(foto di leonardo galanti)
A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele
rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di
“autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è
lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela
Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma
Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da
settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso
che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad
horas. Così si è completata la diaspora.
Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da
quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento
realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai
novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della
presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le
esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non
oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza
abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una
pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per
circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il
2025).
L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le
Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il
2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di
ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non
pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del
contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente
dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve
allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del
finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato
consegnato.
Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata
dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille
e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra
preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia
municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di
reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un
esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui
media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg
regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di
famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e
bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo.
(leonardo galanti2)
Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro
un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non
si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano
–, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata
di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non
apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e
addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da
familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato
casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a
chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e
amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a
partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto
questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il
percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun
accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé.
Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A
settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da
un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa
seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un
venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere
al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato
qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007».
«Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro
per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che
fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una
sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo
dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti
tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero
case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele
le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano.
Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio
fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque
figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa
che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha
tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio,
lo devo buttare?”, gli ha detto lei».
(foto di leonardo galanti)
Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto.
Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del
2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è
comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per
vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di
destinazioni incerte e comunque precarie.
Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama
Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la
situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare
che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei
singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto
a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo.
Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati
costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio.
Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era
improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo
che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è
mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti
chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie
conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un
progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo
se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto
che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di
circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha
risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento
euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno
volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno
promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando
di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno
sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai
proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di
queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel
Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette
e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi
bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta
elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e
conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…».
«Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato
tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare
casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto
lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini
dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia
di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad
alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di
raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne
carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti,
e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano
un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia,
le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni
drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la
scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli
autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha
usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere
addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno
viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano
iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per
andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e
accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)
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Processo Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio: tutte e tutti assolti dal
reato di associazione a delinquere!!!. Restano altre condanne (la più alta a 9
mesi) per altri reati ma l’impianto è stato demolito
Tutti assolti dall’accusa di associazione a delinquere e pene notevolmente
ridotte per resistenza e altri reati minori. Chiude così il processo “Robin
Hood”, nei confronti di una trentina di compagne-i del Comitato Abitanti
Giambellino-Lorenteggio, attivo nell’ambito del diritto all’abitare degno dentro
i quartieri popolari di Milano. Molte persone imputate sono state assolte,
mentre gli oltre 5 anni disposti per la condanna più pesante è stata ridotta a
non più di un anno, senza l’associativo.
Le prime valutazioni su Radio Onda d’Urto dell’avvocato Eugenio Losco, legale di
compagne-i, raggiunto al termine dell’udienza Ascolta o scarica
L’intervista di Radio Onda d’Urto, dopo la sentenza, a uno degli imputati,
raggiunto fuori dal Tribunale meneghino. Ascolta o scarica
LA STORIA – Era il dicembre del 2018 quando un imponente dispiegamento di forze
i carabinieri irrompono all’alba nel quartiere Giambellino a Milano, sgomberano
sette case occupate e la Base di solidarietà popolare, sede del Comitato
Abitanti Giambellino-Lorenteggio, e arrestano nove persone. L’accusa contestata
è di associazione a delinquere con finalità di occupazione abusiva e resistenza
a pubblico ufficiale, con il contorno di una quarantina di altri reati tra,
appunto, resistenze e occupazioni.
È l’operazione Domus Libera, celebrata poco dopo in una conferenza stampa in cui
il procuratore responsabile dell’inchiesta e il comandante dei carabinieri,
oltre a scambiarsi una serie di reciproci complimenti, ne illustrano i tratti
salienti parlando apertamente di racket delle case.
Il dibattimento inizia nel 2019 e si conclude nel novembre 2022: l’accusa di
associazione a delinquere resta, la pena più alta supera i 5 anni e in totale
vengono dati 30 anni di carcere.
Nel dicembre 2024, l’appello, che ha invece cancellato il reato associativo,
assolvendo molte persone imputate e con pene massime che non superano l’anno.
L’Aler e la destra cittadina accusano i movimenti di occupare alloggi che
altrimenti sarebbero assegnati, allungando le liste d’attesa. Una tesi, smentita
dai dati, che ieri l’eurodeputata Ilaria Salis ha attaccato in un video girato
al Giambellino: «A Milano ci sono più case vuote che persone in graduatoria: la
colpa è degli enti gestori, che non si occupano neanche della manutenzione.
Invece vengono accusati movimenti e comunità solidali. Se fosse confermata
l’associazione a delinquere sarebbe un nuovo passo nella criminalizzazione delle
lotte».
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(disegno di valentina galluccio)
A Milano, una famiglia con minori che si rivolge all’amministrazione comunale
perché è in difficoltà, senza casa a causa di uno sfratto o dell’impossibilità
di affittarla, quasi sicuramente finisce per essere presa in carico dai servizi
sociali piuttosto che da quelli abitativi. Lo affermano gli attivisti della Rete
solidale Ci Siamo che, in seguito agli sgomberi delle occupazioni abitative
degli stabili di via Siusi e di via Esterle, e all’incendio del capannone di via
Fracastoro, hanno seguito diverse famiglie di lavoratori stranieri prese in
carico dai servizi sociali del comune di Milano e ha potuto constatare quanto
segue.
Con l’intervento del servizio sociale territoriale, il bisogno di una casa, che
fino a quel momento rappresentava la necessità prevalente, passa in secondo
piano a causa di una lettura erronea del disagio che si concentra sulle “colpe”
del nucleo familiare piuttosto che inquadrare la sua condizione all’interno di
un contesto sempre più escludente, precario e razzista. Questo pregiudizio verso
le persone povere, molto radicato tra gli assistenti sociali, porta a una
conseguenza altrettanto dannosa, cioè quella di considerare il nucleo familiare
divisibile, da una parte la mamma con i figli minori, dall’altra il padre con
quelli maggiori, come se per la tutela e il benessere dei minori non fossero
importanti l’unità della famiglia e la figura paterna.
Una consuetudine ormai diffusa, che prevede l’individuazione di soluzioni
abitative temporanee e in emergenza solo per i soggetti fragili del nucleo
familiare, a cui viene offerta nell’immediato ospitalità in strutture di
accoglienza definite di bassa soglia come i dormitori pubblici. L’accesso in
queste strutture, costituite da spazi angusti e asettici con regole rigide e
vessatorie, avviene nella maggioranza dei casi senza rendere noto il tempo che
si resterà al loro interno e neppure quale altra soluzione più stabile e
duratura verrà individuata dal servizio sociale territoriale.
Dunque, si resta a lungo separati, in una condizione di incertezza sul futuro,
precarietà quotidiana e di assoluta dipendenza e assoggettamento alle scelte
degli assistenti sociali. Questi agiscono in totale autonomia individuando, tra
le risorse a disposizione del pubblico, quella che ritengono più adeguata ai
soggetti “fragili” del nucleo familiare, ed escludendo sistematicamente gli
altri: padre e figli maggiorenni. Si tratta di soluzioni abitative temporanee,
come le case di accoglienza o le residenze sociali, gestite dal privato sociale
con costi molto elevati per il pubblico, che nella maggioranza dei casi non
rispondono al bisogno di casa espresso al momento della presa in carico, ma
infantilizzano gli adulti e prolungando a tempo indeterminato la loro condizione
emergenziale, fino a trasformarla in “ordinaria”.
Il più delle volte queste “soluzioni”, presentate come l’unica risorsa che
l’Amministrazione può mettere in campo, vengono imposte dagli assistenti sociali
alle sole donne, in assenza dei mariti e solo verbalmente, con notevoli
pressioni affinché queste siano accettate o meno in tempi molto brevi, un paio
di giorni al massimo. Se la famiglia, nonostante le pressioni ricevute, mostra
dubbi sulla proposta individuata oppure la rifiuta chiedendo una soluzione
abitativa dignitosa, stabile e duratura per l’intero nucleo familiare, allora
gli assistenti sociali cambiano registro: prima minacciano la segnalazione al
Tribunale dei minori, successivamente intimano alla donna con i figli minori di
lasciare la struttura in cui sono ospitati, per poi allontanarli con la forza.
In questo modo, il servizio sociale territoriale, con arbitrio e ostilità,
sposta ulteriormente il piano del discorso, da quello abitativo a quello
assistenziale a quello penale, cioè ti dice in modo brusco e netto: “O fai
esattamente quello che diciamo noi, oppure te ne puoi andare e lasciare il posto
a qualcun altro. Se non lo fai, ti cacciamo e ti denunciamo!”.
STORIA DI UNA FAMIGLIA SFOLLATA DA UNO STABILE OCCUPATO A CAUSA DI UN INCENDIO
Marito: Io, mia moglie e mia figlia piccola siamo in Italia dal giugno 2023.
Abbiamo deciso di venire qua perché in Perù abbiamo avuto problemi con le
persone che chiedono soldi senza lavorare e, se non li dai, ammazzano qualcuno
della tua famiglia. Io lavoravo nel comune della mia città, ero responsabile dei
mezzi di trasporto e queste persone venivano da me a chiedere soldi. Io però ho
detto di no. Dopo che sono andato a fare la denuncia, ci hanno chiamato, hanno
detto che noi siamo fregati, che ammazzano qualcuno di noi. Allora siamo
scappati perché la polizia non dà protezione a chi denuncia. Due mesi dopo la
persona che ha preso il mio posto è stata ammazzata. Neanche lui voleva dare
soldi ed è morto perché quello che ti dicono: “Se non mi dai i soldi, ti
ammazzo”, è vero.
Prima di partire abbiamo venduto tutto quello che avevamo in Perù: materasso,
letto, macchina, e abbiamo fatto un bonifico di tremila euro a una persona che
diceva di essere nostra amica così lei poteva trovarci una casa a Milano. Ma
quando siamo arrivati in Italia, le abbiamo scritto su Facebook, ma non abbiamo
ricevuto risposta, lei è sparita. A Malpensa abbiamo preso un pullman che ci ha
portato alla Stazione Centrale. Lì siamo scesi e abbiamo incontrato una donna
peruviana che ci ha dato da mangiare e dopo ci ha portato al Centro Sammartini,
ma a Sammartini ci hanno detto che i posti al dormitorio erano tutti occupati.
Per due giorni abbiamo dormito sotto un ponte, dopo un’altra signora peruviana
ci ha detto che potevamo andare nella casa dove lei lavorava. Lei faceva la
badante, si prendeva cura di una donna che adesso è morta. Così ci ha dato un
posto dove dormire da mezzanotte fino alle sei di mattina. Io facevo prima la
pulizia dei vetri, dopo consegnavo le pizze, così raccoglievo un po’ di soldi
per vivere.
Poi siamo arrivati a Fracastoro (occupazione abitativa sostenuta dalla Rete
solidale Ci Siamo). Andavamo sempre a Loreto, lì ci sono tanti nostri
connazionali. Un giorno abbiamo conosciuto un uomo, che ci ha detto: “Andate a
questo indirizzo, lì troveranno una soluzione per la vostra famiglia”.
La prima volta sono andato da solo, perché mia moglie quel giorno lavorava a
casa della donna che ci aveva dato un aiuto. Era un mercoledì, le persone che
c’erano mi hanno detto di tornare domenica, perché la domenica c’è un’assemblea
con tutti gli abitanti. Sono tornato e mi hanno detto che il mercoledì dopo
avrebbero trovato una soluzione. Allora ho detto a mia moglie di venire con me
così loro guardano che io dico la verità, che non sono una persona che fa
casino, non sono violento, non consumo droghe, sono un tecnico elettricista,
sono una persona che è venuta in Italia per una vita migliore. Quindi siamo
andati insieme e ci hanno detto che potevamo restare in quel posto finché non
trovavamo un lavoro e qualche cosa di meglio da affittare a Milano.
A Fracastoro la nostra vita è cambiata. Quando siamo arrivati, non avevamo i
documenti, non avevamo lavoro, non capivamo la lingua italiana, poi ci siamo
sistemati, ho trovato lavoro, ho fatto i documenti e ho iniziato a mandare i
soldi ai miei figli in Perù, anche alla mia mamma e alla mamma della mia moglie.
Ma a settembre è successo questo evento brutto, l’incendio, e dopo di questo
siamo finiti un’altra volta in strada.
Cosa è successo la mattina dell’incendio?
Marito: La prima cosa che ho fatto è stata prendere mia figlia e portarla fuori
da questo posto con mia moglie, poi sono rientrato per dire alle persone che
erano dentro, che in quel momento dormivano, di uscire subito. Dopo ho preso da
solo cinque-sei bombole perché tutti prendevano le loro cose e scappavano. Poi
sono rientrato un’altra volta per prendere i vestiti di mia figlia e di mia
moglie. Ho buttato tutto dalla finestra. Quindi ho visto che il fuoco era tanto
e sono scappato via, lasciando tutte le altre nostre cose dentro: il mio
monopattino, con cui andavo a lavoro, e i soldi che avevamo messo da parte, che
erano in un posto nascosto.
Un’ora dopo l’incendio sono arrivati i vigili del fuoco. Dopo quattro ore è
arrivata anche la Protezione civile. In quel momento ci hanno detto che ci
spostavano in un posto sicuro: al dormitorio comunale di viale Ortles, dove alla
data di oggi siamo da quasi due mesi. Per tre giorni abbiamo dormito tutti
insieme al secondo piano del dormitorio. Lì ci hanno chiesto se lavoravamo, se
avevamo i documenti, cosa facevamo qua in Italia. Ci hanno fatto tante domande.
Il terzo giorno ci hanno diviso: mia moglie e mia figlia sono andati in un
padiglione, io in un altro.
Moglie: La situazione in Ortles è così, la colazione è dalle 7:30 alle 8:30, il
pranzo è dalle 12:00 alle 13:00, la cena dalle 18:30 alle 19:30. Alle 9:00
dobbiamo uscire dalla stanza e stare fuori fino alle 13:00. Le persone che
lavorano lì, quando noi usciamo dalle stanze, cercano tra le tue cose,
controllano tutto, non puoi tenere niente, neppure il cibo, né un frutto, né un
biscotto, niente. Mia figlia è abituata a mangiare il cibo che cucino io, il
cibo peruviano. La prima volta in Ortles ha mangiato un po’ perché per lei era
qualcosa di nuovo, ma dopo non ha mangiato più. Anche per questo lei è stata una
settimana con la febbre, la tosse, proprio male. E quando è stata male, la
mattina comunque dovevamo uscire dalla stanza. Se il dottore non dice che puoi
restare, non ti lasciano stare, devi andare fuori come tutti. Per me quella non
è vita, lei è piccola, ha solo due anni, e fuori fa tanto freddo. Anche io, che
sono incinta al settimo mese, a volte sto un po’ male con la pancia, mi fa male
la schiena, ma non possiamo restare lì a riposare, dobbiamo andare fuori,
dobbiamo stare in giro.
A un certo punto vi hanno chiamato per farvi una proposta. Ci raccontate come è
andata?
Moglie: Un giorno mi ha chiamato l’assistente sociale e mi ha detto che c’era
una proposta buonissima, che dovevo andare con mia figlia in una comunità in un
paesino in provincia di Pavia. Io ho pensato che intendesse insieme con mio
marito, però lui mi ha detto di no: da sola con mia figlia. Mi ha detto che
dovevo accettare questa proposta, e che non sarei potuta stare più lì dopo il
parto. Io ho detto che prima dovevo parlare con mio marito per capire cosa fare,
perché per me non andava bene che io dovevo andare lì, lontana da mio marito.
Marito: Quando lei mi ha chiamato, piangeva ed era spaventata. Gli ho detto di
stare calma, che qualsiasi decisione la prenderemo quando io torno da lavoro.
Quindi quel giorno non ho fatto neanche lo straordinario, ho preso i mezzi di
trasporto e sono andato subito da mia moglie. Poi ho chiamato le persone della
Rete Ci Siamo, per sapere cosa dovevamo fare. Mi hanno detto che dovevamo stare
tranquilli, che non ci avrebbero tolto la nostra figlia, di non accettare, né
firmare. Abbiamo fatto quello che ci hanno consigliato, perché noi non sappiamo
nulla dei diritti qua in Italia.
Moglie: Il giorno dopo l’incontro con l’assistente sociale, sono andata insieme
con mio marito anche dalla direttrice di Ortles. Lei ci ha detto che era una
buona soluzione per noi, per la nostra famiglia, che mio marito poteva venire a
trovarci. Ma se per venire da noi deve rinunciare al lavoro, come sostiene la
famiglia, come manda i soldi al paese? Per quello noi non abbiamo accettato la
proposta. Così mi hanno detto che non avendo accettato la proposta, dovevano
chiamare il Tribunale dei minori. Io non bevo alcool, non fumo, sono una persona
che apprende giorno per giorno la lingua italiana, che ha sempre fatto le cose
per bene. Io ho paura di questa cosa che mi hanno detto, che loro possono
allontanare la mia figlia da me. Per quello ho detto a mio marito che preferivo
andare via da questo paese prima che mi tolgono mia figlia. Sono andata anche a
un’agenzia per comprare il biglietto, però la dottoressa mi ha detto che non
potevo più viaggiare dopo la trentaseiesima settimana di gravidanza, che era
pericoloso per me.
Marito: Alla data di oggi, noi siamo tranquilli, sì, però non è vero che lo
siamo, perché abbiamo ancora un po’ di paura, perché se compro il biglietto
aereo a mia moglie, per farla tornare al paese, questo non va bene perché io
invece non posso tornare, perché le persone che ho denunciato nel mio paese mi
cercano per farmi qualcosa, magari ammazzarmi. Ma se rimaniamo qua in Italia non
abbiamo un posto dove stare anche se abbiamo il lavoro, paghiamo i contributi,
siamo persone tranquille. A questo punto non sappiamo cosa fare. Stiamo
aspettando una soluzione dal comune di Milano, ma alla data di oggi non abbiamo
ancora una risposta, non sappiamo cosa aspettarci domani. (redazione monitor
milano)
PRESIDIO
Per protestare contro l’attuale politica sociale del comune di Milano, per
riportare al centro del dibattito la questione della casa, per l’autonomia,
l’emancipazione e la responsabilizzazione degli individui, la Rete solidale Ci
Siamo ha indetto un presidio davanti all’assessorato al Welfare in via Sile, 8
per martedì 26 novembre alle ore 10.
(disegno di bambi kramer)
Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani
e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano
Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia
(Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria
Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.
A seguire ne pubblichiamo un estratto.
* * *
È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre
1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono
fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli
anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri
autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di
movimenti per la casa e per i servizi.
Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e
dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa
diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano
borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che
oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità
pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo
sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono –
compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo
termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro
conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche
quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue.
La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa.
Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle
risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano
costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale,
anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono
forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli
abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste
e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le
istituzioni.
Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato,
minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera”
inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente
segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze
dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito
trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero
non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un
“residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle
case da cui furono mandate via quindici anni fa.
Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi
vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta
disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e
tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno
raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni
e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di
altri a una continua peregrinazione intorno alla città.
Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità”
rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non
solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale.
Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra
epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in
quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito
ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici,
oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e
familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che
incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un
odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal
cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter
out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o
affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al
displacement.
Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella
capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più
gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a
Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono
chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati,
come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di
concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova
addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima
della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli
sgomberi, e che li ricordava così:
«Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le
SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la
polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si
riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli
archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase
al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono
tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da
rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla
polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e
demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la
sua organizzazione».
Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e
dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri
autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si
descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione
non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui
fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista
coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in
Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando
colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […]
Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del
borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri
abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di
Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli
prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni
precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove
la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli
abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune
tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con
Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola
popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire,
Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che
a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti.
Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi
fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle
associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del
Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa,
Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua
famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di
Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze.
Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla
trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti
dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una
trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo
tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel
frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende
del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti.
Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora
erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora
considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una
città diversa.
Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la
casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum:
l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”,
nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che
aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati”
dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una
mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo
collettivo creato nel vecchio quartiere.
«La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava
che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse
insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che
faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto
della scavatrice di Pasolini,
Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.
In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme
di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di
convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche
i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili
solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree
autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e
disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che
vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra
forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno
prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e
politica.
Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è
difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex
“baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di
quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti
nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti
cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che
avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora
rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti,
che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati.
All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte
contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni
(2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere.
Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti,
sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e
colpevole per natura.
Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni,
sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla
vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone
a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il
passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni
attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è
l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre
inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e
culturali.
Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui
postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di
sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano
espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata,
prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione
nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto
della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in
Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di
opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo
in gioco gli stessi corpi.
Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme
cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più
piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre
vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti
di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro
diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli
abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono
a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che
demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la
primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun).
Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un
anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del
loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte»,
dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna
no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un
gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si
costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita:
come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o
Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di
Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un
bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con
cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in
affitto.
L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello
sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini:
«Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi
da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa;
l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di
molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche
degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada
al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare
strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali,
smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro
che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia.
Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può
giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo
rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per
la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal
punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una
realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive
Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che
portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli
abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento
come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro
sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di
società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle
rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro
che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi.
Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si
basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo
positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando
le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che
trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico
esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere.
Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche
essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della
storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato
immutabile.
Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche
casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce
n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora
realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
(disegno di martina di gennaro)
L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers
les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo
dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la
seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua
analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo
saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura
come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si
basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani
Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente
a Gaza e in Libano.
Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia
di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio
della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare
confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di
lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i
vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”.
La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune
istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su
larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone
di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’),
suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di
intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una
decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”.
Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno
all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria
militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti
recenti.
Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha
visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone,
nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un
totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle
vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto
la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La
direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in
possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la
procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono
arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti
antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno
del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una
trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.
In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e
rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla
Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo
dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di
queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri
interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia,
congedandoli dopo vaghe promesse.
Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono
cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle
famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o
comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove
si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto.
Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case
promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi
racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che
rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli
alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per
assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non
sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta
di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di
nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma
l’Asl non aspetta».
L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli
abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i
nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della
palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare
e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente
utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità
di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo
muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente
dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli
abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù
dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono
diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono
precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha
accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un
nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è
un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello
quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la
corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono
accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male?
Sono mesi che stiamo così».
Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie
dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale
Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante
racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta
ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i
documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso
principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il
traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi,
invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a
poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine
ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di
stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a
fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti
all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro
le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che
le videocamere non funzionano».
In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni,
violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si
dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in
un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli
schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo
caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente
nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo
spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto
questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al
contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un
muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali
giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto
che non si sa bene cosa significhino.
L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più
gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli
ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io
amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come
piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga.
Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra».
Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la
stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a
Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di
vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo
avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese,
minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non
avessero lasciato l’edificio pacificamente.
Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il
Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato.
Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene
scandito da intimidazioni e incertezze.
In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno
della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di
dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare
Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi,
mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che
si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di
spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi
effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente
e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia
dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a
scomparsa”. (barbara russo)
Il 18 settembre la Camera ha dato il via libera in prima lettura al ddl
sicurezza voluto dal governo che all’articolo 10 introduce nell’ordinamento il
nuovo reato di «occupazione arbitraria di un immobile destinato a domicilio
altrui», prevedendo il carcere da due a sette anni per chi commette il reato.
di Anna Toniolo da facta news
Questa decisione ha rimesso al centro del dibattito un tema tornato in auge a
partire dallo scorso 23 giugno, quando la neoeletta eurodeputata di Alleanza
Verdi-Sinistra Ilaria Salis aveva pubblicato un post su Instagram in cui
scriveva che «chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno,
se non al degrado, al racket e ai palazzinari».
Molti utenti dei social network sostengono che chi occupa le case si appropri
indebitamente delle proprietà di persone anziane che si allontanano dalla
propria abitazione per brevi periodi, ad esempio per andare a fare la spesa o a
causa di ricoveri ospedalieri. Questa narrazione è attivamente sostenuta anche
da una parte dell’informazione italiana e si fonda su presupposti aneddotici e
casi isolati, ma non è supportata da dati reali.
La realtà è infatti un po’ più complessa e il fenomeno delle occupazioni abusive
è legato principalmente al numero di edifici pubblici e privati sfitti, oltre
che all’incapacità di molte persone di pagare un alloggio in affitto o in
vendita.
Le occupazioni abusive hanno a che fare con le case sfitte
«Io sono contro le occupazioni abitative perché penso che alimentino una guerra
tra poveri» ha spiegato a Facta Stefano Chiappelli, segretario generale di
Sunia, organizzazione degli inquilini privati e degli assegnatari di edilizia
pubblica, aggiungendo che però questo fenomeno esiste e non è possibile non
considerarne le ragioni. In particolare Chiappelli ha sottolineato che nelle
grandi aree urbane e metropolitane «è un fenomeno che non si è voluto affrontare
a monte» perché non si fa niente per non lasciare sfitti gli alloggi.
Nonostante liste d’attesa infinite, infatti, su un totale di quasi 770 mila
alloggi ERP, cioè di edilizia residenziale pubblica, gli alloggi sfitti in
Italia sono oltre 60mila e quelli occupati abusivamente più di 16mila. Questo
secondo le stime di Federcasa, l’associazione che riunisce le ottantaquattro
aziende che in Italia gestiscono gli alloggi popolari, mentre la politica – da
Matteo Salvini al Partito Democratico – parlano di 90 mila case popolari
attualmente inutilizzate. Stime, appunto, perché sul tema non esiste alcun
registro ufficiale.
Il fenomeno delle occupazioni abusive, sempre secondo Chiappelli, è presente
principalmente nelle grandi città e nelle grandi aree metropolitane, dove «il
disagio abitativo è pesante e forte e dove mancano le risposte da parte del
governo e delle istituzioni». A occupare abusivamente, infatti, sono in molti
casi persone o famiglie che vivono con difficoltà economiche, che non hanno un
luogo dove vivere o in assenza di alternative disponibili. Una parte delle
occupazioni è controllata da racket criminali che si sostituiscono alle autorità
pubbliche e lucrano distribuendo appartamenti vuoti in condizioni fatiscenti,
certo, ma si tratta di situazioni meno comuni, che non fotografano
esaustivamente la realtà del fenomeno.
Quando nel 2017 l’allora sindaca di Roma Virginia Raggi avviò un’indagine sul
fenomeno delle occupazioni nella capitale, si scontrò con l’assenza di un
catasto degli immobili occupati. Come spiega il sito dell’Associazione nazionale
dei comuni italiani, comunque, questi erano perlopiù alloggi pubblici e solo una
minima parte di questi appartenevano a privati. Oggi come allora, lo scenario di
chi prova a mettere in ordine i dati sulle occupazioni abusive è tutto fuorché
roseo: nessun dato certo sul numero di immobili occupati, nessuna informazione
circa la natura degli immobili – impossibile dunque sapere se al momento
dell’occupazione le case fossero piene oppure no – e buio pesto anche sui
proprietari degli immobili o precedenti inquilini.
In questo blackout informativo tutto ciò che resta sono le testimonianze di
natura aneddotica, lunghi servizi dai toni emergenziali e interviste ad anziani
che hanno visto la propria casa occupata da un giorno all’altro dopo essere
usciti a fare la spesa. Casi reali, certo, ma che non fotografano correttamente
un fenomeno costellato anche di alloggi sfitti, abbandonati o fatiscenti e liste
d’attesa che non funzionano. E che rischia, soprattutto, di far dimenticare il
contesto in cui tutto questo avviene, quello di una crisi abitativa che sta
escludendo una larga parte della popolazione dal diritto di avere una casa.
La battaglia contro le occupazioni abusive intrapresa dal governo Meloni ha fin
qui prediletto l’approccio securitario e, come abbiamo visto, arriva
principalmente sull’onda dell’emotività e senza il sostegno di dati certi. È
arrivato il momento di parlare delle cause profonde di una crisi abitativa che
si sta prendendo tutto.
La crisi abitativa è reale
Diminuzione del potere d’acquisto dei salari, carenza di alloggi a prezzi
accessibili, ma anche inflazione e aumento del costo della vita sono tra i
fattori che alimentano quella che viene chiamata “crisi abitativa”. In Italia le
famiglie che vivono sotto la soglia di povertà sono in aumento, ma lo sono anche
i prezzi degli affitti e delle case, il numero degli sfratti e le locazioni
destinate ai turisti, soprattutto nelle grandi città.
La crisi abitativa, secondo gli esperti, ma soprattutto secondo i dati, è reale
e tangibile nel nostro Paese ed è una questione sfaccettata e complessa. «Ogni
giorno si accresce il disagio abitativo» ha dichiarato a Facta Stefano
Chiappelli, segretario generale di Sunia, evidenziando come si tratti di «una
crisi permanente, che ormai ci portiamo dietro da decenni». Eppure, in molte
occasioni, il dibattito sul diritto alla casa manca di considerare il quadro
nella sua complessità, dimenticando una serie di problematiche e dinamiche
legate alla disponibilità, all’accessibilità e alla qualità delle abitazioni,
riempiendo invece di luoghi comuni la discussione.
Affitti, case di proprietà, costi e povertà: una situazione che parla chiaro
Il 6 settembre 2022 l’Istat ha presentato una relazione che espone e spiega
alcune delle principali dimensioni della disuguaglianza abitativa in Italia. I
dati forniti mettono in luce e confermano che il problema della casa è una
questione di grande criticità per una parte significativa della popolazione.
Inoltre, evidenziano come alcune condizioni sociali o di fragilità siano
fortemente correlate alla possibilità di vivere in situazioni precarie, alle
difficoltà nel mantenere il proprio alloggio e alla capacità di superare una
condizione di emergenza abitativa.
Il resoconto mostra che per alcune categorie sociali e gruppi di cittadini, come
le famiglie monoparentali, le famiglie di origine straniera e le giovani coppie,
le difficoltà nel trovare e acquistare un’abitazione sono in crescita. Questo è
dovuto principalmente alla richiesta di garanzie che sono spesso molto difficili
o addirittura impossibili da fornire, nonché alla difficoltà di accedere a case
in affitto a prezzi sostenibili, a causa della scarsità di opzioni di edilizia
pubblica e di abitazioni a canone concordato o altre forme di agevolazione.
Secondo i dati riportati da Istat, nel 2021 in Italia 42,7 milioni di persone
(cioè il 72,5 per cento del totale) vivevano in case di proprietà, mentre 11,8
milioni (il 20 per cento) viveva in affitto e 4,4 milioni di persone (il 7,6 per
cento) in usufrutto o in case a uso gratuito. Le percentuali riferite al 2023,
rilevate sempre dall’Istituto di statistica, sono simili, con il 19,4 per cento
delle persone che vive in affitto e l’80,6 per cento che risiede, invece, in una
casa di proprietà.
Nonostante la tradizione italiana di possedere un immobile sia molto forte, i
dati mostrano che l’affitto rimane la forma abitativa prevalente per le famiglie
a basso reddito, con il 32 per cento dei nuclei appartenenti al primo quintile,
cioè nel 20 per cento più basso per reddito o benessere rispetto alla
popolazione totale, che vive, appunto, in affitto. Questa percentuale, invece,
si abbassa man mano che il reddito aumenta, arrivando all’11,3 per cento per le
famiglie che rientrano nell’ultimo quintile, cioè quelle con il reddito più
alto.
Il legame tra reddito, povertà e condizioni abitative è molto stretto.
L’incidenza di povertà assoluta, cioè le famiglie e le persone che non possono
permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile, varia infatti
anche a seconda del tipo di casa in cui si abita, ad esempio se è di proprietà o
in affitto. Nel 2022 l’Istat ha contato oltre 983 mila famiglie povere in
affitto, pari al 45 per cento del totale delle famiglie in condizioni di
povertà. L’incidenza della povertà assoluta tra queste famiglie è stata del 21,2
per cento, a fronte del 4,8 per cento di chi vive in una casa di proprietà ed
entrambi questi valori sono maggiori rispetto all’anno precedente.
A peggiorare queste condizioni di diseguaglianza si inserisce anche il continuo
aumento dei canoni che, secondo l’Osservatorio affitti di Immobiliare.it, a fine
febbraio 2024 erano cresciuti del 10,1 per cento rispetto all’anno precedente.
Per Antonio Intini, responsabile dello sviluppo del business di Immobiliare.it,
i dati raccolti dall’Osservatorio evidenziano quanto il mercato delle locazioni
in Italia sia in costante crescita. Intini ha dichiarato che «in un contesto di
difficile congiuntura economica come quello che stiamo vivendo, con prezzi di
vendita che non mostrano segni di arresto e tassi ancora alti seppur in calo,
comprare casa diventa una scelta meno accessibile», aggiungendo che da questa
situazione deriva una marcata predilezione per gli affitti, «che comportano meno
vincoli e più flessibilità rispetto a un acquisto».
In queste condizioni l’accesso al mercato abitativo risulta un percorso in
salita, costellato da notevoli difficoltà e non sempre accessibile per tutti.
L’incursione delle locazioni turistiche
A complicare la situazione si inserisce anche un trend che sta prendendo sempre
più piede nella maggior parte delle grandi città in Italia, ma non solo:
l’utilizzo delle case per locazioni di breve periodo. Negli ultimi anni la
mancanza di una vera e propria regolamentazione del settore ha portato un numero
crescente di privati ad affittare le proprie case ai turisti, togliendole così
dal mercato degli affitti di lungo periodo, diventando «una parte preponderante
tra gli elementi che creano il disagio abitativo», come ha spiegato a Facta il
Segretario generale di Sunia Stefano Chiappelli.
A livello globale l’offerta di affitti brevi nel 2023 è cresciuta del 24 per
cento rispetto all’anno precedente e anche in Italia il mercato è molto attivo,
collocando il Paese al terzo posto dopo Stati Uniti e Francia per numero di
unità immobiliari proposte in affitto breve su Airbnb. Il Centro studi Aigab,
Associazione italiana affitti brevi ha rilevato che su 35 milioni di
appartamenti residenziali nel nostro Paese sono 9,6 milioni le seconde case non
utilizzate, e di queste solo 640 mila sono poste in affitto breve tramite
annunci online.
Nonostante secondo Aigab il numero non sia così elevato, il problema principale
di questo tipo di locazioni è il fatto che manca una regolamentazione chiara.
Mentre le amministrazioni di città come Barcellona hanno iniziato a porre limiti
al numero di licenze concesse per questo tipo di affitti, in Italia mancano
regole definite che rendano davvero possibile controllare la proliferazione di
questa tipologia di locazioni. Inoltre, i Comuni non hanno potere di legiferare
su questo tema e molte amministrazioni locali chiedono di poter avere il
controllo su questo tipo di competenze, in quanto ogni città è diversa e può
gestire la situazione con strumenti e modalità differenti. Secondo Chiappelli è
fondamentale che decidano i Comuni come regolamentare gli affitti brevi, in base
«alla condizione abitativa, al numero di famiglie che sono in graduatoria per
l’edilizia popolare, al fabbisogno abitativo» e ad altri elementi che compongono
la fotografia del disagio abitativo in quello specifico luogo.
Uno dei casi italiani più esemplificativi è sicuramente la città di Venezia la
cui popolazione è passata da oltre 360 mila abitanti nel 1970 a 252 mila nel
2023, dove a soffrire di più è il centro storico con le isole di Murano e
Burano. Nel 2023, infatti, il numero dei posti letto per turisti ha superato
quello dei residenti e dal 1997 al 2022 questa zona di Venezia ha perso in media
2,4 residenti al giorno a fronte di una crescita di 4,8 posti letto. Secondo
Ocio, Osservatorio civico sulla casa e sulla residenza di Venezia, nel 2023
quasi due terzi, cioè il 64 per cento, dei posti letto dell’offerta ricettiva di
Venezia, Murano e Burano era in strutture non alberghiere come locazioni
turistiche, ostelli, bed and breakfast e simili e gli alloggi privati
costituivano la quasi totalità delle strutture ricettive di Venezia insulare.
Sono aumentati gli sfratti
L’aumento del numero di famiglie in difficoltà economica che vive in affitto, la
situazione legata alle locazioni turistiche e il disagio abitativo in generale
sono strettamente collegati al fenomeno degli sfratti.
Secondo i dati del ministero degli Interni, nel 2022 gli sfratti esecutivi, cioè
una procedura legale volta a liberare un locale affittato, sono stati più di
30mila su quasi 42 mila provvedimenti emessi. Questi numeri hanno fatto segnare
un aumento annuo enorme rispetto all’anno precedente, con un incremento del
218,60 per cento. Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di
strada, ha spiegato a Facta che è sicuramente importante guardare all’aumento
del numero di sfratti per morosità, cioè che avvengono per mancato pagamento del
canone di affitto alle scadenze, ma anche all’incremento esponenziale di quelli
che avvengono per finita locazione. «E questo avviene principalmente perché i
proprietari» ha chiarito Mumolo, «non solo nelle grandi città, tendono ad
affittare le case per affitti brevi, perché frutta molto di più dell’affitto a
famiglie o studenti». Questa situazione aumenta inevitabilmente le difficoltà
che le persone che si trovano senza casa devono affrontare, considerando,
inoltre, che in Italia solo il 4 per cento del patrimonio abitativo è in mano
pubblica, contro il 36 per cento dei Paesi Bassi, ad esempio, o il 20 per cento
della medie dell’Unione europea.
Il risultato è che da un lato si registra un numero sempre maggiore di sfratti,
e quindi di famiglie in stato di grave emergenza abitativa, dall’altro lato
l’offerta di edilizia residenziale pubblica si è ridotta negli anni e lo Stato
non riesce a rispondere alle esigenze del sempre maggior numero di persone che
si trova impossibilitata, per un motivo o per un altro, ad avere un tetto sopra
la testa. La situazione dell’edilizia pubblica prevede lunghi tempi di attesa
per la pubblicazione delle graduatorie e per l’assegnazione degli alloggi, a
fronte di un fabbisogno abitativo stimato dagli Enti Gestori in almeno 600 mila
unità immobiliari.
Una serie di fattori, quindi, che alimentano quella che viene chiamata crisi
abitativa, ma che in pratica è l’impossibilità di interi gruppi di persone di
accedere a un diritto fondamentale: quello alla casa.
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