(disegno di ….)
Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta
monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del
cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli.
Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche”
di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi
edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici,
grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon
Metro della Regione.
Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di
Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono
ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per
la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti
esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che
hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da
quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”.
Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal
gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore
all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in
particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano
speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma
occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione
temporanea della durata di tre anni.
Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in
occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione
temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare
all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si
impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il
debito e pagare la tassa dei rifiuti.
Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato
degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il
Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza
agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da
mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire
come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per
concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto
incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora
senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con
gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato
richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi
fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la
conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica.
L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo
la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in
videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”.
Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile –
continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti
prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha
mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi
assessori non gli diranno quel che si deve fare”.
Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del
piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi
di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto
loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la
situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca
con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni.
La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del
Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del
comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente
dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che
conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del
comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve
avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure,
noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una
copertura politica non si muovono”.
Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica
da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata
un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è
stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il
sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
Tag - casa
(copertina di roberto-c.)
Sarà presentato venerdì 2 maggio, per la prima volta a Napoli, Le case dei
sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, di Barbara Russo. La
presentazione è una delle iniziative del festival Libbra, il festival delle
Librerie indipendenti in relazione della città, e si svolgerà alle 19.30 allo
Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46).
Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.
* * *
Nonostante sia di recente sviluppo, il settore delle locazioni turistiche a
Napoli ha già conosciuto trasformazioni rilevanti. Dal 2014 al 2019 l’offerta di
affitti brevi si è quadruplicata e concentrata nelle mani di pochi investitori.
Nel 2015 gli annunci offerti su Airbnb erano meno di duemila, e di questi solo
il trenta per cento era gestito da host con più annunci in piattaforma; mentre
degli 8.500 annunci presenti nel 2019, il sessanta per cento era gestito da
multi-host. Oggi la maggior parte delle offerte non riguarda più camere singole
in appartamenti condivisi, ma appartamenti interi occupati per più di sessanta
giorni all’anno. Si tratta, dunque, di attività professionali, piuttosto che di
attività di sostegno al reddito – perno retorico su cui ha puntato la
piattaforma Airbnb fin dalla sua nascita. Le idee di informalità e ospitalità
sono progressivamente svanite di fronte a una crescente formalizzazione. Lo
stile dell’offerta rimanda oggi alla professionalità di un albergo, ribadita
anche dal prezzo medio richiesto per notte (107 euro secondo InsideAirbnb), di
gran lunga superiore alle tariffe iniziali. Infine, questi processi riguardano
annunci localizzati in zone sempre più ampie della città, sconfinando dai
quartieri in cui l’offerta si era concentrata nei primi anni – centro antico e
Quartieri Spagnoli – verso altre zone residenziali fuori e dentro il centro
storico.
L’insieme di queste trasformazioni rivela una tendenza, osservata anche in altri
contesti urbani, che riguarda l’iniziale adozione del modello proposto da Airbnb
soprattutto nei quartieri caratterizzati da redditi medio-bassi e tassi di
disoccupazione maggiori. In questa prima fase, segnata da un alto grado di
informalità e prezzi contenuti, l’offerta ricettiva è gestita direttamente da
chi abita la casa, che spesso è a sua volta in affitto e sacrifica porzioni
dell’abitazione per accedere a nuove forme di reddito e d’impiego. In un secondo
momento, dopo aver testato il funzionamento del modello, chi affitta si rende
conto che per ottenere un guadagno soddisfacente deve modificare l’offerta;
laddove è possibile vengono quindi messe a profitto più stanze o interi
appartamenti.
È in questa seconda fase che si inseriscono i proprietari di casa, alla ricerca
di una fonte di rendita e non di un nuovo lavoro. Questa “seconda generazione”
di host predilige le locazioni turistiche a quelle tradizionali, per evitare di
confrontarsi con le esigenze degli inquilini e mantenere la casa in una
posizione di maggiore flessibilità, oltre al fatto che i guadagni possono essere
di gran lunga maggiori. Subentra così un nuovo attore, l’intermediario
immobiliare, il cosiddetto property manager, colui che assume il rischio
imprenditoriale e gestisce la casa per conto del proprietario.
Due storie mostrano il susseguirsi di questi passaggi, tra il 2012 e il 2020,
nei due quartieri in cui l’industria turistica è cresciuta più velocemente: il
centro antico e i Quartieri Spagnoli, abitati da una popolazione mediamente
impiegata in lavori poco redditizi e precari, disposta a cogliere le possibilità
di guadagno derivanti dall’economia delle piattaforme anche a costo di
sacrificare alcuni spazi della propria casa.
Vera e Pietro hanno gestito un b&b per cinque anni, dal 2014 al 2019, nella casa
in cui vivevano in via Santa Chiara, nel cuore del centro antico. Quando vi si
trasferirono era il 2009 e arrivavano da dieci anni di instabilità abitativa.
Per aiutarsi con le spese del fitto – Pietro percepisce la pensione, mentre Vera
abbina un lavoro precario al suo mestiere di artigiana – svolgevano delle
attività con i turisti: “Attraverso un amico che fa la guida turistica –
racconta Vera – organizzavamo delle lezioni di cucina per gli americani, in cui
si cucinava e si mangiava insieme”. Nel 2014 decisero di affittare ai turisti la
camera di una figlia che nel frattempo si era trasferita: “All’epoca si
cominciava a parlare di Airbnb, così quando Eleonora è andata via e si è
liberata una stanza, un amico ci spiegò come inserire l’annuncio nella
piattaforma”.
Airbnb nasce al culmine della crisi del mercato immobiliare del 2008, proponendo
un modello del tutto esternalizzato, capace di rilanciare l’economia della
rendita: l’azienda non possiede gli appartamenti che offre in locazione, ma si
limita a gestire l’interazione tra locatori e ospiti, guadagnando con
l’aumentare delle interazioni sulla piattaforma, oltre che da una percentuale
che viene trattenuta da ogni prenotazione online.
Per affermarsi a livello internazionale, Airbnb ha usato una serie di strumenti
simbolici che l’associano a un immaginario ben preciso. L’idea del “sentirsi
ovunque a casa propria” porta a concepire il servizio offerto come un servizio
non specializzato, ma di “autentica ospitalità” per i turisti.
Il b&b di Pietro e Vera, nato in un periodo in cui il turismo extra-alberghiero
era ancora di nicchia, rispecchia le intenzioni con cui la piattaforma si è
fatta conoscere. Vera racconta che inizialmente non era possibile considerare la
gestione del b&b come un lavoro a tempo pieno: “La maggior parte delle persone
fitta la casa e basta, noi invece provvedevamo a tutto: mi svegliavo la mattina
molto presto per organizzare la colazione e apparecchiare, poi c’era il momento
in cui proponevi le visite e organizzavi le giornate anche a loro; dopodiché
andavano via e c’erano il rassetto e le pulizie; la sera, quando tornavano, ti
raccontavano la loro giornata; se c’era un’uscita o un’entrata, avevi la
biancheria da lavare e da stirare… Lavoravo tanto, ma l’attività non era
costante, avevamo gente solo in certi periodi. E poi affittavamo solo una
stanza, non ci bastava per vivere. Quindi allo stesso tempo facevo altri
lavori”.
Negli stessi anni (2014-2019) il centro antico vede l’espansione dei settori
legati all’economia turistica, in particolare cambia la geografia delle attività
commerciali nelle strade adiacenti ai luoghi più visitati. “Quando abbiamo
iniziato – continua Vera – cominciavano a nascere altre strutture di
accoglienza; nel nostro palazzo ce n’erano cinque, nel vicoletto molte di più.
In pochi anni se ne sono aperte tantissime in tutto il centro. Nei negozi
spariva l’abbigliamento e aprivano locali che offrivano cibo, panini, pizzette,
servizio bar. Un fioraio che ricordo da bambina è diventato un lounge bar; non
c’era più la signora che faceva l’artigianato, è nato un altro ristorantino; la
stessa cosa per quello che faceva le bomboniere…”.
Il settore extra-alberghiero ha trainato non solo lo sviluppo del sistema
ricettivo ma anche gli altri comparti; molti esercizi hanno lasciato il centro
verso zone in cui l’affitto costava meno o si sono ibridati, hanno cioè
affiancato alla vendita dei loro articoli quella rivolta alla clientela
turistica. Nel corso del tempo, l’attività di Vera e Pietro si è consolidata: “A
un certo punto – racconta lei – il mio lavoro artigianale è saltato e il b&b ci
ha aiutato ad andare avanti. Io e mio marito abbiamo lasciato la nostra camera e
abbiamo diviso in due quella di nostro figlio, così da poter avere due camere da
fittare. In pratica, abbiamo deciso che quello poteva essere il nostro lavoro.
Chiedevamo quaranta euro a notte. Lavoravamo di più in alcuni periodi, non come
adesso che il flusso è diventato continuo: in primavera-estate c’era movimento,
un po’ a dicembre e gennaio, ma tutto l’inverno non facevamo proprio niente”.
(barbara russo)
Fotogalleria di Victor Serri
Questa mattina il parlamento catalano ha finalmente approvato la
regolamentazione degli affitti brevi turistici, dopo anni di pressioni da parte
dei movimenti per la casa, e dopo le grandi manifestazioni in tutto lo stato
spagnolo di sabato scorso.
Oltre centomila persone, secondo gli organizzatori (poco più di ventimila per la
polizia municipale), hanno sfilato a Barcellona per esigere la riduzione degli
affitti, mentre un’altra manifestazione avveniva nello stesso momento a Madrid e
in altre quaranta città dello stato spagnolo. La grande mobilitazione per la
casa, in crescita da alcuni anni grazie al lavoro di base di un gran numero di
strutture organizzate, per lo più assemblee territoriali, ha minacciato di far
partire un grande sciopero degli affitti in tutto lo stato, se non verranno
soddisfatte le richieste fondamentali degli inquilini: la riduzione degli
affitti, il ritorno ai contratti indefiniti aboliti dal Partito Socialista negli
anni Novanta, la fine delle compravendite speculative, il recupero delle case
vuote e di quelle adibite a case vacanza, e l’aumento del numero di case
popolari.
La Catalogna è il territorio di tutto lo stato che sta subendo in modo più
violento le conseguenze dell’impennata dei valori immobiliari: nei primi due
trimestri del 2024 sono stati eseguiti più di quattromila sfratti, di cui mille
e ottocento solo a Barcellona; gli affitti sono aumentati del quarantacinque
per cento in dieci anni, al punto che oggi l’affitto medio per una famiglia a
Barcellona è di 1.300 euro al mese.
Due grandi episodi di resistenza hanno segnato la fine del 2024 nella capitale
catalana: lo sgombero della Antiga Massana, un’ex accademia d’arte occupata dal
Movimento Socialista a due passi dalla Rambla, e il tentativo di sfratto degli
inquilini della Casa Orsola, un palazzetto modernista del quartiere Eixample,
acquistata da un fondo immobiliare. Nel primo caso, migliaia di attivisti e
attiviste avevano riempito le strade del centro in protesta contro l’espulsione;
nel secondo, un picchetto di almeno un migliaio di persone per impedire
l’accesso alla polizia è durato tutta la notte, mentre alcuni artisti suonavano
o parlavano dai balconi degli appartamenti minacciati di sfratto.
Il movimento catalano comprende varie anime, ognuna con il suo modello
organizzativo. La più antica è la PAH, la struttura creata dopo le mobilitazioni
del 2010 per difendere gli abitanti che perdevano le case per la crisi dei
mutui. La PAH era riuscita a occupare molto spazio nell’opinione pubblica di
tutto lo stato, al punto che dalle sue fila era emerso il movimento
municipalista di Barcelona en Comú, guidato dall’ex sindaca Ada Colau. La PAH ha
segnato il modello per tutti gli altri movimenti, ma ultimamente ha perso forza,
anche se si mantengono varie assemblee territoriali.
Una seconda struttura, che oggi ha più protagonismo nella sfera pubblica, è
quella dei Sindicats d’habitatge, i sindacati inquilini, emersi invece dalle
lotte dei quartieri dopo il 2017. Si tratta per lo più di assemblee di
inquilini, organizzate in forma orizzontale, con basi nelle diverse cittadine
catalane e nei quartieri di Barcellona. Una struttura più grande
chiamata Sindicat de llogateres de Catalunya mantiene la stessa struttura
organizzativa e si coordina con i sindacati più piccoli, ma il suo ambito è
tutto il territorio catalano. La confluenza di queste assemblee ha dato luogo
alla Confederació Sindical de l’Habitatge, a cui partecipano anche diverse
assemblee della PAH (ma non quella di Barcellona).
Un terzo modello si è diffuso negli ultimi anni: il Moviment Socialista, emerso
nel País Vasco e poi in Catalogna. In rottura con i movimenti indipendentisti e
contro l’istituzionalizzazione del municipalismo di Podemos e Barcelona en Comù,
considerato un fallimento, è cresciuta un’organizzazione comunista
centralizzata, organizzata gerarchicamente, con sezioni locali e una struttura
di coordinatori e rappresentanti. Il MS ha saputo fare un uso molto efficace
delle reti sociali, mobilitando migliaia di giovani e giovanissimi: alcuni
sindacati della casa catalani si sono dichiaratamente posizionati all’interno di
questa organizzazione, e sono rappresentati da un Sindicat d’Habitatge
Socialista. Questa struttura però potrebbe però aver raggiunto il suo limite di
espansione, ed è la più reticente a coordinarsi con i gruppi di diverso
orientamento politico.
Eppure, la volontà di convergenza e organizzazione comune è generalizzata. Il
congresso di febbraio e la manifestazione di sabato sono riusciti proprio perché
hanno tenuto insieme le diverse anime – PAH, Confederació, Sindicat socialista –
senza che nessuna perdesse le proprie strutture, facendone un movimento
unitario. Il nuovo ciclo di lotte di cui le ultime manifestazioni sono
espressione sarà il banco di prova per vedere se una forma organizzativa di
questo tipo riuscirà a tenere insieme le migliaia di inquilini in lotta nello
stato spagnolo organizzando uno sciopero degli affitti – con tutto ciò che
comporta in termini di repressione e di sfratti – e a consolidare finalmente un
ribaltamento radicale dei rapporti di potere intorno alla questione della casa.
Il patto tra le forze di governo per regolare gli affitti brevi è sicuramente un
primo passo, ottenuto dai movimenti non grazie a complesse alleanze
istituzionali, ma grazie alla pressione popolare che si è espressa nei
picchetti, nelle proteste e nell’ultima grande manifestazione. (stefano
portelli)
(disegno di mario damiano)
Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di
indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro
utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli
altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più
ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana
che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a
trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona
parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli
fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa.
Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia
da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso
e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e
nelle case dagli abitanti superstiti.
* * *
L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele,
sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera
silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare
cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno
altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in
casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì
dentro.
Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti
sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a
invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”.
L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non
era necessario.
I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera
quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a
trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom,
che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di
togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare
che qualcuno possa entrare nelle loro case.
Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo
che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice –
erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima
ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto
quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano
tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile
toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere,
vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo».
Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è
ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e
chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di
Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha
distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela
Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi
figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle.
«Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui
ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno
portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che
faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata
e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo
qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno
mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito
strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase
del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto
tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci
hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui
sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai
chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro
per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere».
Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di
tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre
riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la
“chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento,
trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le
abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua
e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei
figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È
difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele,
hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei
nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di
cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto,
anche un buco mi andrebbe bene».
Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di
ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e
si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le
cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di
Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma
dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati
di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».
Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più
sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli
e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli
operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna
a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con
me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far
vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna.
PER SEMPRE 901
Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti
sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza,
per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla
propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è
scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti
mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”.
Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro
forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri
al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno
uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo
spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari,
quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020.
Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di
uno sviluppo per la zona nord di Napoli.
Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite.
Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello.
Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere
che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da
Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni
trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle
tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si
trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora
più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le
nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista;
dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco,
«una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e
ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un
grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io.
Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul
riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice –
una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da
quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite
anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le
persone che volevano acquistarla».
Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di
immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani
mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque,
tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla
sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per
il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono
arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate
dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono
lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e
mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».
Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia
media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto
del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel
quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un
forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto
di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato
poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica,
che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale
di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde
l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto
firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart
Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per
quattro anni e mezzo, il nulla.
L’ULTIMO GIORNO
Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di
ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi,
anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter
rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i
frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha
danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano
all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla
calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi
potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e
scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è
stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai
era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter
uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta
gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del
sole, uscendo, è una liberazione», dice.
Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche,
anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto,
le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima
generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi
per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i
ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare.
L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò
l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il
primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro
di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati
da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le
lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento
del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica.
È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono
da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte
le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è
più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano
accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano,
che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho
chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere
gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà
a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le
cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con
grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua
sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi
sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo
un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto
incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive
qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una
personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e
prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere
cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello
delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
(disegno di martina di gennaro)
Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via
Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della
giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato
effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima
dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le
persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così
improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il
mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo
contro la chiusura della Casa albergo.
«Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti
celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia.
«Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la
laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a
lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia».
Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto
che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara
legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti
per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da
pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli
durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto
“Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato.
Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un
appartamento in città.
Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria
recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia,
critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela
dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud
Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era
critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un
anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a
collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a
scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni.
«Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era
uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare
attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di
essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un
gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo,
venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il
radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito
dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A
Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per
sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio.
Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso.
Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto
Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali
tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un
lavoro”.
Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce
dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di
Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo
aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno,
ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano.
«Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro,
proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso
rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino
che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di
arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro
stato dell’Unione.
La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per
sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere:
ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a
sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate,
Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un
posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in
qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la
biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza
era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero
così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi
hanno rovinato tante cose dentro me».
Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in
Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però,
un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza
nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un
anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene
assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità
di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un
lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie,
non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma
pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità
di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso
gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere».
Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni
modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una
volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a
cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In
Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai
dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di
aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione,
anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli
procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza.
Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di
San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo
e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei
cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è
sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in
uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma
arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui
risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e
poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo
portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva
perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa
contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani
finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un
letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare.
Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare
così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è
nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le
vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo
che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona
con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però
ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi
hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza
vestiti, in ospedale».
Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via,
che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così,
con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con
ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale,
passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a
riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi
secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento
davvero non lo dimenticherò mai».
Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere
le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa
dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così
sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire:
prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la
faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo
avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano
spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del
tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E
ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma
si ritrova a cambiare solo dormitorio.
Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa
fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a
Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla
storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta
alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei
persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per
giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne
queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi,
lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid.
Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella
micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di
nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come
aiuto cuoco e lavapiatti.
È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che
gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone
che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani,
volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare
mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di
sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano
disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto,
quindi ho cercato una stanza singola solo per me».
Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può
aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a
cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno
posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al
loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno
può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale.
Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la
prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una
stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero
contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche
in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato
da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo
qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un
chiodo fisso nel mio cervello».
La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro
scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza
successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa
albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure
con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si
attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una
soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di
lavoro e senza alcuna invalidità.
Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di
rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione,
ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia,
bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di
uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che
indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa.
Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno
aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei
problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
(foto di leonardo galanti)
A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele
rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di
“autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è
lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela
Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma
Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da
settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso
che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad
horas. Così si è completata la diaspora.
Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da
quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento
realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai
novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della
presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le
esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non
oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza
abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una
pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per
circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il
2025).
L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le
Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il
2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di
ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non
pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del
contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente
dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve
allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del
finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato
consegnato.
Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata
dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille
e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra
preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia
municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di
reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un
esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui
media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg
regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di
famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e
bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo.
(leonardo galanti2)
Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro
un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non
si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano
–, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata
di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non
apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e
addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da
familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato
casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a
chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e
amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a
partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto
questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il
percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun
accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé.
Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A
settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da
un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa
seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un
venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere
al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato
qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007».
«Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro
per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che
fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una
sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo
dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti
tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero
case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele
le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano.
Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio
fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque
figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa
che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha
tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio,
lo devo buttare?”, gli ha detto lei».
(foto di leonardo galanti)
Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto.
Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del
2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è
comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per
vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di
destinazioni incerte e comunque precarie.
Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama
Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la
situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare
che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei
singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto
a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo.
Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati
costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio.
Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era
improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo
che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è
mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti
chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie
conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un
progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo
se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto
che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di
circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha
risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento
euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno
volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno
promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando
di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno
sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai
proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di
queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel
Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette
e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi
bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta
elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e
conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…».
«Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato
tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare
casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto
lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini
dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia
di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad
alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di
raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne
carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti,
e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano
un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia,
le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni
drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la
scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli
autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha
usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere
addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno
viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano
iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per
andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e
accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)
Processo Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio: tutte e tutti assolti dal
reato di associazione a delinquere!!!. Restano altre condanne (la più alta a 9
mesi) per altri reati ma l’impianto è stato demolito
Tutti assolti dall’accusa di associazione a delinquere e pene notevolmente
ridotte per resistenza e altri reati minori. Chiude così il processo “Robin
Hood”, nei confronti di una trentina di compagne-i del Comitato Abitanti
Giambellino-Lorenteggio, attivo nell’ambito del diritto all’abitare degno dentro
i quartieri popolari di Milano. Molte persone imputate sono state assolte,
mentre gli oltre 5 anni disposti per la condanna più pesante è stata ridotta a
non più di un anno, senza l’associativo.
Le prime valutazioni su Radio Onda d’Urto dell’avvocato Eugenio Losco, legale di
compagne-i, raggiunto al termine dell’udienza Ascolta o scarica
L’intervista di Radio Onda d’Urto, dopo la sentenza, a uno degli imputati,
raggiunto fuori dal Tribunale meneghino. Ascolta o scarica
LA STORIA – Era il dicembre del 2018 quando un imponente dispiegamento di forze
i carabinieri irrompono all’alba nel quartiere Giambellino a Milano, sgomberano
sette case occupate e la Base di solidarietà popolare, sede del Comitato
Abitanti Giambellino-Lorenteggio, e arrestano nove persone. L’accusa contestata
è di associazione a delinquere con finalità di occupazione abusiva e resistenza
a pubblico ufficiale, con il contorno di una quarantina di altri reati tra,
appunto, resistenze e occupazioni.
È l’operazione Domus Libera, celebrata poco dopo in una conferenza stampa in cui
il procuratore responsabile dell’inchiesta e il comandante dei carabinieri,
oltre a scambiarsi una serie di reciproci complimenti, ne illustrano i tratti
salienti parlando apertamente di racket delle case.
Il dibattimento inizia nel 2019 e si conclude nel novembre 2022: l’accusa di
associazione a delinquere resta, la pena più alta supera i 5 anni e in totale
vengono dati 30 anni di carcere.
Nel dicembre 2024, l’appello, che ha invece cancellato il reato associativo,
assolvendo molte persone imputate e con pene massime che non superano l’anno.
L’Aler e la destra cittadina accusano i movimenti di occupare alloggi che
altrimenti sarebbero assegnati, allungando le liste d’attesa. Una tesi, smentita
dai dati, che ieri l’eurodeputata Ilaria Salis ha attaccato in un video girato
al Giambellino: «A Milano ci sono più case vuote che persone in graduatoria: la
colpa è degli enti gestori, che non si occupano neanche della manutenzione.
Invece vengono accusati movimenti e comunità solidali. Se fosse confermata
l’associazione a delinquere sarebbe un nuovo passo nella criminalizzazione delle
lotte».
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(disegno di valentina galluccio)
A Milano, una famiglia con minori che si rivolge all’amministrazione comunale
perché è in difficoltà, senza casa a causa di uno sfratto o dell’impossibilità
di affittarla, quasi sicuramente finisce per essere presa in carico dai servizi
sociali piuttosto che da quelli abitativi. Lo affermano gli attivisti della Rete
solidale Ci Siamo che, in seguito agli sgomberi delle occupazioni abitative
degli stabili di via Siusi e di via Esterle, e all’incendio del capannone di via
Fracastoro, hanno seguito diverse famiglie di lavoratori stranieri prese in
carico dai servizi sociali del comune di Milano e ha potuto constatare quanto
segue.
Con l’intervento del servizio sociale territoriale, il bisogno di una casa, che
fino a quel momento rappresentava la necessità prevalente, passa in secondo
piano a causa di una lettura erronea del disagio che si concentra sulle “colpe”
del nucleo familiare piuttosto che inquadrare la sua condizione all’interno di
un contesto sempre più escludente, precario e razzista. Questo pregiudizio verso
le persone povere, molto radicato tra gli assistenti sociali, porta a una
conseguenza altrettanto dannosa, cioè quella di considerare il nucleo familiare
divisibile, da una parte la mamma con i figli minori, dall’altra il padre con
quelli maggiori, come se per la tutela e il benessere dei minori non fossero
importanti l’unità della famiglia e la figura paterna.
Una consuetudine ormai diffusa, che prevede l’individuazione di soluzioni
abitative temporanee e in emergenza solo per i soggetti fragili del nucleo
familiare, a cui viene offerta nell’immediato ospitalità in strutture di
accoglienza definite di bassa soglia come i dormitori pubblici. L’accesso in
queste strutture, costituite da spazi angusti e asettici con regole rigide e
vessatorie, avviene nella maggioranza dei casi senza rendere noto il tempo che
si resterà al loro interno e neppure quale altra soluzione più stabile e
duratura verrà individuata dal servizio sociale territoriale.
Dunque, si resta a lungo separati, in una condizione di incertezza sul futuro,
precarietà quotidiana e di assoluta dipendenza e assoggettamento alle scelte
degli assistenti sociali. Questi agiscono in totale autonomia individuando, tra
le risorse a disposizione del pubblico, quella che ritengono più adeguata ai
soggetti “fragili” del nucleo familiare, ed escludendo sistematicamente gli
altri: padre e figli maggiorenni. Si tratta di soluzioni abitative temporanee,
come le case di accoglienza o le residenze sociali, gestite dal privato sociale
con costi molto elevati per il pubblico, che nella maggioranza dei casi non
rispondono al bisogno di casa espresso al momento della presa in carico, ma
infantilizzano gli adulti e prolungando a tempo indeterminato la loro condizione
emergenziale, fino a trasformarla in “ordinaria”.
Il più delle volte queste “soluzioni”, presentate come l’unica risorsa che
l’Amministrazione può mettere in campo, vengono imposte dagli assistenti sociali
alle sole donne, in assenza dei mariti e solo verbalmente, con notevoli
pressioni affinché queste siano accettate o meno in tempi molto brevi, un paio
di giorni al massimo. Se la famiglia, nonostante le pressioni ricevute, mostra
dubbi sulla proposta individuata oppure la rifiuta chiedendo una soluzione
abitativa dignitosa, stabile e duratura per l’intero nucleo familiare, allora
gli assistenti sociali cambiano registro: prima minacciano la segnalazione al
Tribunale dei minori, successivamente intimano alla donna con i figli minori di
lasciare la struttura in cui sono ospitati, per poi allontanarli con la forza.
In questo modo, il servizio sociale territoriale, con arbitrio e ostilità,
sposta ulteriormente il piano del discorso, da quello abitativo a quello
assistenziale a quello penale, cioè ti dice in modo brusco e netto: “O fai
esattamente quello che diciamo noi, oppure te ne puoi andare e lasciare il posto
a qualcun altro. Se non lo fai, ti cacciamo e ti denunciamo!”.
STORIA DI UNA FAMIGLIA SFOLLATA DA UNO STABILE OCCUPATO A CAUSA DI UN INCENDIO
Marito: Io, mia moglie e mia figlia piccola siamo in Italia dal giugno 2023.
Abbiamo deciso di venire qua perché in Perù abbiamo avuto problemi con le
persone che chiedono soldi senza lavorare e, se non li dai, ammazzano qualcuno
della tua famiglia. Io lavoravo nel comune della mia città, ero responsabile dei
mezzi di trasporto e queste persone venivano da me a chiedere soldi. Io però ho
detto di no. Dopo che sono andato a fare la denuncia, ci hanno chiamato, hanno
detto che noi siamo fregati, che ammazzano qualcuno di noi. Allora siamo
scappati perché la polizia non dà protezione a chi denuncia. Due mesi dopo la
persona che ha preso il mio posto è stata ammazzata. Neanche lui voleva dare
soldi ed è morto perché quello che ti dicono: “Se non mi dai i soldi, ti
ammazzo”, è vero.
Prima di partire abbiamo venduto tutto quello che avevamo in Perù: materasso,
letto, macchina, e abbiamo fatto un bonifico di tremila euro a una persona che
diceva di essere nostra amica così lei poteva trovarci una casa a Milano. Ma
quando siamo arrivati in Italia, le abbiamo scritto su Facebook, ma non abbiamo
ricevuto risposta, lei è sparita. A Malpensa abbiamo preso un pullman che ci ha
portato alla Stazione Centrale. Lì siamo scesi e abbiamo incontrato una donna
peruviana che ci ha dato da mangiare e dopo ci ha portato al Centro Sammartini,
ma a Sammartini ci hanno detto che i posti al dormitorio erano tutti occupati.
Per due giorni abbiamo dormito sotto un ponte, dopo un’altra signora peruviana
ci ha detto che potevamo andare nella casa dove lei lavorava. Lei faceva la
badante, si prendeva cura di una donna che adesso è morta. Così ci ha dato un
posto dove dormire da mezzanotte fino alle sei di mattina. Io facevo prima la
pulizia dei vetri, dopo consegnavo le pizze, così raccoglievo un po’ di soldi
per vivere.
Poi siamo arrivati a Fracastoro (occupazione abitativa sostenuta dalla Rete
solidale Ci Siamo). Andavamo sempre a Loreto, lì ci sono tanti nostri
connazionali. Un giorno abbiamo conosciuto un uomo, che ci ha detto: “Andate a
questo indirizzo, lì troveranno una soluzione per la vostra famiglia”.
La prima volta sono andato da solo, perché mia moglie quel giorno lavorava a
casa della donna che ci aveva dato un aiuto. Era un mercoledì, le persone che
c’erano mi hanno detto di tornare domenica, perché la domenica c’è un’assemblea
con tutti gli abitanti. Sono tornato e mi hanno detto che il mercoledì dopo
avrebbero trovato una soluzione. Allora ho detto a mia moglie di venire con me
così loro guardano che io dico la verità, che non sono una persona che fa
casino, non sono violento, non consumo droghe, sono un tecnico elettricista,
sono una persona che è venuta in Italia per una vita migliore. Quindi siamo
andati insieme e ci hanno detto che potevamo restare in quel posto finché non
trovavamo un lavoro e qualche cosa di meglio da affittare a Milano.
A Fracastoro la nostra vita è cambiata. Quando siamo arrivati, non avevamo i
documenti, non avevamo lavoro, non capivamo la lingua italiana, poi ci siamo
sistemati, ho trovato lavoro, ho fatto i documenti e ho iniziato a mandare i
soldi ai miei figli in Perù, anche alla mia mamma e alla mamma della mia moglie.
Ma a settembre è successo questo evento brutto, l’incendio, e dopo di questo
siamo finiti un’altra volta in strada.
Cosa è successo la mattina dell’incendio?
Marito: La prima cosa che ho fatto è stata prendere mia figlia e portarla fuori
da questo posto con mia moglie, poi sono rientrato per dire alle persone che
erano dentro, che in quel momento dormivano, di uscire subito. Dopo ho preso da
solo cinque-sei bombole perché tutti prendevano le loro cose e scappavano. Poi
sono rientrato un’altra volta per prendere i vestiti di mia figlia e di mia
moglie. Ho buttato tutto dalla finestra. Quindi ho visto che il fuoco era tanto
e sono scappato via, lasciando tutte le altre nostre cose dentro: il mio
monopattino, con cui andavo a lavoro, e i soldi che avevamo messo da parte, che
erano in un posto nascosto.
Un’ora dopo l’incendio sono arrivati i vigili del fuoco. Dopo quattro ore è
arrivata anche la Protezione civile. In quel momento ci hanno detto che ci
spostavano in un posto sicuro: al dormitorio comunale di viale Ortles, dove alla
data di oggi siamo da quasi due mesi. Per tre giorni abbiamo dormito tutti
insieme al secondo piano del dormitorio. Lì ci hanno chiesto se lavoravamo, se
avevamo i documenti, cosa facevamo qua in Italia. Ci hanno fatto tante domande.
Il terzo giorno ci hanno diviso: mia moglie e mia figlia sono andati in un
padiglione, io in un altro.
Moglie: La situazione in Ortles è così, la colazione è dalle 7:30 alle 8:30, il
pranzo è dalle 12:00 alle 13:00, la cena dalle 18:30 alle 19:30. Alle 9:00
dobbiamo uscire dalla stanza e stare fuori fino alle 13:00. Le persone che
lavorano lì, quando noi usciamo dalle stanze, cercano tra le tue cose,
controllano tutto, non puoi tenere niente, neppure il cibo, né un frutto, né un
biscotto, niente. Mia figlia è abituata a mangiare il cibo che cucino io, il
cibo peruviano. La prima volta in Ortles ha mangiato un po’ perché per lei era
qualcosa di nuovo, ma dopo non ha mangiato più. Anche per questo lei è stata una
settimana con la febbre, la tosse, proprio male. E quando è stata male, la
mattina comunque dovevamo uscire dalla stanza. Se il dottore non dice che puoi
restare, non ti lasciano stare, devi andare fuori come tutti. Per me quella non
è vita, lei è piccola, ha solo due anni, e fuori fa tanto freddo. Anche io, che
sono incinta al settimo mese, a volte sto un po’ male con la pancia, mi fa male
la schiena, ma non possiamo restare lì a riposare, dobbiamo andare fuori,
dobbiamo stare in giro.
A un certo punto vi hanno chiamato per farvi una proposta. Ci raccontate come è
andata?
Moglie: Un giorno mi ha chiamato l’assistente sociale e mi ha detto che c’era
una proposta buonissima, che dovevo andare con mia figlia in una comunità in un
paesino in provincia di Pavia. Io ho pensato che intendesse insieme con mio
marito, però lui mi ha detto di no: da sola con mia figlia. Mi ha detto che
dovevo accettare questa proposta, e che non sarei potuta stare più lì dopo il
parto. Io ho detto che prima dovevo parlare con mio marito per capire cosa fare,
perché per me non andava bene che io dovevo andare lì, lontana da mio marito.
Marito: Quando lei mi ha chiamato, piangeva ed era spaventata. Gli ho detto di
stare calma, che qualsiasi decisione la prenderemo quando io torno da lavoro.
Quindi quel giorno non ho fatto neanche lo straordinario, ho preso i mezzi di
trasporto e sono andato subito da mia moglie. Poi ho chiamato le persone della
Rete Ci Siamo, per sapere cosa dovevamo fare. Mi hanno detto che dovevamo stare
tranquilli, che non ci avrebbero tolto la nostra figlia, di non accettare, né
firmare. Abbiamo fatto quello che ci hanno consigliato, perché noi non sappiamo
nulla dei diritti qua in Italia.
Moglie: Il giorno dopo l’incontro con l’assistente sociale, sono andata insieme
con mio marito anche dalla direttrice di Ortles. Lei ci ha detto che era una
buona soluzione per noi, per la nostra famiglia, che mio marito poteva venire a
trovarci. Ma se per venire da noi deve rinunciare al lavoro, come sostiene la
famiglia, come manda i soldi al paese? Per quello noi non abbiamo accettato la
proposta. Così mi hanno detto che non avendo accettato la proposta, dovevano
chiamare il Tribunale dei minori. Io non bevo alcool, non fumo, sono una persona
che apprende giorno per giorno la lingua italiana, che ha sempre fatto le cose
per bene. Io ho paura di questa cosa che mi hanno detto, che loro possono
allontanare la mia figlia da me. Per quello ho detto a mio marito che preferivo
andare via da questo paese prima che mi tolgono mia figlia. Sono andata anche a
un’agenzia per comprare il biglietto, però la dottoressa mi ha detto che non
potevo più viaggiare dopo la trentaseiesima settimana di gravidanza, che era
pericoloso per me.
Marito: Alla data di oggi, noi siamo tranquilli, sì, però non è vero che lo
siamo, perché abbiamo ancora un po’ di paura, perché se compro il biglietto
aereo a mia moglie, per farla tornare al paese, questo non va bene perché io
invece non posso tornare, perché le persone che ho denunciato nel mio paese mi
cercano per farmi qualcosa, magari ammazzarmi. Ma se rimaniamo qua in Italia non
abbiamo un posto dove stare anche se abbiamo il lavoro, paghiamo i contributi,
siamo persone tranquille. A questo punto non sappiamo cosa fare. Stiamo
aspettando una soluzione dal comune di Milano, ma alla data di oggi non abbiamo
ancora una risposta, non sappiamo cosa aspettarci domani. (redazione monitor
milano)
PRESIDIO
Per protestare contro l’attuale politica sociale del comune di Milano, per
riportare al centro del dibattito la questione della casa, per l’autonomia,
l’emancipazione e la responsabilizzazione degli individui, la Rete solidale Ci
Siamo ha indetto un presidio davanti all’assessorato al Welfare in via Sile, 8
per martedì 26 novembre alle ore 10.
(disegno di bambi kramer)
Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani
e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano
Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia
(Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria
Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.
A seguire ne pubblichiamo un estratto.
* * *
È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre
1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono
fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli
anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri
autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di
movimenti per la casa e per i servizi.
Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e
dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa
diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano
borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che
oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità
pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo
sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono –
compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo
termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro
conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche
quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue.
La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa.
Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle
risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano
costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale,
anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono
forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli
abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste
e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le
istituzioni.
Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato,
minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera”
inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente
segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze
dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito
trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero
non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un
“residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle
case da cui furono mandate via quindici anni fa.
Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi
vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta
disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e
tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno
raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni
e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di
altri a una continua peregrinazione intorno alla città.
Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità”
rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non
solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale.
Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra
epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in
quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito
ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici,
oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e
familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che
incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un
odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal
cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter
out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o
affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al
displacement.
Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella
capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più
gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a
Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono
chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati,
come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di
concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova
addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima
della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli
sgomberi, e che li ricordava così:
«Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le
SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la
polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si
riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli
archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase
al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono
tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da
rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla
polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e
demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la
sua organizzazione».
Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e
dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri
autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si
descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione
non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui
fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista
coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in
Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando
colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […]
Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del
borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri
abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di
Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli
prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni
precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove
la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli
abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune
tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con
Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola
popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire,
Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che
a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti.
Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi
fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle
associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del
Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa,
Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua
famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di
Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze.
Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla
trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti
dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una
trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo
tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel
frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende
del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti.
Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora
erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora
considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una
città diversa.
Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la
casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum:
l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”,
nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che
aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati”
dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una
mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo
collettivo creato nel vecchio quartiere.
«La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava
che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse
insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che
faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto
della scavatrice di Pasolini,
Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.
In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme
di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di
convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche
i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili
solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree
autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e
disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che
vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra
forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno
prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e
politica.
Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è
difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex
“baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di
quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti
nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti
cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che
avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora
rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti,
che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati.
All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte
contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni
(2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere.
Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti,
sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e
colpevole per natura.
Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni,
sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla
vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone
a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il
passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni
attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è
l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre
inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e
culturali.
Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui
postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di
sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano
espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata,
prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione
nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto
della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in
Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di
opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo
in gioco gli stessi corpi.
Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme
cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più
piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre
vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti
di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro
diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli
abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono
a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che
demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la
primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun).
Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un
anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del
loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte»,
dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna
no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un
gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si
costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita:
come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o
Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di
Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un
bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con
cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in
affitto.
L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello
sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini:
«Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi
da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa;
l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di
molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche
degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada
al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare
strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali,
smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro
che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia.
Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può
giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo
rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per
la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal
punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una
realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive
Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che
portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli
abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento
come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro
sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di
società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle
rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro
che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi.
Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si
basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo
positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando
le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che
trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico
esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere.
Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche
essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della
storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato
immutabile.
Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche
casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce
n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora
realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
(disegno di martina di gennaro)
L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers
les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo
dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la
seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua
analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo
saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura
come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si
basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani
Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente
a Gaza e in Libano.
Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia
di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio
della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare
confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di
lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i
vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”.
La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune
istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su
larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone
di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’),
suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di
intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una
decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”.
Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno
all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria
militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti
recenti.
Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha
visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone,
nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un
totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle
vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto
la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La
direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in
possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la
procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono
arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti
antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno
del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una
trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.
In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e
rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla
Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo
dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di
queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri
interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia,
congedandoli dopo vaghe promesse.
Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono
cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle
famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o
comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove
si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto.
Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case
promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi
racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che
rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli
alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per
assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non
sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta
di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di
nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma
l’Asl non aspetta».
L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli
abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i
nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della
palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare
e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente
utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità
di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo
muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente
dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli
abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù
dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono
diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono
precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha
accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un
nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è
un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello
quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la
corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono
accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male?
Sono mesi che stiamo così».
Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie
dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale
Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante
racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta
ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i
documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso
principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il
traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi,
invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a
poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine
ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di
stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a
fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti
all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro
le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che
le videocamere non funzionano».
In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni,
violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si
dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in
un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli
schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo
caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente
nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo
spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto
questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al
contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un
muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali
giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto
che non si sa bene cosa significhino.
L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più
gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli
ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io
amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come
piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga.
Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra».
Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la
stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a
Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di
vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo
avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese,
minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non
avessero lasciato l’edificio pacificamente.
Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il
Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato.
Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene
scandito da intimidazioni e incertezze.
In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno
della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di
dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare
Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi,
mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che
si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di
spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi
effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente
e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia
dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a
scomparsa”. (barbara russo)