Tag - migranti

Corpi senza tomba. Storia di Mohamed Amine e gli altri dispersi di Bizerte
La speranza e il dolore Farah che continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto tragica, raccontata di Luna Casarotti – Yairaiha ets da Monitor Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa. Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui non si sono mai più trovate tracce. Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione fosse veritiera. Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, pertanto il nominativo rimane sconosciuto. Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata. La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del 2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania. Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi dalla stampa. Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti (Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo, i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta nessuna traccia. Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. – Memoria Mediterranea, ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al suo nome, in caso di ritrovamento. Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile. Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto tragica, raccontata. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 22, 2025 / Osservatorio Repressione
Il governo Meloni rilancia la persecuzione degli immigrati
Il Corriere titola “Il Viminale a prefetti e questori: aumentare i rimpatri, un terzo di chi viene denunciato o arrestato è straniero“. Durante la conferenza dei prefetti e dei questori d’Italia, Piantendosi ha rilanciato la persecuzione degli immigrati. E ha dato i numeri che “dimostrerebbero che gli stranieri irregolari hanno una tendenza alla delittuosità superiore a quella dei regolari e degli italiani”_ di Salvatore Turi Palidda da pressenza “Su un totale di 822.801 persone arrestate o denunciate nel 2024, il 34,72% sono stranieri. In particolare, tra gli arrestati o denunciate gli stranieri sarebbero quindi 285.676 e di questi 23,80% per omicidio volontario; il 35,73% per tentato omicidio; il 43,99% per violenza sessuale; il 47,84% per furto; il 52,47% per rapina; il 39,52% per reati in materia di stupefacenti; il 43,25% per sfruttamento della prostituzione”. Questi sarebbero i dati che avrebbero spinto il governo “a dare un forte input a prefetti e questori ad aumentare i rimpatri di migranti irregolari”. E’ la direttiva a prefetti e questori d’Italia fra le politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, in presenza della duce Meloni e altri. Secondo loro questi dati sono la dimostrazione che “gli stranieri irregolari hanno una tendenza alla delittuosità superiore a quella dei regolari e degli italiani”. Per mostrare la loro efficienza persecutoria in tale riunione è stato sbandierato anche il successo di aver espulso a forza 5.406 nel 2024, il 14% in più rispetto al 2023, e un aumento del 12% rispetto al 2022 quindi nel 2024, 29% in più sugli espulsi 2021. E il governo vanta anche un calo degli arrivi di migranti nel 2024 (66.317 contro i 157.651 del 2023), anche se complessivamente c’è stato un aumento del 26% tra il 2022 e il 2024. Guardando bene questi dati appare palese che non c’è alcuna dimostrazione che gli immigrati irregolari abbiano una tendenza alla delittuosità superiore a quella dei regolari e degli italiani. Innanzitutto perché: 1) l’arresto o la denuncia non è ancora condanna e quindi prova giudiziaria del reato di cui è imputata la persona che ne è oggetto; 2) come scrivono anche Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei in articolo per ilSole24ore : “Quasi i due terzi dei fascicoli usciti dalle procure non va a giudizio (e le condanne per i reati ‘minori’ sono meno del 37%)”; inoltre “il 54,8% dei processi definiti nel giudizio ordinario si è concluso con un’assoluzione. La quota di assoluzioni arriva al 68,7% (dati forniti dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, durante l’inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2022 che da anni non variano molto -cfr. ibidem); 3) trent’anni di ricerche sulle pratiche delle polizie (vedi riferimenti in nota) dimostrano che sistematicamente gli immigrati, così come i rom e anche i marginali se non i poveracci, sono le “prede facili” nei controlli, denunce e arresti : è quello che si chiama il “delitto di aspetto somatico o di aspetto (in francese délit de faciès). In altre parole, è assai frequente che gli operatori delle polizie che perlustrano le strade fermino abitualmente queste categorie di persone anziché quelli che hanno l’aspetto da italiano o da persona considerata “perbene”. E se cittadini perbenisti protestano più volte perché sotto casa loro sostano degli immigrati o dei rom o dei marginali, gli operatori di polizia sono allora sollecitati a fare “pulizia etnica e sociale” e anche se questi perseguitati non hanno commesso alcun reato “se lo inventano” (come racconta anche uno di loro). “Bisogna toglierli dalla strada. Danno fastidio. Non c’è altra soluzione che imputarli magari di più reati così non escono” (testimonianza di altri operatori di polizia che coincidono con quelle di avvocati e operatori sociali). Inoltre, non è difficile far passare un semplice litigio per un tentato omicidio o un tentato furto magari di un bene alimentare di qualche euro per tentata rapina (perché il ladruncolo ha cercato di scappare alla “presa” della guardia del supermercato che per giunta dichiara di essere stato aggredito e dispone della testimonianza a favore dell’amica cassiera. E’ quindi probabile che quel 34,72% di denunciati e arrestati sia alquanto gonfiato proprio a causa della criminalizzazione razzista dell’immigrato, del rom e del marginale in genere, che qualifica la produzione delle polizie, ma non sempre quella dei magistrati, anche se una parte di questi – apriori – prendono per oro colato quello che scrivono le polizie nelle loro relazioni all’Autorità Giudiziaria. Infine, è da 50 anni che l’Italia sfrutta l’immigrazione irregolare con leggi che impediscono l’arrivo e l’integrazione regolare perché oltre il 35% dell’economia italiana è costituita da economie sommerse, cioè semi-precariato e lavoro nero, caporalato anche criminale (si vede la stima Eurispes che è un ente di ricerca che lavora anche per il governo).   Scaricabili gratuitamente: https://www.academia.edu/30790365/MIGRANTI_-_Devianza_e_vittimizzazione; Razzismo democratico; https://effimera.org/far-morire-lasciar-morire-la-scelta-tanatopolitica-del-governo-meloni-e-dei-suoi-ministri   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 19, 2025 / Osservatorio Repressione
La Cassazione smonta il processo all’accoglienza. Il modello Riace non è un crimine
La Cassazione chiude il caso giudiziario Mimmo Lucano e smonta la campagna delle destre. Non c’era truffa nell’accoglienza dei migranti: di una maxi condanna restano le briciole. Resta una condanna per falso ma il “modello” era valido. Il modello Riace non era un crimine, resta l’alternativa alle deportazioni in Albania  di Silvio Messinetti da il manifesto Dopo quasi 2500 giorni si conclude l’odissea giudiziaria di Mimmo Lucano. La Corte di Cassazione, al termine di cinque ore di camera di consiglio, pronuncia un verdetto solo in apparenza salomonico: rigettati i ricorsi della Pg e della difesa. Perché tra le pieghe del codice penale tutti i reati non hanno evidentemente lo stesso peso. E una truffa aggravata non è equiparabile ad un falso. Una linea, intanto, i giudici capitolini di piazza Cavour ieri pomeriggio l’hanno tracciata in via definitiva. Il sistema di accoglienza multietnica realizzato in questi ultimi venti anni nella Locride dall’europarlamentare di Avs e attuale sindaco di Riace non era una truffa. Respinto, dunque, in quanto giudicato inammissibile il ricorso della Procura generale di Reggio Calabria che chiedeva l’annullamento con rinvio della sentenza di appello che aveva assolto Lucano e altri 12 imputati dai reati di truffa ai danni dello Stato, abuso di ufficio e falso relativamente a 56 delibere comunali (quest’ultimo crimine ascritto al solo Lucano). IL MODELLO RIACE non era fraudolento e Lucano non si è arricchito come aveva sentenziato il tribunale di Locri nell’ottobre del 2021, condannandolo a 13 anni di reclusione e un milione di euro di multa. Una tesi demolita 2 anni più tardi dai giudici di seconde cure secondo i quali non si erano realizzata l’associazione a delinquere (la Procura generale, sul punto, non aveva nemmeno impugnato l’assoluzione), non si era verificata alcuna truffa e men che meno c’era stato arricchimento personale degli imputati. COME NOTO, all’inizio dell’inchiesta, i pm avevano accusato l’ex sindaco di Riace di una truffa «con conseguente ingiusto profitto di 10 milioni di euro». Per il Riesame, invece, la cifra era stata ridimensionata a 343mila euro cioè «la differenza tra quanto ottenuto e le spese realmente effettuate». La Corte d’Appello infine aveva certificato che Lucano non aveva preso nemmeno quelli. È vero che la Cassazione ha respinto ieri anche il ricorso incidentale presentato dalla difesa, che chiedeva l’annullamento della sentenza di appello per il falso relativo a una determina per un concerto, per la quale Lucano era stato condannato a un anno e mezzo. Ma trattasi di un fatto decontestualizzato dal sistema di accoglienza e che avrebbe avuto un senso processuale solo nel caso in cui fosse stata contestata la continuazione del reato ovvero l’istituto che punisce con un aumento di pena una pluralità di violazioni a seguito di plurime condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso. Ma i giudici di piazza Castello, sede della Corte di appello reggina, avevano già espunto tale “continuazione” a differenza degli omologhi locresi. E IL FALSO per il concerto è rimasto lì. Come un feticcio a cui si aggrappa ora disperatamente la propaganda della destra per dire che “Lucano è stato condannato in giudicato”. Senza considerare peraltro che falsitas quae nemini nocet non punitur, e dunque non dovrebbe essere neanche punibile una falsità che non nuoce a nessuno. La sentenza d’appello, che esce inalterata in toto, aveva accolto praticamente tutti i punti principali sollevati dai difensori, gli avvocati Pisapia e Daqua, e lanciato critiche acuminate alla sentenza di prime cure contestandone la dimensione elefantiaca «che offusca le ragioni della decisione», oltre che «l’integrale ed acritica trascrizione delle prove». UN APPROCCIO seguito dal collegio d’appello che aveva aperto una distanza abissale con i giudici di Locri a cui era stata contestata una malcelata politicizzazione della decisione a discapito delle tecnicalità giuspenaliste e della solidità dei capi d’imputazione. Nello specifico della truffa, unico reato di peso sindacato in Cassazione dalla Pg, sarebbe mancata «la prova degli elementi costitutivi del reato». Anche perché le intercettazioni, su cui si fondava l’impianto accusatorio, erano state giudicate inammissibili a causa di un utilizzo irrituale delle captazioni (sostenuto su questo giornale da autorevoli giuristi) dovuto al fatto che «esse furono inizialmente richieste ed autorizzate per i reati di cui agli artt. 317, 323 e 640 bis c.p. e sulla scorta della prima relazione ispettiva». Non era possibile, ovviamente, intercettare per l’ipotesi di abuso d’ufficio (poi tramutato in sentenza addirittura nel reato di truffa, di cui non vi è prova), per cui le captazioni erano state effettuate fuori dai casi previsti dalla legge.  Lucano è stato condannato in via definitiva a 18 mesi con pena sospesa vale a dire che non verrà applicata per un determinato periodo di tempo. Al termine del quale il reato si estinguerà. «Ora Riace diventi un esempio per l’Europa della solidarietà» «Sono felice. Ho inquadrato questa esperienza sotto la luce della lotta politica. Riguardava me, ma avrebbe potuto riguardare chiunque altro. Per me è stata un’esperienza legata a una militanza che non ho mai smesso di portare avanti». Dopo anni di processi e senso di solitudine, Mimmo Lucano si sente finalmente sollevato. La Corte di Cassazione ha messo una pietra tombale su un impianto accusatorio che voleva fare di Riace un modello criminale. Assolto per i reati più gravi – resiste all’ultimo grado di giudizio solo la condanna a 18 mesi per falso, con sospensione della pena – l’eurodeputato non perde il sorriso: «Sì, è vero è rimasta la condanna per falso. Però, a dire la verità, non capisco nemmeno la natura di questo reato. È un illecito amministrativo, che non ha alcuna valenza per me». Che idea si è fatto di ciò che è accaduto in tutti questi anni di processo? All’inizio non me ne rendevo nemmeno conto, ma a un certo punto ho capito che il potere non poteva permettersi di lasciare indisturbato ciò che stava accadendo a Riace. Riace aveva ribaltato il paradigma della narrazione criminale sulla migrazione anche grazie agli atteggiamenti spontanei della gente del posto, fatti di accoglienza e ospitalità. È un’antropologia che favorisce il senso di solidarietà. Io ho voluto legare tutto ciò a un valore politico: stare dalla parte dei più deboli, dei migranti, di chi vive nel disagio sociale. Crede ci sia stato un accanimento politico nei suoi confronti? L’esperienza di Riace è stata una vera e propria rivoluzione. Mi viene subito in mente Dino Frisullo, che mi ha fatto innamorare della questione curda e di quella palestinese. E anche il regista Wim Wenders, che ha parlato di Riace come di un’utopia che non poteva che essere ostacolata. Questa è una battaglia che mette in contrasto i valori della sinistra, basati su uguaglianza e solidarietà, con quelli della destra, che purtroppo parlano un altro linguaggio: quello del razzismo, della violenza, dei lager libici e dei torturatori. Cosa è rimasto oggi del modello Riace oggi? Riace oggi è ancora in piedi, nonostante tutte le difficoltà. Abbiamo resistito per cinque anni, anche sotto un’altra amministrazione comunale, ma ora vogliamo guardare al futuro. Non vogliamo che Riace diventi una delle tante realtà segnate dal declino sociale e dall’oblio. L’accoglienza è stata una speranza non solo per i migranti ma anche per le comunità locali: accogliere significa aprire nuove scuole, asili, oratori. Parlare di accoglienza in epoca di deportazioni a Guantanamo e in Albania? La questione migratoria è centrale in un dibattito mondiale che va dagli Stati Uniti all’Europa, passando per l’Italia e la Libia. Spesso le soluzioni proposte sono disumane. L’Italia ha contribuito a questa tragedia firmando i memorandum con la Libia nello stesso periodo in cui Riace veniva criminalizzata: non potevano permettere che un piccolo comune raccontasse una storia completamente alternativa. Cosa si augura per il futuro? Mi auguro che questa esperienza possa essere un esempio per l’Europa. Non un’Europa dei fili spinati, delle barriere, dei campi di internamento, ma un’Europa della democrazia, dell’accoglienza, della solidarietà. L’Europa deve scegliere: o continua su questa strada, o rinnega se stessa. Con questa sentenza, possiamo dire che il modello Riace non è solo un sogno, ma un futuro possibile. (intervista a cura di Rocco Vazzana per il manifesto) > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 13, 2025 / Osservatorio Repressione
La violazione dei diritti umani del governo Meloni
L’illegale raid anti-migranti della destra. Tutti i soprusi delle deportazioni in Albania. Dalle procedure accelerate all’esame fulmineo delle domande, il protocollo viola le norme in materia di minori, torturati, donne incinte, ammalati: tutti nei lager senza troppe storie… di Gianfranco Schiavone da l’Unità A diversi giorni dalla conclusione della terza missione attuata nell’ambito del Protocollo Italia-Albania, è necessario esaminare alcune problematiche giuridiche molto serie che hanno riguardato quella procedura, e che, comprensibilmente, sono passate un po’ sotto silenzio in quanto assorbite dalla dirimente questione a tutti nota, ovvero la decisione della Corte d’appello di Roma di non procedere alla convalida dei decreti di trattenimento dei 43 richiedenti asilo rinchiusi nella struttura di Gjader ritenendo con ordinanza n. 478/2025 RG che “l’applicazione della procedura accelerata ha determinato una compressione dei diritti del richiedente, al di là della sua situazione soggettiva e, pertanto, si rende necessario verificarne la legittimità anche in ordine alla effettiva sussistenza dei presupposti giustificativi della medesima” e dunque sollevando un rinvio pregiudiziale alla CGUE, in analogia a quanto aveva fatto in precedenza la sezione specializzata del Tribunale di Roma, ora estromessa nelle sue funzioni dalla riforma introdotta con L. 187/2024. Le questioni su cui richiamo l’attenzione riguardano: a) l’individuazione delle cosiddette situazioni vulnerabili tra i migranti soccorsi che vanno esclusi dall’applicazione della procedura accelerata di frontiera e dal trattenimento nei centri in Albania; b) il fatto che l’esame di tutte le domande di asilo si sia concluso in meno di 24 ore dall’arrivo in Albania degli stessi richiedenti asilo; c) l’effettiva possibilità per i richiedenti asilo trattenuti nel centro di Gjader di accedere ad una tutela legale. Le condizioni di vulnerabilità per le quali la normativa dispone l’esclusione dall’applicazione della procedura di frontiera sono molteplici; si tratta di: minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne, con priorità per quelle in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta di esseri umani, persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legata all’orientamento sessuale o all’identità di genere, vittime di mutilazioni genitali. Il riconoscimento dell’esistenza di alcune vulnerabilità può essere agevole e veloce ma in molti casi invece non è affatto immediato ma richiede procedure specifiche e complesse, in particolare nel caso dei minori non accompagnati, dalle vittime di tratta, dalle vittime di tortura o di altri gravi forme di violenza. Nel caso sorgano dubbi fondati in relazione all’età, le procedure di accertamento vanno svolte “in un ambiente idoneo con un approccio multidisciplinare da professionisti adeguatamente formati e, ove necessario, in presenza di un mediatore culturale, utilizzando modalità meno invasive possibili e rispettose dell’età presunta, del sesso e dell’integrità fisica e psichica della persona” (d.lgs 142/2015 art. 19 c.6). L’accertamento “socio-sanitario è effettuato dalle equipe multidisciplinari e multiprofessionali previste dal Protocollo multidisciplinare per la determinazione dell’età dei minori stranieri non accompagnati, adottato con accordo sancito in sede di Conferenza unificata di cui al d.lgs 281/97 art. 9 c.2 lettera c)”. L’applicazione di procedure derogatorie che prevedono accertamenti dell’età condotti in modo più sommario, anche se previste dalla richiamata normativa (art. 19 c. 6ter) sono di assai dubbia legittimità (specie nel caso, come l’Albania, nel quale i migranti sono condotti forzatamente in quel paese invece che nel territorio nazionale a conclusione dei soccorsi) in ragione della irragionevole disparità di trattamento verso situazioni giuridicamente uguali. Le Linee guida relative agli interventi di assistenza, riabilitazione e trattamento dei disturbi psichici dei rifugiati e delle persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, attuative del D.Lgs 18/2014 (decreto ministeriale 3.04.2017- Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 95 del 24-4-2017), pertanto fonte secondaria vincolante per l’Amministrazione, evidenziano come “la tortura non è immediatamente e facilmente riconoscibile specie quando, come nella maggior parte dei casi, non ha lasciato esiti visibili sul corpo e per essere individuata necessita di particolari condizioni ambientali e di relazione”; proprio in relazione alle operazioni di soccorso in mare e alle successive operazioni di sbarco le stesse Linee Guida sottolineano in modo esplicito come nei casi di “vittime di tortura o trauma estremo, le vulnerabilità non sono rilevabili durante le procedure di soccorso e identificazione al porto, spesso caratterizzate da tempo limitato e setting inadeguato”. Nelle Procedure Operative Standard (SOP) diramate dal Ministero dell’Interno e dall’UNHCR nel 2021 e relative alla “Emersione e Referral delle persone sopravvissute a/o a rischio di violenza di genere nel contesto della procedura di asilo” si evidenzia come “L’emersione può avvenire gradualmente e può includere una, più o meno diretta, richiesta di aiuto da parte della persona stessa. L’emersione delle vulnerabilità e dei bisogni particolari delle persone richiedenti asilo è propedeutica alle azioni che devono essere messe in atto per garantire alla persona adeguata tutela, sostegno, protezione e l’accesso a percorsi di supporto”. Si faccia attenzione: i citati documenti non delineano delle generiche raccomandazioni finalizzate a definire dei setting ideali, ma delle precise procedure che vanno rispettate al fine di dare attuazione al dettato normativo che esclude le categorie vulnerabili dall’applicazione dlela procedura di frontiera. Le operazioni di screening attuate durante le operazioni di trasporto dei migranti con le navi militari e nei centri in Albania avvengono sulla base di indicazioni operative non rese note, il che rende impossibile valutarle appieno, ma da quanto è dato sapere esse non sembrano rispondere ai requisiti minimi necessari. A poco serve sostenere che una procedura di screening propedeutica anche all’individuazione delle situazioni vulnerabili è prevista dal nuovo Reg. (UE) 2024/135 che troverà applicazione nel 2026; invocare tale Regolamento (non applicabile al momento, e altresì molto criticato) non fa che rinforzare la tesi della radicale inadeguatezza delle operazioni attualmente condotte in Albania; oltre a prevedere la presenza di personale qualificato e di procedure definite, il Regolamento prevede l’esistenza di un meccanismo di monitoraggio indipendente (art.10) al quale devono poter avere accesso anche associazioni ed enti di tutela non governativi; ciò è del tutto assente nella procedura in Albania. Sono dunque certamente fondate le osservazioni contenute in un documento-appello steso dalle equipe mediche di MSF, Emergency, Mediterranea, SIMM, SOS Humanity laddove si evidenzia che “le procedure di screening e i criteri utilizzati per esaminare la vulnerabilità delle persone presentano elementi estremamente gravi e concorrono a determinare un sistema di selezione e deportazione che contraddice i valori deontologici della nostra professione” (Appello per una presa di posizione su criticità medico-sanitarie e rischi di salute per le persone migranti inerenti l’accordo Italia-Albania, 15.11.24). La percentuale di migranti provenienti dalla Libia che vengono sottoposti a tortura, violenze estreme, stupri e a trattamenti inumani e degradanti è elevatissimo, come attestano tutte le fonti internazionali: nel rapporto curato congiuntamente dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), dall’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati e dal Mixed Migration Centre (MMC), intitolato “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori” (2024) emerge come circa il 40% delle persone transitate in Libia sono state vittime di gravi violenza (anni 2020-2023). Nella relazione di accompagnamento al Rapporto del 2.05.23 della missione d’inchiesta in Libia dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani si sottolinea come “ la Missione ha trovato ragionevoli motivi per credere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica, dell’Apparato di sostegno alla stabilità e della Direzione per la lotta alla migrazione illegale abbia collusioni con trafficanti e contrabbandieri” e altresì che “La tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali” (A/HRC/52/83, paragrafo 44) e infine che “il Rapporto della Missione d’inchiesta solleva inoltre preoccupazioni in merito alle prove di tortura nei centri di detenzione sotto il controllo della Direzione per la lotta alla migrazione illegale (par. 48), nonché alle prove di stupro e schiavitù sessuale (par. 50-52)”. Nell’agghiacciante rapporto “ State Trafficking” curato da un gruppo di ricercatori internazionali, sostenuto da ASGI e Border Forensics presentato al Parlamento Europeo il 20.01.25 viene descritto in modo dettagliato un esteso fenomeno di vera e propria compravendita di esseri umani tra la Tunisia e la Libia che vede la piena responsabilità delle autorità dei due Paesi. Considerato che il numeroso gruppo di richiedenti asilo oggetto della terza operazione realizzata nell’ambito del protocollo Italia-Albania fosse interamente proveniente dalla Libia, è dunque doveroso chiedersi come mai non è stata individuata pressochè nessuna vittima di tortura o gravi violenze, né in fase di screening, prima delle audizioni da parte della Commissione territoriale per il diritto d’asilo, e neppure durante le audizioni stesse. È irragionevole pensare che l’intero gruppo di richiedenti fosse composto da persone che, tutte miracolosamente, non avevano subito alcuna grave violenza, né nel paese di origine, né in Libia e negli altri paesi di transito. E se tali gravi violenze sono invece emerse nella forma di testimonianze dei richiedenti, perché, anche nelle more di ulteriori accertamenti, tali richiedenti non sono stati esclusi dalla procedura accelerata di frontiera ? Si tratta di interrogativi la cui non infondatezza è evidente e che gettano un’ ombra molto pesante sull’intera operazione. FINE PRIMA PARTE (CONTINUA)   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 12, 2025 / Osservatorio Repressione
Migranti & spionaggio: Mediterranea Saving Humans deposita esposto per il caso Paragon
Il team legale di Mediterranea Saving Humans, con gli avvocati Fabio Lanfranca e Serena Romano, ha depositato un esposto al Centro di sicurezza cibernetica della Polizia di stato di Palermo. Obiettivo: chiedere agli inquirenti di accertare cosa sia successo e chi ha ordinato lo spionaggio del telefono del fondatore della Ong, Luca Casarini, da parte dello spyware Graphite, messo a punto dalla società israeliana Paragon Solutions e in uso solo a Governi, forze di polizia e Servizi segreti. Il reato ipotizzato nell’esposto, al momento, è quello relativo all’articolo 615 ter del codice penale, ossia accesso abusivo a sistema informatico. “Stiamo però attendendo – spiegano i legali – l’esito di altre analisi, per capire se sono ipotizzabili anche altri tipi di reato, ad esempio, nel caso in cui lo spionaggio fosse avvenuto anche a telefono spento, tramite foto e video”. Commentando l’esposto, Luca Casarini aggiunge: “E’ giusto che tutti coloro che sono stati vittime di questo meccanismo di spionaggio, chiedano conto al governo italiano e agli organi inquirenti di far luce su questa vicenda. Io credo, ma è solo una mia opinione personale, che poi eventualmente dovrà essere confermata o meno dalle indagini, che il tema sia quello dei rapporti tra Italia e Libia, le condizioni disumane a cui vengono sottoposti donne, uomini e bambini, in virtù di un accordo indicibile”. Proprio in Libia, nelle ultime ore, sono state rinvenute altre due fosse comuni; all’interno il corpo di almeno una cinquantina di migranti, tra Jakharrah (400 km a sud di Bengasi) e il deserto sudorientale di Alkufra. Il bilancio, purtroppo, è al momento solo parziale. L’intervista di Radio Onda d’Urto a Laura Marmorale, presidente di Mediterranea Saving Humans. Ascolta o scarica   > Un software di spionaggio israeliano sorveglia giornalisti e attivisti nel > mondo > Lo spyware usato solo dai governi. Il bluff di palazzo Chigi       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 10, 2025 / Osservatorio Repressione
La continua riproduzione degli affari sporchi italo-libici
Il recente crimine del governo italiano con la liberazione del boia Almastri accompagnato a casa sua con un volo di stato fa ricordare i vecchi e orribili rapporti tra Italia e Libia di Salvatore Palidda Come tutti i paesi colonizzatori, l’Italia continua a fare affari sporchi con la Libia. Massacri di migranti, accaparramento di petrolio, terre rare ecc. Dopo Gheddafi, l’accordo con i criminali diventati i padroni della loro sicurezza è sacro per qualsiasi governo italiano, a sbafo di ogni legalità nazionale e internazionale, inchinandosi persino al boia Almastri. Il recente crimine del governo italiano con la liberazione del boia Almastri accompagnato a casa sua con un volo di stato fa ricordare i vecchi e orribili rapporti tra Italia e Libia. La colonizzazione italiana della Libia fu l’ultima grande guerra di Mussolini, i cui crimini di guerra furono insabbiati dagli inglesi e dagli americani e poi, per molto tempo, dalle autorità italiane, dopo la seconda guerra mondiale. Il più coraggioso e importante storico delle vicende coloniali italiane, Angelo Del Boca, fu a lungo bandito perché rivelò crimini di guerra che l’Italia non voleva riconoscere e pagare. Fu Berlusconi a stabilire nel 2008 con Gheddafi un trattato “dopo 40 anni di incomprensioni” … per “Meno immigrati clandestini sulle nostre coste e più petrolio” e per “Amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”. Gheddafi fu accolto a Roma con tutti i più grandi onori, offrendogli ampi spazi per allestire il suo accampamento e quello del suo foltissimo seguito. L’Italia accettò di risarcire l’ex colonia con cinque miliardi di dollari in vent’anni. Ricordiamo che l’Italia era contraria all’eliminazione di Gheddafi, ma poi ha sperimentato ogni sorta di stratagemmi incredibili per mantenere relazioni privilegiate con la Libia, in dura competizione con la Francia, gli inglesi e altre potenze neocoloniali. Fu l’allora ministro dell’Interno Minniti del Partito Democratico (PD, ex-sinistra) a perseguire nel 2010 l’intesa a tutti i costi con i libici (vedi anche Carine Fouteau, e anche qui). Con l’opera dell’altro importante dirigente del PD Violante e di D’Alema, questo partito è diventato il primo referente politico della lobby militare e di polizia in Italia; oggi Minniti e Violante sono diventati alti dirigenti della Leonardo, la multinazionale italiana degli armamenti e anche i nuovi grandi amici della duce Meloni. Fu Minniti lui ad inviare agenti dei servizi segreti italiani all’hotel Gammarth di Tunisi (si veda questo video-reportage) per consegnare 10 milioni di dollari al fratello del criminale (vedi anche un altro reportage di Lorenzo Cremonesi). Non è un caso che Minniti sia stato definito dal New York Times “Lord of the spies”. Secondo le testimonianze di alcuni migranti e della presidente di Medici senza Frontiere, Joanne Liu (cfr. la sua lettera inviata alle autorità europee), e anche secondo la commissaria europea Cecilia Malmström, i migranti arrestati da tale milizia erano alla mercé di rapine, brutalità, torture, schiavitù e violenze sessuali. I reportage di Lorenzo Cremonesi, dal 2010, sono preziosi (qui un dei primi). “Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato … si prestava per lavoretti a ore di ogni tipo, trasportava cassette della frutta, scaricava camion e aiutava anche nei traslochi … ‘Un poveraccio a cui non avresti dato un soldo … Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi in poliziotto anti-migranti che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?’. Sono le parole di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. Nel caos seguito alla rivoluzione ‘assistita’ dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi, ha prosperato. … La Reuters e della Associated Press ha raccontato come Dabbashi sia diventato collaboratore di primo piano nel progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Un agente dell’intelligence locale dice ‘ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj’. … Questa è la realtà della Libia. … Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito (è quanto asserisce Hussein Dhwadi, sindaco di Sabratha). … ‘È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato’, dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. … Nel 2014 Al Ammu comanda la «Brigata Anis Dabbashi» e un’altra Brigata, la «48», diretta dal fratello più giovane, Mehemmed con la partecipazione dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 hanno il monopolio dei movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. … e anche la protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: le attività dell’Eni. … Probabilmente è lui che ha i primi contatti con gli 007 italiani. … che poi si approfondiscono a seguito del rapimento di 4 tecnici italiani della Bonatti (di cui due assassinati) … I Dabbashi sono una garanzia. … ‘efficienti nel traffico di esseri umani e tanto bravi nel bloccarlo. … si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan rivolto ai migranti africani era che si doveva pagare almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. … avevano contatti anche con organizzazioni criminali italiane. … Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano”. Da dopo la fine di Gheddafi il controllo dei siti della multinazionale italiana del petrolio ENI è in mano alle bande criminali libiche che gestiscono anche la tratta dei migranti, hanno pervaso tutto l’apparato statale libico e hanno stabilito accordi ben pagati con l’Italia. Nella sua intervista con il Corriere della sera, Minniti afferma: “La Libia è strategica; è giusto fare accordi. Sul caso Almasri il governo avrebbe dovuto parlare di sicurezza nazionale”. Ciò perché, secondo lui, si tratta dell’“incolumità anche fisica di ogni cittadino italiano. Un grande pezzo della sicurezza nazionale si gioca fuori dalle frontiere nazionali poiché è la base la più avanzata dei trafficanti. Secondo, vi si gioca una partita energetica essenziale ». Allude all’interesse dell’Eni che lui -come tante altre figure istituzionali- considera interesse nazionale al pari della produzione e esportazione di armi per cui si giustificano le decine di missioni militari all’estero. A proposito del caso Almastri, il boia di cui la Corte Internazionale aveva chiesto l’arresto e che invece il governo italiano ha liberato e accompagnato a casa sua con un volo di stato, Minniti ha detto: “Sin dall’inizio avrei utilizzato il tema della sicurezza nazionale: è netto. … » E ha aggiunti : « No, il caso di Bija non ha niente a che vedere .. Non l’ho mai incontrato”. La biografia di questo altro trafficante di migranti è assai simile a quella di Almastri. Nel 2017 fu invitato dall’OIM in Italia, per trattare un accordo alfine di ‘fermare le migrazioni dalla Libia. Il celebre giornalista dell’Osservatore romano, Nello Scavo, racconta qui la riunione al cara di Mineo alla quale Bija aveva partecipato. Malgrado decine di reportage su questo criminale in tanti importanti media europei, Bija fu presentato in Italia come “uno dei comandanti della Guardia costiera libica (ibidem). E’ a tale riunione che i libici chiesero: “Quanto spende il governo italiano per ospitare qui ogni migrante?” E fecero capire che il “modello del Cara di Mineo poteva essere esportato in Libia se l’Italia l’avrebbe finanziato risparmiando così soldi e problemi” (ibidem). E’ il suggerimento che Minniti ha fatto suo e che oggi Meloni difende a spada tratta con in più la reverenza vergognosa per il boia Almastri. Ma, Minniti, con l’aria di grande esperto, afferma “Lo stato non è una ONG” e quindi attacca chi osa denigrare il governo Meloni. Da notare che il senso dello stato di mister Minniti include il baratto con le bande criminali che, al pari delle mafie, rubano, saccheggiano, sabotano, uccidono per imporsi come protettori, come garanti di una sicurezza che solo loro possono assicurare. Quindi secondo questa logica lo stato italiano avrebbe dovuto sempre negoziare con le mafie. Ma Minniti pensa all’interesse dell’ENI e della vendita degli armamenti di Leonardo, ergo business is business e bisogna farlo passare per «interesse nazionale» (il neoliberismo del capitalismo assoluto lo impone più che mai). Nel suo nuovo reportage, Lorenzo Cremonesi scrive pezzi di biografia del criminale Almastri che oggi ha il titolo di generale capo della polizia giudiziaria libica! Nel 2014 Almasri si fece reclutare nella Rada, la milizia emanazione del fronte islamico e contribuì a arrestare le truppe del generale Haftar. “La Rada utilizza Almastri per le operazioni sporche. Lui è un killer, è incaricato di eliminare gli indesiderati e per far ciò assume sicari e uomini disposti a tutto reclutati tra i carcerati nelle prigioni che controlla lui stesso”. Le vite di circa 15.000 carcerati nelle tre prigioni sono alla sua mercé. Nella prigione di Jedaida ci sono soprattutto dei trafficanti di droga e criminali accusati di delitti gravi. In quella di Rueni ci sono i migranti africani e arabi dei paesi vicini (tunisini e egiziani). Tutte le più alte autorità libiche -scrive Cremonesi- hanno fatto pressione sull’Italia per ottenere il ritorno rapido di Almasri in Libia. Se l’Italia non l’avesse fatto ci sarebbe stato un grave rischio immediato per le strutture dell’Eni, i lavoratori e tutti gli italiani in Libia e l’ambasciata italiana. L’Italia non aveva alternative e peraltro Turchia, Francia, Egitto e Russia avrebbero subito potuto dividersi i contratti italo-libici e i cittadini italiani in Libia sarebbero stati sequestrati per imporre lo scambio con Almastri. Centinaia di messaggi libici sono apparsi su TikTok e Facebook dicendo: “Dite a Roma che ha 48 ore per restituirci Almasri, poi attaccheremo l’Eni … La loro ambasciata sarà distrutta”. Ecco quindi le vere ragioni che hanno costretto il governo italiano alla grave operazione di reverenza inaudita per i criminali libici mentre Meloni si nasconde e sbraita che lei non subisce alcun ricatto. La sicurezza dell’attuale primo ministro libico Abdul Hamid Dbeibeh e del suo governo è garantita dagli uomini armati di tre milizie, tra cui quelle controllate da Almastri. “Le milizie e in particolare la Rada sono veri e propri stati nello stato. Nessuno può toccarli. Hanno sovranità e autonomia proporzionali alla loro forza militare e alla debolezza dell’autorità centrale. Chiunque voglia trattare con la Libia e agire sul suo territorio deve negoziare con queste milizie”. Il caso Almastri è ormai diventato un grave caso di abuso di potere da parte del governo italiano anche a causa di maldestri errori della Corte di giustizia di Roma, del Ministro Nordio e sicuramente anche del sottosegretario Mantovano, del ministro Piantedosi e della duce Meloni.  Come scrive il magistrato Aniello Nappi, già consigliere della Corte di cassazione italiana, la CPI ha trasmesso la richiesta di arresto di Almastri all’Interpol tramite una ‘notifica rossa’, che legittima l’arresto diretto della polizia giudiziaria. I magistrati romani commisero quindi un grave errore di diritto rifiutando di convalidare l’arresto e l’incarcerazione di Almasri. Da parte sua, il Ministro della Giustizia italiano avrebbe dovuto comunicare di non essere legittimato a intervenire in un procedimento di competenza esclusiva del Procuratore Generale di Roma, poiché la legge non gli attribuisce alcuna autorità in materia. La Corte penale internazionale (CPI) ha pertanto aperto un’indagine nei confronti del governo italiano per determinare se l’espulsione del funzionario libico Osama Almasri Najim da parte dell’Italia costituisca un ostacolo alla giustizia. Da parte sua, il governo italiano ha respinto l’indagine della CPI, ha messo in dubbio la condotta della corte internazionale e ha suggerito che la Corte stessa dovrebbe essere indagata (Meloni imita Trump). È chiaro che Almastri è senza dubbio un criminale non meno orribile di un Riina.  Un paese che lo libera dall’arresto legittimo e lo accompagna a casa con un volo di Stato è complice di un boia accusato di omicidio, tortura, stupro, ecc. L’atteggiamento di questo governo neofascista italiano non può che ricordare quello di Mussolini che, dopo l’assassinio del leader socialista Matteotti, dichiarò davanti al Parlamento di essere stato lui a darne l’ordine.   l’articolo è stato pubblicato in francese su mediapart.fr   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 10, 2025 / Osservatorio Repressione
La denuncia alla Conte Penale Internazionale contro Meloni, Nordio e Piantedosi
I ministri italiani dovrebbero affrontare la giustizia per la liberazione del criminale di guerra Almasri, afferma la denuncia presentata alla Corte penale internazionale che chiede l’avvio di indagini su Giorgia Meloni, Nordio e Piantedosi. Sono accusati di aver aiutato un  criminale di guerra ricercato dalla CPI per fuggire dall’Italia in Libia. In tal modo, hanno ostacolato il lavoro della Corte penale internazionale, dice il deposito – un crimine secondo il diritto internazionale. di Statewatch La Corte penale internazionale (CPI) dovrebbe aprire un’indagine contro tre ministri del governo italiano di alto rango per aver ostacolato un’indagine sui crimini contro l’umanità, afferma una denuncia legale presentata mercoledì (pdf). I ministri hanno permesso il rilascio di Osama Elmasry (noto come “Al Masri”) dalla custodia italiana e il suo viaggio di ritorno in Libia. Al-Masri è ricercato dalla CPI per molteplici crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi contro cittadini e migranti in Libia: oltraggi alla dignità personale, trattamenti crudeli, torture, violenze sessuali, omicidi e stupri. È stato arrestato a Torino il 19 gennaio, ma successivamente rilasciato e trasportato in Libia su un jet del governo italiano. I ministri nominati nella denuncia sono Giorgia Meloni (il primo ministro), Carlo Nordio (giustizia) e Matteo Piantedosi (interno). Il deposito sostiene che Al-Masri è stato rilasciato dalla custodia “per impedirgli di fornire informazioni incriminanti sul loro coinvolgimento nei crimini di cui è accusato”. Si tratta di una violazione dell’articolo 70 dello Statuto di Roma, afferma la denuncia: “ostare o interferire con la presenza o la testimonianza di un testimone”. Le azioni dei ministri equivalgono anche a “una grave violazione dell’obbligo dell’Italia di cooperare con la CPI”, afferma la denuncia. L’articolo 89 dello Statuto di Roma obbliga gli Stati firmatari a cooperare con la Corte. La denuncia sostiene che i crimini di cui al-Masri è accusato “è stato migliorato, prorogato e intensificato” dai ministri. Sostiene inoltre che il governo italiano e l’UE dovrebbero essere indagati dalla CPI per aver aiutato la commissione di crimini contro l’umanità in Libia e nel Mediterraneo, anche se questo non è oggetto del deposito. “Consapevoli della loro potenziale responsabilità penale davanti alla Corte penale internazionale, i sospetti [i ministri italiani] erano ugualmente consapevoli che la resa di Al-Masri alla Corte avrebbe dato alla Corte l’accesso alla CPI a un testimone chiave e potenzialmente un detentore di ulteriori prove sulla loro implicazione in crimini contro l’umanità diretti contro una popolazione civile individuata (“migranti”), sia che il gruppo sia preso di mira prima o dopo il tentativo dei suoi membri di fuggire dalla Libia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Il giornalista italiano Valerio Nicolosi ha fatto la stessa argomentazione. “L’Italia che consegna al-Masri alla CPI sarebbe stata anche un’ammissione de facto di complicità nelle violazioni dei diritti umani che hanno avuto luogo nei centri di detenzione libici”, ha detto  a The Media Line. “Se l’Italia avesse consegnato al-Masri alla CPI, avrebbe dovuto affrontare ripercussioni immediate. Il flusso di migranti sarebbe stato usato come forma di ritorsione, una conseguenza diretta di sfidare le strutture di potere in Libia”. Il caso depositato presso la CPI mercoledì deve essere accettato dalla Corte prima che qualsiasi indagine possa iniziare i ministri italiani. La documentazione * Richiesta all’Istituto Procedimenti ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma contro la sig.ra. – Giorgia Meloni, il signor. Carlo Nordio e il signor Matteo Piantedosi (pdf)       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
Presentato il rapporto “Tratta di Stato”. Migranti torturati, schiavizzati e stuprati
Migranti torturati, schiavizzati e stuprati: presentato il rapporto “Tratta di Stato” sulle violenze alla frontiera tra Tunisia e Libia State Traffiking, “Tratta di Stato”, è il titolo del rapporto presentato al Parlamento Europeo mercoledì 5 febbraio, all’interno di un incontro promosso dall’europarlamentare Ilaria Salis e dal gruppo The Left, intitolato “Black Resistance against Eu Border Externalisation”. “Tratta di Stato” racconta delle violazioni dei diritti umani dei migranti in provenienza dall’Africa sub-sahariana mentre vengono espulsi dalla Tunisia e venduti ai trafficanti della Libia. La vendita di esseri umani avviene lungo le frontiere dei due paesi nordafricani da parte degli apparati militari e di polizia tunisini, in un clima di razzismo crescente. Il rapporto si basa sulle testimonianze di trenta persone migranti che sono state espulse dalla Tunisia verso la Libia nel periodo compreso tra giugno 2023 e novembre 2024. Sono cinque le fasi ricostruite grazie alle testimonianze e che raccontano il modus operandi di un sistema consolidato tra Tunisia e Libia: nella prima fase avvengono gli arresti, successivamente le persone sono trasportate in autobus alla frontiera tra i due paesi, poi la detenzione all’interno di campi informali presenti nel territorio tunisino, in seguito la vera e propria compravendita di esseri umani ai corpi armati libici e infine la detenzione dei migranti nelle prigioni libiche fino al pagamento del riscatto da parte delle famiglie. Il sistema documentato è diretta conseguenza degli accordi, dei memorandum e dello stretto rapporto diplomatico tra Unione Europea e il regime di Kais Saied in Tunisia, che prevedono l’esternalizzazione della frontiera dell’Unione, dalla quale ne conseguono gravi violazioni dei diritti umani: vendita di esseri umani, torture, stupri, sparizioni. Il rapporto “Tratta di Stato” è stato realizzato da un gruppo di ricercatori internazionali che sono rimasti anonimi per assicurare la sicurezza delle persone che hanno testimoniato; hanno sostenuto il progetto: On Borders, un cantiere di ricerca che studia e interviene lungo i confini, con e fra le persone in cammino lungo le frontiere, ASGI l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione e Border Forensics, agenzia d’inchiesta che lavora sulle violenze transfrontaliere. La presentazione del rapporto “Tratta di Stato” sulle frequenze di Radio Onda d’Urto con Pietro Gorza antropologo e presidente dell’associazione On Borders. Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
Nordio si erge ad avvocato di Almasri giustificando la tortura
Attacco alla Corte penale internazionale. Omissioni, inesattezze e buchi temporali in serie. Il modo nel quale Nordio ha difeso Almasri e polemizzato con la Corte dell’Aia non si regge in piedi. Le leggi sono chiare, lui doveva conoscerle e fare eseguire l’arresto di Gianfranco Schiavone da l’Unità La difesa dell’operato del Governo sul caso Almasri da parte del ministro Nordio si basa sulle seguenti argomentazioni; innanzitutto il mandato di cattura emesso da parte della CPI e l’intero incartamento è arrivato in lingua inglese senza essere tradotto, con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello. A quali criticità si riferisca Nordio lo spiega lo stesso ministro quando mette in evidenza come la richiesta della CPI consta di “una sessantina di paragrafi in cui vi è tutta la sequenza di crimini orribili addebitati al catturando, vi è un incomprensibile salto logico. Le conclusioni del mandato di arresto risultavano differenti rispetto alla parte motivazionale e rispetto alle conclusioni”. Nordio dunque ha ritenuto opportuno e legittimo entrare nelle motivazioni addotte dalla CPI rivendicando come “ Il ruolo del ministro non è solo di transito e di passacarte, è un ruolo politico: ho il potere e dovere di interloquire con altri organi dello Stato sulla richiesta della Cpi, sui dettagli e sulla coerenza delle conclusioni cui arriva la Corte. Coerenza che per noi manca assolutamente”. Nella sua alquanto sorprendente conclusione il Ministro Nordio ribadisce la sua posizione sul fatto di avere seguito le regole affermando che “noi non possiamo scavalcare le procedure, altrimenti legittimeremmo tutto” e chiude accusando nientemeno la Corte Penale stessa di non aver seguito le regole del diritto. Cosa dicono dunque le regole che sarebbero state rispettate con così estremo rigore da Nordio e violate dalla Corte? Lo statuto di Roma della Corte Penale Internazionale entrato in vigore il 1.02. 2022 con legge 12 luglio 1999, n. 232 (ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale) prevede innanzitutto che “Lo Stato Parte che ha ricevuto una richiesta di fermo, o di arresto e di consegna prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona di cui trattasi, secondo la sua legislazione e le disposizioni del capitolo IX del presente Statuto”. (Art. 59 par. 1). Sulla base di quanto disposto dallo stesso articolo 59 (par.2) spetta all’autorità giudiziaria dello Stato in cui è stato effettuato l’arreso accertare, secondo la sua legislazione che il mandato concerne elettivamente tale persona, che sia stata arrestata secondo una procedura regolare e che i suoi diritti sono stati rispettati. Però lo stesso articolo (par.4) precisa che “l’autorità competente dello Stato di detenzione non è abilitata a verificare se il mandato d’arresto é stato regolarmente rilasciato secondo i capoversi a) e b) del paragrafo 1 dell’articolo 58”. Le autorità dello Stato in cui viene effettuato l’arresto devono vigilare sul rispetto dei diritti della persona ricercata dalla Corte ma non possono sindacare le valutazioni effettuate dalla Corte sulla sussistenza dei presupposti per emettere il mandato di arresto; spetta infatti solo alla CPI stabilire “se vi sono fondati motivi di ritenere che tale persona ha commesso un reato di competenza della Corte (e se) “l’arresto di tale persona sembra necessario per garantire la comparizione della persona al processo” oppure se è parimenti necessario “per impedire che la persona continui in quel crimine o in un crimine commesso che ricade sotto la giurisdizione della Corte o che avviene nelle stesse circostanze”. Scuserà il lettore la scelta di entrare in questioni procedurali così di dettaglio ma farlo è necessario per mettere in evidenza come lo Statuto della CPI esclude tassativamente che le autorità dello Stato che effettua l’arresto possano sindacare le ragioni addotte dalla CPI per spiccare il mandato di arresto, o addirittura entrare nel merito della presunta incoerenza delle motivazioni della CPI come invece rivendica di poter fare il ministro Nordio, senza alcun fondamento. Il contenuto della richiesta di arresto e di consegna è altresì disciplinato dall’articolo 91 dello stesso Statuto della CPI che prevede che la richiesta debba contenere o essere accompagnata da un fascicolo che contenga “ i documenti dichiarazioni ed informazioni che possono essere pretesi nello Stato richiesto per procedere alla consegna” purché però non siano eccessivamente onerose. È altresì disciplinata anche l’ipotesi (art.92 par.1) in cui ricorra una situazione di emergenza; in tal caso “la Corte può chiedere il fermo della persona ricercata in attesa che siano presentate la richiesta di consegna ed i documenti giustificativi di cui all’articolo 91”. Solo se tali documenti giustificativi non giungono successivamente nei tempi stabiliti la “persona in stato di fermo può essere rimessa in libertà” (par.3) e comunque ciò “non pregiudica il suo successivo arresto e la sua consegna, se la richiesta di consegna accompagnata dai documenti giustificativi viene presentata in seguito”. Il Ministro Nordio non ha sostenuto nella sua audizione in Parlamento che il fascicolo inviato dalla CPI fosse fortemente incompleto; anzi il ministro sembra essersi lamentato (!) proprio dalla corposità della documentazione pervenuta. Ho ritenuto tuttavia utile ricordare anche l’ipotesi della carenza documentale al fine di sottolineare come i principi giuridici che disciplinano la procedura di arresto della persona ricercata dalla Corte siano chiari: il Ministro della Giustizia non aveva la facoltà di entrare nel merito delle valutazioni della Corte Penale Internazionale in relazione alle ragioni del mandato di cattura e alla valutazione sulla pericolosità del soggetto, nè poteva sindacare su presunte incoerenze nella ricostruzione dei fatti. Ma anche volendo spingersi fino a ritenere che le asserite incongruenze nella documentazione ricevuta fossero così forti e dirimenti da dover essere chiarite, in ogni caso, il Ministro avrebbe dovuto chiedere alla Corte con immediatezza chiarimenti ed integrazioni documentali e solo nella remota ipotesi nella quale la Corte fosse rimasta tenacemente inerte l’ultima estrema ipotesi, ovvero liberazione del ricercato Almarsi, avrebbe potuto avvenire. Non sembra tuttavia dalla ricostruzione dei fatti e dall’analisi di quanto previsto dalla procedura che regola i mandati di arresto emessi dalla CPI, che le tesi sostenute dal focoso ministro della Giustizia siano dunque in alcun modo sostenibili. La liberazione di Almasri ha vanificato il mandato di arresto emesso dalla Corte penale Internazionale e il suo successivo solerte accompagnamento in Libia ha annullato il primo e prioritario obiettivo che la Corte Penale Internazionale intendeva perseguire, ovvero impedire che la persona possa continuare, come invece farà, a perpetrare i crimini per i quali era ricercato. La pratica della tortura è salva. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 6, 2025 / Osservatorio Repressione
Maysoon Majidi: «Finalmente sono libera. Su di me ho ascoltato bugie su bugie»
Intervista a Maysoon Majidi a cura di Silvio Messinetti per il manifesto Fuori dal tribunale di Crotone Maysoon Majidi ieri è uscita mano nella mano con il fratello Rezhan. Commossa e raggiante per l’assoluzione con formula piena. Ha citato, dopo la lettura della sentenza, il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Perché? Darwish viveva l’esilio come atto poetico e politico di resistenza di fronte a una realtà storica in cui libertà individuale e liberazione collettiva sono ancora da raggiungere. Io oggi ho raggiunto finalmente la mia libertà. Ed è un giorno per me indimenticabile. A chi dedica questa assoluzione? A chi mi è stato vicino in questa odissea, a tutti i rifugiati politici, al mio avvocato, alla mia famiglia che sta soffrendo per me da tanti mesi. Ma anche ai politici e ai tanti amici che ho conosciuto in questi mesi. I momenti passati in carcere sono stati durissimi. La prima cosa che pensi quando arrivi in un Paese democratico è alla libertà. Quando ho fatto lo sciopero della fame in carcere era perché non avevo avuto un’udienza, volevo che qualcuno ascoltasse la mia storia. Non ho mai incontrato un interprete. Non potevo parlare con i miei familiari. Ho fatto il viaggio con mio fratello e non ho potuto parlarci per due mesi. Non sapevo nulla di nessuno. Pensavo che tutte le 77 persone che viaggiavano con me fossero state arrestate perché non sapevo il motivo della mia detenzione. Se non avessi avuto intorno una rete di sostegno, con tante lettere e visite, non avrei saputo come fare per combattere lo scoramento. Le parole dell’accusa l’hanno colpita? In questi mesi, e ascoltando la pm, ho molto sofferto per quello che sentivo dire e leggevo sul mio conto. Secondo i giudici avrei dato ordini sulla barca, consegnato acqua e cibo. Nulla di più falso. Se ci fosse stata la possibilità, avrei aiutato qualcuno ma avevamo i nostri zaini con viveri e acqua. Nessuno dava niente ad alcuno. Dunque bugie su bugie. Un incubo che temevo non finisse mai. Da qualche settimana vive con suo fratello a Sant’Alessio in Aspromonte, pensa di restare a vivere in Italia? Il progetto Sai dentro cui siamo stati inseriti è stimolante. Ho ripreso a scrivere e a pensare a nuovi progetti artistici. Per adesso mi godo questo grande giorno. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 6, 2025 / Osservatorio Repressione