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L’occhio del nemico – Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”
Riceviamo e diffondiamo: Scarica in formato pdf: occhiodelnemico_lettura occhiodelnemico_stampa L’occhio del nemico Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso” Gran parte del lavoro necessario ad imporre lo sviluppo tecnologico che incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone “normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di fare carriera. Di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi propagandò il computer e la rete come strumenti di emancipazione si è già occupata ampiamente la storia, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete». Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura. Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway, che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono) sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei foodsystems possono essere hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta rigenerativa all’estrattivismo dei dati.  Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la piattaforma di intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.   Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno 2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori, può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA). Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece, giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa. Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla base dell’analisi dei dati metereologici e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la seconda è che l’agricoltura contadina (agroecologica e di comunità) abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio di queste due menzogne è un vero capolavoro di impostura intellettuale che contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia, agricoltura, ecologia.  Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi. Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia tecnologica.  Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di computer che popolano i datacenter. Questo apparato globale inoltre non può esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che vengono sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo sociale sempre più avanzate.  Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante. L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche, sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino. In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidato si è affiancato il genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la morte nella Striscia. Alla luce del ruolo che l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere.  Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi dell’intelligenza artificiale con finalità agroecologiche e sostenere gli usi civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente. Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico, miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi interni. Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0 (estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi di intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria, elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la tecnologia, la sua definizione va ampliata fino ad includere, oltre al dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze, infrastrutture, obiettivi, immaginari) ed agisce in una maniera che Neil Postman definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una nuova società. Per fare un esempio, si immagini di dover spiegare cosa sia l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale. Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo con questa ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie moderne. La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che, al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni ecologici dislocati nei paesi in cui vengono estratte le risorse e prodotti i dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà facile preda di ciarlatani come Giordano. Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e ad occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che – riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo di fatto nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione ideologica che viene regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili. In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di pensare che porta dritti fra le braccia del nemico. Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale: l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo fondamentale: le parole ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale ed inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria, possano essere riorientati secondo valori diversi da quelli che effettivamente e materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il nemico perché ormai si guarda il mondo come lui. Rovereto, aprile 2025 Collettivo Terra e Libertà [1] https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commons-per-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/ [2] https://mondeggibenecomunque.noblogs.org/
Approfondimenti
In primo piano
Sul far della sera
Riprendiamo da http://terraeliberta.noblogs.org la postfazione a “La guerra come operazione di polizia internazionale” di Riccardo d’Este, rieditato nei mesi scorsi come opuscolo dal Collettivo terra e libertà. Qui l’articolo di Riccardo d’Este: https://ilrovescio.info/2022/05/09/la-guerra-del-golfo-trentanni-dopo/ Qui la postfazione in pdf: sul far della sera Sul far della sera Perché ripubblicare, a oltre trent’anni dalla sua prima uscita, questo articolo sulla prima guerra del Golfo? Non si tratta, in fondo, di analisi datate e dal sapore un po’ rétro, oggi che il Nuovo Ordine Mondiale a trazione statunitense di cui ci parla Riccardo d’Este appare in disfacimento, incalzato da vecchi e nuovi mostri alla riscossa «multipolare», e che la categoria di Governo Mondiale è stata recuperata da paranoici e reazionari di vario pelo? Secondo la notissima formula di Hegel, la nottola di Minerva spicca sempre il volo sul far della sera: è solo alla fine di un’epoca che la si comprende, divenendo consapevoli di un mondo che ci è passato accanto. Da questo punto di vista, i fatti degli ultimi anni illuminano queste bellissime pagine, e il tempo trascorso in mezzo, di una cruda luce retrospettiva. Se a suo tempo fece discutere la “mossa” teorica operata da Riccardo (prendere sul serio l’espressione «operazione di polizia internazionale» applicata alla prima guerra del Golfo), sono le conseguenze che ne trae questo lucidissimo compagno a esserci più utili per l’oggi: l’insufficienza di ogni spiegazione economicistica delle guerre; l’Impero capitalistico mondiale come gestore unificato dei «dislivelli» di produzione e sviluppo che esso stesso crea, e che ne permettono la riproduzione; e infine, inestricabilmente intrecciata alla «crescita esponenziale della microelettronica, della telematica, della cibernetica», la cattura della forma-Stato mondializzata sulla totalità della vita: «nonostante l’enfatica riproposizione, un po’ ovunque, di teorie “neoliberali” e “neoliberiste”, sta avvenendo esattamente l’opposto. Non è il “libero mercato” […], non è la legge del valore, bronzea o aurea, a determinare gli assetti sociali, economici e politico-istituzionali, ma, al contrario, è l’Ordine, nella forma Stato, nazionale o sovranazionale, ad imporre il mercato, a stabilire il valore, a determinare le regole dello scambio fondandosi sempre più sull’immaterialità dei beni e sullo spettacolo dei bisogni». Se Riccardo forse esagera nel proclamare – sia pure solo come tendenza – «l’autonomizzazione del capitale dai suoi stessi fondamenti», ovvero la concorrenza e la compravendita di lavoro-merce (l’attuale corsa verso la terza guerra mondiale è anche contro la concorrenza della «fabbrica del mondo» cinese, e per la riappropriazione da parte dell’Occidente del valore là prodotto), come non vedere, nel crescente furto e mercimonio dei Big Data, una immaterializzazione dei beni? Come non scorgere nei “vaccini” ad mRNA e nei vari PNRR delle gigantesche iniezioni nelle Borse di valori progettati a tavolino e alimentati a debito statale, sulla base dello «spettacolo dei bisogni» (e della paura)? E come non riconoscere, tra il campo di concentramento (divenuto nel frattempo campo di sterminio) di Gaza, e i droni che raccolgono i pompelmi a Tel Aviv, un vero e proprio concentrato dei «dislivelli» globalmente amministrati? Queste brevi note sull’Impero, scritte nella sua fase aurorale, sono l’esatto rovesciamento – e in anticipo – dell’omonimo best seller di Hardt e Negri di circa dieci anni dopo. Il fulcro del ragionamento, che Riccardo tiene ben fermo e da cui deriva tutto il resto, è proprio l’analisi del ruolo dello Stato nel mondo contemporaneo. Laddove i due professori post-operaisti, in un micidiale miscuglio di malafede e imbecillità, scambiano il declino ideologico dello Stato nazionale con la fine dello Stato tout court, Riccardo esprime in modo raffinato un concetto semplice: nella sua epoca imperiale – quella della polizia, dei militari e della sorveglianza tecnologica a ogni angolo, e della pianificazione sempre più centralizzata in poche cabine di regia –, lo Stato non fa che estendere e intensificare il proprio intervento: «si vede, infatti, che l’autorità oppressiva dello Stato, o del Sovrastato, anziché attenuarsi, “democratizzarsi”, tende a rafforzarsi su scala planetaria. Si vede che lo Stato, l’Ordine mondiale, non è semplicemente un comitato d’affari di capitalisti associati ma tende ad esprimere la volontà, l’interesse, il senso del capitale nella sua completa interezza: ci sono, naturalmente, bande fra loro rivali, che possono arrivare anche a scontrarsi, ma tutte perseguono il medesimo fine ed attraverso lo stesso mezzo, cioè il controllo statale» (e come non pensare, qui, ai «nuovi progetti Manhattan» di tecno-armamento e tecno-sviluppo in corso un po’ ovunque, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’Unione Europea?), laddove il fine è «“l’utopia del capitale”, il sogno cioè di eternizzarsi e sostituire la natura stessa» . Anziché essere uno «spazio liscio» che, nell’agevolare i «flussi» cibernetico-finanziari, finirebbe per liberare le «soggettività» contenute nella «moltitudine», l’assetto imperiale trasforma individui e collettività in una poltiglia ciberneticamente amministrata, sotto «il sole artificiale dello spettacolo». Abbagliati dal loro errore madornale sull’estinzione dello Stato, e quindi spintisi fino a teorizzare la «fine dell’imperialismo», Hardt e Negri vengono smentiti appena un anno dopo dall’invasione dell’Afghanistan e, di fronte alla seconda guerra all’Iraq che ne segue a stretto giro, non sanno darsi altra spiegazione che la «follia» di Bush II. Di nuovo, Riccardo li confuta in anticipo: «né più credibili possono risultare le interpretazioni di tipo psicologico, che pure qualche commentatore ha proposto, e cioè che Bush soffrirebbe di “delirio di potenza” o di profondo risentimento personale nei confronti del suo servitore fellone [Saddam Hussein, ndr]. La complessificazione della società non lascia spazio a simili semplificazioni». La guerra, al contrario, è il «tragico crocevia» del nostro tempo, «tra i luccichii delle opulenze del consumo e i bagliori delle armi». Se nel nostro presente queste analisi possono trasmettere una fastidiosa consonanza con un certo sovranismo, l’apparenza non deve ingannare. Che gli Stati Uniti abbiano esercitato fino all’altroieri un’egemonia pressoché assoluta nel capitalismo mondiale, è qualcosa di più e di meno di un giudizio di fatto: è una banalità talmente ovvia che non dovrebbe nemmeno essere ricordata. Più significativo, al contrario, è che tanti compagni e compagne sembrino esserselo dimenticato, mentre altri pezzi di società paiono scoprirlo proprio nel momento del declino dell’assetto imperiale. Chi crede che questa consapevolezza – arrivata in ritardo come la nottola di Minerva – non poggi su altro terreno che la propaganda dello Zar di Russia, fa soltanto del complottismo rovesciato (“politicamente corretto”). Se il mondo, dall’avvento di internet e in particolare delle bolle social, è segnato più che mai anche da «guerre cognitive» per accaparrarsi i cervelli, dietro i movimenti delle coscienze agiscono sempre delle cause materiali. Egemone nel periodo dell’egemonia statunitense (talmente tanto da aver inglobato, “culturalmente” e non solo, anche una parte del proletariato), la classe media declina con il declinare del «secolo americano». Sospesa tra piccoli privilegi sempre più residuali e una crescente proletarizzazione (a livello di salari, consumi, condizioni di vita, modalità di lavoro), e in un quadro di ri-sudditizzazione generale, ha sperimentato fin nei propri corpi tutta la violenza di cui è capace l’Ordine imperiale. Ma se teme quest’ultimo, teme anche i barbari che si affollano alle sue frontiere. Mentre, nella terra dei rapporti sociali, maledice le varie caste (i politici, i banchieri e i loro servi dell’Informazione e della Scienza), invoca dal cielo del Diritto quello stesso Stato che, da «comitato d’affari della borghesia», è ormai divenuto un vero e proprio gabinetto di pianificazione. A questo groviglio di pulsioni, tanto spiegabile quanto intimamente contraddittorio, si rivolgono i pifferai sovranisti, ai quali una certa compagneria – quella che da un po’ di anni ha cominciato a pensare che la NATO ha fatto anche cose buone, o che non bisogna confondersi con le luride plebi populiste – non fa altro che lasciare campo libero. E che musica suonano, i pifferai? In un mondo stravolto da mutamenti radicali che scorrono alla velocità delle immagini, scambiano costantemente la sostanza di quanto sta avvenendo con la sua pura esteriorità. Dal nostro punto di vista, non c’è dubbio che – come avvenuto più volte nella storia – siamo di fronte a un salto di specie della classe dominante, nello specifico dal potere classicamente borghese al potere di una nuova classe, che si può definire tecnocrazia. Al contrario della vulgata liberal-marxista, però, certi trapassi non avvengono mai per semplice rimpiazzo (una classe che ne soppianta un’altra con un colpo di mano). Tra gli Illuministi, che pure partorirono il pensiero borghese, non furono pochi gli aristocratici (pensiamo a un Montesquieu); e ve ne furono anche di più sulle barricate della rivoluzione francese. A Firenze, alcuni dei padroni della città sono tuttora famiglie che risalgono ai tempi di Dante, con tanto di blasoni e titoli. A Carrara, proprietarie delle cave sono a tuttoggi quelle stesse famiglie che se le spartirono nel Settecento. A cambiare, di epoca in epoca, non è tanto chi detiene il potere di classe, ma le condizioni del suo accesso. Definire la tecnocrazia come la classe finanziaria, alla maniera dei sovranisti, dice tutto e non dice nulla: al giorno d’oggi, qualsiasi capitalista di un certo calibro finanziarizza le proprie attività. Al contrario, quella tecnocrazia che sta superando il potere genericamente borghese andrebbe definita come la classe della potenza: quella che si afferma approntando allo Stato i mezzi del suo dominio (prima di tutto le armi, e poi tutto l’armamentario duale delle tecnoscienze, dai cavi in fibra ottica ai mega-datacenter, passando per gli OGM vecchi e nuovi, la biologia di sintesi, i droni, i super-computer quantistici…); e che solo secondariamente, come conseguenza, ha preso e prende sempre di più il controllo dei “mercati”. In questo presente che ama nascondere gli scheletri nell’armadio, i sovranisti hanno almeno il merito di indicarlo, l’armadio. Ma non lo aprono mai. Vi scorgerebbero un mondo degli orrori: schiavi, miniere e fabbriche per approntare quei mezzi di cui nessuno Stato può fare a meno; un mondo-laboratorio popolato da umani cablati per rendere questi mezzi operanti; guerre per accapparrarsi le risorse necessarie a fabbricarli; e, a tutte le latitudini, stuoli di tecnocrati grandi e piccoli pronti a servire i loro Leviatani nella rinegoziazione del mondo. Che le «bande rivali» abbiano imparato bene la lezione dai (sempre più ex-) reggenti imperiali, ce lo dice anche il nome scelto dal Cremlino per l’invasione dell’Ucraina (a sua volta già invasa dai capitali concorrenti e dai loro Servizi): «Operazione Militare Speciale». Quando l’esercito coadiuva o sostituisce la polizia nella normale gestione dell’ordine detto pubblico, mentre è sempre all’opera nel continuo gioco di provocazioni, spesso occultate o proprio invisibili, tra i vari Leviatani, – allora il suo sconfinamento non ne costituisce altro che la variante non-ordinaria e quindi prevista, come prova tecnica di dominio sovra-, o forse ormai meglio meta-, nazionale. Ciò detto, se oggi la «macchina sovranazionale» di cui ci parla Riccardo sta andando in pezzi (apparentemente in direzione di più blocchi globo-regionali anziché di un ritorno allo Stato-Nazione), le ragioni per attaccarla non sono di meno, ma di più. Messo alle strette dai poli capitalistici emergenti, il capitalismo occidentale è disposto a tutto pur di non mollare la presa, anche a costo di ritrovarsi tra le mani un cumulo di macerie radioattive. Già questa è una buona ragione per combatterlo: perché prenda forma un mondo diverso, deve ancora esserci un mondo. Ma ci sono altre ragioni, e più profonde. I rivoluzionari possono e devono scegliere come giocare (quali fini perseguire, e con che mezzi); ma non possono scegliere il campo da gioco, ovvero l’orizzonte storico in cui agiscono, e al cui interno, oggi, non opera solo la falsa alternativa tra «democrazie» e «regimi autoritari». Piaccia o non piaccia, la nostra è l’epoca in cui, dietro i poli capitalistici emergenti, ci sono masse di dannati della terra che premono per uscire dalla miseria, mentre nelle «aree centrali» milioni di persone scoprono di non vivere nel migliore dei mondi. Senza rinunciare a niente delle nostre prospettive, senza tifare per nessun concorrente, e continuando a ribadire che la sola alternativa reale è il comunismo anarchico (mentre il «multipolarismo» è solo una favola insanguinata), opporci innanzitutto al nostro imperialismo è – come ha scritto qualcuno – la «porta stretta» dalla quale un movimento rivoluzionario non può evitare di passare. Perché è il solo modo per avvicinarci a quei miliardi di esseri umani che sono due volte oppressi e sfruttati: dai loro regimi, che malsopportano, ma spesso accettano come “male minore”, e dalla «macchina sovranazionale» occidentale, dalla quale ora più che mai cercano di liberarsi; perché è il solo modo per ritrovarsi dalla stessa parte della rabbia che monta anche alle nostre latitudini, prima che qualche pifferaio riesca a canalizzarla contro altri oppressi; e perché una trasformazione rivoluzionaria non può né essere concepita né avviarsi senza lo stravolgimento dei rapporti di forza mondiali. Non sappiamo che cosa potrebbe scaturirne, da questo stravolgimento, e se ci concederà un’occasione per «rimettere in discussione, e praticamente, i fondamenti stessi del potere». Possiamo però scommettere che, se questa occasione si darà, sarà l’ultima che l’umanità avrà di fronte prima di sprofondare in quella «lunga stagione buia» su cui Riccardo ci ammoniva più di trent’anni fa. In questo paesaggio cupo possiamo cogliere almeno un aspetto positivo: se la frantumazione dell’Impero implica il ritorno delle guerre simmetriche, con il loro bisogno massiccio di carne da cannone da arruolare a forza anziché dei soli eserciti professionali, gli appelli alla diserzione smettono di essere mere «esercitazioni retoriche», e la variabile umana può farsi nuovamente sabbia nel motore del militarismo. Se poi l’economia di guerra estende ulteriormente l’arruolamento in senso sociale, raggiungendo luoghi di lavoro e territori, le occasioni per ammutinarsi (scioperando, bloccando, sabotando) si moltiplicano. Mentre i tecnocrati di ognidove corrono al riarmo, tutti gli uomini e le donne di cuore e buona volontà sono a loro volta chiamati ad armarsi: innanzitutto di idee chiare, coraggio e protervia. Mentre l’aria appare già piuttosto scura, sappiamo che l’alba non verrà da sola. [novembre 2024]
Approfondimenti
L’autorganizzazione come etica, come modo di vivere
A volte è più che necessario – è vitale – alzare un po’ gli occhi dall’agenda militante e chiedersi per quale vita ci battiamo, per quali ragioni di fondo, e con quali mezzi – materiali e ideali – pensiamo di raggiungerla. Per questo riproponiamo questa vecchia conferenza del nostro amico Massimo, che tocca, riaggiornandoli alla società tecnologica di massa, alcuni dei nodi fondamentali dell’anarchismo rivoluzionario. Qual è l’etica su cui si fonda l’anarchismo? Essa è solo individuale oppure vive anche in una trama di costumi collettivi? Che forma vi assume il valore dell’uguaglianza? Quale violenza è rivoluzionaria, e come si giustifica? Quanto può essere rivoluzionaria la non-violenza, e quanto è fondata la sua pretesa di superiorità morale? Un testo che risponde ad alcune di queste domande aprendo o lasciandone aperte molte altre, ultima ma nient’affatto per importanza quella sul “che fare?”. Il cui peso, in questi ultimi vent’anni, è soltanto cresciuto insieme alla dismisura tecnologica, giunta oggi a produrre il primo genocidio automatizzato della storia. L’autorganizzazione come etica, come modo di vivere Individuo e società, violenza e non-violenza IL TEMA DI STASERA è l’autorganizzazione come etica, come modo di vivere. Vorrei cominciare con un passo tratto da Le città invisibili di Calvino: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo vivendo insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. II primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. II secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Ecco, per me questo qualcosa che non è inferno, questo qualcosa da far durare e a cui dare spazio è un’etica, l’etica della reciprocità. A chi è talmente parte dell’inferno contemporaneo da non vederlo più non ho nulla da dire. C’è forse bisogno di dimostrare che quello che chiamano vivere civile è un quotidiano omicidio di massa, una quotidiana carneficina di dignità, uno spaventoso accumularsi di protesi tecnologiche che ci rendono ogni giorno più massificati e allo stesso tempo più isolati? Più che un ennesimo inventario degli orrori, ciò che serve è cogliere l’essenza di questo inferno al fine di scorgere, appunto, ciò che non è inferno. E l’essenza è la divisione in dirigenti ed esecutori, una divisione che la produzione massificata – dal cibo alle telenovela, dall’energia ai massacri in mondovisione – ha portato a livelli giganteschi. Nel corso di tutte le società basate sul dominio – cioè sull’assoggettamento delle popolazioni ad opera di qualche minoranza – è successo che un elemento di questo dominio abbia preso il sopravvento su tutti gli altri. È quanto è accaduto con il capitalismo, un sistema sociale in cui il motivo economico tende a soppiantare tutti gli altri. Se le conseguenze del capitalismo sono state l’industrializzazione e il concentramento urbano, è importante coglierne le cause specifiche: – l’accelerazione enorme del cambiamento tecnico, legata allo sviluppo della scienza; – la nascita e il consolidamento dello Stato moderno, centralizzato e burocratico, base e modello dell’impresa capitalista nascente; – la creazione della nazione come spazio mercantile e giuridico unificato; – la nascita di un nuovo tipo umano, in senso antropologico, caratterizzato dalla mentalità del calcolo e del guadagno, il cui tempo è quello scandito e misurabile. La divisione in dirigenti ed esecutori si rafforza con la specializzazione dei ruoli, la quale tende a soppiantare il comando autoritario con il potere apparentemente impersonale dell’esperto. OGGI, ASSISTIAMO ANCORA una volta a uno di questi processi che porta un elemento del sistema a dominare tutti gli altri. Si tratta del movimento sempre più autonomo della tecnoscienza, dei suoi apparati, dei suoi linguaggi. Questo processo, che dalla seconda guerra mondiale ad oggi ha creato una Megamacchina in cui si sono fusi la ricerca scientifica e l’industria, il sistema militare, quello politico e mediatico, tende a ridurre ed eliminare il ruolo dell’uomo nella produzione. L’uomo è da sempre l’elemento più difficile da dominare, ecco perché il potere ne ha fatto qualcosa – per dirla con Gilnter Anders – di antiquato. Arginare la resistenza degli sfruttati è stata la preoccupazione costante che ha unito, in particolare negli ultimi decenni, le esigenze del profitto e quelle del controllo sociale. Interrogarsi in senso astratto sulla “tecnica” senza riferirsi alla storia e ai conflitti sociali che hanno fatto del capitalismo sempre più una società tecnologica è un nonsenso buono per i sociologi. Allo stesso modo, inorridire di fronte all’inferno delle guerre telematizzate e degli esperimenti nucleari – oppure, andando indietro, dei campi di concentramento e di sterminio – senza guardare nel ventre mostruoso da cui sono nati e nascono ancora è un modo per illudere se stessi. IL CONTRARIO DELLA DIVISIONE in dirigenti ed esecutori è l’autonomia individuale e collettiva. E se autonomia significa capacità di dare a se stessi le proprie regole, un’attività autonoma è un’attività di cui gli individui controllano gli strumenti e le finalità. Quando gli strumenti agiscono da soli, quando la specializzazione dei ruoli liquida la comprensione complessiva dei nostri atti e quindi la coscienza delle loro conseguenze, dov’è l’autonomia? Quando si può lavorare alla catena di montaggio di una fabbrica di armi con la spensieratezza di una musica in filodiffusione, dov’è la coscienza? Come collegare i nostri gesti ai corpi dilaniati da qualche bombardamento con cui la televisione condirà la nostra cena? Perché porsi il problema, dal momento che, lavoratori salariati, appariamo socialmente onesti? Fra gli integrati, chi vedrà l’inferno nel nerbo stesso di ciò che ci tiene insieme? PENSO CHE L’ETICA DELLA RECIPROCITÀ sia la base che può chiarire il concetto di autorganizzazione e gettare allo stesso tempo un po’ di luce sul problema della violenza e della non-violenza. Autorganizzarsi significa organizzarsi da sé e anche organizzare se stessi – le due cose vanno assieme ma non coincidono. Per organizzare la propria attività bisogna organizzare il proprio sapere, il proprio linguaggio, le proprie capacità manuali e così via. E viceversa, per sviluppare se stessi (per organizzare le proprie attitudini in modo spontaneo e affinato) occorre poter agire autonomamente. Ora, quando parliamo di auto-organizzazione, chi è l’autós, il “se stesso” di cui si parla, il soggetto che si organizza, appunto, “da sé”? Per non cadere in visioni astratte e gerarchiche bisognerà rispondere: l’individuo. Anche le società più totalitarie, infatti, organizzano “se stesse” e si organizzano “da sé”, in quanto le cause della loro continua auto-istituzione sono immanenti, non provengono da nessun al di là. Solo che al loro interno una minoranza comanda e la massa ubbidisce, allo stesso tempo attiva e passiva, complice e vittima. Prima ho detto: l’individuo, ma avrei potuto dire: gli individui. Per l’uomo che nasce, il dato del mondo che lo accoglie è la pluralità degli uomini, tutti diversi e tutti unici, come si rivela anche solo allo sguardo. Se, come diceva Hannah Arendt, l’azione è la risposta tipicamente umana al fatto di essere nati, l’introduzione della novità e della discontinuità in un ordine già-fatto, la reciprocità è la condizione che assume fino in fondo la pluralità degli uomini, per cui dire “individuo” significa sempre dire “individui”. L’etica della reciprocità afferma: come tu a me, così io a te. Facendo dell’uguaglianza il luogo in cui si esprimono le differenze, essa coniuga l’universalismo con l’affermazione dell’unicità dell’individuo. L’unica cosa che ci rende davvero uguali, l’unico dato davvero comune, universale, è il fatto che siamo tutti diversi. A questo proposito, è comico e tragico insieme vedere come i sociologi di sinistra siano incapaci di andare oltre le risposte impacciate e false nei loro colloqui con i nuovi teorici del razzismo, i quali, abbandonati i rozzi appelli alla biologia (la pelle, il sangue, eccetera), parlano di diversità culturale e accusano l’universalismo di distruggere le differenze reali (etniche, storiche, eccetera). Non riferendosi all’unica universalità concreta – l’individuo – questi sociologi non sanno attaccare la menzogna di fondo del nuovo razzismo: le differenze di cui esso parla sono sempre collettive, e cioè sono identità monolitiche per gli individui presenti all’interno di una stessa “cultura”, di una stessa “nazione” e così via. Ma questo sarebbe un discorso lungo; ho voluto solo accennarvi. L’ETICA DELLA RECIPROCITÀ è un’etica per cui “giusto” non è fare questo o quello; “giusto” non è il costume di una comunità piuttosto che quello di un’altra: giusto è ciò che permette alle diverse concezioni individuali di ciò che è giusto e sbagliato di esprimersi. Relativismo assoluto che accetta qualsiasi cosa e il suo contrario? Nient’affatto. Si tratta di un metodo che nega ogni sopraffazione e ogni dominio, dell’intolleranza assoluta verso ogni regola imposta dall’esterno. Il dominio si caratterizza soprattutto per l’usurpazione di facoltà collettive da parte di una minoranza. Benché la violenza ne sia il fondamento (nessun potere gerarchico si regge senza il gendarme), violenza e dominio non sono sinonimi. Vi sono metodi di dominio in cui la violenza in senso stretto (inflizione, reale o minacciata, di sofferenza fisica) non è presente, perché la loro natura è più subdola (pensiamo, ad esempio, alla pubblicità); così come esiste una violenza che non è finalizzata al dominio, bensì alla liberazione dal dominio. Ma su questo ritornerò. In generale, penso si possa definire violenza in senso più profondo la negazione sistematica della reciprocità, cioè l’imposizione unilaterale delle condizioni. Tutto ciò che accetto di compiere spinto dalla necessità (politica e non “naturale”) di sopravvivere, non lo accetto forse sotto minaccia? Non è uno stato di necessità che mi fa subire “accordi” che non ho mai sottoscritto né condiviso e che chiamano “leggi”? Non è per questo che svolgo un’attività lavorativa di cui non capisco il senso, di cui non controllo le conseguenze e i cui effetti mi possono anche sembrare socialmente nefasti? Se non mi ribello ogni volta che ne ho l’occasione, non è forse per paura? Quello che passa per lo più per non-violenza è questa paura di fronte alla violenza, è il fatto di rimanere alla finestra mentre l’inferno continua. In tal senso, il 99% dei nostri contemporanei è composto da “non-violenti”. Vi sembra una provocazione? Se la reciprocità è il metodo per una comune libertà individuale, allora l’autorganizzazione ne è la forma sociale. Autorganizzazione come etica sociale, allora, come modo di vivere, le cui condizioni sono il dialogo reale, la libera assemblea, il rifiuto di ogni rappresentanza irresponsabile. E non è forse irresponsabile votare qualcuno ogni cinque anni senza poter incidere su quello che ha fatto prima de! nostro voto né su quello che farà dopo? E pensare che chiamano ciò “elezione”, cioè scelta in senso forte! Un modo autonomo di organizzarsi presuppone non già il rifiuto di ogni forma di suddivisione dei compiti, ma il rifiuto della loro specializzazione gerarchica e incontrollabile – oggi potremmo aggiungere, pensando alle conseguenze della tecnologia sulla natura e sulla specie umana: irreversibile. In una tale autonomia mi sembra coincidere l’autentica paideia, come dicevano i Greci, cioè l’autoeducazione degli individui. Se teniamo presente la definizione di azione come discontinuità di un ordine già-fatto, pensiamo a come si svolgono le nostre giornate, fra continui obblighi impersonali eppure terribilmente concreti, e chiediamoci: quand’è che agiamo? Quand’è che le nostre parole e i nostri gesti modificano, nel senso dell’autonomia, il mondo in cui viviamo? II mondo lo trasformiamo eccome, e sempre più in modo globale, solo che siamo prigionieri dei nostri cambiamenti. Ascoltiamo Anders: Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi. INDIVIDUO E SOCIETÀ, VIOLENZA E NON-VIOLENZA. Una società libera è una società di cui gli individui autocreano continuamente gli accordi, i saperi, i linguaggi. Una società che ha liquidato ogni violenza strutturate è una società basata sulla reciprocità. Il contrario di reciprocità è unilateralità, cioè sfruttamento degli uni da parte degli altri. Fin in epoca moderna, il concetto di “società” sottolineava l’aspetto volontario e non-violento, cioè reciproco, degli accordi fra individui. Diversamente, infatti, si sarebbe sudditi, non soci. Voglio soffermarmi ancora sulla nozione di etica, prima di affrontare il tema della violenza e della nonviolenza. CI SONO DUE SIGNIFICATI che, fin dall’antichità, coabitano nel concetto di etica. L’etica è qualcosa di profondamente individuale – Eraclito diceva «etica è a ciascuno il suo demone», e il demone è il proprio modo di essere, sia nelle sue determinazioni coscienti sia nei suoi aspetti più oscuri ed enigmatici. Questo demone non è un giudice che detta le sue leggi, come sostiene una ben nota tradizione filosofica, ma una voce che ora parla per allusioni, ora urla con la forza dell’evidenza. I suoi sono geroglifici dell’anima, e l’anima, diceva ancora Eraclito l’oscuro, non ha confini. L’etica non è un’insieme di norme, dunque, ma una continua esplorazione. Ma l’etica – l’ethos – è anche qualcosa di collettivo, attinente ai costumi, ai saperi, al modo di abitare – insomma, è quello che si definisce per lo più “morale”, per quanto i due termini siano il secondo la trascrizione in latino del primo (mores e ethos sono, infatti, sinonimi). Perché queste precisazioni? Non per uno di quei vani esercizi di etimologia con cui si sostiene tutto e il suo contrario, ma per chiarire che quando parlo di un’etica della reciprocità parlo di qualcosa di profondamente personale e insieme di un luogo collettivo, quello dell’autorganizzazione delle lotte e della vita. E chi dice lotta e vita, dice rapporti, saperi, linguaggi, tecniche. Quest’etica deve essere “globale” perché le conseguenze dei nostri gesti lo sono, nel tempo come nello spazio. Essa afferma, come Ugo da San Vittore faceva nel XIII secolo: L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero. Questo è il solo modo che trovo di essere solidale con chi è clandestino e con tutti gli umiliati della Terra. Nel mondo della reciprocità non esistono stranieri perché non ci sono cittadini. Il luogo dell’ethos va pensato in senso non territoriale. L’etica della reciprocità emerge là dove il dialogo forgia le sue armi e sovverte l’ordine delle cose; ancora una volta, nell’autorganizzazione. Ma di questo – dell’autorganizzazione come metodo di lotta e come pratica sociale – parleremo durante le prossime serate. L’autonomia reale è un modo dì vivere il rapporto fra ciò che è pre-individuale e ciò che è individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico, come le facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali che troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra azione. Noi diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in rapporto con la natura e con la storia. Autonoma è una società in cui tale rapporto non è fissato in nessuna istituzione esterna – come lo Stato o l’impresa capitalista – all’azione reciproca degli individui; in cui la discussione, l’amore, il gioco, il conflitto e la riproduzione delle condizioni materiali sono attività fra loro armoniche; in cui non esistono un’economia, una politica, un’arte o una scienza come sfere separate della vita. ANCORA DUE PAROLE SU individuo e società. Si sa che secondo le varie teorie del contratto sociale gli individui avrebbero rinunciato, a un certo punto della storia, alle loro libertà naturali in cambio della protezione fornita dalla società politica, cioè dallo Stato. Vi siete mai chiesti con che lingua comune hanno potuto mai stipulare un simile contratto dal momento che essi vivevano fuori della società? Il libero accordo non è l’inizio, bensì il risultato mai raggiunto di una lunga esperienza sociale. Reciprocità significa: la mia libertà esiste solo grazie alla libertà degli altri. Penso che una vita piena sia una vita che sa mescolare con arte il piacere della solitudine e il piacere dell’incontro. La società massificata distrugge entrambi. Qualcuno ha parlato opportunamente, rispetto alla vita contemporanea, di eremiti di massa. Siamo continuamente socializzati in un sistema-mondo dalla pubblicità e dalle mille protesi tecnologiche e allo stesso tempo siamo separati dai nostri simili. Gli spazi privati e quelli pubblici sono sempre più indifferenziati e sempre più anonimi. Dopo la natura selvaggia, è scomparsa ogni agorà e ogni libera assemblea. Credo che una nuova solitudine e una nuova socialità nasceranno insieme, oppure ogni individualità diventerà antiquata. E VENIAMO ORA ALL’ULTIMA QUESTIONE: violenza e non-violenza. Quelle che seguono sono solo alcune banalità di base per cominciare a discutere davvero. Mezzi e fini: questa è, si dice, la politica. L’esperienza tragica almeno dell’ultimo secolo ci insegna che non ci può essere separazione fra mezzi e fini, che i mezzi contengono già i propri fini. All’autonomia si giunge solo con l’autonomia. All’autorganizzazione della vita si arriva solo autorganizzando le lotte. Occorre ancora dimostrarlo? Non lo hanno già fatto la dittatura stalinista e la lunga storia del parlamentarismo? Tagliamo corto: chiunque parli di società non-violenta senza riferirsi esplicitamente alla demolizione dello Stato e del capitalismo ha non uno, ma tanti cadaveri in bocca. Uno Stato non-violento è una contraddizioni in termini. Il Diritto lo sa, e infatti parla di monopolio legittimo della violenza. Legittimo? E chi lo dice? Lo Stato. II non-violento ci crede. Nel migliore dei casi ha preso per buona l’immagine che questa società dà di se stessa, quella di un pacifico mercato interrotto, ahinoi, da qualche violenza. Se l’etica non ha nulla a che vedere con il diritto – ché ubbidendo alle leggi si diventa oggi più che mai dei complici nell’omicidio di massa –, la non-violenza non ha nulla a che vedere con il codice penale. «Il nonviolento è tale solo quando rischia più del violento», scrive un compagno – Vincenzo Guagliardo – incarcerato da quasi vent’anni per aver partecipato alla lotta armata. Da anni impegnato a trovare dei modi di lotta per ridurre il più possibile la violenza nel mondo e per abolire ogni logica sacrificale, ha scritto dopo Genova che serve a poco sfidare le zone rosse se non si disertano le zone grigie. La zona grigia, nel linguaggio di Primo Levi, è quella della collaborazione fra alcuni internati nei Lager e i loro carnefici e, più in generale, fra un popolo e i suoi oppressori. Non è ancora oggi la nostra collaborazione la zona grigia che fa continuare l’inferno? E allora si può essere non-violenti senza rifiutarsi di collaborare con lo Stato? Si può essere non-violenti e appoggiare chi bombarda intere popolazioni, affama e desertifica paesi interi, oppure rinchiude chi non ha i documenti in regola? Si può essere non-violenti ed accettare il carcere? Il fine della non-violenza non può essere che una società senza Stato e senza dominio. Utopia? Certo, e bisogna scegliere fra etica e realismo politico. Penso che tutto quello che tende concretamente verso una tale società sia liberazione in atto. Si potrà forse realizzarla, una simile società, senza scontrarsi con la polizia? Così scriveva Aldo Capitini, uno dei maggiori teorici della non-violenza in Italia: La nonviolenza non è appoggio all’ingiustizia… Bisogna aver chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo metodo e la sua realtà… La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata. Capitini, ma potremmo citare lo stesso Ghandi, propugnava il sabotaggio delle strutture oppressive come metodo di lotta non-violenta? Che dicono i “nonviolenti” che urlano al terrorismo, cioè alla violenza cieca e indiscriminata, quando qualcuno sabota una centrale nucleare o un laboratorio di biotecnologie? Simili azioni producono o distruggono la violenza? Non-violenza è qui un altro nome per ignavia e viltà. IL PUNTO È CHE TUTTI I DIFENSORI DELL’ORDINE definiscono non-violenza il rispetto della legalità e del dialogo democratico. Quasi tutti quelli che si chiamano nonviolenti accettano questa mistificazione. Eppure le maggiori violenze commesse dallo Stato sono perfettamente legali, cioè giuridicamente giustificate, per il semplice fatto che è la forza (non solo in senso militare, ma economico, mediatico, sociale) a fondare il Diritto. Il “dialogo democratico”, poi, è il contrario esatto di un dialogo reale: per dialogare veramente, lo abbiamo visto, bisogna essere in una condizione di reciprocità. Se qualcuno ha il potere di imporre unilateralmente le domande, le risposte gli saranno sempre funzionali. In quel caso si può dire che le domande si rispondono da sole. Un generale americano e un ragazzo afghano possono dialogare nella misura esatta in cui Agnelli e i suoi operai in sciopero sono uguali di fronte alla legge. “Violento”, “terrorista” è oggi chiunque rifiuti il dialogo con le istituzioni, chiunque distrugga anche solo le macchine per far parlare gli uomini. Chi comanda, definisce il senso delle parole. Chi definisce il senso delle parole, comanda. Perché per i dirigenti è così importante imporre il loro senso alle parole? Perché sanno che una ribellione contro la legge è una possibilità che esiste concretamente nel mondo; perché sanno che dove gli umiliati, i dominati, gli sfruttati dialogano realmente non c’è spazio per il dialogo fittizio della democrazia. Per questo i libertari fanno paura, perché l’autorganizzazione di cui parlano esiste già. Mi pongo e vi pongo un ultimo interrogativo: è sufficiente limitarsi a distruggere le strutture oppressive quando la polizia spara e tortura, quando gli stermini continuano in ogni parte del pianeta? E su questo lascio ancora la parola a Günter Anders, che così scriveva nel 1987, a ottantacinque anni, dopo aver vissuto il nazismo, Hiroshima, il Vietnam e Chernobyl. Dal momento che non ci è concesso di restare indifferenti di fronte alla nostra fine e a quella dei nostri figli – una tale indifferenza sarebbe omicida – non dobbiamo neanche rifiutare la lotta contro gli aggressori con l’argomentazione secondo cui il comandamento `Non uccidere” non ammette alcuna eccezione. Esso l’ammette. Anzi l’esige. E ciò nel caso in cui attraverso l’atto-eccezione vengano salvati più uomini di quanti ne muoiano a causa sua. Dobbiamo cioè accettare la guerra a cui siamo costretti. E questo – noi non saremmo certamente i primi, ma saremmo certamente gli ultimi! – con la stessa disperata risolutezza con cui mezzo secolo fa migliaia di uomini e donne nei Paesi europei oppressi da Hitler hanno (o avrebbero) dovuto accettare la lotta contro la politica di sterminio del nazionalsocialismo. Ancora oggi, perfino fuori della Francia, la parola résistance non ha perduto il suo bel suono. Dovremmo forse vergognarci di fronte alla generazione d’allora? Allora, infatti, furono solo i più ignobili ad avere il «coraggio della viltà»: ossia il coraggio a non opporre nessuna resistenza, vantandosi persino, come fanno oggi certi oppositori al nucleare, di limitarsi alla ‘resistenza nonviolenta’ per motivi giuridici, morali o religiosi. A causa di una tale autolimitazione perirono allora un gran numero di persone. Oggi si tratta di un numero incomparabilmente più grande di allora. Perché il pericolo di oggi non solo è più grande di allora, ma è – il comparativo non basta più – totale. E potrebbe essere definitivo. Per questa ragione noi contemporanei possiamo permetterci ancor meno di accontentarci di ‘happenings’, o addirittura vantarci di un tale accontentarsi. Piuttosto, adesso dobbiamo invece cercare di combattere gli odierni nemici e aggressori con la medesima mancanza di riguardi con cui quarantacinque anni fa i partigiani cercarono di combattere, di indebolire o di uccidere gli occupanti e oppressori nazionalsocialisti dei loro Paesi. E pertanto anche noi dobbiamo sentirci in dovere di diventare dei partigiani. Rovereto, 28 novembre 2002 Massimo Passamani [Conferenza nell’ambito dell’iniziativa UN’UTOPIA AGITA IL MONDO. Cinque incontri sull’autorganizzazione. Rovereto, 28 novembre – 19 dicembre, sala di Palazzo Balista, corso Rosmini 13 Giovedì 28 novembre 2002, ore 20:30]
Approfondimenti
Al mercato delle riconversioni belliche
Riceviamo e diffondiamo questa utile panoramica delle riconversioni belliche, in Italia e non solo: Anche su  https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/riconversioni-belliche/ AL MERCATO DELLE RICONVERSIONI BELLICHE Nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati e la spartizione delle risorse, in un quadro che vede mutare gli assetti geopolitici globali, si afferma la corsa al riarmo europeo. Mentre si cerca di abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto, e cioè che in guerra ci siamo già anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case; mentre gli Stati europei – dai Paesi scandinavi alla Francia – forniscono ai loro cittadini dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra nucleare; e mentre alcune nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare… si sta affermando l’idea che anche le aziende in crisi debbano essere riconvertite alla produzione bellica. Tra le prime, Volkswagen ha mostrato crescente interessamento. Pur riconoscendo che una completa conversione alla produzione bellica richiederà anni, l’azienda tedesca vuol tornare a fornire motori e trasmissioni per veicoli militari collaborando con la conterranea Rheinmetall, come aveva già fatto durante la seconda guerra mondiale quando collaborò coi nazisti. Aziende come Rheinmetall, leader in Europa nella produzione di munizioni e armamenti terrestri tra cui i carri armati Panther, e KNDS Group, joint venture franco-tedesca specializzata in veicoli corazzati ed esplosivi con un fatturato di 3 miliardi di euro, stanno già riconvertendo impianti civili, non solo automobilistici, in linee di produzione bellica. Il CEO di Rheinmetall, Armin Papperger, ha indicato che lo stabilimento di Osnabrück di Volkswagen sarebbe “molto adatto” per la produzione di veicoli blindati Lynx, a condizione di ricevere ordini per almeno 1.000 unità. Proprio Rheinmetall ha realizzato una joint venture con l’italiana Leonardo per fornire 280 nuovi carri armati Panther e oltre mille veicoli blindati Lynx all’Esercito italiano, una commessa da 23,2 miliardi di euro. Metà della produzione sarà fatta da Leonardo in Italia. Parteciperà a questo progetto, con un contratto di fornitura per circa il 15% del valore, anche Iveco Defence Vehicles (IDV) controllata da Exor, la finanziaria olandese della famiglia Agnelli. Leonardo e Rheinmetall vorrebbero partecipare al progetto per il futuro carro armato pesante europeo, detto Mbt o Mgcs, un progetto lanciato da Francia e Germania, che si scontra però con gli interessi anche della franco-tedesca KNDS, holding che unisce la francese Nexter e la tedesca Krauss-Maffei Wegmann. Un’altra società tedesca, la Helsoldt, che si occupa di elettronica per la difesa, di cui è azionista Leonardo con il 22,8%, ha comprato una fabbrica di elettrodomestici Bosch con 400 lavoratori annessi per riconvertirla. La franco-tedesca KNDS, che produce il carro armato Leopard e il veicolo da combattimento Puma, ha recentemente acquisito un’ex fabbrica ferroviaria a Görlitz, in Germania, per espandere la sua capacità produttiva. Anche l’ex insediamento Winchester di Anagni (Frosinone), nella Valle del Sacco in Ciociaria, verrà riconvertita da KNDS Ammo Italy (ex Simmel Difesa) in una fabbrica per produrre nitro-gelatina e polveri di lancio per proiettili. 11 nuovi capannoni su un’area di circa 2500 metri quadri per potenziare la filiera delle armi1. Il paradosso sta che fino ad ora nell’ex stabilimento laziale di Anagni si provvedeva al disinnesco dei proiettili scaduti. Tra Anagni e la vicina Colleferro – dove KNDS possiede già uno dei più importanti stabilimenti per il caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe – arriverà a fabbricare fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno. Nel 2023 vi era stata la visita del commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton, allo stabilimento dei Colleferro, che aveva espressamente richiesto di incrementare la produzione per missili e proiettili con cui riempire gli arsenali europei. La riconversione dello stabilimento di Anagni, che dovrebbe iniziare la produzione a partire dalla primavera 2026, si inserisce pienamente nel quadro del piano “ReArm EU” ma ha anche ricevuto un finanziamento europeo di 41 milioni di euro dopo l’approvazione dell’ASAP (Act Support Ammunition Production)2. L’ASAP è la legge europea, varata nel maggio 2023 e confermata a marzo 2024 con l’impegno di 500 milioni di euro del bilancio UE, per potenziare la produzione di esplosivi, polvere da sparo e munizioni dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’ASAP ha calcolato che entro la fine del 2025 saranno 2 milioni i proiettili che dovranno essere prodotti all’anno dalle industrie europee. 4,300 tonnellate l’anno gli esplosivi. Attraverso l’ASAP la Commissione Europea ha selezionato una trentina di progetti per sostenere l’industria bellica europea della produzione di polveri e munizioni. In un primo tempo il maxiappalto riguardava solo le imprese europee, ma a causa del mancato raggiungimento del numero previsto di munizioni da parte dell’industria europea, ora i fondi UE possono essere usati per comprare munizioni anche da Paesi terzi, con gli Stati Uniti ovviamente a farla da padrone (con la seconda elezione di Trump, gli Stati Uniti non solo pretendono che la UE acquisti il loro gas GNL ma anche le loro armi). I 31 progetti industriali finanziati dall’UE coinvolgono Grecia, Francia, Polonia, Norvegia, Italia, Germania, Finlandia, Slovacchia, Lettonia, Romania, Repubblica Ceca, Spagna e Slovacchia. Oltre la KNDS Ammo Italy, tra questi 31 progetti finanziati dall’UE vi è anche quello presentato dalla bolognese Baschieri&Pellagri, del gruppo della Fiocchi Munizioni Spa di Lecco. Il progetto della Baschieri&Pellagri è stato finanziato con 3,7 milioni di euro e consiste nella produzione di polvere da sparo per i proiettili. Ritornando all’industria dell’automotive, non possiamo non citare il caso dell’italo-olandese Stellantis (ex Fca-Fiat) del presidente John Elkann, della famiglia Agnelli, che vive una crisi acuta, con un forte calo della produzione automobilistica nazionale, e che potrebbe essere interessata da un piano di riconversione sostenuto dai ministeri della Difesa e dell’Economia. Annunciato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, un piano per rilanciare la filiera dell’auto prevede un finanziamento di 2,5 miliardi di euro con fondi pubblici entro il 2027, con l’obiettivo di diversificare la produzione coinvolgendo il settore auto nel cosiddetto “dual use”, ovvero l’utilizzo delle stesse infrastrutture per scopi civili e militari. Per Stellantis si parla di un ruolo di consulenza ingegneristica, ma forse anche della riconversione di uno o più stabilimenti per la produzione di mezzi militari o componentistica. Fra le ipotesi alla studio, per intercettare la pioggia di miliardi del riarmo UE, c’è la riconversione dello stabilimento di Termini Imerese (Palermo). Per facilitare l’intesa il governo Meloni vuole superare il cosiddetto piano green deal lanciato nel 2019 dalla Commissione europea, almeno per quanto riguarda il settore auto. Le regole europee oggi impongono la riduzione della produzione delle auto a combustione per ridurre le emissioni di gas serra e contenere il riscaldamento globale entro +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Il che significa riconvertire il settore auto nell’elettrico, settore nel quale l’Italia (ma anche la stessa Europa) è piuttosto indietro rispetto a Paesi come la Cina. Anche i dazi minacciati da Trump sui prodotti importati dai Paesi europei hanno giocato un ruolo sulla decisione di sospendere le regole europee per il green deal, dato che tra i settori colpiti da questa nuova guerra commerciale c’è senz’altro il mercato dell’automotive. Ma la vera ragione della sospensione del green deal è un’altra. Come ha ricordato molto chiaramente l’ex ministro dell’ambiente e della transizione ecologica nel governo Draghi, Roberto Cingolani, oggi amministratore delegato della più grande società bellica italiana, la Leonardo, società che stima ordini per 118 miliardi fino al 2029 con l’obiettivo di raggiungere ricavi superiori a 26 miliardi entro la fine del decennio, “il Green Deal era importante in tempi di pace, ora ci sono altre priorità”. Ricordiamo, sempre della famiglia Agnelli, anche il ruolo di Iveco Defense. Già pienamente operativa nel settore militare, lo è ancora di più dopo un accordo con Leonardo siglato a novembre 2024. Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso. A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, i nomi che ritornano sono sempre quelli: Famiglia Agnelli, Volkswagen, Krupp. Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di lavoro. É la giustificazione che è stata usata, per esempio, a castelfranco Veneto (Treviso) per la riconversione in industria bellica della Faber, che ha cominciato a produrre bossoli e ogive, mentre prima produceva bombole d’ossigeno e a gas. A questo punto con buona probabilità anche i sindacati confederali collaboreranno alla militarizzazione del lavoro, cosa che stanno già facendo nel caso proprio della Faber, con la Fim Cisl di Treviso che ha sostenuto apertamente il progetto di riconversione bellica, fino al punto di proporre la riconversione ad uso militare anche delle vicine industrie della Berco, azienda del gruppo tedesco dell’acciaio Thyssenkrupp (quest’ultimo attivo anche nel settore bellico), che produce cingolati per trattori e che vuole ridimensionare, con procedure di licenziamento aperte, le sedi produttive italiane di Castelfranco Veneto, Copparo e Bologna. Secondo i giornali locali veneti gli operai di Castelfranco Veneto, in cassa integrazione da molti mesi, sarebbero persino favorevoli, pur di non perdere il posto di lavoro e mettere un pezzo di pane a tavola. Dai cingolati per i trattori a quelli per i carri armati è un attimo. Tra l’altro gli stabilimenti veneti sia della Berco che della Faber nascono dallo scorporo dell’azienda bellica Simmel Difesa e le macchine per produrre armamenti pare si trovino ancora all’interno degli stabilimenti. Condotte come quelle della Cisl trevigiana non sono casi isolati. Già nel 2021 i responsabili locali della Fiom-Cgil palermitana dichiararono che la costruzione di navi da guerra, motovedette e portaerei nei Cantieri Navali di Fincantieri a Palermo “avrebbe portato ulteriore lavoro, stabilità lavorativa e benefici economici per tutta la città”. Sindacalisti per la guerra. PiccoliFuochiVagabondi -------------------------------------------------------------------------------- 1 www.peacelink.it/disarmo/a/50660.html 2 https://defence-industry-space.ec.europa.eu/eu-defence-industry/asap-boosting-defence-production_en
Approfondimenti
Rompere le righe
In primo piano
A mezzo il cielo. Ancora su “radici, vento e (possibili) zavorre”
C’è un linguaggio nato dal vecchio mondo, indispensabile a capirlo per chi voglia cercare di disfarsene, e non c’è (ancora) una lingua della vita liberata, finché questa rimane tutta da inventare. Al di là dell’occasione che l’ha generato, ci sembra questo il suggerimento più prezioso di questo nuovo capitolo, scritto tra i baluginii del crepuscolo e i primi bagliori dell’aurora, di un dibattito su “radici, vento e (possibili) zavorre”, partito da un articolo sul numero 15 (giugno 2024) della rivista anarchica “i giorni e le notti” e ospitato anche sulle pagine di questo sito. Mentre ne attendiamo possibili (e probabili…) sviluppi, auguriamo ai nostri lettori e lettrici una buona lettura di questa nuova puntata, certi che li emozionerà come ha emozionato noi. Qui il pdf: a mezzo il cielo def A mezzo il cielo Ci sono amicizie che nascono sulla terraferma e altre che si annodano nella complicità irripetibile del naufragio, e di quella cosa di schiuma e di flutti hanno ancora il sale; nelle vele di alcune soffia il vento che porta ad approdi sicuri (non è detto che siano i migliori), in altre quello per continuare la navigazione fino a quando gli arrivi abbiano magari il tocco rude della verità (categoria un po’ scomoda di questi tempi), piuttosto che quello appiccicoso e dolciastro della consolazione. Con Peppe ci siamo conosciuti nel “diluvio universale covid”, con la sola bussola dei principî confermati e accordati al corpo teso alla vita. Le amicizie così, legami che nascono fuoritempo, non si misurano in anni e anche la scoperta delle affinità e disaffinità si fonda su un movimento particolare, in cui stima e sfida non si escludono nel gioco delle reciproche intelligenze. Il primo incontro è avvenuto su terra apparentemente ferma, addirittura tra le nostre montagne, in occasione della due-giorni su Sud, civiltà contadina, apocalisse culturale e cosmovisioni, rivoluzione. Quell’incontro nasceva dalla necessità improcrastinabile, cioè storicamente urgente, di fare un bilancio del biennio covid e, insieme, nominare dei varchi possibili per il futuro che, giustamente, immaginavamo altrettanto totalitario e guerresco. Dopo il naufragio imposto, ci prefiggevamo una deriva controllata: andare per mari inesplorati con alcuni punti fermi: la tensione anarchica e la sua storia, ad esempio. A partire dalle esperienze che ci hanno visti individualmente e collettivamente malconci, cosa salvare e cosa lasciare affondare del nostro strumentario teorico/pratico? E, in quanto diversi dentro un sociale che diventa macchina di annientamento delle diversità, quali i nodi da lavorare, da sciogliere, da tagliare? Quali le piste da percorrere, quali le risorse a cui attingere? Se abbiamo voluto Peppe in quella due giorni con noi è stato per porci insieme la domanda se a Sud si trovino ancora dei segni di qualcosa di diverso, uno scarto, rispetto all’apocalisse totale e marciante che si fa vanto di chiamarsi Occidente. Qualcosa di particolare sì, la civiltà contadina e le sue memorie non disperse per esempio, ma che riportato alla luce può avere un effetto liberatorio (potenzialmente) per tutti/e. Non un altrove e neanche un patrimonio ripristinabile a volontà, ma uno strumento di scavo della storia collettiva per capire da dove veniamo, come siamo stati educati a vedere come siamo. Eppure per scavare – o dissodare, o dinamitare – ci si dà da fare con i materiali a disposizione; poiché questa ricerca si muove su terreni teorici, gli strumenti teorici sono quelli su cui interrogarsi, che è giusto mettere in discussione. Siamo d’accordo: nessuna tecnica è neutra, così come non lo sono gli strumenti, nessuna eredità che non sia scelta (almeno in questo campo). È proprio su questo punto che si colloca la critica di Peppe: visto che certi mezzi possono fagocitare gli obiettivi per cui si utilizzano, bisogna fare attenzione ai primi come ai secondi. Quesiti enormi, che richiedono ben più di due giorni intensi, che continuano a presentarsi e a incalzarci al ritmo delle tragedie e della nostra inadeguatezza di fronte ad esse. Proprio per questo, che Peppe ci rintuzzi su queste cose, ci fa piacere; che si coltivi uno scambio che, tra gli odori di fine del mondo, ci inviti a non volare alla “bassezza dei tempi” non ci sembra sia una pratica scollegata rispetto agli altri doveri della vita e della lotta. Accogliamo quindi, e pure con un inchino, la critica all’uso accademico di Marx, al trascorrere dei concetti in parole d’ordine e al loro impastoiarsi nel blablabla che nelle università bisogna biascicare per inserirsi in questa o quella cordata, e farci carriera; e poi, una volta accreditati come bravi “marxisti” (o, quanto a ciò, come bravi “foucaultiani”, “postcoloniali”, “transfemministi” ecc.), starsene comodi col culo sullo scranno e senza trovar niente da ridire quando il governo mette tutta la popolazione ai domiciliari. Vorremmo poi rassicurare Peppe: nessuno di noi accende candeline sotto l’immagine di san Karl. Ma stiamo divagando, il punto è questo: c’è ancora un’utilità nei concetti marxiani? Le categorie di “proletario”, “feticismo”, “accumulazione primitiva” hanno ancora un’utilità o sono irrimediabilmente ferrivecchi? Questa prima domanda s’intreccia a una seconda questione, più ampia e cruciale: nella galleria degli orrori che è la storia dell’umanità per come noi la conosciamo, il capitalismo ha una sua originalità, porta un aggravamento specifico, oppure è solo una delle molte forme possibili di dominio? Che, per l’appunto, è la questione che Peppe pone nel suo scritto e che, di fatto, tutto l’anarchismo pone non solo ai marxisti (poverelli…) ma a chiunque trovi che lo stato del mondo è insopportabile. Non siamo affatto sicuri della risposta; sempre ammesso che una risposta ci sia e che non sia questione, soprattutto, di sensibilità. Qui proviamo ad argomentare a partire da un sospetto, dall’impressione persistente che, nell’infinita sequenza di modi sempre nuovi per opprimere gli umani, gli ultimi secoli abbiano una loro tragica specificità. Non parliamo solo del capitalismo in quanto sistema economico, ma più in generale della modernità, ovvero del mondo umano che ha preso forma nel convergere di colonialismo, capitalismo, formazione degli stati-nazione, industrialismo, sequestro accademico-statale della conoscenza e della cura. Insomma, la merda in cui nuotiamo. Non che l’impero romano, quello cinese o quello azteco ci facciano simpatia; così come non ce ne fanno le forme antiche e, per così dire, “pre-statali” di sfruttamento dell’uno sull’altro. Detto ciò, però, tocca fare i conti col fatto che il susseguirsi, senza quasi por tempo in mezzo, di colonialismo, totalitarismo, sradicamento di ogni forma di vita altra, tratta atlantica, genocidi, campi di sterminio, controllo integrale delle popolazioni, disastro ambientale e attacco sistematico al vivente (v. la storia del nucleare), uniti a forme straordinariamente efficaci di indottrinamento e cecità indotta, è un fenomeno tutto moderno. O se non altro, è moderna la dimensione industriale della distruzione; ma sospettiamo che, a monte, ci sia un baco specifico: l’idea tutta moderna di essere il solo sistema di vita possibile e degno, la squalificazione di principio, e quindi la distruzione, di ogni forma altra di organizzazione. Mentre altre forme di dominio, forse per mancanza di mezzi tecnici adeguati, lasciavano spazi liberi, la modernità coincide con l’esproprio, il sequestro e la messa a servizio di tutto: dell’ontologia con la partizione natura/cultura (e tutte le altre ontologie possibili sono solo storielle), della verità con la scienza (e ogni altra forma di conoscenza è superstizione), delle forme affettive con la distruzione delle regolazioni locali, del bene con il suo appiattimento nel progresso, della socialità con l’urbanistica di controllo, gli schermi, gli intruppamenti per classe d’età, delle forme affettive con la famiglia mononucleare e così via, all’infinito. Lo stesso infinito che il capitalismo assume come punto di fuga del plusvalore. Nel disastro globale che la modernità riversa sul mondo, la piega economicista – e quindi la rilevanza teorica del capitalismo – è un pezzo fondamentale perché si salda, molto presto, con il mito fondante della modernità: quello del progresso. Per questo ci pare che lo strumentario marxiano resti utile per analizzare uno snodo fondamentale del tempo in cui viviamo. (Poi, certo, nessuno che occupi la posizione di sfruttato vuole sentirsi chiamare “proletario”, ma a quel che ci consta neanche chi occupa la posizione di sfruttatore vuole sentirsi chiamare “borghese”). Così come ci sembra utile la descrizione marxiana dell’accumulazione primitiva come esproprio dei commons, che si può estendere da momento iniziale a condizione di possibilità del plusvalore; e quella del feticismo della merce come vera e propria cattura stregonesca dell’anima delle vittime, lungamente esplorata dalla critica radicale anni Settanta. Semmai, ma questo è stata più opera degli scolastici della religione marxista che di Marx stesso, la visione escatologica del processo storico (una dinamica rigidamente di fase: comunismo primitivo  antichità schiavistica  feudalesimo  capitalismo  socialismo  comunismo) ha creato diversi mostriciattoli giustamente citati da Peppe, ad esempio l’industrialismo e, come sottolineato dall’erratico Benjamin, la fiducia degli sfruttati nella corrente della Storia. E avremmo molto da ridire sul tatticismo etico, sulla prima Internazionale, sulla tecnolatria e su alcune ambiguità come il general intellect e l’atteggiamento verso lo Stato. In generale, quindi, l’uso che ci capita di fare dell’opera di Marx è lo stesso che ne fece Cafiero (o che ne fecero Benjamin, Anders, Cesarano, Coppo, Vaneigem, Camatte e altre decine di pensatori critici più o meno radicali): quella di un pensiero da discernere. E questo può significare, di volta in volta, litigarci, romperlo, prenderne un pezzo, stipulare un armistizio. La stessa cosa faremmo/facciamo col pensiero di Stirner, Bakunin, Malatesta, Goldman, Bonanno ecc. Un uso insomma non religioso: proprio perché la religiosità non è una caratteristica della cosa venerata ma del rapporto che si instaura con essa. E sì, è ironico, che proprio il pensiero di chi ha criticato il feticismo sia stato feticizzato, ma la cosa non ci riguarda personalmente (dice invece qualcosa dell’ambivalenza dell’umano coi simboli che produce). Invece, sulla specificità dello sguardo anarchico rispetto a quello marxista, pensiamo di convenire con Peppe, sta nella precedenza del momento militare rispetto a quello economico: prima l’esercito espropriatore delle autonomie, poi la fabbrica espropriatrice di vita. Eppure, sia lo sguardo anarchico che quello marxista classicamente intesi hanno bisogno di altri strumenti per sondare il lato cultuale dell’ordine costituito, il sequestro e l’organizzazione dei desideri, la colonizzazione della corporeità e dell’immaginario. Una nota sentimentale. La posizione di Peppe porta un timbro un poco malinconico, che si potrebbe tradurre pressappoco così: “il dominio c’è sempre stato, anche fra i cacciatori-raccoglitori, e ha sempre fatto schifo; inutile perder tempo con quello capitalista, che è solo l’ultimo rampollo”. Ora, qui davvero parliamo di strutture di sentimento, quelle che muovono nel più profondo e sulle quali forse c’è poco da discutere. Ma è possibile che questa visione sconsolata sia, anch’essa, effetto di stregoneria; che, cioè, sia indotta dallo studio della storia scritta dai vincitori, quella secondo cui bisogna per forza scegliere fra libertà e ricchezza, fra autonomia e sicurezza, fra controllo e barbarie. Ma se non fosse così? Sulla base di un insieme cospicuo di dati archeologici, L’alba di tutto di Graeber e Wengrow delinea una preistoria molto diversa da quella descritta nei manuali scolastici: un tempo, innanzitutto, di sperimentazioni sociali; dove l’organizzazione complessa (“cittadina”) era compatibile con l’autonomia e l’autogestione; dove i modi di vita non si disponevano secondo una progressione univoca (cacciatori-raccoglitori, poi pastori e agricoltori, infine industriali), ma c’era un andare e venire fra forme di organizzazione; dove si poteva vivere di caccia e raccolta in estate, ma si stava tutti insieme in villaggio in inverno; e dove non si riscontra alcun determinismo socio-economico (la struttura sociale dei cacciatori-raccoglitori non è necessariamente egualitaria, quella degli agricoltori non è necessariamente gerarchica e così via). Se così fosse, allora anche la domanda terribile, antropologica, sull’origine del dominio prenderebbe un’altra inflessione: c’è dominio non perché gli umani sono intrinsecamente bacati, geneticamente propensi al peggio o cattivi per natura, ma perché alcuni gruppi decidono di agire il dominio, mentre altri fanno di tutto per evitare che si produca. Allo stesso modo – e come notano anche gli autori – se fosse così, la specificità del dominio moderno non risiederebbe tanto nella sua presa e nella sua estensione materiale, quanto nella sua capacità di annichilire l’immaginazione, di rendere impensabile il divenire politico collettivo. Finiamo come abbiamo cominciato, con alcune considerazione alla (sulla) deriva. Un’impressione s’insinua: che il porsi tutte queste domande sul linguaggio analitico, sulla definizione, sulle lenti per guardare fuori ci inscriva, in qualche modo, ancora nella storia d’Occidente, della sua mania nominatrice come riflesso di una volontà ordinante che ci faccia sentire puri e puliti con una semplice operazione del pensiero. Certo, che ci piaccia o no, siamo occidentali, almeno fino a quando non avremo realizzato, insieme ad altri barbari, il destino d’Occidente1… di tramontare. Tutto il linguaggio dell’analisi del vecchio mondo fa parte del tramonto, le sue parole sono le pompe funebri che, traendo da vivere dalle cose morte, ne rimangono in qualche modo incaricate. Allora continueremo a usare questo linguaggio come qualcosa a cui non affezionarsi, perché è lì lì per cadere oltre le colonne d’Ercole del pensiero. Poi c’è il linguaggio delle cose vive, delle esperienze vere – quelle che rovesciano il tavolo delle passività e delle inimmaginabilità. Di fronte a questo linguaggio siamo come di fronte all’aurora. Se c’è infatti una differenza sensibile tra crepuscolo e aurora è questa: mentre durante il primo le cose si fanno definite, scolpite dalla vividezza della loro ombra, durante la seconda è tutto ancora molto indefinito, crogiolo di vita in potenza, tremore promettente. Di fronte all’aurora siamo tutti infanti, di fronte al crepuscolo ci sentiamo saggi perché pensiamo di sapere tutto della giornata trascorsa. La capacità che ci è richiesta è allora non quella di creare da subito un linguaggio delle cose nuove (momento ingovernabile che spetta al gioco degli umani con le loro sorgenti), ma di allenare gli occhi a distinguere albe e crepuscoli. Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto – a mezzo il cielo – sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza. Verso un dialogo sempre più stretto tra l’antico bambino e i morti – i ministri velati, onnipresenti della memoria. Capii bene come ascoltando i suoi nonni paterni – sbanditi e deposti dai conquistatori – il meticcio Garcilaso sapesse, una volta per tutte, che di se stesso avrebbe detto soltanto El Inca, sebbene fosse cristiano, cattolico ardente e figlio di un illustre Spagnolo. Comprese improvvisamente quei lamenti mille volte ascoltati, quei vecchi disperatamente nostalgici dei loro morti imperatori, terribili e soavi come il sole. Può non essere meno drammatico l’incontro con un ritratto di famiglia, l’uomo o la donna di cui mille volte udimmo parlare, il nonno che ha il nostro volto ma che – soltanto oggi è chiaro – ha veduto gli imperatori: porta nelle pupille fredde e tenere quello che noi cerchiamo dalla nascita, dentro e fuori. Qualcosa di molto simile alla terra, che (come un Indio si espresse) ci fu tolta sotto colore di aprirci il cielo. (Cristina Campo, In medio coeli) ConFra 1Ci riferiamo qui all’Occidente come concetto che si staglia sul panorama storico umano dopo avere eliminato le proprie specificità interne, e gli ostacoli ad un progetto di civilizzazione totalitario, non a tutte le spinte che qui hanno tentato di resistere a quel progetto.  
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