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Soluzioni semplici: costruire più case per abbassare gli affitti?
(disegno di valentina galluccio) Scrive un deputato della repubblica italiana, economista, segretario di un partito, in un post di lunedì 21 luglio: “Facciamola semplice: se in una qualsiasi città i prezzi delle abitazioni sono troppo alti, c’è un solo modo per farli scendere: costruire più abitazioni”. Il contesto, inutile dirlo, è il continuo e sfacciato tentativo di tenere in piedi il “modello Sala”, crollato rovinosamente a Milano. Ma il deputato Marattin si inerpica su un terreno spinoso. Secondo lui la speculazione immobiliare, la costruzione estensiva di abitazioni, sarebbe un modo non solo per far guadagnare i costruttori, com’era sicuramente l’obiettivo del modello Milano, ma anche per abbassare i canoni d’affitto. Al di là delle vicende giudiziarie, insomma, fomentare la costruzione fa bene a tutti. Il deputato va oltre, e scrive, excusatio non petita: “I tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per legge sono stati un fallimento in tutto il mondo e in ogni tempo”. Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di più cemento, non di leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così controintuitiva ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché? Da una parte si continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino per la società e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare l’evidenza, per esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni sia orientato a favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a risolvere i problemi abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste il mito della mano invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato, spontaneo e in qualche modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende – anche quando è così evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi vende o affitta le case ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di “inventare” e diffondere una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a comprarle, non ha strumenti di questo tipo a disposizione. Queste “soluzioni semplici”, che nascondono potere e diseguaglianze, fanno venire voglia di mettere mano alla sciabola. Per sublimare questo desiderio vale la pena fare una piccola carrellata sui “tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per legge” – le leggi per il rent control – che sono invece proprio le misure di cui abbiamo bisogno ora. DUEMILA ANNI DI CONTROLLO DEGLI AFFITTI L’umanità dev’essere proprio impermeabile agli errori, se lo stesso fallimento continua a riproporsi anche a distanza di millenni. La prima legge per controllare gli affitti che conosciamo risale alla Roma repubblicana, cinquant’anni prima della nascita di Cristo: fu sperimentata all’inizio nella piccola “colonia interna” del porto di Ostia, come cancellazione dei debiti e blocco dei pagamenti per un anno. Misure simili furono usate da Cesare e da Ottaviano, più avanti dagli imperatori Valeriano e Gallieno. Altri esempi importanti furono le misure straordinarie introdotte dalla dinastia Song in Cina, intorno all’anno 1000; nel 1513, nello Stato Pontificio, un Decretum Camerae Apostolicae in fauorem inquilinorum sancì il controllo pubblico sugli affitti; a metà Settecento un editto del Regno di Sardegna affidò al vicario di Torino il compito di “conoscere e provvedere circa le differenze per eccessivo aumento di fìtto tra li padroni di case poste in detta Città ed i loro affittavoli, e di procedere ove d’uopo alla tassa de’ luoghi appigionati”; nel 1815 il Ducato di Modena pubblicò una legge che fissava l’affitto al 6% del valore della proprietà. Si possono citare un’infinità di altri esempi, particolarmente concentrati nell’Europa meridionale – da Parigi a Malta, dal Portogallo alla Madrid del 1600: in alcuni casi le leggi funzionarono, in altri casi no (come quelle dell’imperatore Gallieno: i proprietari le aggirarono stipulando contratti brevi, non regolati). Ma quello che più interessa sono le forme di regolazione moderne, che si diffusero in varie parti d’Europa e in Nordamerica all’inizio del Novecento. Le lotte del movimento operaio di metà-fine Ottocento in molti casi reclamarono il diritto alla casa per chi viveva in affitto, cioè la totalità della classe lavoratrice: i padroni delle fabbriche erano spesso anche i padroni delle case. In Scozia, Inghilterra, Irlanda, Svezia e Spagna, a cavallo del secolo, ci furono grandi “scioperi dell’affitto” che si conclusero spesso con l’approvazione di leggi per il controllo dei canoni: 1915 in Scozia, Inghilterra e Irlanda, 1917 in Svezia, 1919 in alcune parti della Germania, 1920 in Spagna e a New York. Erano leggi pensate per essere temporanee, ma furono rinnovate per reggere l’emergenza della Grande Guerra. La storica Jo Guildi spiega che il primo movimento inquilino moderno per l’abbassamento dei canoni era in primo luogo un movimento anticoloniale: furono i contadini irlandesi vessati dai proprietari inglesi a reclamare l’abbassamento per legge degli affitti delle terre e delle masserie, con il primo sciopero degli affitti della storia. Il parlamento irlandese approvò un Land Act che impose che i contratti tra inquilini e proprietari considerassero il diritto all’uso delle terre, non solo quello alla proprietà, e regolati da un tribunale speciale. Dei valutatori professionisti analizzavano i canoni caso per caso. I movimenti inquilini di altre regioni britanniche presero l’esempio e iniziarono altri scioperi dell’affitto: il più grande fu quello del 1915 a Glasgow, dove c’è ancora la statua di una delle leader della protesta inquilina, Mary Barbour (gli inquilini e le inquiline che trattenevano l’affitto furono chiamati “l’esercito di Mrs. Barbour”). Anche in Spagna le donne erano molto attive nelle organizzazioni inquiline di inizio secolo: i sindacati inquilini di Bilbao, Valencia e Barcellona furono fondati nel 1904, e nel 1920 riuscirono a far approvare la prima legge per ridurre i canoni, estendere la durata dei contratti e limitare gli sfratti. Le proteste non si fermarono, e nell’aprile 1931 a Barcellona iniziò un enorme sciopero dell’affitto (la huelga de alquileres), chiamato dal sindacato anarchico della CNT, a cui parteciparono oltre centomila unità abitative. Queste leggi ottennero l’abbassamento dei canoni, anche se spesso il risultato fu inferiore alle aspettative: l’obiettivo della CNT era che gli affitti scendessero del quaranta per cento e fossero azzerati per chi non aveva reddito (perché la casa è un diritto!). Il governo repubblicano spagnolo non arrivò a tanto, ma certamente molte famiglie operaie o disoccupate videro migliorare le proprie condizioni prima che Francisco Franco iniziasse a intaccare il controllo pubblico sugli affitti. Anche in Italia fu Mussolini, nel 1923, a eliminare il blocco degli affitti in vigore sin dalla Grande Guerra: fu la prima legge del fascismo, fatta per compiacere proprietari immobiliari e investitori. Gli affitti aumentarono vertiginosamente, soprattutto a Roma e Milano, e nel 1930 il regime dovette reintrodurre la regolamentazione. Anche i governi più conservatori ricorrono al controllo degli affitti in tempi di guerra e di crisi, e gli effetti sono evidenti: gli affitti scendono e gli inquilini più vulnerabili hanno meno difficoltà a rimanere nelle loro case. Lo dimostra anche l’esempio dell’Argentina, dove il rent control permise a migliaia di famiglie di sopravvivere dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con regolamentazioni molto stringenti. INEFFICACIA DEL RENT CONTROL, UN MITO DEL MACCARTISMO L’attacco più duro al controllo degli affitti fu negli anni Cinquanta, quando forme di rent control erano attive in molti stati e città sia d’Europa che d’America. Il mantra degli economisti liberisti statunitensi, orientati dal maccartismo, dall’anticomunismo e dalla retorica del laissez-faire, divenne proprio “l’inefficacia” del rent control , argomentazione ripresa oggi dal deputato Marattin. Per non dire che il controllo degli affitti fa male ai proprietari, si iniziò a dire che faceva male agli inquilini. Negli anni Settanta, importanti economisti come Milton Friedman e Friedrich Hayek furono i campioni di questa nuova ondata di retorica liberista, che si scatenò ovunque si fossero ottenute conquiste sociali nei decenni precedenti. La retorica contro il rent control raggiunse picchi epici, come quando l’economista svedese Assar Lindbeck scrisse che il controllo degli affitti “sembra essere la tecnica più efficace per distruggere una città, oltre a bombardarla”.  Ora sappiamo che queste sparate erano parte di un vero e proprio progetto politico, quello identificato da Marco D’Eramo in Dominio, e cioè l’assalto dei think tank conservatori alle conquiste del movimento operaio e delle battaglie degli afroamericani per i diritti civili. Think tank finanziati dalla lobby immobiliare come il Fraser Institute ebbero un ruolo determinante nel modellare il discorso pubblico. Mentre Lindbeck e gli altri pontificavano sull’inefficacia del rent control, l’associazione dei proprietari immobiliari californiani spendeva quattordici milioni di dollari per far ritirare le regolamentazioni, allora attive in tredici comuni dello stato – oltre che in cinque città del Massachusetts, centoventi del New Jersey, e a New York. Anche in Europa il controllo degli affitti cadde, prima in Irlanda, nel 1966, poi in Inghilterra, nel 1982, poi in Spagna, nel 1986, infine in Italia, con la liberalizzazione dei fitti del 1998. Mentre la prima stagione di liberalizzazioni fu guidata dalla destra (Reagan e Thatcher), la seconda è interamente opera della cosiddetta sinistra (il Psoe di Felipe González in Spagna, il governo D’Alema in Italia). L’opera iniziata da Franco e Mussolini fu conclusa dagli ex comunisti. Tom Slater e Hamish Kallin, geografi marxisti scozzesi, oggi i principali esperti di rent control, descrivono questo assalto come una “pseudoscienza”, promozione organizzata dell’ignoranza. L’assalto degli economisti al rent control si basa sempre su tre miti. Il rent control spingerebbe i proprietari a ridurre l’offerta di case (supply myth), non incentiverebbe i proprietari a migliorarne la qualità (quality myth), e in generale sarebbe inefficiente (efficiency myth) perché gli inquilini finirebbero per abitare case migliori di quelle che si possono permettere. In un libro che uscirà a fine anno con Armando Editore, scritto insieme a Chiara Davoli, entreremo più nel dettaglio sulle fallacie fattuali e logiche di questi tre miti, il cui debunking comunque si trova negli articoli e nelle interviste di Slater e Kallin (come questa, questo, e questo, purtroppo protetti da paywall accademici). Per riassumere, basti vedere che trent’anni di liberismo non hanno certo prodotto maggiore offerta di case, né maggiore qualità; qualità e offerta sono molto migliori in paesi dove ci sono regolamentazioni, come i Paesi Bassi, rispetto che a dove non ci sono, come il Regno Unito. Si pensi alla tragedia della Grenfell Tower a Londra, dove morirono settanta persone a causa della pessima qualità delle abitazioni, in un sistema ultraliberista: la mano invisibile del mercato non aveva dato neanche una passata di vernice. Anzi, è proprio il libero mercato a produrre effetti simili a un bombardamento: un esempio per tutti, Detroit. Meglio non commentare il mito dell’efficienza, che dà per scontato che i poveri debbano vivere sempre al minimo della sussistenza, e che le case grandi e belle devono essere per forza abitate dai ricchi. RENT CONTROL OGGI Nonostante questo assalto neoliberale, nonostante i Marattin, nonostante i think tank nostrani (il presidente di Confedilizia Calabria, Sandro Scoppa, ha curato un recente volume dal titolo Controllare gli affitti, distruggere l’economia), nuove forme di controllo pubblico sugli affitti stanno tornando in auge in tanti paesi del mondo. L’evidenza del fallimento del libero mercato, soprattutto di fronte alla catastrofe abitativa dopo il 2008 e dopo il 2020, è così evidente che i vecchi miti economicisti non reggono più. Le stesse amministrazioni pubbliche che per decenni hanno ignorato ogni studio non finanziato dalle lobby dei costruttori oggi hanno iniziato ad ascoltare altre posizioni, in particolare quelle dei sindacati inquilini e dei loro esperti indipendenti. Oggi ci sono ben sedici paesi dell’Unione Europea in cui sono attive forme di controllo degli affitti: le regolamentazioni più dure sono presenti in Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e quelle più leggere sono in Spagna, Germania, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Croazia, Polonia, Cipro, Scozia, Norvegia. L’Italia è uno dei diciassette paesi dell’Unione che non ha più nessuna forma di controllo degli affitti, insieme a Portogallo, Grecia, Inghilterra, Islanda, Finlandia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Serbia, Bulgaria e i tre paesi baltici. Gran parte delle leggi sul rent control sono state introdotte negli ultimi cinque o sei anni, per cui è presto per dire quale è stato il loro effetto (primi studi si trovano qui e qui). Ma è interessante sapere che oggi il paese dove ci sono più forme di controllo degli affitti sono proprio gli Usa: New York ha un controllo sugli affitti che si applica solo a un numero limitato di abitazioni, e la Rent Stabilization Ordinance di Los Angeles stabilisce un tetto massimo agli aumenti degli affitti, che fino al Covid era del tre per cento. Negli Stati Uniti il rent control è l’unica politica pubblica che si possa ancora usare per limitare i danni del neoliberalismo, perché le leggi federali impediscono la costruzione di nuove case popolari (se non per sostituire quelle da abbattere).  La domanda chiave, ovviamente, è: il controllo pubblico sugli affitti riesce davvero a far calare i prezzi dei canoni? Oggi che le case sono completamente costruite da privati, e che è possibile produrne una grande quantità, che effetto ha l’intervento pubblico? Intanto, niente panico, sappiamo bene che lo Stato interviene in un enorme quantità di settori economici, e che di fatto non c’è niente di simile a un vero “mercato”: lo stato regola, interviene, sussidia, promuove, detassa, finanzia, aiuta. Non sarebbe un’eresia se invece di intervenire solo sul tabacco e sul sale, o su pasta, latte e uova come durante la pandemia, si intervenisse anche sulle case. Gli studi esistenti dicono chiaramente che i miti sulle presunte catastrofi del rent control sono falsi: in nessuno dei paesi in cui sono attive politiche di questo tipo c’è stato niente di simile a un bombardamento, né drastiche riduzioni della qualità e dell’offerta. Anche le regolamentazioni attivate sono piuttosto blande: si congelano i canoni, permettendo solo aumenti legati all’inflazione, o a miglioramenti sostanziali nella qualità degli alloggi (rent freeze) oppure si fissa un tetto massimo sopra il quale non si può aumentare (rent cap, in tedesco Mietendekel).  Il progetto del Sindacato inquilini della Catalogna di abbassare gli affitti del cinquanta per cento, sostenuto da una grande manifestazione a Barcellona a novembre, non si è ancora realizzato, e la nuova legge spagnola è piena di “buchi” che permettono ai proprietari di aggirarla, proprio come avevano fatto i loro omologhi al tempo dell’imperatore Gallieno: stipulando contratti brevi non regolati. Anche quando non ottiene i risultati sperati, tuttavia, il rent control non fa di certo male, almeno non agli inquilini. Fa anche bene? Le prime analisi sembrerebbero confermarlo: uno studio condotto dalla municipalità di Parigi sui primi sei anni di controllo degli affitti mostra che i canoni sono scesi del quattro per cento rispetto a quanto avrebbero fatto senza regolamentazione: del due per cento nel primo triennio (che però è anche quello della pandemia), e poi addirittura del sei per cento. Sono sessantaquattro euro di media al mese risparmiati dagli inquilini. Intanto sono stati segnalati milleseicento casi di infrazione, con i relativi procedimenti contro i proprietari: quasi la metà degli annunci indicano prezzi più alti di quelli consentiti per legge. Se tutti i proprietari avessero rispettato la legge, la diminuzione degli affitti sarebbe stata superiore agli otto punti percentuali. Conclusioni simili risultano dalla Catalogna, dove il controllo degli affitti è stato in vigore per un anno e mezzo, prima di essere annullato dal Tribunale costituzionale (e sostituito dalla timida Ley de Vivienda del governo Sánchez). I prezzi sono scesi del cinque per cento già dai primi tre mesi di regolamentazione, secondo i dati dell’Istituto Catalano del Suolo. Naturalmente, i proprietari hanno reagito riducendo i contratti indefiniti e stipulando molti più contratti temporanei, che il governo aveva iniziato a regolare quando è stato bloccato dal partito catalanista Junts, oltre che dai fascisti del Pp e di Vox. Altre situazioni sono ancora più complesse. A Vienna, per esempio, dove il settantotto per cento degli abitanti vive in affitto, e appena un terzo di questi è in affitto da privati, ci sono forme molto estese di regolamentazione dei prezzi: solo il sette per cento non è regolato. Eppure, negli ultimi anni i prezzi sono comunque saliti, portando il governo ad approvare un nuovo congelamento dei prezzi. In Olanda invece il sistema sembra funzionare bene, con un meccanismo centralizzato che calcola i prezzi, e che tiene fuori dalle regolamentazioni solo le case di lusso. Ci sono tribunali che sanzionano le violazioni, e tutti i contratti d’affitto sono diventati contratti permanenti.  Insomma, far scendere gli affitti è una priorità assoluta, ma non si può credere che si possa fare con “soluzioni semplici” alla Marattin: serve un’azione combinata, in cui si colpisce in primo luogo il mercato libero, poi gli affitti brevi, poi altre forme di speculazione, come i grandi proprietari che tengono centinaia di case vuote, e che devono essere tassati. Dire “basta fare x per abbassare gli affitti” è la tipica soluzione “semplice, elegante e sbagliata” che permette di continuare a produrre i danni che si vuole contenere, magari anche a peggiorarli: stampare moneta per risolvere la crisi del debito, tagliare le politiche sociali per affrontare la recessione (in Grecia), imporre dazi per salvare posti di lavoro (in Usa), congelare i conti bancari per impedire la fuga di capitali (in Argentina), o immettere enorme quantità di moneta per far funzionare il sistema bancario malato dopo il 2008 (ovunque). Il sistema delle abitazioni è complesso, perché nessuno può rimanerne fuori, e perché si basa su un bene già distribuito in maniera diseguale, cioè la terra. Non si può applicare astrattamente la legge della domanda e dell’offerta, perché non è un mercato competitivo, dove se aumenta l’offerta i prezzi scendono. La stessa metafora del “mercato” è fuorviante: si potrebbe paragonare più a un centro commerciale, dove i negozi dipendono tutti dallo stesso franchising, e un singolo operatore è in grado di influenzare tutti. L’offerta di case è un oligopolio, regolato da cartelli e da lobby, che sono sostenute dai governi, e che mantengono i prezzi alti mettendo sul mercato poche case alla volta e tenendone chiuse migliaia di altre per usarle come deposito di investimenti e garanzie per ottenere nuovo credito. Pensate a quanto ci siamo scandalizzati durante la pandemia, quando alcuni commercianti mettevano sul mercato piccole quantità di mascherine e amuchina per far alzare i prezzi, e vendere a otto euro quello che sarebbe dovuto costare pochi centesimi. Ma come! Sono beni di prima necessità, presidi indispensabili per la salute! Lo stato deve impedirlo! Bene, lo stesso ragionamento si applica alle case, che sono un bene di prima necessità, presidio di salute fondamentale, e che pochi speculatori mettono sul mercato in piccole quantità per tenere prezzi assolutamente insostenibili. Il controllo degli affitti è sicuramente un modo per iniziare a scalfire il dumping commerciale delle grandi lobby della proprietà, e deve diventare assolutamente una delle richieste prioritarie del movimento per la casa (come già annunciato dal sindacato Asia-Usb in un convegno a Roma). Mentre facciamo crescere le campagne per il rent control, però, dobbiamo studiarne in dettaglio l’applicazione, gli effetti, le varianti, prendendo in considerazione tutti i fattori che possono far aumentare o diminuire gli affitti. Ci vuole un pensiero olistico, che rifiuta a priori gli “è semplice” alla Marattin, e che sia in grado di combinare un’azione politica decisa con un ragionamento scientifico complesso, capace di mettere in discussione anche quello che consideriamo ovvio. Come scrivono due economisti svedesi nello studio su cui si basa la nuova politica di rent control del governo svedese: “Il rent control ci riporta alla macroeconomia: se lo studi e non ti senti un po’ confuso, probabilmente non stai pensando lucidamente”. (stefano portelli)
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Roma: operazione dei Carabinieri contro il Movimento per il Diritto all’Abitare
Nella giornata di martedi 29 luglio tre attiviste e attivisti del Movimento per il Diritto all’Abitare di Roma hanno subito la perquisizione dell’abitazione e del posto di lavoro con il sequestro dei cellulari, dei computer e di materiale cartaceo di varia natura. Un’operazione con uno spropositato dispiegamento di personale dei Carabinieri e della Digos, sovradimensionata […]
lotte sociali
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diritto all'abitare
Carcere di Ferrara: Detenuta trans violentata.
Una detenuta trans ha denunciato di essere stata violentata da quattro uomini all’interno del carcere di Ferrara. La Garante: “Era disperata. Aveva chiesto di essere trasferita” di Diana Ligorio da il Domani Una detenuta trans ha denunciato di essere stata violentata da quattro uomini all’interno del carcere di Ferrara. La denuncia è stata formalizzata il […]
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Porto, tra scomparsa delle case e speculazione immobiliare. Un tentativo di resistenza
(disegno di escif) Il Largo do doutor Pedro Vitorino si trova nel centro di Porto. Nei pressi c’è un piccolo spiazzo panoramico, il Miradouro da Vitoria, da cui si possono vedere il fiume Douro e il ponte Luiz I, che unisce Porto con Vila nova de Gaia, città di oltre trecentomila abitanti che si estende a sud del fiume. Nel complesso i due comuni, situati nel nord nel Portogallo, superano i cinquecentomila abitanti, costituendo la seconda area urbana del paese dopo la capitale Lisbona. Dall’altra parte del Douro si vedono le sedi di alcune aziende produttrici del famoso vino locale, il Porto, mentre una funivia collega la riva del fiume con il parco chiamato Jardim do Morro. In mezzo alle case e agli edifici del centro, da entrambi i lati del fiume, si vedono diverse gru per costruzioni. Nelle sue zone centrali – come quella intorno alla stazione della metro Aliados, dove ha sede il Comune, e alla stazione ferroviaria di São Bento – Porto è piena di turisti. È forse scontato dire che il turismo sta cambiando la città, ma quello che altrove è ormai un fenomeno affermato qui sembra avere ancora margine di crescita. Sia in centro che in periferia si vedono diversi edifici fatiscenti: in più occasioni si possono notare piani interni crollati e solo la facciata in piedi, con poche travi all’interno. Come in rua Conde de Vizela, a due passi dalle aree più interessate dalla presenza turistica, dove un edificio in queste condizioni è affiancato da locali alla moda e da altri palazzi ristrutturati di recente. L’immobile, come molti altre nelle stesse condizioni, è in vendita. Basta passeggiare per le strade della città per rendersi conto che la questione abitativa a Porto è diventata di primaria importanza: nel centro sono affissi tanti manifesti di Habitação hoje, un’organizzazione politica nata nel 2021 che si occupa della difesa del diritto all’abitare. «Habitação hoje ha avuto da subito l’idea di aggregare una forza collettiva per provare a cambiare le cose. Facciamo il possibile per ritardare gli sfratti: in Portogallo la legge tutela i proprietari e quindi evitarli è quasi impossibile. Possiamo però allungare i tempi della procedura», afferma R. Il gruppo fornisce assistenza legale e promuove due volte al mese delle assemblee per chi si trova in condizione di fragilità o in emergenza abitativa. «Negli ultimi anni con il sindaco Rui Rio (in carica dal 2002 al 2013, ndr) e poi con l’attuale Rui Moreira (già al terzo mandato) la città si è trasformata in una sorta di parco giochi per immobiliaristi: si è progressivamente costruita l’immagine di una Porto accogliente per i turisti e questo ha sconvolto la vita di chi abita qui», ci dice ancora R. Una delle date fondamentali per ricostruire questo processo è il 1996, anno in cui il centro di Porto è entrato a far parte della lista dei siti “patrimonio dell’umanità” dell’Unesco. Oggi in quest’area sono frequenti i cartelli che ricordano il riconoscimento. Nel 2001, la città, allora amministrata dal sindaco Nuno Cardoso, è stata capitale europea della cultura. Oggi si possono vedere diversi interventi urbanistici risalenti a quel periodo, come la Casa della musica nel quartiere Boavista, sulla direttrice che dal centro porta verso occidente e quindi verso l’oceano. «Quello è stato un momento decisivo per la città – ci dice R. – anche perché Porto è entrata a far parte delle destinazioni della compagnia Ryanair e sono state approvate alcune leggi che favoriscono gli affitti brevi. Questi interventi si sono sommati a un percorso legislativo che negli anni Novanta aveva già indebolito le tutele verso gli affittuari». Negli ultimi venti anni anche la zona orientale della città ha subito profondi cambiamenti. Nel 2004 il Portogallo ha ospitato i campionati europei di calcio, che hanno portato alla costruzione di un nuovo stadio (il Do Dragão: “Del drago”) poi utilizzato dal Porto, la squadra di calcio locale. Accanto allo stadio si trovano un grande centro commerciale e diversi edifici a uso residenziale. Nella stessa zona, appena più verso il centro, c’è la stazione intermodale di Campanhã, in cui una recente stazione per i bus si affianca a una stazione dei treni che ora è diventata la principale di Porto. Su quest’area l’amministrazione di Rui Moreira sta investendo molto. In una conferenza stampa del 25 marzo scorso Pedro Baganha, il responsabile della giunta Moreira dell’assessorato all’urbanistica, si è detto soddisfatto di come stanno procedendo i lavori nella zona, sottolineando un aumento delle abitazioni disponibili e degli hotel, prima “praticamente inesistenti”. Prendiamo queste informazioni da Porto.pt, il portale di informazione gestito e promosso dal Comune, che è ben presente in città, soprattutto nelle metropolitane e in alcune piazze. «Il problema della gestione delle informazioni a Porto è cruciale: – aggiunge R. –  Porto.pt non dà notizie false, ma dice solo quello che fa comodo alla giunta comunale. Per esempio, tempo fa rispetto a un caso di persone in emergenza abitativa il portale ha annunciato che per loro era stata subito trovata una soluzione alternativa, senza però specificare che questa sarebbe durata appena qualche giorno». Per quanto riguarda l’aumento di case disponibili a Campanhã di cui parla Baganha, viene naturale chiedersi chi potranno esserne gli abitanti. Mentre il Comune rivendica di aver messo in piedi quella che è stata chiamata Strategia locale per l’abitazione (Estratégia local de Habitação), Habitação hoje fa notare che molte delle persone più in difficoltà, come le donne sole ultrasessantenni, finiscono per non poter accedere alle case presentate come “accessibili”. «Vengono affittate a un prezzo che è di poco inferiore a quello di mercato. Inoltre la quota che verrebbe “sottratta” al proprietario, impossibilitato a venderla al prezzo corrente, viene comunque data dal Comune che garantisce così la rendita. Ciò determina che chi partecipa all’assegnazione di queste case non avrebbe bisogno di un sostegno istituzionale, mentre chi si trova in difficoltà viene escluso e deve trovare altre soluzioni, se ci sono. Sono soprattutto le donne a rivolgersi ad Habitação hoje, in particolare quelle con più di sessantacinque anni, con pochi contributi versati e senza lavori stabili. Inoltre, il Comune non ha una vera e propria struttura che possa sostenere chi perde la casa: a quel punto queste persone possono solo contare sul sostegno di familiari e amici. Esistono dei rifugi notturni in città, ma sono abbastanza problematici e non riescono a far fronte a tutte le richieste. Di conseguenza diverse persone finiscono per strada», ci fa notare ancora R. Allo stesso tempo, il Portogallo negli ultimi anni si è dato da fare per attirare fasce di popolazione con una buona capacità di spesa, come i pensionati di altri paesi europei e cittadini di paesi esterni all’Unione Europea che, tramite un investimento fino al 2023 ottenevano il cosiddetto visto Gold, che permette di muoversi senza problemi in tutta l’Unione. Questo fenomeno ha sottratto ulteriori case dal mercato e ha anche innalzato i prezzi di molti immobili, spesso di quel tanto che bastava per raggiungere il livello minimo dell’investimento richiesto per ottenere il visto. Tutto ciò accade nonostante l’articolo 65 della costituzione portoghese garantisca il diritto a un’abitazione degna per ogni persona, impegnando anche lo Stato a promuovere delle forme adeguate di edilizia pubblica, senza escludere iniziative private o delle comunità che sentono in prima persona il problema abitativo: in realtà le case popolari oggi coprono solo una piccola parte del patrimonio immobiliare del paese e alcune esperienze innovatrici nate dopo il crollo della dittatura del cosiddetto Estado Novo, avvenuto il 25 aprile 1974 dopo quarantuno anni di regime, sono state riassorbite nel giro di pochi anni. Il riferimento è a quanto avvenuto durante il cosiddetto Prec (Proceso revolucionário em curso), cioè il tentativo di indirizzare la giovane repubblica portoghese verso una forma di socialismo. «L’esperienza di alcune cooperative ha garantito delle case a basso costo a diverse persone, ma alle condizioni attuali è molto difficile ripetere qualcosa di simile», ci spiega ancora R. Prima di lasciare la città diamo un’ultima occhiata al Douro dal Passeio das Virtudes, un piccolo parco in centro che offre una bellissimo panorama sul corso finale del fiume e sulle zone di Porto che si estendono fino all’Oceano Atlantico. Ripensiamo a quanto visto nei giorni precedenti. Ci sembra che la città stia subendo la sorte di tanti altri luoghi nel mondo: una grande potenzialità in termini di spazi disponibili si trasforma in una preda ghiotta per chi nel mercato immobiliare e nel turismo, con l’aiuto decisivo delle istituzioni, ha trovato uno strumento per realizzare forti profitti in breve tempo, facendo aumentare i costi della vita di chi abita in città. Rimane però anche l’impressione che, per chi vive problemi comuni, riconoscersi e organizzarsi sia il primo passo per trovare soluzioni collettive, soprattutto quando le istituzioni hanno altre priorità. (alessandro stoppoloni)
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Casa a Napoli. Il Comune non rispetta gli impegni presi con gli abitanti di Taverna del Ferro
(disegno di ….) Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli. Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche” di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici, grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon Metro della Regione. Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”. Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione temporanea della durata di tre anni. Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il debito e pagare la tassa dei rifiuti. Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica. L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”. Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile – continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi assessori non gli diranno quel che si deve fare”. Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni. La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure, noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una copertura politica non si muovono”. Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
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Le case dei sogni, venerdì al festival Libbra. Un estratto del volume
(copertina di roberto-c.) Sarà presentato venerdì 2 maggio, per la prima volta a Napoli, Le case dei sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, di Barbara Russo. La presentazione è una delle iniziative del festival Libbra, il festival delle Librerie indipendenti in relazione della città, e si svolgerà alle 19.30 allo Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46).  Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.  *     *     *   Nonostante sia di recente sviluppo, il settore delle locazioni turistiche a Napoli ha già conosciuto trasformazioni rilevanti. Dal 2014 al 2019 l’offerta di affitti brevi si è quadruplicata e concentrata nelle mani di pochi investitori. Nel 2015 gli annunci offerti su Airbnb erano meno di duemila, e di questi solo il trenta per cento era gestito da host con più annunci in piattaforma; mentre degli 8.500 annunci presenti nel 2019, il sessanta per cento era gestito da multi-host. Oggi la maggior parte delle offerte non riguarda più camere singole in appartamenti condivisi, ma appartamenti interi occupati per più di sessanta giorni all’anno. Si tratta, dunque, di attività professionali, piuttosto che di attività di sostegno al reddito – perno retorico su cui ha puntato la piattaforma Airbnb fin dalla sua nascita. Le idee di informalità e ospitalità sono progressivamente svanite di fronte a una crescente formalizzazione. Lo stile dell’offerta rimanda oggi alla professionalità di un albergo, ribadita anche dal prezzo medio richiesto per notte (107 euro secondo InsideAirbnb), di gran lunga superiore alle tariffe iniziali. Infine, questi processi riguardano annunci localizzati in zone sempre più ampie della città, sconfinando dai quartieri in cui l’offerta si era concentrata nei primi anni – centro antico e Quartieri Spagnoli – verso altre zone residenziali fuori e dentro il centro storico. L’insieme di queste trasformazioni rivela una tendenza, osservata anche in altri contesti urbani, che riguarda l’iniziale adozione del modello proposto da Airbnb soprattutto nei quartieri caratterizzati da redditi medio-bassi e tassi di disoccupazione maggiori. In questa prima fase, segnata da un alto grado di informalità e prezzi contenuti, l’offerta ricettiva è gestita direttamente da chi abita la casa, che spesso è a sua volta in affitto e sacrifica porzioni dell’abitazione per accedere a nuove forme di reddito e d’impiego. In un secondo momento, dopo aver testato il funzionamento del modello, chi affitta si rende conto che per ottenere un guadagno soddisfacente deve modificare l’offerta; laddove è possibile vengono quindi messe a profitto più stanze o interi appartamenti. È in questa seconda fase che si inseriscono i proprietari di casa, alla ricerca di una fonte di rendita e non di un nuovo lavoro. Questa “seconda generazione” di host predilige le locazioni turistiche a quelle tradizionali, per evitare di confrontarsi con le esigenze degli inquilini e mantenere la casa in una posizione di maggiore flessibilità, oltre al fatto che i guadagni possono essere di gran lunga maggiori. Subentra così un nuovo attore, l’intermediario immobiliare, il cosiddetto property manager, colui che assume il rischio imprenditoriale e gestisce la casa per conto del proprietario. Due storie mostrano il susseguirsi di questi passaggi, tra il 2012 e il 2020, nei due quartieri in cui l’industria turistica è cresciuta più velocemente: il centro antico e i Quartieri Spagnoli, abitati da una popolazione mediamente impiegata in lavori poco redditizi e precari, disposta a cogliere le possibilità di guadagno derivanti dall’economia delle piattaforme anche a costo di sacrificare alcuni spazi della propria casa.   Vera e Pietro hanno gestito un b&b per cinque anni, dal 2014 al 2019, nella casa in cui vivevano in via Santa Chiara, nel cuore del centro antico. Quando vi si trasferirono era il 2009 e arrivavano da dieci anni di instabilità abitativa. Per aiutarsi con le spese del fitto – Pietro percepisce la pensione, mentre Vera abbina un lavoro precario al suo mestiere di artigiana – svolgevano delle attività con i turisti: “Attraverso un amico che fa la guida turistica – racconta Vera – organizzavamo delle lezioni di cucina per gli americani, in cui si cucinava e si mangiava insieme”. Nel 2014 decisero di affittare ai turisti la camera di una figlia che nel frattempo si era trasferita: “All’epoca si cominciava a parlare di Airbnb, così quando Eleonora è andata via e si è liberata una stanza, un amico ci spiegò come inserire l’annuncio nella piattaforma”. Airbnb nasce al culmine della crisi del mercato immobiliare del 2008, proponendo un modello del tutto esternalizzato, capace di rilanciare l’economia della rendita: l’azienda non possiede gli appartamenti che offre in locazione, ma si limita a gestire l’interazione tra locatori e ospiti, guadagnando con l’aumentare delle interazioni sulla piattaforma, oltre che da una percentuale che viene trattenuta da ogni prenotazione online. Per affermarsi a livello internazionale, Airbnb ha usato una serie di strumenti simbolici che l’associano a un immaginario ben preciso. L’idea del “sentirsi ovunque a casa propria” porta a concepire il servizio offerto come un servizio non specializzato, ma di “autentica ospitalità” per i turisti. Il b&b di Pietro e Vera, nato in un periodo in cui il turismo extra-alberghiero era ancora di nicchia, rispecchia le intenzioni con cui la piattaforma si è fatta conoscere. Vera racconta che inizialmente non era possibile considerare la gestione del b&b come un lavoro a tempo pieno: “La maggior parte delle persone fitta la casa e basta, noi invece provvedevamo a tutto: mi svegliavo la mattina molto presto per organizzare la colazione e apparecchiare, poi c’era il momento in cui proponevi le visite e organizzavi le giornate anche a loro; dopodiché andavano via e c’erano il rassetto e le pulizie; la sera, quando tornavano, ti raccontavano la loro giornata; se c’era un’uscita o un’entrata, avevi la biancheria da lavare e da stirare… Lavoravo tanto, ma l’attività non era costante, avevamo gente solo in certi periodi. E poi affittavamo solo una stanza, non ci bastava per vivere. Quindi allo stesso tempo facevo altri lavori”. Negli stessi anni (2014-2019) il centro antico vede l’espansione dei settori legati all’economia turistica, in particolare cambia la geografia delle attività commerciali nelle strade adiacenti ai luoghi più visitati. “Quando abbiamo iniziato – continua Vera – cominciavano a nascere altre strutture di accoglienza; nel nostro palazzo ce n’erano cinque, nel vicoletto molte di più. In pochi anni se ne sono aperte tantissime in tutto il centro. Nei negozi spariva l’abbigliamento e aprivano locali che offrivano cibo, panini, pizzette, servizio bar. Un fioraio che ricordo da bambina è diventato un lounge bar; non c’era più la signora che faceva l’artigianato, è nato un altro ristorantino; la stessa cosa per quello che faceva le bomboniere…”. Il settore extra-alberghiero ha trainato non solo lo sviluppo del sistema ricettivo ma anche gli altri comparti; molti esercizi hanno lasciato il centro verso zone in cui l’affitto costava meno o si sono ibridati, hanno cioè affiancato alla vendita dei loro articoli quella rivolta alla clientela turistica. Nel corso del tempo, l’attività di Vera e Pietro si è consolidata: “A un certo punto – racconta lei – il mio lavoro artigianale è saltato e il b&b ci ha aiutato ad andare avanti. Io e mio marito abbiamo lasciato la nostra camera e abbiamo diviso in due quella di nostro figlio, così da poter avere due camere da fittare. In pratica, abbiamo deciso che quello poteva essere il nostro lavoro. Chiedevamo quaranta euro a notte. Lavoravamo di più in alcuni periodi, non come adesso che il flusso è diventato continuo: in primavera-estate c’era movimento, un po’ a dicembre e gennaio, ma tutto l’inverno non facevamo proprio niente”. (barbara russo)
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Spagna, i movimenti per la casa in piazza e l’intervento del governo sugli affitti brevi
Fotogalleria di Victor Serri Questa mattina il parlamento catalano ha finalmente approvato la regolamentazione degli affitti brevi turistici, dopo anni di pressioni da parte dei movimenti per la casa, e dopo le grandi manifestazioni in tutto lo stato spagnolo di sabato scorso. Oltre centomila persone, secondo gli organizzatori (poco più di ventimila per la polizia municipale), hanno sfilato a Barcellona per esigere la riduzione degli affitti, mentre un’altra manifestazione avveniva nello stesso momento a Madrid e in altre quaranta città dello stato spagnolo. La grande mobilitazione per la casa, in crescita da alcuni anni grazie al lavoro di base di un gran numero di strutture organizzate, per lo più assemblee territoriali, ha minacciato di far partire un grande sciopero degli affitti in tutto lo stato, se non verranno soddisfatte le richieste fondamentali degli inquilini: la riduzione degli affitti, il ritorno ai contratti indefiniti aboliti dal Partito Socialista negli anni Novanta, la fine delle compravendite speculative, il recupero delle case vuote e di quelle adibite a case vacanza, e l’aumento del numero di case popolari. La Catalogna è il territorio di tutto lo stato che sta subendo in modo più violento le conseguenze dell’impennata dei valori immobiliari: nei primi due trimestri del 2024 sono stati eseguiti più di quattromila sfratti, di cui mille e ottocento solo a Barcellona; gli affitti  sono aumentati del quarantacinque per cento in dieci anni, al punto che oggi l’affitto medio per una famiglia a Barcellona è di 1.300 euro al mese. Due grandi episodi di resistenza hanno segnato la fine del 2024 nella capitale catalana: lo sgombero della Antiga Massana, un’ex accademia d’arte occupata dal Movimento Socialista a due passi dalla Rambla, e il tentativo di sfratto degli inquilini della Casa Orsola, un palazzetto modernista del quartiere Eixample, acquistata da un fondo immobiliare. Nel primo caso, migliaia di attivisti e attiviste avevano riempito le strade del centro in protesta contro l’espulsione; nel secondo, un picchetto di almeno un migliaio di persone per impedire l’accesso alla polizia è durato tutta la notte, mentre alcuni artisti suonavano o parlavano dai balconi degli appartamenti minacciati di sfratto. Il movimento catalano comprende varie anime, ognuna con il suo modello organizzativo. La più antica è la PAH, la struttura creata dopo le mobilitazioni del 2010 per difendere gli abitanti che perdevano le case per la crisi dei mutui. La PAH era riuscita a occupare molto spazio nell’opinione pubblica di tutto lo stato, al punto che dalle sue fila era emerso il movimento municipalista di Barcelona en Comú, guidato dall’ex sindaca Ada Colau. La PAH ha segnato il modello per tutti gli altri movimenti, ma ultimamente ha perso forza, anche se si mantengono varie assemblee territoriali. Una seconda struttura, che oggi ha più protagonismo nella sfera pubblica, è quella dei Sindicats d’habitatge, i sindacati inquilini, emersi invece dalle lotte dei quartieri dopo il 2017. Si tratta per lo più di assemblee di inquilini, organizzate in forma orizzontale, con basi nelle diverse cittadine catalane e nei quartieri di Barcellona. Una struttura più grande chiamata Sindicat de llogateres de Catalunya mantiene la stessa struttura organizzativa e si coordina con i sindacati più piccoli, ma il suo ambito è tutto il territorio catalano. La confluenza di queste assemblee ha dato luogo alla Confederació Sindical de l’Habitatge, a cui partecipano anche diverse assemblee della PAH (ma non quella di Barcellona). Un terzo modello si è diffuso negli ultimi anni: il Moviment Socialista, emerso nel País Vasco e poi in Catalogna. In rottura con i movimenti indipendentisti e contro l’istituzionalizzazione del municipalismo di Podemos e Barcelona en Comù, considerato un fallimento, è cresciuta un’organizzazione comunista centralizzata, organizzata gerarchicamente, con sezioni locali e una struttura di coordinatori e rappresentanti. Il MS ha saputo fare un uso molto efficace delle reti sociali, mobilitando migliaia di giovani e giovanissimi: alcuni sindacati della casa catalani si sono dichiaratamente posizionati all’interno di questa organizzazione, e sono rappresentati da un Sindicat d’Habitatge Socialista. Questa struttura però potrebbe però aver raggiunto il suo limite di espansione, ed è la più reticente a coordinarsi con i gruppi di diverso orientamento politico. Eppure, la volontà di convergenza e organizzazione comune è generalizzata. Il congresso di febbraio e la manifestazione di sabato sono riusciti proprio perché hanno tenuto insieme le diverse anime – PAH, Confederació, Sindicat socialista – senza che nessuna perdesse le proprie strutture, facendone un movimento unitario. Il nuovo ciclo di lotte di cui le ultime manifestazioni sono espressione sarà il banco di prova per vedere se una forma organizzativa di questo tipo riuscirà a tenere insieme le migliaia di inquilini in lotta nello stato spagnolo organizzando uno sciopero degli affitti – con tutto ciò che comporta in termini di repressione e di sfratti – e a consolidare finalmente un ribaltamento radicale dei rapporti di potere intorno alla questione della casa. Il patto tra le forze di governo per regolare gli affitti brevi è sicuramente un primo passo, ottenuto dai movimenti non grazie a complesse alleanze istituzionali, ma grazie alla pressione popolare che si è espressa nei picchetti, nelle proteste e nell’ultima grande manifestazione. (stefano portelli)
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L’ulitmo mese alle Vele. Un diario di campo
(disegno di mario damiano) Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa. Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e nelle case dagli abitanti superstiti. *     *     * L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele, sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì dentro. Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”. L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non era necessario. I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom, che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare che qualcuno possa entrare nelle loro case. Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice – erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere, vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo». Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle. «Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere». Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la “chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento, trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele, hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto, anche un buco mi andrebbe bene». Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».   Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna. PER SEMPRE 901 Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza, per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”. Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari, quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020. Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di uno sviluppo per la zona nord di Napoli. Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite. Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello. Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista; dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco, «una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io. Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice – una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le persone che volevano acquistarla». Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque, tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».   Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica, che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per quattro anni e mezzo, il nulla. L’ULTIMO GIORNO Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi, anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del sole, uscendo, è una liberazione», dice. Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche, anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto, le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare. L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica. È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano, che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
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Milano, l’odissea per la casa di un rifugiato politico
(disegno di martina di gennaro) Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo contro la chiusura della Casa albergo. «Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia. «Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia». Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto “Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato. Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un appartamento in città. Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia, critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni. «Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo, venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio. Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso. Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un lavoro”. Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno, ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano. «Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro, proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro stato dell’Unione. La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere: ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate, Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi hanno rovinato tante cose dentro me». Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però, un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie, non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere». Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione, anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza. Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare. Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza vestiti, in ospedale». Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via, che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così, con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale, passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento davvero non lo dimenticherò mai». Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire: prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma si ritrova a cambiare solo dormitorio. Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi, lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid. Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come aiuto cuoco e lavapiatti. È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani, volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto, quindi ho cercato una stanza singola solo per me». Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale. Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un chiodo fisso nel mio cervello». La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di lavoro e senza alcuna invalidità. Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione, ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia, bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa. Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
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È il mercato, bellezza. La diaspora degli abitanti delle Vele abbandonati a sé stessi
(foto di leonardo galanti) A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di “autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad horas. Così si è completata la diaspora. Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il 2025). L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il 2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato consegnato. Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo. (leonardo galanti2) Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano –, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé. Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007». «Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano. Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio, lo devo buttare?”, gli ha detto lei». (foto di leonardo galanti) Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto. Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del 2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di destinazioni incerte e comunque precarie. Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo. Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio. Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…». «Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti, e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia, le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)
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