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Il diritto di restare: espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia. Un estratto dal libro di Stefano Portelli
(disegno di bambi kramer) Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia (Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.  A seguire ne pubblichiamo un estratto.  *     *     *  È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre 1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di movimenti per la casa e per i servizi. Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono – compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue. La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa. Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale, anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le istituzioni. Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato, minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera” inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un “residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle case da cui furono mandate via quindici anni fa. Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di altri a una continua peregrinazione intorno alla città. Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità” rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale. Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici, oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al displacement. Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati, come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli sgomberi, e che li ricordava così: «Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la sua organizzazione». Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […] Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire, Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti. Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa, Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze. Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti. Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una città diversa. Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum: l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”, nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati” dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo collettivo creato nel vecchio quartiere. «La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto della scavatrice di Pasolini, Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch’è spento dolore. In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e politica. Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex “baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti, che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati. All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni (2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere. Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti, sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e colpevole per natura. Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni, sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e culturali. Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata, prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo in gioco gli stessi corpi. Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun). Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte», dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita: come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in affitto. L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini: «Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa; l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali, smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia. Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi. Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere. Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato immutabile. Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
November 15, 2024 / NapoliMONiTOR
La violenza e l’attesa. Gli ultimi nove mesi degli abitanti del Frullone
(disegno di martina di gennaro) L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente a Gaza e in Libano.           Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”. La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’), suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”. Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti recenti. Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone, nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.  In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia, congedandoli dopo vaghe promesse. Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto. Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma l’Asl non aspetta». L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male? Sono mesi che stiamo così». Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi, invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che le videocamere non funzionano». In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni, violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto che non si sa bene cosa significhino. L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga. Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra». Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese, minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non avessero lasciato l’edificio pacificamente. Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato. Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene scandito da intimidazioni e incertezze. In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi, mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a scomparsa”. (barbara russo)
November 11, 2024 / NapoliMONiTOR
La narrazione distorta sulle occupazioni abitative
Il 18 settembre la Camera ha dato il via libera in prima lettura al ddl sicurezza voluto dal governo che all’articolo 10 introduce nell’ordinamento il nuovo reato di «occupazione arbitraria di un immobile destinato a domicilio altrui», prevedendo il carcere da due a sette anni per chi commette il reato.  di Anna Toniolo da facta news Questa decisione ha rimesso al centro del dibattito un tema tornato in auge a partire dallo scorso 23 giugno, quando la neoeletta eurodeputata di Alleanza Verdi-Sinistra Ilaria Salis aveva pubblicato un post su Instagram in cui scriveva che «chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket e ai palazzinari». Molti utenti dei social network sostengono che chi occupa le case si appropri indebitamente delle proprietà di persone anziane che si allontanano dalla propria abitazione per brevi periodi, ad esempio per andare a fare la spesa o a causa di ricoveri ospedalieri. Questa narrazione è attivamente sostenuta anche da una parte dell’informazione italiana e si fonda su presupposti aneddotici e casi isolati, ma non è supportata da dati reali. La realtà è infatti un po’ più complessa e il fenomeno delle occupazioni abusive è legato principalmente al numero di edifici pubblici e privati sfitti, oltre che all’incapacità di molte persone di pagare un alloggio in affitto o in vendita. Le occupazioni abusive hanno a che fare con le case sfitte «Io sono contro le occupazioni abitative perché penso che alimentino una guerra tra poveri» ha spiegato a Facta Stefano Chiappelli, segretario generale di Sunia, organizzazione degli inquilini privati e degli assegnatari di edilizia pubblica, aggiungendo che però questo fenomeno esiste e non è possibile non considerarne le ragioni. In particolare Chiappelli ha sottolineato che nelle grandi aree urbane e metropolitane «è un fenomeno che non si è voluto affrontare a monte» perché non si fa niente per non lasciare sfitti gli alloggi. Nonostante liste d’attesa infinite, infatti, su un totale di quasi 770 mila alloggi ERP, cioè di edilizia residenziale pubblica, gli alloggi sfitti in Italia sono oltre 60mila e quelli occupati abusivamente più di 16mila. Questo secondo le stime di Federcasa, l’associazione che riunisce le ottantaquattro aziende che in Italia gestiscono gli alloggi popolari, mentre la politica – da Matteo Salvini al Partito Democratico – parlano di 90 mila case popolari attualmente inutilizzate. Stime, appunto, perché sul tema non esiste alcun registro ufficiale. Il fenomeno delle occupazioni abusive, sempre secondo Chiappelli, è presente principalmente nelle grandi città e nelle grandi aree metropolitane, dove «il disagio abitativo è pesante e forte e dove mancano le risposte da parte del governo e delle istituzioni». A occupare abusivamente, infatti, sono in molti casi persone o famiglie che vivono con difficoltà economiche, che non hanno un luogo dove vivere o in assenza di alternative disponibili. Una parte delle occupazioni è controllata da racket criminali che si sostituiscono alle autorità pubbliche e lucrano distribuendo appartamenti vuoti in condizioni fatiscenti, certo, ma si tratta di situazioni meno comuni, che non fotografano esaustivamente la realtà del fenomeno. Quando nel 2017 l’allora sindaca di Roma Virginia Raggi avviò un’indagine sul fenomeno delle occupazioni nella capitale, si scontrò con l’assenza di un catasto degli immobili occupati. Come spiega il sito dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, comunque, questi erano perlopiù alloggi pubblici e solo una minima parte di questi appartenevano a privati. Oggi come allora, lo scenario di chi prova a mettere in ordine i dati sulle occupazioni abusive è tutto fuorché roseo: nessun dato certo sul numero di immobili occupati, nessuna informazione circa la natura degli immobili – impossibile dunque sapere se al momento dell’occupazione le case fossero piene oppure no – e buio pesto anche sui proprietari degli immobili o precedenti inquilini. In questo blackout informativo tutto ciò che resta sono le testimonianze di natura aneddotica, lunghi servizi dai toni emergenziali e interviste ad anziani che hanno visto la propria casa occupata da un giorno all’altro dopo essere usciti a fare la spesa. Casi reali, certo, ma che non fotografano correttamente un fenomeno costellato anche di alloggi sfitti, abbandonati o fatiscenti e liste d’attesa che non funzionano. E che rischia, soprattutto, di far dimenticare il contesto in cui tutto questo avviene, quello di una crisi abitativa che sta escludendo una larga parte della popolazione dal diritto di avere una casa. La battaglia contro le occupazioni abusive intrapresa dal governo Meloni ha fin qui prediletto l’approccio securitario e, come abbiamo visto, arriva principalmente sull’onda dell’emotività e senza il sostegno di dati certi. È arrivato il momento di parlare delle cause profonde di una crisi abitativa che si sta prendendo tutto. La crisi abitativa è reale Diminuzione del potere d’acquisto dei salari, carenza di alloggi a prezzi accessibili, ma anche inflazione e aumento del costo della vita sono tra i  fattori che alimentano quella che viene chiamata “crisi abitativa”. In Italia le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà sono in aumento, ma lo sono anche i prezzi degli affitti e delle case, il numero degli sfratti e le locazioni destinate ai turisti, soprattutto nelle grandi città. La crisi abitativa, secondo gli esperti, ma soprattutto secondo i dati, è reale e tangibile nel nostro Paese ed è una questione sfaccettata e complessa. «Ogni giorno si accresce il disagio abitativo» ha dichiarato a Facta Stefano Chiappelli, segretario generale di Sunia, evidenziando come si tratti di «una crisi permanente, che ormai ci portiamo dietro da decenni». Eppure, in molte occasioni, il dibattito sul diritto alla casa manca di considerare il quadro nella sua complessità, dimenticando una serie di problematiche e dinamiche legate alla disponibilità, all’accessibilità e alla qualità delle abitazioni, riempiendo invece di luoghi comuni la discussione. Affitti, case di proprietà, costi e povertà: una situazione che parla chiaro Il 6 settembre 2022 l’Istat ha presentato una relazione che espone e spiega alcune delle principali dimensioni della disuguaglianza abitativa in Italia. I dati forniti mettono in luce e confermano che il problema della casa è una questione di grande criticità per una parte significativa della popolazione. Inoltre, evidenziano come alcune condizioni sociali o di fragilità siano fortemente correlate alla possibilità di vivere in situazioni precarie, alle difficoltà nel mantenere il proprio alloggio e alla capacità di superare una condizione di emergenza abitativa. Il resoconto mostra che per alcune categorie sociali e gruppi di cittadini, come le famiglie monoparentali, le famiglie di origine straniera e le giovani coppie, le difficoltà nel trovare e acquistare un’abitazione sono in crescita. Questo è dovuto principalmente alla richiesta di garanzie che sono spesso molto difficili o addirittura impossibili da fornire, nonché alla difficoltà di accedere a case in affitto a prezzi sostenibili, a causa della scarsità di opzioni di edilizia pubblica e di abitazioni a canone concordato o altre forme di agevolazione. Secondo i dati riportati da Istat, nel 2021 in Italia 42,7 milioni di persone (cioè il 72,5 per cento del totale) vivevano in case di proprietà, mentre 11,8 milioni (il 20 per cento) viveva in affitto e 4,4 milioni di persone (il 7,6 per cento) in usufrutto o in case a uso gratuito. Le percentuali riferite al 2023, rilevate sempre dall’Istituto di statistica, sono simili, con il 19,4 per cento delle persone che vive in affitto e l’80,6 per cento che risiede, invece, in una casa di proprietà. Nonostante la tradizione italiana di possedere un immobile sia molto forte, i dati mostrano che l’affitto rimane la forma abitativa prevalente per le famiglie a basso reddito, con il 32 per cento dei nuclei appartenenti al primo quintile, cioè nel 20 per cento più basso per reddito o benessere rispetto alla popolazione totale, che vive, appunto, in affitto. Questa percentuale, invece, si abbassa man mano che il reddito aumenta, arrivando all’11,3 per cento per le famiglie che rientrano nell’ultimo quintile, cioè quelle con il reddito più alto. Il legame tra reddito, povertà e condizioni abitative è molto stretto. L’incidenza di povertà assoluta, cioè le famiglie e le persone che non possono permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile, varia infatti anche a seconda del tipo di casa in cui si abita, ad esempio se è di proprietà o in affitto. Nel 2022 l’Istat ha contato oltre 983 mila famiglie povere in affitto, pari al 45 per cento del totale delle famiglie in condizioni di povertà. L’incidenza della povertà assoluta tra queste famiglie è stata del 21,2 per cento, a fronte del 4,8 per cento di chi vive in una casa di proprietà ed entrambi questi valori sono maggiori rispetto all’anno precedente. A peggiorare queste condizioni di diseguaglianza si inserisce anche il continuo aumento dei canoni che, secondo l’Osservatorio affitti di Immobiliare.it, a fine febbraio 2024 erano cresciuti del 10,1 per cento rispetto all’anno precedente. Per Antonio Intini, responsabile dello sviluppo del business di Immobiliare.it, i dati raccolti dall’Osservatorio evidenziano quanto il mercato delle locazioni in Italia sia in costante crescita. Intini ha dichiarato che «in un contesto di difficile congiuntura economica come quello che stiamo vivendo, con prezzi di vendita che non mostrano segni di arresto e tassi ancora alti seppur in calo, comprare casa diventa una scelta meno accessibile», aggiungendo che da questa situazione deriva una marcata predilezione per gli affitti, «che comportano meno vincoli e più flessibilità rispetto a un acquisto». In queste condizioni l’accesso al mercato abitativo risulta un percorso in salita, costellato da notevoli difficoltà e non sempre accessibile per tutti. L’incursione delle locazioni turistiche A complicare la situazione si inserisce anche un trend che sta prendendo sempre più piede nella maggior parte delle grandi città in Italia, ma non solo: l’utilizzo delle case per locazioni di breve periodo. Negli ultimi anni la mancanza di una vera e propria regolamentazione del settore ha portato un numero crescente di privati ad affittare le proprie case ai turisti, togliendole così dal mercato degli affitti di lungo periodo, diventando «una parte preponderante tra gli elementi che creano il disagio abitativo», come ha spiegato a Facta il Segretario generale di Sunia Stefano Chiappelli. A livello globale l’offerta di affitti brevi nel 2023 è cresciuta del 24 per cento rispetto all’anno precedente e anche in Italia il mercato è molto attivo, collocando il Paese al terzo posto dopo Stati Uniti e Francia per numero di unità immobiliari proposte in affitto breve su Airbnb. Il Centro studi Aigab, Associazione italiana affitti brevi ha rilevato che su 35 milioni di appartamenti residenziali nel nostro Paese sono 9,6 milioni le seconde case non utilizzate, e di queste solo 640 mila sono poste in affitto breve tramite annunci online. Nonostante secondo Aigab il numero non sia così elevato, il problema principale di questo tipo di locazioni è il fatto che manca una regolamentazione chiara. Mentre le amministrazioni di città come Barcellona hanno iniziato a porre limiti al numero di licenze concesse per questo tipo di affitti, in Italia mancano regole definite che rendano davvero possibile controllare la proliferazione di questa tipologia di locazioni. Inoltre, i Comuni non hanno potere di legiferare su questo tema e molte amministrazioni locali chiedono di poter avere il controllo su questo tipo di competenze, in quanto ogni città è diversa e può gestire la situazione con strumenti e modalità differenti. Secondo Chiappelli è fondamentale che decidano i Comuni come regolamentare gli affitti brevi, in base «alla condizione abitativa, al numero di famiglie che sono in graduatoria per l’edilizia popolare, al fabbisogno abitativo» e ad altri elementi che compongono la fotografia del disagio abitativo in quello specifico luogo. Uno dei casi italiani più esemplificativi è sicuramente la città di Venezia la cui popolazione è passata da oltre 360 mila abitanti nel 1970 a 252 mila nel 2023, dove a soffrire di più è il centro storico con le isole di Murano e Burano. Nel 2023, infatti, il numero dei posti letto per turisti ha superato quello dei residenti e dal 1997 al 2022 questa zona di Venezia ha perso in media 2,4 residenti al giorno a fronte di una crescita di 4,8 posti letto.  Secondo Ocio, Osservatorio civico sulla casa e sulla residenza di Venezia, nel 2023 quasi due terzi, cioè il 64 per cento, dei posti letto dell’offerta ricettiva di Venezia, Murano e Burano era in strutture non alberghiere come locazioni turistiche, ostelli, bed and breakfast e simili e gli alloggi privati costituivano la quasi totalità delle strutture ricettive di Venezia insulare. Sono aumentati gli sfratti L’aumento del numero di famiglie in difficoltà economica che vive in affitto, la situazione legata alle locazioni turistiche e il disagio abitativo in generale sono strettamente collegati al fenomeno degli sfratti. Secondo i dati del ministero degli Interni, nel 2022 gli sfratti esecutivi, cioè una procedura legale volta a liberare un locale affittato, sono stati più di 30mila su quasi 42 mila provvedimenti emessi. Questi numeri hanno fatto segnare un aumento annuo enorme rispetto all’anno precedente, con un incremento del 218,60 per cento. Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di strada, ha spiegato a Facta che è sicuramente importante guardare all’aumento del numero di sfratti per morosità, cioè che avvengono per mancato pagamento del canone di affitto alle scadenze, ma anche all’incremento esponenziale di quelli che avvengono per finita locazione. «E questo avviene principalmente perché i proprietari» ha chiarito Mumolo, «non solo nelle grandi città, tendono ad affittare le case per affitti brevi, perché frutta molto di più dell’affitto a famiglie o studenti». Questa situazione aumenta inevitabilmente le difficoltà che le persone che si trovano senza casa devono affrontare, considerando, inoltre, che in Italia solo il 4 per cento del patrimonio abitativo è in mano pubblica, contro il 36 per cento dei Paesi Bassi, ad esempio, o il 20 per cento della medie dell’Unione europea. Il risultato è che da un lato si registra un numero sempre maggiore di sfratti, e quindi di famiglie in stato di grave emergenza abitativa, dall’altro lato l’offerta di edilizia residenziale pubblica si è ridotta negli anni e lo Stato non riesce a rispondere alle esigenze del sempre maggior numero di persone che si trova impossibilitata, per un motivo o per un altro, ad avere un tetto sopra la testa. La situazione dell’edilizia pubblica prevede lunghi tempi di attesa per la pubblicazione delle graduatorie e per l’assegnazione degli alloggi, a fronte di un fabbisogno abitativo stimato dagli Enti Gestori in almeno 600 mila unità immobiliari. Una serie di fattori, quindi, che alimentano quella che viene chiamata crisi abitativa, ma che in pratica è l’impossibilità di interi gruppi di persone di accedere a un diritto fondamentale: quello alla casa. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp   L'articolo La narrazione distorta sulle occupazioni abitative sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
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