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di tante città, da nord a sud, in proteste autorganizzate online in modo anonimo
e orizzontale…
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: Sulle solite vecchie – amate – questioni(1)
Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e
individualismo (con disimpegno a vista sul nichilismo)
Ci sono questioni su cui si arrovella l’anarchismo che ciclicamente tendono a
tornare. La più classica di queste è l’eterno dibattito su comunismo e
individualismo. Quando parlo di comunismo e individualismo intendo naturalmente
il comunismo anarchico e l’individualismo anarchico. Non aggiungerò sempre
l’aggettivo «anarchico», anzi non lo farò quasi mai per risparmiare parole e
agevolare la lettura. Lo si dia quindi per scontato (oltretutto mi sembra un
buon metodo per impedire la perdita, l’alienazione e l’esproprio di queste belle
parole).
Ed è una fortuna che lo si faccia perché i risultati che raggiunge il dibattito
non andrebbero mai postulati come acquisiti, ma ogni generazione e ogni singolo
compagno dovrebbe ogni volta riconquistarli nella propria formazione.
L’occasione per tornare a parlarne me la forniscono alcune critiche che sono
giunte a un paio di articoli pubblicati nel numero 7 del giornale anarchico
“Vetriolo”, l’ottavo (perché siamo partiti dal numero 0) e ultimo numero che
abbiamo pubblicato. Bene che si sia pubblicato anche questo ultimo numero
nell’estate del 2022, numero successivo all’operazione repressiva che ci ha
coinvolto nel novembre del 2021, perché lungi dal risultare un disperato modo
per dire «non ci farà chiudere la repressione» (per poi chiudere, giusto per
dispetto, dopo un solo altro numero), è invece riuscito a essere un momento di
ricapitolazione e rilancio del lavoro teorico svolto in diversi anni di
pubblicazioni, a tal punto che a oggi continuiamo a ricevere osservazioni e
critiche proprio su articoli di quest’ultima edizione del giornale.
In sintesi negli ultimi mesi sono stati divulgati i seguenti contributi:
* Un testo di Juan Sorroche, scritto dalla sezione AS2 del carcere di Terni
dove si trova recluso, in polemica con l’articolo L’anarchismo rivoluzionario
contro la desistenza, pubblicato sul numero 7 del giornale anarchico
“Vetriolo”: Individualismo anarchico conto comunismo anarchico? Oppure
comunismo anarchico con individualismo anarchico? pubblicato sul numero 15
della rivista anarchica «i giorni e le notti» nel giugno del 2024 (datato
marzo 2024).
* Due nuovi testi, sempre di Juan dal titolo rispettivamente Il mutuo accordo
dell’anarchismo rivoluzionario non-sistemico e Una cattiva interpretazione
del concetto dell’individualismo anarchico, entrambi datati 30/01/2025 e
pubblicati qualche settimana dopo. Come il precedente (al quale, facciamo
ammenda, non avevamo ancora risposto), anche per quanto riguarda i nuovi
contributi trattasi di documenti critici nei confronti dell’articolo
L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza. Possono essere letti a
questo link:
https://ilrovescio.info/2025/03/05/il-mutuo-accordo-dellanarchismo-rivoluzionario-non-sistemico-di-juan-sorroche/
* Nel frattempo sempre in quelle settimane usciva un contributo anonimo dal
titolo Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista”. Evidentemente
una critica al nostro scritto La fase nichilista pubblicato sul numero 7 del
giornale anarchico “Vetriolo”. Il contributo veniva originariamente inviato
in occasione del dibattito previsto a Foligno all’interno del laboratorio
teorico previsto nel programma delle ormai tradizionali iniziative della
“Befana”. Purtroppo però in quella occasione non abbiamo letto l’email in
tempo e non abbiamo potuto discuterne; questa quindi sarà la prima risposta
pubblica al compagno. Successivamente pubblicato anche dai siti internet del
movimento anarchico è leggibile per esempio a questo link:
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/02/06/alcune-considerazioni-critiche-su-la-fase-nichilista/
* Infine, il sito in lingua tedesca https://panopticon.noblogs.org/ ha
recentemente pubblicato la traduzione proprio de La fase nichilista,
introdotta da una breve ma densa nota critica. In italiano è leggibile a
questo link:
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/07/25/breve-introduzione-critica-alla-traduzione-e-pubblicazione-in-lingua-tedesca-dellarticolo-la-fase-nichilista-contenuto-nel-numero-7-del-giornale-anarchico-vetriolo/,
all’interno del quale si possono trovare i collegamenti con l’originale in
lingua tedesca e altre traduzioni (i compagni di panopticon hanno tradotto
anche il documento critico anonimo divulgato a gennaio in italiano).
Ricordo che il numero 7 di “Vetriolo” e diverse delle precedenti uscite sono
ancora disponibili e possono essere richieste a questo indirizzo:
vetriolo@autistici.org.
Più che una risposta lineare – botte e risposte – ai compagni che hanno fatto lo
sforzo di aprire un dialogo e un polemica sulle nostre ipotesi teoriche, quello
che segue spera di risultare come un documento autonomo, disponibile per tutti
quelli che lo reputano utile, di verifica e di aggiornamento delle analisi
all’interno del quale provare a replicare anche alle osservazioni che ci sono
state mosse. Scrive Juan Sorroche di avere utilizzato «lo scritto di “Vetriolo”
come stampella e per così sviluppare le mie idee con più linearità d’analisi e
di critica, più complessive»; dato che è un metodo che condivido – perché a mio
avviso ci permette di crescere ed esplorare più dimensioni, nonché di scrivere
qualcosa di più interessante di una semplice discussione lineare (che può sempre
svolgersi in forma privata) – io farò esattamente la stessa cosa.
Infine mi sembra giusto informare che io sono l’autore de La fase nichilista, ma
non sono l’autore de L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza.
Naturalmente mi assumo la responsabilità e la piena condivisione di fondo di
tutto il materiale pubblicato negli anni su “Vetriolo”, non posso però entrare,
rispetto agli articoli che non ho scritto, su un dibattito troppo tecnico e
bibliografico (per esempio, Juan rimprovera all’autore di non aver davvero letto
l’opera di Armand; su questo ovviamente non rispondo).
Breve storia di una critica al Vetriolo
Un ripasso della storia teorica di “Vetriolo” forse si impone perché almeno un
paio dei cinque contributi critici che abbiamo ricevuto dimostrano di trascurare
o di non conoscere il percorso nel quale sono maturate certe affermazioni,
finendo per equivocarle.
Nei primi numeri “Vetriolo” ci si è concentrati in particolare su un dibattito
che all’epoca tormentava molto l’anarchismo (in particolare quello di lingua
italiana), ovvero l’intervento degli anarchici all’interno delle lotte sociali.
Il dibattito vedeva contrapposte due fazioni: i cosiddetti anarchici sociali e i
cosiddetti anarchici anti-sociali. Già attivo da diverso tempo, all’epoca il
dibattito stava assumendo forme nevrotiche.
Il numero 0 di “Vetriolo” usciva nell’inverno 2017. Su questo scontro tutto
interno all’anarchismo, abbiamo sostenuto quella che potremmo definire una sorta
di rivoluzione copernicana: la questione non è dichiararsi astrattamente
«sociali» o «antisociali», bensì classisti. Gli anarchici dovrebbero dunque
essere scettici verso quelle lotte sociali di tipo interclassista, le lotte
popolari, le lotte ambientaliste, i movimenti di liberazione nazionale, i
movimenti di liberazione delle cosiddette categorie oppresse (scettici non
significa per forza non farne parte); ma non dovrebbero essere estranei alla
lotta di classe, anzi dovrebbero intervenirvi, soprattutto non dovrebbero essere
alieni a una lettura di classe della realtà (la quale piuttosto illumina di una
diversa e più nitida colorazione, anche le lotte sociali generiche). Viceversa
per degli anarchici definirsi antisociali non ha alcun senso, perché tutta la
critica anarchica, l’essenza stessa della tensione anarchica ha a che fare con
una frattura originaria che è intimamente e inestricabilmente sociale.
Pertanto alla dicotomia tra «sociale» e «antisociale» proponevamo di sostituire,
non tanto la fine delle dicotomie, bensì una diversa e radicale dicotomia:
quella tra frontismo e internazionalismo. Laddove l’espressione «frontismo»
indica la strategia messa in atto a partire dagli anni Trenta dello scorso
secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del pericolo fascista e nazista,
ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti, sindacati e altri grandi
organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali diverse. Con la strategia
del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il male assoluto e che
contro questa maledizione la lotta di classe va messa in secondo piano. A
teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati innanzitutto partiti
marxisti di varie colorazioni, stalinisti e socialdemocratici in origine,
seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione del maoismo e del guevarismo che
recuperava le lotte di liberazione nazionale originariamente espressione delle
borghesie dei Paesi oppressi (giusto per ricordare all’ignorante di turno che i
primi ad abbandonare la lotta di classe a favore delle alleanze politiche siano
stati i marxisti e che talune categorie postcoloniali sono molto più
staliniste-maoiste che libertarie).
Col concetto di internazionalismo si intendono invece niente di più – giacché
l’originalità non dovrebbe essere un vezzo – che quei principi espressi
dall’internazionale anarchica nel terzo punto della risoluzione del congresso di
Saint Imier del 1872: «respingendo ogni compromesso al fine di attuare la
rivoluzione sociale, i proletari d’ogni paese devono stabilire, al di fuori di
ogni politica borghese, la solidarietà nell’azione rivoluzionaria». Rifiuto dei
compromessi politici, nessuna alleanza con la borghesia del proprio Paese, ma
solidarietà nell’azione rivoluzionaria fra i proletari di ogni Paese.
L’invettiva dei compagni di panopticon – «La società di classe definisce una
società antagonista inconciliabile, una condizione economicamente imposta che
non rappresenta un’identità; il populismo, invece, unisce (suggerisce questa
unificazione/associazione) e esiste solo come fantastica IDENTITÀ
interclassista» – è corretta ma francamente è inviata all’indirizzo sbagliato.
La vicenda teorica di “Vetriolo” è sin dal concepimento inserita all’interno di
questo orizzonte. Semmai i compagni di panopticon temo che siano vittime di una
particolare paranoia delle parole, una paranoia che troviamo talvolta in alcune
sette – questa volta sì marxiste – ultraminoritarie. Non bisogna avere paura di
bestemmiare la buon anima di Bordiga perché si è usata la parola «popolo» o
«populista», bisognerà pur vederne il contesto. E lo vedremo meglio più avanti,
il contesto.
D’altro canto sono gli stessi Bakunin e compagni che usano l’espressione «Paese»
nel passaggio citato, così come Bakunin parla di popolo in numerosissimi
passaggi (spesso persino in contrapposizione con la classe germanicamente intesa
da Marx come la superiore classe fabbrichista socialdemocratica). E d’altronde
noi siamo internazionalisti, non siamo mica cosmopoliti, postidentitari,
a-nazionali o uccelli migratori (semmai anche questa è una deriva di una certa
estrema sinistra del capitale, dove il cosmopolitismo poi diventa sempre
l’americanizzazione del cosmo). Dunque popoli, nazioni e Paesi esistono – il
mondo è bello perché è vario, diceva mia nonna – semplicemente noi non siamo per
i fronti popolari e nazionali (interclassisti) ma per la solidarietà nell’azione
rivoluzionaria tra i proletari dei vari popoli, nazioni e Paesi del mondo.
Nel frattempo la storia di “Vetriolo”, fortunatamente, è proseguita uscendo da
questo dibattito tutto interno all’anarchismo, assumendone i risultati come
premessa, per affrontare questioni teoriche, analitiche e pratiche più
interessanti. Vado molto velocemente su alcune di queste, non perché non siano
importanti, ma perché ci portano fuori dal presente dibattito. Per esempio sul
lato teorico, per quattro numeri (dal numero 0 al numero 3) si è provata a
sviluppare una teoria anarchica dello Stato, laddove lo Stato veniva visto non
solo come un semplice sistema d’allarme marxiano a difesa della villa dei
padroni, ma come un organismo vivente, il quale emergendo dalla sua funzione di
classe prendeva una propria vita ideologica, simbolica, una propria personalità.
Lo Stato non è il potere in generale, ma potere politico organizzato (la nostra
lotta è quindi una lotta storica, contro un nemico reale e personale, non una
lotta esistenziale contro un metafisico e pertanto imbattibile dominio). Sempre
negli stessi primi quattro numeri un compagno ha abbozzato una controstoria
della sinistra e delle sue infamità controrivoluzionarie, riletta polemicamente
all’interno delle categorie andavamo proponendo. E ancora, abbiamo avuto una
serie di scambi felicemente polemici con un compagno che scriveva articoli su un
altro giornale anarchico, “i giorni e le notti”, intorno alla categoria del
fascio-leghismo (noi eravamo contrari all’uso di questa categoria, scettici
verso la denuncia di una fascistizzazione della società, in generale nemici di
ogni fronte antifascista; ma sto andando davvero troppo veloce, fu un dibattito
lungo e arricchente).
Per tre numeri (dal 2 al 4, 2018-2020) abbiamo sviluppato una serrata,
complicata e coinvolgente discussione epistolare con Alfredo Cospito dal carcere
di Ferrara. Partendo dall’assunto internazionalista, avevamo cominciato a
elaborare in diversi articoli la necessità del passaggio dall’internazionalismo
all’internazionale; quindi della costruzione di una organizzazione specifica
mondiale insurrezionale degli oppressi. Dopo alcuni anni e pagine di discussioni
abbiamo coinvolto anche Alfredo, ponendogli la fatidica domanda: Quale
internazionale? La proposta teorica e pratica di Alfredo è nota – una
internazionale informale, che dialoghi attraverso l’azione, nemica del
capitalismo certo, ma soprattutto della scienza, nichilista e al contempo capace
di risvegliare il mito dell’anarchia vendicatrice – così come sono noti gli
esiti editoriali (ne uscì un libricino delle Edizioni Monte Bove, corredato da
una ricca appendice contenente tra l’altro la cronologia di tutte le azioni
della Federazione Anarchica Informale avvenute in Italia) e soprattutto sono
noti gli esiti giudiziari, nonché la determinazione da parte dello Stato nel
trasferire in 41 bis il compagno proprio per provare a tappargli la bocca.
Ma un giornale come “Vetriolo” era ancora molto altro; abbiamo ricevuto
contributi poetici e artistici, abbiamo pubblicato una serie di articoli solo
apparentemente indipendenti (contro l’ossessione della coerenza, in difesa del
concetto di insurrezionalismo, sulla natura della mafia non come segno di
arretratezza ma come avvenire del capitalismo, sulla repressione) in realtà
espressione di uno stesso progetto editorialmente orientato, così come abbiamo
pubblicato negli anni delle analisi sulla situazione del momento ispirate da
quelle stesse categorie, ancora nell’ultimo numero abbiamo sostenuto una chiara
presa di posizione disfattista e internazionalista sulla guerra mondiale
regionalizzata che si combatte in Ucraina.
L’anarchismo rivoluzionario nella fase nichilista
Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto
riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai
due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In
occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima,
ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di
fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta
ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin,
Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle
frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa
possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la
produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la
lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo
poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato
a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo
occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti,
dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle
politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo
scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla
resistenza.
Quello che ci premeva all’epoca e che mi preme tutt’ora ribadire è che in questo
scontro tra la fazione sovranista e la fazione liberista della borghesia gli
sfruttati non hanno amici. Prima ancora della guerra guerreggiata, noi già
proponevamo il disfattismo rivoluzionario nella guerra mondiale ideologica tra
sovranisti e liberisti. Prevedevamo che purtroppo gli sfruttati sarebbero
rimasti estremamente confusi e che per molto tempo il clima generale sarebbe
stato molto sfavorevole ai rivoluzionari. E che gli stessi militanti antagonisti
si sarebbero lasciati incantare dalle sirene delle varie fazioni, come purtroppo
è successo e sta ancora succedendo. (Cfr. Nazionalismoduepuntozero. Dodici
ipotesi su robotica, crisi della globalizzazione e «ritorno» dello
Stato-nazione, in “Vetriolo” n. 3, inverno 2019; d’ora in avanti verrà nominato
con l’espressone le «dodici ipotesi»).
Il concetto di fase nichilista e il concetto di anarchismo rivoluzionario
nascono qui.
La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo
momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è
inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi
stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un
parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come
una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale.
Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua
espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza
di massa contro lo sviluppo scientifico.
L’anarchismo rivoluzionario è per certi aspetti un altro lato del problema, per
altri aspetti è la soluzione (si spera) del problema. Si tratta di un approccio
all’anarchismo all’interno del quale non si rifiuta aprioristicamente un
atteggiamento strategico alle questioni sociali. Un anarchismo quindi capace di
manovra, di progetto e di tattiche mutevoli atte alla realizzazione del proprio
progetto. Questo avviene, come ha spiegato con una felice sintesi l’autore
dell’omonimo articolo, attraverso il passaggio, nel nostro modo di agire,
dall’azione per l’azione all’azione nella strategia. L’anarchismo rivoluzionario
è quindi sia uno strumento all’interno della fase nichilista, che soffia sul
fuoco della negazione, sia il suo superamento, perché all’interno della rivolta
irrazionale interviene strumentalmente con un progetto razionale. Quindi non
solo i due articoli andrebbero letti come complemento della storia teorica di
“Vetriolo”, ma andrebbero anche letti in maniera complementare essi stessi.
Non voglio risultare pedante e rimproverare ai critici di «non aver studiato» –
anzi li ringrazio per aver letto e commentato qualcosa di quello che abbiamo
scritto. Semplicemente se non si tiene a mente questo percorso – nello
specifico, che la fase nichilista era una delle «dodici ipotesi» del 2019 –
possono generarsi fraintendimenti.
Per esempio, nel testo anonimo Alcune considerazioni critiche su “La fase
nichilista” si afferma: «va detto che Vetriolo non dice nulla di nuovo, anzi
arriva in ritardo rispetto a certe riflessioni teoriche prodotto a cavallo tra
la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta nell’ambito della
critica radicale». Sinceramente la critica non mi tange. In primo luogo perché,
come dicevo, non ho il vezzo dell’originalità. Non mi interessa dire delle cose
originali, ma mi interessa cercare di comprendere le cose come stanno. In
secondo luogo, perché essere paragonato alla critica radicale mi sembra un
generoso complimento.
Nondimeno in questa affermazione c’è un equivoco innanzitutto storico. Oggi
abbiamo a che fare con delle differenze fondamentali in ordine di dimensione e
di collocazione politica del fenomeno.
Di dimensioni, perché il nuovo proletariato eccedente conta i suoi membri
nell’ordine di centinaia di milioni, forse di miliardi di esseri umani: quello
che succede a Gaza è (almeno sul piano quantitativo) molto di più di una rivolta
del ghetto e della sua feroce repressione poliziesca. Di collocazione politica,
perché per quanto lo si possa negare con le parole è evidente che quel tipo di
rivolte di cui parla l’anonimo interlocutore avevano in qualche modo qualcosa da
dire a un certo mondo di sinistra: un riot di neri, la rivolta di Stonewall ci
parla di qualcosa che il mondo della sinistra radicale è in fondo disponibile ad
ascoltare (fino al punto di trasformarsi in sinistra delle minoranze); lo stesso
ascolto quella sinistra non lo sa dare alla proteste no vax e antiscientiste. I
malumori irrazionali della working class bianca, etero, ecc., (che in Occidente
va a comporre la massa umana largamente maggioritaria dentro l’irrazionale
dispiegarsi della lotta di classe sotto le vesti delle pulsioni nichiliste) sono
anzi disprezzati da certi critici-radicali-universitari, e vengono regalati al
consenso della destra.
Vi è poi una differenza economica e sociale impressionante rispetto alla seconda
metà del Novecento: all’epoca l’economia era in espansione e le rivolte
irrazionali, come ha efficacemente sintetizzato Bonanno, erano rivolte degli
esclusi, espulsi dal circuito del benessere; oggi, viceversa, l’economia è in
contrazione e gli esclusi stanno diventando la maggioranza, con la
proletarizzazione delle cosiddette classi medie.
La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale
il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del
capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di
espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo
interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta,
«ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni
Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno
storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato
(peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di
«delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto
con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore
compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere
brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la
quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la
democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista,
viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe.
Oggi viviamo in un contesto storico nel quale, per fare un esempio perturbante,
sulla guerra in Ucraina ci ritroviamo più vicini al programma di Alternative für
Deutschland che a quello dei socialdemocratici. O per fare un esempio ancora più
sconvolgente, oggi siamo nell’epoca nella quale il più grande sciopero degli
ultimi anni nell’industria dell’automobile nordamericana – uno sciopero a
oltranza, a scacchiera, distribuito sul territorio colpendo stabilimenti che
producono componenti fondamentali, riscoprendo dunque il vecchio sciopero
fordista ma in una dinamica di distribuzione e parcellizzazione della produzione
– viene diretto e guidato alla vittoria contro i capitalisti da un gruppo di
operai che, pochi mesi dopo, durante la campagna elettorale, darà vita a un
comitato dal nome eloquente di «Workers for Trump». Questa è la fase nichilista.
Il nichilismo è un metodo, non è una cosa (e il populismo è suo papà)
Ma c’è un’altra differenza tra la proposta di “Vetriolo” e quella di precedenti
teorici delle rivolte irrazionali: per decenni vari, differenti e per alcuni
versi opposti contesti teorici quali la critica radicale, il complesso teorico
Focault-Agamben, il postmodernismo, buona parte dell’insurrezionalismo in
qualche modo li ritroviamo accumunati dal fatto di aver trascurato il momento
del rovesciamento; concentrandosi sulla dissezione critica, sull’archeologia del
dominio, sulla decostruzione, sull’azione da fare nel presente (il motto del
«qui e ora»). Giustamente sfiancati da decenni di messa salmodiata sulle note di
una versione banalizzata della dialettica hegelo-marxista, ci hanno precipitati
più o meno consapevolmente in una sorta di criticismo infinito. Ovvero in una
serie di filosofie sul metodo e mai sulla sostanza: il metodo della
decostruzione, quello dell’archeologia del dominio, quello insurrezionale.
Se prendiamo il famigerato motto focaultiano per cui «Là dove c’è potere c’è
resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in
posizione di esteriorità rispetto al potere. [… I rapporti di potere] non
possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i
quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio,
d’appoggio, di sporgenza per una presa» (Cfr. Archeologia del sapere), ci
rendiamo conto che in questa filosofia la rivoluzione è impossibile: potere e
resistenza sono due schemi trascendentali di quella sorta di gigantesco Io
kantiano che è diventata per queste teorie la coscienza collettiva, quindi non
ci sarà mai la «vittoria» della resistenza e la distruzione del potere, in
questa proposta filosofica e politica essi sono co-necessari.
Eppure, anche se prendiamo il primo numero di una rivista che ha profondamente
influenzato la nostra storia come «Anarchismo» vi possiamo leggere un articolo
di Alfredo Bonanno, si potrebbe dire di presentazione e di programma, nel quale
fra le altre cose si afferma: «L’uso della ragione, donde è possibile parlare di
materialismo, può essere fatto in senso dogmatico (assolutista) e in senso
critico (non dialettico). In quest’ultimo senso, che è poi quello che ci
interessa, possiamo dirci razionalisti, non dialettici, critici, pluralisti,
volontaristi; in quest’ultimo senso la volontà (irrazionale) coglie il momento
positivo della ragione (razionale) e determina la forma storica (materiale),
senza esservi costretta da un modello prefissato (dialettico)» (Cfr. A.M.
Bonanno, Crisi economica e possibilità rivoluzionarie, in «Anarchismo» n. 1,
1975, p. 4).
Se all’epoca queste affermazioni hanno aiutato il movimento anarchico a evadere
dal conformismo di una cattiva dialettica, oggi dobbiamo fare lo sforzo di
evadere paradossalmente dal conformismo neo-kantiano nel quale siamo arretrati.
I discorsi della nostra area sono troppo spesso panegirici sui presupposti
trascendentali dei modi di intervenire sulle cose, senza mai parlare della Cosa
stessa.
Mi spiego con degli esempi concreti: l’ipotesi organizzativa tracciata negli
anni da «Anarchismo» (nuclei di base, gruppi d’affinità, organizzazione
informale) virtualmente può essere utile per la lotta a Comiso degli anni
Ottanta, come può essere utile per una campagna per convincere la NATO a
intervenire direttamente in Ucraina, o viceversa per una campagna per sostenere
il disfattismo rivoluzionario in Ucraina. Da solo quel pacchetto non ha
contenuti, ci parla solo di metodologia (si può ovviamente muovere le stesse
obiezioni all’organizzazione proposta da Cospito in Quale internazionale?).
Questo accade perché quella proposta è una proposta trascendentale di metodo
(può essere applicata a diverse situazioni).
Al contrario proporre un discorso nel quale si affermi che – per esempio –
quando c’è una guerra fra Paesi capitalisti bisogna disertare il fronte, lottare
contro ogni Stato a partire dal proprio, per trasformare la sconfitta del
proprio Stato in una chance rivoluzionaria e poi, dentro questa rivoluzione,
lottare per il comunismo in economia e l’anarchia politica, si propone un
discorso nel quale si intravedono percorsi per rovesciare la realtà (il metodo
non scompare, ma è utilizzato per trasformare le cose; non è un metodo della
ragion pura, ma è sporcato di realtà).
Su questa questione mi ritrovo d’accordo col nostro critico e mi dispiace se non
mi sono spiegato bene. Se la domanda fondamentale che ci pone è: «Ma le rivolte
e la fase nichilista di cui Vetriolo parla, questa “passione degli sfruttati” è
semplicemente una reazione di massa alla svolta tecnototalitaria o una negazione
radicale di un’organizzazione sociale di cui lo sviluppo scientifico, per quanto
pervasivo nelle sue applicazioni, rimane un mezzo e non un fine in sé, volta
alla messa a valore, e dunque al controllo e alla prevedibilità, di ogni aspetto
della vita dei proletari?» Pure io «opterei per la seconda ipotesi», a patto che
non scambiamo il nostro desiderio con la realtà, ovvero cercando un modo per
fare sì che «il momento della rivolta senza senso diventa [diventi, purtroppo il
congiuntivo è d’obbligo!] il momento della disarticolazione di questa
organizzazione nei suoi spazi, tempi, mezzi riti e miti».
Perché questo nostro intervento possa almeno un minimo contribuire in tale
direzione, bisogna però passare dal discorso sul metodo all’utilizzo del metodo
per cambiare la sostanza. D’altro canto, ha ragione il nostro critico, anche la
scienza è un metodo del capitale e non certo una potenza ontologica come
nell’ultimo Heidegger (e sembra, anche nell’ultimo Bonanno di «Negazine»).
Questo stesso discorso va applicato, più in grande, alla categoria di nichilismo
e alla fase nichilista che viviamo in questa stagione storica. Il nichilismo non
è una Cosa, ma è un metodo. Il più importante esempio di movimento nichilista –
quello dal quale, per forza di importanza e suggestione storica, tutti gli altri
bene o male prendono ispirazione – lo troviamo nell’impero zarista nella seconda
metà dell’Ottocento.
Voglio tornarci ancora una volta su questa storia, perché mi aiuta a rispondere
alle critiche di panopticon sull’utilizzo del termine «populismo» per il quale
ci siamo presi un rimprovero nella loro introduzione critica. Il movimento di
cui sto trattando attraversa almeno tre generazioni. La prima generazione era
composta da giovani delle classi colte ed europeizzate i quali, col motto di
«andare al popolo» (i populisti, appunto) si riversarono nei villaggi desolati
per spiegare ai servi come sarebbe stato meglio vivere senza padroni, senza Zar,
proprietari essi stessi dei mezzi di produzione, decidendo le questioni
fondamentali in assemblee democratiche territoriali. Il risultato di questo
tentativo utopico fu che una buona parte di quei giovani idealisti finirono
ammazzati dagli stessi contadini, linciati in dei pogrom istigati dal clero,
additati come agenti del demonio.
Per reazione di fronte a questa catastrofe nacque il nichilismo. Ora non
bisognava più parlare al popolo, ma esprimere la propria rabbia nichilista con
bombe e attentati. Il più famoso di questi fu l’uccisione dello Zar Alessandro
II, avvenuta il 13 marzo 1881 a San Pietroburgo. Paradossalmente, proprio coloro
che meno erano interessati a parlare al popolo ottennero il massimo del consenso
popolare. Quella generazione venne perlopiù distrutta dalla repressione, ma
generò come seguito politico la nascita del socialismo rivoluzionario.
I socialisti rivoluzionari russi (la terza generazione) furono un partito
terrorista di massa (oggi mi verrebbe di paragonarlo mutatis mutandi ad Hamas),
socialista, non marxista, a base contadina; più che una sintesi, una vera e
propria sommatoria di populismo più nichilismo. Il loro consenso fu talmente
vasto che furono loro a prendere per qualche mese il potere, dopo la rivoluzione
del marzo 1917 (cosiddetta rivoluzione di febbraio). Il loro metodo rimase
l’azione diretta rivoluzionaria e le esecuzioni politiche anche dopo la
rivoluzione; nel loro seno matura l’attentatrice che, ancora nell’agosto del
1918, cercò di assassinare Lenin accusato di aver tradito la rivoluzione
democratica socialista con mezzi autoritari.
Ai compagni di panopticon io vorrei dire questo. Noi potremmo passare il nostro
tempo a scrivere delle riviste anarco-bordighiste, con delle categorie classiste
e internazionaliste perfettamente coerenti. Sicuramente ci troveremmo d’accordo
su tutto e potremmo anche farle insieme queste pubblicazioni. Sono sicuro che ci
divertiremmo un casino, potrebbe essere un’alternativa più salutare dell’LSD. Ma
questo non ci aiuterebbe a spostare di un millimetro la realtà.
Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si
consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che
dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la
nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario
del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina
che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla
realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e
non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui
essa si esprime a livello di massa in Occidente.
Volando un po’ più bassi, panopticon trascura la situazione particolare italiana
nell’anno 2022, quando uscì quell’articolo. Avevamo all’epoca il governo di
Mario Draghi, ovvero il grande esperimento controrivoluzionario (riuscito,
purtroppo) del Governo di Unità Nazionale. Bisogna capire che il governo di
Unità Nazionale è stato molto di più di un semplice governo di grossa coalizione
alla tedesca. Non era solo l’unità dei partiti politici in parlamento, ma vedeva
al suo interno esponenti di Confindustria e dei sindacati, ambasciatori,
economisti, scienziati e persino generali dell’esercito, aveva il consenso
dell’UE, della NATO, del Vaticano. Con le forze esterne al parlamento che davano
esse stesse un contributo all’Unità Nazionale sospendendo gli scioperi (nel caso
dei sindacati), sospendendo le manifestazioni di piazza per evitare il contagio
del virus (nel caso delle aree antagoniste). Si tratta del governo che ha
gestito l’uscita dall’emergenza pandemica manganellando gli operai, decuplicando
gli infortuni sul lavoro, togliendo il blocco ai licenziamenti che era stato
introdotto nelle leggi emergenziali precedenti, traghettando l’Italia nella
guerra in Ucraina e mettendo Alfredo Cospito in 41 bis.
Il governo di Unità Nazionale di Mario Draghi è qualcosa che merita di essere
studiato meglio, dedicandogli una ricerca apposita. Credo che questa formula
politica potrebbe venire replicata nei regimi democratici in crisi: in effetti
dalla Germania all’Inghilterra alla Francia sempre più la borghesia cerca di
risolvere la propria incapacità di governare con esperimenti di fronti
parlamentari allargati; anche se il governo di Unità Nazionale rappresenta un
passo ulteriore rispetto a queste formule, è unità sociale e non solo
parlamentare, presto il modello italiano potrebbe ispirare questi Paesi e la
Germania ho la sensazione sia la candidata numero 1 su questa strada.
Nel 2022 il fronte popolare esisteva già, esso era il governo del Paese. Non era
solo popolare, era un fronte popolare e delle élite, clericale e scientifico,
industriale e sindacale, civile e militare. Pertanto stare col «populismo» per
noi significava non certo costituire un fronte nazionalpopolare, che esisteva
già e stava al governo, ma cercare qualche compagno di viaggio tra quei pochi
raminghi fuori da quel maledetto fronte. Questa era quel poco di farina di cui
disponevamo per il nostro pane.
Il comunismo non è la socializzazione delle mutande e dei calzini, ma “a ognuno
secondo la sua taglia”
Tornando alla nichilismo per antonomasia, quello russo. I socialisti
rivoluzionari russi in fondo, a dispetto del nome e a dispetto delle pratiche (a
proposito del luogo comune insurrezionalista per cui le pratiche da sole bastano
a distinguere il grano dal loglio – purtroppo non è così), furono dei
riformisti. Lo furono in principio e lo furono anche alla fine. Anzi, peggio,
alla fine furono dei traditori: preso il potere proseguirono la guerra al fianco
delle potenze dell’Intesa, sfiancando il Paese, spingendolo a una nuova
rivoluzione.
Che significa tutto questo? Significa che il metodo nichilista da solo non
basta. Bisogna capire quale è il nostro fine. Così siamo giunti finalmente alla
questione del comunismo.
Per proseguire la trattazione mi faccio ora aiutare dalle critiche che abbiamo
ricevuto da Juan Sorroche nei tre suoi preziosi articoli. Nel primo di questi
Juan scrive che «nell’individualismo anarchico economico» avviene che «sia il
prodotto che gli strumenti di lavoro rimangono all’individuo, e solo lui decide
se metterli in comune con quanti si associano all’interno di gruppi di
affinità», pertanto «è il produttore che gestisce tutto, senza nessun
intermediario», a differenza che nel comunismo: «l’individualismo anarchico è
contrario al comunismo, e vi scorge un pericolo autoritario».
Bisogna dire, a onor del vero, che il comunismo anarchico è sempre stato fondato
sul concetto di volontarietà. Da parte anarchica è sempre parlato, sin dalla
Prima Internazionale, di associazione volontaria dei produttori. E ancora oggi,
dopo secoli, la versione italiana dell’inno L’Internazionale (che genericamente
viene considerata una canzone dei partiti politici comunista e socialista) per
la verità nella seconda parte recita «fratelli tutti, e se vogliamo, nella
famiglia del lavor».
Dunque la volontarietà è alla base di ogni autentico comunismo, quando questa è
stata superata con le collettivizzazioni forzate (come in Unione Sovietica),
ogni residuo barlume di economia comunista si è spento e sono state riprodotte
le dinamiche del capitalismo: salario, governo della forza lavoro, turni di
lavoro, espropriazione di plusvalore, ecc.
Ma non voglio aggirare la critica di Juan con una puntualizzazione formale (per
quanto, su questo argomento, la forma è quanto mai sostanza!). Veniamo
all’essenza della questione. Cosa significa comunismo? Quella comunista è
l’economia dove le persone producono secondo le loro possibilità e ricevono
secondo i loro bisogni. Ancora una volta dobbiamo distinguere il mezzo dal fine:
persino la proprietà collettiva è un mezzo in questa definizione, il fine è che
ognuno riceva secondo i propri bisogni. Anche comunisti autoritari come Marx ed
Engels affermano nel Manifesto che è una calunnia quella secondo la quale i
comunisti vorrebbero l’abolizione della proprietà privata; in verità, essi
vogliono semplicemente l’abolizione dei rapporti di proprietà privata
capitalistici.
Detto in parole semplici, il comunismo non è una comune hippy dove tutto è di
tutti, pure le mutande e i calzini (probabilmente sporchi, perché nessuno ha
voglia di lavorare). Il comunismo non è che una compagna viene a casa mia, mi
prende in prestito un libro che mi aveva regalato nonna e poi lo spedisce a un
carcerato (che poi avevi detto che me ne avresti rubato un altro, sto ancora
aspettando). Comunismo è che la tipografia e la fabbrica di biancheria producono
quello che serve e le persone se lo prendono in base ai loro gusti, bisogni… e
misure. E ovviamente non esisteranno le galere. Naturalmente, affinché tutti
abbiano il libro che vogliono, le mutande che gli stanno bene e i calzini che
non puzzano occorre che ciascuno, secondo le proprie possibilità, lavori in
tipografia, distribuisca le mutande o lavi i calzini.
L’economia comunista è la più naturale, essa già avviene da sempre nella
riproduzione della specie: un neonato ha solo bisogni e riceve unicamente, e
così via nelle generazioni successive, la «restituzione» non avviene nemmeno
nello stesso spazio-tempo. Ma l’economia comunista è anche la più umana, il più
alto gradino etico raggiunto dalla cultura economica del genere umano (una nota
per panopticon, nel mio articolo con «cultura» intendevo tutto ciò che non è
natura, quindi la polemica era coi primitivismi, perché a mio avviso serviranno
ancora le lavatrici e le tipografie per soddisfare i nostri bisogni, per
rimanere nell’esempio di cui sopra; forse c’è un errore nella traduzione perché
su questo avete completamente frainteso).
Ora paragoniamo questo modo veramente umano di vivere insieme con la proposta di
economia individualista anarchica suggerita da Juan sulle tracce di E. Armand.
Per farlo utilizzerò una di quelle odiose categorie di cui si riempiono la bocca
gli attivisti oggigiorno, a loro volta imboccati dall’immondizia culturale delle
università nordamericane; la categoria di «abilismo». Peraltro una categoria
utilizzata per giustificare, negli scorsi anni, le leggi liberticide ai tempi
del Covid-19. Perché avere paura della morte è cosa sana, smettere di vivere per
paura di morire è patologico, ma pretendere che tutti smettano di vivere per la
propria paura di morire, questo è odioso. Davvero una gestione stalinista,
verrebbe da dire una collettivizzazione forzata dei problemi di salute di alcuni
a danno della libertà di tutti. A dimostrazione di quanto dicevo all’inizio,
ovvero che le narrazioni sulle nuove oppressioni di tipo non classista derivano
molto di più dall’antico tradimento stalinista-maoista della lotta di classe
piuttosto che da posizioni libertarie (con il correlato linguistico di
decolonizzazione, fronti di liberazione… nazionale/animale/sessuale/ecc.).
Ma lasciamo perdere tutto questo e prendiamo per buona la categoria di abilismo,
così ci facciamo capire anche dai giovani attivisti di oggigiorno. In una
economia comunista, dove tutti ricevono secondo i loro bisogni, anche chi non ha
(per età, per attitudine, per disabilità) la possibilità di produrre il
necessario per vivere, riceve comunque quanto gli abbisogna. In senso stretto,
non esisterà più nemmeno la disabilità, perché ciascuno è in grado di dare
qualcosa alla collettività e non necessariamente su un terreno materiale (può
raccontare storie, donarci un sorriso, dare consigli, può dare un contributo
culturale, ecc.). Ecco perché è solo la questione di classe a illuminare di più
chiara colorazione e quindi a risolvere anche le altre oppressioni: in questo
caso, semplicemente, la linea di faglia dicotomica intorno alla disabilità
scompare, perché nel comunismo tutti sono abili a dare quello che possono dare e
ciascuno riceve in base al bisogno, non in base alla propria abilità (lo stesso
ragionamento si applichi alle altre oppressioni).
Prendiamo ora la proposta economica individualista anarchica. Dove ognuno
produce per sé e si associa alla bisogna. Un disabile, un bambino, un anziano in
questa economia semplicemente muore. Oppure deve ridursi alla carità, deve
sperare nel dono degli individui che egoisticamente godono nel donare. Non si
può avere il diritto di stare antipatici a tutti, di non avere amici. O forse,
per evitare questa catastrofe umanitaria, si andranno necessariamente a
riprodurre delle istituzioni: per esempio un questua di compagni che chiedono
benefit per i problemi sociali, che si fanno essi stessi agenti di welfare,
riproducendo lo Stato e il fisco. Naturalmente si lavorerà tutti molto di più,
perché lavorare in maniera associata notoriamente riduce le tempistiche del
lavoro. E ancora – giacché nessuno è in grado di produrre tutto – dopo il lavoro
si dovrà andare al mercato a scambiare i prodotti, a litigare sul loro valore,
insomma si ritornerebbe schiavi della tirannia della domanda e dell’offerta.
Io credo che questa proposta sia una bestialità; di più io credo che questa sia
già la barbarie in cui viviamo oggi. L’individualismo economico c’è già, si
chiama capitalismo. Peraltro anche questo capitalismo utopico, nel quale non ci
sono lavoratori dipendenti, durerebbe cinque minuti, perché chi non riesce a
sopravvivere ben presto dovrà vendersi a chi gli offre qualcosa.
Allora aveva proprio ragione Malatesta: l’unico modo per avere l’individualismo,
un individualismo autenticamente anarchico, dove ogni individuo ha i mezzi
disponibili in un’epoca storica per realizzarsi, è soltanto all’interno di
un’economia comunista.
Ovvero ha ragione Juan: sì occorre il comunismo con l’individualismo, ma bisogna
specificare la dinamica di questa comunione: è la premessa realizzazione dei
bisogni di tutti che permette il conseguente libero sviluppo individuale. Cioè,
detto in parole semplici, non è necessaria la socializzazione di tutta la vita
produttiva, questa stessa pratica di per sé è ancora solo un mezzo; quello che è
necessario è che ognuno abbia quanto gli abbisogna; per raggiungere questo fine
altamente etico a mio avviso si possono anche cercare una pluralità di percorsi:
aziende familiari e cooperative, comuni e socializzazioni, mi vanno benissimo
anche i mezzi di produzione individuale che piacciono più a Juan. Non mi
fossilizzerei dogmaticamente su questi che sono solo strumenti. Beninteso, però,
che il fine deve essere la soddisfazione dei bisogni di ciascuno, se alcuni di
questi strumenti si dimostreranno un intralcio alla realizzazione del fine i
rivoluzionari devono avere la prepotenza necessaria a spazzarli via.
La tortura continua (con un escursus di filosofia medievale)
Per riuscire a scacciare anche l’ultimo lettore rimasto, adesso mi metto pure ad
aprire un parentesi niente meno che di filosofia medievale. La questione
d’altronde è interessantissima: la teoria delle essenze. Da un po’ di tempo nei
circoli politicamente corretti va di moda dire di qualcuno che è un
«essenzialista» un po’ come nel medioevo si dava dell’epicureo, un sinonimo di
stronzo. Dobbiamo questa degradazione dell’essenza al motto esistenzialista di
Sarte: l’esistenza precede l’essenza.
Ma allora, dobbiamo preoccuparci se ci danno degli «essenzialisti»?
Dipende. Da cosa dipenda ci può aiutare a capirlo, appunto, la filosofia
medievale. Nel violento scontro tra tomisti e francescani verso la fine del XIII
secolo – segnatamente nelle figure di Egidio Romano ed Enrico di Gand – i temi
di essenza e sostanza sono stati abbondantemente agitati, armati come una clava
tra le due fazioni.
La posizione dei neoplatonici, dei francescani, degli agostiniani, insomma di
Enrico di Gand è che tra essenza e sostanza, c’è una distinzione/identità
intenzionale. Significa che Dio pensa eternamente le essenze e che con la sua
volontà, intenzionalmente, le fa esistere, cioè dona ad alcune di esse, per un
certo tempo, l’essere, le riempie di sostanza. Il rimando è ovviamente a
Platone, le essenze sono le Idee (con l’aggiunta che queste sono pensate
eternamente da Dio) e il creato sono le essenze dotate, intenzionalmente, di
sostanza.
La risposta dei tomisti, invece, per intervento di Egidio Romano, è che tra
essenza e sostanza c’è un’identità reale. Significa che esse non sono pensate
eternamente da Dio, ma radicalmente create dal nulla (accusando gli
essenzialisti platonici di negare il creazionismo); e che quando sono infine
create, le cose sono immediatamente composte di essenza ed esistenza. Essenza e
sostanza sono sinonimi. Qui il rimando è a un Aristotele riformato.
Perché tutta questa rottura di coglioni? Perché, lo devo confessare, non ce la
faccio più a vivere nell’ombra, devo fare coming out… ebbene si, io sono un
essenzialista. E pazienza se verrò crocifisso in sala mensa come Fantozzi,
pestato dagli assistenti professori precari e preso a cancelletti in faccia
dagli attivisti della cancel culture. Il problema è che questi professorini
mistificano le cose per mettere nello stesso calderone tutti coloro che non la
pensano come loro (Riduci la realtà alla lotta di classe? Sei tacciato di
essenzialismo di classe. Vuoi difendere la natura? Sei accusato di
bioessenzialismo, ecc., ecc).
Allora spieghiamoci bene.
Io non sono un essenzialista platonico o agostiniano e meno che mai francescano.
Sono un essenzialista nel senso materialista del termine: per me l’essenza delle
cose non è una misteriosa loro recondita verità, ma è la loro sostanza.
D’altronde questa critica delle essenze e delle sostanze di cui tanto vanto si
fa il pensiero debole contemporaneo, proviene da un percorso più antico – più
che compatibile, direi proprio essenziale – del pensiero dominante. Nel suo
Dialogo sopra i massimi sistemi Galileo Galilei conduce un attacco spietato
contro le sostanze naturali. Sostiene il grande scienziato che «o noi vogliamo
specolando tentar di penetrar l’essenza vera e intrinseca delle sustanze
naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro
affezioni». Ma la conoscenza dell’essenza delle sostanze naturali viene
dichiarata impossibile tanto «nelle prossime sustanze elementari che nelle
remotissime e celesti», mentre, al contrario, se noi «vorremmo fermarci
nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter
conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che nei prossimi». Non
dobbiamo quindi cercare l’essenza della natura, ma accontentarci di studiarne
«il luogo, il moto, la figura, la grandezza». (Cfr. Opere, vol. V, p. 187).
Insomma per la scienza moderna bisogna rinunciare a conoscere le essenze,
accontentandoci di conoscere criteri superficiali di tipo quantitativo intorno
alle cose. Si tratta di una posizione profondamente anti-materialista, io
definisco quello della scienza moderna un «anti-materialismo scientifico»; non a
caso l’apice della scienza moderna è il nucleare, vero e proprio orrore contro
la materia fino ai suoi elementi più sacri e inviolabili (l’atomo di Democrito).
Quindi la critica della conoscibilità qualitativa delle sostanze è un pensiero
fondativo della scienza moderna. Un certo anti-essenzialismo dei movimenti
contemporanei è ben compatibile con questo pensiero dominante.
Con Juan io credo che ci sia un fraintendimento di questo tipo. Juan sembra
essere tutt’altro che un essenzialista (potrei sbagliarmi, ma il suo anarchismo
non sistemico come lo definisce lascia apparentemente questa sensazione di
alterità rispetto a ciò che è metafisico, sostanziale, sistematico, essenziale).
Sembra dirci talvolta – mi perdoni la banalizzazione – che ci sono dei gran
bravi compagni individualisti e ci sono dei riformisti anche tra i comunisti
anarchici. Ma questa cosa noi non l’abbiamo mai messa in discussione! Noi
diciamo che una certa posizione teorica (indifferenza verso l’analisi della
realtà, disprezzo della lotta di classe, orrore verso ogni forma di pensiero
strategico, individualismo intellettuale e bibliotecario, regressione del
proprio intervento a problemi esclusivamente interni del movimento) conduca
essenzialmente al riformismo e alla desistenza.
Non si tratta di seguire un criterio di «maggioranza» come scrive Juan (peraltro
oggi la maggioranza dei compagni è tutt’altro che
anarco-comunista-insurrezionalista, magari!), ma di sostenere, dal nostro punto
di vista, che ovviamente è del tutto discutibile, la natura riformista di certe
posizioni. Che esse sono sostanzialmente riformiste – al di là dei casi
particolari, al di là del criterio quantitativo; non conta se esse siano
maggioritarie o meno, la critica è più profonda, è riformista il nocciolo
essenziale di quelle posizioni.
Torniamo quindi ad Armand. Il problema qui non è che Armand abbia detto sia
delle cose fighe sia delle cose riformiste. La questione è che l’autore
dell’articolo L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza sostiene che
l’approdo riformista sia in qualche modo essenziale, conseguente alle premesse
teoriche del suo pensiero, sia la sostanza del pensiero di Armand.
Scrive Juan:
«E. Armand lo scrive molto chiaro: non esclude, come vediamo nella frase sopra,
né il rivoluzionario né “l’attentato” e “l’attentatore individuale”, né
“l’espediente ‘illegalista’” né qualsiasi mezzo-metodo, anche violento, come
insurrezioni e rivoluzioni, che sia consono alla prospettiva dell’individualismo
anarchico. Certo, sì!, include anche il pacifismo, “la resistenza passiva” come
“tattiche rivoluzionarie”. E anche crede nelle rivoluzioni pacifiche; io penso
che le preferisce, con l’astensionismo. Con l’educazionismo, che ogni
individualità prenda coscienza libera e autonoma e che sarà così consapevole per
affrontare una rivoluzione di braccia incrociate generale e lo Stato e qualsiasi
autoritarismo di fronte a ciò sarà più incapace di affrontare. Ma attenzione!
Perché include tutte queste cose nell’insieme della prospettiva
dell’individualismo anarchico. Certo ha la sua preferenza, come le abbiamo
tutti».
In realtà stiamo dicendo quasi la stessa cosa. Quello che si sostiene in più
nell’articolo di “Vetriolo” è che le posizioni pacifiste, educazioniste, ecc.,
sono essenziali, sono la sostanza più intima di un certo modo di intendere
l’individualismo. Ma forse è proprio l’espressione «individualismo» a portarci
fuori strada. A noi l’individualismo piace. Poiché in fondo il vero
individualismo lo si può raggiungere solo in un’economia dove ciascuno ha
secondo i propri bisogni, oltretutto da sempre l’azione diretta individuale e la
propaganda col fatto sono pratiche dei comunisti anarchici. Insomma come diceva
Malatesta, tutti gli anarchici sono comunisti e individualisti. Il nostro vero
obbiettivo polemico era (e rimane) contro l’educazionismo dei nostri giorni,
contro chi si dice troppo individualista per parlare di rivoluzione (finendo
dialetticamente per ritrovarsi riformista).
Stirner padre del sindacalismo
Scrive ancora Juan, nel suo contributo più recente, parlando di desistenza e
resa interclassista: «Questo è successo e succede solo esclusivamente allo
sviluppo dell’individualismo anarchico?». Non è forse vero che larga parte della
desistenza «non arrivi soprattutto dal comunismo-anarchico rivoluzionario?»,
«Oppure dall’anarchismo-sindacalismo, anch’esso in gran parte comunista
rivoluzionario?».
Il nocciolo della questione l’ho affrontato nel precedente paragrafo: noi non
diciamo che tutti i comunisti siano rivoluzionari e tutti gli individualisti
riformisti, noi diciamo che essenzialmente riformiste sono le traiettorie
fondamentali di certe posizioni. Qui voglio soffermarmi su quello che
apparentemente sembrerà un dettaglio. L’anarco-sindacalismo, secondo Juan,
sarebbe in gran parte comunista. Sembrerà un dettaglio, ma credo che affrontando
questo argomento potremmo sciorinare meglio la questione dell’individualismo,
dell’egoismo stirneriano, e del comunismo malatestiano cosiddetto
volontaristico. Infatti io ritengo che il sindacalismo rivoluzionario in
generale (non solo anarchico, penso per esempio a Sorel) sia una derivazione
diretta del pensiero di Max Stirner e abbia poco a che fare col comunismo.
Che cos’è infatti un sindacato se non una stirneriana unione degli egoisti? I
lavoratori nel sindacato si associano in quanto individui, chiedono al sindacato
dei miglioramenti economici specifici, rinnegano la tessera quando questa
diventa deteriore per i propri interessi. Precisamente la fluidità organizzativa
stirneriana. Il sindacato è necessariamente portato all’accomodamento, al
compromesso col padrone, perché il sindacato deve poter offrire all’individuo
egoista che vi aderisce un beneficio tangibile.
Certo se Juan ha in mente la CNT, legittimamente visto l’importanza della
vicenda storica, la cosa può portarci fuori strada. La complessa organizzazione
CNT-FAI, infatti, proprio in virtù del successo che ha avuto, è stata qualcosa
di più di una semplice organizzazione anarco-sindacalista. Essa è stata nei
momenti migliori il soggetto collettivo dell’insurrezione, nel linguaggio
marxista rivoluzionario potremmo dire che è stata «il partito della
rivoluzione», quindi è diventata un soggetto politico che ha aderito al fronte
popolare contro il pericolo fascista, quindi ha ceduto al frontismo e
all’interclassismo, tradendo infine la rivoluzione e gli stessi principi
anarchici (accettando per esempio dei ministeri).
Se noi però ci spostiamo in Italia vediamo come per esempio l’Unione Sindacale
Italiana sin dal nome proprio di «Unione» richiami la proposta organizzativa
stirneriana. Non è solo una suggestione: individualisti erano la gran parte
della prima generazione di anarco-sindacalisti italiani come Alceste de Ambris,
Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Tullio Masotti, tutti espulsi a causa delle
loro sciagurate posizioni interventiste durante la prima guerra mondiale (alcuni
di loro diventeranno fascisti, de Ambris è noto per il contributo costituzionale
dato all’avventura dannunziana a Fiume). Solo con la generazione di Borghi e
Meschi l’USI riconquisterà una posizione coerentemente internazionalista e sarà
la protagonista principale in termini di conflittualità durante il biennio
rosso.
Ora se noi andiamo a leggere il capitolo che Stirner dedica alla questione
operaia nella sua opera L’Unico e la sua proprietà possiamo scorgere degli
automatismi che, sebbene ante litteram, hanno tutti i caratteri del sindacalismo
rivoluzionario. Secondo Stirner se gli operai avessero una autentica
consapevolezza dei loro bisogni egoistici distruggerebbero lo sfruttamento e non
ci sarebbero più padroni. Questo non solo confuta la calunnia marxista di
Stirner quale pensatore borghese, ma allo stesso tempo ci mostra quanto Stirner
sia il padre di un certo modo di intendere il sindacalismo: l’idea che la
consapevolezza egoistica immediata sia da sola causa sufficiente per
l’emancipazione. Nel sindacalismo rivoluzionario questa idea porta al corollario
che l’organizzazione immediata fondata sui bisogni egoistici (organizzazione
minima, con meno struttura possibile), in una parola, il sindacato anarchico, da
sola sia sufficiente per scatenare la rivoluzione.
Malatesta, com’è noto, dubitava di questo pregiudizio. L’organizzazione
sindacale egoistica avrebbe portato non alla rivoluzione, ma all’accomodamento
su linee di classe basate sulla categoria, sul territorio, sul singolo
stabilimento e la singola azienda. Notoriamente per Malatesta il sindacato era
necessario, ma non sufficiente. All’organizzazione sindacale (che asseconda il
bisogno egoista, individualista, del lavoratore) occorre affiancare
l’organizzazione insurrezionalista dei comunisti anarchici (il cosiddetto
dualismo organizzativo): quest’ultima non si basa sui bisogni egoistici, ma
sugli ideali, sulla volontà dei suoi partecipanti. Cioè sul fatto che i compagni
che ne fanno parte sono animati da una tensione che trascende il loro egoismo,
una tensione che li porta al sacrificio, a sopportare la fame, il carcere, la
morte. Insomma c’è l’organizzazione della necessità (sindacato) e c’è
l’organizzazione della volontà (Malatesta la chiamava, pensate un po’, partito).
Notoriamente, uno stirneriano ortodosso ribatterà a questi argomenti che anche
queste passioni sono passioni egoistiche; chiunque fa qualcosa, anche chi si
sacrifica, ci insegna Stirner, in realtà lo fa per sé. Se questo in astratto è
vero, affermarlo però è anche inutile. Anche il carabiniere, il prete o il
maniaco sessuale di via Togliatti che si apre l’accappatoio e fa vedere i
gioielli di famiglia ai passanti sono egoisti in senso stirneriano. Tutti lo
siamo. La scoperta di questa verità non ci fa fare un passo in avanti verso una
società finalmente libera, in cui non ci sono più né preti né carabinieri, e
dove anche il maniaco di via Togliatti riceve finalmente secondo i propri
bisogni.
Quindi il comunismo anarchico malatestiano, tutt’altro che marxista, è davvero
un movimento idealista nel senso migliore del termine. Esso in qualche modo
mobilita i compagni che lo animano verso una passione che trascende la
condizione materiale egoistica personale. In questo senso è insurrezionalista,
perché è orientato al rovesciamento. In questo senso specifico è volontarista,
organizza gli individui non per condizione ma per convinzione. Ed è il solo che
per principio non può essere corrotto da derive riformiste (in quanto classista
per definizione).
Juan scrive per esempio che «il concetto dell’anarchismo d’azione ha in sé gli
antidoti al riformismo». Secondo me qui il compagno, nonostante affermi
ripetutamente il contrario, rischia di nuovo di anteporre il metodo al fine.
Azione per fare cosa? Per fare l’individualismo economico o per fare il
comunismo economico? Per vincere una vertenza sindacale o per rovesciare il
potere del padrone? Per convincere la NATO a tirare le bombe atomiche su Mosca o
per distruggere la NATO? Insomma l’azione è comunista o individualista,
internazionalista o interventista? Se Juan accetta un consiglio per
l’elaborazione teorico-pratica che sta sviluppando, a mio avviso dovrebbe
riempire di contenuti teleologici (quale è il nostro fine) questa sua proposta.
Non basta più definirci in base a quello che facciamo, la storia ha ricominciato
a correre troppo veloce, occorre definirci in base al mondo che vogliamo. Per me
l’anarchismo rivoluzionario dovrebbe essere classista, internazionalista e
insurrezionalista; cioè orientato a un ideale, a una lettura del presente e a un
metodo. Nessuna di queste cose, presa da sola, è sufficiente.
emmeffe
Traduciamo dal sito statunitense it.crimethinc.com questo interessante rapporto
sulla sollevazione in Indonesia e sul ruolo che vi ha giocato il movimento
anarchico.
VOCI DALLA RIVOLTA IN INDONESIA
AFFAN KURNIAWAN CONTINUA A VIVERE NELLE STRADE
Un’ondata di proteste è esplosa in tutta l’Indonesia alla fine di agosto 2025.
In questo rapporto, presentiamo un’intervista con uno scrittore anarchico
indonesiano incarcerato, insieme a varie dichiarazioni di gruppi anarchici che
sono giunte alle testate di lingua inglese dall’inizio della rivolta.
Dopo settimane di proteste in tutta l’Indonesia in risposta alle misure di
austerità, la settimana del 25 agosto i dimostranti si sono radunati in massa
per accusare l’élite politica indonesiana di disprezzo verso la gente e
corruzione.
Il governo indonesiano eroga ai rappresentanti parlamentari uno stipendio
mensile di 100 milioni di rupie (circa 6.081 dollari), ovvero circa 30 volte lo
stipendio minimo di Giacarta, dove si registrano gli stipendi più alti del
Paese. La rabbia è esplosa quando sono circolate voci secondo cui i
rappresentanti ricevevano 50 milioni di rupie in più al mese come indennità di
alloggio. La notizia è stata diffusa in un periodo di forte inflazione, una
nuova tornata di misure di austerità e un peggioramento della povertà.
Sindacati, anarchici, studenti, esponenti della sinistra, giovani e altri
manifestanti hanno riempito le strade la settimana del 25 agosto. Hanno subìto
una dura repressione da parte della polizia al servizio dell’attuale presidente,
Prabowo Subianto, che in precedenza ha ricoperto la carica di ministro della
Difesa. Il 28 agosto, un’auto blindata della Brigata Mobile della Polizia
Nazionale ha investito e ucciso Affan Kurniawan, un fattorino di 21 anni che si
stava recando a consegnare del cibo.
In risposta all’omicidio di Affan, fattorini, anarchici e giovani di diverse
etnie si sono ribellati. I dimostranti hanno saccheggiato diverse stazioni di
polizia, bruciato e saccheggiato le case dei politici e dato alle fiamme edifici
governativi.
Questa situazione ha costretto il primo ministro a saltare il vertice della
Shanghai Cooperation Organization (SCO) cinese. Il governo ha suggerito di
tagliare alcuni dei benefici concessi ai politici e alcune delle misure di
austerità che hanno scatenato la rivolta. Tuttavia, il presidente Prabowo
Subianto ha raddoppiato la repressione e ha chiamato l’esercito, causando almeno
sei morti, tra cui uno studente picchiato a morte dalla polizia a Yogyakarta,
Giava, e un conducente di risciò morto per esposizione a gas lacrimogeni a Solo,
Giava. Il bilancio completo delle vittime rimane sconosciuto.
Governata dal colonialismo olandese fino al 1949, l’Indonesia rimane
profondamente polarizzata, con enormi disparità di risorse e potere; negli anni
‘60, le violenze contro membri e presunti simpatizzanti del Partito Comunista
Indonesiano (PKI) costarono almeno centinaia di migliaia di vite. Il movimento
anarchico contemporaneo emerse alla fine degli anni ‘80, grazie anche
all’impegno delle band punk. La polizia istituì una divisione “anti-anarchia”
nel 2011 e, in molteplici episodi, coloro che erano percepiti come anarco-punk
furono rapiti e incarcerati in campi di rieducazione approvati dallo Stato.
Ciononostante, il movimento anarchico ha continuato a crescere malgrado le
avversità.
Con una repressione statale senza precedenti in atto in tutto il pianeta, le
coraggiose azioni dei ribelli in Indonesia sono di profonda ispirazione per
coloro che rifiutano l’ordine mondiale capitalista. I manifestanti in Indonesia
hanno segnalato diverse forme di repressione delle comunicazioni digitali, che
probabilmente si intensificheranno se il conflitto continuerà a intensificarsi.
Ci auguriamo che questo rapporto preliminare possa attirare l’attenzione sulla
situazione, incoraggiando le persone in tutto il mondo a informarsi di più e ad
agire in modo solidale.
Affan Kurniawan non sarà dimenticato, né i suoi assassini perdonati. Solidarietà
con i coraggiosi che lo stanno facendo nelle strade.
Anarchici solidali con la rivolta indonesiana
UNA CONVERSAZIONE CON IL PRIGIONIERO ANARCHICO E SCRITTORE BIMA
Bima è uno scrittore, traduttore e ricercatore indipendente anarchico
indonesiano, in carcere dal 2021. È ancora attivo dietro le sbarre come membro
di una federazione anarchica. È anche il fondatore della casa editrice
autoprodotta Pustaka Catut e autore del libro Anarchy in Alifuru: The History of
Stateless Societies in the Maluku Islands, pubblicato da Minor Compositions.
Puoi sostenere Bima tramite Patreon e scoprire di più su una campagna FireFund
precedentemente attiva a loro favore.
Abbiamo condotto questa intervista con Bima nei primi giorni di settembre 2025.
Come vorresti presentarti?
Sono uno scrittore, un prigioniero e un membro di una federazione anarchica che
ha scelto di rimanere anonimo per motivi di sicurezza in questo momento
spaventoso.
Puoi fornire qualche informazione di contesto sulla rivolta attuale?
Questa ondata di ribellione, iniziata a fine agosto 2025, è stata causata
dall’accumulo di rabbia per varie questioni politiche ed economiche. Non c’era
un problema unico. Ma tutto è degenerato a causa dei massicci aumenti delle
imposte sulle case in tutta la regione, dovuti al deficit di bilancio del
governo.
Allo stesso tempo, i parlamentari hanno ricevuto un aumento di stipendio
decuplicato. La situazione è stata aggravata dalle dichiarazioni spesso faziose
dei funzionari. Ad esempio, il Reggente di Pati (il politico responsabile della
supervisione del governo locale, delle politiche e dei servizi pubblici nella
Reggenza di Pati, Giava Centrale, Indonesia) ha dichiarato: “Le tasse non
saranno ridotte, nemmeno se si terrà una manifestazione di massa di 50.000
persone”.
Pati è stata la prima città a esplodere, con un’affluenza di circa 100.000
persone il 10 agosto 2025. Le proteste contro l’aumento delle tasse si sono
estese a Bone (nella provincia di Sulawesi Meridionale), poi ad altre città.
Durante una manifestazione del 28 agosto a Giacarta, un fattorino di un’app di
consegna di cibo online è stato ucciso dopo essere stato investito da un veicolo
della polizia durante le proteste. Il giorno seguente, le manifestazioni si sono
estese a molte città e continuano ancora oggi, mentre vi scrivo.
Finora, almeno sei civili sono stati uccisi direttamente a causa della
repressione della polizia, diverse abitazioni di funzionari sono state
saccheggiate e una mezza dozzina di uffici della Camera dei Rappresentanti sono
stati parzialmente o interamente incendiati. Eravamo convinti che questa
ribellione si sarebbe placata, ma non è stato così.
Quali tipi di gruppi sono stati coinvolti nella rivolta? E in che misura sono
uniti?
Sono numerose le organizzazioni, le reti e i gruppi che formulano richieste. Si
potrebbe persino dire che ogni città ha le sue esigenze specifiche.
In generale, le richieste “rivoluzionarie” sono due: la prima, proveniente dal
Partito Socialista Indonesiano, Perserikatan Sosialis (PS), e l’altra, una rete
informale e decentralizzata che ha emanato la Dichiarazione della Rivoluzione
Federalista Indonesiana 2025, che chiede lo scioglimento dello Stato unitario e
del sistema della DPR (Camera dei Rappresentanti indonesiana) e la sua
sostituzione con un Confederalismo Democratico composto da migliaia di consigli
popolari per l’attuazione della democrazia diretta. Ahmad Sahroni, membro della
Camera dei Rappresentanti (DPR) del Partito Democratico Nazionale (NasDem), ha
definito queste richieste “stupide”. Ciò ha portato all’attacco e al saccheggio
della sua casa a Giacarta Nord il 30 agosto.
Gli anarchici insurrezionalisti, gli individualisti e i post-sinistra si
concentrano su attacchi e scontri di piazza, invocando la distruzione dello
Stato e del capitalismo, ma senza preoccuparsi di una piattaforma o di un
programma di rivendicazioni che si limitino a chiedere la riforma di ciò che già
esiste.
In genere non esiste un fronte unito, ma evitiamo un eccessivo settarismo
ideologico.
Purtroppo, ci sono anche liberali progressisti con richieste più riformiste,
come la richiesta 17+8 (uno slogan attivista “pro-democrazia” che chiede che le
richieste riformiste siano soddisfatte entro il 5 settembre 2025). Questo gruppo
è fortemente influenzato dagli influencer liberali online che esortano a porre
fine alle proteste. Questi influencer si sono spinti fino a sostenere che i
manifestanti saranno ritenuti responsabili se l’esercito dichiarasse la legge
marziale a causa della resistenza dimostrata nelle strade (tipico gaslighting
centrista di recupero e demonizzazione della resistenza e delle organizzazioni
rivoluzionarie). Fortunatamente, tutti gli elementi di sinistra e anarchici
concordano sul fatto che le proteste dovrebbero intensificarsi. Non sappiamo
ancora cosa accadrà, poiché questa guerra dei discorsi è ancora in corso.
Onestamente, ci sono troppi gruppi coinvolti nella rivolta per offrire una
risposta semplice. L’intero movimento di sinistra e anarchico di varie
organizzazioni è sceso in piazza, ma non c’è stato un fronte unito. In ogni
città, elementi progressisti della società, che si trattasse di studenti
universitari, sindacati o persino studenti, hanno consolidato le loro azioni.
Alcune azioni sono state spontanee e sono emerse come iniziative comunitarie non
coordinate, come gli attacchi a posti e stazioni di polizia, in cui diversi di
essi sono stati bruciati.
In che modo gli anarchici contribuiscono alla rivolta?
Sono un pessimista rivoluzionario, influenzato dal discorso
dell’anarco-nichilismo. Ma continuo a sostenere la rivoluzione sociale perché
non esiste uno spazio sociale vuoto. L’Indonesia è l’arcipelago più
multiculturale del mondo, con migliaia di etnie e lingue. In alcune regioni sta
emergendo un discorso separatista. Alcuni nobili di antiche monarchie spingono
per il revivalismo. Ci sono anche fondamentalisti islamici autoritari e
jihadisti che vogliono un califfato nel Paese. Quindi penso che sia impossibile
per i rivoluzionari non offrire il loro programma come alternativa a tutte
queste pessime possibilità. L’ondata di ribellione è un sintomo dell’imminente
grande divisione, e gli anarchici devono assumere un ruolo. Altrimenti, le
scelte sono pessime. Molto pessime.
Cosa pensi che succederà con questa rivolta? E cosa vedi per il futuro del
movimento anarchico in Indonesia?
Sono pessimista al riguardo. Ci siamo affermati in diverse città, ma nel
complesso siamo relativamente deboli, anche se fondamentalmente siamo piuttosto
militanti.
Siamo influenzati dall’approccio uruguaiano dell’Espesifismo, che prevede
un’organizzazione a due livelli. Ciò significa che oltre ad aderire a
organizzazioni politiche, aderiamo anche a movimenti di base come sindacati,
organizzazioni studentesche, organizzazioni indigene e così via.
Utilizziamo ancora la definizione classica di rivoluzione, ma per realizzarla è
necessaria una solida base organizzativa popolare. Nonostante ciò, le recenti
rivolte si sono ripetute come un ciclo dal 2019. Questo ci entusiasma perché
significa che dobbiamo impegnarci per tenere il passo con le rivolte popolari e
la volontà delle masse. Ma dobbiamo crescere e aumentare la nostra militanza per
rimanere al passo con il ritmo della rabbia popolare.
Non credo che ci saranno riforme a meno che non ci sia un violento rovesciamento
del potere e il potere in carica non prometta riforme. L’attuale classe
dirigente ha formato una coalizione gonfia che abbraccia tutta la sua precedente
opposizione e “dà loro una fetta della torta”. Finora, siamo gli unici membri
della rete antiautoritaria informale e decentralizzata a chiedere la rimozione
del presidente e del vicepresidente. Il problema è che non c’è stata alcuna
richiesta per la loro rimozione. Quindi, la riforma richiederà ancora tempo e
una rivoluzione anarchica è impossibile a causa delle debolezze organizzative e
dell’assenza di sindacati progressisti in grado di condurre uno sciopero
nazionale.
Tuttavia, la richiesta spontanea del popolo di sciogliere il parlamento
attraverso l’hashtag #bubarkanDPR [“sciogliere il DPR”], il coinvolgimento di
una massa più eterogenea di persone nelle proteste (l’Indonesia è nota per aver
romanticizzato l’avanguardismo studentesco nel 1965 e nel 1998) e l’uso della
violenza, rappresentano un progresso che sarebbe stato inimmaginabile un
decennio fa. Gli anarchici hanno svolto un ruolo cruciale in questo. Tuttavia,
personalmente non credo che il movimento anarchico porterà a una rivoluzione
anarchica, anche se ne esistesse l’opportunità. Ma potrebbe esercitare un’enorme
influenza libertaria attraverso un fronte unito che operi all’interno di gruppi
consolidati. Ad esempio, la proposta di un confederalismo democratico
rivoluzionario, che è in realtà in linea con le proposte anarchiche classiche,
verrebbe probabilmente accettata dall’intero spettro dei movimenti di
liberazione nazionale di sinistra e separatisti esistenti in alcune regioni.
Forse.
Anche le proteste del 2020 contro la Legge Omnibus sono state significative, ma
la rivolta di quest’anno è la più sanguinosa, la più devastante e la più
coinvolgente (abbiamo assistito a un notevole grado di radicalizzazione tra
elementi della società). Non ha ancora superato l’escalation vista durante la
caduta del regime militarista di Suharto nel 1998. Tuttavia, sono fiducioso che
ciò possa accadere presto.
Purtroppo, da ieri vi avverto che quando arriverà il momento atteso, non saremo
pronti per la rivoluzione, anche se risponderemo principalmente partecipando a
battaglie di strada.
ALTRE VOCI DALL’INDONESIA
Oltre all’intervista con Bima, il 2 settembre abbiamo ricevuto il seguente
resoconto da Reza Rizkia a Giacarta:
L’ondata di manifestazioni iniziate il 25 agosto 2025 in tutta l’Indonesia
continua a dispiegarsi, lasciando dietro di sé una scia di tragedia e disordini.
Quella che è iniziata come una protesta contro la proposta di un sussidio
mensile di 50 milioni di rupie per l’alloggio dei parlamentari si è trasformata
in un movimento nazionale con richieste più ampie: la valutazione delle
prestazioni parlamentari, la riforma della polizia e la fine dell’uso eccessivo
della forza da parte delle forze di sicurezza.
Il 28 agosto, le tensioni sono aumentate dopo che un tassista motociclista,
Affan Kurniawan, è stato investito e ucciso da un veicolo tattico della Brigata
Mobile (Brimob) a Bendungan Hilir, Giacarta. Le immagini dell’incidente si sono
diffuse rapidamente sui social media, scatenando proteste di solidarietà da
parte di studenti e comunità di autisti delle piattaforme. La tragedia ha
segnato un punto di svolta, amplificando la portata delle manifestazioni sia
nella capitale che in tutto il Paese.
La violenza si è presto estesa ad altre grandi città. A Makassar, i manifestanti
hanno dato fuoco al palazzo del parlamento regionale (DPRD), uccidendo tre
membri dello staff rimasti intrappolati all’interno. A Solo, un conducente di
risciò di nome Sumari è morto negli scontri, mentre a Yogyakarta, lo studente
Rheza Sendy Pratama è stato ucciso durante una manifestazione davanti al
quartier generale della polizia regionale. Un’altra vittima, Rusmadiansyah, un
conducente di risciò, è stato picchiato a morte dalla folla dopo essere stato
accusato di essere un agente dei servizi segreti. Alcuni rapporti indicano anche
altre vittime, tra cui uno studente di una scuola professionale a Pati. In
totale, almeno sette-otto persone hanno perso la vita durante i disordini fino
alla fine di agosto.
Il governo ha risposto con le condoglianze. Il presidente Prabowo Subianto ha
ordinato un’indagine aperta, mentre il capo della polizia nazionale e il capo
della polizia di Giacarta hanno rilasciato pubbliche scuse per le vittime. Sette
agenti della Brimob collegati alla morte di Affan Kurniawan sono stati arrestati
e devono affrontare procedimenti legali. Tuttavia, la rabbia pubblica non
accenna a placarsi.
Al 2 settembre, le manifestazioni sono ancora in corso in diverse regioni con
intensità sostenuta. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nell’ultima
settimana, raggiungendo il picco il 29 agosto, quando oltre 1.300 persone sono
state arrestate in un solo giorno. Allo stesso tempo, l’Alleanza dei Giornalisti
Indipendenti (AJI) ha segnalato casi di violenza e ingerenze ai danni dei
giornalisti che seguivano le proteste.
Le manifestazioni di fine agosto segnano una delle più grandi ondate di protesta
degli ultimi anni in Indonesia. Con il bilancio delle vittime in aumento, gli
arresti di massa e i danni diffusi alle proprietà, l’opinione pubblica ora si
chiede se il governo e il parlamento risponderanno alle richieste dei cittadini
con riforme concrete, o se rischieranno di aggravare ulteriormente la crisi.
Quando la rivolta iniziò a fare notizia a livello internazionale, anarchici
anonimi scrissero diverse dichiarazioni descrivendo la situazione dal loro punto
di vista, usando lo pseudonimo di “Arcipelago di Fuoco”. Volevamo includere
anche le loro voci.
25 agosto 2025
“Giacarta non appartiene più alle élite corrotte. Migliaia di persone
provenienti da ogni angolo del Paese hanno preso d’assalto la capitale. Questa
non è solo una protesta, è un’esplosione collettiva di rabbia contro l’aumento
delle tasse sulla casa, la corruzione senza fine e i cani poliziotto militari
dello Stato.
Dall’alba a mezzanotte, le strade si trasformano in un campo di battaglia di
sfida. Urla, fuoco e pietre diventano il linguaggio della furia della gente.
“Questo non è uno spettacolo di marionette delle élite; è rabbia pura,
incontrollata, senza guida e impossibile da controllare”.
29 AGOSTO 2025
“I giovani arrabbiati si stanno ribellando, spinti dall’aumento delle tasse e da
un esercito repressivo. Non c’è organizzazione; l’insurrezione è guidata da
giovani anarchici, nichilisti e incontrollabili. Molti giovani anarchici delle
associazioni studentesche delle scuole superiori vengono arrestati. Gli studenti
delle scuole superiori sono l’energia. Circa 400 di loro sono stati arrestati il
25 agosto, secondo quanto riportato. La maggior parte delle azioni è coordinata
in diretta sui social media.
Di solito, qualche sindacato liberale o partito di opposizione controlla le
narrazioni, ma non questa volta. Persino i media mainstream riconoscono che i
social media sono la fonte della documentazione. I politici non possono più
controllare le narrazioni. È tradizione da decenni che i corpi studenteschi
esecutivi siano normalmente gli istigatori di questo tipo di manifestazioni, ma
ogni anno questi mediatori vengono smascherati. Dagli studenti stessi. Ecco
perché ONG, sindacati, “anarchici civili” e associazioni studentesche di
sinistra e di destra odiano la fazione anti-organizzativa.
“Che vadano tutti a quel paese. Noi stimoliamo i giovani ad agire da soli.
“Gli individui non sono più spaventati dal dovere ideologico, dalle norme e da
tutti quei valori esterni.
“Ieri sera (28 agosto 2025), la polizia ha ucciso una persona. Sono scoppiate
rivolte in tutto il paese contro l’aumento delle tasse. In diverse città, la
rivolta è stata spontanea e auto-organizzata. L’immagine pubblica della polizia
continua a sgretolarsi, mentre la gente sostiene i rivoltosi. Alcune cellule
hanno coordinato altre azioni e i proclami nichilisti-insurrezionalisti stanno
dominando la narrazione.
“Account anonimi sui social media con migliaia di follower invocano
un’insurrezione antipolitica. Ogni giorno, fanno proclami e forniscono
spiegazioni convincenti.
“I sindacalisti hanno annunciato che sarebbero scesi in piazza e che ‘non ci
sarebbero state rivolte’, ma i giovani e i rivoltosi li hanno subito presi in
giro sui social media. Lasciamo fare ai giovani. Possiamo solo stimolarli a
essere più incontrollabili. Di notte, internet è andato a rotoli. Mentre gli
“anarchici civili” chiedono consigli popolari, noi chiediamo di mandare tutto
all’aria. Forniamo solo coordinamento di rete e dati tecnici per l’azione di
strada. Non organizziamo mai veramente le persone.
“A partire da venerdì 29 agosto, gli anarchici controllano sostanzialmente la
narrazione. La gente sta rispondendo a livello nazionale all’appello per
attaccare le stazioni di polizia e la polizia stessa. I mass media hanno perso
il controllo dell’informazione e delle notizie.
“La nostra rete continua a invocare vendetta dopo l’omicidio della polizia di
ieri sera, e la situazione si fa sempre più critica. Le cellule sono nelle
strade.
“Si può vedere la rivolta su vari organi di informazione, anche se i video
migliori si trovano solo sui social media”.
Arcipelago di Fuoco
“Questo va oltre le nostre previsioni. Di solito, durante una manifestazione, i
manifestanti si limitavano a lanciare pietre o a bruciare uno pneumatico davanti
all’ufficio. Non hanno mai fatto irruzione nell’edificio per dargli fuoco”.
Anarchici anonimi in Indonesia
Ci sono certi quartieri di certe città italiane dove la sopravvivenza è una
resistenza quotidiana. San Berillo a Catania è un quartiere resistente, che il
governo prova a distruggere da…
Nell’estate 2025 la città di Torino ha visto l’inizio del dibattimento in primo
grado per i 19 imputatx accusatx di devastazione e saccheggio per i fatti
relativi al corteo che…
Riprendiamo dal blog del collettivo Terra e Libertà un nuovo opuscolo che
ripercorre i legami storici di IBM con guerra, genocidi e apartheid, con
particolare attenzione al ruolo del colosso statunitense nell’olocausto nazista.
Link al testo sul blog di Terra e Libertà
Scarica l’opuscolo in pdf: ibm_def_lettura, ibm_def_stampa