(disegno di valentina galluccio)
Scrive un deputato della repubblica italiana, economista, segretario di un
partito, in un post di lunedì 21 luglio: “Facciamola semplice: se in una
qualsiasi città i prezzi delle abitazioni sono troppo alti, c’è un solo modo per
farli scendere: costruire più abitazioni”. Il contesto, inutile dirlo, è il
continuo e sfacciato tentativo di tenere in piedi il “modello Sala”, crollato
rovinosamente a Milano. Ma il deputato Marattin si inerpica su un terreno
spinoso. Secondo lui la speculazione immobiliare, la costruzione estensiva di
abitazioni, sarebbe un modo non solo per far guadagnare i costruttori, com’era
sicuramente l’obiettivo del modello Milano, ma anche per abbassare i canoni
d’affitto. Al di là delle vicende giudiziarie, insomma, fomentare la costruzione
fa bene a tutti.
Il deputato va oltre, e scrive, excusatio non petita: “I tentativi di abbassare
gli affitti controllandoli per legge sono stati un fallimento in tutto il mondo
e in ogni tempo”. Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di
più cemento, non di leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così
controintuitiva ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché?
Da una parte si continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino
per la società e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare
l’evidenza, per esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni
sia orientato a favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a
risolvere i problemi abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste
il mito della mano invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato,
spontaneo e in qualche modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende –
anche quando è così evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi
vende o affitta le case ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di
“inventare” e diffondere una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a
comprarle, non ha strumenti di questo tipo a disposizione. Queste “soluzioni
semplici”, che nascondono potere e diseguaglianze, fanno venire voglia di
mettere mano alla sciabola. Per sublimare questo desiderio vale la pena fare una
piccola carrellata sui “tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per
legge” – le leggi per il rent control – che sono invece proprio le misure di cui
abbiamo bisogno ora.
DUEMILA ANNI DI CONTROLLO DEGLI AFFITTI
L’umanità dev’essere proprio impermeabile agli errori, se lo stesso fallimento
continua a riproporsi anche a distanza di millenni. La prima legge per
controllare gli affitti che conosciamo risale alla Roma repubblicana,
cinquant’anni prima della nascita di Cristo: fu sperimentata all’inizio nella
piccola “colonia interna” del porto di Ostia, come cancellazione dei debiti e
blocco dei pagamenti per un anno. Misure simili furono usate da Cesare e da
Ottaviano, più avanti dagli imperatori Valeriano e Gallieno.
Altri esempi importanti furono le misure straordinarie introdotte dalla dinastia
Song in Cina, intorno all’anno 1000; nel 1513, nello Stato Pontificio,
un Decretum Camerae Apostolicae in fauorem inquilinorum sancì il
controllo pubblico sugli affitti; a metà Settecento un editto del Regno di
Sardegna affidò al vicario di Torino il compito di “conoscere e provvedere circa
le differenze per eccessivo aumento di fìtto tra li padroni di case poste in
detta Città ed i loro affittavoli, e di procedere ove d’uopo alla tassa de’
luoghi appigionati”; nel 1815 il Ducato di Modena pubblicò una legge che fissava
l’affitto al 6% del valore della proprietà.
Si possono citare un’infinità di altri esempi, particolarmente concentrati
nell’Europa meridionale – da Parigi a Malta, dal Portogallo alla Madrid del
1600: in alcuni casi le leggi funzionarono, in altri casi no (come quelle
dell’imperatore Gallieno: i proprietari le aggirarono stipulando contratti
brevi, non regolati). Ma quello che più interessa sono le forme di regolazione
moderne, che si diffusero in varie parti d’Europa e in Nordamerica all’inizio
del Novecento. Le lotte del movimento operaio di metà-fine Ottocento in molti
casi reclamarono il diritto alla casa per chi viveva in affitto, cioè la
totalità della classe lavoratrice: i padroni delle fabbriche erano spesso anche
i padroni delle case. In Scozia, Inghilterra, Irlanda, Svezia e Spagna, a
cavallo del secolo, ci furono grandi “scioperi dell’affitto” che si conclusero
spesso con l’approvazione di leggi per il controllo dei canoni: 1915 in Scozia,
Inghilterra e Irlanda, 1917 in Svezia, 1919 in alcune parti della Germania, 1920
in Spagna e a New York. Erano leggi pensate per essere temporanee, ma furono
rinnovate per reggere l’emergenza della Grande Guerra.
La storica Jo Guildi spiega che il primo movimento inquilino moderno
per l’abbassamento dei canoni era in primo luogo un movimento anticoloniale:
furono i contadini irlandesi vessati dai proprietari inglesi a reclamare
l’abbassamento per legge degli affitti delle terre e delle masserie, con
il primo sciopero degli affitti della storia. Il parlamento irlandese
approvò un Land Act che impose che i contratti tra inquilini e proprietari
considerassero il diritto all’uso delle terre, non solo quello alla proprietà, e
regolati da un tribunale speciale. Dei valutatori professionisti analizzavano i
canoni caso per caso. I movimenti inquilini di altre regioni britanniche presero
l’esempio e iniziarono altri scioperi dell’affitto: il più grande fu quello del
1915 a Glasgow, dove c’è ancora la statua di una delle leader della protesta
inquilina, Mary Barbour (gli inquilini e le inquiline che trattenevano l’affitto
furono chiamati “l’esercito di Mrs. Barbour”).
Anche in Spagna le donne erano molto attive nelle organizzazioni inquiline di
inizio secolo: i sindacati inquilini di Bilbao, Valencia e Barcellona furono
fondati nel 1904, e nel 1920 riuscirono a far approvare la prima legge per
ridurre i canoni, estendere la durata dei contratti e limitare gli sfratti. Le
proteste non si fermarono, e nell’aprile 1931 a Barcellona iniziò un
enorme sciopero dell’affitto (la huelga de alquileres), chiamato dal sindacato
anarchico della CNT, a cui parteciparono oltre centomila unità abitative.
Queste leggi ottennero l’abbassamento dei canoni, anche se spesso il risultato
fu inferiore alle aspettative: l’obiettivo della CNT era che
gli affitti scendessero del quaranta per cento e fossero azzerati per chi non
aveva reddito (perché la casa è un diritto!). Il governo repubblicano spagnolo
non arrivò a tanto, ma certamente molte famiglie operaie o disoccupate videro
migliorare le proprie condizioni prima che Francisco Franco iniziasse a
intaccare il controllo pubblico sugli affitti. Anche in Italia fu Mussolini, nel
1923, a eliminare il blocco degli affitti in vigore sin dalla Grande Guerra: fu
la prima legge del fascismo, fatta per compiacere proprietari immobiliari e
investitori. Gli affitti aumentarono vertiginosamente, soprattutto a Roma e
Milano, e nel 1930 il regime dovette reintrodurre la regolamentazione. Anche i
governi più conservatori ricorrono al controllo degli affitti in tempi di guerra
e di crisi, e gli effetti sono evidenti: gli affitti scendono e gli inquilini
più vulnerabili hanno meno difficoltà a rimanere nelle loro case. Lo dimostra
anche l’esempio dell’Argentina, dove il rent control permise a migliaia di
famiglie di sopravvivere dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con
regolamentazioni molto stringenti.
INEFFICACIA DEL RENT CONTROL, UN MITO DEL MACCARTISMO
L’attacco più duro al controllo degli affitti fu negli anni Cinquanta,
quando forme di rent control erano attive in molti stati e
città sia d’Europa che d’America. Il mantra degli economisti liberisti
statunitensi, orientati dal maccartismo, dall’anticomunismo e dalla retorica
del laissez-faire, divenne proprio “l’inefficacia” del rent control
, argomentazione ripresa oggi dal deputato Marattin. Per non dire che il
controllo degli affitti fa male ai proprietari, si iniziò a dire che faceva male
agli inquilini. Negli anni Settanta, importanti economisti come Milton Friedman
e Friedrich Hayek furono i campioni di questa nuova ondata di retorica
liberista, che si scatenò ovunque si fossero ottenute conquiste sociali nei
decenni precedenti. La retorica contro il rent control raggiunse picchi epici,
come quando l’economista svedese Assar Lindbeck scrisse che il controllo degli
affitti “sembra essere la tecnica più efficace per distruggere una città, oltre
a bombardarla”.
Ora sappiamo che queste sparate erano parte di un vero e proprio progetto
politico, quello identificato da Marco D’Eramo in Dominio, e cioè l’assalto dei
think tank conservatori alle conquiste del movimento operaio e delle battaglie
degli afroamericani per i diritti civili. Think tank finanziati dalla lobby
immobiliare come il Fraser Institute ebbero un ruolo determinante nel modellare
il discorso pubblico. Mentre Lindbeck e gli altri pontificavano sull’inefficacia
del rent control, l’associazione dei proprietari immobiliari californiani
spendeva quattordici milioni di dollari per far ritirare le regolamentazioni,
allora attive in tredici comuni dello stato – oltre che in cinque città del
Massachusetts, centoventi del New Jersey, e a New York. Anche in Europa il
controllo degli affitti cadde, prima in Irlanda, nel 1966, poi in Inghilterra,
nel 1982, poi in Spagna, nel 1986, infine in Italia, con la liberalizzazione dei
fitti del 1998. Mentre la prima stagione di liberalizzazioni fu guidata dalla
destra (Reagan e Thatcher), la seconda è interamente opera della cosiddetta
sinistra (il Psoe di Felipe González in Spagna, il governo D’Alema in Italia).
L’opera iniziata da Franco e Mussolini fu conclusa dagli ex comunisti.
Tom Slater e Hamish Kallin, geografi marxisti scozzesi, oggi i principali
esperti di rent control, descrivono questo assalto come una “pseudoscienza”,
promozione organizzata dell’ignoranza. L’assalto degli economisti al rent
control si basa sempre su tre miti. Il rent control spingerebbe i proprietari a
ridurre l’offerta di case (supply myth), non incentiverebbe i proprietari a
migliorarne la qualità (quality myth), e in generale sarebbe inefficiente
(efficiency myth) perché gli inquilini finirebbero per abitare case migliori di
quelle che si possono permettere. In un libro che uscirà a fine anno con Armando
Editore, scritto insieme a Chiara Davoli, entreremo più nel dettaglio sulle
fallacie fattuali e logiche di questi tre miti, il cui debunking comunque si
trova negli articoli e nelle interviste di Slater e Kallin
(come questa, questo, e questo, purtroppo protetti da paywall accademici). Per
riassumere, basti vedere che trent’anni di liberismo non hanno certo prodotto
maggiore offerta di case, né maggiore qualità; qualità e offerta sono molto
migliori in paesi dove ci sono regolamentazioni, come i Paesi Bassi, rispetto
che a dove non ci sono, come il Regno Unito. Si pensi alla tragedia della
Grenfell Tower a Londra, dove morirono settanta persone a causa della pessima
qualità delle abitazioni, in un sistema ultraliberista: la mano invisibile del
mercato non aveva dato neanche una passata di vernice. Anzi, è proprio il libero
mercato a produrre effetti simili a un bombardamento: un esempio per tutti,
Detroit. Meglio non commentare il mito dell’efficienza, che dà per scontato che
i poveri debbano vivere sempre al minimo della sussistenza, e che le case grandi
e belle devono essere per forza abitate dai ricchi.
RENT CONTROL OGGI
Nonostante questo assalto neoliberale, nonostante i Marattin, nonostante i think
tank nostrani (il presidente di Confedilizia Calabria, Sandro Scoppa, ha curato
un recente volume dal titolo Controllare gli affitti, distruggere l’economia),
nuove forme di controllo pubblico sugli affitti stanno tornando in auge in tanti
paesi del mondo. L’evidenza del fallimento del libero mercato, soprattutto di
fronte alla catastrofe abitativa dopo il 2008 e dopo il 2020, è così evidente
che i vecchi miti economicisti non reggono più. Le stesse amministrazioni
pubbliche che per decenni hanno ignorato ogni studio non finanziato dalle lobby
dei costruttori oggi hanno iniziato ad ascoltare altre posizioni, in particolare
quelle dei sindacati inquilini e dei loro esperti indipendenti. Oggi ci sono ben
sedici paesi dell’Unione Europea in cui sono attive forme di controllo degli
affitti: le regolamentazioni più dure sono presenti in Francia, Irlanda, Paesi
Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e quelle più leggere sono in Spagna,
Germania, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Croazia, Polonia, Cipro, Scozia,
Norvegia. L’Italia è uno dei diciassette paesi dell’Unione che non ha più
nessuna forma di controllo degli affitti, insieme a Portogallo, Grecia,
Inghilterra, Islanda, Finlandia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca,
Ungheria, Romania, Serbia, Bulgaria e i tre paesi baltici. Gran parte delle
leggi sul rent control sono state introdotte negli ultimi cinque o sei anni, per
cui è presto per dire quale è stato il loro effetto (primi studi si
trovano qui e qui). Ma è interessante sapere che oggi il paese dove ci sono più
forme di controllo degli affitti sono proprio gli Usa: New York ha un controllo
sugli affitti che si applica solo a un numero limitato di abitazioni, e la Rent
Stabilization Ordinance di Los Angeles stabilisce un tetto massimo agli aumenti
degli affitti, che fino al Covid era del tre per cento. Negli Stati Uniti
il rent control è l’unica politica pubblica che si possa ancora usare per
limitare i danni del neoliberalismo, perché le leggi federali impediscono la
costruzione di nuove case popolari (se non per sostituire quelle da abbattere).
La domanda chiave, ovviamente, è: il controllo pubblico sugli affitti riesce
davvero a far calare i prezzi dei canoni? Oggi che le case sono completamente
costruite da privati, e che è possibile produrne una grande quantità, che
effetto ha l’intervento pubblico? Intanto, niente panico, sappiamo bene che lo
Stato interviene in un enorme quantità di settori economici, e che di fatto non
c’è niente di simile a un vero “mercato”: lo stato regola, interviene, sussidia,
promuove, detassa, finanzia, aiuta. Non sarebbe un’eresia se invece di
intervenire solo sul tabacco e sul sale, o su pasta, latte e uova come durante
la pandemia, si intervenisse anche sulle case. Gli studi esistenti dicono
chiaramente che i miti sulle presunte catastrofi del rent control sono falsi: in
nessuno dei paesi in cui sono attive politiche di questo tipo c’è stato niente
di simile a un bombardamento, né drastiche riduzioni della qualità e
dell’offerta. Anche le regolamentazioni attivate sono piuttosto blande: si
congelano i canoni, permettendo solo aumenti legati all’inflazione, o a
miglioramenti sostanziali nella qualità degli alloggi (rent freeze) oppure si
fissa un tetto massimo sopra il quale non si può aumentare (rent cap, in
tedesco Mietendekel).
Il progetto del Sindacato inquilini della Catalogna di abbassare gli affitti del
cinquanta per cento, sostenuto da una grande manifestazione a Barcellona a
novembre, non si è ancora realizzato, e la nuova legge spagnola è piena di
“buchi” che permettono ai proprietari di aggirarla, proprio come avevano fatto i
loro omologhi al tempo dell’imperatore Gallieno: stipulando contratti brevi non
regolati. Anche quando non ottiene i risultati sperati, tuttavia, il rent
control non fa di certo male, almeno non agli inquilini. Fa anche bene? Le prime
analisi sembrerebbero confermarlo: uno studio condotto dalla municipalità di
Parigi sui primi sei anni di controllo degli affitti mostra che i canoni sono
scesi del quattro per cento rispetto a quanto avrebbero fatto senza
regolamentazione: del due per cento nel primo triennio (che però è anche quello
della pandemia), e poi addirittura del sei per cento. Sono sessantaquattro euro
di media al mese risparmiati dagli inquilini. Intanto sono stati
segnalati milleseicento casi di infrazione, con i relativi procedimenti contro i
proprietari: quasi la metà degli annunci indicano prezzi più alti di quelli
consentiti per legge. Se tutti i proprietari avessero rispettato la legge, la
diminuzione degli affitti sarebbe stata superiore agli otto punti percentuali.
Conclusioni simili risultano dalla Catalogna, dove il controllo degli affitti è
stato in vigore per un anno e mezzo, prima di essere annullato dal Tribunale
costituzionale (e sostituito dalla timida Ley de Vivienda del governo Sánchez).
I prezzi sono scesi del cinque per cento già dai primi tre mesi di
regolamentazione, secondo i dati dell’Istituto Catalano del Suolo. Naturalmente,
i proprietari hanno reagito riducendo i contratti indefiniti e stipulando molti
più contratti temporanei, che il governo aveva iniziato a regolare quando è
stato bloccato dal partito catalanista Junts, oltre che dai fascisti del Pp e di
Vox. Altre situazioni sono ancora più complesse. A Vienna, per esempio, dove il
settantotto per cento degli abitanti vive in affitto, e appena un terzo di
questi è in affitto da privati, ci sono forme molto estese di regolamentazione
dei prezzi: solo il sette per cento non è regolato. Eppure, negli ultimi anni i
prezzi sono comunque saliti, portando il governo ad approvare un nuovo
congelamento dei prezzi. In Olanda invece il sistema sembra funzionare bene, con
un meccanismo centralizzato che calcola i prezzi, e che tiene fuori dalle
regolamentazioni solo le case di lusso. Ci sono tribunali che sanzionano le
violazioni, e tutti i contratti d’affitto sono diventati contratti permanenti.
Insomma, far scendere gli affitti è una priorità assoluta, ma non si può credere
che si possa fare con “soluzioni semplici” alla Marattin: serve un’azione
combinata, in cui si colpisce in primo luogo il mercato libero, poi gli affitti
brevi, poi altre forme di speculazione, come i grandi proprietari che tengono
centinaia di case vuote, e che devono essere tassati. Dire “basta fare x per
abbassare gli affitti” è la tipica soluzione “semplice, elegante e sbagliata”
che permette di continuare a produrre i danni che si vuole contenere, magari
anche a peggiorarli: stampare moneta per risolvere la crisi del debito, tagliare
le politiche sociali per affrontare la recessione (in Grecia), imporre dazi per
salvare posti di lavoro (in Usa), congelare i conti bancari per impedire la fuga
di capitali (in Argentina), o immettere enorme quantità di moneta per far
funzionare il sistema bancario malato dopo il 2008 (ovunque).
Il sistema delle abitazioni è complesso, perché nessuno può rimanerne fuori, e
perché si basa su un bene già distribuito in maniera diseguale, cioè la terra.
Non si può applicare astrattamente la legge della domanda e dell’offerta, perché
non è un mercato competitivo, dove se aumenta l’offerta i prezzi scendono. La
stessa metafora del “mercato” è fuorviante: si potrebbe paragonare più a un
centro commerciale, dove i negozi dipendono tutti dallo stesso franchising, e un
singolo operatore è in grado di influenzare tutti. L’offerta di case è un
oligopolio, regolato da cartelli e da lobby, che sono sostenute dai governi, e
che mantengono i prezzi alti mettendo sul mercato poche case alla volta e
tenendone chiuse migliaia di altre per usarle come deposito di investimenti e
garanzie per ottenere nuovo credito.
Pensate a quanto ci siamo scandalizzati durante la pandemia, quando alcuni
commercianti mettevano sul mercato piccole quantità di mascherine e amuchina per
far alzare i prezzi, e vendere a otto euro quello che sarebbe dovuto costare
pochi centesimi. Ma come! Sono beni di prima necessità, presidi indispensabili
per la salute! Lo stato deve impedirlo! Bene, lo stesso ragionamento si applica
alle case, che sono un bene di prima necessità, presidio di salute fondamentale,
e che pochi speculatori mettono sul mercato in piccole quantità per tenere
prezzi assolutamente insostenibili. Il controllo degli affitti è sicuramente un
modo per iniziare a scalfire il dumping commerciale delle grandi lobby della
proprietà, e deve diventare assolutamente una delle richieste prioritarie del
movimento per la casa (come già annunciato dal sindacato Asia-Usb in un convegno
a Roma).
Mentre facciamo crescere le campagne per il rent control, però, dobbiamo
studiarne in dettaglio l’applicazione, gli effetti, le varianti, prendendo in
considerazione tutti i fattori che possono far aumentare o diminuire gli
affitti. Ci vuole un pensiero olistico, che rifiuta a priori gli “è semplice”
alla Marattin, e che sia in grado di combinare un’azione politica decisa con un
ragionamento scientifico complesso, capace di mettere in discussione anche
quello che consideriamo ovvio. Come scrivono due economisti svedesi
nello studio su cui si basa la nuova politica di rent control del governo
svedese: “Il rent control ci riporta alla macroeconomia: se lo studi e non ti
senti un po’ confuso, probabilmente non stai pensando lucidamente”. (stefano
portelli)
Tag - casa
Nella giornata di martedi 29 luglio tre attiviste e attivisti del Movimento per
il Diritto all’Abitare di Roma hanno subito la perquisizione dell’abitazione e
del posto di lavoro con il sequestro dei cellulari, dei computer e di materiale
cartaceo di varia natura. Un’operazione con uno spropositato dispiegamento di
personale dei Carabinieri e della Digos, sovradimensionata […]
Una detenuta trans ha denunciato di essere stata violentata da quattro uomini
all’interno del carcere di Ferrara. La Garante: “Era disperata. Aveva chiesto di
essere trasferita” di Diana Ligorio da il Domani Una detenuta trans ha
denunciato di essere stata violentata da quattro uomini all’interno del carcere
di Ferrara. La denuncia è stata formalizzata il […]
(disegno di escif)
Il Largo do doutor Pedro Vitorino si trova nel centro di Porto. Nei pressi c’è
un piccolo spiazzo panoramico, il Miradouro da Vitoria, da cui si possono vedere
il fiume Douro e il ponte Luiz I, che unisce Porto con Vila nova de Gaia, città
di oltre trecentomila abitanti che si estende a sud del fiume.
Nel complesso i due comuni, situati nel nord nel Portogallo, superano i
cinquecentomila abitanti, costituendo la seconda area urbana del paese dopo la
capitale Lisbona. Dall’altra parte del Douro si vedono le sedi di alcune aziende
produttrici del famoso vino locale, il Porto, mentre una funivia collega la riva
del fiume con il parco chiamato Jardim do Morro.
In mezzo alle case e agli edifici del centro, da entrambi i lati del fiume, si
vedono diverse gru per costruzioni. Nelle sue zone centrali – come quella
intorno alla stazione della metro Aliados, dove ha sede il Comune, e alla
stazione ferroviaria di São Bento – Porto è piena di turisti. È forse scontato
dire che il turismo sta cambiando la città, ma quello che altrove è ormai un
fenomeno affermato qui sembra avere ancora margine di crescita.
Sia in centro che in periferia si vedono diversi edifici fatiscenti: in più
occasioni si possono notare piani interni crollati e solo la facciata in piedi,
con poche travi all’interno. Come in rua Conde de Vizela, a due passi dalle aree
più interessate dalla presenza turistica, dove un edificio in queste condizioni
è affiancato da locali alla moda e da altri palazzi ristrutturati di recente.
L’immobile, come molti altre nelle stesse condizioni, è in vendita.
Basta passeggiare per le strade della città per rendersi conto che la questione
abitativa a Porto è diventata di primaria importanza: nel centro sono affissi
tanti manifesti di Habitação hoje, un’organizzazione politica nata nel 2021 che
si occupa della difesa del diritto all’abitare.
«Habitação hoje ha avuto da subito l’idea di aggregare una forza collettiva per
provare a cambiare le cose. Facciamo il possibile per ritardare gli sfratti: in
Portogallo la legge tutela i proprietari e quindi evitarli è quasi impossibile.
Possiamo però allungare i tempi della procedura», afferma R. Il gruppo fornisce
assistenza legale e promuove due volte al mese delle assemblee per chi si trova
in condizione di fragilità o in emergenza abitativa. «Negli ultimi anni con il
sindaco Rui Rio (in carica dal 2002 al 2013, ndr) e poi con l’attuale Rui
Moreira (già al terzo mandato) la città si è trasformata in una sorta di parco
giochi per immobiliaristi: si è progressivamente costruita l’immagine di una
Porto accogliente per i turisti e questo ha sconvolto la vita di chi abita qui»,
ci dice ancora R.
Una delle date fondamentali per ricostruire questo processo è il 1996, anno in
cui il centro di Porto è entrato a far parte della lista dei siti “patrimonio
dell’umanità” dell’Unesco. Oggi in quest’area sono frequenti i cartelli che
ricordano il riconoscimento. Nel 2001, la città, allora amministrata dal sindaco
Nuno Cardoso, è stata capitale europea della cultura. Oggi si possono vedere
diversi interventi urbanistici risalenti a quel periodo, come la Casa della
musica nel quartiere Boavista, sulla direttrice che dal centro porta verso
occidente e quindi verso l’oceano. «Quello è stato un momento decisivo per la
città – ci dice R. – anche perché Porto è entrata a far parte delle destinazioni
della compagnia Ryanair e sono state approvate alcune leggi che favoriscono gli
affitti brevi. Questi interventi si sono sommati a un percorso legislativo che
negli anni Novanta aveva già indebolito le tutele verso gli affittuari».
Negli ultimi venti anni anche la zona orientale della città ha subito profondi
cambiamenti. Nel 2004 il Portogallo ha ospitato i campionati europei di calcio,
che hanno portato alla costruzione di un nuovo stadio (il Do Dragão: “Del
drago”) poi utilizzato dal Porto, la squadra di calcio locale. Accanto allo
stadio si trovano un grande centro commerciale e diversi edifici a uso
residenziale. Nella stessa zona, appena più verso il centro, c’è la stazione
intermodale di Campanhã, in cui una recente stazione per i bus si affianca a una
stazione dei treni che ora è diventata la principale di Porto.
Su quest’area l’amministrazione di Rui Moreira sta investendo molto. In una
conferenza stampa del 25 marzo scorso Pedro Baganha, il responsabile della
giunta Moreira dell’assessorato all’urbanistica, si è detto soddisfatto di come
stanno procedendo i lavori nella zona, sottolineando un aumento delle abitazioni
disponibili e degli hotel, prima “praticamente inesistenti”. Prendiamo queste
informazioni da Porto.pt, il portale di informazione gestito e promosso dal
Comune, che è ben presente in città, soprattutto nelle metropolitane e in alcune
piazze. «Il problema della gestione delle informazioni a Porto è cruciale: –
aggiunge R. – Porto.pt non dà notizie false, ma dice solo quello che fa comodo
alla giunta comunale. Per esempio, tempo fa rispetto a un caso di persone in
emergenza abitativa il portale ha annunciato che per loro era stata subito
trovata una soluzione alternativa, senza però specificare che questa sarebbe
durata appena qualche giorno».
Per quanto riguarda l’aumento di case disponibili a Campanhã di cui parla
Baganha, viene naturale chiedersi chi potranno esserne gli abitanti. Mentre il
Comune rivendica di aver messo in piedi quella che è stata chiamata Strategia
locale per l’abitazione (Estratégia local de Habitação), Habitação hoje fa
notare che molte delle persone più in difficoltà, come le donne sole
ultrasessantenni, finiscono per non poter accedere alle case presentate come
“accessibili”. «Vengono affittate a un prezzo che è di poco inferiore a quello
di mercato. Inoltre la quota che verrebbe “sottratta” al proprietario,
impossibilitato a venderla al prezzo corrente, viene comunque data dal Comune
che garantisce così la rendita. Ciò determina che chi partecipa all’assegnazione
di queste case non avrebbe bisogno di un sostegno istituzionale, mentre chi si
trova in difficoltà viene escluso e deve trovare altre soluzioni, se ci sono.
Sono soprattutto le donne a rivolgersi ad Habitação hoje, in particolare quelle
con più di sessantacinque anni, con pochi contributi versati e senza lavori
stabili. Inoltre, il Comune non ha una vera e propria struttura che possa
sostenere chi perde la casa: a quel punto queste persone possono solo contare
sul sostegno di familiari e amici. Esistono dei rifugi notturni in città, ma
sono abbastanza problematici e non riescono a far fronte a tutte le richieste.
Di conseguenza diverse persone finiscono per strada», ci fa notare ancora R.
Allo stesso tempo, il Portogallo negli ultimi anni si è dato da fare per
attirare fasce di popolazione con una buona capacità di spesa, come i pensionati
di altri paesi europei e cittadini di paesi esterni all’Unione Europea che,
tramite un investimento fino al 2023 ottenevano il cosiddetto visto Gold, che
permette di muoversi senza problemi in tutta l’Unione. Questo fenomeno ha
sottratto ulteriori case dal mercato e ha anche innalzato i prezzi di molti
immobili, spesso di quel tanto che bastava per raggiungere il livello minimo
dell’investimento richiesto per ottenere il visto.
Tutto ciò accade nonostante l’articolo 65 della costituzione portoghese
garantisca il diritto a un’abitazione degna per ogni persona, impegnando anche
lo Stato a promuovere delle forme adeguate di edilizia pubblica, senza escludere
iniziative private o delle comunità che sentono in prima persona il problema
abitativo: in realtà le case popolari oggi coprono solo una piccola parte del
patrimonio immobiliare del paese e alcune esperienze innovatrici nate dopo il
crollo della dittatura del cosiddetto Estado Novo, avvenuto il 25 aprile 1974
dopo quarantuno anni di regime, sono state riassorbite nel giro di pochi anni.
Il riferimento è a quanto avvenuto durante il cosiddetto Prec (Proceso
revolucionário em curso), cioè il tentativo di indirizzare la giovane repubblica
portoghese verso una forma di socialismo. «L’esperienza di alcune cooperative ha
garantito delle case a basso costo a diverse persone, ma alle condizioni attuali
è molto difficile ripetere qualcosa di simile», ci spiega ancora R.
Prima di lasciare la città diamo un’ultima occhiata al Douro dal Passeio das
Virtudes, un piccolo parco in centro che offre una bellissimo panorama sul corso
finale del fiume e sulle zone di Porto che si estendono fino all’Oceano
Atlantico. Ripensiamo a quanto visto nei giorni precedenti. Ci sembra che la
città stia subendo la sorte di tanti altri luoghi nel mondo: una grande
potenzialità in termini di spazi disponibili si trasforma in una preda ghiotta
per chi nel mercato immobiliare e nel turismo, con l’aiuto decisivo delle
istituzioni, ha trovato uno strumento per realizzare forti profitti in breve
tempo, facendo aumentare i costi della vita di chi abita in città. Rimane però
anche l’impressione che, per chi vive problemi comuni, riconoscersi e
organizzarsi sia il primo passo per trovare soluzioni collettive, soprattutto
quando le istituzioni hanno altre priorità. (alessandro stoppoloni)
(disegno di ….)
Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta
monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del
cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli.
Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche”
di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi
edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici,
grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon
Metro della Regione.
Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di
Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono
ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per
la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti
esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che
hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da
quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”.
Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal
gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore
all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in
particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano
speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma
occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione
temporanea della durata di tre anni.
Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in
occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione
temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare
all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si
impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il
debito e pagare la tassa dei rifiuti.
Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato
degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il
Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza
agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da
mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire
come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per
concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto
incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora
senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con
gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato
richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi
fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la
conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica.
L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo
la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in
videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”.
Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile –
continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti
prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha
mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi
assessori non gli diranno quel che si deve fare”.
Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del
piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi
di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto
loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la
situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca
con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni.
La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del
Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del
comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente
dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che
conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del
comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve
avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure,
noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una
copertura politica non si muovono”.
Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica
da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata
un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è
stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il
sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
(copertina di roberto-c.)
Sarà presentato venerdì 2 maggio, per la prima volta a Napoli, Le case dei
sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, di Barbara Russo. La
presentazione è una delle iniziative del festival Libbra, il festival delle
Librerie indipendenti in relazione della città, e si svolgerà alle 19.30 allo
Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46).
Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.
* * *
Nonostante sia di recente sviluppo, il settore delle locazioni turistiche a
Napoli ha già conosciuto trasformazioni rilevanti. Dal 2014 al 2019 l’offerta di
affitti brevi si è quadruplicata e concentrata nelle mani di pochi investitori.
Nel 2015 gli annunci offerti su Airbnb erano meno di duemila, e di questi solo
il trenta per cento era gestito da host con più annunci in piattaforma; mentre
degli 8.500 annunci presenti nel 2019, il sessanta per cento era gestito da
multi-host. Oggi la maggior parte delle offerte non riguarda più camere singole
in appartamenti condivisi, ma appartamenti interi occupati per più di sessanta
giorni all’anno. Si tratta, dunque, di attività professionali, piuttosto che di
attività di sostegno al reddito – perno retorico su cui ha puntato la
piattaforma Airbnb fin dalla sua nascita. Le idee di informalità e ospitalità
sono progressivamente svanite di fronte a una crescente formalizzazione. Lo
stile dell’offerta rimanda oggi alla professionalità di un albergo, ribadita
anche dal prezzo medio richiesto per notte (107 euro secondo InsideAirbnb), di
gran lunga superiore alle tariffe iniziali. Infine, questi processi riguardano
annunci localizzati in zone sempre più ampie della città, sconfinando dai
quartieri in cui l’offerta si era concentrata nei primi anni – centro antico e
Quartieri Spagnoli – verso altre zone residenziali fuori e dentro il centro
storico.
L’insieme di queste trasformazioni rivela una tendenza, osservata anche in altri
contesti urbani, che riguarda l’iniziale adozione del modello proposto da Airbnb
soprattutto nei quartieri caratterizzati da redditi medio-bassi e tassi di
disoccupazione maggiori. In questa prima fase, segnata da un alto grado di
informalità e prezzi contenuti, l’offerta ricettiva è gestita direttamente da
chi abita la casa, che spesso è a sua volta in affitto e sacrifica porzioni
dell’abitazione per accedere a nuove forme di reddito e d’impiego. In un secondo
momento, dopo aver testato il funzionamento del modello, chi affitta si rende
conto che per ottenere un guadagno soddisfacente deve modificare l’offerta;
laddove è possibile vengono quindi messe a profitto più stanze o interi
appartamenti.
È in questa seconda fase che si inseriscono i proprietari di casa, alla ricerca
di una fonte di rendita e non di un nuovo lavoro. Questa “seconda generazione”
di host predilige le locazioni turistiche a quelle tradizionali, per evitare di
confrontarsi con le esigenze degli inquilini e mantenere la casa in una
posizione di maggiore flessibilità, oltre al fatto che i guadagni possono essere
di gran lunga maggiori. Subentra così un nuovo attore, l’intermediario
immobiliare, il cosiddetto property manager, colui che assume il rischio
imprenditoriale e gestisce la casa per conto del proprietario.
Due storie mostrano il susseguirsi di questi passaggi, tra il 2012 e il 2020,
nei due quartieri in cui l’industria turistica è cresciuta più velocemente: il
centro antico e i Quartieri Spagnoli, abitati da una popolazione mediamente
impiegata in lavori poco redditizi e precari, disposta a cogliere le possibilità
di guadagno derivanti dall’economia delle piattaforme anche a costo di
sacrificare alcuni spazi della propria casa.
Vera e Pietro hanno gestito un b&b per cinque anni, dal 2014 al 2019, nella casa
in cui vivevano in via Santa Chiara, nel cuore del centro antico. Quando vi si
trasferirono era il 2009 e arrivavano da dieci anni di instabilità abitativa.
Per aiutarsi con le spese del fitto – Pietro percepisce la pensione, mentre Vera
abbina un lavoro precario al suo mestiere di artigiana – svolgevano delle
attività con i turisti: “Attraverso un amico che fa la guida turistica –
racconta Vera – organizzavamo delle lezioni di cucina per gli americani, in cui
si cucinava e si mangiava insieme”. Nel 2014 decisero di affittare ai turisti la
camera di una figlia che nel frattempo si era trasferita: “All’epoca si
cominciava a parlare di Airbnb, così quando Eleonora è andata via e si è
liberata una stanza, un amico ci spiegò come inserire l’annuncio nella
piattaforma”.
Airbnb nasce al culmine della crisi del mercato immobiliare del 2008, proponendo
un modello del tutto esternalizzato, capace di rilanciare l’economia della
rendita: l’azienda non possiede gli appartamenti che offre in locazione, ma si
limita a gestire l’interazione tra locatori e ospiti, guadagnando con
l’aumentare delle interazioni sulla piattaforma, oltre che da una percentuale
che viene trattenuta da ogni prenotazione online.
Per affermarsi a livello internazionale, Airbnb ha usato una serie di strumenti
simbolici che l’associano a un immaginario ben preciso. L’idea del “sentirsi
ovunque a casa propria” porta a concepire il servizio offerto come un servizio
non specializzato, ma di “autentica ospitalità” per i turisti.
Il b&b di Pietro e Vera, nato in un periodo in cui il turismo extra-alberghiero
era ancora di nicchia, rispecchia le intenzioni con cui la piattaforma si è
fatta conoscere. Vera racconta che inizialmente non era possibile considerare la
gestione del b&b come un lavoro a tempo pieno: “La maggior parte delle persone
fitta la casa e basta, noi invece provvedevamo a tutto: mi svegliavo la mattina
molto presto per organizzare la colazione e apparecchiare, poi c’era il momento
in cui proponevi le visite e organizzavi le giornate anche a loro; dopodiché
andavano via e c’erano il rassetto e le pulizie; la sera, quando tornavano, ti
raccontavano la loro giornata; se c’era un’uscita o un’entrata, avevi la
biancheria da lavare e da stirare… Lavoravo tanto, ma l’attività non era
costante, avevamo gente solo in certi periodi. E poi affittavamo solo una
stanza, non ci bastava per vivere. Quindi allo stesso tempo facevo altri
lavori”.
Negli stessi anni (2014-2019) il centro antico vede l’espansione dei settori
legati all’economia turistica, in particolare cambia la geografia delle attività
commerciali nelle strade adiacenti ai luoghi più visitati. “Quando abbiamo
iniziato – continua Vera – cominciavano a nascere altre strutture di
accoglienza; nel nostro palazzo ce n’erano cinque, nel vicoletto molte di più.
In pochi anni se ne sono aperte tantissime in tutto il centro. Nei negozi
spariva l’abbigliamento e aprivano locali che offrivano cibo, panini, pizzette,
servizio bar. Un fioraio che ricordo da bambina è diventato un lounge bar; non
c’era più la signora che faceva l’artigianato, è nato un altro ristorantino; la
stessa cosa per quello che faceva le bomboniere…”.
Il settore extra-alberghiero ha trainato non solo lo sviluppo del sistema
ricettivo ma anche gli altri comparti; molti esercizi hanno lasciato il centro
verso zone in cui l’affitto costava meno o si sono ibridati, hanno cioè
affiancato alla vendita dei loro articoli quella rivolta alla clientela
turistica. Nel corso del tempo, l’attività di Vera e Pietro si è consolidata: “A
un certo punto – racconta lei – il mio lavoro artigianale è saltato e il b&b ci
ha aiutato ad andare avanti. Io e mio marito abbiamo lasciato la nostra camera e
abbiamo diviso in due quella di nostro figlio, così da poter avere due camere da
fittare. In pratica, abbiamo deciso che quello poteva essere il nostro lavoro.
Chiedevamo quaranta euro a notte. Lavoravamo di più in alcuni periodi, non come
adesso che il flusso è diventato continuo: in primavera-estate c’era movimento,
un po’ a dicembre e gennaio, ma tutto l’inverno non facevamo proprio niente”.
(barbara russo)
Fotogalleria di Victor Serri
Questa mattina il parlamento catalano ha finalmente approvato la
regolamentazione degli affitti brevi turistici, dopo anni di pressioni da parte
dei movimenti per la casa, e dopo le grandi manifestazioni in tutto lo stato
spagnolo di sabato scorso.
Oltre centomila persone, secondo gli organizzatori (poco più di ventimila per la
polizia municipale), hanno sfilato a Barcellona per esigere la riduzione degli
affitti, mentre un’altra manifestazione avveniva nello stesso momento a Madrid e
in altre quaranta città dello stato spagnolo. La grande mobilitazione per la
casa, in crescita da alcuni anni grazie al lavoro di base di un gran numero di
strutture organizzate, per lo più assemblee territoriali, ha minacciato di far
partire un grande sciopero degli affitti in tutto lo stato, se non verranno
soddisfatte le richieste fondamentali degli inquilini: la riduzione degli
affitti, il ritorno ai contratti indefiniti aboliti dal Partito Socialista negli
anni Novanta, la fine delle compravendite speculative, il recupero delle case
vuote e di quelle adibite a case vacanza, e l’aumento del numero di case
popolari.
La Catalogna è il territorio di tutto lo stato che sta subendo in modo più
violento le conseguenze dell’impennata dei valori immobiliari: nei primi due
trimestri del 2024 sono stati eseguiti più di quattromila sfratti, di cui mille
e ottocento solo a Barcellona; gli affitti sono aumentati del quarantacinque
per cento in dieci anni, al punto che oggi l’affitto medio per una famiglia a
Barcellona è di 1.300 euro al mese.
Due grandi episodi di resistenza hanno segnato la fine del 2024 nella capitale
catalana: lo sgombero della Antiga Massana, un’ex accademia d’arte occupata dal
Movimento Socialista a due passi dalla Rambla, e il tentativo di sfratto degli
inquilini della Casa Orsola, un palazzetto modernista del quartiere Eixample,
acquistata da un fondo immobiliare. Nel primo caso, migliaia di attivisti e
attiviste avevano riempito le strade del centro in protesta contro l’espulsione;
nel secondo, un picchetto di almeno un migliaio di persone per impedire
l’accesso alla polizia è durato tutta la notte, mentre alcuni artisti suonavano
o parlavano dai balconi degli appartamenti minacciati di sfratto.
Il movimento catalano comprende varie anime, ognuna con il suo modello
organizzativo. La più antica è la PAH, la struttura creata dopo le mobilitazioni
del 2010 per difendere gli abitanti che perdevano le case per la crisi dei
mutui. La PAH era riuscita a occupare molto spazio nell’opinione pubblica di
tutto lo stato, al punto che dalle sue fila era emerso il movimento
municipalista di Barcelona en Comú, guidato dall’ex sindaca Ada Colau. La PAH ha
segnato il modello per tutti gli altri movimenti, ma ultimamente ha perso forza,
anche se si mantengono varie assemblee territoriali.
Una seconda struttura, che oggi ha più protagonismo nella sfera pubblica, è
quella dei Sindicats d’habitatge, i sindacati inquilini, emersi invece dalle
lotte dei quartieri dopo il 2017. Si tratta per lo più di assemblee di
inquilini, organizzate in forma orizzontale, con basi nelle diverse cittadine
catalane e nei quartieri di Barcellona. Una struttura più grande
chiamata Sindicat de llogateres de Catalunya mantiene la stessa struttura
organizzativa e si coordina con i sindacati più piccoli, ma il suo ambito è
tutto il territorio catalano. La confluenza di queste assemblee ha dato luogo
alla Confederació Sindical de l’Habitatge, a cui partecipano anche diverse
assemblee della PAH (ma non quella di Barcellona).
Un terzo modello si è diffuso negli ultimi anni: il Moviment Socialista, emerso
nel País Vasco e poi in Catalogna. In rottura con i movimenti indipendentisti e
contro l’istituzionalizzazione del municipalismo di Podemos e Barcelona en Comù,
considerato un fallimento, è cresciuta un’organizzazione comunista
centralizzata, organizzata gerarchicamente, con sezioni locali e una struttura
di coordinatori e rappresentanti. Il MS ha saputo fare un uso molto efficace
delle reti sociali, mobilitando migliaia di giovani e giovanissimi: alcuni
sindacati della casa catalani si sono dichiaratamente posizionati all’interno di
questa organizzazione, e sono rappresentati da un Sindicat d’Habitatge
Socialista. Questa struttura però potrebbe però aver raggiunto il suo limite di
espansione, ed è la più reticente a coordinarsi con i gruppi di diverso
orientamento politico.
Eppure, la volontà di convergenza e organizzazione comune è generalizzata. Il
congresso di febbraio e la manifestazione di sabato sono riusciti proprio perché
hanno tenuto insieme le diverse anime – PAH, Confederació, Sindicat socialista –
senza che nessuna perdesse le proprie strutture, facendone un movimento
unitario. Il nuovo ciclo di lotte di cui le ultime manifestazioni sono
espressione sarà il banco di prova per vedere se una forma organizzativa di
questo tipo riuscirà a tenere insieme le migliaia di inquilini in lotta nello
stato spagnolo organizzando uno sciopero degli affitti – con tutto ciò che
comporta in termini di repressione e di sfratti – e a consolidare finalmente un
ribaltamento radicale dei rapporti di potere intorno alla questione della casa.
Il patto tra le forze di governo per regolare gli affitti brevi è sicuramente un
primo passo, ottenuto dai movimenti non grazie a complesse alleanze
istituzionali, ma grazie alla pressione popolare che si è espressa nei
picchetti, nelle proteste e nell’ultima grande manifestazione. (stefano
portelli)
(disegno di mario damiano)
Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di
indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro
utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli
altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più
ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana
che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a
trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona
parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli
fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa.
Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia
da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso
e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e
nelle case dagli abitanti superstiti.
* * *
L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele,
sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera
silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare
cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno
altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in
casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì
dentro.
Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti
sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a
invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”.
L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non
era necessario.
I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera
quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a
trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom,
che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di
togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare
che qualcuno possa entrare nelle loro case.
Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo
che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice –
erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima
ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto
quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano
tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile
toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere,
vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo».
Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è
ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e
chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di
Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha
distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela
Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi
figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle.
«Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui
ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno
portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che
faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata
e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo
qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno
mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito
strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase
del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto
tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci
hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui
sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai
chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro
per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere».
Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di
tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre
riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la
“chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento,
trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le
abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua
e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei
figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È
difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele,
hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei
nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di
cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto,
anche un buco mi andrebbe bene».
Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di
ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e
si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le
cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di
Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma
dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati
di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».
Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più
sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli
e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli
operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna
a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con
me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far
vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna.
PER SEMPRE 901
Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti
sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza,
per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla
propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è
scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti
mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”.
Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro
forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri
al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno
uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo
spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari,
quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020.
Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di
uno sviluppo per la zona nord di Napoli.
Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite.
Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello.
Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere
che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da
Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni
trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle
tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si
trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora
più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le
nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista;
dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco,
«una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e
ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un
grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io.
Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul
riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice –
una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da
quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite
anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le
persone che volevano acquistarla».
Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di
immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani
mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque,
tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla
sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per
il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono
arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate
dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono
lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e
mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».
Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia
media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto
del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel
quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un
forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto
di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato
poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica,
che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale
di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde
l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto
firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart
Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per
quattro anni e mezzo, il nulla.
L’ULTIMO GIORNO
Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di
ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi,
anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter
rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i
frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha
danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano
all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla
calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi
potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e
scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è
stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai
era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter
uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta
gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del
sole, uscendo, è una liberazione», dice.
Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche,
anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto,
le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima
generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi
per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i
ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare.
L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò
l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il
primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro
di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati
da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le
lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento
del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica.
È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono
da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte
le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è
più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano
accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano,
che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho
chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere
gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà
a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le
cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con
grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua
sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi
sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo
un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto
incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive
qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una
personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e
prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere
cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello
delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
(disegno di martina di gennaro)
Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via
Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della
giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato
effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima
dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le
persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così
improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il
mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo
contro la chiusura della Casa albergo.
«Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti
celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia.
«Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la
laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a
lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia».
Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto
che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara
legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti
per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da
pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli
durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto
“Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato.
Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un
appartamento in città.
Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria
recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia,
critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela
dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud
Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era
critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un
anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a
collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a
scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni.
«Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era
uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare
attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di
essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un
gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo,
venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il
radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito
dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A
Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per
sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio.
Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso.
Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto
Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali
tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un
lavoro”.
Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce
dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di
Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo
aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno,
ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano.
«Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro,
proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso
rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino
che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di
arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro
stato dell’Unione.
La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per
sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere:
ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a
sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate,
Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un
posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in
qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la
biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza
era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero
così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi
hanno rovinato tante cose dentro me».
Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in
Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però,
un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza
nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un
anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene
assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità
di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un
lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie,
non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma
pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità
di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso
gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere».
Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni
modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una
volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a
cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In
Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai
dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di
aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione,
anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli
procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza.
Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di
San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo
e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei
cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è
sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in
uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma
arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui
risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e
poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo
portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva
perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa
contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani
finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un
letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare.
Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare
così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è
nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le
vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo
che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona
con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però
ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi
hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza
vestiti, in ospedale».
Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via,
che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così,
con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con
ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale,
passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a
riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi
secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento
davvero non lo dimenticherò mai».
Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere
le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa
dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così
sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire:
prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la
faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo
avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano
spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del
tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E
ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma
si ritrova a cambiare solo dormitorio.
Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa
fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a
Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla
storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta
alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei
persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per
giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne
queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi,
lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid.
Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella
micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di
nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come
aiuto cuoco e lavapiatti.
È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che
gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone
che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani,
volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare
mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di
sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano
disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto,
quindi ho cercato una stanza singola solo per me».
Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può
aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a
cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno
posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al
loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno
può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale.
Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la
prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una
stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero
contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche
in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato
da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo
qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un
chiodo fisso nel mio cervello».
La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro
scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza
successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa
albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure
con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si
attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una
soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di
lavoro e senza alcuna invalidità.
Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di
rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione,
ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia,
bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di
uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che
indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa.
Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno
aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei
problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
(foto di leonardo galanti)
A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele
rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di
“autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è
lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela
Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma
Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da
settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso
che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad
horas. Così si è completata la diaspora.
Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da
quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento
realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai
novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della
presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le
esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non
oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza
abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una
pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per
circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il
2025).
L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le
Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il
2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di
ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non
pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del
contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente
dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve
allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del
finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato
consegnato.
Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata
dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille
e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra
preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia
municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di
reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un
esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui
media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg
regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di
famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e
bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo.
(leonardo galanti2)
Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro
un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non
si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano
–, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata
di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non
apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e
addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da
familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato
casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a
chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e
amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a
partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto
questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il
percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun
accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé.
Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A
settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da
un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa
seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un
venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere
al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato
qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007».
«Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro
per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che
fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una
sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo
dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti
tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero
case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele
le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano.
Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio
fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque
figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa
che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha
tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio,
lo devo buttare?”, gli ha detto lei».
(foto di leonardo galanti)
Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto.
Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del
2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è
comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per
vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di
destinazioni incerte e comunque precarie.
Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama
Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la
situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare
che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei
singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto
a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo.
Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati
costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio.
Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era
improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo
che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è
mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti
chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie
conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un
progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo
se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto
che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di
circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha
risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento
euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno
volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno
promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando
di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno
sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai
proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di
queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel
Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette
e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi
bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta
elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e
conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…».
«Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato
tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare
casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto
lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini
dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia
di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad
alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di
raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne
carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti,
e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano
un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia,
le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni
drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la
scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli
autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha
usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere
addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno
viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano
iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per
andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e
accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)