
La Corte Costituzionale con sentenza n. 78/2007 ha affermato che“in realtà è
proprio la condizione di persona soggetta all’esecuzione della pena che abilita
ex lege – ed anzi costringe – lo straniero a permanere nel territorio dello
Stato; e ciò, tanto se l’esecuzione abbia luogo nella forma intramuraria, quanto
se abbia luogo, invece – a seguito della eventuale concessione di misure
alternative – in forma extramuraria. In altre parole, nel momento stesso in
cui prevede che l’esecuzione della pena “prevalga”, sospendendone l’attuazione,
sulla espulsione cui il condannato extracomunitario sarebbe soggetto, il
legislatore adotta una soluzione che implica l’accettazione della perdurante
presenza dello straniero nel territorio nazionale durante il tempo di espiazione
della pena stessa”.
La pericolosità sociale degli immigrati sottoposti alla procedura di
allontanamento forzato dal territorio dello Stato non può essere rimessa ad una
mera valutazione discrezionale dell’autorità di polizia, o dei vertici del
Viminale, che dispongono in base a questo criterio il trasferimento da un centro
di detenzione amministrativa ad un’altro, ma deve essere oggetto di un
provvedimento individuale e motivato che consenta all’interessato l’esercizio
dei diritti di difesa e di ricorso giurisdizionale. La valutazione di
pericolosità sociale non può essere desunta esclusivamente da una sentenza di
condanna, ad esempio se nei confronti di quello stesso detenuto il magistrato di
sorveglianza, in prossimità del fine pena, abbia dichiarato cessata la
pericolosità sociale.
3. Le dichiarazioni del ministro Piantedosi sulla “pericolosità” degli immigrati
trasferiti nel CPR di Gjader in Albania sono di una gravità senza precedenti,
perchè l’accertamento della pericolosità e di eventuali condanne penali, non si
conosce quali e se già definitive, non costituisce automaticamente presupposto
legale per il trattenimento in un centro di detenzione per i rimpatri, e
tantomeno giustificano trasferimenti che dovrebbero essere adottati in vista
dell’effettivo rimpatrio, e non in base ad una presunta pericolosità delle
persone detinatarie di provvedimenti di allontanamento forzato. In base
all’art.19 del T.U 286/98., uno straniero irregolarmente soggiornante è
inespellibile nel caso in cui corra il rischio di subire persecuzioni,
trattamenti disumani o degradanti, nel proprio paese di origine, o nel paese in
cui dovrebbe essere inviato a seguito del provvedimento di espulsione. Inoltre
anche una persona che abbia ricevuto una condanna penale non perde il diritto a
chiedere asilo, e comunque non può essere soggetto a prassi di contenzione
sproporzionate, come il ricorso prolungato alle fascette ai polsi, a condizioni
di trattenimento amministrativo discriminatorie, o a misure di sicurezza che non
siano ricorribili davanti all’autorità giudiziaria. Secondo l’art.2 del Testo
Unico in materia di immigrazione n.286/98, “ Allo straniero comunque presente
alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti
fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle
convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale
generalmente riconosciuti.” Norma che vale anche nel caso di persone con
precedenti penali o ritenute “socialmente pericolose”.
4. Il Decreto .Legge 37/2025 introduce importanti modifiche alla Legge 21
febbraio 2024, n. 14, relativa al Protocollo d’Intesa tra il Governo della
Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania, e
al Decreto Legislativo. 286/1998 (c.d. Testo Unico sull’Immigrazione) in
materia di esecuzione dell’espulsione. Si prevede adesso espressamente che nel
centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Gjader possano essere trasferiti,
non soltanto naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari
italiane, che non versino in una condizione di vulnerabilità, uomini e
maggiorenni, e che provengano da un paese di origine sicuro, ma anche immigrati
già presenti in Italia, destinatari di un provvedimento di allontanamento
forzato e già trattenuti in un CPR dopo una convalida giurisdizionale. E’ però
evidente la soggezione di queste persone alla concorrente giurisdizione dello
Stato albanese, giurisdizone che è stata espressamente riconosciuta dalla Corte
costituzionale albanese che ha escluso qualsiasi cessione di sovranità sul
territorio.
Secondo l’art.14 comma 5 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98, come
modificato dal Decreto Legge. 145/2024, convertito con modificazioni
dalla L.egge 9 dicembre 2024, n. 187, e quindi dal Decreto legge 37/2025, ” È
fatta salva la facoltà di disporre, in ogni momento, il trasferimento dello
straniero in altro centro, ai sensi del comma 1, secondo periodo. Il citato
trasferimento non fa venire meno il titolo del trattenimento adottato e non è
richiesta una nuova convalida”.
Resta da accertare se la modifica unilaterale del Protocollo Italia-Albania per
effetto di decreti legge adottati in Italia, possa risultare compatibile con la
normativa internazionale sui Trattati (in particolare con l’art.53 della
Convenzione di Vienna) e con la Costituzione albanese. Di certo la normativa
dell’Unione europea, e in particolare la vigente Direttiva rimpatri 2008/115CE
non consentono “rimpatri” con accompagnamento forzato da paesi terzi. E
stabiliscono pure che le misure di trattenimento amministrativo andrebbero
applicate all’interno del territorio degli Stati membri. I trasferimenti che si
sono effettuati in Albania verso il centro di detenzione di Gjader, sotto scorta
anche di autorità albanesi, sono per questo equiparabili a vere e proprie
deportazioni.
Come ammette adesso il Viminale, i migranti deportati in Albania “Andranno tutti
riportati in Italia, da lì niente rimpatri”. “Succede questa trafila di
spostamento anche nei passaggi dai Cpr ai luoghi d’imbarco per il rimpatrio per
le persone trattenute nei centri italiani, che vanno dal confine con la Slovenia
fino a Palermo: non vedo perché appassionino questi trasferimenti dall’Albania
che in termini chilometrici è persino più vicina ad alcuni luoghi d’imbarco di
tanti altri posti di Cpr in Italia”, ha dichiarato Piantedosi. In un altra
dichiarazione il ministro dell’interno ha cercato di motivare diversamente il
ricorso alle fascette che tutti hanno visto ai polsi degli immigrati sbarcati in
Albania dalla nave Libra, subito dopo ceduta agli albanesi. Per il titolare del
Viminale, “Fa parte delle procedure operative che adottano in loro piena
autonomia gli operatori, non è da parte mia prendere le distanze, rivendico e
condivido. Si tratta di persone che venivano trasferite in una condizione di
limitazione della libertà personale anche per effetto di un provvedimento
dell’autorità giudiziaria. Non limitarne la libertà di movimento significava
esporre il personale di polizia alla possibilità di dover surrogare con l’azione
diretta alle possibili azioni che queste persone potevano mettere in campo.
Avremmo dovuto quadruplicare le persone in accompagnamento, ci sarebbe stato
bisogno di un’altra nave e di un trasferimento costoso e ci avreste accusato che
spendevamo troppi soldi per questo tipo di esercizio”. Non si trattava di una
limitazione della liberttà di movimento, o di circolazione, però, ma della
libertà personale, in territorio albanese, come le banchine e l’area portuale di
Schengjin, realizzata con il concorso, e quindi anche sotto la giurisdizione
delle autorità albanesi, che infatti hanno proceduto ad un autonomo
fotosegnalamento.
5. Non si tratta soltanto di una questione economica, ma di un evidente abuso
della discrezionalità di polizia in assenza di basi legali, se si considera il
trasferimento forzato della persona al di fuori del territorio nazionale, in un
centro di detenzione che insiste su un territorio ubicato al di fuori
dell’Unione europea e dunque sotto la giurisdizione concorrente di uno Stato
terzo. In assenza di un provvedimento giurisdizionale si è così realizzata una
operazione di allontanamento forzato dal territorio, non verso il paese di
origine, ma nel paese terzo, in assenza della convalida giurisdizionale di
questa ulteriore misura di accompagnamento forzato, in violazione dell’art.13
della Costituzione, nella interpretazione che ne ha fornito la Corte
Costuzionale, riguardo le misure limitative della libertà personale di stranieri
sottoposti a misure di espulsione, con la sentenza n.105 del 2001, secondo cui
“il trattenimento dello straniero presso i Centri di permanenza temporanea e
assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere
adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione”. In base
all’art.13 della Costituzione italiana, “ Non è ammessa forma alcuna di
detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra
restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
Lo straniero trattenuto nei CPR può rivolgere istanze o reclami orali o scritti,
anche in busta chiusa, al Garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei
diritti delle persone private della libertà personale. Come sarà assicurata
questa modalità di reclamo alle persone trasferite nel CPR di Gjader in Albania
che, per quanto risulta allo stato attuale, sono state anche private del diritto
di corrispondenza telefonica con l’esterno, garantita dalla legge ? E come
saranno mantenuti i contatti con i difensori in Italia, anche alla luce dei
ridotti margini dei diritti di difesa nelle procedure di convalida per via
telematica ?
6. Il difensore di una persona trattenuta in un CPR, dunque anche nel CPR di
Gjader in Albania, pure se il rimedio previsto contro l’ordinanza di convalida
del trattenimento è il ricorso per cassazione, ha comunque diritto di ricorrere
in giudizio in qualsiasi momento, qualora ricorrano motivi di urgenza, ex art.
700 (e 737) codice procedura civile, al fine di ottenere la liberazione del
proprio assistito. Il pregiudizio appare ancora più imminente, trattandosi di
persone trattenute in un CPR ubicato all’esterno dei confini nazionali, in
attesa di una espulsione con accompagnamento forzato, che si può verificare
anche nel giro di qualche giorno, se non di poche ore, con modalità che non
consentono un effettivo esercizio dei diritti di difesa.
Secondo la Corte di Cassazione, sui provvedimenti di trattenimento “non può mai
formarsi il giudicato, tanto che la ricorribilità per cassazione dei
provvedimenti di convalida e di proroga, prevista dall’art. 14, comma 6, T.U.I.,
si giustifica non già con il carattere decisorio (e dunque di sentenza
sostanziale) dei relativi decreti, bensì con la loro natura di “provvedimenti
sulla libertà personale”, ricorribili per cassazione in forza della seconda
ipotesi di cui all’art. 111, comma 7, Cost.. […] il provvedimento di convalida o
proroga del trattenimento, non essendo soggetto al giudicato, è modificabile o
revocabile, anche tramite una domanda di riesame del provvedimento di
trattenimento presso un centro CIE introdotta con lo strumento del procedimento
camerale ex art. 737 cod. proc. civ. (il quale prevede, all’art. 742 cod. proc.
civ., la modifica o revoca “in ogni tempo” dei decreti pronunciati in camera di
consiglio).” (Corte di cassazione sez. VI civile, 6 ottobre 2022, n. 29152).
Rimane la peculiarità del procedimento di convalida del trattenimento per via
telematica rispetto a persone che si trovano in stato di detenzione in un CPR,
che si afferma sotto la giurisdizione italiana, ma che risulta ubicato in un
paese terzo al di fuori dei confini dell’Unione europea. Desta infine dubbi
ancora più consistenti il filtro previsto dalla figura del Direttore del centro
di Gjader, che attiva i contatti tra le persone in stato di trattenimento
amministrativo ed i difensori d’ufficio o di fiducia. Contatti che senza la sua
inziativa, che si può ritenere doverosa, e che deve essere assolutamente
tempestiva, a fronte dei termini brevissimi di decadenza, non potrebbero
altrimenti essere garantiti. Questioni che potrebbero essere affrontate dalla
Corte Costituzionale e dal Comitato per la prevenzione della tortura del
Consiglio d’Europa, sempre che la Commissione europea continui ad avallare
questa ulteriore involuzione del Protocollo Italia-Albania, che mette in dubbio
l’esercizio effettivo dei diritti di difesa (artt.24 Cost,, 47 Carta Diritti
fondamentali UE, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti
dell’Uomo) con provvedimenti che incidono sulla libertà personale, senza essere
sottoposti a una immediata convalida giurisdizionale, che peraltro sarebbe
imposta dall’art.13 della Costituzione.
7. In ogni caso la Corte di Giustizia dell’Unione europea potrebbe essere
chiamata a pronunciarsi sulla mancata applicazione, nell’ordinamento italiano,
di una importante previsione (art.15) contenuta nella Direttiva rimpatri
(2008/115/CE) tuttora vigente, secondo cui dovrebbe essere garantito il riesame
della misura di trattenimento amministrativo ad istanza di parte, disposizione
che, anche in assenza di una specifica previsione nell’ordinamento nazionale,
potrebbe peraltro risultare direttamente applicabile perché è sufficientemente
chiara e precisa. La stessa Direttiva (art.15.4) precisa tra l’altro che “Quando
risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per
motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le
condizioni di cui al paragrafo 1, il trattenimento non è più giustificato e la
persona interessata è immediatamente rilasciata”. Altra norma del diritto
dell’Unione europea che non è stata trasposta nell’ordinamento italiano, ma che
risulta tanto chiara e precisa che potrebbe anche essere oggetto di applicazione
diretta.
L’intero impianto della Direttiva 2008/115/Ce contiene norme che possono essere
applicate soltanto a persone che si trovano in territorio di uno dei paesi
membri o che vengono accompagnati da questi paesi negli Stati di origine. Ma non
fornisce alcuna base legale al trasferimento forzato dei migranti dai CPR
italiani in Albania, atteso che si tratta di misure coercitive destinate
all’attuazione di provvedimenti di rimpatrio, che possono essere effettivamente
eseguiti soltanto dal territorio italiano. Si può dunque concludere che la
detenzione amministrativa nel centro per i rimpatri di Gjader non è finalizzata
all’esecuzione dell’ accompagnamento forzato nel paese di origine, che comunque
dovrà avvenire con partenza dal territorio italiano, ma ad una mera esigenza
punitiva di dissuasione dell’ingresso e del soggiorno irregolare, e forse al
decongestionamento dei centri di detenzione italiani. Che comunque, nel momento
attuale, non sono certo “congestionati”, pur tenendo conto della parziale
indisponibilità di alcune strutture per lavori di manutenzione straordinaria e
dei continui rinvii dei piani governativi per l’apertura di nuovi CPR in
territorio italiano.
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La nave Libra è arrivata ieri a Shengjin. I migranti scendono con i polsi legati
dalla enorme nave militare che li ha trasportati in Albania. Sono appena in 40,
raccolti come pacchi nei Cpr solo per riempire un po’ le gabbie al di là del
mare. È la prima deportazione di migranti dal territorio italiano.
di Giansandro Merli da il manifesto
La prima deportazione collettiva di migranti dal territorio italiano al Cpr in
Albania è andata in porto. Intorno alle 16 di ieri la nave militare Libra, che
qualche ora prima aveva mollato gli ormeggi da Brindisi, è arrivata nel porto di
Shengjin. Ad attenderla sul molo c’erano una quarantina di agenti di polizia,
carabinieri e guardia di finanza. Scudi in mano e caschi al lato, in assetto
anti-sommossa. Altri 80 erano a bordo. I cittadini stranieri sono stati fatti
scendere con le fascette ai polsi, un agente davanti, uno accanto e uno dietro
con una sacca in mano, contenente forse gli oggetti personali del trattenuto.
«LA SCENA ci ha fatto subito pensare alle deportazioni ordinate da Trump. C’è
stata una dimensione simbolica più esplicita delle altre volte», afferma
Francesco Ferri, del Tavolo asilo e immigrazione (Tai). «Immagini vergognose che
mostrano quello che l’Italia sta facendo alle persone e ai diritti
fondamentali», commenta l’eurodeputata Cecilia Strada, eletta da indipendente
con il Pd. Sui migranti ammanettati non ha voluto rilasciare alcun commento la
Commissione Ue, che ribadisce di non ritenere il progetto albanese in contrasto
con il diritto comunitario e di stare accelerando per arrivare presto alla lista
comune dei paesi sicuri.
Sull’operazione di ieri le autorità italiane non hanno dato comunicazioni
ufficiali. Quaranta persone sono state prelevate da molti dei Cpr operativi sul
territorio nazionale, ma non da quelli di Trapani e Macomer. Non si conoscono
però le nazionalità, né i dettagli dello status giuridico. Tutte informazioni
che verificherà oggi Strada in un’ispezione a Gjader per parlare con i
trattenuti. «Ci è stato detto che i rispettivi avvocati non sono stati informati
di nulla», afferma l’europarlamentare. «Per i trasferimenti dei detenuti tra i
penitenziari non c’è l’obbligo di comunicazione alla difesa, ma visto che in
questo caso lo spostamento è avvenuto verso l’estero sarebbe stato corretto
informare i legali affinché il diritto di difesa fosse stato tutelato
dall’inizio», dice l’avvocato Gennaro Santoro, di ritorno dall’Albania.
A QUANTO RISULTA al manifesto – in attesa di conferma ufficiale – almeno tre
persone sarebbero state prelevate dal Cpr di Brindisi Restinco, tra loro un
cittadino del Bangladesh e uno della Nigeria.
All’arrivo i migranti sono rimasti per qualche ora nell’hotspot di Shengjin,
dove sono stati fotosegnalati anche dalla polizia albanese. Il meccanismo è
previsto dal protocollo ma l’intervento di un’autorità straniera segnala ancora
una volta che un’equiparazione perfetta tra i centri in Albania e quelli in
Italia, sostenuta dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è solo
un’ipotesi.
IN UN LUNGO comunicato l’ong Amnesty international denuncia il «totale disprezzo
per i diritti umani», segnalando come il nuovo provvedimento possa «incidere
negativamente sulle relazioni familiari e personali di persone che vivono da
tempo in Italia».
Non pervenuto il Garante nazionale dei detenuti. Il nuovo collegio
dell’istituzione di garanzia nominato dal governo Meloni non ha espresso alcuna
posizione sulla deportazione e sul trattenimento nei centri d’oltre Adriatico
dei migranti “irregolari”, né risultano visite ispettive nelle strutture aperte
ormai sette mesi fa.
Il Garante non è nemmeno stato convocato nelle audizioni che la commissione
Affari costituzionali della Camera sta svolgendo per la conversione in legge del
decreto che estende l’uso delle strutture. Eppure un terzo della paginetta
scritta come relazione tecnica che accompagna la legge riguarda proprio questa
istituzione e le sue «attività di monitoraggio».
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Nuovi documenti dimostrano che la “missione di assistenza alle frontiere”
dell’UE in Libia si sta lentamente espandendo e sta entrando in una “fase di
consolidamento”. Gli sforzi per “stabilizzare” il paese nordafricano includono
una maggiore cooperazione con Frontex. Nel frattempo, a gennaio, un criminale di
guerra ricercato è stato arrestato in Italia, per poi essere rilasciato e
riportato in Libia su un jet governativo. Questo atto ha reso l’Italia e la
dipendenza dell’UE dagli attori del terzo stato per mantenere chiara la loro
politica migratoria. I politici in Europa considerano le loro politiche
migratorie così essenziali da essere disposte a minare il cosiddetto ordine
internazionale basato sulle regole per mantenerle.
di Statewatch
Riepilogo
* La missione dell’UE di assistenza alle frontiere in Libia (EUBAM Libia) è in
vigore dal maggio 2013
* Lavora per aumentare la capacità delle “autorità libiche competenti” di
affrontare “la criminalità transfrontaliera, tra cui la tratta di esseri
umani e il contrabbando di migranti” e il terrorismo.
* Documenti trapelati mostrano che l’UE percepisce un rinnovato “appetito”
dalla parte libica per la cooperazione
* Mentre il nuovo piano operativo della missione era stato rinnovato, il
governo italiano stava aiutando un criminale ricercato, Al Masri, a sfuggire
alla giustizia.
* Lo hanno riportato in Libia, dove ha presumibilmente commesso omicidi,
torture e stupri mentre aiutava a “contenere” la migrazione attraverso il
Mediterraneo – un chiaro segno dell’Italia e della dipendenza dell’UE dai
“forti” locali per far rispettare la loro politica migratoria.
* L’impunità di individui come Al Masri è una testimonianza del fallimento
legale e morale dell’approccio dell’UE alla migrazione.
Valutazione strategica per levata
Dal maggio 2013, la missione di assistenza alle frontiere dell’UE in Libia
(EUBAM Libia) ha lavorato per migliorare la capacità delle autorità e delle
agenzie libiche competenti di gestire i confini della Libia, combattere la
criminalità transfrontaliera, tra cui il traffico di esseri umani e il traffico
di migranti, e contrastare il terrorismo.
Il suo mandato specifico è cambiato nel tempo. L’ultimo aggiornamento, approvato
nel giugno 2023, ha introdotto riferimenti specifici alla criminalità
transfrontaliera, al traffico di migranti e al traffico di esseri umani e al
terrorismo. La missione svolge un ruolo importante nell’estensione
dell’approccio dell’UE all’esternalizzazione e al contenimento della migrazione
sui contenuti africani.
L’anno scorso, EUBAM Libia ha prodotto una valutazione strategica intermedia del
suo lavoro (pdf). La relazione è stata diffusa a luglio e funzionari nazionali
dell’UE. Evidenzia il presunto successo delle collaborazioni di sicurezza e
degli scambi di informazioni della missione con le autorità libiche.
Secondo il rapporto, il Ministero dell’Interno libico del governo dell’unità
nazionale (GNU) ha un rinnovato “appetito” per la cooperazione con l’UE e le sue
missioni in materia di sicurezza. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda
le indagini penali e il terrorismo.
La relazione allude all’instabile situazione politica nel Sahel come motivazione
per questa cooperazione. L’UE deve continuare a promuovere il “senso di
proprietà” dei libici in queste materie.
Il rapporto trapelato indica generalmente che, al momento della stesura, la
missione stava entrando in una fase di “consolidamento”. Esprime che il sostegno
dell’UE alle autorità libiche sulla gestione delle frontiere sta avanzando in
modi “positivi”.
Piano operativo pervaso
Tuttavia, un documento più recente visto da Statewatch evidenzia l’impegnativo
contesto di sicurezza in cui opera la missione. Ciò include la mancanza di
autorità statale nel sud della Libia. Il documento, un piano operativo riveduto
per EUBAM Libia, è stato inviato dal Servizio europeo per l’azione esterna al
comitato politico e di sicurezza del Consiglio per la discussione a metà
gennaio.
Entrambi i documenti alludono ai problemi del personale dell’UE a causa delle
difficoltà di consegna dei visti. Ciò rende difficile per il personale dell’UE
con sede in Libia assumere personale di sicurezza europeo, ad esempio.
Gli sforzi di EUBAM per aumentare il controllo delle autorità libiche sui
confini del paese dando potere alle sue istituzioni di sicurezza avranno
evidenti effetti negativi. Sarà chiaramente a scapito delle migliaia di persone
che sperano di fare il pericoloso traversato del Mediterraneo.
Il piano operativo fa inoltre riferimento agli sforzi in corso per rafforzare la
cooperazione con le agenzie dell’UE per la giustizia e gli affari interni, in
particolare Frontex. Il ruolo di Frontex nel facilitare i pullback in Libia
attraverso la sorveglianza aerea è stato documentato da Human Rights Watch e da
altri.
L’UE è molto consapevole delle critiche sul loro approccio alla migrazione nel
Mediterraneo centrale, affermando nel piano operativo che:
“Il sostegno fornito alle autorità di frontiera libiche dall’Unione europea e
dai suoi Stati membri continua ad essere sottoposto a un pesante esame e le
accuse di complicità dell’UE nella pratica del respingimento sono state
ripetutamente fatte da numerosi gruppi internazionali per i diritti umani,
attivisti e politici”.
Gestione integrata delle frontiere in Libia
L’UE ha istituito EUBAM Libia nel 2013 nel quadro della politica di sicurezza e
di difesa comune dell’UE (PSDC). È stato un veicolo centrale per cercare di
esportare il modello di “gestione integrata delle frontiere” dell’UE nel paese
nordafricano. Nel giugno 2023, il mandato di EUBAM è stato rinnovato fino alla
fine di giugno di quest’anno.
Come parte della missione, nell’ottobre 2023, è stato firmato un memorandum
d’intesa tra EUBAM Libia e funzionari libici. Questo aveva l’obiettivo
dichiarato di:
“… rafforzare la cooperazione e il coordinamento tra la missione EUBAM e le
istituzioni libiche nella gestione e nella sicurezza delle frontiere libiche e
nella lotta contro i crimini di frontiera e il terrorismo”.
Nello stesso periodo, la missione è stata discussa nel gruppo di lavoro dell’UE
sugli aspetti esterni della migrazione. Una nota della presidenza ungherese del
Consiglio dell’UE ha suggerito che in futuro ci sarebbero “invoci di esperti
dell’EUBAM su base regolare nelle agenzie libiche, come la Guardia costiera
libica”.
L’attuale capo missione di EUBAM Libia, Jan Vyàtal, è stato in occasione
dell’incontro per fare una presentazione (pdf). Ciò ha affermato che per
adempiere al suo mandato di sostenere la gestione delle frontiere e contrastare
la criminalità e il terrorismo, la missione ha un “approccio a tre pilastri”.
Secondo la presentazione, la missione fa questo attraverso:
* Infrastrutture e attrezzature
* Modernizzare i punti di controllo
* Fornire attrezzature essenziali
* Sostenere lo sviluppo delle infrastrutture
* Costruzione di capacità
* Programmi di formazione
* Scambio di conoscenza
* Sfrutta le competenze UE/Stati membri, incluso l’impiego di team
specializzati e di esperti in visita
* Migliorare la capacità
* Migliorare le capacità investigative
* Migliorare le tecniche di rilevamento
* Facilitare la condivisione delle informazioni
* Sostegno alle iniziative regionali
Gestione integrata delle frontiere
La gestione integrata delle frontiere (IBM) è un concetto introdotto per la
prima volta dalla Commissione europea nel 2002.
È l’assi principale del sistema di controllo delle frontiere e della gestione
della migrazione dell’UE e si basa sul “modello di controllo degli accessi a
quattro livelli”. Questo è composto da:
“… misura nei paesi terzi, come nell’ambito della politica comune dei visti, le
misure con i paesi terzi limitrofi, le misure di controllo delle frontiere
esterne, l’analisi dei rischi e le misure all’interno dello spazio Schengen e il
rimpatrio.”
Tra le “misure nei paesi terzi” c’è l’esportazione del modello IBM stesso. È un
aspetto integrante della strategia dell’UE di esternalizzazione del controllo
delle frontiere e può includere:
* il distacco dei funzionari di collegamento europei a Stati non UE per
consentire la raccolta e lo scambio di informazioni;
* la firma di accordi di riammissione, per facilitare le deportazioni; e
* il trasferimento di conoscenze e tecniche di gestione delle frontiere
attraverso la formazione di funzionari provenienti da Stati terzi.
Diverse politiche e strumenti dell’UE hanno contribuito a formare e rafforzare
l’apparato di sicurezza della Libia. Questi sono spesso sottoposti a
un’assistenza tecnica per la gestione integrata delle frontiere (IBM).
Le fonti di finanziamento hanno incluso il Fondo fiduciario di emergenza dell’UE
per l’Africa, un fondo multimiliardario istituito nel 2015 per affrontare le
“cause profonde” della migrazione nel continente africano. La “finestra di
finanziamento” del Nord Africa ha sostenuto molteplici progetti che coinvolgono
le autorità di sicurezza di paesi come la Tunisia, il Marocco e, soprattutto, la
Libia.
Il sostegno dell’UE a progetti integrati di gestione delle frontiere è stato
anche parte integrante del cosiddetto guardia costiera libici. Due fasi di
finanziamento hanno fornito assistenza tecnica e formazione che hanno fatto sì
che l’entità potesse operare nella regione di ricerca e salvataggio marittima
libica, che è stata ufficialmente dichiarata nel 2018.[1]
L’Italia è stata responsabile del trasferimento di tali fondi e ha svolto un
ruolo centrale nel sostenere la guardia costiera libica. L’approccio del paese
alla migrazione in tutto il Mediterraneo centrale è stato coerente dal 2017,
quando è stato concordato il memorandum d’intesa Italia-Libia sulla migrazione.
Il memorandum è stato rinnovato nel 2020.
Appello all’UE di sostenere la giustizia internazionale
Alcune settimane dopo che il nuovo piano operativo di EUBAM è stato discusso dai
funzionari del Comitato politico e di sicurezza dell’UE, il governo di Giorgia
Meloni era impegnato ad aiutare il capo della polizia giudiziaria libica, Osama
Almasri Najim, viaggiare dall’Italia alla Libia.
Al Masri è ricercato dalla Corte penale internazionale (CPI) per crimini di
guerra e crimini contro l’umanità tra cui omicidio, tortura e stupro, risalenti
al 2015. È stato arrestato a Torino il 19 gennaio mentre partecipava a una
partita di calcio, ma è stato poi riportato a Tripoli su un aereo del governo
italiano. All’arrivo, fu accolto da un esuberante gruppo di uomini, cantando e
visibilmente felicissimo del suo ritorno.
Tre settimane dopo, l’11 febbraio 2025, David Yambio era al Parlamento europeo
per parlare in una conferenza stampa. Yambio è il fondatore di Refugees in
Libia, un’organizzazione che sostiene rifugiati, richiedenti asilo e migranti in
Libia “che sono sottoposti a violenza e resi vulnerabili attraverso innumerevoli
mezzi”.
Yambio ha espresso la sua schiacciante delusione per la decisione del governo
italiano di ignorare il mandato di arresto internazionale per l’uomo che
presumibilmente lo ha torturato in una prigione libica. Ha invitato l’UE a
sostenere le attività e il mandato della CPI.
Al Masri, un criminale di guerra ricercato
Yambio non è l’unico critico del sostegno dato ad Al Masri dal governo di
Giorgia Meloni. L’avvocato internazionale Omer Shatz ha condannato le azioni
dell’Italia e ha sottolineato che potrebbero essere lette come una silenziosa
confessione di collusione con Al Masri.
Shatz sostiene che la decisione dell’Italia di ignorare il mandato della CPI
dimostra, ancora una volta, la complicità del paese nei crimini contro i
migranti commessi dalle autorità e dalle milizie libici. Tali crimini sono stati
facilitati dall’approccio dell’UE alla migrazione nel Mediterraneo centrale.
Ci sono anche ramificazioni più ampie della decisione del governo italiano. È
arrivato in un momento in cui la CPI deve già affrontare sfide senza precedenti
alla sua legittimità. Un certo numero di stati europei sono rimasti non
impegnativi o hanno attivamente criticato i mandati di arresto della CPI per i
politici israeliani Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, per crimini di guerra
commessi a Gaza. Un recente ordine esecutivo firmato da Donald Trump impone
sanzioni ai dipendenti e agli agenti della corte.
Escludere i migranti ad ogni costo
L’apparente decisione personale di Meloni di ignorare il mandato di arresto
della CPI e aiutare Al Masri a fuggire in Libia è un segno della dipendenza
dell’Italia (e per estensione dell’UE) sugli uomini forti della sicurezza locale
per influenzare il controllo della migrazione per conto dell’UE.
L’UE sembra non aver condannato direttamente il mancato rispetto da parte del
governo italiano del mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Un
portavoce “riaffermato da tutti gli Stati membri dell’UE si era impegnato a
cooperare con la corte”, secondo euronews, nonostante la ricerca che suggerisce
il contrario, almeno per quanto riguarda i mandati di arresto per Netanyahu e
Gallant.
L’impunità di individui come Al Masri è una testimonianza del fallimento legale
e morale dell’approccio dell’UE alla migrazione. L’obiettivo di lunga data
dell’UE è quello di impedire ai migranti di raggiungere il territorio europeo,
ad ogni costo. Questo obiettivo sembra non avere limiti, anche se ciò comporta
l’erosione dell’autorità già fragile della CPI, come l’ordine liberale basato
sulle regole (così-desse) sconcertato in un crescente autoritarismo di destra.
Dello stesso autore: Kiri Santer
La documentazione
* Valutazione strategica interinale (ISA) EUBAM Libia 2024 (Consiglio).
12008/24, LIMITE, 5 luglio 2024, pdf)
* Presentazione su EUBAM Libia (Consiglio doc. WK 13216/2024 INIT, LIMITE, 21
ottobre 2024, pdf)
Nota
[1] Il SRR libico è stato comunicato all’Organizzazione marittima internazionale
nel 2018.
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Il fallimento dei centri costruiti in Albania per il trattenimento di
richiedenti asilo le cui domande sono esaminate con procedura accelerata non
potrebbe essere più clamoroso. Per riguadagnare credibilità il Governo corre ai
ripari e vara un decreto legge con cui li trasforma in centri per il rimpatrio.
Ma il rimedio è peggiore del male: la soluzione è in evidente contrasto con il
diritto europeo e rischia nuove bocciature.
di Gianfranco Schiavone da Volere la Luna
Il Protocollo Italia-Albania ratificato con la legge 21 febbraio 2024 n. 14
prevede che nelle strutture in Albania «possono essere condotte esclusivamente
persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare
territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche
a seguito di operazioni di soccorso» (art. 3 comma 2) nei cui confronti risulta
possibile applicare la cosiddetta procedura accelerata di frontiera per l’esame
delle domande di asilo. Per realizzare tale finalità è stata prevista, nella
struttura di Gjader, una parte di notevoli dimensioni, da adibire a funzioni di
hotspot (o centro di accoglienza) e una, molto più piccola, da adibire a centro
per il rimpatrio (CPR) per coloro la cui domanda di asilo sia stata rigettata e
in sede di ricorso, se presentato, non sia stata concessa la sospensione
dell’allontanamento.
Quanto accaduto negli ultimi mesi è ben noto. Non torno dunque sulle gravi
problematiche di legittimità di questa procedura, ma mi limito a evidenziare
che, nel recentissimo decreto legge n. 37 del 28 marzo, il Governo, pur negando,
contro ogni evidenza, che il testo del Protocollo sia stato modificato in
aspetti sostanziali ha cancellato l’esclusività di funzioni sopra indicata
prevedendo che nel piccolo CPR interno al centro di Gjader possano essere
condotte anche le persone che si trovano in Italia e che sono «destinatarie di
provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati ai sensi dell’articolo 14
del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998» (art. 1, comma 1,
lettera a). Inoltre, si è previsto che il trasferimento effettuato dalle
strutture di cui all’articolo 14, comma 1, del testo unico immigrazione (cioè i
CPR ubicati in Italia) al CPR interno alla struttura di di Gjader «non fa venire
meno il titolo del trattenimento adottato ai sensi del medesimo articolo 14, né
produce effetti sulla procedura amministrativa cui lo straniero è sottoposto»
(art. 1, comma 2, lettera b). In sintesi, secondo la nuova disciplina che
passerà nei prossimi giorni all’esame del Parlamento, è possibile aprire un
ordinario centro di detenzione amministrativa per eseguire coattivamente le
espulsioni anche fuori dal territorio nazionale e chi vi verrà trasportato non
si troverà neppure all’estero in quanto rimarrà sotto la giurisdizione italiana.
L’eventuale rimpatrio verso il Paese di origine sarà infatti eventualmente
attuato solo facendo rientrare la persona espulsa in Italia al termine del
trattenimento in Albania .
La nuova trovata del Governo italiano per salvare i centri in Albania finora
falliti pone una questione giuridica e politica di enorme rilievo che può essere
sintetizzata nella seguente domanda: può uno Stato membro dell’Unione Europea
collocare uno straniero, di cui è stata già decisa l’espulsione coattiva da
attuarsi attraverso il trattenimento amministrativo, in una struttura ubicata
fuori dal proprio territorio, in un paese terzo, assicurando comunque il
rispetto delle procedure e degli standard previsti dal diritto europeo sugli
allontanamenti forzati? È possibile aprire una tale tipologia di centri oggi in
Albania e domani magari altrove anche dall’altra parte del mondo?
Come la protezione internazionale, anche la materia dei rimpatri dei cittadini
stranieri che non sono in regola con le norme sul soggiorno in uno Stato membro
dell’Unione è regolata, seppure in modo più scarno rispetto al diritto di asilo,
dal diritto dell’Unione Europea sulla base della Direttiva 115/08/CE (oggetto,
tra l’altro, di una proposta di riforma presentata pochi giorni fa dalla
Commissione). In tale direttiva la nozione di “allontanamento” viene definita
come «l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico
fuori dallo Stato membro» (art. 3, par. 5) e per “rimpatrio” si intende «il
processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento
volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente» (par. 3). Il rimpatrio
normalmente si conclude nel paese di origine ma – va detto per inciso – può
concludersi anche in un paese terzo che svolge la funzione di «paese di transito
in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre
intese» (par. 3, seconda parte). In tal caso il paese terzo si assume
interamente la responsabilità della condizione giuridica della persona espulsa e
il processo di rimpatrio realizzato dallo Stato membro dell’Unione si conclude
con l’allontanamento della persona in tale Paese. Non è questo, ovviamente, il
caso dell’accordo tra Italia e Albania, la quale ultima non si assume in alcun
modo la gestione degli espulsi né dei richiedenti asilo.
Il diritto dell’Unione non autorizza in alcun modo la collocazione e la gestione
da parte di un Paese UE di una propria struttura di trattenimento al di fuori
del territorio dell’Unione: ciò in base sia alla interpretazione letterale che a
un’interpretazione sistematica e teleologica della norma. Lontano dalle
esasperazioni politiche che agitano il nostro oscuro presente, il diritto UE non
ha mai contemplato la possibilità che centri di trattenimento europei possano
venire aperti a piacimento in giro per il mondo e tuttora prevede che il
trattenimento per eseguire l’espulsione dal territorio di uno Stato membro può
essere applicato solo come ultima ratio, se non «possono essere efficacemente
applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive» e «soltanto per preparare
il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento» (art. 15, par. 1), inteso, come
sopra indicato, come trasporto fisico fuori dal territorio UE. Il trattenimento
deve essere il più breve possibile, deve essere periodicamente riesaminato per
valutare in concreto se ci sono le ragioni per proseguirlo e «se non c’è alcuna
prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per
altri motivi […], il trattenimento non è più giustificato e la persona
interessata è immediatamente rilasciata» (art. 15, par. 4). Gli stranieri
trattenuti devono avere la possibilità «di entrare in contatto, a tempo debito,
con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti» (art. 16,
par. 2) nonché con organizzazioni non governative di tutela, le quali «hanno la
possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea» (art. 16, par. 4).
L’accesso a tali diritti deve essere effettivo: non può stare solo scritto sulla
carta e non essere concretamente esercitabile, come avverrebbe in caso di
strutture ubicate al di fuori del territorio dello Stato membro dell’UE. Se il
centro di detenzione si trova in Albania o in Zimbabwe o in Kazakistan o chissà
dove, infatti, il familiare non può in concreto incontrare chi è trattenuto. La
esternalizzazione al di fuori dei confini dei centri di detenzione
amministrativa renderebbe difficile anche lo svolgimento ordinario delle visite
ispettive svolte da parlamentari e le stesse funzioni di monitoraggio e
controllo svolte dal Garante nazionale per le persone private della libertà
personale non potrebbero essere svolte in modo efficace. La conclusione è
evidente: in centri di detenzione ubicati al di fuori degli Stati dell’Unione
non è possibile attuare il trattenimento «nel pieno rispetto dei diritti
fondamentali» (considerando n. 17) e si può ben dire che le persone in essi
rinchiuse sarebbero di fatto ostaggi di un potere arbitrario.
A quanto sopra il Governo italiano risponde sostenendo che i CPR in Italia sono
pienamente equivalenti con il CPR in Albania in quanto entrambi sottoposti alla
giurisdizione italiana e che il trasporto all’estero delle persone espulse
sarebbe una semplice “finzione” e conclude affermando il pieno rispetto, nei
trasferimenti coattivi indicati, sia delle garanzie previste dall’articolo 13
della Costituzione sia delle previsioni del diritto europeo. È peraltro
evidente, alla luce di quanto si è detto, che tali fumose tesi sono
semplicemente una sorta di gioco di parole o di truffa delle etichette per
coprire l’ennesimo radicale strappo che si sta consumando nel nostro ordinamento
giuridico.
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