Qui il pdf: Angiolillo
Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere
L’8 agosto 1896, nella stazione termale basca di Santa Águeda, il primo ministro
spagnolo Antonio Cánovas del Castillo viene ucciso con un colpo di pistola. A
sparare è Michele Angiolillo, un anarchico foggiano di venticinque anni. Durante
la sua arringa difensiva, il giovane anarchico dichiarerà di aver ucciso Cánovas
in quanto personificazione di «ciò che hanno di più ripugnante la ferocia
religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia
del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la
Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un
giustiziere!». Il suo riferimento al «mondo intero» non è un’iperbole retorica.
Negli stessi anni in cui il primo ministro spagnolo dispiega una feroce
repressione interna, culminata nella proclamazione della legge marziale a
Barcellona e nelle torture inflitte a centinaia di prigionieri nell’infame
fortezza di Montjuïc, i suoi governatori coloniali e i suoi generali rispondono
con la strage e con i campi di concentramento (i primi della storia)
all’insurrezione cubana e alla sollevazione nelle Filippine. Non a caso il libro
che Angiolillo porta con sé, quando parte da Londra con il proposito di
giustiziare Cánovas, è Les Inquisiteurs d’Espagne, de Cuba e des Filippines,
scritto dall’anarchico creolo cubano Fernando Tarrida del Mármol, anch’egli
detenuto a Montjuïc. Nella sua arringa Angiolillo parla esplicitamente, oltre
che di Montjuïc, della violenza coloniale a Cuba e nelle Filippine.
Sotto il tallone di Crispi
Michele Angiolillo era nato a Foggia il 5 giugno 1871 (subito dopo la sanguinosa
repressione della Comune di Parigi). Durante gli anni di studio presso un
istituto tecnico, diventa un militante repubblicano radicale. Esce
dall’esperienza della coscrizione militare con convinzioni anarchiche. In
occasione delle elezioni del 1895, pubblica un manifesto contro le «leggi
scellerate» promulgate dal primo ministro Crispi. Il Cánovas italiano, subito
dopo avare represso nel sangue il moto dei Fasci siciliani e l’insurrezione
scoppiata in Lunigiana in solidarietà con i contadini della Sicilia, si prepara
all’aggressione imperialista in Abissinia – conclusasi con la disastrosa
sconfitta di Adua –, di cui la legislazione d’emergenza è il riflesso sul fronte
interno. Per il suo manifesto Angiolillo viene arrestato con l’accusa di
«incitazione all’odio di classe». Rilasciato in attesa del processo, il giovane
compagno spedisce una lettera al ministro della Giustizia in cui attacca il
pubblico ministero, cosa che gli procura una condanna a diciotto mesi di carcere
e tre anni di confino. A quel punto Angiolillo parte sotto falso nome e
raggiunge Barcellona passando per Marsiglia. Nel capoluogo catalano impara il
mestiere di tipografo e partecipa attivamente alle attività del movimento
anarchico, all’epoca vero e proprio crocevia cosmopolita. Collabora, tra le
altre cose, a «La Ciencia Social» insieme a Tarrida e Ramón Sempau (lo scrittore
e poeta bohémien, nonché simpatizzante anarchico, che cercherà di giustiziare il
luogotenente Portas, responsabile delle torture a Montjuïc). Dopo l’attentato al
Corpus Domini – di cui diremo in seguito –, Angiolillo scampa alla retata
organizzata da Cánovas contro centinaia di sovversivi – tra cui Cayetano Oller,
compagno dell’anarchico foggiano – e ripara a Marsiglia. Qui viene arrestato per
dei documenti falsi e, dopo un mese di carcere, viene espulso in Belgio. Quando
la campagna internazionale lanciata da Tarrida contro Cánovas è al suo apice,
Angiolillo si trasferisce a Londra, dove ritrova Oller – sottoposto a terribili
torture a Montjuïc, rilasciato per mancanza di prove ed espulso dal suo stesso
Paese –, e dove partecipa all’imponente manifestazione organizzata dal Commitee
on Spanish Atrocities, comitato promosso anche da Tarrida, il quale
nell’occasione parla per la delegazione dei rivoluzionari cubani. Durante la
manifestazione prende la parola anche l’anarchico francese Charles Malato, che
nel suo intervento invoca vendetta per le vittime di Cánovas, tra cui cita lo
scrittore filippino José Rizal, assassinato nella colonia spagnola; ma
soprattutto salgono sul palco alcuni dei torturati di Montjuïc, i quali mostrano
in pubblico i loro corpi mutilati. Qualche tempo dopo, l’anarchico foggiano
incontra personalmente Francisco Gana, che portava i segni indelebili delle
sevizie subite dagli aguzzini spagnoli. Così descrive la scena, nella sua
autobiografia (Nella tormenta), l’anarchico tedesco Rudolf Rocker:
Quella notte, quando Gana mostrò le sue membra mutilate e le cicatrici che le
torture avevano lasciato su tutto il suo corpo, capimmo che leggere di tali
questioni è una cosa, ma sentirne parlare dalle labbra di chi le ha subite è
un’altra. […] Eravamo tutti seduti immobili, pietrificati, e trascorsero diversi
minuti prima che fossimo in grado di proferire qualche parola di indignazione.
Solo Angiolillo rimase in silenzio e, poco dopo, si alzò pronunciando un
laconico saluto per poi lasciare l’abitazione. […] Questa fu l’ultima volta che
lo vidi.
L’ultima volta che lo vide il mondo, fu il 20 agosto 1986, il giorno in cui il
giovane anarchico fu garrotato. Non prima di aver urlato al mondo «Germinal!».
Dalle segrete di Montjuïc
Il 7 giugno 1896, a Barcellona, una bomba esplode durante la processione del
Corpus Domini, causando tre morti sul colpo e decine di feriti (nove dei quali
moriranno in seguito). Benché non si possa escludere che sia stata un’azione
indiscriminata – alla Oberdan, per intenderci – contro l’odiatissima Chiesa
spagnola, alleata della monarchia, stampella dei latifondisti e architrave
dell’amministrazione coloniale, i sospetti di una provocazione poliziesca
perdurano tutt’oggi. Come che sia, Cánovas decreta la legge marziale a
Barcellona e fa arrestare più di trecento persone. Meno noto è che la fortezza
di Montjuïc diventa – a dispetto dei nuovi inquisitori – un luogo di incontro
tra anarchici di vari Paesi, rivoluzionari cubani e deportati filippini. Un
esempio emblematico di tale crogiuolo è la condivisione della stessa cella da
parte di Ramón Sempau – incarcerato per aver cercato di giustiziare il
torturatore Portas – e di Isabelo de los Reyes, già autore del pionieristico El
Folk-lore Filipino. Tornato poi a Manila, Isabelo, che aveva conosciuto anche
Malatesta, vi porta le prime pubblicazioni anarchiche apparse nelle Filippine, e
metterà in campo quello che dice di aver imparato dagli anarchici
nell’organizzazione degli scioperi e nella creazione delle prime Unioni Operaie.
Quanto a Sempau – esempio di intreccio tra mondo artistico radicale, ideali
libertari e propaganda del fatto – sfuggirà alla corte marziale e alla condanna
a morte grazie alla campagna internazionale sugli orrori di Montjuïc.
Tornanti
La condanna a morte di Francisco Ferrer nel 1909, così come il movimento
internazionale per impedirla, prolunga questa storia. Non solo perché
l’esecuzione avvenne, il 13 ottobre, proprio nella fortezza di Montjuïc. Ma
soprattutto perché l’accusa contro Ferrer era quella di aver fomentano la
«Settimana tragica», la rivolta proletaria e anarchica per impedire l’invio di
coscritti chiamati a sedare l’insurrezione in Marocco. In molte città europee le
manifestazioni per Ferrer daranno vita a scontri con la polizia. A Torino, dopo
la proclamazione dello sciopero generale, le dimostrazioni assumeranno un
carattere quasi insurrezionale nei quartieri di Barriera di Milano e di Borgo
San Paolo.
Per via del ruolo giocato dai repubblicani e dai democratici nella campagna per
Ferrer, quest’ultimo è ricordato come un martire del libero pensiero, come un
precursore dell’educazione laica contro l’oscurantismo religioso. Ferrer fu
anche questo, certo, ma fu soprattutto un combattente sociale, redattore tra
l’altro de «La Huelga general», i cui proclami erano inequivocabili: Viva la
Revolución, Viva la dinamita!.
In un’epoca in cui soffiano di nuovo i venti di guerra e sull’altra sponda del
Mediterraneo il suprematismo occidentale sta consumando un genocidio; in un
presente nel quale si moltiplicano attraverso i continenti le odierne «leggi
scellerate» contro il dissenso interno, ricordare il gesto di Angiolillo e il
suo «Germinal!» significa riattualizzare quell’internazionalismo che è parte
integrante della nostra storia. Non siamo piume al vento.
(Gli elementi storici alla base di questo testo sono tratti soprattutto dal
prezioso Anarchismo e immaginario coloniale, scritto da Benedict Anderson nel
2005 e pubblicato quest’anno da elèuthera)
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Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: Quelli che benpensano(1)
QUELLI CHE BENPENSANO.
OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN
Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro
l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso.
Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e
conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre
occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia,
per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto
valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal
tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate.
Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune
sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il
sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici
(anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e
compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in
tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno
brillante che sia.
Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser
dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e
prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo
ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso,
criticabile da diversi punti di vista.
L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere,
non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di
qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante
una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria
padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera.
Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate,
complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più
volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni.
Postmodernismo?
Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione
particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben
noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un
collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del
solito.
Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi
tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento”
anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale
minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le
argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste
sotteso è più o meno lo stesso.
Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi
sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia
postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non
accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è
penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti
condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in
tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o
approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento”
anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un
capro espiatorio un po’ fuori tempo massimo, a dir la verità).
Il sabotatore interno, un po’ come alcuni dicevano appunto del femminismo negli
anni ‘70 e fino all’altroieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi
con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un po’ più in
sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale.
I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di
parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in
modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e
l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni
parte assediati da essi.
Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci
informano.
Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto
quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note
come “teorie del complotto”.
A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il
problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come
vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha
definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le
dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma
legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente
assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione
che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il
problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte.
Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza”
di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può
avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove.
Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per
i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere
facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si
ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come
aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono
le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si
potrebbe definire persino scientista.
Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici
in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre
questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di
ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il
timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi
guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe
mai immaginato dover vedere? Neanche questo… Perché si è tutto sommato
intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la
mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come
passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà
quale motivo?
Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di
ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e
per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì
reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”,
oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non
possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un
rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi
psichedelico”.
Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto
che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci
dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come
pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante.
Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i
compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la
versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri?
Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e
gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero
organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e
quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti.
Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla
fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle
per non correre il rischio di farsi abbindolare.
Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e
valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado
di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre
fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi
versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità
narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo,
s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste,
ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle
banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il
primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo
spesso.
Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e
questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o
quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico?
Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto,
realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente,
inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione
d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio
teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo,
l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più
tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare.
Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di
saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente
irrilevante?
Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si
riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi
a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza,
denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre
persone la cui sola idea ripugna.
Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente
scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio
modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni
occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua
difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti.
Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla
necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi
e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi
sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le
tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il
contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che
sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più
volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e
giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto
assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore
e non piuttosto l’aggredita.
Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può
essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale
non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può
fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus
postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire.
Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza
a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno
ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per
cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso
atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a
quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e
solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro
esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista…
A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a
livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora
esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo
drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non
si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre
qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di
quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona
aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di
conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella
pratica non si sa che farsene.
Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice.
Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più
colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale.
Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo
consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad
esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna
sempre al punto di partenza.
Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi
aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di
sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo
sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti
– svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi,
troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non
siano poi così gravi, questi episodi.
Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne
fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che
ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa
in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che
pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare.
Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa
nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è
relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.
Banalità di base (I)
Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte
del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo,
antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro
il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile
dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato
l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione.
Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate.
Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche
solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione
generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero
insieme, è miserevole.
A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a
esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a
esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della
federazione anarchica italiana.
Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia
dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe,
per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua
storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa
storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a
leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché
sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un
altro discorso.
Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale
quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si
corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è
preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta
parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel
che resta non portare effettivamente da nessuna parte.
Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente
quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno
proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un
repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe
larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi
diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un
piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una
questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci
mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica –
ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per
attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un
poveraccio, sia a livello politico, che umano.
Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di
discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati,
c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra
quotidianità ripetendo concetti molto simili per mezzo di ogni tipo mass media.
Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima
considerazione.
Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli
anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche
che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla
convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano
e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di
discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito,
plenarie sindacali o conclavi?
Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col
quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi
tipo?
Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in
modo netto, è diventato autoritario?
Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi
conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto.
Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non
essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti
del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali
ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere,
indirizzo, controllo..
Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano
avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello
dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come
al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non
autonomia di pensiero e azione.
Quale classe, quale lotta
Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una
superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi
secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge
il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine
(per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di
alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione
di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà
l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento
economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata”
per motivi che proverò a chiarire più avanti.
Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello
sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da
questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su
determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una
cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico.
Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del
sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti
sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle
basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che
tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi
possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di
accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della
violenza.
Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne
forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli
XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta
“accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie
delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di
eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni
che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di
migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali
da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come
“caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova
medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente;
colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva
tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie
europee nel continente americano.
Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione
e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici.
Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il
capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai.
I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino
senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”.
Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino
all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non
lo intravedono ancora.
Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era
di libertà per tutti/e?
Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di
“classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici
forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche
diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio.
L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma.
Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi
temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di
quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori
provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione
per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per
tutti/e.
A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto
di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – sfruttata ci si
riferisce esattamente?
Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che
hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche
sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è
solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta
essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la
propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare
tutti/e parte di una classe sfruttata.
Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può
assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe
sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico,
no.
Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della
propria posizione, in opposizione, a questi.
Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece
di complici del proprio sfruttamento?
Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e
componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento
nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri
nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo.
Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio
sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna
condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e
asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di
indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori,
desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido
immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato
desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente
artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più.
Non sempre e non dappertutto, certamente.
Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare
per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un po’ di mesi in
qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto
lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri
giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non
unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le
tensioni, il quadro esistenziale di riferimento.
Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle
loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le
mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione
sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un
paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta
avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al
sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”.
Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere
maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso?
Forse.
La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente
la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto
potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre,
estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione,
volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, come in molti/e peraltro fanno?
Secondo me sì.
Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da
anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni
teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte
dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella
prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe
sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte
di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non
cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro
eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che
magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di
demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste
scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare
dalla propria condizione di sottomissione.
A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti
guardare?
Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a
che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non
sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa,
rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle
vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente
gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni
sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una
volta all’anno.
I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono
preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o
nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non
piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o
europeo/a e con questi/e quasi mai si organizzano. I “dannati/e” sono quelli che
affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato
agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul
fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera.
Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a
proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide
anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città.
Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la
sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i
presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non
altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e.
Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste
persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale
moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine
di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro
“integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da
schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in
gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o
durante un controllo di polizia.
Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con
gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme
e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie
certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi.
Banalità di base (II)
Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di
questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per
molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente
in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (che talvolta, peraltro,
assumono solo un carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se
l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non
essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e.
Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a
parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni,
spesso non si ravvisa molto altro degno di nota.
Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso
assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà
una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure
no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di
alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se
essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni
dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste
stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le
“battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche.
La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa
parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà,
isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità
e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte
persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata
trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli
alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra.
Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di
ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità
– acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e
siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa
trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai
necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto
che essa sia condivisa.
Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è
forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non
ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di
opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche,
spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili.
Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di
vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo
contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e
digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime
determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente
ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che
rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva
della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e
complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo.
Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di
aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni
tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e
ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua
migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente
mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo
difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile.
È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere la nostra
energia e il nostro impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti
economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane
le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni.
Non mandrie, ma gruppi di affini.
Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si
occupi di quelle.
Un anarchico
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia
GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso
e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non
conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Sun Tzu, L’arte della guerra
«Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa
comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più
coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è
finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE
Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati
appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le
spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da
500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18
marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche
costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite
del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la
difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è
strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm
Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto
di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE).
Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo
anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di
infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti
senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia
di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e
sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150
miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che
questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra
eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano
operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la
Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente
di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del
parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di
utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di
coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati
ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei,
ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il
quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli
Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura
militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del
cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi
delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la
guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per
trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella
re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da
Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a
danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano
(anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle
misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in
Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa
nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente
reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori
attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e
sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni
esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia
patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di
mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda)
dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare?
Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune
coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato
che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e
tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e
dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe
dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una
accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle
e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e
soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di
pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente
contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno
di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della
tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta
2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale
dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli
americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare
l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in
Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto
Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come
le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod,
sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e
nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è
sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e
assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più
del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate
di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte
orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia
russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è
quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino
crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti
temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei
possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta
giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un
aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che
ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni
analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di
ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo
sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle
importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla
trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase
digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti
militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a
stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo
alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire
2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo
ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta
della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe
concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I
disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono
verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali
britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer,
lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali
nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di
titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko
(Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa
13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande
non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria
del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di
mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo
per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque
dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness
(cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con
l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei
padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica
Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò
un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato
cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale
di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari,
con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo,
equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo
principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al
mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma
anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il
rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni
agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende
agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital”
degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di
confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania,
tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di
controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo
stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo
fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi
chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato
al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi
definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti
cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più
antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni)
lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai
neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come
possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose,
indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra
della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato
controllato da nessuno.
Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si
incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali:
quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un
mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli
controllato dallo Stato turco.
Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in
quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche.
Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati
rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi
del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale.
La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente
questi obiettivi.
Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per
aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad
esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare
affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di
entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare
che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto
da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari,
aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di
Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di
casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi
dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente
sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo
sfruttamento dei fondali di questo pelago.
L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare
gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro.
Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in
fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la
Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il
99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400
cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il
controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica
orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza
degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare,
capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e
classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra
Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse,
tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino
al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo
(genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra
classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina
della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare
dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per
l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e,
soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e
provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di
più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità
insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”,
ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi
contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi
(sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe
stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di
dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo
(dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet
sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di
produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e
i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare
detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali
(come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di
valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi
totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan,
Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab
al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo
Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla
Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri
padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e
capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella
rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina
questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a
questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di
capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei
territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni
a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o
semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro
caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri
padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più
sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero
spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile
conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo
utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le
possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della
storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya).
Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa
nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le
occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del
Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni
territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del
capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto
più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità
soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree
rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione
situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in
sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di
cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte
politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di
Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei
territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata
dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa
maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in
un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità,
purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri
nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la
Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della
rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come
nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di
contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente
esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno
aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli
Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i
loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le
possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo
interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica
la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle
lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola
in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e
frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più
facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto
occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza
post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno
presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che
si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo
specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia.
Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due
blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli
avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo
di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione.
Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante,
invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le
contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui
degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori
e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una
città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente
per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i
prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo
più», commenta un tassista di Bucarest.
Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto
di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei
capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per
rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si
sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra
prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è
fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta
passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e
borghesie europee con la classe dominante statunitense.
“Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase
celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del
padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire
dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto
agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli
avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico.
Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini
alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del
continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato
slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più
della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e,
paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi
sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea.
Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in
maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump).
L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente
l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio
del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione
di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali
del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora
funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e
Ungheria.
Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo
repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi,
accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio
continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”,
e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per
la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta”
sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4
anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo
europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui
rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad
occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono
cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al
conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico)
fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti
compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed
energetico.
L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per
l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della
dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli
States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni
verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una
fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati
Uniti.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando
l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico:
il padronato mandarino.
La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra
sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con
la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano
imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA
abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese,
che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato
statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della
strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che
serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno
per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che
caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia,
si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di
Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la
guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran.
Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto
riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato
sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra
Stato indiano e statunitense.
La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA
è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato
pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese
(fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un
eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana
cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale.
Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di
Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe
significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e
scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a
partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro
l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi
climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il
conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano
internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del
carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al
consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi
strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe.
Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che
abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle
rotte che attraversano il Mar Artico.
La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi,
statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci.
Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e
petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni
un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a
che fare con un fattore: il cambiamento climatico.
Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto
l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e
militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”.
La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal
militarismo statunitense.
L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a
nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più
navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento
delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari.
Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati
“materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio.
Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza
degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo
scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa
all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità
alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i
fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici
si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della
pesca di Nuuk.
La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei
suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno
scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato
dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le
proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e
delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze
sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese.
La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione
strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle
riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di
risorse ittiche e minerali rari.
Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico,
coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei
fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della
società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti
questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data
la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica
digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che
«puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il
flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali
sottomarine».
La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già
quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale
dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento
dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con
una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala
commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la
distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso
dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così
l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra
al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più
palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni
proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo
è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane?
Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun
fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a
warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese
per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo.
L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5%
del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme
all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti
che articolano il riarmo europeo.
Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e
capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione
della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi
a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e
la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza
tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la
rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni
sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il
mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un
nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può
essere alle porte.
Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere.
«Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi
dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori.
E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo
desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di
libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati,
ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni
altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
Riceviamo e diffondiamo:
Qui l’articolo in pdf: Un lavoretto da portare a termine
Un lavoretto da portare a termine
All’inizio del mese di luglio (2025) il tribunale di sorveglianza di Roma ha
rinnovato l’applicazione del regime detentivo 41-bis a Marco Mezzasalma. Marco è
stato arrestato nel 2003 ed in seguito condannato all’ergastolo per le azioni
dell’organizzazione di cui faceva parte: le Brigate Rosse per la Costituzione
del Partito Comunista Combattente. Le più note azioni di questa organizzazione
armata furono l’eliminazione di Massimo D’Antona, presidente della commissione
tecnica per la redazione di un testo unico per la disciplina del rapporto di
lavoro presso le pubbliche amministrazioni del governo Amato, e di Marco Biagi,
consulente del ministro del welfare Roberto Maroni per l’elaborazione della
riforma del mercato del lavoro. Entrambi i giuslavoristi erano impegnati nella
trasformazioni dei rapporti di sfruttamento per renderli idonei all’affermazione
del modello economico neoliberista.
Marco Mezzasalma, come altri due membri della sua organizzazione Nadia Lioce e
Roberto Morandi, è soggetto al 41-bis da oltre vent’anni, periodo in cui
l’applicazione del regime speciale gli è stata costantemente rinnovata. Il 41bis
prevede la reclusione in istituti appositamente dedicati; l’isolamento;
l’assenza di spazi comuni; limitazioni all’accesso all’aria e la gestione delle
sezioni unicamente da parte di corpi speciali della polizia penitenziaria (GOM);
la limitazione dei colloqui e l’utilizzo di vetri divisori; la censura della
posta e forti limitazioni alla possibilità di studio; la totale impossibilità di
comunicare con l’esterno. Si tratta quindi di una forma di detenzione
finalizzata all’annientamento fisico, mentale e politico del detenuto. Dalla
data del 2 marzo 2023, in cui si verificò il conflitto a fuoco che portò alla
morte del combattente Mario Galesi e di un agente della PolFer, alla cattura di
Nadia Lioce, ed al successivo arresto di altri membri del loro gruppo,
l’esistenza dell’organizzazione PCC non si è più manifestata. Quindi è
palesemente inesistente il presupposto legale per cui viene applicato il 41-bis
ai tre compagni, cioè recidere i contatti tra il detenuto e l’organizzazione
all’esterno, mentre è altrettanto evidente la sua non dichiarata funzione
punitiva. L’accanimento con cui viene prorogato il 41-bis sembra quindi essere
l’esercizio della vendetta e dell’odio di classe della borghesia verso chi ne ha
messo in discussione il potere; ed essere inoltre un castigo esemplare
attraverso cui si sottopone un corpo a condizioni estreme per lanciare un monito
a molti altri: che sappiano cosa li potrebbe aspettare se la loro rivolta
superasse determinati limiti.
Il 41-bis si manifesta come sospensione (delle regole previste dall’ordinamento
penitenziario), si tratta quindi dell’instaurazione dello stato di emergenza
all’interno delle carceri, cioè di una misura di carattere eccezionale e
provvisorio prevista per gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza. Nei
fatti, una volta introdotta, questa misura di governo delle carceri è stata
normalizzata e la sua applicazione progressivamente estesa: l’eccezione è
divenuta la regola.
Infatti il 41-bis, che riprende il percorso del carcere speciale (una storia sia
europea che specificamente italiana legata alla repressione dell’insorgenza
rivoluzionaria degli anni 70), è stato inizialmente introdotto a tempo
determinato negli anni 80, ma successivamente la sua applicazione è stata
costantemente prorogata ed infine è diventata stabile nell’ordinamento
penitenziario.
Inoltre il limite di tempo per il quale un detenuto può esservi sottoposto è
stato prolungato da due a quattro anni. Ma soprattutto, per quanto riguarda la
durata, è importante rilevare che le istituzioni preposte ad amministrare questa
misura – la cui applicazione, dato il suo elevato livello di afflizione, era
appunto prevista per periodi limitati – hanno assunto nella maggior parte dei
casi la decisione di rinnovarla costantemente, ed in sostanza automaticamente,
facendola diventare una pesante pena accessoria che, per molti detenuti,
accompagna l’intera durata della reclusione.
Questa è una grave responsabilità politica di chi gestisce il 41-bis, cioè in
primo luogo del Ministro della Giustizia in carica e del tribunale di
sorveglianza di Roma, ma evidentemente, risalendo l’ordine gerarchico, anche del
presidente del consiglio e del presidente della repubblica che avrebbero il
potere di porre fine a questa situazione disumana.
Infine il 41-bis, originariamente utilizzato per contrastare “l’emergenza
mafia”, dal 2002 è diventato uno strumento di repressione politica, e vi possono
essere sottoposti gli accusati di delitti commessi con finalità di terrorismo ed
eversione dell’ordine democratico.
Inoltre 41-bis si è esteso nello spazio, facendo dello Stato italiano un punto
di riferimento per le politiche repressive in campo internazionale. Infatti
recentemente questo modello detentivo, sperimentato in Italia, è stato proposto
e preso in considerazione dalle amministrazioni dei sistemi carcerari cileno e
francese.
Il principale argomento utilizzato per giustificare il carcere duro è la sua
utilità nel contrastare la mafia, conseguenza della diffusa quanto reazionaria
ideologia antimafia.
Essere contro la mafia non vuol dire essere favorevoli al carcere duro, ad
esempio
gli anarchici sono contro la mafia, perché qualsiasi mafia è un sistema fondato
sulla gerarchia, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento e quando lo scontro tra
le classi si accende si dimostra fedele alleata dei capitalisti e dello Stato,
ma allo stesso tempo gli anarchici sono per la distruzione del carcere.
Basterebbe conoscere la storia degli anarchici di Africo in Calabria, della loro
lotta contro la ‘ndrangheta e di come lo Stato li abbia repressi per favorire
l’insediamento delle Cosche, per fugare qualsiasi dubbio in merito a questa
irreversibile inimicizia, messa recentemente in discussione dalle vergognose
insinuazioni del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro.
Non pretendiamo rappresentare l’opinione di tutti ma, limitandoci alle idee di
chi scrive, riteniamo che l’esistenza della mafia sia indissolubilmente
connaturata all’ingiustizia insita nel sistema capitalista e che quindi solo
tramite la distruzione di questo sistema si potrà estinguerla. Il carcere duro
invece non risolve nulla in questo senso, infatti non solo la logica punitiva ed
il carcere duro non hanno evidentemente sconfitto la mafia, ma l’antimafia ha
creato nuove concentrazioni di potere e rafforzato la parte più profonda e
totalitaria dello Stato. Rigettiamo totalmente quindi la logica punitiva insita
nella concezioni giustizialiste, tanto di destra quanto di sinistra, che
arrivano a fare presa perfino in ambiti che si definiscono libertari. Questa
visione, strettamente legate al pensiero dominante, si concentra sulle
responsabilità individuali di fenomeni ritenuti criminali o nocivi per la
società, rifiutandosi di indagarne le cause. Ragionando in questi termini i
conflitti interni alla società vengono letti come un problema di legalità e la
soluzione è sempre la repressione. Invitiamo a ribaltare completamente questo
paradigma ed a considerare che si possono risolvere i problemi di una società
solo analizzandone e comprendendone le cause originanti ed andando a ad agire su
di esse. La lotta di classe quindi è l’unica soluzione possibile per avere
giustizia, per un vero cambiamento della società, e anche per sconfiggere la
mafia.
Il 41-bis va chiuso perché è tortura, è il carcere nella sua massima
espressione, e la sua funzione antimafia non lo giustifica. Inoltre il 41 bis va
chiuso perché è uno strumento di guerra, pronto per per essere usato dallo Stato
contro chiunque osi metta in discussione l’ordine che domina la società in cui
viviamo.
In un periodo di relativa pace sociale, lo Stato si è dotato di una serie di
potenti strumenti repressivi, che vanno dall’apice del 41-bis, fino arrivare al
decreto sicurezza approvato quest’anno. Questi strumenti non sono scollegati tra
loro, ma andrebbero letti come un sistema complessivo che abbraccia l’intero
spettro delle pratiche con cui si esprime il conflitto sociale, mirando a
impedirgli qualsiasi possibilità di espressione che non sia totalmente sterile o
recuperabile.
Oggi che il pluridecennale periodo di dominio incontrastato del capitalismo
occidentale è giunto al termine e sul suo orizzonte si addensano pesanti nubi
che portano tempesta, il rapporto tra conflitto sociale e repressione è di
stringente attualità.
Segnaliamo alcune importanti questioni, che comportano l’aumento della
repressione, quali la fine del mondo unipolare e la ridefinizione degli
equilibri internazionali, quindi la guerra come questione fondamentale del
presente e quindi la necessità di mantenere un rigido controllo del fronte
interno. Altra importante questione è la diminuzione costante della richiesta di
forza lavoro all’interno dell’occidente, dovuta ad una somma di cause tra cui
l’introduzione di nuove tecnologie, che porta all’esistenza di masse umane
eccedenti rispetto alle esigenze del capitale, quindi alla necessità per chi
detiene il potere di gestirle: l’aumento di repressione e controllo è la
soluzione che è stata adottata. Il 41-bis è un carcere di guerra, è la punta di
diamante di questo guerra di classe dall’alto verso il basso, uno strumento che
oggi è rivolto conto pochi combattenti ma che è a disposizione dello Stato
qualora dovesse allargarsi il conflitto.
Lo sciopero della fame intrapreso dal compagno anarchico Alfredo Cospito per
l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo ostativo, ha avuto il grande merito di
fare prendere coscienza a molti, anche al di fuori del movimento, della
inaccettabile esistenza del 41 bis.
Questa iniziativa è stata sostenuta da una campagna di solidarietà
internazionale. In previsione della decisione su un eventuale rinnovo del regime
speciale di detenzione al compagno, che verrà presa dal ministro della giustizia
Carlo Nordio nei prossimi mesi, è giunta l’ora di riprendere la discussione e la
mobilitazione in merito a questa lotta.
Un lavoro iniziato bene che dobbiamo ancora concludere…
complici e solidali
I CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) vanno chiusi e basta, questo è
quello che abbiamo imparato in questi lunghi anni di lotte e resistenze da quei
campi di…
Ringraziando chi l’ha fatta, riceviamo e diffondiamo la traduzione di questo
articolo apprso sulla rivista francese “La Houle” (n° 1, giugno 2024). Al di là
della precisione storica (abbiamo qualche dubbio, ad esempio, sul carattere
“anarco-sindacalista” dell’Internazionale Antiautoritaria del 1872…), si tratta
di un insieme di riflessioni interessanti per un “internazionalismo senza
comunità” e senza obblighi morali(stici), come quelli che hanno pesato su certi
posizionamenti pseudo-libertari e militaristi riguardo la guerra in Ucraina.
Per ordinare copie di “La Houle”, scrivere a bouteillealamer@riseup.net
Per scaricare in formato pdf: tesla_internazionalismo
TESLA & L’AZZARDO INTERNAZIONALISTA
A metà settembre a Francoforte un concessionario Tesla vede una parte del suo
stock di veicoli elettrici sparire tra le fiamme. Inizio ottobre, oltre Reno,
avviene un attacco simile contro un altro concessionario della ditta a Chambéry.
Per due volte, si alza l’alba su dei parcheggi disseminati di carcasse
calcinate.
Quando un’impresa si fa notare troppo
Quando ho saputo di questi due avvenimenti, mi sono chiesto, col sorriso sulle
labbra, se Tesla fosse stata presa di mira spesso dopo la sua folgorante
espansione e la mediatizzazione dell’ormai celebre Elon Musk[1]. Speravo proprio
di sì, dato che, nel giro di qualche anno, questo padrone della Tech ha inviato
centinaia di satelliti a bassa altitudine che gli hanno permesso, tra le altre
cose, d’influire significativamente sull’inizio della guerra in Ucraina tramite
i servizi di informazione della sua IA. Il successo e la potenza di questo
fallocrate supera quella di molti Stati. A questo si aggiunge ovviamente la
progettazione e la commercializzazione dei veicoli Tesla, elettrici e
semi-autonomi (per il momento) che qui si diffondono ad una velocità inaudita.
Ecco in breve quello che ho trovato dopo un piccolo giro nella rete. Febbraio
2020 ad Amburgo, 13 automobili cosparse di bitume. Ottobre 2020 a Malmö in
Svezia, 7 Tesla incendiate presso un concessionario. Maggio 2021 a Berlino,
incendio dell’alimentazione elettrica del cantiere della Gigafactory. Giugno
2021 a Tolosa, un veicolo incendiato. Maggio 2023 nella provincia della Loire,
un’auto vandalizzata. Settembre 2023 a Graz in Austria, diverse Tesla ricoperte
di bitume. Febbraio 2024 a Berlino, due veicoli e due punti di ricarica
incendiati. Marzo 2024 ancora a Berlino, nuovo attacco alla rete elettrica della
Gigafactory, che blocca tutta la produzione per diversi giorni. Questa lista non
è esaustiva [e va ricordato l’attacco di aprile 2025 a Roma, ndt].
Dunque è da qualche tempo che la multinazionale attira i fulmini di individui
ostili al suo sviluppo. Notiamo qui, ad ogni buon fine, che dopo quella di
Berlino è prevista un’altra Gigafactory Tesla in Europa, probabilmente nel Nord
della Francia, nella “valle della batteria”, che punti di ricarica e veicoli
parcheggiati pullulano per le strade e che molti altri concessionari vendono
tranquillamente le loro merci tecnologiche.
Cos’è questa storia dell’azzardo ?
Torno un momento su quei due attacchi, evocati in esergo, che hanno suscitato il
mio entusiasmo, preambolo a questo articolo. A meno di un mese di distanza,
vengono realizzate due azioni molto simili, in due Paesi differenti. Stesso
obiettivo, stessa modalità operativa. Potremmo immaginare che un gruppo – che
dico, una brigata internazionale, si muova ormai sotto il naso dei doganieri e
della polizia alle frontiere. L’ipotesi è seducente. Potremmo anche supporre che
essendo venuti.e a conoscenza dell’attacco a Francoforte, dei.lle complici, in
Francia, si siano organizzati.e per colpire tre settimane più tardi. Altra
ipotesi seducente. Ahimé, la disparità politica che distingue i comunicati[2] e
la distanza temporale molto ravvicinata tra i due colpi mi fanno propendere,
frettolosamente ne convengo, per un’altra ipotesi. L’internazionalismo qui
all’opera sarebbe quello dell’azzardo[3]! Ma in fondo che importa la fondatezza
delle mie speculazioni, lasciamole agli sbirri.
La mia battuta sull’azzardo internazionalista ha piuttosto la finalità di
mettere sul tavolo il fatto che Tesla sia divenuta un obiettivo pregiato in
diversi Paesi, e di stendere sulla carta le mie prime riflessioni sulle
prospettiva e l’efficacia dell’internazionalismo oggi.
Dalla polvere del passato…
Devo iniziare ammettendo che la mia generazione, in Francia, non si è per nulla
politicizzata all’interno un panorama di riferimento internazionalista vitale.
Al massimo ho (abbiamo?) letto qualche testo di una volta che brandiva questa
parola come una fiaccola, un grido di raduno per gli.le spossessati.e di allora.
Possiamo rilevare un’eccezione presso i comunisti. Per questa volta ascoltiamo
la loro tiritera. Il disco rotto “Proletari di tutto il mondo, unitevi”, per
esempio, sulla scia di Marx. È che una volta, la maggior parte dei.lle ribelli
rivendicavano il loro comunismo, raramente per fondare un Partito, sempre e
comunque per immaginare una società economicamente egualitaria. Oggi appellarsi
al comunismo ci sembra incredibile ma credetemi che anche Clément Duval,
rapinatore della fine del XIX secolo del gruppo Le pantere di Batignolle, aveva
degli ideali comunisti.
Credo di poter affermare che l’internazionalismo riguardi originariamente la
coscienza e la solidarietà di classe a scapito e a dispetto delle frontiere.
Bisogna dire che all’epoca la stratificazione sociale era più evidente che oggi.
In basso si trovavano i.le “lavoratori e lavoratrici” in alto “la borghesia”.
Tra i due un crudo rapporto di sfruttamento economico. Il sudore per gli.le
uni.e e il valore per gli.le altri.e. Un buon numero di sfruttati.e si
concepivano e si vivevano in una grande comunità, il “proletariato”. Essi.e
conoscevano condizioni d’esistenza simili in quei tempi di industrializzazione
galoppante, migravano verso i centri urbani, condividevano la miseria, la
malattia, negli stessi tuguri o periferie operaie.
In tutto il mondo, anche gli anarchici, si salutavano volentieri con “compagno”
e combattevano insieme il borghese. Questo, di fronte alle facce nere, alle mani
callose e alle schiene piegate sul mestiere, sfoggiava spesso un paternalismo
filantropico. Le mani e il viso bianco, vestito in maniera impeccabile, si
distingueva nettamente dalle masse lavoratrici. Proprietario della terra, dei
mezzi di produzione e della materia prima, aveva tutto il potere di comprare la
forza lavoro degli.lle umili, obbligati.e, quanto ad essi.e, a mettere a
disposizione i loro unici beni, i loro corpi, fino ai loro sessi e i loro ventri
per quanto riguarda le donne (etimologicamente, il.la proletario.a è colei o
colui che fa dei figli). Queste ultime sgobbavano nelle fabbriche e nelle
famiglie eteropatriarcali in corso di solidificazione. Produrre e riprodurre.
A ciò possiamo aggiungere che gli Stati e le Nazioni, affiancati con un
trattino, rivestivano forme diverse da oggi. La mano sinistra del governo, cioè
lo Stato sociale, più tardi provvidenziale, praticamente non esisteva. I poveri
stavano ancora sotto l’egida “benevola” della Chiesa. Solo il potere
sovrano/regale regnava sui suoi soggetti. Esercito, Polizia, Giustizia,
Prigione. Ospedale psichiatrico. Il rumore degli stivali e dei cavalli soffocava
gli scioperi e le manifestazioni. Numerosi.e erano coloro che cadevano sotto le
pallottole o le sciabole. Deibler[4] officiava a tempo pieno, montando e
smontando il suo patibolo a seconda delle condanne. Si rinchiudevano
allegramente i.le vagabondi.e, le “isteriche” e altri.e “non perbene” al
manicomio della Salpêtrière. La follia aveva la schiena larga e giaceva ai
ferri. Il nazionalismo e il patriottismo si duplicavano nell’ideologia
imperialista. I governi occidentali massacravano e schiavizzavano popolazioni
del Sud in regioni sommariamente ribattezzate colonie (anche la Chiesa era della
partita).
Sotto i suoi multipli gioghi ma forte di questa coscienza proletaria, la Prima
Internazionale (associazione internazionale dei lavoratori) nacque nel 1864.
Essa mira a coordinare le lotte sindacali in tutti i Paesi. In seguito a dei
conflitti tra sostenitori.trici della conquista dello Stato e anarchici, questa
Internazionale è ben presto divisa e disciolta. Seguiranno la Seconda, la Terza
e infine la Quarta di ispirazione marxista, staliniana e poi trotzkista. Dal
canto loro, gli anarchici fondano l’Internazionale antiautoritaria nel 1872 nel
Giura svizzero. Non dura che 6 anni ma dà il tono ad un anarco-sindacalismo
allora in piena effervescenza.
Qualche anno più tardi, nel 1905, emerge, inizialmente negli Stati Uniti, poi in
altri Paesi anglofoni e infine in decine di Paesi, l’IWW. L’Industrial workers
of the world è un sindacato internazionalista, radicale, che organizza scioperi
generali e sabotaggi in una prospettiva di “abolizione del salariato”. I.Le
suoi.e aderenti, i.le wobblies, sognano e praticano l’autogestione sul luogo di
lavoro. Ecco in che contesto e in che maniera è nato, credo, l’ideale
internazionalista. Sì, esagero un po’ con la mia terminologia antiquata, la
parola stessa è antiquata, ma è per dare un piccolo accento storico alla mia
narrazione.
… alle riconfigurazioni del presente
In Occidente il capitale si è ristrutturato, è divenuto più complesso. La
maggioranza del proletariato, vinto, ha subito una metamorfosi divenendo classe
media, ausiliaria di una borghesia diventata invisibile per i.le comuni mortali.
Restano i precari, molto spesso tra le minoranze razzializzate e di genere. Le
comunità, specialmente contadine e operaie, sono state frammentate.
Spazio agli atomi umani. Cittadini.e, lavoratori.trici (ora si dice
impiegati.e), consumatori.trici sono mediati.e dall’amministrazione, dalle
macchine e dalle merci. La sparizione dei sobborghi, della sussistenza rurale,
delle cooperative popolari, delle gilde di mestieri, dei circoli di gioco e di
dibattito, dei sindacati combattivi …, ha contribuito poco a poco ad annientare
fattualmente e sentimentalmente l’appartenenza alla classe sociale degli.lle
spossessati.e.
Non sentiamo più cantare “l’internazionale sarà l’umanità”, non sentiamo più
gridare dall’alto dei palchi, davanti ad una platea di depredati.e, “Domani
sorgerà una società fraterna, senza Stato, senza frontiere, senza Dio e senza
legge”. Niente più “Causa”, niente più “Rivoluzione sociale” e a malapena ci si
può dichiarare rivoluzionari senza diventare lo zimbello degli altri.
Alla ricerca di continuità
Non crediate che io compianga il disfacimento di ciò che ho descritto. Cerco
semplicemente di rintracciare l’origine dell’internazionalismo e le cause della
sua agonia. Senza nostalgia, certo, ma con un reale desiderio di soffiare via la
polvere che ricopre una parte di questo passato. Per osservarlo meglio e per
ispirarvisi. Poiché, più che di rotture, la sostanza del tempo è fatta di
continuità, di evoluzione e di ciclicità.
Delle attività e delle battaglie portate avanti tra gli anni ’60 e gli anni ’80
da gruppi quali Primero de Mayo, i GARI (gruppo d’azione rivoluzionaria
internazionalista), le Rote Zora o le Black Panther per non citarne che alcuni.
Delle azioni firmate ALF (animal liberation front) o ELF (earth liberation
front) realizzate a partire dagli anni ’80. Delle manifestazioni giganti dei
contro-summit che hanno conosciuto il loro apice da Seattle nel 1999 e in
qualche appuntamento successivo. Degli incontri anarchici internazionali che
continuano a tenersi ogni anno. Della campagna Shac Attack (stop huntingdon
animal cruelty) contro un laboratorio di vivisezione e le sue filiali che ha
visto coordinarsi numerosi.e antispecisti.e nel mondo tra il 1999 e il 2003.
Dei.lle compagni.e, emigrati.e o nomadi che tessono pazientemente i fili
attraverso le frontiere. Della FAI-FRI (federazione anarchica informale, fronte
rivoluzionario internazionalista) molto attiva all’inizio degli anni 2000, che
ha rivendicato degli attacchi in diversi Paesi. Del viaggio in Europa, nel 2022,
delle delegazioni zapatiste provenienti dal Messico. Possiamo anche menzionare
la recente iniziativa “switch off! The system of distruction” nel 2023.
L’appello di questa campagna di sabotaggio, partendo dalla transizione
energetica, insiste sugli intrecci di numerose lotte nel mondo intero, con la
volontà di tessere dei legami o consolidare il tessuto esistente tra esse.
Questi esempi alla rinfusa, assemblaggio eterogeneo, mescolano delle esperienze
e delle prospettive molto diverse. Le affianco qui guidato unicamente dal prisma
dell’internazionalismo.
Osservando queste continuità, avremmo torto a non recuperare ed esaltare questo
immaginario internazionalista. Poiché è fecondo e pericoloso per questo mondo
che affrontiamo. Perché merita di meglio che di restare relegato in qualche
canto rivoluzionario, che di fuoriuscire da qualche bocca che sproloquia. Questo
immaginario deve tornare ad abitarci e a guidare il nostro agire.
Le sconcertanti posizioni guerrafondaie di certi.e anarchici.che e
antifascisti.e (magari più numerosi.e di quanto si pensi) contro “l’impero di
Putin” lo dimostrano a sufficienza[5]. La debolezza attuale del nostro
antimilitarismo deve molto, credo, a quella del nostro internazionalismo.
Desidero, insieme ad altri.e, chiarire le nostre posizioni radicali contro la
guerra, gli Stati, le nazioni, contro le finzioni di popolo, identità e
respingere le ideologie virili, marziali e belliciste.
Quanto a Tesla, il fatto che convergano rabbie da diversi Paesi contro questa
impresa è anche un’occasione insperata per riconfigurare ed amplificare
internazionalmente l’offensiva. È una delle polene della nave da far affondare,
archetipo insieme ad altri di questa dominazione in evoluzione. Sono molti gli
aspetti a bordo: alienazione, sfruttamento, estrazione, transizione elettrica,
sorveglianza, automazione. E la guerra è l’oceano in cui naviga. Tesla non è che
un esempio, un’occasione di allenare il proprio spirito a ragionare su dei piani
e su una scala più ampi. Allenamento che affina la conoscenza dei sistemi di
oppressione attuali e in divenire e che può avere come corollario il percepire e
organizzare le forze, le nostre, per sovvertire tutti i poteri. Avanti i cinici,
“put your hands up in the air” e tutti.e con me!
A proposito di solidarietà
A fine febbraio è stato tradotto un articolo di un compagno siberiano,
inizialmente pubblicato su un media russo (Avtonom). Vi si poteva leggere
un’ingiunzione alla solidarietà con gli.le anarchici.che impegnati.e sul fronte
ucraino. Questo cameratismo imposto illustra perfettamente lo spirito
dell’internazionalismo così come ha preso forma alla fine del 19° secolo e come
è perdurato, a quanto pare, fino ad oggi. E non sono né dei.lle comunisti.e
retrogradi.e né degli.lle anarcosindacalisti.e solitari.e che ce lo ricordano.
La solidarietà obbligatoria, morale dei capi e dei gregari, diviene desiderabile
se proviene dalla penna anarchica? Quel compagno porta un discredito sferzante a
questo tipo di solidarietà. Non concepisco che possa emanare da un dovere e non
da una generosità personale. Quale che sia il suo oggetto. Solidarietà per
classe sociale, sorellanza, per l’essere compagni.e, per una lotta, tra abitanti
di quartiere, tra prigionieri.e … Tutte possono avere senso, purché vengano dal
cuore! Ernest Armand [in realtà Émile Armand, ndt], un vecchio anarchico
dell’inizio del 20° secolo ha scritto da qualche parte: «Chiunque accetti
volontariamente l’obbligo della solidarietà o il vincolo all’aiuto reciproco
appartiene al mondo dell’autorità». Con dei discorsi simili, all’epoca, non si
sarà fatto solo degli amici. Io condivido la solidarietà con coloro che la
considerano, come me, un gesto forte, cosciente, soggettivo e sincero. Siamo
dunque lontani da una legge o un riflesso dato tra coloro che condividono a
priori 3-4 idee, un territorio, delle condizioni sociali, un’identità di genere
o delle pratiche rivoluzionarie.
Sul bisogno di comunità
Diversi indici storici lasciano pensare che l’internazionalismo sia germogliato
sotto gli auspici di un proletariato che aveva riconosciuto i suoi nel mondo. A
causa senza dubbio delle guerre, delle migrazioni forzate e grazie alle lotte
anti-imperialiste e di decolonizzazione, si è coltivata una certa fratellanza di
classe. Oggi che la classe proletaria è sconfitta, che conclusioni e che
prospettive possiamo trarre?
Alcuni potrebbero vedere, volere o voler vedere altre comunità emergenti o in
fase di gestazione. Si pensi alla Moltitudine, cara a Toni Negri o alla
Resistenza ecologica di Derrick Jensen e compari. Sinceramente ignoro se queste
tesi o ipotesi siano realizzate, plausibili o assurde. Volto loro la schiena per
altri motivi. Rifiuto l’idea che una comunità sia la base preliminare e
inesorabile di progetti internazionalisti (o peraltro di qualsiasi altro
progetto, ma non è questo il tema). Provo dell’ostilità per ciò che richiede, o
induce, sentimento d’appartenenza, affiliazione o identificazione collettiva.
Tutto ciò che fa di Sé un membro di un Corpo.
La comunità, agglomerato di individui.e, riporta necessariamente, temo, cultura,
norma, morale, prescrizione, interdizione, integrazione, esclusione, ricompensa,
punizione, onore, umiliazione… Rituali di coesione dei “nostri”, rituali di
differenziazione dagli “altri”. Non sapendo se l’internazionalismo
sopravvivrebbe senza comunità internazionale e internazionalista, rischio di
finire in un’impasse[6]. Fortunatamente, non avendo questa certezza, mi lascio
la possibilità di concepire un internazionalismo senza comunità e lo sottopongo
al giudizio di chiunque voglia analizzarlo. Se mi lasciassi andare alle
divagazioni, mi porrei ora la questione del comune senza comunità, ma temendo di
perdermi mi fermo qui.
Dall’ombelico all’internazionalismo
L’alienazione che subiamo in diversi gradi riduce il nostro campo visuale e
intellettuale ad un quotidiano limitato da un’esistenza falsamente separata ed
indipendente. Facciamo fatica ad essere consapevoli di totalità, trasversalità,
legami ed influenze tra realtà multiple. La mistificazione dei nostri rapporti
al mondo maschera abilmente meccanismi, cause, effetti, fenomeni che collegano
internazionalmente gli esseri viventi e la materia, reificati e appiattiti dalla
razionalità economica. Uno dei primi gesti del pensiero consiste nel percepire
le dimensioni nascoste, qualitative e quantitative che fondano le nostre
interdipendenze. Possono derivare da dominazioni, da idee, da affetti, da lotte,
da viaggi, da territori, da condizioni sociali o da tutte queste cose insieme,
senza omettere quelle dell’intangibile trama della vita. Non sto cercando di
scoprire quale comune possa sottendere meglio di un altro ad un nuovo
internazionalismo. Con l’aiuto di intuizioni e di analisi sistemiche, cerco di
aprire grande, immensamente grande, la lente focale delle mie percezioni e
comprensioni del mondo (e magari delle tue, delle loro) che l’alienazione altera
con i suoi filtri, oscurati dai suoi veli, ristretti dai suoi paraocchi.
Interessi per la Storia, le ideologie, le religioni, la psiche, la geopolitica,
le oppressioni, i rapporti tra animali, piante, tra ambienti… con o senza
approcci scientifici, possono portare a cogliere gli innumerevoli agenti,
relazioni e interazioni che costituiscono questo mondo. Quando le nostre
capacità sensoriali e riflessive si emancipano, anche parzialmente, la nostra
comprensione e la nostra attenzione alle relazioni esistenti e potenziali
aumentano. Mediante un’altra presenza e altri collegamenti, le nostre capacità
ad iniziare, trasformare e sovvertire questi legami crescono di pari passo.
Quando si è risoluti.e a combattere la dominazione e vivere il più possibile in
maniera anarchica, è possibile intraprendere delle connivenze, dal vicinato a
livello internazionale, per densificare ed estendere la propria rivolta tramite,
per e grazie a quelle degli altri.
Prospettive concrete
Cos’è che nelle dinamiche e nei tentativi passati può ispirare e rinforzare le
prospettive internazionaliste attuali? Il rigetto della comunità e della
solidarietà obbligatoria permettono, in negativo, di immaginare l’aiuto
reciproco e la cooperazione come degli atti individuali e volontari. La prima
risoluzioni dell’Internazionale anti-autoritaria precisava che essa “non ha
altra missione che quella di riunire aspirazioni, bisogni e idee del
proletariato in modo che si armonizzino ed unifichino il più possibile”.
L’apertura della propria lente focale sensoriale e mentale permette di
proiettare e sperimentare delle sinergie all’interno ma anche al di fuori del
“proletariato”, degli.lle “oppressi.e”, “dei.lle rivoltosi.e” e di altre
(auto-)designazioni e abitudini dai confini limitati. Citerò ancora una volta E.
Armand che, nonostante fosse lungi dall’essere tra i più combattivi, scrisse che
«ci sono degli incarichi che sono impossibili a tentare, svolgere o portare a
termine in altro modo che mediante un lavoro associato». Per riguadagnare
vigore, la prospettiva internazionalista richiede di associarsi localmente, ma
non solo. L’incarico di distruggere questo mondo da cima a fondo passerà, credo,
per l’internazionalità del nostro agire. Prendiamo le mosse dalle esperienze di
lotta passate. I.le wobblies, parlando una quantità di lingue diverse, si sono
uniti.e in federazione in diversi continenti. Alcuni gruppi armati dagli anni
’60 agli anni ’80 hanno saputo comporre delle complicità internazionaliste tra
contrade lontane. L’ALF, l’ELF, Shack attack e la FAI-FRI tra le altre, sono
riuscite e riescono ancora a propagare informalmente delle offensive.
Coniughiamo convinzioni internazionaliste e pratiche internazionaliste.
Pubblichiamo dei giornali poliglotti e diffondiamoli largamente. Rinforziamo i
legami tra compagni.e all’estero mediante delle corrispondenze, delle visite.
Continuiamo ad organizzare degli incontri internazionali per conoscersi,
discutere, sviluppare rapporti di fiducia e ambizioni. Accentuiamo l’agitazione
sociale contro le guerre. Tessiamo delle affinità tra e in diversi territori.
Aggiorniamo le nostre battaglie contro patriottismi, nazionalismi, imperialismi.
Diamo risonanza a conflitti lontani geograficamente mediante delle
manifestazioni di solidarietà a parole e nei fatti. Andiamo a sostenere
fisicamente lotte, occupazioni lontane da casa. Troviamo dei passaggi per coloro
che devono circolare al di fuori dai radar. Approntiamo ospitalità per coloro
che devono partire senza poter tornare. Inviamo soldi e materiali là dove
desideriamo appoggiare le forze. Battiamoci contro le frontiere e per gli.le
indesiderabili che le attraversano. Usciamo dalle nostre cerchie per scoprire
altre interazioni fruttuose qui o altrove, senza transigere sui nostri fini e i
nostri mezzi.
Immaginiamo e tentiamo ancora, finché il battito dell’internazionalismo farà
vibrare i nostri corpi.
Andiamo figli senza patria[7]! (anche se non ci dovessero essere giorni di
“gloria”)
1. Questo magnate possiede, oltre a Tesla, X (precedentemente Twitter), Space X
(di cui il programma Starlink) e investe enormi quantità di denaro nella
riproduzione artificiale eugenetica con l’obiettivo di promuovere la razza
bianca dei/delle ricchi/e della Silicon Valley.
2. Vedi https://sansnom.noblogs.org/archives/20942 e
https://sansnom.noblogs.org/archives/18854.
3. Il 18 aprile, il giornale “Libération” pubblicava un articolo sui recenti
licenziamenti di massa e inauditi, almeno secondo i sindacati, di 14.000
operai.e presso Tesla. La fine dell’articolo confermava la mia tesi di un fato
internazionalista decisamente astioso nei confronti della ditta. Questa
subirebbe una crisi a causa degli effetti congiunti di tre fattori: atto di
pirateria Huti di un cargo di pezzi automobilistici nel mar Rosso, blocco
dell’approvvigionamento di materiale da parte di un sindacato svedese, attacco
alla Gigafactory di Berlino.
4. Anatole Deibler, sulla scia del padre, assume la carica di boia capo, che
occupa per 40 anni! Questo celebre carnefice ha ucciso con le sue mani 299
persone tra il 1899 e il 1939.
5. Non dimentichiamo anche che Piotr Kropotkine sostenne, con altri 15
“compagni”, la Triplice intesa durante la prima guerra mondiale.
6. Questa frase contorta mi permette di rendermi conto che organizzarsi in
maniera internazionale non significa necessariamente essere internazionalisti,
così come agire localmente non impedisce di essere internazionalisti. È quindi
più una questione di tipo di attività e di prospettive, anche se
l’internazionalismo si basa, come minimo, su di un’apertura geografica sul piano
delle idee.
7. Détournement dell’inno francese (Allons enfants de la Patrie, “Andiamo figli
della Patria”) [N.d.T.]
In questo episodio di Harraga, in onda ogni venerdì su Radio Blackout, insieme
al prezioso contributo di un compagno dalla Sardegna abbiamo parlato di uno dei
CPR più isolati, punitivi…
Riceviamo e pubblichiamo questo testo in controtendenza (potremmo definirlo una
critica su basi scientifiche dell’attuale modello tecnoscientifico), e in
continuo aggiornamento sul blog http://nodominio.noblogs.org. Si tratta di un
saggio lungo e complesso, supportato da numerose note e fonti ipertestuali, che,
partendo dalla “questione del clima” e da una critica dei movimenti per la
“giustizia climatica”, tocca diversi nodi ineludibili per chi intenda affrontare
davvero la catastrofe ecologica in corso (alla cui base si trova proprio quel
paradigma cibernetico al quale le nuove ideologie “ecoclimatiche” sono del tutto
interne). Un fronteggiamento che – a parere dell’autore come nostro – non può
non passare da una rivoluzione libertaria, decentralizzatrice e agroecologica, e
non può non scontrarsi tanto con la classe dominante e il sistema capitalista in
generale quanto con le diverse “transizioni” pseudo-green e ultratecnologiche.
Di seguito qualche bello stralcio per avvertire i lettori di cosa li aspetta:
«La visione ecologica sottesa a questa temperie culturale è anch’essa
produttivista, atteggiamento tipico di chi vuole esercitare controllo. In essa
la missione di ogni specie è la massimizzazione dell’efficienza e dell’impiego
di energia (principio di massima potenza di Lotka). Ciò è un obbligo
storicamente indotto da parte dei sistemi di dominio, ormai introiettato e
recondito. Nasce dalla volontà di ostacolare l’invecchiamento e il prevalente
caos delle forze naturali ostili. Trova riscontro nelle formule
tecno-scientifiche di conversione dell’energia in lavoro e di aumento
dell’entropia, come recita il secondo principio della termodinamica. La
declinazione moralistica e contraddittoria di questo dogma emerge
nell’imperativo rivolto solo ai sudditi di evitare gli sprechi, benché questi
siano inevitabilmente enormi nei sistemi produttivisti per via delle loro
caratteristiche intrinseche. Giammai ciò accade per sinceri principi di equità e
sintonia, quanto proprio per permettere ai sistemi di dominio stessi, più o meno
velatamente, di sfruttare all’estremo tutte le forze “naturali” e umane.»
«Più nello specifico, va denunciata la deriva tecno-totalitaria che il pensiero
sistemico ha intrapreso nell’ultimo secolo. Da alcune tendenze oliste, risonanti
e vitaliste esso è poi paradossalmente stato sviato su modelli oggettivanti e
totalitari di controllo riduzionista e meccanicistico sempre più complessi. Ciò
fino ad arrivare al paradigma cibernetico-informazionale che fa convergere i
riduzionismi tecnologici riunificandoli in un sistema di dominio. Esso orienta
anche le valutazioni scientifiche e socio—economiche […] e persino le branche
attualmente maggioritarie dell’ecologia politica stessa. […] Gli odierni
movimenti “”climatici” mainstream sono figli di questa temperie culturale. Tra
di essi è quasi del tutto assente una seria critica della dipendenza dal sistema
tecno-industriale, così come manca la critica della digitalizzazione e
dell’iperconnessione.»
«Sforzandosi di giocare al gioco del potere, si perde il potere di cambiare le
regole.»
Qui il testo: clima, di lotta o dirotta (1)
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: DA PARI A PARI
DA PARI A PARI
Contro l’autoritarismo identitario
Siamo alcuni compagni e compagne anarchici che hanno preso parte all’assemblea
“Sabotiamo la guerra”. Con questo scritto vogliamo prendere parola su una brutta
vicenda capitata alla nostra assemblea (non la sola di questo tipo, ma la più
grave), ma soprattutto su una forma mentis e un’ideologia che rendono ormai
sistematici episodi di questo genere. Se ci presentiamo in maniera tanto
circoscritta è perché “Sabotiamo la guerra” è appunto un’assemblea, fatta di
volta in volta da chi vi partecipa, e non possiamo parlare a nome di tutti i
suoi numerosi partecipanti, passati, presenti e futuri. Fatta questa premessa,
cominciamo a spiegarci.
Gli scorsi 11, 12 e 13 ottobre 2024, presso la Villa Occupata di Milano, avrebbe
dovuto svolgersi la “tre giorni” di discussione Sfidare la vertigine,
organizzata dalla nostra assemblea e dedicata appunto ad alcune delle questioni
vertiginose ma ineludibili che ci pone questo presente (a partire da quelle
legate alla guerra, che ne costituisce né più né meno che l’orizzonte storico).
La “tre giorni” è stata rinviata sine die, e di fatto annullata, per
l’opposizione di alcuni (sottolineiamo: alcuni) frequentatori della Villa, i
quali accusano di stupro un compagno che partecipa a questo percorso, e
l’assemblea stessa di supportarlo. Sarebbe stato più semplice e conveniente, da
parte nostra, ignorare questo episodio e tirare avanti, come d’altronde abbiamo
fatto in altre occasioni, quando ci sono stati simili tentativi di far saltare
nostre iniziative per via della presenza di questo compagno all’interno del
nostro percorso. Le nostre coscienze ci hanno invece detto di esprimerci.
Essendo a conoscenza delle dinamiche che hanno portato a generare questa grave
accusa, e avendo buoni motivi per considerarla infondata, ci sembra una vera e
propria ingiustizia che queste voci continuino a circolare senza che nessuno
dica niente. Un’ingiustizia verso il nostro compagno e poi verso la nostra
assemblea. Ragionandone insieme, ci siamo resi conto che era impossibile
affrontare il problema senza entrare nel merito dei presupposti ideologici,
etici e di mentalità alla base di questo episodio, mentre farlo è un’esigenza
che già sentivamo a prescindere. Se quella contro il compagno è infatti
un’accusa molto grave, non si tratta, purtroppo, di un episodio isolato: è
diventato ormai prassi corrente – negli ambienti “antagonisti” come in vasti
settori della società – accusare questo o quell’individuo, questo o quel gruppo
di colpe infamanti (di volta in volta legate alla sfera sessuale, ai rapporti
tra i generi o persino a generiche “dinamiche di potere”) senza farsi carico di
fornire motivazioni, né dare a nessuno – si tratti del diretto interessato o di
altri – la possibilità di discutere la consistenza delle accuse mosse, o ancora
di valutare autonomamente come affrontarle qualora si rivelino fondate. Oltre a
questo, ci pare che una certa mentalità e una certa ideologia (che qui
chiameremo “identitaria” per motivi che si chiariranno leggendo) stia producendo
da anni una serie di dinamiche che vanno ben oltre la sfera della sessualità e
dei rapporti interpersonali e che, almeno da parte nostra, abbiamo aspettato fin
troppo tempo per tentarne una critica (tuttavia, meglio tardi che mai). Da
queste riflessioni è nato questo scritto, che vuole essere un atto di denuncia e
un contributo al dibattito che va molto al di là della vicenda da cui è
scaturito. Se questo tipo di problemi sta lacerando sempre più mondi, portando
nei nostri anche a forme di desolidarizzazione verso intere realtà pesantemente
colpite dalla repressione, le ideologie che ne stanno alla base hanno, a nostro
parere, anche conseguenze più profonde, e profondamente nefaste. Da qui
l’esigenza di guardare tutto questo anche in prospettiva.
Sull’accusa in sé non intendiamo entrare in questa sede. Certi fatti, come si
suol dire “delicati” (e anche potenzialmente sensibili da un punto di vista
penale) devono essere trattati in spazi e momenti opportuni, quantomeno per non
fornire a sbirri e pennivendoli materiale su cui speculare. Ci limitiamo a dire
che se considerassimo il nostro compagno uno stupratore non ci organizzeremmo
con lui. È inoltre sottinteso – ma è il caso di esplicitarlo – che sia noi come
estensori di questo scritto, sia il compagno direttamente accusato, siamo ben
disposti a confrontarci faccia a faccia con chiunque ce lo richieda. Abbiamo
invece molto da dire sulle modalità con cui simili accuse vengono sempre più
spesso mosse, sulla mentalità che le sottende e sulle conseguenze che
determinano.
Posto che anche per noi, quando una persona denuncia di aver subito delle
violenze, bisogna mettersi in ascolto, questo non può diventare un alibi per non
discutere i fatti per quello che sono (o, più modestamente, per come appaiono a
noi poveri mortali), né per apporre marchi di infamia su chicchessia senza
neanche dargli la possibilità di replicare. Continuiamo testardamente a pensare
che chi muove accuse pesanti contro qualcuno – si tratti di aver compiuto una
violenza sessuale, di aver rubato soldi da una cassa comune o di essere un
delatore – dovrebbe farsi carico di quello che dice, sostenendolo con
argomentazioni chiare e circostanziate, e all’interno di spazi e momenti
opportuni. Che anche stavolta questo momento di confronto sia mancato ci pare,
con tutta evidenza, prodotto di una mentalità che ha sostituito la condizione al
fatto, e il vittimismo al pensiero. Siccome il problema non è banale, ci tocca
prenderlo un po’ alla larga.
Attraverso la mediazione di quello che possiamo definire femminismo
intersezionale, è arrivata da Oltreoceano un’ideologia che recita più o meno
così: pensarsi come esseri umani liberi ed eguali, che in quanto tali tentano di
sperimentare qui e ora, per quanto è possibile, rapporti di reciprocità (“ciò
che puoi fare tu, lo posso fare anch’io, e viceversa”) non è altro che una
vecchia fiaba umanistica. Siccome in quella guerra permanente che chiamiamo
società noi siamo in realtà diseguali – attraversati, spesso senza rendercene
conto, da dinamiche di sopraffazione che ruotano attorno alla linea del genere,
del colore, dell’abilità fisica o intellettuale, dell’età ecc. – bisogna essere
svegli e vigili (woke, espressione slang americana per “awake”), cogliendo tutte
quelle violenze che sono costantemente invisibilizzate e intervenendo nelle
relazioni umane per ristabilire l’equilibrio perduto. Da una parte esercitando
una moralizzazione permanente dei comportamenti (a partire dalla nota ossessione
per il linguaggio), specie se «agìti» da chi ha (o avrebbe) un qualche
«privilegio», ovvero una quota di potere sociale in più; dall’altro dando più
potere a chi ne avrebbe socialmente di meno. (È con questi “criteri” che ormai
diversi anni fa, negli Stati Uniti, alcune femministe proposero di far valere
doppio il voto delle donne e degli afroamericani.) Lo sfondo e – insieme – il
corollario di questo tipo di visione, è la filosofia postmodernista. Se la
verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile, l’unico “criterio” per
orientarsi e decidere in merito ai fatti, che pure non smettono di accadere,
diventa l’adesione emo-partigiana al punto di vista di chi è ritenuto più
«oppresso». Alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un
determinato soggetto.
Se sarebbe lungo produrre una critica complessiva di questa ideologia, e non
possiamo certo farlo in questa sede, una sua prima conseguenza è chiara: la
balcanizzazione all’infinito dell’umanità. Se non c’è la possibilità di
discutere tra eguali, perché diseguali sono le nostre esperienze e quindi i
nostri punti di vista, il risultato non può che essere la guerra di tutti contro
tutti, costellata da alleanze più o meno precarie. Con un corollario: siccome
nell’universo postmoderno non esistono più valori ma un solo disvalore –
affermare qualcosa con una qualche presunzione di certezza – a vincere il
confronto non è chi porta l’argomentazione più convincente o fatti
incontrovertibili, ma chi sa esibire meglio la propria condizione identitaria di
“vittima”, ed ha abbastanza letteratura accademica (i cosiddetti «studies») alle
spalle per essere considerato tale.
Se a taluni questa ideologia sembrerà ultra-libertaria, a noi pare portatrice di
un autoritarismo tanto più pericoloso quanto più si nasconde dietro la propria
presunta debolezza postmoderna. Se è infatti evidente che queste posizioni
troncano ogni possibilità di reciprocità tra gli individui concreti (ciò che
puoi fare tu posso farlo anch’io, quindi la mia parola vale quanto la tua),
fanno anche rientrare dalla porta di servizio quella ideologia del soggetto che
l’anarchismo aveva da tempo cacciato dalla porta principale. Prevedendo che «la
religione dell’umanità» avrebbe presto generato i suoi sacerdoti e i suoi
burocrati, nel lontano 1844 Stirner scriveva di schierarsi dalla parte dei
proletari, ma si rifiutava di «sacralizzarne le mani callose». Fuor di metafora,
Stirner afferma che se la condizione di oppressione patita dai proletari va
riconosciuta, bisognerebbe evitare come la peste di pensare che il proletariato
ha sempre ragione, per il semplice fatto che, come «soggetto», il proletariato…
non esiste (esistono solo individui concreti che, tra le altre cose, sono dei
proletari), e quindi non può avere né ragione né torto. Al passo con i tempi,
bisognerebbe dire la stessa cosa delle donne e dei neri, delle persone
omosessuali, degli immigrati e dei transgender. Se riconosciamo la diversa
oppressione specifica patita dagli individui appartenenti a queste categorie, la
combattiamo solo dove la ravvisiamo concretamente, senza mai rinunciare al
nostro giudizio autonomo e senza dare nessuna delega in bianco a chi si iscrive
a questa o quella parte di umanità perseguitata. Non solo perché teniamo alla
nostra libertà come a quella di chiunque altro, e quindi non daremmo neanche
all’individuo più vessato e umiliato del mondo quella che è di fatto una delega
di potere; ma perché sappiamo bene che, quando si stabilisce che qualcuno, per
una qualsiasi ragione, deve contare più di un altro, ad avvantaggiarsene non
sono “gli oppressi”, ma i loro autonominati rappresentanti. Per farci intendere,
ci tocca entrare nella parte più scomoda della questione. Quando, nelle nostre
piccole collettività, vengono sollevate accuse più o meno fondate di abusi
sessuali o di genere, a chi ha qualcosa da ridire viene dogmaticamente ribadito
che «bisogna ascoltare le compagne». Ora, già di per sé questa affermazione
contiene un’accusa implicita e non per forza giustificata (magari uno ascolta
eccome «le compagne», ma non è d’accordo con quanto viene detto); ma
soprattutto: ad essere considerate sono davvero tutte le compagne e le donne?
Per la nostra esperienza, la risposta è no. Vengono considerate solo quelle
compagne e quei compagni (uomini) allineati a posizioni già definite, ovvero ai
dogmi della nuova sinistra globale. Tutte le altre donne vengono ignorate,
quando non stigmatizzate come complici del loro «patriarcato interiorizzato». A
ben vedere, in questa nuova arte d’ottenere ragione, ciò che fa la differenza
non è tanto l’appartenenza concreta a una categoria offesa, ma l’adesione
all’ideologia che le santifica. A pretendere “ascolto” (ovvero, in realtà, un
allineamento rigido e schematico) è la nuova Chiesa sensibilista e politicamente
corretta… altro che «le compagne», i «non-bianchi» o i «corpi non normati»!
Ovviamente siamo consapevoli che la violenza sessuale, nelle sue varie forme,
non corrisponde sempre e solo all’immaginario comune della mera aggressione
fisica; che violenze piccole e grandi esistono anche nei nostri ambienti; che le
donne (ma si potrebbe allargare lo spettro a molte altre categorie oppresse)
hanno trovato e trovano spesso grandi difficoltà, resistenze e boicottaggi
quando le denunciano; mentre siamo favorevoli all’affrontamento collettivo di
abusi e violenze e, se necessario, anche ad applicare coralmente delle sanzioni
verso chi li ha commessi. Ci sembra legittimo, ad esempio, che una collettività
allontani qualcuno da un determinato spazio, o persino da un intero territorio,
qualora la sua presenza lo renda infrequentabile da una persona seriamente
offesa; oppure che un collettivo rifiuti di organizzarsi (per un determinato
periodo, fino a un chiarimento risolutore o anche per sempre) con chi, con i
suoi comportamenti, ha incrinato o perso la fiducia dei suoi compagni e delle
sue compagne. Ciò che pretendiamo, però, è che tutte e tutti abbiano la stessa
facoltà di parola in merito; che le accuse vengano messe alla prova dei fatti,
nei limiti in cui una data situazione lo permette (sarebbe atroce, ad esempio,
pretendere che chi ha subìto violenza la rievochi per filo e per segno; ma tra
questo e una delega di fiducia in bianco si possono trovare praticamente sempre
altre possibilità); e che all’accusato sia data la possibilità di difendersi
anche negando il fatto, qualora pensi e sostenga di non averlo commesso. Se
queste semplici istanze, riconosciute dall’umanità di ogni tempo, e a suo tempo
strappate con le lotte allo Stato assoluto, possono avere un po’ l’apparenza del
“diritto borghese”, si rifletta sul fatto che i criteri opposti ci riportano né
più né meno che al diritto inquisitorio, in cui la sola via al proscioglimento
era l’ammissione di colpa (oggi, al passo coi tempi, «di responsabilità»). Si
dirà che fatti di questo tipo sono particolarmente difficili da dirimere, perché
– oltre a chiamare in causa dinamiche interpersonali sottili – avvengono
solitamente in àmbiti privati e intimi, dove nessun altro vede. Questo è
verissimo. Ma a pensarci bene la stragrande maggioranza dei fatti umani che
danno da discutere avvengono al riparo degli sguardi altrui, o sotto pochi
sguardi che facilmente si contraddicono tra loro, avendo magari colto solo
indizi riguardo la consumazione di un gesto (pensiamo ad esempio a una
situazione in cui sono spariti dei soldi, e nelle vicinanze è stata vista solo
una certa persona: qualcuno dice di averla vista a una certa ora o in un certo
atteggiamento, un altro in un altro, ma nessuno l’ha vista rubare); i gesti
scabrosi che avvengono su una pubblica piazza, o davanti a dieci testimoni che
affermano più o meno lo stesso, sono, da che mondo è mondo, una minoranza, e si
attirano immediatamente la riprovazione generale. Con che criteri, quindi, in
situazioni incerte, si decide se qualcuno ha commesso o non ha commesso
qualcosa? In genere, ci si basa sulla verosimiglianza, ovvero sulla comparazione
delle dinamiche del fatto con altre analoghe vissute, viste, ascoltate in altri
momenti e situazioni (in una parola: sull’esperienza pregressa); il che, in
presenza di versioni discordanti, è possibile solo ascoltando e comparando più
campane. Si può sbagliare, applicando questo criterio? Certamente, e lo si fa
dalla notte dei tempi. Ma ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per
partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì
reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili.
Qualsiasi cosa, anche molto sensata, si possa obiettare a ciò (per esempio che
le differenze di «socializzazione» e vissuto tra uomini e donne non permettono
di cogliere appieno certe sfumature), non elimina quella che rimane una
conseguenza inaggirabile (a meno che non si sostenga che gli appartenenti a
categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche
raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di
soggettivismo quasi psichedelico).
Oltre a ciò, sarà mai possibile che, anche nel caso di fatti accertati, venga
applicata in maniera pressoché automatica la medesima modalità (l’allontanamento
della persona, e la terra bruciata intorno a chi continua a organizzarvisi
assieme), senza che si valuti né la gravità specifica del fatto né forme di
riparazione possibili, e magari commisurate?
No, questo è reso impossibile. Perché agli attivisti identitari non interessa
affatto trovare modi migliori di convivenza tra le persone, ma solo purificare
il mondo da tutto ciò che non è loro gradito. Non c’è da stupirsi che, da un po’
di tempo a questa parte, certuni stiano passando dal tentativo di cancellare
determinati individui alla cancel culture delle idee e di ciò che più le
veicola: i libri. C’è infatti chi ha dato vita a vere e proprie campagne contro
case editrici, edizioni e distribuzioni variamente “di movimento” (sia perché
curate da persone accusate di abusi, sia perché ree di pubblicare testi
considerati «problematici») e a liste di proscrizione contro autori e autrici
considerati di volta in volta transfobici, omofobi, sessisti sulla base
dell’interpretazione distorta dei loro testi, della partecipazione a iniziative
organizzate da altri “incriminati” o persino per la semplice recensione di testi
altrui; mentre sappiamo di qualche compagno mai accusato di alcuna violenza, ma
che viene diffidato dal presentarsi in determinati contesti per le sue posizioni
critiche verso il movimento LGBTQ +, che gli meriterebbero l’accusa di
«transfobia». Mentre ci domandiamo con sconcerto da quando in qua gli anarchici
si occupano di difendere i riformisti, questa posizione è semplicemente
allucinante per disonestà politica e intellettuale. Quello LGBTQ + è per
l’appunto un movimento politico che, per quanto giochi a rappresentare tutte le
persone omosessuali e transgender, non rappresenta in realtà altro che se
stesso. Dire che chi critica l’autoritarismo di alcune frange queer è omofobo o
transfobico, è come dire che chi critica Black Lives Matter è per ciò stesso un
razzista. Nient’altro, appunto, che politica nel senso peggiore del termine.
Ci dispiace, ma dietro a tanto (e crescente) furore accusatorio e persecutorio,
che sta rovinando la vita a sempre più compagni sulla base di accuse sempre più
“ardite” e fantasiose, non riusciamo a vedere solo una sincera volontà di
opporsi a sessismo e prepotenze, o di accogliere istanze taciute per troppo
tempo. Ci vediamo anche un’assunzione di quella cultura della pena che in altri
àmbiti si chiama giustizialismo: punire il malcapitato di turno (che sia
effettivamente “colpevole” o “innocente”) per dare l’esempio a tutti gli altri.
Ci vediamo anche una smania di potere e controllo. Ma soprattutto ci vediamo,
più in generale, un veleno autoritario e reazionario che dalle università
statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano
nell’anarchismo, e che rischia seriamente di estinguerlo dall’interno (mentre la
repressione continua a picchiare duro dall’esterno), rovesciandone i princìpi
mentre pretende di radicalizzarli. Se c’è un concetto condiviso da tutti gli
anarchici, è che l’autorità non limita la tendenza degli umani a sopraffarsi
l’un l’altro, ma la aggrava e la rende più strutturale. Ciò detto, l’abolizione
dell’autorità e quindi la libertà non è la panacea che libererà l’umanità
oppressa da tutti i mali, ma «la via aperta a ogni miglioramento» (Malatesta):
un punto di svolta e di inizio, ma proprio per questo necessario. Per quanto si
dia arie libertarie e ultra-radicali, la sinistra postmodernista e identitaria
ragiona in maniera esattamente contraria. Non si dà alcuna via d’uscita dalla
miseria presente, ma solo un’eterna lotta tra soggettività (che si sentono)
oppresse all’interno d’una rete di micro-poteri ramificata e onnipresente, che
può trovare un po’ di quiete solo in una sorta di reciprocità negativa: anziché
un principio che proclama: “faccio ciò che voglio nella misura in cui tu puoi
fare ciò che vuoi”, un credo che recita più o meno: “non farò ciò che voglio a
patto che tu non faccia ciò che vuoi”. In breve, una serie infinita di divieti.
Lo si vede molto bene in certe università occupate dalle giovani generazioni,
dove sui muri, al posto dei volantini incendiari, si trovano sempre più spesso
intimazioni a non fare questo o quest’altro, insieme alle indicazioni per
raggiungere il care team qualora non ci si senta abbastanza safe. Un modello
sostanzialmente hobbesiano: se gli individui, divenuti lupi dopo secoli di
«etero-patriarcato bianco», sprofondano nella guerra di tutti contro tutti,
allora è necessario inventare degli artifici per tenerli a freno: l’eterna
giustificazione della polizia. Se poi gli anarchici hanno sempre sostenuto la
necessità di distruggere la società presente per permettere l’evoluzione degli
individui, ma liberandoli così come sono, la sinistra identitaria pretende di
cambiare la società cambiandone i costumi, con la pretesa di procedere dal
singolo ai rapporti sociali anziché viceversa. Pura merda reazionaria, degna dei
Padri della Chiesa o della Ginevra calvinista del Cinquecento.
Venendo meno il principio di reciprocità, vengono meno le basi stesse
dell’autorganizzazione di classe, e la lotta di classe medesima. Da questo punto
di vista, è significativo che tra i vari «privilegi» snocciolati dagli
identitari non venga mai citata l’istruzione, che pure traccia un solco
profondissimo tra le classi, e non solo in termini di accesso al lavoro. Anni fa
una compagna, reduce da molti anni di carcere, ci raccontava di quanto in
prigione facesse la differenza essere stati o meno “istruiti”, tanto per la
conoscenza dei propri “diritti” legali quanto nella capacità di farsi valere
davanti alle autorità. Se si considera la loro provenienza universitaria, e
l’adozione dei loro precetti da parte di persone che frequentano o hanno
frequentato l’università, può davvero apparire casuale questa assenza in mezzo a
studies dedicati a ogni tipo di condizione e vessazione? (Con questo, speriamo
di non dare involontariamente il suggerimento ad aprire un nuovo filone
persecutorio, o spingere qualcuno ad abbandonare francescanamente gli studi: i
mezzi culturali servono eccome! e, al pari di altri mezzi, non andrebbero
aboliti, ma messi a disposizione delle lotte e della nostra classe). Se infatti
certe ideologie, penetrando negli àmbiti “di movimento”, finiscono per
raggiungere anche giovani più o meno proletari, esse vengono tipicamente
promosse e assunte dalla classe media e in particolare dalla sua variante
cognitiva, quella che non vuole cambiare il mondo ma renderlo più civile: da
questo l’elusione del problema dell’istruzione, cui spesso si accompagna il
disprezzo verso quel proletariato (in specie bianco e quindi grottescamente
considerato «privilegiato») che non sa o non vuole assumere il linguaggio e le
categorie del “cognitariato” di sinistra, laddove quest’ultimo si percepisce e
si presenta come autentico modello del cittadino globale come si deve. Se questa
sostanziale indifferenza in materia di classe dovrebbe suggerirci quanto i
teorici identitari abbiano davvero a cuore le dannate e i dannati della terra,
non fa meraviglia come costoro non si accorgano (ma davvero non se ne
accorgono?) di quanto la loro ideologia finisca da un lato per minare le
possibilità stesse di organizzarsi tra sfruttati, e dall’altro per rafforzare il
securitarismo padronale. Come ci si può organizzare insieme, quando si adotta
una visione schizofrenica che considera i propri compagni insieme dei complici e
dei nemici (nemmeno tanto) potenziali, segnati dal peccato originale dei propri
«privilegi» più o meno di nascita? Quando le qualità personali – l’impegno, la
schiettezza, l’affidabilità, il coraggio nelle sue varie forme, la capacità di
ragionare e argomentare, la coerenza con quanto si proclama – vengono
squalificate a meri mezzi di sopraffazione? Quando non si può prendere alcuna
decisione comune senza che venga evocato il fantasma della
«sovradeterminazione»? Se si smette di considerare l’uguaglianza un
concetto-limite (lo spazio che permette l’espressione delle differenze, e in cui
emergono per forza anche alcune disuguaglianze), il risultato non può che essere
la paralisi, e una miseria generalizzata in cui le differenze, ovvero ciò che fa
la ricchezza di qualsivoglia collettività, vengono annientate in nome di un
egualitarismo astratto e disciplinante (mentre a spadroneggiare sono,
orwellianamente, quanti pretendono di essere «più uguali degli altri»).
Certamente anche il “classismo”, a suo modo, è identitario; ma si tratta di un
modo profondamente diverso dai vari identitarismi di genere, “razza” e
quant’altro, e che apre tutt’altre possibilità. Senza disconoscere che anche la
linea del genere e quella del colore hanno un peso nell’articolazione dei
rapporti di potere, oppressione e sfruttamento (e nell’economia complessiva
dell’attuale dominio capitalistico), solo la linea della classe apre a una
liberazione universale, creando quella rottura verticale in cui le liberazioni
delle donne, degli omosessuali e transessuali, delle minoranze (post)coloniali
“interne” ed “esterne” ecc. si possano realizzare senza snaturarsi in nuove
configurazioni di potere e del dominio. Essere sfruttati e sfruttate, infatti,
ha almeno due aspetti differenti dall’essere donne, neri ecc. Il primo è che si
tratta di una condizione meramente sociale, non legata a tratti fisiologici: si
è sfruttati finché esiste una società basata sullo sfruttamento; con la fine del
razzismo e del sessismo si smetterebbe di essere «socializzati» come uomini e
donne, «razzializzati» come neri ecc., ma non si smetterebbe di essere uomini,
donne, neri. Il secondo aspetto è che il sesso, il colore della pelle,
l’orientamento sessuale ecc. sono caratteristiche che – salvo eccezioni,
ovviamente – la gran parte degli individui non vorrebbe perdere in un processo
di liberazione, ma semplicemente poter incarnare senza tutte le discriminazioni,
umiliazioni e stereotipi che vi sono associati – ovvero sono caratteristiche non
indesiderabili di per sé; mentre nessuno (psicosi lavoriste-stakanoviste a
parte) vorrebbe restare uno sfruttato. Nella sua mera negatività, il cui sbocco
ultimo è l’autosoppressione della classe sfruttata nel momento in cui questa
sopprime la classe sfruttatrice, solo la linea della classe realizza un
umanesimo non-astratto (nessuna equiparazione tra sfruttati e sfruttatori in
nome della comune ”umanità”, ma un processo che potrà dare forma a un’umanità
diversa), aprendo lo spazio alla liberazione di tutti e di ciascuna, mentre
colpisce laddove il sistema può al massimo arretrare, ma non ricrearsi come
sistema di sfruttamento: un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza
generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere; una
società di classe senza classi, no. Transfemminismo, “teoria critica della
razza” ecc. tendono ad applicare l’antagonismo pressoché assoluto del classismo,
possibile perché basato su alterità meramente sociali, ad alterità incarnate
negli esseri (in linguaggio filosofico: ontologiche) e/o di cui gli individui
concreti non vogliono (e non dovrebbero) per forza disfarsi. Il risultato è
quasi sempre un pasticcio in cui affiora un certo razzismo di ritorno, laddove
certi individui (maschi, e poi a cascata etero, bianchi, “abili” ecc.) patiscono
una squalifica di fondo per ciò che sono e non per ciò che fanno, e in cui le
stesse persone vengono da una parte riconosciute come oppresse e potenzialmente
complici, e dall’altra, non appena subentra un contrasto, trattate come “nemici
di categoria” contro cui serrare le file dei “propri”. Questo non significa che
conflitti di natura diversa da quello di classe non esistano o non abbiano mai
ragione di essere aperti, se necessario anche con durezza (lo ribadiamo: non
sacralizziamo le mani callose): ciò su cui ammoniamo è il modo di considerarli e
trattarli, che dovrebbe avere le sue caratteristiche specifiche. Se non si è
capaci di operare queste distinzioni, le conseguenze sono catastrofiche. Di
fronte a una vertenza in una fabbrica o in un magazzino, noi stiamo sempre dalla
parte degli operai, e poco ci importa di chi dice il “vero” (possiamo pure dirci
tra noi che gli operai stanno dicendo cazzate, ma questa rimane una questione
inter nos, che semmai discuteremo da questa parte del cancello). Possiamo dire
la stessa cosa quando il conflitto si apre tra un compagno (uno sfruttato, un
amico) e una compagna (una sfruttata, un’amica)? O, a cascata, tra un compagno
gay (o trans, o nero) e uno etero (o cis, o bianco)? Quando un padrone o un
governo fa un passo falso – che gli attira in un modo o in un altro la
riprovazione pubblica – è assolutamente sensato attaccarlo, ricavandone ciò che
se ne può ricavare per l’avanzamento della lotta, senza stare troppo a
discettare di quanto sia effettivamente “grave” ciò che ha commesso. Si può dire
la stessa cosa… ecc.?
L’applicazione meccanica di logiche tipiche della lotta di classe a conflitti
d’altro genere finisce per uccidere la lotta per la liberazione. Venendo
frammentato in una serie di micro-conflitti, peraltro facilmente esposti a
cortocircuiti logici (chi è più oppresso tra un «non-bianco cis-etero» e una
«bianca transgender»? con chi ci si schiererebbe in caso di dissidio?), il
conflitto verticale (sfruttati contro sfruttatori, rivoluzionari contro Stato)
viene fagocitato da un perenne conflitto orizzontale. Un paradigma che peraltro
somiglia (siamo i soli a notarlo?) a una sorta di contraltare di sinistra alla
guerra tra poveri fomentata negli anni dalle destre; e che, brandendo la safety
al posto della security, contribuisce ai medesimi obiettivi di pacificazione
sociale (diritti per tutt* e ovunque, libertà per nessuno e da nessuna parte).
Il desiderio di essere protetti e garantiti nel proprio isolamento contro i
propri simili, sempre più percepiti come dissimili, si sostituisce all’urgenza
di liberarsi insieme a tutti gli altri.
Prima di concludere questa serie di considerazioni, ci preme chiarire un punto,
onde evitare possibili (e magari furbeschi) fraintendimenti. Le critiche di cui
sopra non possono essere applicate meccanicamente e in toto a tutti i gruppi di
ispirazione identitaria: quelle che ci interessa è fotografare delle tendenze,
ed è in questo senso che queste considerazioni vanno lette. Allo stesso modo, a
differenza di altri, noi non vogliamo attribuire a tutti coloro che variamente
aderiscono a ideologie e approcci identitario-postmodernisti la colpa di tutte
le derive che hanno attraversato i movimenti antagonisti negli ultimi anni
(dall’adesione al securitarismo sanitario-Covid all’appoggio a una inesistente
“resistenza” nella guerra in Ucraina). Se il vittimismo tipico di queste
ideologie ha fornito, soprattutto all’estero, un contributo più che “generoso” a
queste derive (si veda il raduno internazionale di Saint-Imier nel 20231),
simili sbandate sono state spesso trasversali a ideologie e aree (si sono avute,
per esempio, da parte di raggruppamenti di varia tendenza marxista o libertaria
che poco o nulla hanno a che fare con l’identitarismo postmoderno), mentre in
Italia, soprattutto in àmbito anarchico e libertario, c’è stato un salutare
smarcamento di segno opposto che ha attraversato mondi diversi, compresi alcuni
ambienti queer e transfemministi. Ci fa inoltre piacere constatare, a livello
internazionale – pensiamo soprattutto agli Stati Uniti – che i tentativi del
potere di creare distanze dalla resistenza palestinese agitando gli spettri
dell’”oscurantismo religioso” e dei presunti “stupri di Hamas” (una fake news
cui pure, inizialmente, qualcuno ha abboccato e qualcun altro continua ad
abboccare) sono andati in gran parte a vuoto, e che molti compagni e compagne di
lotta di tendenza transfemminista, intersezionale ecc. si sono schierati anima e
corpo con gli oppressi palestinesi (con tanto di benedizione da parte della
papessa Judith Butler). Di fronte a queste semplici constatazioni, certe analisi
troppo manichee ci sembrano inadeguate alla realtà confusa, complessa, mutevole
del nostro tempo, e non le facciamo nostre. Ciò che vogliamo suggerire è
qualcosa di più sottile, che ha a che fare col modo in cui agiscono le idee a
livello sociale e individuale, portando gli individui anche dove non vorrebbero
arrivare. Quando cominci a ragionare in un certo modo, diceva ancora Malatesta,
non vai dove vuoi tu, ma dove ti porta il ragionamento. Un esempio potrà
chiarire cosa intendiamo.
Non ci sembra esattamente un caso che non solo il mercato e lo spettacolo, ma
persino le istituzioni e le forze dell’ordine abbiano ormai fatto proprie
retoriche ispirate all’identitarismo woke, con preziosi ritorni in termini di
controllo sociale (militarizzazione giustificata dalla «difesa delle donne»,
ergastolo automatico per i «femminicidi», ma anche interventi sempre più
frequenti degli sbirri nelle scuole, contro violenze di genere, «bullismo»,
«abilismo» e quant’altro, cui si affiancano frotte di psicologi a caccia di
insicurezze, disagi… e clienti). Che tante (trans)femministe replichino che la
maggior parte degli stupri avvengono in realtà in casa e da parte di persone
conosciute, o che oppongano a simili strumentalizzazioni la presenza e
l’autodifesa diretta delle donne nelle strade, o la denuncia del carattere
comunque «patriarcale» della polizia e finanche del «sistema» nel suo insieme,
ci sembra senz’altro apprezzabile, ma anche insufficiente di fronte a una
propaganda onnipervasiva che raggiunge sempre più persone (e in specie i
giovanissimi) direttamente sui loro smartphone, e che spinge sempre più
categorie (donne, persone omosessuali, transessuali, “colorate”, con disabilità,
“neurodivergenti” ecc.) a sentirsi perennemente sotto attacco da parte di chi
avrebbe qualche «privilegio» in più (o qualche problema in meno). [Non molti
anni fa, in Francia, degli spazi anarchici colpevoli di proclamare e praticare
la loro intolleranza contro tutte le religioni sono stati attaccati con la
taccia di «islamofobia»2, mentre in diversi territori degli Stati Uniti, a furia
di voler fare gli interessi delle “minoranze” mettendole al riparo dalle insidie
dei “privilegiati”, si sta tornando di fatto alla segregazione razziale, con
scuole e classi separate per i soli neri3. ]Non sarebbe il caso di tentare una
riflessione più profonda, prima che sia troppo tardi? Purtroppo – e qui,
viceversa, ci tocca tirare in ballo la gran parte delle realtà infette dal morbo
identitario – quello che viene fatto è sistematicamente il contrario: non appena
qualcuno solleva questioni scomode per le loro ideologie o per qualche loro
alleato, gli attivisti identitari – col silenzio-assenso dei loro amici più
“moderati” – gli si gettano alla gola puntando il dito su questa o quella uscita
infelice, questa o quella parola, questa o quella virgola fuori posto (spesso
mescolando, alla bisogna e senza vergogna, ciò che uno scrive con calma alla
propria scrivania con quel che gli esce di bocca nella foga di una discussione,
o davanti a un bicchiere di vino); e così evitano di dover affrontare le
questioni stesse. Quello che viene messo in campo, di fatto, è una serie di
dispositivi che impediscono tanto di discutere quanto di pensare (senza
possibilità di confronti, alla lunga il pensiero muore).
Ecco l’aria da Chiesa che da troppo tempo ci tocca respirare, e di cui ne
abbiamo fin sopra i capelli. Ecco ciò che denunciamo, al di là dell’occasione
che ha generato questa denuncia. Il problema, per noi, non è tanto che questa
serie di dispositivi fattasi ideologia abbia generato, nei nostri ambienti, una
grande quantità di scazzi (se non sempre inutili o infondati, quasi sempre
malgestiti); ma soprattutto che, assestando colpi micidiali al pensiero critico,
vi ha innescato un vero e proprio processo di degrado etico, cognitivo,
spirituale. Che tipo di ambiente morale e intellettuale può prodursi, quando si
smette di ragionare sui fatti lasciando campo libero a un soggettivismo sfrenato
e allo stesso tempo imprigionato in categorie stagne, che arriva a propinare
dogmi demenziali (demenziali come tutti i dogmi, la cui essenza è di dover
essere creduti pur restando incomprensibili) come «violenza è ciò che una
persona percepisce come tale» (e a «violenza» si può sostituire a piacimento
«sovradeterminazione», «potere» ecc.)? L’interiorità senza esteriorità, diceva
Hegel, è vuota. Senza passare dall’incontro-scontro con la realtà come suo
momento di verifica, e quindi senza presupporne l’esistenza e la possibilità di
indagarla, la soggettività non diventa altro che una girandola perpetua di
sensazioni, emozioni, percezioni (e paranoie). Se in questa fase storica sono
gli individui in generale a essere sempre più prodotti come individui senza
mondo dall’ultra-soggettivismo dilagante (e dalla smaterializzazione informatica
del reale); e se qualsiasi impostazione ideologica agisce come un filtro,
determinando quali tipi umani tenderanno ad avvicinarsi o allontanarsi da
determinati ambienti, è fatale che, laddove domina la paranoia woke, si
avvicinano e si avvicineranno sempre di più ai “movimenti” proprio i tipi più
inconsistenti, sconclusionati e tendenzialmente rancorosi: quelli poco propensi
al ragionamento e molto propensi al lamento; quelli che non amano fare seri
sforzi per identificare e combattere il Potere (quello vero), e molto amanti
della lotta a buon mercato contro il “potere” diffuso ovunque… ma soprattutto
vicino a loro; quelli che cercano un gruppo che si prenda cura delle loro
paturnie, anziché sfidare ogni collettività e quindi arricchire quelle che si
scelgono liberamente con l’originalità delle proprie tensioni e idee; quelli che
non vogliono essere individui irripetibili, e quindi irriducibili a qualsiasi
categoria ma, appunto, soggetti.
In questa corsa all’annichilimento della realtà e, insieme, dell’individualità
pensante, in cui l’autoritarismo trova una dimora accogliente e in cui risorgono
in forma nuova i ferrivecchi della reazione, un episodio come quello di Milano,
e come altri occorsi alla nostra assemblea nel suo anno e mezzo di vita (ma
risòltisi più felicemente), ci rattristano ma non ci stupiscono. L’autorità e
l’autoritarismo rimpiccioliscono sempre gli esseri umani e imbruttiscono sempre
i rapporti. Non è quindi strano che, in questa mezzanotte del secolo, tutte le
porte siano spalancate ai piccoli Torquemada e agli opportunisti senza princìpi,
e chiuse in faccia a chi si ostina a dire parole chiare su un presente molto più
tragico che serio.
In mezzo a tanta merda reazionaria di ritorno noi andiamo avanti, con i nostri
princìpi ben stretti in pugno.
Penisola italiana, primavera 2025
Cinque piccoli indiani fuori dalla riserva
1Per uno sguardo su quanto accaduto in quell’occasione si veda il testo Grosso
guaio a St Imier sul blog della trasmissione radiofonica “la nave dei folli”, a
questa pagina:
https://lanavedeifolli.noblogs.org/files/2023/09/Grosso-a-guaio-a-St-Imier.pdf
2Si veda ad esempio
https://danslabrume.noblogs.org/post/2023/07/24/anti-anti-racialisme/
3Cfr. Yascha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli, Milano 2024
Riceviamo e diffondiamo questo prezioso – ed estremamente attuale… –
approfondimento sul ruolo di IBM nel genocidio perpetrato quasi un secolo fa dai
nazisti,
da https://bergteufelbz.noblogs.org/genocidi-automatizzati-libm-e-lolocausto/#more-1972
Ieri con i nazisti tedeschi, oggi con i sionisti israeliani: questa è IBM.
Mentre i regimi passano, i fabbricanti di orrori resteranno finché non sarà
demolito il sistema capitalistico.
Genocidi automatizzati – L’IBM e l’olocausto
Il testo che segue è uno dei capitoli di un opuscolo di prossima pubblicazione.
Proprio ieri, il Senato accademico dell’Università di Trento ha votato per
mantenere, nonostante la contrarietà degli studenti e la mobilitazione contro le
complicità con il genocidio a Gaza, un progetto di ricerca con Ibm Israel, sulla
«resilienza dei sistemi di intelligenza artificiale contro gli attacchi alla
sicurezza». La divisione israeliana della multinazionale è tra i fornitori delle
tecnologie di controllo della popolazione palestinese. I motivi del voto di ieri
sarebbero «sia di fattibilità che di volontà», in quanto «sono presenti diversi
accordi con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei
diritti umani» e «bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca
universitaria».
Nell’ultimo anno e mezzo si è spesso parlato dello sterminio della popolazione
di Gaza come del primo genocidio automatizzato della storia – e a ragion veduta,
visti i sistemi di intelligenza artificiale impiegati dall’esercito israeliano
per massimizzare gli effetti dei bombardamenti. Tuttavia, quest’espressione
– genocidio automatizzato – si trovava già in un libro del 2001, pubblicato in
Italia da Rizzoli, mai più ristampato e oggi pressoché introvabile: L’IBM e
l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, del
giornalista americano Edwin Black. Se la fornitura da parte dell’IBM di
tecnologie che sono servite al regime nazista per censire le sue vittime e poi
per organizzare la «soluzione finale» è un fatto relativamente noto, la lettura
di questo documentatissimo volume restituisce un quadro a dir poco
impressionante, soprattutto alla luce dei progressi che hanno fatto negli ultimi
ottant’anni i mezzi tecnologici per rendere gli individui più efficientemente
controllabili – e all’occorrenza uccidibili. Come scrive l’autore, «l’alba
dell’era informatica coincise con il tramonto della dignità umana».
Il libro parte da una domanda: «i tedeschi disponevano sempre di liste
contenenti i nomi degli ebrei. All’improvviso, uno squadrone di soldati delle SS
arrivava in una piazza cittadina e affiggeva un avviso che ordinava alle persone
elencate di riunirsi il giorno seguente alla stazione ferroviaria per essere
deportate a Est. Ma come riuscivano i nazisti a procurarsi le liste?».
La risposta sta nelle schede perforate e nel sistema per la loro selezione, «una
sorta di precursore del computer». La futura IBM Germania era stata fondata nel
1896 da Herman Hollerith come società di tabulazioni per censimenti. «Hollerith
ideò una scheda con fori standardizzati, ciascuno dei quali rappresentava un
tratto diverso: sesso, nazionalità, occupazione e così via. La scheda doveva
essere inserita in un “lettore”. Grazie a meccanismi a molla facilmente
regolabili e a brevi contatti elettrici a spazzole che rilevavano i fori, le
schede potevano essere “lette” mentre passavano attraverso un alimentatore
meccanico. Le schede elaborate potevano quindi essere suddivise in pile seguendo
una determinata serie di perforazioni. Era così possibile selezionare e
riselezionare milioni di schede. Si poteva isolare qualsiasi tratto desiderato,
fosse esso generale o specifico, semplicemente selezionandole e riselezionandole
in base ai fori associati ai dati. Le macchine erano in grado di fornire il
quadro di un’intera popolazione oppure di evidenziare un gruppo all’interno di
quella popolazione. Era infatti possibile individuare un uomo tra milioni di
persone praticando un numero sufficiente di fori sulla scheda e selezionandoli
per un numero sufficiente di volte. Ogni scheda perforata sarebbe diventata un
magazzino informativo limitato solo dal numero di fori. Non si trattava d’altro
che di un codice a barre ottocentesco per gli esseri umani».
Arrivati al potere, ai nazisti si pose il problema della mancanza di un
censimento affidabile della popolazione, anche e soprattutto su base razziale.
«I pianificatori nazisti volevano che tutti i quarantuno milioni di prussiani
venissero censiti e che i risultati preliminari fossero disponibili entro un
periodo record di quattro mesi». L’IBM Germania, conosciuta all’epoca
come Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), «propose una
soluzione: avrebbe gestito quasi l’intero progetto come un contratto. Avrebbe
studiato un pacchetto per i censimenti in grado di conteggiare e classificare
ogni cittadino. Avrebbe inoltre reclutato, addestrato e persino nutrito le
centinaia di lavoratori temporanei necessari a condurre il censimento, che
avrebbero svolto il lavoro nei locali della stessa Dehomag. Se il governo fosse
riuscito a raccogliere le informazioni, l’azienda si sarebbe occupata di tutto
il resto».
Black descrive così il meccanismo: «giorno e notte, i dipendenti della Dehomag
immettevano le informazioni relative a quarantuno milioni di prussiani al ritmo
di centocinquanta schede all’ora. […] Le istruzioni erano chiare e semplici. La
colonna 22, religione, doveva essere punzonata in corrispondenza del foro 1 per
i protestanti, 2 per i cattolici e 3 per gli ebrei. Le colonne 26 e
27, nazionalità, dovevano essere codificate nella fila 10 per i madrelingua
polacchi. […] Le verificatrici tabulavano e controllavano la punzonatura di
oltre quindicimila schede l’ora. Quando, all’interno della popolazione, veniva
rilevata la presenza di un ebreo, il suo luogo di nascita veniva registrato su
un’apposita “scheda di conteggio degli ebrei”, che veniva poi elaborata
separatamente. Cominciava quindi il tremendo processo di selezione e riselezione
per venticinque categorie di informazioni ordinate e filtrate mediante ben
trentacinque operazioni distinte: in base alla professione, alla residenza, alle
origini nazionali e a una miriade di altri tratti. Il tutto doveva essere
correlato con le informazioni fornite dagli uffici del catasto, dalle liste
municipali e dalle autorità ecclesiastiche al fine di creare un nuovo esauriente
database. Il risultato era una rilevazione della presenza ebrea professione per
professione, città per città e addirittura rione per rione».
Una scheda Hollerith
A partire dal 1934, lo stesso sistema venne usato anche per elaborare i dati
raccolti dai medici sullo stato di salute dei pazienti, dati che creavano un
«profilo eugenetico» sulla base del quale ogni singolo paziente sarebbe
rientrato o meno nei programmi di sterilizzazione, che «colpirono innanzitutto
coloro che erano stati giudicati malati di mente, ritardati, epilettici o
affetti da sindrome maniaco-depressiva», per poi essere allargati anche agli
«indesiderabili dal punto di vista sociale. I cosiddetti antisociali, vale a
dire i disadattati che non sembravano idonei al lavoro».
Nel 1939, il copione del censimento razziale si ripeté, questa volta per
settantatré milioni di tedeschi e austriaci, con l’obiettivo di «individuare
ciascun soggetto prima di ghettizzarlo o di sottoporlo a una qualsiasi azione».
«La Germania si stava inoltre preparando per la guerra totale e, senza il
censimento, non avrebbe potuto sapere con esattezza dove si trovassero gli
uomini arruolabili e quali donne si sarebbero assunte le responsabilità
economiche una volta iniziata la mobilitazione. Per questi motivi, il censimento
era di fondamentale importanza per la guerra» di Hitler. Come già nel 1933, «la
Dehomag allestì enormi saloni per il conteggio e divisioni direttive presso la
sede centrale dell’Ufficio di statistica berlinese per tabulare le informazioni.
All’inizio, l’esercito di operatori della Dehomag perforava 450.000 schede al
giorno. Con il passare del tempo, il volume raggiunse il milione al giorno. La
società rispettò la scadenza. I risultati preliminari furono pronti già il 10
novembre 1939», primo anniversario della Notte dei cristalli.
Una volta scoppiata la guerra, il regime nazista riuscì a individuare con la
stessa velocità gli ebrei di ogni paese invaso o assoggettato, anche grazie
all’infrastruttura predisposta nei vari paesi da tutte le filiali europee
dell’IBM, che «collaboravano da tempo al fine di sfruttare gli avvenimenti
politici e militari del Vecchio continente. Gli addetti alle vendite facevano di
continuo la spola tra i loro paesi e New York o Berlino per l’addestramento e
venivano quindi trasferiti di nuovo nelle nazioni d’origine per sovrintendere
alle operazioni riguardanti le schede perforate. Verso la fine del 1939, con il
consenso di Thomas Watson [presidente dell’IBM], fu aperta a Berlino una scuola
di addestramento internazionale per i capi della manutenzione IBM di tutta
l’Europa». Anche «gli ordini urgenti piazzati dagli eserciti di paesi come
l’Olanda e la Polonia andavano a vantaggio del Reich. Quando i nazisti
invadevano i nuovi territori, le macchine Hollerith venivano confiscate e
convertite agli scopi tedeschi».
Anche l’elaborazione, in sole quarantott’ore, dei dati riguardanti gli ebrei di
Varsavia e dell’intera Polonia – e la successiva organizzazione, in pochi
giorni, della deportazione di milioni di individui – fu possibile grazie ai
sistemi Hollerith dell’IBM, che era «presente in Polonia, con una sede centrale
a Varsavia. L’officina tipografica per le schede perforate, ubicata al numero 6
di via Rymarska, distava solo pochi metri dal ghetto. Là dentro furono prodotti
oltre venti milioni di schede».
Come sintetizza Black, «In tutta la Germania e nei territori conquistati, la
Dehomag cercò in ogni modo di stare al passo con un’interminabile serie di
censimenti, registrazioni e analisi di persone, proprietà e operazioni militari,
progetti per i quali erano necessari sia le sue attrezzature sia i suoi servizi
di riparazione ed elaborazione. Ogni settimana venivano stampati milioni di
schede per soddisfare la domanda».
Se «oltre duemila di questi apparecchi multifunzionali vennero distribuiti in
Germania, e altre migliaia raggiunsero i paesi europei sotto il dominio
tedesco», anche «in ognuno dei principali campi di concentramento esisteva un
centro per la selezione delle schede», noto come Dipartimento Hollerith. «In
certi campi, come Dachau e Storkow, erano installate non meno di due dozzine di
selezionatrici, tabulatrici e stampanti IBM». Questi dipartimenti e le loro
macchine si occupavano del «compito immenso di registrare con efficienza le
deportazioni dalle città e i ghetti di diversi paesi, le quotidiane assegnazioni
di lavori, e gli orari dello sterminio». Per ogni recluso veniva compilata una
scheda perforata contenente «colonne e fori indicanti nazionalità, data di
nascita, stato civile, numero di figli, motivo dell’incarcerazione,
caratteristiche fisiche ed esperienze lavorative», che avrebbe permesso al
sistema Hollerith di seguirlo in tutti i suoi spostamenti e di confrontare le
sue caratteristiche con quelle richieste per gli “incarichi” di lavoro forzato
vacanti nei vari campi o nelle industrie che se ne servivano. A ciascuno era
assegnato «un tipico numero Hollerith a cinque cifre», gli stessi numeri che per
primi sarebbero stati tatuati sugli avambracci dei prigionieri di Auschwitz.
«Senza i macchinari dell’IBM, la manutenzione continua e il rifornimento di
schede perforate, i campi di Hitler non avrebbero mai potuto eseguire i loro
terrificanti compiti come invece fecero», e, come l’autore giustamente rimarca,
i dipartimenti Hollerith «non potevano funzionare con manodopera non
specializzata. Erano necessari i cosiddetti esperti di Hollerith addestrati da
una filiale dell’IBM, che si trattasse della Dehomag in Germania o di un’azienda
qualsiasi della località in cui si trovavano i dipartimenti».
Come riassume Black, «come ogni altra evoluzione tecnologica, ogni nuova
soluzione alimentava nuove sinistre prospettive e una nuova serie di crudeli
opportunità. Quando la Germania decise di identificare gli ebrei per nome, l’IBM
mostrò come fare. Quando la Germania decise di utilizzare quelle informazioni
per lanciare programmi di espropriazione ed espulsione sociale, l’IBM le fornì i
mezzi tecnologici. Quando occorreva che i treni collegassero puntualmente le
città o i campi di concentramento, l’IBM ideò un’altra soluzione idonea. In
sostanza, non vi era soluzione che l’IBM non fosse pronta a studiare per un
Reich disposto a pagare per i servizi resi. Una soluzione conduceva all’altra.
Mentre l’orologio ticchettava, mentre le schede perforate frusciavano, mentre
gli ebrei tedeschi vedevano annientare la propria esistenza, altri vedevano
crescere la propria fortuna».
Se quello appena riassunto è il più agghiacciante, le macchine dell’IBM vennero
impiegate dal Terzo Reich – così come dagli altri Stati belligeranti – in molti
altri modi: i nazisti scoprirono che potevano «meccanizzare, organizzare e
controllare quasi tutti gli aspetti della vita commerciale e privata, dal più
grande cartello industriale al più umile negoziante locale»: «le disposizioni
del governo imponevano alle società di installare le macchine Hollerith per
garantire resoconti tempestivi, omogenei e aggiornati che potessero essere
rielaborati». «La tecnologia Hollerith era diventata una componente fondamentale
della vita amministrativa tedesca. Le schede perforate avrebbero permesso
all’intero Reich di mettersi sul piede di guerra. Per l’IBM iniziò un periodo di
grande prosperità».
Manifesto pubblicitario della Dehomag: «Visione d’insieme con le schede
perforate Hollerith»
Fra i maggiori clienti della Dehomag c’erano le ferrovie tedesche: «ogni anno
circa centoquaranta milioni di passeggeri prenotavano il posto mediante i
sistemi di selezione delle schede prodotti dalla Dehomag». Durante la guerra,
l’IBM fornì le sue apparecchiature a quasi tutte le ferrovie dell’Europa
occupata. «I sistemi per schede perforate individuavano l’esatta posizione dei
carri merci, il carico che potevano trasportare e gli orari che avrebbero dovuto
rispettare per garantire la massima efficienza». Grazie a questo sistema, «le
posizioni dei carri merci venivano aggiornate ogni quarantott’ore. Senza le
apparecchiature, la localizzazione del materiale ferroviario sarebbe rimasta
indietro di oltre due settimane».
Allo stesso modo, i sistemi Hollerith «consentivano al Reich di schierare
strategicamente sia gli operai specializzati all’interno della Germania sia i
gruppi di forzati e di schiavi importati dai paesi occupati», e venivano
utilizzati in tutta l’Europa in guerra per la mobilitazione delle truppe e per
gestire la produzione di materiale bellico.
I documenti raccolti da Black permettono di escludere qualsiasi giustificazione
o attenuante per la complicità dell’IBM e dei suoi dirigenti con il regime
nazista. L’azienda non si è infatti limitata a fornire i macchinari, ma, con il
beneplacito della sede centrale di New York, ha dovuto personalizzare ogni
applicazione e fornire continuo supporto: «i tecnici inviavano schede campione
agli uffici del Reich finché le colonne dei dati risultavano accettabili,
proprio come farebbe oggi un progettista di software. Le schede perforate
potevano essere progettate, stampate e vendute da un’unica azienda: l’IBM. Le
macchine non venivano vendute, bensì noleggiate, e venivano regolarmente
sottoposte a migliorie e interventi di manutenzione da parte di un’unica
azienda: l’IBM. Le filiali addestravano gli ufficiali nazisti e i loro
rappresentanti in tutta l’Europa». Inoltre, le macchine dovevano essere
«controllate in loco circa una volta al mese, anche quando si trovavano
all’interno di un campo di concentramento o nelle sue vicinanze».
Per dodici anni, i funzionari dell’IBM New York «si recavano a Berlino o Ginevra
per monitorare le attività e assicurarsi che la casa madre non venisse esclusa
dai profitti o dalle opportunità commerciali offerte dal nazismo», e anche
«quando le leggi statunitensi dichiararono illegali simili contatti diretti, la
sede svizzera dell’IBM divenne il fulcro dell’intero processo e garantì
all’ufficio di New York un flusso continuo di informazioni e una facciata
rispettabile».
In dodici anni, nessuna delle – più che esplicite – dichiarazioni della
gerarchia nazista spinse l’IBM a pronunciare una sola parola che rischiasse di
limitare le attività – e i profitti – della sua filiale tedesca. Tantomeno a
ritirarsi dalla collaborazione con il Reich – cosa che avrebbe inferto un duro
colpo alla macchina nazista: al regime infatti sarebbero serviti anni per
rimpiazzare l’IBM nella produzione delle macchine e delle schede, con gravi
conseguenze sulla capacità di pianificare e condurre la guerra.
Il peso dei mezzi forniti dall’IBM nel compimento dello sterminio è ben
esemplificato dal confronto fra il destino degli ebrei in Olanda, «un bastione
dell’infrastruttura delle Hollerith», e in Francia, dove «i nazisti erano
costretti ad affidarsi ai loro rastrellamenti a casaccio» perché
l’infrastruttura di perforazione delle schede «era un disastro assoluto»: «dei
140.000 ebrei olandesi schedati, più di 107.000 furono deportati e di questi
102.000 furono uccisi – un tasso di mortalità di circa il settantatré per cento.
Dei circa 300.000-350.000 ebrei che, secondo le stime, vivevano in Francia in
entrambe le zone, ne furono deportati circa 85.000 e di questi ne sopravvissero
a stento 3000. Il tasso di mortalità in Francia fu di circa il venticinque per
cento».
Perché un’azienda come l’IBM ha scientemente fornito a un regime come quello
nazista i mezzi per «raggiungere un obiettivo mai realizzato in precedenza:
l’automazione della distruzione umana»? Condivisibili le considerazioni di Edwin
Black: «all’IBM non interessava il nazismo e tanto meno l’antisemitismo».
«Egocentrica e abbagliata dal suo stesso vortice di possibilità tecniche, l’IBM
agiva obbedendo a un’immorale filosofia aziendale:
se possiamo farlo, dobbiamo farlo». L’ennesima dimostrazione che i crimini
nazisti sono stati tutt’altro che una parentesi di irrazionalità ma, al
contrario, la moderna razionalità tecnica portata alle sue estreme
conseguenze[1].
Se il contributo dell’IBM era indispensabile per lo sforzo bellico nazista,
anche gli Alleati non potevano fare a meno della tecnologia dell’azienda: «in un
certo senso l’IBM era più grande della guerra». Il dipartimento della Guerra
statunitense discusse «con Watson di convertire la capacità produttiva dell’IBM
per metterla al servizio dell’impresa bellica». «Nel 1943 due terzi dell’intera
capacità di produzione dell’IBM erano stati spostati dalle tabulatrici alle
munizioni». Oltre alla produzione di armi, l’IBM intraprese diversi progetti di
ricerca per l’esercito americano, incredibilmente coordinati dallo stesso
funzionario responsabile delle operazioni dell’azienda nell’Europa nazista. E le
macchine Hollerith servirono per organizzare la mobilitazione di milioni di
soldati. Anche sul lato americano del fronte, gli introiti per l’IBM furono
enormi, mentre Watson ripuliva la propria immagine cogliendo «l’occasione di
diventare il principale patriota tra gli industriali del paese».
L’azienda sviluppò anche potenti unità mobili Hollerith. «Le Machine Record
Units (MRU) non erano altro che unità militari addestrate dall’IBM e
specializzate nello spiegamento delle attrezzature prodotte dall’IBM. Erano
anche progettate per contribuire alla cattura di qualsiasi Hollerith venisse
scoperta in Europa o nel teatro del Pacifico», dato che si trattava di «macchine
strategiche da salvaguardare e non da distruggere»: «la dotazione della Dehomag
era la chiave di un’agevole occupazione militare della Germania e di altri
territori dell’Asse».
Quando l’8 maggio 1945 la guerra finì in Europa, l’IBM «si precipitò a
recuperare le sue macchine e i suoi conti bancari nel territorio nemico». La
Dehomag era uscita «dagli anni del conflitto con danni relativamente esigui e,
in pratica, pronta a riprendere una normale attività. Le macchine erano state
recuperate, i profitti salvaguardati e il valore societario intatto. Di
conseguenza alla fine della guerra l’IBM di New York fu in grado di riprendersi
la sua filiale tedesca problematica ma fruttuosa, insieme con le sue macchine e
tutti i suoi proventi».
Quando i campi di concentramento erano stati abbandonati, le macchine erano
state trasferite in gran parte in località insospettabili, e gli archivi
distrutti per cancellare ogni traccia dei crimini di guerra. Questo contribuì a
rendere l’IBM e la sua filiale tedesca immuni da qualsiasi accusa. Macchine come
«quelle di Auschwitz, Buchenwald, Westerbork e del ghetto di Varsavia furono
semplicemente recuperate e riassorbite nell’elenco delle proprietà dell’IBM.
Sarebbero state impiegate un altro giorno, in un altro modo, per un altro
cliente. Non dovette fornire spiegazioni o risposte. Domande sulle Hollerith di
Hitler non furono mai nemmeno formulate». Ironicamente, però, nel processo di
Norimberga l’IBM un ruolo lo ebbe: per far fronte alla difficoltà di tradurre
tutti i documenti, i giudici fecero ricorso «a una procedura appena inventata
chiamata “traduzione simultanea”. Una società esaminò tutte le prove presentate
e le tradusse non solo per l’uso in tempo reale e per le procedure processuali,
ma anche per la posterità. Questa società era l’International Business Machines
Corporation». Watson offrì i servigi della società gratuitamente.
Come se tutto questo non bastasse, dalle macchine Hollerith e dagli operatori
della Dehomag dipendeva anche l’ufficio statunitense segreto di analisi
statistica incaricato di valutare gli effetti – anche morali – dei bombardamenti
alleati sulla Germania. Le analisi e le previsioni di questo ufficio fecero
parte del processo decisionale che portò a sganciare le due bombe atomiche su
Hiroshima e Nagasaki.
Com’è noto, «negli anni successivi l’IBM acquisì una statura mondiale ancor
maggiore e divenne un faro della causa del progresso. Adottò un motto aziendale:
“La società delle soluzioni”. Ovunque ci fosse un compito impossibile, l’IBM
avrebbe trovato la soluzione». Giustamente l’autore fa, tra le altre, questa
considerazione: «l’alba dell’era informatica coincise con il tramonto della
dignità umana».
[1] Su questi temi si consiglia la lettura di Zygmunt Bauman, Modernità e
Olocausto, Il Mulino, 2010, e di Johann Chapoutot, Nazismo e management. Liberi
di obbedire, Einaudi, 2021.