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Clima, di lotta o dirotta?
Riceviamo e pubblichiamo questo testo in controtendenza (potremmo definirlo una critica su basi scientifiche dell’attuale modello tecnoscientifico), e in continuo aggiornamento sul blog http://nodominio.noblogs.org. Si tratta di un saggio lungo e complesso, supportato da numerose note e fonti ipertestuali, che, partendo dalla “questione del clima” e da una critica dei movimenti per la “giustizia climatica”, tocca diversi nodi ineludibili per chi intenda affrontare davvero la catastrofe ecologica in corso (alla cui base si trova proprio quel paradigma cibernetico al quale le nuove ideologie “ecoclimatiche” sono del tutto interne). Un fronteggiamento che – a parere dell’autore come nostro – non può non passare da una rivoluzione libertaria, decentralizzatrice e agroecologica, e non può non scontrarsi tanto con la classe dominante e il sistema capitalista in generale quanto con le diverse “transizioni” pseudo-green e ultratecnologiche. Di seguito qualche bello stralcio per avvertire i lettori di cosa li aspetta: «La visione ecologica sottesa a questa temperie culturale è anch’essa produttivista, atteggiamento tipico di chi vuole esercitare controllo. In essa la missione di ogni specie è la massimizzazione dell’efficienza e dell’impiego di energia (principio di massima potenza di Lotka). Ciò è un obbligo storicamente indotto da parte dei sistemi di dominio, ormai introiettato e recondito. Nasce dalla volontà di ostacolare l’invecchiamento e il prevalente caos delle forze naturali ostili. Trova riscontro nelle formule tecno-scientifiche di conversione dell’energia in lavoro e di aumento dell’entropia, come recita il secondo principio della termodinamica. La declinazione moralistica e contraddittoria di questo dogma emerge nell’imperativo rivolto solo ai sudditi di evitare gli sprechi, benché questi siano inevitabilmente enormi nei sistemi produttivisti per via delle loro caratteristiche intrinseche. Giammai ciò accade per sinceri principi di equità e sintonia, quanto proprio per permettere ai sistemi di dominio stessi, più o meno velatamente, di sfruttare all’estremo tutte le forze “naturali” e umane.» «Più nello specifico, va denunciata la deriva tecno-totalitaria che il pensiero sistemico ha intrapreso nell’ultimo secolo. Da alcune tendenze oliste, risonanti e vitaliste esso è poi paradossalmente stato sviato su modelli oggettivanti e totalitari di controllo riduzionista e meccanicistico sempre più complessi. Ciò fino ad arrivare al paradigma cibernetico-informazionale che fa convergere i riduzionismi tecnologici riunificandoli in un sistema di dominio. Esso orienta anche le valutazioni scientifiche e socio—economiche […] e persino le branche attualmente maggioritarie dell’ecologia politica stessa. […] Gli odierni movimenti “”climatici” mainstream sono figli di questa temperie culturale. Tra di essi è quasi del tutto assente una seria critica della dipendenza dal sistema tecno-industriale, così come manca la critica della digitalizzazione e dell’iperconnessione.» «Sforzandosi di giocare al gioco del potere, si perde il potere di cambiare le regole.» Qui il testo: clima, di lotta o dirotta (1)
Approfondimenti
DA PARI A PARI Contro l’autoritarismo identitario
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: DA PARI A PARI DA PARI A PARI Contro l’autoritarismo identitario Siamo alcuni compagni e compagne anarchici che hanno preso parte all’assemblea “Sabotiamo la guerra”. Con questo scritto vogliamo prendere parola su una brutta vicenda capitata alla nostra assemblea (non la sola di questo tipo, ma la più grave), ma soprattutto su una forma mentis e un’ideologia che rendono ormai sistematici episodi di questo genere. Se ci presentiamo in maniera tanto circoscritta è perché “Sabotiamo la guerra” è appunto un’assemblea, fatta di volta in volta da chi vi partecipa, e non possiamo parlare a nome di tutti i suoi numerosi partecipanti, passati, presenti e futuri. Fatta questa premessa, cominciamo a spiegarci. Gli scorsi 11, 12 e 13 ottobre 2024, presso la Villa Occupata di Milano, avrebbe dovuto svolgersi la “tre giorni” di discussione Sfidare la vertigine, organizzata dalla nostra assemblea e dedicata appunto ad alcune delle questioni vertiginose ma ineludibili che ci pone questo presente (a partire da quelle legate alla guerra, che ne costituisce né più né meno che l’orizzonte storico). La “tre giorni” è stata rinviata sine die, e di fatto annullata, per l’opposizione di alcuni (sottolineiamo: alcuni) frequentatori della Villa, i quali accusano di stupro un compagno che partecipa a questo percorso, e l’assemblea stessa di supportarlo. Sarebbe stato più semplice e conveniente, da parte nostra, ignorare questo episodio e tirare avanti, come d’altronde abbiamo fatto in altre occasioni, quando ci sono stati simili tentativi di far saltare nostre iniziative per via della presenza di questo compagno all’interno del nostro percorso. Le nostre coscienze ci hanno invece detto di esprimerci. Essendo a conoscenza delle dinamiche che hanno portato a generare questa grave accusa, e avendo buoni motivi per considerarla infondata, ci sembra una vera e propria ingiustizia che queste voci continuino a circolare senza che nessuno dica niente. Un’ingiustizia verso il nostro compagno e poi verso la nostra assemblea. Ragionandone insieme, ci siamo resi conto che era impossibile affrontare il problema senza entrare nel merito dei presupposti ideologici, etici e di mentalità alla base di questo episodio, mentre farlo è un’esigenza che già sentivamo a prescindere. Se quella contro il compagno è infatti un’accusa molto grave, non si tratta, purtroppo, di un episodio isolato: è diventato ormai prassi corrente – negli ambienti “antagonisti” come in vasti settori della società – accusare questo o quell’individuo, questo o quel gruppo di colpe infamanti (di volta in volta legate alla sfera sessuale, ai rapporti tra i generi o persino a generiche “dinamiche di potere”) senza farsi carico di fornire motivazioni, né dare a nessuno – si tratti del diretto interessato o di altri – la possibilità di discutere la consistenza delle accuse mosse, o ancora di valutare autonomamente come affrontarle qualora si rivelino fondate. Oltre a questo, ci pare che una certa mentalità e una certa ideologia (che qui chiameremo “identitaria” per motivi che si chiariranno leggendo) stia producendo da anni una serie di dinamiche che vanno ben oltre la sfera della sessualità e dei rapporti interpersonali e che, almeno da parte nostra, abbiamo aspettato fin troppo tempo per tentarne una critica (tuttavia, meglio tardi che mai). Da queste riflessioni è nato questo scritto, che vuole essere un atto di denuncia e un contributo al dibattito che va molto al di là della vicenda da cui è scaturito. Se questo tipo di problemi sta lacerando sempre più mondi, portando nei nostri anche a forme di desolidarizzazione verso intere realtà pesantemente colpite dalla repressione, le ideologie che ne stanno alla base hanno, a nostro parere, anche conseguenze più profonde, e profondamente nefaste. Da qui l’esigenza di guardare tutto questo anche in prospettiva. Sull’accusa in sé non intendiamo entrare in questa sede. Certi fatti, come si suol dire “delicati” (e anche potenzialmente sensibili da un punto di vista penale) devono essere trattati in spazi e momenti opportuni, quantomeno per non fornire a sbirri e pennivendoli materiale su cui speculare. Ci limitiamo a dire che se considerassimo il nostro compagno uno stupratore non ci organizzeremmo con lui. È inoltre sottinteso – ma è il caso di esplicitarlo – che sia noi come estensori di questo scritto, sia il compagno direttamente accusato, siamo ben disposti a confrontarci faccia a faccia con chiunque ce lo richieda. Abbiamo invece molto da dire sulle modalità con cui simili accuse vengono sempre più spesso mosse, sulla mentalità che le sottende e sulle conseguenze che determinano. Posto che anche per noi, quando una persona denuncia di aver subito delle violenze, bisogna mettersi in ascolto, questo non può diventare un alibi per non discutere i fatti per quello che sono (o, più modestamente, per come appaiono a noi poveri mortali), né per apporre marchi di infamia su chicchessia senza neanche dargli la possibilità di replicare. Continuiamo testardamente a pensare che chi muove accuse pesanti contro qualcuno – si tratti di aver compiuto una violenza sessuale, di aver rubato soldi da una cassa comune o di essere un delatore – dovrebbe farsi carico di quello che dice, sostenendolo con argomentazioni chiare e circostanziate, e all’interno di spazi e momenti opportuni. Che anche stavolta questo momento di confronto sia mancato ci pare, con tutta evidenza, prodotto di una mentalità che ha sostituito la condizione al fatto, e il vittimismo al pensiero. Siccome il problema non è banale, ci tocca prenderlo un po’ alla larga. Attraverso la mediazione di quello che possiamo definire femminismo intersezionale, è arrivata da Oltreoceano un’ideologia che recita più o meno così: pensarsi come esseri umani liberi ed eguali, che in quanto tali tentano di sperimentare qui e ora, per quanto è possibile, rapporti di reciprocità (“ciò che puoi fare tu, lo posso fare anch’io, e viceversa”) non è altro che una vecchia fiaba umanistica. Siccome in quella guerra permanente che chiamiamo società noi siamo in realtà diseguali – attraversati, spesso senza rendercene conto, da dinamiche di sopraffazione che ruotano attorno alla linea del genere, del colore, dell’abilità fisica o intellettuale, dell’età ecc. – bisogna essere svegli e vigili (woke, espressione slang americana per “awake”), cogliendo tutte quelle violenze che sono costantemente invisibilizzate e intervenendo nelle relazioni umane per ristabilire l’equilibrio perduto. Da una parte esercitando una moralizzazione permanente dei comportamenti (a partire dalla nota ossessione per il linguaggio), specie se «agìti» da chi ha (o avrebbe) un qualche «privilegio», ovvero una quota di potere sociale in più; dall’altro dando più potere a chi ne avrebbe socialmente di meno. (È con questi “criteri” che ormai diversi anni fa, negli Stati Uniti, alcune femministe proposero di far valere doppio il voto delle donne e degli afroamericani.) Lo sfondo e – insieme – il corollario di questo tipo di visione, è la filosofia postmodernista. Se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile, l’unico “criterio” per orientarsi e decidere in merito ai fatti, che pure non smettono di accadere, diventa l’adesione emo-partigiana al punto di vista di chi è ritenuto più «oppresso». Alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto. Se sarebbe lungo produrre una critica complessiva di questa ideologia, e non possiamo certo farlo in questa sede, una sua prima conseguenza è chiara: la balcanizzazione all’infinito dell’umanità. Se non c’è la possibilità di discutere tra eguali, perché diseguali sono le nostre esperienze e quindi i nostri punti di vista, il risultato non può che essere la guerra di tutti contro tutti, costellata da alleanze più o meno precarie. Con un corollario: siccome nell’universo postmoderno non esistono più valori ma un solo disvalore – affermare qualcosa con una qualche presunzione di certezza – a vincere il confronto non è chi porta l’argomentazione più convincente o fatti incontrovertibili, ma chi sa esibire meglio la propria condizione identitaria di “vittima”, ed ha abbastanza letteratura accademica (i cosiddetti «studies») alle spalle per essere considerato tale. Se a taluni questa ideologia sembrerà ultra-libertaria, a noi pare portatrice di un autoritarismo tanto più pericoloso quanto più si nasconde dietro la propria presunta debolezza postmoderna. Se è infatti evidente che queste posizioni troncano ogni possibilità di reciprocità tra gli individui concreti (ciò che puoi fare tu posso farlo anch’io, quindi la mia parola vale quanto la tua), fanno anche rientrare dalla porta di servizio quella ideologia del soggetto che l’anarchismo aveva da tempo cacciato dalla porta principale. Prevedendo che «la religione dell’umanità» avrebbe presto generato i suoi sacerdoti e i suoi burocrati, nel lontano 1844 Stirner scriveva di schierarsi dalla parte dei proletari, ma si rifiutava di «sacralizzarne le mani callose». Fuor di metafora, Stirner afferma che se la condizione di oppressione patita dai proletari va riconosciuta, bisognerebbe evitare come la peste di pensare che il proletariato ha sempre ragione, per il semplice fatto che, come «soggetto», il proletariato… non esiste (esistono solo individui concreti che, tra le altre cose, sono dei proletari), e quindi non può avere né ragione né torto. Al passo con i tempi, bisognerebbe dire la stessa cosa delle donne e dei neri, delle persone omosessuali, degli immigrati e dei transgender. Se riconosciamo la diversa oppressione specifica patita dagli individui appartenenti a queste categorie, la combattiamo solo dove la ravvisiamo concretamente, senza mai rinunciare al nostro giudizio autonomo e senza dare nessuna delega in bianco a chi si iscrive a questa o quella parte di umanità perseguitata. Non solo perché teniamo alla nostra libertà come a quella di chiunque altro, e quindi non daremmo neanche all’individuo più vessato e umiliato del mondo quella che è di fatto una delega di potere; ma perché sappiamo bene che, quando si stabilisce che qualcuno, per una qualsiasi ragione, deve contare più di un altro, ad avvantaggiarsene non sono “gli oppressi”, ma i loro autonominati rappresentanti. Per farci intendere, ci tocca entrare nella parte più scomoda della questione. Quando, nelle nostre piccole collettività, vengono sollevate accuse più o meno fondate di abusi sessuali o di genere, a chi ha qualcosa da ridire viene dogmaticamente ribadito che «bisogna ascoltare le compagne». Ora, già di per sé questa affermazione contiene un’accusa implicita e non per forza giustificata (magari uno ascolta eccome «le compagne», ma non è d’accordo con quanto viene detto); ma soprattutto: ad essere considerate sono davvero tutte le compagne e le donne? Per la nostra esperienza, la risposta è no. Vengono considerate solo quelle compagne e quei compagni (uomini) allineati a posizioni già definite, ovvero ai dogmi della nuova sinistra globale. Tutte le altre donne vengono ignorate, quando non stigmatizzate come complici del loro «patriarcato interiorizzato». A ben vedere, in questa nuova arte d’ottenere ragione, ciò che fa la differenza non è tanto l’appartenenza concreta a una categoria offesa, ma l’adesione all’ideologia che le santifica. A pretendere “ascolto” (ovvero, in realtà, un allineamento rigido e schematico) è la nuova Chiesa sensibilista e politicamente corretta… altro che «le compagne», i «non-bianchi» o i «corpi non normati»! Ovviamente siamo consapevoli che la violenza sessuale, nelle sue varie forme, non corrisponde sempre e solo all’immaginario comune della mera aggressione fisica; che violenze piccole e grandi esistono anche nei nostri ambienti; che le donne (ma si potrebbe allargare lo spettro a molte altre categorie oppresse) hanno trovato e trovano spesso grandi difficoltà, resistenze e boicottaggi quando le denunciano; mentre siamo favorevoli all’affrontamento collettivo di abusi e violenze e, se necessario, anche ad applicare coralmente delle sanzioni verso chi li ha commessi. Ci sembra legittimo, ad esempio, che una collettività allontani qualcuno da un determinato spazio, o persino da un intero territorio, qualora la sua presenza lo renda infrequentabile da una persona seriamente offesa; oppure che un collettivo rifiuti di organizzarsi (per un determinato periodo, fino a un chiarimento risolutore o anche per sempre) con chi, con i suoi comportamenti, ha incrinato o perso la fiducia dei suoi compagni e delle sue compagne. Ciò che pretendiamo, però, è che tutte e tutti abbiano la stessa facoltà di parola in merito; che le accuse vengano messe alla prova dei fatti, nei limiti in cui una data situazione lo permette (sarebbe atroce, ad esempio, pretendere che chi ha subìto violenza la rievochi per filo e per segno; ma tra questo e una delega di fiducia in bianco si possono trovare praticamente sempre altre possibilità); e che all’accusato sia data la possibilità di difendersi anche negando il fatto, qualora pensi e sostenga di non averlo commesso. Se queste semplici istanze, riconosciute dall’umanità di ogni tempo, e a suo tempo strappate con le lotte allo Stato assoluto, possono avere un po’ l’apparenza del “diritto borghese”, si rifletta sul fatto che i criteri opposti ci riportano né più né meno che al diritto inquisitorio, in cui la sola via al proscioglimento era l’ammissione di colpa (oggi, al passo coi tempi, «di responsabilità»). Si dirà che fatti di questo tipo sono particolarmente difficili da dirimere, perché – oltre a chiamare in causa dinamiche interpersonali sottili – avvengono solitamente in àmbiti privati e intimi, dove nessun altro vede. Questo è verissimo. Ma a pensarci bene la stragrande maggioranza dei fatti umani che danno da discutere avvengono al riparo degli sguardi altrui, o sotto pochi sguardi che facilmente si contraddicono tra loro, avendo magari colto solo indizi riguardo la consumazione di un gesto (pensiamo ad esempio a una situazione in cui sono spariti dei soldi, e nelle vicinanze è stata vista solo una certa persona: qualcuno dice di averla vista a una certa ora o in un certo atteggiamento, un altro in un altro, ma nessuno l’ha vista rubare); i gesti scabrosi che avvengono su una pubblica piazza, o davanti a dieci testimoni che affermano più o meno lo stesso, sono, da che mondo è mondo, una minoranza, e si attirano immediatamente la riprovazione generale. Con che criteri, quindi, in situazioni incerte, si decide se qualcuno ha commesso o non ha commesso qualcosa? In genere, ci si basa sulla verosimiglianza, ovvero sulla comparazione delle dinamiche del fatto con altre analoghe vissute, viste, ascoltate in altri momenti e situazioni (in una parola: sull’esperienza pregressa); il che, in presenza di versioni discordanti, è possibile solo ascoltando e comparando più campane. Si può sbagliare, applicando questo criterio? Certamente, e lo si fa dalla notte dei tempi. Ma ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili. Qualsiasi cosa, anche molto sensata, si possa obiettare a ciò (per esempio che le differenze di «socializzazione» e vissuto tra uomini e donne non permettono di cogliere appieno certe sfumature), non elimina quella che rimane una conseguenza inaggirabile (a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico). Oltre a ciò, sarà mai possibile che, anche nel caso di fatti accertati, venga applicata in maniera pressoché automatica la medesima modalità (l’allontanamento della persona, e la terra bruciata intorno a chi continua a organizzarvisi assieme), senza che si valuti né la gravità specifica del fatto né forme di riparazione possibili, e magari commisurate? No, questo è reso impossibile. Perché agli attivisti identitari non interessa affatto trovare modi migliori di convivenza tra le persone, ma solo purificare il mondo da tutto ciò che non è loro gradito. Non c’è da stupirsi che, da un po’ di tempo a questa parte, certuni stiano passando dal tentativo di cancellare determinati individui alla cancel culture delle idee e di ciò che più le veicola: i libri. C’è infatti chi ha dato vita a vere e proprie campagne contro case editrici, edizioni e distribuzioni variamente “di movimento” (sia perché curate da persone accusate di abusi, sia perché ree di pubblicare testi considerati «problematici») e a liste di proscrizione contro autori e autrici considerati di volta in volta transfobici, omofobi, sessisti sulla base dell’interpretazione distorta dei loro testi, della partecipazione a iniziative organizzate da altri “incriminati” o persino per la semplice recensione di testi altrui; mentre sappiamo di qualche compagno mai accusato di alcuna violenza, ma che viene diffidato dal presentarsi in determinati contesti per le sue posizioni critiche verso il movimento LGBTQ +, che gli meriterebbero l’accusa di «transfobia». Mentre ci domandiamo con sconcerto da quando in qua gli anarchici si occupano di difendere i riformisti, questa posizione è semplicemente allucinante per disonestà politica e intellettuale. Quello LGBTQ + è per l’appunto un movimento politico che, per quanto giochi a rappresentare tutte le persone omosessuali e transgender, non rappresenta in realtà altro che se stesso. Dire che chi critica l’autoritarismo di alcune frange queer è omofobo o transfobico, è come dire che chi critica Black Lives Matter è per ciò stesso un razzista. Nient’altro, appunto, che politica nel senso peggiore del termine. Ci dispiace, ma dietro a tanto (e crescente) furore accusatorio e persecutorio, che sta rovinando la vita a sempre più compagni sulla base di accuse sempre più “ardite” e fantasiose, non riusciamo a vedere solo una sincera volontà di opporsi a sessismo e prepotenze, o di accogliere istanze taciute per troppo tempo. Ci vediamo anche un’assunzione di quella cultura della pena che in altri àmbiti si chiama giustizialismo: punire il malcapitato di turno (che sia effettivamente “colpevole” o “innocente”) per dare l’esempio a tutti gli altri. Ci vediamo anche una smania di potere e controllo. Ma soprattutto ci vediamo, più in generale, un veleno autoritario e reazionario che dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo, e che rischia seriamente di estinguerlo dall’interno (mentre la repressione continua a picchiare duro dall’esterno), rovesciandone i princìpi mentre pretende di radicalizzarli. Se c’è un concetto condiviso da tutti gli anarchici, è che l’autorità non limita la tendenza degli umani a sopraffarsi l’un l’altro, ma la aggrava e la rende più strutturale. Ciò detto, l’abolizione dell’autorità e quindi la libertà non è la panacea che libererà l’umanità oppressa da tutti i mali, ma «la via aperta a ogni miglioramento» (Malatesta): un punto di svolta e di inizio, ma proprio per questo necessario. Per quanto si dia arie libertarie e ultra-radicali, la sinistra postmodernista e identitaria ragiona in maniera esattamente contraria. Non si dà alcuna via d’uscita dalla miseria presente, ma solo un’eterna lotta tra soggettività (che si sentono) oppresse all’interno d’una rete di micro-poteri ramificata e onnipresente, che può trovare un po’ di quiete solo in una sorta di reciprocità negativa: anziché un principio che proclama: “faccio ciò che voglio nella misura in cui tu puoi fare ciò che vuoi”, un credo che recita più o meno: “non farò ciò che voglio a patto che tu non faccia ciò che vuoi”. In breve, una serie infinita di divieti. Lo si vede molto bene in certe università occupate dalle giovani generazioni, dove sui muri, al posto dei volantini incendiari, si trovano sempre più spesso intimazioni a non fare questo o quest’altro, insieme alle indicazioni per raggiungere il care team qualora non ci si senta abbastanza safe. Un modello sostanzialmente hobbesiano: se gli individui, divenuti lupi dopo secoli di «etero-patriarcato bianco», sprofondano nella guerra di tutti contro tutti, allora è necessario inventare degli artifici per tenerli a freno: l’eterna giustificazione della polizia. Se poi gli anarchici hanno sempre sostenuto la necessità di distruggere la società presente per permettere l’evoluzione degli individui, ma liberandoli così come sono, la sinistra identitaria pretende di cambiare la società cambiandone i costumi, con la pretesa di procedere dal singolo ai rapporti sociali anziché viceversa. Pura merda reazionaria, degna dei Padri della Chiesa o della Ginevra calvinista del Cinquecento. Venendo meno il principio di reciprocità, vengono meno le basi stesse dell’autorganizzazione di classe, e la lotta di classe medesima. Da questo punto di vista, è significativo che tra i vari «privilegi» snocciolati dagli identitari non venga mai citata l’istruzione, che pure traccia un solco profondissimo tra le classi, e non solo in termini di accesso al lavoro. Anni fa una compagna, reduce da molti anni di carcere, ci raccontava di quanto in prigione facesse la differenza essere stati o meno “istruiti”, tanto per la conoscenza dei propri “diritti” legali quanto nella capacità di farsi valere davanti alle autorità. Se si considera la loro provenienza universitaria, e l’adozione dei loro precetti da parte di persone che frequentano o hanno frequentato l’università, può davvero apparire casuale questa assenza in mezzo a studies dedicati a ogni tipo di condizione e vessazione? (Con questo, speriamo di non dare involontariamente il suggerimento ad aprire un nuovo filone persecutorio, o spingere qualcuno ad abbandonare francescanamente gli studi: i mezzi culturali servono eccome! e, al pari di altri mezzi, non andrebbero aboliti, ma messi a disposizione delle lotte e della nostra classe). Se infatti certe ideologie, penetrando negli àmbiti “di movimento”, finiscono per raggiungere anche giovani più o meno proletari, esse vengono tipicamente promosse e assunte dalla classe media e in particolare dalla sua variante cognitiva, quella che non vuole cambiare il mondo ma renderlo più civile: da questo l’elusione del problema dell’istruzione, cui spesso si accompagna il disprezzo verso quel proletariato (in specie bianco e quindi grottescamente considerato «privilegiato») che non sa o non vuole assumere il linguaggio e le categorie del “cognitariato” di sinistra, laddove quest’ultimo si percepisce e si presenta come autentico modello del cittadino globale come si deve. Se questa sostanziale indifferenza in materia di classe dovrebbe suggerirci quanto i teorici identitari abbiano davvero a cuore le dannate e i dannati della terra, non fa meraviglia come costoro non si accorgano (ma davvero non se ne accorgono?) di quanto la loro ideologia finisca da un lato per minare le possibilità stesse di organizzarsi tra sfruttati, e dall’altro per rafforzare il securitarismo padronale. Come ci si può organizzare insieme, quando si adotta una visione schizofrenica che considera i propri compagni insieme dei complici e dei nemici (nemmeno tanto) potenziali, segnati dal peccato originale dei propri «privilegi» più o meno di nascita? Quando le qualità personali – l’impegno, la schiettezza, l’affidabilità, il coraggio nelle sue varie forme, la capacità di ragionare e argomentare, la coerenza con quanto si proclama – vengono squalificate a meri mezzi di sopraffazione? Quando non si può prendere alcuna decisione comune senza che venga evocato il fantasma della «sovradeterminazione»? Se si smette di considerare l’uguaglianza un concetto-limite (lo spazio che permette l’espressione delle differenze, e in cui emergono per forza anche alcune disuguaglianze), il risultato non può che essere la paralisi, e una miseria generalizzata in cui le differenze, ovvero ciò che fa la ricchezza di qualsivoglia collettività, vengono annientate in nome di un egualitarismo astratto e disciplinante (mentre a spadroneggiare sono, orwellianamente, quanti pretendono di essere «più uguali degli altri»). Certamente anche il “classismo”, a suo modo, è identitario; ma si tratta di un modo profondamente diverso dai vari identitarismi di genere, “razza” e quant’altro, e che apre tutt’altre possibilità. Senza disconoscere che anche la linea del genere e quella del colore hanno un peso nell’articolazione dei rapporti di potere, oppressione e sfruttamento (e nell’economia complessiva dell’attuale dominio capitalistico), solo la linea della classe apre a una liberazione universale, creando quella rottura verticale in cui le liberazioni delle donne, degli omosessuali e transessuali, delle minoranze (post)coloniali “interne” ed “esterne” ecc. si possano realizzare senza snaturarsi in nuove configurazioni di potere e del dominio. Essere sfruttati e sfruttate, infatti, ha almeno due aspetti differenti dall’essere donne, neri ecc. Il primo è che si tratta di una condizione meramente sociale, non legata a tratti fisiologici: si è sfruttati finché esiste una società basata sullo sfruttamento; con la fine del razzismo e del sessismo si smetterebbe di essere «socializzati» come uomini e donne, «razzializzati» come neri ecc., ma non si smetterebbe di essere uomini, donne, neri. Il secondo aspetto è che il sesso, il colore della pelle, l’orientamento sessuale ecc. sono caratteristiche che – salvo eccezioni, ovviamente – la gran parte degli individui non vorrebbe perdere in un processo di liberazione, ma semplicemente poter incarnare senza tutte le discriminazioni, umiliazioni e stereotipi che vi sono associati – ovvero sono caratteristiche non indesiderabili di per sé; mentre nessuno (psicosi lavoriste-stakanoviste a parte) vorrebbe restare uno sfruttato. Nella sua mera negatività, il cui sbocco ultimo è l’autosoppressione della classe sfruttata nel momento in cui questa sopprime la classe sfruttatrice, solo la linea della classe realizza un umanesimo non-astratto (nessuna equiparazione tra sfruttati e sfruttatori in nome della comune ”umanità”, ma un processo che potrà dare forma a un’umanità diversa), aprendo lo spazio alla liberazione di tutti e di ciascuna, mentre colpisce laddove il sistema può al massimo arretrare, ma non ricrearsi come sistema di sfruttamento: un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere; una società di classe senza classi, no. Transfemminismo, “teoria critica della razza” ecc. tendono ad applicare l’antagonismo pressoché assoluto del classismo, possibile perché basato su alterità meramente sociali, ad alterità incarnate negli esseri (in linguaggio filosofico: ontologiche) e/o di cui gli individui concreti non vogliono (e non dovrebbero) per forza disfarsi. Il risultato è quasi sempre un pasticcio in cui affiora un certo razzismo di ritorno, laddove certi individui (maschi, e poi a cascata etero, bianchi, “abili” ecc.) patiscono una squalifica di fondo per ciò che sono e non per ciò che fanno, e in cui le stesse persone vengono da una parte riconosciute come oppresse e potenzialmente complici, e dall’altra, non appena subentra un contrasto, trattate come “nemici di categoria” contro cui serrare le file dei “propri”. Questo non significa che conflitti di natura diversa da quello di classe non esistano o non abbiano mai ragione di essere aperti, se necessario anche con durezza (lo ribadiamo: non sacralizziamo le mani callose): ciò su cui ammoniamo è il modo di considerarli e trattarli, che dovrebbe avere le sue caratteristiche specifiche. Se non si è capaci di operare queste distinzioni, le conseguenze sono catastrofiche. Di fronte a una vertenza in una fabbrica o in un magazzino, noi stiamo sempre dalla parte degli operai, e poco ci importa di chi dice il “vero” (possiamo pure dirci tra noi che gli operai stanno dicendo cazzate, ma questa rimane una questione inter nos, che semmai discuteremo da questa parte del cancello). Possiamo dire la stessa cosa quando il conflitto si apre tra un compagno (uno sfruttato, un amico) e una compagna (una sfruttata, un’amica)? O, a cascata, tra un compagno gay (o trans, o nero) e uno etero (o cis, o bianco)? Quando un padrone o un governo fa un passo falso – che gli attira in un modo o in un altro la riprovazione pubblica – è assolutamente sensato attaccarlo, ricavandone ciò che se ne può ricavare per l’avanzamento della lotta, senza stare troppo a discettare di quanto sia effettivamente “grave” ciò che ha commesso. Si può dire la stessa cosa… ecc.? L’applicazione meccanica di logiche tipiche della lotta di classe a conflitti d’altro genere finisce per uccidere la lotta per la liberazione. Venendo frammentato in una serie di micro-conflitti, peraltro facilmente esposti a cortocircuiti logici (chi è più oppresso tra un «non-bianco cis-etero» e una «bianca transgender»? con chi ci si schiererebbe in caso di dissidio?), il conflitto verticale (sfruttati contro sfruttatori, rivoluzionari contro Stato) viene fagocitato da un perenne conflitto orizzontale. Un paradigma che peraltro somiglia (siamo i soli a notarlo?) a una sorta di contraltare di sinistra alla guerra tra poveri fomentata negli anni dalle destre; e che, brandendo la safety al posto della security, contribuisce ai medesimi obiettivi di pacificazione sociale (diritti per tutt* e ovunque, libertà per nessuno e da nessuna parte). Il desiderio di essere protetti e garantiti nel proprio isolamento contro i propri simili, sempre più percepiti come dissimili, si sostituisce all’urgenza di liberarsi insieme a tutti gli altri. Prima di concludere questa serie di considerazioni, ci preme chiarire un punto, onde evitare possibili (e magari furbeschi) fraintendimenti. Le critiche di cui sopra non possono essere applicate meccanicamente e in toto a tutti i gruppi di ispirazione identitaria: quelle che ci interessa è fotografare delle tendenze, ed è in questo senso che queste considerazioni vanno lette. Allo stesso modo, a differenza di altri, noi non vogliamo attribuire a tutti coloro che variamente aderiscono a ideologie e approcci identitario-postmodernisti la colpa di tutte le derive che hanno attraversato i movimenti antagonisti negli ultimi anni (dall’adesione al securitarismo sanitario-Covid all’appoggio a una inesistente “resistenza” nella guerra in Ucraina). Se il vittimismo tipico di queste ideologie ha fornito, soprattutto all’estero, un contributo più che “generoso” a queste derive (si veda il raduno internazionale di Saint-Imier nel 20231), simili sbandate sono state spesso trasversali a ideologie e aree (si sono avute, per esempio, da parte di raggruppamenti di varia tendenza marxista o libertaria che poco o nulla hanno a che fare con l’identitarismo postmoderno), mentre in Italia, soprattutto in àmbito anarchico e libertario, c’è stato un salutare smarcamento di segno opposto che ha attraversato mondi diversi, compresi alcuni ambienti queer e transfemministi. Ci fa inoltre piacere constatare, a livello internazionale – pensiamo soprattutto agli Stati Uniti – che i tentativi del potere di creare distanze dalla resistenza palestinese agitando gli spettri dell’”oscurantismo religioso” e dei presunti “stupri di Hamas” (una fake news cui pure, inizialmente, qualcuno ha abboccato e qualcun altro continua ad abboccare) sono andati in gran parte a vuoto, e che molti compagni e compagne di lotta di tendenza transfemminista, intersezionale ecc. si sono schierati anima e corpo con gli oppressi palestinesi (con tanto di benedizione da parte della papessa Judith Butler). Di fronte a queste semplici constatazioni, certe analisi troppo manichee ci sembrano inadeguate alla realtà confusa, complessa, mutevole del nostro tempo, e non le facciamo nostre. Ciò che vogliamo suggerire è qualcosa di più sottile, che ha a che fare col modo in cui agiscono le idee a livello sociale e individuale, portando gli individui anche dove non vorrebbero arrivare. Quando cominci a ragionare in un certo modo, diceva ancora Malatesta, non vai dove vuoi tu, ma dove ti porta il ragionamento. Un esempio potrà chiarire cosa intendiamo. Non ci sembra esattamente un caso che non solo il mercato e lo spettacolo, ma persino le istituzioni e le forze dell’ordine abbiano ormai fatto proprie retoriche ispirate all’identitarismo woke, con preziosi ritorni in termini di controllo sociale (militarizzazione giustificata dalla «difesa delle donne», ergastolo automatico per i «femminicidi», ma anche interventi sempre più frequenti degli sbirri nelle scuole, contro violenze di genere, «bullismo», «abilismo» e quant’altro, cui si affiancano frotte di psicologi a caccia di insicurezze, disagi… e clienti). Che tante (trans)femministe replichino che la maggior parte degli stupri avvengono in realtà in casa e da parte di persone conosciute, o che oppongano a simili strumentalizzazioni la presenza e l’autodifesa diretta delle donne nelle strade, o la denuncia del carattere comunque «patriarcale» della polizia e finanche del «sistema» nel suo insieme, ci sembra senz’altro apprezzabile, ma anche insufficiente di fronte a una propaganda onnipervasiva che raggiunge sempre più persone (e in specie i giovanissimi) direttamente sui loro smartphone, e che spinge sempre più categorie (donne, persone omosessuali, transessuali, “colorate”, con disabilità, “neurodivergenti” ecc.) a sentirsi perennemente sotto attacco da parte di chi avrebbe qualche «privilegio» in più (o qualche problema in meno). [Non molti anni fa, in Francia, degli spazi anarchici colpevoli di proclamare e praticare la loro intolleranza contro tutte le religioni sono stati attaccati con la taccia di «islamofobia»2, mentre in diversi territori degli Stati Uniti, a furia di voler fare gli interessi delle “minoranze” mettendole al riparo dalle insidie dei “privilegiati”, si sta tornando di fatto alla segregazione razziale, con scuole e classi separate per i soli neri3. ]Non sarebbe il caso di tentare una riflessione più profonda, prima che sia troppo tardi? Purtroppo – e qui, viceversa, ci tocca tirare in ballo la gran parte delle realtà infette dal morbo identitario – quello che viene fatto è sistematicamente il contrario: non appena qualcuno solleva questioni scomode per le loro ideologie o per qualche loro alleato, gli attivisti identitari – col silenzio-assenso dei loro amici più “moderati” – gli si gettano alla gola puntando il dito su questa o quella uscita infelice, questa o quella parola, questa o quella virgola fuori posto (spesso mescolando, alla bisogna e senza vergogna, ciò che uno scrive con calma alla propria scrivania con quel che gli esce di bocca nella foga di una discussione, o davanti a un bicchiere di vino); e così evitano di dover affrontare le questioni stesse. Quello che viene messo in campo, di fatto, è una serie di dispositivi che impediscono tanto di discutere quanto di pensare (senza possibilità di confronti, alla lunga il pensiero muore). Ecco l’aria da Chiesa che da troppo tempo ci tocca respirare, e di cui ne abbiamo fin sopra i capelli. Ecco ciò che denunciamo, al di là dell’occasione che ha generato questa denuncia. Il problema, per noi, non è tanto che questa serie di dispositivi fattasi ideologia abbia generato, nei nostri ambienti, una grande quantità di scazzi (se non sempre inutili o infondati, quasi sempre malgestiti); ma soprattutto che, assestando colpi micidiali al pensiero critico, vi ha innescato un vero e proprio processo di degrado etico, cognitivo, spirituale. Che tipo di ambiente morale e intellettuale può prodursi, quando si smette di ragionare sui fatti lasciando campo libero a un soggettivismo sfrenato e allo stesso tempo imprigionato in categorie stagne, che arriva a propinare dogmi demenziali (demenziali come tutti i dogmi, la cui essenza è di dover essere creduti pur restando incomprensibili) come «violenza è ciò che una persona percepisce come tale» (e a «violenza» si può sostituire a piacimento «sovradeterminazione», «potere» ecc.)? L’interiorità senza esteriorità, diceva Hegel, è vuota. Senza passare dall’incontro-scontro con la realtà come suo momento di verifica, e quindi senza presupporne l’esistenza e la possibilità di indagarla, la soggettività non diventa altro che una girandola perpetua di sensazioni, emozioni, percezioni (e paranoie). Se in questa fase storica sono gli individui in generale a essere sempre più prodotti come individui senza mondo dall’ultra-soggettivismo dilagante (e dalla smaterializzazione informatica del reale); e se qualsiasi impostazione ideologica agisce come un filtro, determinando quali tipi umani tenderanno ad avvicinarsi o allontanarsi da determinati ambienti, è fatale che, laddove domina la paranoia woke, si avvicinano e si avvicineranno sempre di più ai “movimenti” proprio i tipi più inconsistenti, sconclusionati e tendenzialmente rancorosi: quelli poco propensi al ragionamento e molto propensi al lamento; quelli che non amano fare seri sforzi per identificare e combattere il Potere (quello vero), e molto amanti della lotta a buon mercato contro il “potere” diffuso ovunque… ma soprattutto vicino a loro; quelli che cercano un gruppo che si prenda cura delle loro paturnie, anziché sfidare ogni collettività e quindi arricchire quelle che si scelgono liberamente con l’originalità delle proprie tensioni e idee; quelli che non vogliono essere individui irripetibili, e quindi irriducibili a qualsiasi categoria ma, appunto, soggetti. In questa corsa all’annichilimento della realtà e, insieme, dell’individualità pensante, in cui l’autoritarismo trova una dimora accogliente e in cui risorgono in forma nuova i ferrivecchi della reazione, un episodio come quello di Milano, e come altri occorsi alla nostra assemblea nel suo anno e mezzo di vita (ma risòltisi più felicemente), ci rattristano ma non ci stupiscono. L’autorità e l’autoritarismo rimpiccioliscono sempre gli esseri umani e imbruttiscono sempre i rapporti. Non è quindi strano che, in questa mezzanotte del secolo, tutte le porte siano spalancate ai piccoli Torquemada e agli opportunisti senza princìpi, e chiuse in faccia a chi si ostina a dire parole chiare su un presente molto più tragico che serio. In mezzo a tanta merda reazionaria di ritorno noi andiamo avanti, con i nostri princìpi ben stretti in pugno. Penisola italiana, primavera 2025 Cinque piccoli indiani fuori dalla riserva 1Per uno sguardo su quanto accaduto in quell’occasione si veda il testo Grosso guaio a St Imier sul blog della trasmissione radiofonica “la nave dei folli”, a questa pagina: https://lanavedeifolli.noblogs.org/files/2023/09/Grosso-a-guaio-a-St-Imier.pdf 2Si veda ad esempio https://danslabrume.noblogs.org/post/2023/07/24/anti-anti-racialisme/ 3Cfr. Yascha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli, Milano 2024
Approfondimenti
Genocidi automatizzati – L’IBM e l’olocausto
Riceviamo e diffondiamo questo prezioso – ed estremamente attuale… – approfondimento sul ruolo di IBM nel genocidio perpetrato quasi un secolo fa dai nazisti, da https://bergteufelbz.noblogs.org/genocidi-automatizzati-libm-e-lolocausto/#more-1972 Ieri con i nazisti tedeschi, oggi con i sionisti israeliani: questa è IBM. Mentre i regimi passano, i fabbricanti di orrori resteranno finché non sarà demolito il sistema capitalistico. Genocidi automatizzati – L’IBM e l’olocausto Il testo che segue è uno dei capitoli di un opuscolo di prossima pubblicazione. Proprio ieri, il Senato accademico dell’Università di Trento ha votato per mantenere, nonostante la contrarietà degli studenti e la mobilitazione contro le complicità con il genocidio a Gaza, un progetto di ricerca con Ibm Israel, sulla «resilienza dei sistemi di intelligenza artificiale contro gli attacchi alla sicurezza». La divisione israeliana della multinazionale è tra i fornitori delle tecnologie di controllo della popolazione palestinese. I motivi del voto di ieri sarebbero «sia di fattibilità che di volontà», in quanto «sono presenti diversi accordi con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei diritti umani» e «bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca universitaria». Nell’ultimo anno e mezzo si è spesso parlato dello sterminio della popolazione di Gaza come del primo genocidio automatizzato della storia – e a ragion veduta, visti i sistemi di intelligenza artificiale impiegati dall’esercito israeliano per massimizzare gli effetti dei bombardamenti. Tuttavia, quest’espressione – genocidio automatizzato – si trovava già in un libro del 2001, pubblicato in Italia da Rizzoli, mai più ristampato e oggi pressoché introvabile: L’IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, del giornalista americano Edwin Black. Se la fornitura da parte dell’IBM di tecnologie che sono servite al regime nazista per censire le sue vittime e poi per organizzare la «soluzione finale» è un fatto relativamente noto, la lettura di questo documentatissimo volume restituisce un quadro a dir poco impressionante, soprattutto alla luce dei progressi che hanno fatto negli ultimi ottant’anni i mezzi tecnologici per rendere gli individui più efficientemente controllabili – e all’occorrenza uccidibili. Come scrive l’autore, «l’alba dell’era informatica coincise con il tramonto della dignità umana». Il libro parte da una domanda: «i tedeschi disponevano sempre di liste contenenti i nomi degli ebrei. All’improvviso, uno squadrone di soldati delle SS arrivava in una piazza cittadina e affiggeva un avviso che ordinava alle persone elencate di riunirsi il giorno seguente alla stazione ferroviaria per essere deportate a Est. Ma come riuscivano i nazisti a procurarsi le liste?». La risposta sta nelle schede perforate e nel sistema per la loro selezione, «una sorta di precursore del computer». La futura IBM Germania era stata fondata nel 1896 da Herman Hollerith come società di tabulazioni per censimenti. «Hollerith ideò una scheda con fori standardizzati, ciascuno dei quali rappresentava un tratto diverso: sesso, nazionalità, occupazione e così via. La scheda doveva essere inserita in un “lettore”. Grazie a meccanismi a molla facilmente regolabili e a brevi contatti elettrici a spazzole che rilevavano i fori, le schede potevano essere “lette” mentre passavano attraverso un alimentatore meccanico. Le schede elaborate potevano quindi essere suddivise in pile seguendo una determinata serie di perforazioni. Era così possibile selezionare e riselezionare milioni di schede. Si poteva isolare qualsiasi tratto desiderato, fosse esso generale o specifico, semplicemente selezionandole e riselezionandole in base ai fori associati ai dati. Le macchine erano in grado di fornire il quadro di un’intera popolazione oppure di evidenziare un gruppo all’interno di quella popolazione. Era infatti possibile individuare un uomo tra milioni di persone praticando un numero sufficiente di fori sulla scheda e selezionandoli per un numero sufficiente di volte. Ogni scheda perforata sarebbe diventata un magazzino informativo limitato solo dal numero di fori. Non si trattava d’altro che di un codice a barre ottocentesco per gli esseri umani». Arrivati al potere, ai nazisti si pose il problema della mancanza di un censimento affidabile della popolazione, anche e soprattutto su base razziale. «I pianificatori nazisti volevano che tutti i quarantuno milioni di prussiani venissero censiti e che i risultati preliminari fossero disponibili entro un periodo record di quattro mesi». L’IBM Germania, conosciuta all’epoca come Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), «propose una soluzione: avrebbe gestito quasi l’intero progetto come un contratto. Avrebbe studiato un pacchetto per i censimenti in grado di conteggiare e classificare ogni cittadino. Avrebbe inoltre reclutato, addestrato e persino nutrito le centinaia di lavoratori temporanei necessari a condurre il censimento, che avrebbero svolto il lavoro nei locali della stessa Dehomag. Se il governo fosse riuscito a raccogliere le informazioni, l’azienda si sarebbe occupata di tutto il resto». Black descrive così il meccanismo: «giorno e notte, i dipendenti della Dehomag immettevano le informazioni relative a quarantuno milioni di prussiani al ritmo di centocinquanta schede all’ora. […] Le istruzioni erano chiare e semplici. La colonna 22, religione, doveva essere punzonata in corrispondenza del foro 1 per i protestanti, 2 per i cattolici e 3 per gli ebrei. Le colonne 26 e 27, nazionalità, dovevano essere codificate nella fila 10 per i madrelingua polacchi. […] Le verificatrici tabulavano e controllavano la punzonatura di oltre quindicimila schede l’ora. Quando, all’interno della popolazione, veniva rilevata la presenza di un ebreo, il suo luogo di nascita veniva registrato su un’apposita “scheda di conteggio degli ebrei”, che veniva poi elaborata separatamente. Cominciava quindi il tremendo processo di selezione e riselezione per venticinque categorie di informazioni ordinate e filtrate mediante ben trentacinque operazioni distinte: in base alla professione, alla residenza, alle origini nazionali e a una miriade di altri tratti. Il tutto doveva essere correlato con le informazioni fornite dagli uffici del catasto, dalle liste municipali e dalle autorità ecclesiastiche al fine di creare un nuovo esauriente database. Il risultato era una rilevazione della presenza ebrea professione per professione, città per città e addirittura rione per rione». Una scheda Hollerith A partire dal 1934, lo stesso sistema venne usato anche per elaborare i dati raccolti dai medici sullo stato di salute dei pazienti, dati che creavano un «profilo eugenetico» sulla base del quale ogni singolo paziente sarebbe rientrato o meno nei programmi di sterilizzazione, che «colpirono innanzitutto coloro che erano stati giudicati malati di mente, ritardati, epilettici o affetti da sindrome maniaco-depressiva», per poi essere allargati anche agli «indesiderabili dal punto di vista sociale. I cosiddetti antisociali, vale a dire i disadattati che non sembravano idonei al lavoro». Nel 1939, il copione del censimento razziale si ripeté, questa volta per settantatré milioni di tedeschi e austriaci, con l’obiettivo di «individuare ciascun soggetto prima di ghettizzarlo o di sottoporlo a una qualsiasi azione». «La Germania si stava inoltre preparando per la guerra totale e, senza il censimento, non avrebbe potuto sapere con esattezza dove si trovassero gli uomini arruolabili e quali donne si sarebbero assunte le responsabilità economiche una volta iniziata la mobilitazione. Per questi motivi, il censimento era di fondamentale importanza per la guerra» di Hitler. Come già nel 1933, «la Dehomag allestì enormi saloni per il conteggio e divisioni direttive presso la sede centrale dell’Ufficio di statistica berlinese per tabulare le informazioni. All’inizio, l’esercito di operatori della Dehomag perforava 450.000 schede al giorno. Con il passare del tempo, il volume raggiunse il milione al giorno. La società rispettò la scadenza. I risultati preliminari furono pronti già il 10 novembre 1939», primo anniversario della Notte dei cristalli. Una volta scoppiata la guerra, il regime nazista riuscì a individuare con la stessa velocità gli ebrei di ogni paese invaso o assoggettato, anche grazie all’infrastruttura predisposta nei vari paesi da tutte le filiali europee dell’IBM, che «collaboravano da tempo al fine di sfruttare gli avvenimenti politici e militari del Vecchio continente. Gli addetti alle vendite facevano di continuo la spola tra i loro paesi e New York o Berlino per l’addestramento e venivano quindi trasferiti di nuovo nelle nazioni d’origine per sovrintendere alle operazioni riguardanti le schede perforate. Verso la fine del 1939, con il consenso di Thomas Watson [presidente dell’IBM], fu aperta a Berlino una scuola di addestramento internazionale per i capi della manutenzione IBM di tutta l’Europa». Anche «gli ordini urgenti piazzati dagli eserciti di paesi come l’Olanda e la Polonia andavano a vantaggio del Reich. Quando i nazisti invadevano i nuovi territori, le macchine Hollerith venivano confiscate e convertite agli scopi tedeschi». Anche l’elaborazione, in sole quarantott’ore, dei dati riguardanti gli ebrei di Varsavia e dell’intera Polonia – e la successiva organizzazione, in pochi giorni, della deportazione di milioni di individui – fu possibile grazie ai sistemi Hollerith dell’IBM, che era «presente in Polonia, con una sede centrale a Varsavia. L’officina tipografica per le schede perforate, ubicata al numero 6 di via Rymarska, distava solo pochi metri dal ghetto. Là dentro furono prodotti oltre venti milioni di schede». Come sintetizza Black, «In tutta la Germania e nei territori conquistati, la Dehomag cercò in ogni modo di stare al passo con un’interminabile serie di censimenti, registrazioni e analisi di persone, proprietà e operazioni militari, progetti per i quali erano necessari sia le sue attrezzature sia i suoi servizi di riparazione ed elaborazione. Ogni settimana venivano stampati milioni di schede per soddisfare la domanda». Se «oltre duemila di questi apparecchi multifunzionali vennero distribuiti in Germania, e altre migliaia raggiunsero i paesi europei sotto il dominio tedesco», anche «in ognuno dei principali campi di concentramento esisteva un centro per la selezione delle schede», noto come Dipartimento Hollerith. «In certi campi, come Dachau e Storkow, erano installate non meno di due dozzine di selezionatrici, tabulatrici e stampanti IBM». Questi dipartimenti e le loro macchine si occupavano del «compito immenso di registrare con efficienza le deportazioni dalle città e i ghetti di diversi paesi, le quotidiane assegnazioni di lavori, e gli orari dello sterminio». Per ogni recluso veniva compilata una scheda perforata contenente «colonne e fori indicanti nazionalità, data di nascita, stato civile, numero di figli, motivo dell’incarcerazione, caratteristiche fisiche ed esperienze lavorative», che avrebbe permesso al sistema Hollerith di seguirlo in tutti i suoi spostamenti e di confrontare le sue caratteristiche con quelle richieste per gli “incarichi” di lavoro forzato vacanti nei vari campi o nelle industrie che se ne servivano. A ciascuno era assegnato «un tipico numero Hollerith a cinque cifre», gli stessi numeri che per primi sarebbero stati tatuati sugli avambracci dei prigionieri di Auschwitz. «Senza i macchinari dell’IBM, la manutenzione continua e il rifornimento di schede perforate, i campi di Hitler non avrebbero mai potuto eseguire i loro terrificanti compiti come invece fecero», e, come l’autore giustamente rimarca, i dipartimenti Hollerith «non potevano funzionare con manodopera non specializzata. Erano necessari i cosiddetti esperti di Hollerith addestrati da una filiale dell’IBM, che si trattasse della Dehomag in Germania o di un’azienda qualsiasi della località in cui si trovavano i dipartimenti». Come riassume Black, «come ogni altra evoluzione tecnologica, ogni nuova soluzione alimentava nuove sinistre prospettive e una nuova serie di crudeli opportunità. Quando la Germania decise di identificare gli ebrei per nome, l’IBM mostrò come fare. Quando la Germania decise di utilizzare quelle informazioni per lanciare programmi di espropriazione ed espulsione sociale, l’IBM le fornì i mezzi tecnologici. Quando occorreva che i treni collegassero puntualmente le città o i campi di concentramento, l’IBM ideò un’altra soluzione idonea. In sostanza, non vi era soluzione che l’IBM non fosse pronta a studiare per un Reich disposto a pagare per i servizi resi. Una soluzione conduceva all’altra. Mentre l’orologio ticchettava, mentre le schede perforate frusciavano, mentre gli ebrei tedeschi vedevano annientare la propria esistenza, altri vedevano crescere la propria fortuna». Se quello appena riassunto è il più agghiacciante, le macchine dell’IBM vennero impiegate dal Terzo Reich – così come dagli altri Stati belligeranti – in molti altri modi: i nazisti scoprirono che potevano «meccanizzare, organizzare e controllare quasi tutti gli aspetti della vita commerciale e privata, dal più grande cartello industriale al più umile negoziante locale»: «le disposizioni del governo imponevano alle società di installare le macchine Hollerith per garantire resoconti tempestivi, omogenei e aggiornati che potessero essere rielaborati». «La tecnologia Hollerith era diventata una componente fondamentale della vita amministrativa tedesca. Le schede perforate avrebbero permesso all’intero Reich di mettersi sul piede di guerra. Per l’IBM iniziò un periodo di grande prosperità». Manifesto pubblicitario della Dehomag: «Visione d’insieme con le schede perforate Hollerith» Fra i maggiori clienti della Dehomag c’erano le ferrovie tedesche: «ogni anno circa centoquaranta milioni di passeggeri prenotavano il posto mediante i sistemi di selezione delle schede prodotti dalla Dehomag». Durante la guerra, l’IBM fornì le sue apparecchiature a quasi tutte le ferrovie dell’Europa occupata. «I sistemi per schede perforate individuavano l’esatta posizione dei carri merci, il carico che potevano trasportare e gli orari che avrebbero dovuto rispettare per garantire la massima efficienza». Grazie a questo sistema, «le posizioni dei carri merci venivano aggiornate ogni quarantott’ore. Senza le apparecchiature, la localizzazione del materiale ferroviario sarebbe rimasta indietro di oltre due settimane». Allo stesso modo, i sistemi Hollerith «consentivano al Reich di schierare strategicamente sia gli operai specializzati all’interno della Germania sia i gruppi di forzati e di schiavi importati dai paesi occupati», e venivano utilizzati in tutta l’Europa in guerra per la mobilitazione delle truppe e per gestire la produzione di materiale bellico. I documenti raccolti da Black permettono di escludere qualsiasi giustificazione o attenuante per la complicità dell’IBM e dei suoi dirigenti con il regime nazista. L’azienda non si è infatti limitata a fornire i macchinari, ma, con il beneplacito della sede centrale di New York, ha dovuto personalizzare ogni applicazione e fornire continuo supporto: «i tecnici inviavano schede campione agli uffici del Reich finché le colonne dei dati risultavano accettabili, proprio come farebbe oggi un progettista di software. Le schede perforate potevano essere progettate, stampate e vendute da un’unica azienda: l’IBM. Le macchine non venivano vendute, bensì noleggiate, e venivano regolarmente sottoposte a migliorie e interventi di manutenzione da parte di un’unica azienda: l’IBM. Le filiali addestravano gli ufficiali nazisti e i loro rappresentanti in tutta l’Europa». Inoltre, le macchine dovevano essere «controllate in loco circa una volta al mese, anche quando si trovavano all’interno di un campo di concentramento o nelle sue vicinanze». Per dodici anni, i funzionari dell’IBM New York «si recavano a Berlino o Ginevra per monitorare le attività e assicurarsi che la casa madre non venisse esclusa dai profitti o dalle opportunità commerciali offerte dal nazismo», e anche «quando le leggi statunitensi dichiararono illegali simili contatti diretti, la sede svizzera dell’IBM divenne il fulcro dell’intero processo e garantì all’ufficio di New York un flusso continuo di informazioni e una facciata rispettabile». In dodici anni, nessuna delle – più che esplicite – dichiarazioni della gerarchia nazista spinse l’IBM a pronunciare una sola parola che rischiasse di limitare le attività – e i profitti – della sua filiale tedesca. Tantomeno a ritirarsi dalla collaborazione con il Reich – cosa che avrebbe inferto un duro colpo alla macchina nazista: al regime infatti sarebbero serviti anni per rimpiazzare l’IBM nella produzione delle macchine e delle schede, con gravi conseguenze sulla capacità di pianificare e condurre la guerra. Il peso dei mezzi forniti dall’IBM nel compimento dello sterminio è ben esemplificato dal confronto fra il destino degli ebrei in Olanda, «un bastione dell’infrastruttura delle Hollerith», e in Francia, dove «i nazisti erano costretti ad affidarsi ai loro rastrellamenti a casaccio» perché l’infrastruttura di perforazione delle schede «era un disastro assoluto»: «dei 140.000 ebrei olandesi schedati, più di 107.000 furono deportati e di questi 102.000 furono uccisi – un tasso di mortalità di circa il settantatré per cento. Dei circa 300.000-350.000 ebrei che, secondo le stime, vivevano in Francia in entrambe le zone, ne furono deportati circa 85.000 e di questi ne sopravvissero a stento 3000. Il tasso di mortalità in Francia fu di circa il venticinque per cento». Perché un’azienda come l’IBM ha scientemente fornito a un regime come quello nazista i mezzi per «raggiungere un obiettivo mai realizzato in precedenza: l’automazione della distruzione umana»? Condivisibili le considerazioni di Edwin Black: «all’IBM non interessava il nazismo e tanto meno l’antisemitismo». «Egocentrica e abbagliata dal suo stesso vortice di possibilità tecniche, l’IBM agiva obbedendo a un’immorale filosofia aziendale: se possiamo farlo, dobbiamo farlo». L’ennesima dimostrazione che i crimini nazisti sono stati tutt’altro che una parentesi di irrazionalità ma, al contrario, la moderna razionalità tecnica portata alle sue estreme conseguenze[1]. Se il contributo dell’IBM era indispensabile per lo sforzo bellico nazista, anche gli Alleati non potevano fare a meno della tecnologia dell’azienda: «in un certo senso l’IBM era più grande della guerra». Il dipartimento della Guerra statunitense discusse «con Watson di convertire la capacità produttiva dell’IBM per metterla al servizio dell’impresa bellica». «Nel 1943 due terzi dell’intera capacità di produzione dell’IBM erano stati spostati dalle tabulatrici alle munizioni». Oltre alla produzione di armi, l’IBM intraprese diversi progetti di ricerca per l’esercito americano, incredibilmente coordinati dallo stesso funzionario responsabile delle operazioni dell’azienda nell’Europa nazista. E le macchine Hollerith servirono per organizzare la mobilitazione di milioni di soldati. Anche sul lato americano del fronte, gli introiti per l’IBM furono enormi, mentre Watson ripuliva la propria immagine cogliendo «l’occasione di diventare il principale patriota tra gli industriali del paese». L’azienda sviluppò anche potenti unità mobili Hollerith. «Le Machine Record Units (MRU) non erano altro che unità militari addestrate dall’IBM e specializzate nello spiegamento delle attrezzature prodotte dall’IBM. Erano anche progettate per contribuire alla cattura di qualsiasi Hollerith venisse scoperta in Europa o nel teatro del Pacifico», dato che si trattava di «macchine strategiche da salvaguardare e non da distruggere»: «la dotazione della Dehomag era la chiave di un’agevole occupazione militare della Germania e di altri territori dell’Asse». Quando l’8 maggio 1945 la guerra finì in Europa, l’IBM «si precipitò a recuperare le sue macchine e i suoi conti bancari nel territorio nemico». La Dehomag era uscita «dagli anni del conflitto con danni relativamente esigui e, in pratica, pronta a riprendere una normale attività. Le macchine erano state recuperate, i profitti salvaguardati e il valore societario intatto. Di conseguenza alla fine della guerra l’IBM di New York fu in grado di riprendersi la sua filiale tedesca problematica ma fruttuosa, insieme con le sue macchine e tutti i suoi proventi». Quando i campi di concentramento erano stati abbandonati, le macchine erano state trasferite in gran parte in località insospettabili, e gli archivi distrutti per cancellare ogni traccia dei crimini di guerra. Questo contribuì a rendere l’IBM e la sua filiale tedesca immuni da qualsiasi accusa. Macchine come «quelle di Auschwitz, Buchenwald, Westerbork e del ghetto di Varsavia furono semplicemente recuperate e riassorbite nell’elenco delle proprietà dell’IBM. Sarebbero state impiegate un altro giorno, in un altro modo, per un altro cliente. Non dovette fornire spiegazioni o risposte. Domande sulle Hollerith di Hitler non furono mai nemmeno formulate». Ironicamente, però, nel processo di Norimberga l’IBM un ruolo lo ebbe: per far fronte alla difficoltà di tradurre tutti i documenti, i giudici fecero ricorso «a una procedura appena inventata chiamata “traduzione simultanea”. Una società esaminò tutte le prove presentate e le tradusse non solo per l’uso in tempo reale e per le procedure processuali, ma anche per la posterità. Questa società era l’International Business Machines Corporation». Watson offrì i servigi della società gratuitamente. Come se tutto questo non bastasse, dalle macchine Hollerith e dagli operatori della Dehomag dipendeva anche l’ufficio statunitense segreto di analisi statistica incaricato di valutare gli effetti – anche morali – dei bombardamenti alleati sulla Germania. Le analisi e le previsioni di questo ufficio fecero parte del processo decisionale che portò a sganciare le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Com’è noto, «negli anni successivi l’IBM acquisì una statura mondiale ancor maggiore e divenne un faro della causa del progresso. Adottò un motto aziendale: “La società delle soluzioni”. Ovunque ci fosse un compito impossibile, l’IBM avrebbe trovato la soluzione». Giustamente l’autore fa, tra le altre, questa considerazione: «l’alba dell’era informatica coincise con il tramonto della dignità umana». [1] Su questi temi si consiglia la lettura di Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, 2010, e di Johann Chapoutot, Nazismo e management. Liberi di obbedire, Einaudi, 2021.
Approfondimenti
Sull’operazione “Diana” contro l’anarchismo in Trentino. Cose utili da sapere
Riceviamo e diffondiamo queste utili righe informative sull’operazione “Diana”: Cose utili da sapere (dalle carte dell’operazione “Diana”) Nel fascicolo dell’operazione Diana sono riportate, in tutto o in parte, le carte relative a diversi procedimenti penali. Uno di questi è quello relativo ad un 270 bis nei confronti di diversi compagni e compagne e persone vicine al nostro amico e compagno Stecco. Quello che lo Stato ha messo in campo per arrestarlo è piuttosto impressionante. Se teniamo presente che Stecco, quando ha levato le tende, aveva un definitivo da scontare di 3 anni e 6 mesi, la sproporzione tra la sua condanna e l’accanimento sbirresco per scovarlo rivela quanto lo Stato consideri insopportabile che ci si possa sottrarre alle sue galere; e quanto il trattamento riservato ad anarchiche e anarchici abbia, sia pure dentro un avvitamento repressivo generale, un carattere indubbiamente selettivo. Una conoscenza aggiornata delle tecniche impiegate dalla polizia politica contro compagne e compagni passa molto spesso attraverso la lettura dei faldoni delle indagini poliziesco-giudiziarie. Per questo è importante che le indicazioni che ne emergono siano socializzate. Nel farlo è sempre necessario tener presenti due aspetti: il primo, è che si tratta di materiale fornito dal nemico; il secondo, è che la condivisione (ovviamente selezionata e omettendo nomi e cognomi che appaiono nelle carte) di tale materiale può involontariamente ingenerare il sentimento di una sorta di onnipotenza del nemico, con il relativo corredo di paranoia e di scarsa fiducia nei propri mezzi. È quindi bene ricordare che il dispiegamento di uomini e mezzi per la ricerca di latitanti non è lo stesso che si riserva al monitoraggio/indagine su altre circostanze che si danno nell’ambito dei movimenti e delle lotte; che nonostante l’avanzamento poliziesco-tecnologico, alcuni compagni ricercati hanno assaporato la libertà per mesi e anni; che ci sono compagne e compagni tutt’ora uccel di bosco in Europa e nel mondo. Sapere come si muove la controparte è necessario per adottare le contromisure più opportune, imparando dagli errori e facendo tesoro delle esperienze. Partiamo da alcuni dati quantitativi per fornire un’idea dell’estensione dell’intervento poliziesco: – Telecamere davanti a 6 abitazioni. – Intercettazioni ambientali nella casa di una persona vicina a Stecco, di altre persone connesse ad una persona particolarmente “attenzionata” e dello spazio anarchico “El Tavan”. – Intercettazioni telefoniche di oltre 40 persone: compagne e compagni, ma anche amici e persone vicine. – Sono state disposte intercettazioni ambientali “puntuali” in un caso in cui si riteneva che una persona vicina a Stecco potesse incontrare una persona che secondo la Digos avrebbe potuto fornirle delle informazioni su di lui. – Una persona particolarmente “attenzionata” viene pedinata almeno una volta dai servizi (l’intestazione della relazione di servizio è “Ministero degli interni”, mentre tutte le altre sono di varie Questure). – Analisi dei tabulati telefonici storici di 69 persone e di una cabina telefonica (il tempo massimo per cui si può tornare indietro sono 72 mesi). – Gps installati in 12 auto. Per alcune persone vicine a Stecco anche l’intercettazione ambientale e video. – “Attenzionate” le targhe di 311 auto. – Richiesta di esibizione bancaria di 59 persone per verificare l’esistenza di movimenti “sospetti” riconducibili ad eventuali appoggi economici alla latitanza. – Installazione di un dispositivo di tracciamento (nello specifico un localizzatore GSM, dunque non satellitare ma cellulare, di tipo “Spora”, ovvero un localizzatore miniaturizzato che comunica in tempo reale ad un telefono in utilizzo alla polizia la cella agganciata via sms) su una bicicletta ritenuta in uso da Stecco, localizzata tramite l’utilizzo di una telecamera in un paese nel quale è stato ripreso durante il periodo di latitanza. – In questo caso come nel caso della latitanza di un altro compagno, sono stati ritrovati dei documenti falsificati le cui generalità sono risultate appartenenti a persone realmente esistenti. Da questo è stato dato inizio ad una serie di ricerche e interrogatori alle persone interessate, con l’intento di confrontare spostamenti, pernottamenti in alberghi, controllo dei movimenti di alcuni conti correnti (ed anche, per esempio, la “carta Decathlon” almeno in un caso, sulla quale rimane una cronologia degli acquisti effettuati) indietro nel tempo di diversi anni (più di 10). – Mobilitata la polizia politica di Treviso, Padova, Verona, Brescia, Bergamo, Milano, Trento, Trieste, Genova. A partire dal momento in cui hanno iniziato a “stringere il cerchio”, la Digos di Trento ha ricevuto personale di rinforzo in pianta stabile, di sicuro almeno un agente da Trieste. Per un’analisi più qualitativa, invece, bisogna entrare nel merito delle tecniche impiegate. Diciamo che le indagini si muovono su due binari: l’analisi di un’enorme mole di dati telefonici e il controllo quasi costante di alcune persone, con particolare attenzione alle loro assenze dai rispettivi luoghi di residenza. Quando tali persone vengono di nuovo localizzate, si procede a ricostruire il più possibile a ritroso i loro spostamenti. La raccolta dei dati viene fatta con calma e in modo sistematico. Ecco alcuni esempi. – Due compagni in viaggio in treno vengono pedinati da quattro agenti della Digos, che si posizionano due in testa e due in coda al treno. In ognuna delle stazioni intermedie sono poi presenti due poliziotti in borghese nel caso in cui i compagni scendano dal treno; a tal fine è stata mobilitata polizia politica di sette Province. Dalle carte sembra che questo pedinamento sia stato disposto all’ultimo momento quando, la sera precedente, la polizia ha appreso in diretta dai microfoni installati in casa delle persone vicina ad una delle due persone, che questa sarebbe partita in treno il giorno dopo. – Dalle carte emerge che gli sbirri, oltre a chiedere a RFI di visionare le telecamere delle stazioni, hanno chiesto al gip di installare delle telecamere apposta in stazione a Rovereto per poterle visionare direttamente in Questura. Hanno anche potuto vedere quali biglietti sono stati emessi con ognuna delle biglietterie automatiche, quali ricerche siano state effettuate anche senza acquistare i biglietti e accedere alla telecamera che in alcuni casi sono installate direttamente sulle macchinette. Queste ultime telecamere conservano i video per massimo 10 giorni (nonostante la durata massima generale per infrastrutture meritevoli di maggior tutela sia di 7 giorni secondo il provvedimento del 2010 a firma del GDP, salvo specifiche richieste). – Avendo osservato che una persona particolarmente “attenzionata” aveva cercato gli orari dei treni per una determinata città con una biglietteria automatica, nel momento in cui questa persona si è assentata da casa sono state visionate le telecamere della stazione di quella città e di almeno altre quattro stazioni. È probabile che siano stati analizzati i dati relativi a più stazioni, che si trovano lungo tratte che portano alla città per la quale era stata effettuata la ricerca. Infatti, dato che dopo 7 giorni i dati vengono cancellati, la Digos di Trento si è recata in fretta e furia negli uffici di RFI Lombardia a Milano perché ritenevano di aver individuato la persona in una stazione (che non era né quella ricercata sulla macchinetta, né quelle vicine alla sua abitazione) in cui era passata 7 giorni prima e c’era il rischio che le immagini venissero sovrascritte prima che il download dei dati terminasse. – Nel tentativo di ricostruire il percorso della persona, visionano i dati di un esercizio commerciale esterno alla stazione in cui ritengono di averla localizzata, oltre che le telecamere del treno su cui ritengono sia salita in quella stazione. Dato che, tramite queste ultime, durante il viaggio la vedono leggere l’ultimo numero di una rivista di compagni, uscito da poco, chiedono l’esibizione bancaria anche per questa rivista. – Per ricostruire a ritroso il percorso che l’ha portata a quella stazione, si concentrano inizialmente sugli Intercity, dato che c’è l’obbligo di biglietto nominativo. Avendo individuato dall’elenco fornito da FSI un acronimo che ritengono sia riconducibile a quella persona, verificano dove sia stato emesso il biglietto relativo. Non avendo più a disposizione i video della stazione di acquisto a causa del decorso della durata di conservazione delle immagini, cercano di ricostruire in che modo la persona sia arrivata nella stazione di acquisto del biglietto. Scartati gli Intercity, non avendo trovato nessun nominativo riconducibile, si concentrano sui treni regionali e chiedono a FSI di comunicare per ognuno il numero di biglietti emessi dalle biglietterie automatiche delle stazioni di partenza, di quelle intermedie e di altre nelle vicinanze, in località “abitualmente frequentate” da anarchici: 150 pagine di liste trasmesse dalle Ferrovie. Controllano anche i traghetti e gli autobus. Dato che non trovano nulla, chiedono gli stessi dati di prima sulle biglietterie di 69 ulteriori stazioni e di eventuali multe emesse a bordo treno di 5 regionali. Parallelamente, chiedono alle Ferrovie l’elenco di tutti i biglietti acquistati con quell’acronimo nei mesi precedenti e di attivare un “alert di segnalazione automatica” nel caso in cui dovesse essere utilizzato nuovamente per acquistare dei biglietti. – Per ricostruire gli spostamenti di certe auto, vengono visionate le telecamere di vari caselli autostradali; una volta localizzata una macchina in un casello ritenuto sospetto, controllano anche le telecamere stradali del Comune. – Una volta individuata la zona in cui ritengono possa trovarsi Stecco, la Digos chiede di installare 5 telecamere “video lunga distanza” con riconoscimento facciale e 10 per “ripresa video interno/esterno” intorno a una data stazione, comprese fermate urbane e extraurbane degli autobus. Non vi è traccia della richiesta del PM al giudice, quindi non sappiamo se poi siano state installate o meno. Analizzano anche le immagini delle telecamere presenti sugli autobus. Chiedono di intercettare una persona e sua madre, nonché di avere accesso ai loro tabulati, perché in passato avrebbero affittato in zona delle abitazioni a dei compagni. – Una volta arrestato Stecco, mostrano la sua foto e interrogano varia gente del posto fino a quando non individuano la casa in cui avrebbe soggiornato. Prelevano impronte digitali e DNA da tutto quello che sequestrano nella casa. – Per quel che riguarda la ricerca tramite i telefoni, è da segnalare che non vengono intercettati solo i numeri di telefono, ma anche i dispositivi in cui alcune SIM sono state inserite, tramite numero IMEI. Questo non avviene per tutti i numeri, ma solo per quelli ritenuti più “interessanti” e sembra che sia sufficiente che la SIM venga inserita una sola volta (ed utilizzata). Inoltre, come già sappiamo, l’intercettazione comporta anche la geolocalizzazione del telefono, anche non smartphone (sebbene in questo caso si possa risalire solo alle celle via via agganciate e non alla posizione esatta). – Sotto il profilo dell’analisi del traffico telefonico, una volta stretto il cerchio su una determinata zona, cercano nei tabulati già acquisiti eventuali numeri di telefono di anarchici lì residenti (cioè se una delle 69 persone di cui hanno i tabulati abbia chiamato qualcuno che stava lì nei 6 anni precedenti), quindi tutte le chiamate fatte da Stecco nei 5 anni precedenti (prima che levasse le tende) a numeri che si trovavano in quella zona. – Cercano nei tabulati storici se ci sono delle chiamate ricevute da delle cabine telefoniche. Quindi cercano se dalla cabina di cui hanno i tabulati storici siano state fatte chiamate a numeri stranieri; una volta individuati, vedono se questi numeri abbiano mai chiamato i numeri emersi dai tabulati storici. Verificano inoltre se dalla cabina siano stati chiamati fissi o cellulari in quattro regioni italiane. – Analizzano i dati del traffico telefonico transitato per le celle di Tim, Wind, Vodafone e Iliad di nove località in alcuni momenti in cui reputano che vi possano essere stati contatti con un ipotetico telefono utilizzato da Stecco. Dato che la mole è enorme, provano a incrociarli con i numeri intercettati e poi con tutti numeri risultanti dalle utenze di cui hanno le tabulazioni. Questo tipo di ricerca (incrocio dati estrapolati da determinate celle telefoniche con numeri di telefono individuati tramite l’analisi di tabulati storici) viene ripetuto altre volte. In generale, in più punti troviamo l’analisi di tabulati storici, anche molto indietro nel tempo, e i tentativi di incrociare i numeri così estratti con i dati che man mano vengono raccolti nel corso dell’indagine. – Sebbene non ve ne sia poi traccia nelle intercettazioni, in più punti la Digos chiede l’autorizzazione per scaricare le chat di Whatsapp e in un caso anche di Telegram. – Per quel che riguarda le ricerche telematiche, è da segnalare il tentativo di installare uno spyware (un virus informatico che permette di ottenere completo accesso al dispositivo “infettato”) “mediante la procedura 1 click” che permette di rendere lo smartphone di una persona vicina a Stecco un microfono per intercettazione ambientale (definizione tecnica: “autorizzare l’intercettazione telematica attiva con eventuale intercettazione tra presenti attraverso l’attivazione di un microfono sul terminale mobile di tipo Android senza root”). Nella pratica, a questa persona viene mandato un sms che contiene un link, che se cliccato avrebbe portato all’installazione del virus. Dato che la persona non clicca sul link, avendo individuato il codice pin del suo telefono mediante una telecamera ad alta risoluzione installata all’interno dell’auto (la quale ha permesso di risalire alla lettura del codice mentre questo veniva digitato sul telefono), la Digos viene autorizzata ad installare direttamente il virus una volta ottenuto il temporaneo possesso del telefono. Questo non sembra sia avvenuto perché nel frattempo le indagini si sono orientate in un’altra direzione. – Per quel che riguarda le email, sembra che solo libero.it abbia fornito i dati relativi agli indirizzi email (file di Log compresi), mentre altri provider sembra non abbiano nemmeno risposto alle richieste (o quantomeno non c’è nessuna menzione al riguardo). – Oltre alle email, cercano di ottenere anche tutti i dati relativi a servizi di Microsoft Account e Google, compresi gli acquisti effettuati tramite queste piattaforme. A quest’ultimo proposito è interessante segnalare l’analisi che viene fatta dell’ID GAIA (Google Account and Id Administration) per il quale un numero ritenuto in possesso di Stecco riceve un sms. Praticamente, quando si cerca di entrare in una casella di posta elettronica Gmail da un dispositivo diverso da quello utilizzato normalmente, Google chiede una verifica ulteriore alla password, inviando un sms con un codice numerico ad un numero collegato all’indirizzo email. Dato che un numero collegato a Stecco riceve questo codice, cercano di recuperare i dati relativi al relativo account Google. Per farlo hanno inserito il numero di telefono nella pagina di accesso a Gmail e nella pagina in cui si chiede la password hanno cliccato col tasto destro e selezionato “Visualizza sorgente pagina”. Si è quindi aperta una finestra che contiene il codice HTML, hanno digitato CTRL+F (cerca) e nella casella di ricerca dato il comando per ottenere le 21 cifre che costituiscono l’ID GAIA, cioè ,[\” . Per sapere a chi fosse associato questo ID, hanno usato uno dei servizi di Google, nello specifico Google maps (dalla descrizione sembra che possano usare qualsiasi servizio offerto da Google, ma probabilmente Google Maps è quello in cui è più comune che vengano lasciate delle recensioni o comunque dei contributi). In pratica, nella barra degli indirizzi hanno digitato https://google.com/maps/contrib/ID GAIA, per visualizzare tutte le recensioni lasciate tramite quell’account Google e individuare quindi gli indirizzi email collegati. Hanno quindi chiesto a Google tutti i dati di registrazione relativi alle email, i numeri di telefono, la data in cui sono stati associati agli indirizzi email e le anagrafiche relativi all’ID GAIA e tutti i file di Log di ogni connessione a tale account. Non sembra abbiano ricevuto risposta. Per provare a fare una sintesi comprensibile, ad ogni ID GAIA possono essere associati più indirizzi email e più numeri di telefono di riferimento, una volta che la polizia conosce uno di questi dati può provare a risalire agli altri. – In seguito ad un’intercettazione ambientale in cui viene nominato un indirizzo email, chiedono a Microsoft l’anagrafica, i dati fatturazione dell’account nel caso in cui siano stati effettuati acquisti su Microsoft Online Store, i Log delle connessioni IP, tutti gli indirizzi email e i numeri di telefono associati a tale indirizzo e tutti i soggetti che si sono registrati con un nome collegato a quell’email. Inoltre chiedono al provider subito.it il tabulato dei file di Log e degli indirizzi IP utilizzati da questa email. – In un altro fascicolo, legato alla ricerca di un altro compagno latitante, abbiamo trovato questo passaggio relativo all’intercettazione telematica attiva e passiva di un computer: “Come noto, alla luce delle attuali tecnologie risulta assai difficoltoso effettuare un’infezione di un pc, in quanto sono numerose le variabili che determinano la riuscita o meno del servizio (sistema operativo, antivirus, scheda di rete, etc.). Pertanto, come da prassi, è indispensabile effettuare in un primo momento uno studio di fattibilità per stabilire il tipo di sistema operativo usato e gli eventuali antivirus attivi attraverso un’intercettazione passiva, per poi procedere all’intercettazione telematica attiva. Le modalità per procedere all’inoculamento dello spyware verranno successivamente concordate con i tecnici delle ditta incaricata dell’inoculazione del virus. Da attività di osservazione, si è notato che […] lascia talvolta il computer nel bagagliaio della propria autovettura […] quando si reca al lavoro in […]. Previa autorizzazione di codesta A.g., il tecnico provvederebbe ad installare un file a computer spento (ciò è fattibile solo lasciando inserita una chiavetta USB o qualunque altro supporto fisico di memoria nel pc), file che all’avvio verrà eseguito dal computer in automatico e provvederà ad installare altri piccoli programmi malevoli, necessari per svolgere lo studio dell’ambiente software presente sul dispositivo, per poi ottimizzare lo spyware che permetterà l’intercettazione telematica richiesta”. – Dopo aver sequestrato una chiavetta Tails, cercano la password con il programma “bruteforce-luks”. Nella comunicazione puntualizzano che non è possibile stimare i tempi di questa operazione. Significativamente, la sola delle 11 cartelle che formano l’indagine “Diana” a risultare vuota è quella con la dicitura: “Spese”. Ci sono comunque alcuni preventivi per il noleggio dei dispositivi per le intercettazioni, da cui tra l’altro emerge che quelli di localizzazione spesso offrono anche “l’opzione intercettazione”, quindi si tratta di un unico oggetto polivalente. Inoltre sembra che dal Covid siano possibili anche delle postazioni di ascolto da casa per il telelavoro. L’apertura di un fascicolo presso il Ministero degli Interni e alcune annotazioni che ne riportano l’intestazione suggeriscono il coinvolgimento dei servizi segreti. Ultimo ma non meno importante: contemporaneamente alle indagini per la ricerca di Stecco era attiva almeno un’altra indagine per 270 bis in cui parte degli indagati sono gli stessi del 270 bis relativo a Stecco. Giusto per dare un’idea della pervasività e della quotidianità del controllo a cui alcuni compagni sono sottoposti. Utile sapere che gli sbirri possono impiegare anche settimane a visionare le telecamere di stazioni, treni, caselli autostradali, autobus, alla ricerca di immagini che suggeriscano percorsi e destinazioni. Provando a farlo anche andando a ritroso rispetto a un viaggio che viene ritenuto sospetto, ricostruendo buona parte di un percorso a partire da quando questo termina, cercando le coincidenze tra momenti di “sparizione”, giorni, orari, mezzi utilizzati. Ognuno/a farà le sue valutazioni. Che si dia ancora più incisività alla critica pratica nei confronti del mondo della video sorveglianza e del controllo digitale, come campo di intervento irrinunciabile perché siano ancora possibili sogni e progetti di sovversione e di libertà. Che la fortuna arrida a chi è uccel di bosco e a chi, nella lotta per la libertà, sfida ogni identificazione. Qui il pdf: Cose utili da sapere (Diana)
Approfondimenti
Stato di emergenza
Le commedie di maggio. Riflessioni sul conflitto simulato
Riceviamo e diffondiamo questo bell’invito a “vivere nella verità”: Le Commedie di Maggio Riflessioni sul conflitto simulato «Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani» F. De André L’abbaglio Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione. Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere. Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento. Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1 Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, ad oggi, non possiamo più permetterci. Queste righe non hanno lo scopo di indicare un modo giusto di fare la lotta, né tracciare una strada da percorrere. Al contrario, sono un invito a valutare seriamente l’abolizione della nostra normalità e la rottura degli argini militanti, per tuffarsi finalmente nell’ignoto, lì dove può nascere l’impensabile. Conflitto simulato, perché proprio a noi? Partecipando a giornate di lotta europee, emerge subito un dato evidente: il conflitto a volte c’è, a volte non c’è, è più intenso, meno intenso ma di certo gli unici a tenerlo sotto controllo sono gli sbirri. Non ci sono, né tantomeno potrebbero esserci, avanguardie organizzate che sovrintendono e trattano tempi e modi del conflitto di piazza. Ma allora perché proprio a noi? Porsi questa domanda è ambizioso e circoscrivere il discorso obbliga a sorvolare discorsi importanti, come il modo in cui l’autorità ha gestito l’ordine pubblico dagli anni ‘70 ad oggi attraverso l’uso della polizia politica e il consequenziale protagonismo storico che la sinistra ha avuto nella repressione del fermento insurrezionale di quegli anni. Consapevoli di mancare qualche pezzo di storia militante la traiettoria più immediata e utile ai fini del testo è quella che ci porta a individuare nelle “Tute bianche” la genesi, o più probabilmente il perfezionamento, di questa modalità. Quella delle Tute bianche fu un’esperienza che nacque dall’area più morbida e riformista dei centri sociali (principalmente nel Nord – NordEst) e che ebbe, o almeno provò ad avere, la sua più importante espressione politica nelle giornate di Genova 2001. Un perfetto inquadramento lo troviamo in un articolo di Repubblica del 14 luglio 2001, in cui un grande simpatizzante del movimento, Luigi Manconi, ex portavoce dei Verdi, elogia la capacità pacificatoria delle Tute bianche, ecco due passaggi iconici: «…da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performance belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva – sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse.» E ancora: «(…) L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo, che depotenziа e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento.» Successivamente Manconi racconta una riunione svoltasi in una prefettura del Nord-Est dove veniva contrattato con le autorità un punto, segnato da un numero civico, in cui si sarebbe poi svolto uno scontro totalmente simulato con la polizia il quale però apparve veritiero nello schermo televisivo. Quello che poi saranno le giornate del G8 purtroppo è impossibile da raccontare ma a questo testo interessa solo un pezzo di questa storia. Dopo roboanti minacce di guerra le Tute bianche arrivano a Genova pensando di portarsi a casa la giornata proprio nel modo profetizzato da Manconi. La mattina di venerdì 20 luglio non manca nulla: tute, scudi di plexiglas, caschi e i leader in testa a guidare il “Gruppo di contatto”; un feroce servizio d’ordine che disarma e aggredisce i “facinorosi”; la violazione della zona rossa ben organizzata e concordata con la controparte. Insomma tutto è pronto… ma poi il conflitto arriva sul serio. A Genova migliaia di ribelli, disinteressati allo scontro diretto con la polizia scelgono di disertare l’appuntamento mediatico e, lontano dalla trappola militare della zona rossa, rovesciano interi quartieri, sollevando al cielo l’asfalto e ciò che ci sta sopra; il fuoco non risparmia nulla e arriva fino al carcere di Marassi. Per alcune ore la libertà travolge impetuosa alcune aree della città. La polizia, presa alla sprovvista e incapace tatticamente di far fronte a questa orda di insorti, è sotto scacco. L’idea di uno scontro simulato, militarmente tutelato da una manciata di manifestanti organizzati, non può assolutamente soddisfare i migliaia di furiosi presenti a Genova e i primi a rendersene conto sono proprio gli sbirri, i quali non hanno più nessuna intenzione di andare avanti con la sceneggiata concordata con i rappresentanti. Gli ultimi ad accorgersene, in colpevole ritardo, è il gruppo di contatto delle Tute bianche che in via Tolemaide viene travolto da una spietata carica dei carabinieri che li costringe alla fuga. I restanti 15 mila manifestanti, mozzati della loro testa, si alzano dalla poltrona del pubblico in cui erano stati costretti e ingaggiano una disperata battaglia nelle vie adiacenti, scontrandosi con un dispositivo poliziesco omicida che lancia blindati sulla folla, usa armi fuori ordinanza e infine, messa alle strette dalla tenacia dei manifestanti, spara, uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni. La reazione immediata, poi in parte ritrattata, di una buona parte della società civile, nonché dei referenti delle Tute Bianche, sarà quella di gridare agli “infiltrati” accordati con la polizia per rovinare la manifestazione e prendendo le distanze dai manifestanti come Carlo Giuliani, il quale «…non era una tuta bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento.» Come riportarono tutti i quotidiani il giorno dopo. Dirà Oreste Scalzone, ex Autonomia Operaia: «Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?» Dopo le giornate di Genova si conclude il progetto delle Tute Bianche e rinasce, poco dopo, in quello della “Disobbedienza” il quale terminerà a sua volta nel 2004. Una precisa area politica raccoglie le pratiche di questo progetto e le porta avanti immutate, rendendole la norma, o peggio l’abitudine, nelle piazze di tutta Italia. «Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione, inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità e di senso di una rivolta.»2 Lo spettacolo I due modi di vedere la lotta proposti negli episodi genovesi si basano sulla contrapposizione tra la “Spettacolarizzazione del rifiuto e il rifiuto della spettacolarizzazione”3 che trovano nelle “Commedie di Maggio” delle iconiche riproduzioni in miniatura. -La spettacolarizzazione del rifiuto: Il copione è più o meno sempre lo stesso: un gruppo di contatto, inventandosi una zona proibita da raggiungere, si lancia a peso morto sulla polizia per essere manganellato a favore di telecamera finché un Capo macho non si butta in mezzo insieme alla DIGOS e, tra urla scimmiesche e cenni di intesa, ognuno spinge indietro “i suoi”; una volta portata a casa la credibilità rivoluzionaria grazie agli scontri si conclude la pantomima sui giornali, romanzando la giornata e lamentandosi delle sorprendenti violenze della polizia e della sospensione dello Stato di diritto. Il passo successivo e tutto contemporaneo è poi l’ossessiva esaltazione estetica delle immagini degli scontri, accompagnate da musiche di sottofondo e slogan ricondivise sui social, per il giubilo della polizia, proprio dalle stesse persone che vi hanno partecipato. È tragicomico fermarsi un attimo a pensare che tutto questo, senza una telecamera a riprendere la scena, sarebbe completamente inutile (più di quanto già lo sia); ciò che succede in piazza, le persone presenti o l’obiettivo dichiarato, non hanno nessun valore reale, il fine ultimo è unicamente quello di raccontare sé stessi, firmare la giornata e apparire sui social, in una spirale di autocompiacimento senza fine. Intere comunità politiche fondano le loro battaglie sulla convinzione di poter utilizzare lo strumento mediatico a proprio vantaggio, venendo poi tragicamente recuperati e fagocitati dallo spettacolo stesso o quando il nemico contrattacca davvero. Dietro questa convinzione ci sono da un lato consapevoli opportunistx elettorali, dall’altro c’è il tentativo di qualche illusx di incasellare il gesto della rivolta come una piccola parte di un grande puzzle che ci porterà tuttx, un giorno, tramite compromessi e confronti democratici, ad una poco chiara “presa del potere” e che finisce poi, nel migliore dei casi, ad essere l’accettazione di un capitalismo un po’ più democratico, un po’ più umano (che mai sarà). Infine fa riflettere quanto questi scontri alla giornata siano prerogativa unica di persone bianche e privilegiate; per qualcunx invece lo scontro con la controparte non è solo la totalità di un programma ma la diretta conseguenza di una postura nel mondo, nella maggior parte dei casi nemmeno voluta ma obbligata dal fatto di appartenere ad una minoranza minacciata e oppressa. – Il rifiuto della spettacolarizzazione: Basterebbe citare, tra i tumulti più recenti, quelli per Alfredo Cospito o per Ramy, le rivolte contro il lockdown, le eccedenze durante i cortei per la Palestina, le passeggiate rumorose dopo i femminicidi o le rivolte dentro le carceri e i CPR, dove è importante anche notare che la polizia ha tutt’altro approccio all’ordine pubblico, molto più violento e senza compromessi. Alcuni episodi però parlano più di mille giornate e vanno riportati: Luglio 2017, due persone fanno sesso sul balcone mentre sotto le strade di Amburgo vengono date alle fiamme dalle proteste contro il G20. Ottobre 2019, Santiago De Chile, sono le giornate dell’Insurrezione Cilena, intorno alla carcassa di un autobus incendiato delle persone si radunano per ballare al ritmo dei colpi sul metallo, qualcuno finge di guidarlo, qualcuno suona l’arpa. Giugno 2020, una manifestante con la maglietta “Black Lives Matter” twerka verso la polizia durante le proteste dopo la morte di George Floyd. Non serve comunque cercare esempi in momenti di sommossa generale né tantomeno uscire dai nostri confini per rendere ancora più chiara l’idea: Una ragazza sale sul cofano di una Tesla e ci piscia sopra durante una passeggiata rumorosa, qualcunx riscopre la sua chitarra o la gamba di un manichino come clava contro la celere, qualcun altrx gioca ad “Un, due, tre, Stella!” o improvvisa un karaoke circondatx dalla celere. Il filo che lega tra loro queste vicende è l’interruzione della normalità a favore di un capovolgimento del significato degli oggetti e dei luoghi. Il fine di una rivolta, che sia il calcio in bocca ad un maschio violento o i tre giorni di un rave party, è la sospensione del tempo e l’apertura di squarci nel quotidiano dentro la quale sperimentare gioiosamente avventure di libertà reale e collettiva. Chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di sovversione del quotidiano conosce la bellezza di riappropriarsi di una parte di ciò che ti viene sottratto ogni giorno ma soprattutto sa perfettamente che il gesto della rivolta non ha bisogno di nessuna legittimazione o argomentazione, è giusto perché è sempre un atto d’amore spontaneo verso sé stessi e gli altri. Ciò che ci divide dalla possibilità di vivere un gesto rivoluzionario è la difficoltà di scorgerlo quando se ne presenta l’occasione, per il semplice fatto che l’atto rivoluzionario è per definizione qualcosa che nessuno conosce ma che va inventato da zero sul momento. Agire, bucare questo Velo di Maya, questo muro invisibile che divide noi dall’azione, richiede di coltivare una tensione al pensiero rivoluzionario capace di generare un’intuizione, un’idea; che sia quella di infrangere una vetrina o comunicare un pensiero profondo ad una persona in un momento speciale, in entrambi i casi il peso enorme dei dubbi, delle paure e delle abitudini possono facilmente oscurare il rapidissimo lampo dell’intuizione o appesantirlo fino a spegnerlo. È desolante che proprio chi cammina al nostro fianco ed è più intimo a questi pensieri, non dia spazio a tutto questo ma anzi si adoperi attivamente per gettare acqua sul fuoco. Lx “Compagnx” che hanno appreso la militanza come un mestiere, annegatx dentro le ideologie e le strutture verticali, per lx qualx il momento di esprimere i desideri non è mai adesso ma domani, nell’avvenire rivoluzionario che loro stanno costruendo per noi. Si finisce dunque per avere piazze in cui, invece di trovare alleatx, trovi qualcunx che, in perfetto stile “Società dello spettacolo”, mette in scena i tuoi sentimenti al posto tuo, come nel mondo di tutti i giorni; tu rimani in disparte a guardare, a consumare il prodotto e se mai ti venisse in mente di voler anche tu indossare quel casco, armare la tua ira, allora devi prima scalare la gerarchia militante o quantomeno chiedere il permesso. Domandiamoci perché le nostre piazze, anche le più rabbiose a seguito di tragici eventi, si siano ridotte a veri e propri concerti itineranti per la città, nelle mani di qualche microfonatx che ci traghetta nella miserabile esperienza di urlare la nostra rabbia a ritmo di musica e cori esplosivi, circondatx da un cordone di polizia che ci tutela dal mondo reale. Alcuni collettivi, nati dal furore di rivendicazioni incandescenti, si sono ridotti ad un team di organizzatori di viaggi turistici delle ricorrenza di lotta, con le istanze politiche ridotte a badge di riconoscimento e finendo poi, a volte, ad abbassarsi al ruolo di guardie quando qualcunx ha l’ardore di arrabbiarsi davvero invece di godersi il ballo di gruppo. Non c’è da stupirsi poi se, durante i momenti di sommossa questx “Grandi compagnx” restino a braccia conserte mentre bruciano le camionette della Gendarmerie a Saint Soline o sprofondino nel divano quando esplode la rabbia per un ragazzo ucciso dai carabinieri. È proprio questo quello che dovrebbe spaventarci di più, la messa a nudo davanti alla realtà. La prova concreta di non saper affrontare quello che hai scimmiottato per anni, e che ti porterà, inesorabilmente, a mancare il tuo appuntamento con l’Insurrezione, a non saperla riconoscere e soprattutto a non sapere come vivertela, perché ti sei dimeticatx pure cosa desideravi. La lotta anticapitalista non si esaurisce nella giornata di mobilitazione, nell’appuntamento col nemico, ma nella diffusione di comportamenti sovversivi, nella condivisione di spazi di libertà illegale collettivi, dove mettersi alla prova davvero in prima persona, e dove, a volte, poter anche sbagliare ma con la dignità di aver compiuto qualcosa di tuo. Questo può accadere solo tenendo accesa la tensione verso un agire sovversivo, capire cosa significa per noi, riconoscerlo nei gesti altrui e sceglierlo tutti i giorni, dandogli spazio vitale. Imparare a prendersi cura di se stessx e di chi ci sta vicino, decostruirsi, boicottare la linea, perché “Il conflitto non avanza linearmente, per linee di classe o soggetti affinitari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni.”4 «Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario capitalista.» 5 Vivere nella verità L’utilizzo del conflitto simulato, con tutte le sue aberrazioni al seguito, è figlio di un’epoca dove saper vendere la rappresentazione spettacolare di sé stessx è la chiave del successo. La porta d’emergenza per uscire da questo teatro è quella di riconquistare una forza estetica molto più attraente, quella della verità. Mentire su ciò che succede in piazza, esagerare nei comunicati trionfalistici tutti uguali, decuplicare i numeri delle manifestazioni, ripetere come mantra slogan fiammeggianti in piazze finte e costruite; chi pensate di prendere in giro? A rimanere imbrigliatx in questa rete di bugie sono lx numerosx poser, opportunistx e abusers, animatorx di quelle relazioni sociali neutralizzanti che intossicano gli spazi di movimento. A non cadere nella trappola sono invece lx migliaia di possibili giovani ribelli che a ogni spazio non concesso, ad ogni bugia, abbandonano schifatx e delusx la lotta collettiva per chiudersi nell’individualismo ed egoismo capitalista. Invece di sacrificare energie nelle autonarrazioni teatrali è urgente tornare ad agire azione diretta, tornare a rendere le strade cornici di rivolte autentiche, capaci di attrarre almeno una parte di quella tensione che, costretta nel sottosuolo, trema sempre più forte e irrequieta. Sarà stupefacente riscoprire la potenza sovversiva del dilagare della rabbia di moltitudini furiose, per ora ancora sonnecchianti e represse. Con la definitiva approvazione del dl Sicurezza, sotto il cielo più nero degli ultimi ottant’anni, è ora di riscoprire la nostra più feroce voglia di vivere e stare insieme, stringendosi a chi, all’ombra dello show, alleva il dubbio, si prende cura della verità e, in silenzio, affila il coltello. Il più grande pensiero di solidarietà e affetto a Maja e Paolo in sciopero della fame per le brutali condizioni di vita nelle carceri, contro tutte le galere. GIUGNO 2025 -Teppistx, incivili, guastafeste 1 https://www.romatoday.it/politica/intervista-luca-blasi-scontri-no-decreto-sicurezza.html 2 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/ 3 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/ 4 Guy Debord. La società dello spettacolo. Parigi, 1967 5 Marcello Tarì, Il Ghiaccio era sottile – per una storia della Autonomia, Derive e Approdi, 2012, Roma
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