Mediterranea Saving Human sotto accusa per un salvataggio. È il primo processo a
un’ong in Italia
Per la prima volta in Italia un’ONG rischia il processo per aver soccorso e
salvato migranti nel mediterraneo.
Il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo centrale è diventato terreno di
scontro politico e giudiziario. Per la prima volta in Italia, un’organizzazione
non governativa – Mediterranea Saving Humans – e l’equipaggio della nave Mare
Jonio saranno processati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione
irregolare aggravato da presunto profitto economico. I fatti risalgono all’11
settembre 2020, quando l’equipaggio intervenne per soccorrere 27 persone
abbandonate per oltre un mese sulla prua metallica di una petroliera danese, la
Maersk Etienne.
Il caso, già allora al centro dell’attenzione internazionale, si trasforma in un
processo che inizierà il 21 ottobre. Tra gli elementi che pesano sulla decisione
del Tribunale di Ragusa c’è anche una donazione posteriore da parte della
compagnia armatoriale all’ONG, interpretata dalla procura come presunta
“ricompensa”, e dunque come aggravante. Ad aumentare l’ambiguità della
situazione è la presenza, tra gli atti, di intercettazioni, pedinamenti e vere e
proprie attività di profilazione da parte dei servizi di sicurezza italiani.
Eppure, nonostante il processo e le minacce, Mediterranea rilancia: una seconda
nave, la Sea-eye 4, è pronta a partire. «Questi processi servono a farci
smettere. Noi raddoppiamo», dichiara a Radio Onda d’Urto Luca Casarini,
capomissione e fondatore di Mediterranea Saving Human Ascolta o scarica
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Tag - migranti
Hamid Badoui per paura di tornare nel Cpr in Albania si toglie la vita in
carcere a Torino
Temeva di tornare nel Cpr in Albania il 42enne, Hamid Badoui, che si è tolto la
vita in carcere a Torino usando dei lacci in cella. Era stato arrestato sabato,
per resistenza a pubblico ufficiale.
Portato in carcere si è tolto la vita poche ore prima dell’udienza di convalida
in tribunale: essendo senza permesso, rischiava di tornare al Cpr, dove era già
stato, a Bari, per 3 mesi, nonstante problemi di dipendenza e prima di finire da
aprile a pochi giorni fa in Albania.
A Radio Onda d’Urto, Nicola Cocco, medico di Mai più lager – No Cpr e Società
italiana medici delle migrazioni.Ascolta o scarica
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
L’assalto della Commissione europea alle regole sull’asilo. L’esecutivo Ue
propone un altro tassello del piano che mira a esternalizzare le frontiere e
respingere i richiedenti asilo.
di Giansandro Merli da il manifesto
Tra i pilastri della Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen c’è quello
di picconare il diritto d’asilo. L’obiettivo è ridurre uno dei diritti
fondamentali su cui era stata costruita l’identità europea dopo la seconda
guerra mondiale a un’ipotesi residuale riservata a pochi fortunati.
IERI L’ESECUTIVO COMUNITARIO ha proposto un emendamento al nuovo regolamento
procedure previsto dal Patto Ue immigrazione e asilo (votato nella scorsa
legislatura, sarà in vigore dal giugno 2026). «La Commissione propone di
facilitare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro», recita il titolo
del comunicato. Parole apparentemente sobrie che nascondono novità enormi:
diventerà possibile deportare i richiedenti asilo fuori dal territorio europeo.
Attraverso quattro modifiche.
La prima elimina l’obbligatorietà del requisito di «connessione» tra persona e
Stato terzo in cui viene spedita come un pacco da un Stato membro. Basterà il
semplice transito se quel paese è riconosciuto come sicuro. Non solo: anche
senza il passaggio fisico sarà comunque possibile deportare i richiedenti asilo
se c’è un accordo tra un paese Ue e uno extra-Ue che garantisca esame della
domanda d’asilo e accesso alla protezione internazionale (da questo sono esclusi
i minori soli). Inoltre in questo ambito i ricorsi contro le decisioni di
inammissibilità non avranno effetto sospensivo, significa: deportazioni senza
controllo giudiziario, e gli Stati dovranno informare Commissione e partner
prima di siglare le intese.
I PORTAVOCE DELL’ISTITUZIONE europea affermano che il modello è l’accordo
Ue-Turchia, per i respingimenti dei rifugiati siriani dopo la crisi umanitaria
del 2015, e non quello tra Uk e Ruanda (poi interrotto). «La soglia per cui i
paesi possono essere considerati sicuri e l’elevato livello di controlli e
requisiti imposti dal non-refoulement per una protezione effettiva precludono
tale confronto», dicono. Ma è un bluff: il modello è proprio il secondo. È vero
che il Ruanda non può rientrare negli standard, ma basterà cambiare paese. O
magari, con calma, cambiare gli standard. Come la Commissione sta già facendo
sugli altri «paesi sicuri», non quelli «terzi» ma quelli «di origine». I due
casi sono diversi: come recita la definizione i secondi si riferiscono alla
cittadinanza del richiedente asilo, i primi no. Hanno quindi un’applicazione più
estesa.
Un altro bluff sono le dichiarazioni del commissario Affari interni e migrazioni
Magnus Brunner: «Il concetto di paese terzo sicuro rivisto è un altro strumento
per aiutare gli Stati membri a trattare le domande di asilo in modo più
efficiente, nel pieno rispetto dei valori e dei diritti fondamentali dell’Ue».
La solita retorica con cui i rappresentanti europei dicono il contrario di
quello che stanno facendo, tirando il ballo «il rispetto dei diritti
fondamentali» che si apprestano a distruggere.
SE NE È ACCORTO persino il gruppo di centro-sinistra dei Socialisti e
democratici che alla scorsa legislatura è stato alfiere del Patto Ue e in questa
ha rinnovato la fiducia a von der Leyen. «La Commissione continua a fare regali
alle forze di destra fino all’estrema destra», afferma Birgit Snippel, portavoce
di S&D a Strasburgo per gli Affari interni. Spiegando che così «numerose
richieste di protezione non verrebbero più esaminate individualmente, ma
rigettate in modo generale» e che «diventeremo di nuovo dipendenti da despoti e
dittatori e quindi facilmente ricattabili».
Per l’eurodeputata Pd Cecilia Strada: «Il commissario Brunner vuole permettere
che le persone siano espulse verso paesi con cui non hanno alcun legame
culturale o linguistico. Una proposta inquietante che mina i principi
democratici su cui si basa la nostra società». Secondo Silvia Carta,
responsabile advocacy dell’ong europea Picum, «possiamo aspettarci che le
famiglie siano separate e le persone deportate senza un adeguato controllo
giurisdizionale».
ESULTANO i partiti europei di destra ed estrema destra. Compreso Fdi, che nel
luglio 2024 all’europarlamento votò contro la riconferma di von der Leyen (in
Consiglio Roma si era astenuta). «Ormai le politiche di Bruxelles vanno
esattamente nella direzione tracciata dall’Italia», dice Sara Kelany, deputata e
responsabile immigrazione Fdi.
La proposta della Commissione seguirà la procedura legislativa ordinaria. Sarà
presentata al Consiglio il 10 giugno e, parallelamente, esaminata dalla
commissione Libertà civili, giustizia e affari interni dell’europarlamento.
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Via libera della Commissione libertà civili dell’Europarlamento al nuovo
regolamento di Europol. L’Unione vuole blindare frontiere esterne dai migranti
con strumenti di tecno-polizia sempre più pervasivi e automatizzati
di Stefano Bocconetti da il manifesto
Con una battuta dicono che non servirà più spiare l’equipaggio di Mediterranea.
E di chiunque abbia a che fare con i migranti. Diventerà addirittura inutile,
gli spyware superati, perché hanno deciso di fare di più: controllare,
catalogare, analizzare “vita, morte e miracoli” di chiunque provi a entrare
nella fortezza Europa. E probabilmente anche di chi magari prova solo ad
assisterli.
Tutto questo lo farà un organismo di polizia: l’Europol. Che nasce un trentennio
fa per coordinare, fra i paesi del vecchio continente, le attività “di
contrasto” alla criminalità organizzata. Un organismo, va aggiunto, che da
sempre ha richiesto per sé più competenze, sempre più ruoli. E sempre a scapito
dei controlli. Ora, però, è diventata qualcos’altro. Di più pericoloso. Da
martedì pomeriggio, da quando la commissione libertà civili del parlamento
europeo – con soli dieci voti contrari, la sinistra e qualcun altro – ha votato
il suo nuovo regolamento.
Regolamento che le conferisce un potere straordinario per tutto ciò che riguarda
i migranti. Per il controllo digitale completo e senza vincoli di chi prova ad
entrare nella fortezza. Sposando una volta di più quelle “tecno-soluzioni” che
sanno di autoritarismo per risolvere i problemi sociali. Drammatici problemi
sociali.
Questo nuovo regolamento è in qualche modo figlio della situazione politica
europea alla fine del ’23. Quando a pochi mesi dal voto per il rinnovo
dell’assemblea di Bruxelles, la vecchia maggioranza (che è quasi uguale a quella
attuale, almeno sulla carta) pensò bene di contrastare la prevedibile avanzata
delle destre inseguendole sul suo terreno. E, come ricordano tutti, fu varata la
direttiva per “contrastare gli ingressi incontrollati”. Lì, si faceva rientrare
la cosiddetta “lotta ai trafficanti” fra le competenze dell’Europol – all’inizio
limitata a terrorismo, droga e criminalità organizzata – e si prevedeva il varo
di un nuovo regolamento, per renderlo operativo su questo fronte.
Il risultato è questo mostro giuridico appena varato che sembra fare a pugni con
tutte le norme europee a difesa dei diritti individuali e dei diritti digitali.
Da ora in poi Europol potrà pretendere – non chiedere, pretendere – dai paesi Ue
tutti i dati dei migranti che si presentano alle frontiere. Tutti. Anche tutti i
dati raccolti da Frontex, la guardia di frontiera europea (con la quale adesso
Europol “collaborerà” sul campo; ci saranno insomma anche loro agenti alle
frontiere), spesso accusata di violazione dei diritti umani.
Dati, questi ultimi, che gli agenti già raccolgono col metodo che con molta
ironia chiamano “debriefing”: a chi sbarca, a chi attraversa un valico di notte
e viene catturato, a chi è sopravvissuto si fa un interrogatorio. Su tutto.
Strappando risposte a chi è in condizione di evidente vulnerabilità che poi
invece determinano il suo profilo. Che peserà nei suoi tentativi di ottenere un
visto, un permesso. Un lavoro, una casa.
L’Europol ora quei dati li pretenderà da tutti i paesi. Prima, prima del nuovo
regolamento, spettava ai singoli governi decidere se concederli o meno. Dovevano
valutare se quei profili erano davvero necessari a determinate indagini: vuoi
sapere tutto di tizio e caio? Prima devi informarmi di cosa è accusato, devi
spiegarmi bene perché ti servono quei dati. Ora non più. C’è l’obbligo per tutti
i paesi di fornirli subito. Punto. E per quanto tempo li conserveranno? Che ne
faranno? Sarà sempre l’Europol a stabilirne l’uso, la conservazione e a
“garantire il rispetto delle normative”.
Rispetto che è difficile immaginare, tanto più che l’Europol ha già individuato
i paesi extra Ue con i quali aumentare la cooperazione, e quindi lo scambio di
dati. Ci sono la Tunisia, l’Egitto, la Giordania, il Marocco, la Turchia. E c’è
anche Israele. Così uno di quei paesi dove la sorveglianza orwelliana è già
regola potrà inviare dati per segnalare che un ragazzo di 16 anni è da
considerarsi criminale. Magari perché è andato ad una manifestazione. E si vedrà
negare il permesso di soggiorno. O peggio.
Fin da quando sono cominciate a circolare le bozze del nuovo regolamento, c’è da
dire che tutte le associazioni per i diritti sono insorte. Subito. Al punto che
questa è stata una delle poche volte dove la società civile non ha chiesto
modifiche o emendamenti migliorativi ma ha invitato espressamente gli
eurodeputati – per dirlo con Caterina Rodelli, policy analyst di AccessNow – “a
respingere il regolamento”. A bocciarlo. Perché mette a rischio i diritti umani.
Una delle prime critiche riguardava la “valutazione di impatto” del regolamento.
Mancava, eppure una legge europea lo prevede per tutto ciò che riguarda le
conseguenze delle nuove norme sulle persone.
All’inizio, la commissione ha sostenuto che non poteva produrre la valutazione
perché c’era urgenza di approvare il regolamento. Poi ha cambiato versione,
sostenendo – senza fornire dettagli – che a suo parere non c’è “sproporzione fra
obbiettivi e diritti personali”, non c’è “una limitazione eccessiva”. Tutto qui.
Ed è così che è passato il regolamento. Che di fatto segna “la presa del potere
da parte dell’Europol”, sempre per usare le parole di AccessNow. Un potere
straordinario. Ora e nel futuro. Perché l’ente di polizia sarà finanziato con
ulteriori 50 milioni e con l’assunzione di altri cinquanta membri che si
aggiungono ai già decisi 114 milioni e 160 “quadri” in più.
Soldi aggiuntivi perché Europol potrà sviluppare – in completa autonomia – nuovi
sistemi di rilevamento biometrico. Impronte, volti ed anche – perché no? –
rilevamento di comportamenti che andranno a finire nel grande data-base
centralizzato. Ed incontrollato. E tutto fa capire che i nuovi sistemi nascono
in deroga – se non contro – le norme europee che invece considerano
l’identificazione biometrica e la sua analisi affidata alle intelligenze
artificiali, come uno degli aspetti più delicati, da vietare o sottostare a
norme rigidissime.
L’Europol invece potrà fare come vuole. Con i migranti. Ma non solo. Ora Europol
ha la base giuridica – col reato di istigazione al traffico – per schedare e
classificare nelle sue banche dati tutte le persone che ritiene in qualche modo
legate all’”arrivo irregolare dei migranti”. E come ripetono ossessivamente le
destre (e non solo) ovunque in Europa, è facile immaginare che queste misure
saranno estese anche a chi solidarizza con i sans-papiers. Saranno estese anche
alle Ong.
Ecco perché si diceva che probabilmente lo spyware usato per controllare
l’equipaggio di Mediterranea non servirà più. “Sì – come spiega Douwe Korff,
professore di Diritto Internazionale alla London Metropolitan University –
questo regolamento è uno scandalo paragonabile alla sorveglianza indiscriminata
da parte delle agenzie statunitensi, denunciata quasi un decennio fa da Edward
Snowden”.
Allora quello scandalo servì a fermare per un po’ i progetti di sorveglianza
negli States. Ora il testo votato nella commissione europea andrà al vaglio del
“trilogo”, gli incontri a tre fra rappresentanti del Consiglio, del Parlamento
di Strasburgo e della Commissione. È accaduto rarissimamente che le norme varate
in commissione vengano poi modificate, migliorate.
Tutto dice, insomma, che il regolamento diventerà immediatamente operativo. Ed
il “datagate” sarà passato invano.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Le testimonianze delle vittime del regime tunisino (pagato dall’Italia)
confermano: le autorità di Tunisi sistematicamente vendono a bande libiche le
persone che catturano in mare (su mandato italiano)
di Lucille Guenier da l’Unità
“La polizia tunisina ci ha venduto a rapitori, a banditi libici”, ha detto
Charly, un pittore del Camerun. “Il prezzo di vendita era di 150 dinari (circa
25 euro), meno del prezzo di una capra”. Charly è stato intercettato per la
prima volta dalle guardie tunisine al largo della Tunisia mentre tentava di
arrivare a Lampedusa. Era tra le circa 200 persone fermate in mare e riportate
con forza a Sfax, dove lui e gli altri sono stati picchiati, legati e caricati
su autobus. Senza cibo e senz’acqua.
“Ci hanno trasportato su questi autobus dove non c’erano posti a sedere. Ci
siamo seduti per terra con le mani legate dietro la schiena e ci hanno
picchiato. Abbiamo trascorso 10 ore sugli autobus. Ci hanno torturato e ci hanno
detto che i neri non dovevano venire in Tunisia”, ha raccontato. “Quando siamo
arrivati nel deserto, abbiamo visto i pick-up libici e i tunisini ci hanno
venduto a rapitori, a banditi libici”.
Ivanna, 26 anni, viveva in una casa con circa 100 altri migranti a El Jem, in
Tunisia, quando è stata arrestata in un raid notturno della polizia locale. “Ci
hanno ammanettato e messo in macchina, portandoci nel deserto”, ha raccontato.
“Siamo arrivati in un posto dove c’erano uomini libici armati. Ci hanno caricato
su un camion con la scritta ‘polizia’, ma non era la polizia: erano i
trafficanti. Le loro armi erano puntate contro di noi e i libici hanno dato alla
polizia tunisina dei soldi in una borsa”. È stata rinchiusa in una prigione
gestita da un uomo di Tripoli. Per ottenere il suo rilascio, ha dovuto chiamare
sua sorella in Camerun, che si è indebitata per pagare 450.000 franchi Cfa
centrafricani (circa 690 euro). “Sono rimasta in prigione per un mese, mangiando
pochissimo: pane e formaggio, solo questo. Faceva molto caldo”. Una volta
rilasciata, ha lavorato per otto mesi senza paga, come serva, per una famiglia
libica che le avrebbe pagato la traversata del Mediterraneo centrale.
Aïssa, 22 anni, della Guinea Conakry nell’estate del 2023 è stata intercettata
dalla guardia costiera tunisina mentre tentava di attraversare il Mediterraneo
da Sfax. “Ci hanno maltrattato, picchiato e trasferito in un autobus. Dentro era
come essere in un frigorifero, tutto chiuso. Ci hanno legato le mani e ci hanno
spostato. Non sapevo dove stavo andando”. L’autobus l’ha portata al confine
libico, dove è stata consegnata a uomini in uniforme militare. È stata portata a
Zawiya, in un sito gestito da un uomo di nome Osama, un uomo di cui ha parlato
anche Charly. in quel centro di detenzione venivano ammassate le persone prima
di essere caricare sui gommoni. “Due dei miei amici sono morti in prigione. Una
è morta sulle mie ginocchia. Quando hanno portato fuori il suo corpo, stavo
piangendo. Mi hanno colpito per farmi smettere e calmare. Per uscire, ho
chiamato la mia famiglia in Guinea. Sono rimasta in quella prigione per otto
mesi. Mi hanno mandato 4.000 dinari, circa 650 euro, per farmi uscire”.
Le testimonianze di Charly, Ivanna e Aïssa confermano il diretto coinvolgimento
delle autorità tunisine nella vendita e nel trasferimento forzato di migranti a
gruppi armati in Libia. Il rapporto State Trafficking, pubblicato nel gennaio
2025 dal collettivo di ricercatori Rrx, documenta una pratica sistematica: i
migranti subsahariani in Tunisia vengono presi di mira in raid di larga scala,
detenuti senza un regolare processo e poi consegnati ad attori libici noti per
la gestione di reti di traffico ed estorsione. Durante la presentazione del
rapporto al Parlamento dell’Unione europea il 29 gennaio 2025, Sos Mediterranée
ha riportato alcune di queste testimonianze. Molte altre persone a bordo della
Ocean Viking mi hanno raccontato esperienze simili, ma hanno preferito non
esporsi per timore di ritorsioni. Queste pratiche non sono però isolate. In
diversi casi documentati, le autorità tunisine hanno condotto espulsioni
collettive con il pretesto della sicurezza delle frontiere o dell’espulsione.
In pratica, però, hanno trasportato i migranti in zone desertiche remote, dove
sono stati consegnati a gruppi armati libici in cambio di denaro. Queste
testimonianze trovano riscontro anche in una comunicazione diffusa dall’Ufficio
dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nell’ottobre
2024, in cui venivano espresse gravi preoccupazioni per le numerose segnalazioni
ricevute riguardo alla vendita di migranti, rifugiati e richiedenti asilo da
parte delle forze di sicurezza tunisine a gruppi armati non statali attivi in
Libia. Tali pratiche costituiscono una chiara violazione del diritto
internazionale, incluso il principio di non respingimento, che proibisce il
trasferimento forzato di persone verso Paesi dove potrebbero subire torture o
trattamenti inumani e degradanti.
Il ciclo di abusi in Libia
Una volta entrati in Libia, tutti e tre i sopravvissuti hanno parlato di abusi
sistematici, che vanno dal lavoro forzato alla detenzione arbitraria e alla
violenza fisica. Carceri come Bir Al Ghanam e Zawiya, di cui sia Charly che
Aïssa hanno parlato, fanno parte di una vasta rete di luoghi di detenzione dove
i migranti sono tenuti in ostaggio per ottenere un riscatto. “C’è un uomo di
nome Osama che dice di essere una Ong e di voler aiutare le persone ad
attraversare”, ha detto Charly. “Ha le sue barche. Ha allestito un campo a
Zawiya, una sua prigione dove raduna le persone”. Mentre Charly alla fine è
riuscito a guadagnarsi la via d’uscita dipingendo case, altri – come Ivanna e
Aïssa – sono stati costretti a lavorare per mesi per assicurarsi il rilascio o
per finanziare un altro tentativo di attraversamento. Charly ha anche spiegato
perché il mare è l’unica via d’uscita dal ciclo di sfruttamento e abusi in
Libia. “Quando sono arrivato in Libia, non avevo documenti d’identità e non
avevo modo di far riconoscere la mia nazionalità”, ha raccontato. “Non c’è un
consolato camerunese in Libia. La Libia non è più un Paese governato. Ognuno fa
quello che vuole”.
Alla fine, tutti e tre sono riusciti a lasciare la Libia e sono stati salvati in
mare. Ma sanno che molti altri non sono stati così fortunati. “Era la prima
volta che tentavo la traversata dalla Libia quando mi avete salvato”, ha detto
Charly, che però aveva già tentato di attraversare il Mediterraneo dalla
Tunisia. “È stato Dio a mandarvi.” Le loro testimonianze – e il crescente numero
di prove che documentano la natura sistematica di questi abusi – ricordano
ancora una volta che il partenariato dell’Ue e dell’Italia con la Libia e la
Tunisia in materia di migrazione è indifendibile. Attraverso accordi come il
Memorandum d’intesa Italia-Libia e l’accordo Ue-Tunisia, gli Stati europei hanno
finanziato, equipaggiato e legittimato autorità e attori responsabili di gravi
violazioni dei diritti umani. All’inizio di aprile, in un preoccupante
inasprimento della repressione nei confronti della società civile e del supporto
alle persone in movimento, l’Agenzia per la sicurezza interna libica ha sospeso
le attività di quasi tutte le principali organizzazioni umanitarie
internazionali presenti nel Paese, accusandole di compromettere la sovranità
nazionale e di promuovere valori considerati incompatibili con l’identità
libica.
Queste sospensioni, insieme agli interrogatori, alla chiusura degli uffici e al
congelamento dei conti, privano di fatto migliaia di persone vulnerabili
dell’accesso a cure mediche vitali e all’assistenza umanitaria. “Vi sto parlando
perché siete una Ong e questo può aiutare i miei fratelli, sollevando
l’attenzione internazionale sul trattamento dei neri, perseguitati nei Paesi del
Maghreb”, ha detto Charly. “Io sono arrivato, sono in salvo… ma è per gli
altri”. La Libia e la Tunisia non sono luoghi sicuri per le persone soccorse in
mare. Entrambi i Paesi sono stati ripetutamente documentati come luoghi di
violenza razziale, estorsione e abusi diffusi contro migranti e rifugiati. Sos
mediterranée chiede con urgenza alle autorità europee e italiane di interrompere
ogni forma di sostegno ai sistemi che intrappolano le persone in movimento in
cicli di abusi e sfruttamento.
*Testimonianze raccolte a bordo della nave Ocean Viking, responsabile
comunicazione della Ong Sos mediterranée
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
La protesta nel Cpr in corso Brunelleschi a Torino è scoppiata venerdì, un
gruppo ha cercato di raggiungere il tetto della struttura. Un uomo è precipitato
rompendosi una gamba. Le due ambulanze giunte sul posto sono state bloccate
dalla polizia prima di poter intervenire
di Mauro Ravarino da il manifesto
Quel reticolo di gabbie in mezzo ai palazzi del quartiere Pozzo Strada non ha
più senso di esistere e mai l’ha avuto. Inaugurato nel 1999 e riaperto a fine
marzo, dopo una chiusura di due anni, il Cpr di Torino ha una storia
accidentata, che parla di sofferenza, proteste e violenze. Due i decessi
accertati: Moussa Balde e Faisal Hossein.
Nella tarda sera di venerdì la tensione è tornata ai massimi livelli dopo una
rivolta esplosa nell’area bianca della struttura, maturata in seguito a una
giornata di proteste iniziate prima nell’area blu dove i trattenuti avevano
rifiutato il pasto per le restrizioni imposte alle comunicazioni telefoniche.
La rivolta nell’area bianca sarebbe invece esplosa, in base a quanto ha
ricostruito la Rete No Cpr, dopo l’orario di consegna della terapia, quando due
migranti hanno tentato la fuga arrampicandosi sulla rete del cortile. Uno
sarebbe stato raggiunto dalle forze dell’ordine e sarebbe caduto da un’altezza
di due metri. Il giovane ha riportato una gamba fratturata. Nell’area hanno
cominciato a divampare le fiamme, ben visibili dall’esterno, e altri migranti
hanno raggiunto il tetto. Un agente sarebbe rimasto intossicato dai fumi.
Alice Ravinale, capogruppo Avs in Regione, si è recata in corso Brunelleschi
nella notte e, augurandosi che «questa volta ci sia maggiore chiarezza sulle
condizioni» del migrante, sottolinea: «Nel nostro sopralluogo di lunedì abbiamo
incontrato tante persone fragili e disperate a causa delle condizioni di
detenzione, non mi stupisce che venerdì sera sia di nuovo esplosa la protesta.
Il Cpr va chiuso, le persone con problemi di salute mentale che oggi sono lì
recluse devono essere immediatamente rilasciate: è un posto che mette a rischio
l’incolumità di tutti. Questa settimana sarà il quarto anniversario della morte
di Moussa Balde: possibile che la sua drammatica vicenda, per cui è in corso un
processo, non abbia insegnato nulla alle istituzioni di questo paese? Possibile
che la propaganda anti-immigrazione del governo conti più del rischio, concreto,
che ci possano essere altre vittime?».
Nel Cpr di Corso Brunelleschi sono rinchiuse una cinquantina di persone a fronte
di una capienza (provvisoria) di 60. La situazione anche con la nuova gestione
della cooperativa Sanitalia, che si è aggiudicata l’ultimo appalto, resta tesa.
Le proteste nella notte tra venerdì e sabato arrivano a meno di un mese dalla
rivolta del 30 aprile. La prima dopo la riapertura, che aveva reso
inutilizzabile l’area viola.
Ieri sera, al di fuori del muro di cinta di corso Brunelleschi, si è radunata
una piccola folla di attivisti richiamati dal tam-tam sui social. Gli attivisti,
avuta la notizia del ferito, hanno chiamato il 118, ma le due ambulanze giunte
sul posto (con i vigili del fuoco) sono state bloccate prima di poter
intervenire. Era già passata la mezzanotte – dicono gli attivisti – quando
l’ambulanza è intervenuta e, durante tutto questo tempo, le persone sul tetto
intonavano cori e canti, denunciando le terribili condizioni di reclusione.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Salvini chiede, la Calabria esegue. Il cambio di marcia della giunta calabrese
sulla costituzione di parte civile nel processo sulla strage dei migranti è
dettato dalle pressioni del vicepremier sul presidente della giunta regionale
Occhiuto
di Tiziana Barillà
Nell’aula del Tribunale di Crotone, dove è in corso il processo per i mancati
soccorsi che hanno portato alla strage di Cutro, si tiene il processo a carico
di quattro finanzieri e due ufficiali della Guardia costiera, accusati di
naufragio colposo e omicidio colposo plurimo.
Nessuno – spero – ha dimenticato che il 26 febbraio 2023, il caicco “Summer
love” si è schiantato nella secca a un chilometro dalla costa calabrese. Di
quella strage non sappiamo nemmeno il numero dei dispersi, abbiamo contato i 94
corpi che hanno raggiunto la spiaggia di Steccato di Cutro, senza vita. Di quei
morti, 35 erano bambini, persino le bare bianche erano finite.
Quello che sappiamo – invece – è che ritardi e inerzie, hanno rappresentato una
“grave negligenza, imprudenza, imperizia” da parte dei militari imputati che
hanno violato, secondo i pm, la normativa europea e nazionale in materia di
soccorsi in mare.
Il 12 maggio si è tenuta l’udienza preliminare, con 113 richieste di
costituzione di parte civile: i familiari delle vittime e i superstiti, le
associazioni e le organizzazioni non governative. Ma le istituzioni no. La
Regione Calabria no, né i Comuni di Crotone e di Cutro. Figuriamoci il governo
di Meloni, Salvini e Piantedosi.
Dopo aver loro voltato le spalle in mare, negando il soccorso, lo Stato, la
Regione e i Comuni interessati hanno voltato le spalle alle vittime di Cutro, ai
loro familiari e ai superstiti, anche in Tribunale.
La mancata costituzione di parte civile del governo era scontata, vista
l’assoluzione d’ufficio garantita ai militari dal governo ancora prima che la
Procura di Crotone e i Carabinieri concludessero le indagini. Ma i Comuni
interessati? E la Calabria di Roberto Occhiuto – lo stesso che si è battuto il
petto in quelle ore e nelle cerimonie successive?
Roberto Occhiuto, se possibile, ha fatto ancora peggio del governo
vergognosamente coerente. Fino a poco prima dell’udienza, la Regione Calabria
era l’unico ente ad aver chiesto di essere inserito tra le parti offese. Poi, ha
fatto marcia indietro per sopperire al disappunto dell’Usim, il sindacato della
guardia costiera, e al rimprovero di Matteo Salvini.
La Regione si è rimangiata tutto con una nota imbarazzata e imbarazzante,
appellandosi a un errore: credevano fosse un processo contro gli scafisti, non
contro i militari! Occhiuto, insomma, ha parlato di errore ma il sindacato dei
militari ha rivendicato il successo politico suo e di Salvini.
Roma ordina, Catanzaro obbedisce. Come da copione, di una tragica e classica
abitudine meridionale. Manza un anno alle elezioni regionali, tra lotte
intestine e un’eterna campagna elettorale da portare avanti, la retorica della
Calabria straordinaria panacea di ogni problema, non basta più.
Se c’è da impugnare il bastone, si impugni. Tanto più se bisogna puntarlo contro
centinaia di disperati, che manco votano.
La Calabria è un’altra cosa.
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
La denuncia di Mediterranea: prigione e torture per donne e bambini catturati
della “Guardia costiera” nel lager libici
Gli orrori del lager di Zawhia in Libia, uno di quelli gestiti dal criminale
libico Almasri, e le uccisioni in mare, avvenute lo scorso 2 maggio, ad opera
della cosiddetta guardia costiera libica, finanziata dal governo italiano per
tenere lontano dai nostri confini i migranti.
È quello che emerge da un video diffuso dalla Ong Mediterranea, che sui social
ha diffuso il filmato raccolto da Refugees In Libya, la Ong il cui fondatore
David Yambio figura tra le personalità finite nel mirino dello spyware di
Paragon.
Il lager ripreso, secondo quanto verificato dalla posizione gps dalla quale è
stato inviato il video, è quello denominato Al – Nasr Detention Center: uno di
quelli sotto la giurisdizione di Almasri, il generale libico, ricercato dalla
Corte penale internazionale, prima arrestato e poi rilasciato e rimpatriato
dalle autorità italiane alcuni mesi fa.
“Riceviamo e pubblichiamo, grazie alla rete RefugeesinLibya, un video che
denuncia ancora crimini contro donne e bambini che tentano di fuggire
dalla Libia, dove sono sottoposti a sofferenze indicibili. Il lager di Zawiya,
situato a 50 chilometri a nord-ovest di Tripoli, è uno di quelli gestiti da
Almasri, ricercato dalla Corte Penale internazionale per crimini contro
l’umanità”, spiega Mediterranea, che ha trasmesso il video “anche agli uffici
della Corte Penale Internazionale: qualcuno nel governo italiano e nell’Unione
Europea dovrà rispondere davanti alla giustizia di questi crimini contro
l’umanità”.
In questo momento all’interno del lager ci sono oltre 100 donne, di varie
nazionalità, e decine di bambini. Per poter uscire, denuncia Mediterranea, gli
uomini di Almasri chiedono 6000 dinari per il rilascio di ogni persona.
Mediterranea riporta anche la testimonianza di Fatima Ibrahim e della sorella
Rakuya, profughe etiopi, catturate con i loro bambini e altre 130 persone dalla
cosiddetta guardia costiera libica, lo scorso 2 maggio, in acque internazionali
tra l’Italia e la Libia: “Erano salpati da Sabratha su un’imbarcazione di legno
a due ponti con oltre 130 persone imbarcate. Hanno navigato per circa un’ora
dalla costa, fino a quando le milizie sono arrivate e hanno sparato contro la
loro barca. Alcune persone sono rimaste uccise, una ragazza è sicuramente morta
per le ustioni derivanti dall’incendio del motore colpito dai colpi dei mitra. I
sopravvissuti sono stati portati nella prigione di Almasri e sono stati
spogliati, perquisiti. I miliziani hanno sottratto telefoni e soldi”.
(fonte l’Unità)
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Ennesima morte nei Centri di Permanenza per il rimpatrio (CPR). Abel Okubor, un
uomo di 37 anni originario della Nigeria, è deceduto per un presunto “malore”
sabato 3 maggio nel lager per migranti di Brindisi.
“Quando una persona di 37 anni muore in un CPR, non si può parlare semplicemente
di un malore. È fondamentale capire cosa è successo prima che quel malore
portasse alla morte. L’autopsia è fondamentale per comprendere la catena di
eventi che ha determinato questa tragedia”, ha spiegato ai microfoni di Radio
Onda d’Urto Nicola Cocco, medico della Rete Mai più Lager – No ai CPR.
Nicola Cocco ha inoltre sottolineato la responsabilità dello Stato
nell’assicurare la sicurezza e la salute di chi si trova in custodia. La morte
di Abel Okubor non è un caso isolato: i CPR italiani, da anni, sono al centro di
numerosi episodi di violenze contro i migranti e per le condizioni disumane a
cui sono costrette le persone detenute.
La situazione nei CPR, secondo Cocco, è sempre più simile a quella dei vecchi
manicomi: “molte persone che si trovano nei CPR soffrono di problemi di salute
mentale, ma non vengono adeguatamente trattate. I farmaci vengono somministrati
senza un’adeguata supervisione, spesso solo per sedare e non per curare. Questo
porta a una deriva manicomiale, dove le persone sono lasciate senza alcuna
attenzione psicologica”, ha dichiarato il medico, facendo riferimento al caso
del CPR di Gradisca d’Isonzo, dove recentemente si è registrata una situazione
di abbandono psichiatrico.
Le pessime condizioni di vita nei CPR italiani vengono ciclicamente denunciate.
Un esempio delle difficoltà quotidiane è la situazione nel CPR di Torino,
recentemente riaperto. Qui, il 1 maggio, si è verificata una protesta che è
sfociata in scontri con le forze dell’ordine, con tre feriti tra le persone
detenute.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Nicola Cocco, medico della Rete Mai più
Lager – No ai CPR. Ascolta o scarica
**********
La battaglia per la verità sulla morte di Wissem Abdel Latif
di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale
Ci ha chiamato l’ultima volta diversi giorni prima di morire, sentivamo che non
stava bene, ci aveva chiesto soldi per pagare un avvocato, non lo riconoscevo
dalla voce”, racconta Henda Ben Ali, 51 anni, originaria di Kebili, una
cittadina nel sud della Tunisia. È arrivata, insieme al marito Kamal Abdel
Latif, a Roma per partecipare all’udienza preliminare del processo per la morte
del figlio Wissem Abdel Latif, il ragazzo tunisino di 26 anni deceduto il 28
novembre 2021 all’ospedale San Camillo di Roma, dopo essere stato legato al
letto per cinque giorni, prima all’ospedale Grassi di Ostia e poi nel reparto
psichiatrico del San Camillo.
Nel processo, cominciato il 9 aprile, c’è solo un imputato, un infermiere del
San Camillo accusato di omicidio colposo e falso per aver somministrato una dose
eccessiva di sedativo. La famiglia assicura che Wissem era un ragazzo in salute,
sportivo, sempre allegro, senza patologie, e che era partito da casa alla fine
di settembre 2021 per cercare lavoro in Europa.
“Nessuno ci ha avvertito di quello che gli stava succedendo, l’ultima volta ci
ha telefonato parecchi giorni prima della morte, era nel Cpr di Ponte Galeria, a
Roma”, racconta Kamal, 62 anni, che ha faticato molto a ottenere il visto per
partecipare al processo in Italia. Nessuno gli aveva detto che Abdel Latif era
stato ricoverato in ospedale. Sapevano che era arrivato in Italia e che era
stato rinchiuso prima a bordo di una nave per la quarantena, poi in un Centro di
permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma non avrebbero mai immaginato di ricevere
una chiamata dal consolato che li informava che il figlio era morto. Ora
vogliono che il processo faccia luce su quello che è successo al ragazzo nei due
mesi in cui è stato in Italia.
Nel Cpr di Ponte Galeria aveva paura, non capiva perché fosse finito dentro
quella gabbia senza aver commesso alcun reato. La famiglia, parlando con il
ragazzo al telefono, si era accorta che c’era qualcosa di strano nelle parole e
nel comportamento. Aveva uno strano modo di parlare, era agitato. Ma non
immaginava quello che stava per succedergli.
Due settimane dopo la morte in ospedale, le autorità hanno avvertito il padre e
la madre del decesso: hanno parlato di “morte naturale” in seguito a un ricovero
per problemi psichiatrici, ma i familiari dicono che il ragazzo non ha mai avuto
disturbi psicologici, né fisici. “Non è vero che aveva problemi psichiatrici,
stava bene, giocava a calcio”, assicura il padre. Quattro anni dopo la morte del
figlio non ha smesso di sperare che si scopra la verità.
Prima di lasciare il suo paese Abdel Latif aveva lavorato in un ristorante, in
un hotel, in un supermercato e in un bar. Poi con la crisi economica era stato
licenziato e aveva deciso di partire, come tanti altri ragazzi nella sua
condizione. Era il primogenito di tre figli, l’unico maschio. “Era un figlio e
un amico per me”, dice il padre tra le lacrime. Il padre è un autista di
pullman, mentre la madre è impiegata al ministero del turismo. Rania, la sorella
maggiore, si è trasferita in Arabia Saudita da tre mesi, dopo la laurea, mentre
la sorella piccola va ancora a scuola e vive con i genitori. “Si dava molto da
fare, dopo le superiori si era messo a lavorare per dare una mano a casa, poi
era andato a Tunisi da Kebili”, racconta il padre.
Wissem Abdel Latif era un grande appassionato di calcio, aveva giocato in una
squadra locale, l’Oasis sportive Kebili. In alcune foto che la madre ha sul
telefono è in posa con la squadra, solleva una coppa. Sbarcato il 2 ottobre 2021
a Lampedusa dopo 18 ore di viaggio a bordo di un’imbarcazione di pescatori, è
incappato in una serie di ingiustizie e abusi che in due mesi lo hanno portato
alla morte. Alle 4 di mattina del 28 novembre è stato trovato morto su una
barella in un corridoio del reparto psichiatrico del San Camillo, ma non è
chiaro a che ora esattamente sia avvenuto il decesso. Probabilmente tra le 2.30,
ora in cui è stato controllato l’ultima volta dal personale sanitario, e le
4.20. Secondo fonti mediche, è morto per un arresto cardiaco.
L’avvocato Francesco Romeo, che rappresenta la famiglia, assicura che sul corpo
non ci sono segni di percosse, né emorragie interne o traumi. Non è chiaro però
perché Abdel Latif sia stato legato al letto mani e piedi per cinque giorni, sia
a Ostia sia a Roma. Il ragazzo era già sottoposto a sedazione con due diversi
psicofarmaci, a cui se ne è aggiunto un terzo. Nel trasferimento in barella il
ragazzo è stato slegato, per essere di nuovo messo in contenzione all’ospedale
San Camillo di Roma, senza però essere stato sottoposto a un trattamento
sanitario obbligatorio (tso).
L’avvocato Romeo sottolinea che dovrà essere chiarito perché Abdel Latif fosse
ancora in detenzione, visto che il giudice di pace di Siracusa aveva sospeso il
decreto di respingimento e il provvedimento di trattenimento nel Cpr di Ponte
Galeria quattro giorni prima della sua morte. “Da alcuni atti del procedimento
che ho avuto modo di consultare emerge che la morte poteva essere evitata. Il 24
novembre 2021, mentre il ragazzo era legato al letto nell’ospedale Grassi di
Ostia, il giudice di pace di Siracusa sospendeva l’esecutività del decreto di
respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il Cpr di Ponte
Galeria, provvedimenti emessi dal questore di Siracusa il 13 ottobre. Ma Abdel
Latif non l’ha mai saputo”, continua Romeo. Secondo il legale, sia il Cpr di
Roma sia l’avvocato che seguiva il tunisino per la richiesta di asilo avrebbero
dovuto ricevere la notizia della sospensione del provvedimento di trattenimento
e avrebbero dovuto comunicarlo al ragazzo. Inoltre non si spiega perché il
ragazzo fosse legato al letto, nonostante fosse stato sedato con diversi
psicofarmaci.
Ci sono anche altre anomalie che il processo dovrà chiarire. Dopo l’arrivo in
Italia, Abdel Latif è stato trasferito su una nave quarantena, il traghetto Gnv
Atlas, dove ha trascorso dieci giorni. Il 13 ottobre era sbarcato ad Augusta ed
era stato portato prima a Catania e poi a Roma, nel Cpr di Ponte Galeria, perché
giudicato “idoneo alla vita ristretta”, quindi in buone condizioni di salute.
Sulla nave quarantena, un traghetto privato usato per isolare i migranti
arrivati in Italia via mare per l’emergenza covid, non era stato rilevato nessun
comportamento anomalo del ragazzo, né malessere psicologico o vulnerabilità. In
un video fatto con il telefono, pubblicato online e acquisito dalla procura,
Abdel Latif racconta di essere a bordo di una nave quarantena e di temere il
rimpatrio. In un video successivo girato all’interno del Cpr di Ponte Galeria
dice che è stato arrestato, che non sa bene perché. Dice di voler fare domanda
di asilo e chiede aiuto per trovare un avvocato.
Quando entra nel Cpr di Ponte Galeria Abdel Latif è in buone condizioni
psicofisiche. Lo conferma al telefono il direttore del centro, Enzo Lattuga.
“Era depresso, ma non è mai stato aggressivo”. Dieci giorni dopo, nel colloquio
con la psicologa della struttura manifesta sintomi di sofferenza e di disagio:
ansia, tachicardia, senso di oppressione. La psicologa chiede l’intervento di
uno specialista dell’azienda sanitaria locale (asl), che avviene l’8 novembre.
Durante la visita lo psichiatra diagnostica una sofferenza mentale grave e gli
prescrive una terapia farmacologica. La diagnosi parla di “disagio
schizoaffettivo”, tra i farmaci prescritti c’è un antipsicotico, il Talofen. Il
19 novembre una nuova visita con la psicologa del Cpr riscontra che i sintomi
non sono cambiati, ma sono peggiorati, e chiede un nuovo accertamento allo
psichiatra della asl.
Probabilmente Abdel Latif non tollera i farmaci, che gli provocano depressione e
incontinenza, in certi momenti rifiuta di assumerli. Le sue ultime ore di vita
sono una lenta discesa agli inferi: il 23 novembre, dopo una nuova visita dello
psichiatra della asl è disposto il ricovero in ospedale. L’accesso al pronto
soccorso del Grassi di Ostia avviene in ambulanza intorno alle 13. Dal lì viene
trasferito in reparto verso le 19 con una diagnosi di schizofrenia.
Dopo 48 ore, per ragioni di competenza territoriale, il paziente è trasferito in
ambulanza al San Camillo. La prima nota di contenzione parla di “paziente
aggressivo”, le altre di un paziente “confuso e disorientato”. Non ci sono posti
in reparto e quindi è lasciato su una barella in corridoio. Non parla con alcun
mediatore culturale. Anche se gli esami del sangue presentano delle anomalie,
non gli viene fatto un elettrocardiogramma. A 72 ore dall’ingresso al San
Camillo, Abdel Latif muore. Avrebbe dovuto essere liberato quattro giorni prima.
In Tunisia ci sono state molte proteste per la morte del ragazzo, perché
numerosi ragazzi tunisini sono sottoposti a trattamenti simili, in quanto la
Tunisia è considerata un paese sicuro e quindi le persone sono trasferite al
loro arrivo direttamente nei Cpr per essere rimpatriate, senza che spesso gli
sia garantita la possibilità di chiedere l’asilo o siano informati dei loro
diritti. Anche molte associazioni italiane che si occupano di immigrazione, tra
cui LasciateCIEntrare e No Cpr, hanno organizzato proteste per chiedere verità e
giustizia per Wissem Abdel Latif e contro il sistema dei centri di detenzione
italiani, istituito nel 1998 ed esteso di nuovo a partire dal 2017.
Nelle stesse ore in cui cominciava il processo per la morte di Abdel Latif,
quaranta persone erano trasferite con la forza da diversi Cpr italiani a quello
di Gjadër, in Albania, suscitando critiche e proteste. Una ventina di loro sono
ancora in detenzione e le proteste sono continue all’interno del centro. “La
storia di Wissem Abdel Latif è emblematica del sistema di detenzione
amministrativa in Italia. Le persone sono sottoposte a detenzione indiscriminata
e se protestano sono sedate con psicofarmaci”, commenta Yasmine Accardo del
Comitato verità e giustizia per Wissem. Nel dicembre del 2024 il Comitato
europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o
degradanti del Consiglio d’Europa ha ripreso l’Italia per la situazione
all’interno dei Cpr, in particolare ha contestato l’uso massiccio degli
psicofarmaci all’interno di queste strutture.
In realtà questa non è una novità: l’uso della sedazione per le persone che sono
in una condizione di privazione della libertà personale era già stato denunciato
vent’anni fa da un rapporto sul centro di detenzione Serraino Vulpitta di
Trapani nel 2002. Un’inchiesta della rivista Altraeconomia del 2023 ha mostrato
che nei Cpr le persone trattenute sono “tenute buone” con un uso arbitrario ed
eccessivo dei medicinali. Nell’agosto del 2024 un altro ragazzo, Oussama
Darkaoui, 22 anni di origine marocchina, è morto nel Cpr di Palazzo San
Gervasio, dopo aver fatto due accessi in ospedale in stato di incoscienza con un
grande quantitativo di psicofarmaci nel sangue.
“Era partito per aiutarci e invece è morto come una bestia”, dice Kamal Abdel
Latif, promettendo di partecipare a tutte le udienze del processo, che
riprenderà a settembre. “Non ci fermeremo finché non sapremo la verità, la
storia di nostro figlio è la storia di tanti ragazzi che vengono trattati in
questo modo. Non deve succedere più”, conclude la madre Henda Ben Ali.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Il report della rete Picum sottolinea l’aumento della criminalizzazione dei
migranti e della solidarietà in tutta l’Unione europea: oltre 200 i casi nel
2024
di Michele Gambirasi da il manifesto
La criminalizzazione delle migrazioni nell’Unione Europea è in crescita, che si
tratti di Ong impegnate nel soccorso e l’aiuto a persone migranti o di chi cerca
di attraversare i confini per arrivare nel continente. È quanto emerge
dall’ultimo report di Picum, organizzazione basata a Bruxelles che raccoglie
oltre 100 associazioni «che lavorano per garantire giustizia sociale e diritti
umani ai migranti privi di documenti».
Il rapporto, reso pubblico da oggi, dà conto nel 2024 di almeno 142 casi di
procedimenti legali contro operatori umanitari, «per aver agito in solidarietà
con i migranti nell’Unione europea»; sono 91 invece i casi registrati di azioni
legali direttamente contro migranti, per la maggior parte vittime delle leggi
contro la tratta di esseri umani. L’anno precedente erano stati rispettivamente
117 e 76, segnando un incremento di oltre il 20%. L’Italia è, insieme alla
Grecia, tra i paesi che registrano il maggior numero di processi in corso, su
entrambi i fronti: sono almeno 29 gli operatori di Ong indagati o che
fronteggiano processi, mentre sono 40 i casi registrati di migranti accusati.
Nella maggioranza dei casi il reato contestato è quello di «favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina» normato dall’articolo 12 del Testo unico
sull’immigrazione e ulteriormente rafforzato dall’entrata in vigore
dell’articolo 12bis a seguito del «decreto Cutro».
Numeri che rappresentano stime al ribasso, raccolti attraverso il monitoraggio
dei media a causa dei buchi e delle discrepanze nelle statistiche ufficiali.
Solo in Italia i dati raccolti da Arci Porco rosso tracciano almeno 106 casi di
migranti arrestati per il reato di favoreggiamento nel 2024, fermati non appena
arrivati in porto. In Grecia, Aegean boat report conta 228 persone arrestate
all’arrivo sulle coste elleniche. La dissonanza tra i numeri raccolti dalle Ong
e quelli presentati da Picum non è solo il risultato della difficoltà di avere
statistiche chiare, ma anche la spia del fatto che «la criminalizzazione di chi
attraversa i confini rimane un fenomeno nascosto, che rivela la tendenza dei
media a sottorappresentarlo» scrive l’organizzazione.
Nella maggior parte dei casi, comunque, la montagna partorisce un topolino. O in
alcuni casi proprio nulla. Dei 43 processi conclusi nel 2024 contro operatori
umanitari, in 41 casi si è giunti a un’assoluzione, dichiarando l’insussistenza
del fatto. Nonostante ciò, la criminalizzazione del soccorso produce in ogni
caso effetti deterrenti e ostativi nei confronti delle organizzazioni, costrette
ad affrontare processi che hanno una durata media di tre anni e che in alcuni
casi possono tenere ferme a lungo le imbarcazioni che operano in zona Sar. Nel
2024 si è chiuso in Italia il caso Iuventa, durato sette anni e che alla fine ha
visto prosciolti tutti i dieci imputati delle Ong Jugend Rettet, Save the
children e Medici senza frontiere. Sette anni nel corso dei quali la nave
Iuventa è rimasta sequestrata e in stato di fermo, comportandone un
irrimediabile danneggiamento.
Se la criminalizzazione si poggia prevalentemente sulla legislazione che
interviene sul traffico di esseri umani, le nuove direttive europee in corso di
approvazione corrono il rischio di accrescere il fenomeno secondo Picum. Tra
queste soprattutto la revisione del Facilitators package, una combinazione di
direttive e una decisione quadro dell’Ue del 2002, proposta nel 2023 dalla
Commissione europea e ancora in fase di discussione al Parlamento. La proposta,
secondo l’Ong, riconosce il contrabbando come causa principale
dell’immigrazione: «un approccio criminalizzante che contraddice l’evidenza che
la legislazione antitratta spesso danneggia, più che tutelare, i diritti dei
migranti».
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp