Tag - Approfondimenti

Miguel Amorós – Il luddismo al tramonto della civiltà industriale
A margine di un testo che ben fotografa la situazione attuale, e al suo interno la conclamata debolezza del discorso ecologista dominante – il tema della violenza merita una piccola nota. Se è senz’altro vero che il sistema può essere ben ostacolato tramite azioni di sabotaggio ampiamente accessibili (e questo va giustamente ricordato), il suggerimento di affidarsi solo a forme di «guerriglia incruenta» ci sa tanto di quella ragioneria rivoluzionaria che ha storicamente ristretto, e non ampliato, il senso del possibile (siamo davvero convinti che un Gaetano Bresci non avrebbe niente da aggiungere in questo presente?). Senza contare che le possibilità di intervento non sono distribuite ugualmente nel tempo e nello spazio. Mentre non sarebbe pensabile evitare il ricorso a «metodi estremi» a Gaza o in Cisgiordania, anche nel cuore dell’Occidente la progressiva crisi autodistruttiva dell’ordine capitalista e lo scivolamento verso la guerra globale potrebbero suggerire o imporre altre strade. Le uniche distinzioni che vanno ribadite, per noi, sono quelle tra giusto e legale, e tra violenza mirata e violenza indiscriminata. Scarica l’opuscolo in formato pdf: Amoros_luddismo_pdf   Il luddismo al tramonto della civiltà industriale di Miguel Amorós Oggi, è banale dire che la civiltà industriale non ha futuro e che sta cercando di prolungare il suo ultimo ciclo di prosperità, già concluso, sottomettendo la popolazione allo stile di vita industriale, attraverso allarmi catastrofici e fughe in avanti permesse dalle innovazioni digitali. La crescita ad ogni costo è entrata da tempo in una contraddizione irrisolvibile con il modo di produzione capitalistico e nessuno crede che la tecnologia possa fornire soluzioni durature. Il prevedibile esaurimento delle risorse, l’esplosione demografica, la perdita di fertilità dei suoli, l’inquinamento, l’urbanizzazione sfrenata, la deforestazione, la moltiplicazione dei rifiuti, la crisi energetica e il cambiamento climatico sono elementi che testimoniano il percorso discendente intrapreso dal capitalismo nella sua attuale fase “verde”. L’high tech aumenta la velocità in questa discesa, anziché rallentarla. La corsa all’accumulazione e lo stile di vita industriale da essa imposto, non si scontrano solo con le barriere economiche e sociali, ma anche con i limiti imposti dalla natura. Il Capitale sta già agendo come una forza geologica e sta sconvolgendo le condizioni che permettono la vita sulla Terra. Se il progressivo impoverimento e la precarizzazione della popolazione salariata,  nonché l’emarginazione e l’esclusione dei settori eccedenti, sono inevitabili in tale processo di accumulazione, le conseguenze dell’estrattivismo sfrenato a cui sono sottoposti i territori stanno offrendo un quadro ancora più desolante. Il metabolismo della natura nella società capitalista sta minacciando direttamente la sopravvivenza della specie umana. È per questo che le classi dominanti hanno cambiato l’ideologia del progresso in quella dello sviluppo “sostenibile” e, ultimamente, nel concetto di “antropocene” e nell’ideologia del collasso. Senza abbandonare la fede elitaria nella tecno-scienza,  il discorso del dominio è diventato pubblicamente ecologista anche se nei fatti la principale fonte di accumulazione della suddetta fase verde è il sovrasfruttamento del territorio. In un futuro di difficoltà e catastrofi, il capitalismo sarà ecologista o non ci sarà. Dal punto di vista dei dirigenti, l’ecologia è quella scienza che studia il camuffamento dello sfruttamento della natura a fini economici, qualcosa di simile all’ambientalismo. Da qui nascono i dipartimenti ambientali delle grandi aziende e le “politiche territoriali” da attuare da parte dello Stato e delle amministrazioni regionali. Queste, sono orientate alla gestione delle conseguenze dell’estrattivismo e di quella che chiamano “transizione energetica”, cioè, principalmente, la realizzazione massiccia di megaprogetti di rinnovabili industriali volti a garantire l’elevato consumo energetico caratteristico di questa civiltà. Scienziati specializzati e consulenti degli ecosistemi svolgono un ruolo centrale in queste politiche. Il loro ruolo è quello di creare le condizioni ottimali per il business estrattivista e di nascondere l’evidente squilibrio tra società e natura che esso crea. Il sistema ha bisogno di meccanismi che regolino i suoi eccessi senza danneggiare i beneficiari dei piani di sviluppo. Questo è anche il ruolo di un certo “movimento ecologista” che cerca di agire come gruppo di pressione, una sorta di sindacato dei consumatori di aria pulita, acqua pulita, cibo sano e spazi verdi. È un vantaggio per un capitalismo che, senza questa mediazione, potrebbe trovarsi ad affrontare la radicalizzazione delle proteste dei “cittadini”. Il compito dell’ecologismo integrato è quello di creare valvole di sicurezza, processi ed enti partecipativi di negoziato o semplicemente di consulenza, possibilmente retribuiti. La posizione del suddetto “movimento ecologista” oscilla tra l’identitarismo postmoderno e il cittadinismo di sinistra, senza trascurare le concezioni mistiche (culti naturalisti di ogni tipo), primitiviste (ritorno al Paleolitico, opposizione alla civiltà, culto del selvaggio) e anti-umaniste (animalismo, ecologia “profonda”). Nelle lotte contro gli effetti nocivi di una civiltà industriale che affonda nell’immondizia che produce, questo movimento non mira ad una presa di coscienza radicale, attraverso l’ecologia, delle vittime ribelli, ma piuttosto cerca un dialogo con le proprie istituzioni in cambio della disattivazione del conflitto territoriale. Cerca di convincere i dirigenti a gestire in modo meno aggressivo l’ambiente, non cerca di combatterli. Dà per scontata la rassegnazione degli individui di fronte a quei problemi che li superano e, lungi dal cercare di invertire la situazione, la rafforza ricorrendo a una paura infantilizzante che porta ad affidarsi a un’autorità esterna presumibilmente risolutiva. L’ideologia del collasso è questo. Così come il riformismo della decrescita. Ma la crisi ecologica – cioè lo sfasamento tra ciò che la spiritualità chiama “Uomo” e “Natura” – è anche economica e sociale. Dipende dal modo industriale di produrre, coltivare, commerciare e consumare, dallo stile di vita che impone. Non si può risolvere con leggi restrittive, sovrattasse turistiche, catture di CO2, incentivi all’elettrificazione o misure punitive da parte di un ministero dell’ambiente. Il grande nemico è il capitale e lo Stato, il suo implacabile sviluppo, la sua fame di potere e profitti. Il nemico non è lo slancio predatorio di qualche imprenditore, la mancanza di senso civico o di controllo della natalità nei Paesi terzi, la delocalizzazione della produzione o la destra politica. Interpretare la crisi come il risultato della fatalità, di una cattiva pianificazione, dell’abuso, dell’eccesso di commerciabilità o dell’incoscienza di alcuni affaristi, costringe a cercare la soluzione tra gli stessi responsabili: il mercato capitalista e le sue varie protezioni governative. Il problema è un problema di classe. La crisi non colpirà mai tutti nella stessa proporzione: per quanto il prezzo dell’energia, dell’acqua, del cibo, ecc. aumenti, ci sarà sempre chi potrà permetterselo. Dopo queste riflessioni sarà chiaro che non siamo degli ecologisti. Siamo individui consapevoli della crisi ecologico-sociale e pensiamo che il suo superamento non passi per ministeri della transizione ecologica o per nuovi patti verdi, ma per l’abolizione del sistema gerarchico-tecno-produttivista. Per l’abolizione del mercato. Per un altro modello di produzione e di alimentazione. Pensiamo che solo così si potrà sviluppare una nuova sensibilità e razionalità che impedisca il ritorno dell’ordine industriale. Nella resistenza all’industrializzazione diamo priorità alla ricostruzione della comunità. Non cerchiamo di sovrapporre meccanicamente alla lotta di classe la teoria ecologica, né, tanto meno, di associare la questione ambientale alla questione sociale a favore di un riformismo politico “eco-socialista” o decrescentista, o di un qualsiasi partito verde ripieno di “realismo politico”. Siamo anti-sviluppisti radicali più che ecologisti. Anticapitalisti. Apprezziamo i contributi della critica ecologista come quelli sulla necessità di decentralizzare, di ricollegarsi alla natura, di limitare l’urbanizzazione, di proibire le sostanze inquinanti, di difendere la terra, di avere una sovranità alimentare,  tecniche conviviali, riciclaggio, ecc. ma non cerchiamo di inserire questi contributi nella politica convenzionale. Poiché, per tradurli in misure efficaci, sarebbe necessario un abbandono dell’ordine borghese e un cambiamento qualitativo sociale ed economico che potrebbe essere considerato rivoluzionario, cosa che non rientra nell’immaginario ecologista. Apprezziamo di più la visione biocentrica delle comunità indigene americane, i metodi tradizionali di coltivazione e gestione del territorio dei quasi estinti contadini, le idee di restituzione, restauro e giustizia sociale della rivolta luddista, l’istinto sabotatore e creativo del vecchio sindacalismo e, in breve, la volontà di autogoverno e autoemancipazione di popoli sottomessi come i Mapuche, i Berberi e i Curdi. Nel momento in cui l’idea di progresso viene screditata dal fatto stesso che il futuro sta diventando più temuto che desiderato, le società tradizionali si dimostrano per molti aspetti più avanzate dell’arcaica civiltà industriale contemporanea. Siamo una sorta di nuovi luddisti che si ribellano al futuro che l’economia globale e il mito della macchina ci riservano, con la particolarità di non avere più uno stile di vita da mantenere, una cultura da preservare, regole morali con cui governarci, un potere decisionale da difendere. La merce, e quindi il denaro, grazie alla tecnologia digitale, ha invaso in pochissimo tempo il mondo al punto da cambiare radicalmente il modo di vivere e di relazionarsi. Ha ridefinito il lavoro e l’ozio, riformulato i comportamenti e le norme, danneggiato seriamente l’ambiente e, infine, modificato ciò che intendiamo per realtà. Ha senso parlare di catastrofe. Le macchine digitali sono lo strumento di un ordine economico che viene da prima, ma rinnovato, contro il quale nessuna tradizione ci protegge. Le macchine digitali le hanno polverizzate tutte. Quindi non ci ribelliamo alle macchine che distruggono la comunità di lavoro e i suoi costumi, per il semplice motivo che oggi non esistono comunità e costumi di alcun tipo; ci ribelliamo invece alla società industriale informatizzata per poter costruire una comunità che si rafforzi grazie a nuovi costumi solidali. Vogliamo liberarci sia dalle vecchie schiavitù del lavoro sia di quelle nuove imposte dall’economia a causa della digitalizzazione. Vogliamo sottrarci alle relazioni basate sulla preponderanza del Capitale e dello Stato tecnologicamente assistiti, che schiavizzano le menti, degradano l’esistenza e distruggono il pianeta. Per questo neghiamo con determinazione la legittimità del beneficio privato al di sopra di tutto, della gerarchia burocratizzante e della centralizzazione politica, della ricerca del rendimento come valore supremo o del principio dell’innovazione tecnico-scientifica a prescindere dalle sue conseguenze. La crescita dell’economia non deve essere una priorità. Anzi, tutto il contrario. Vogliamo recuperare l’autonomia nella vita e nella intimità; desideriamo abbandonare non solo lo status di salariati, ma anche la condizione di consumatori schiavi dello spazio virtuale. Lottiamo contro questo salto qualitativo dell’industrializzazione e del controllo sociale che strumentalizza l’ecologia e usa i media digitali per perpetuare politiche sviluppiste conducendo la specie umana verso il baratro. Ci sentiamo oppressi dall’industrializzazione e cerchiamo modi per liberarcene. La prospettiva luddista mira al sabotaggio. Pensiamo ci sia da dichiarare uno stato di allarme più sociale che ecologico. Costruire comunità e bloccare il normale funzionamento del sistema pensiamo siano i due aspetti tra i quali deve districarsi la dialettica della resistenza. Non è necessario pronunciarci a favore della violenza, poiché la complessità stessa del sistema ne facilita l’ostruzione senza bisogno di ricorrere a metodi estremi. È l’occasione per una forma di guerriglia incruenta. L’informatica – internet – è stata la punta di diamante dell’ultima rivoluzione industriale. In meno di dieci anni ha sconvolto i saperi, l’insegnamento, le gerarchie, la finanza, i mercati, le culture, i posti di lavoro e la produzione, compresa quella dei rifiuti. Siamo così passati da un’economia produttivista ancorata all’industria nazionale a un’economia terziaria globalizzata dominata dal capitale finanziario, che cerca di superare le sue maggiori difficoltà facendo appello alla riconversione “verde” e digitale della società. Il risultato, come abbiamo già detto, è stato un’espansione incontenibile delle metropoli e delle infrastrutture, una crescita senza precedenti degli apparati coercitivi e del controllo sociale, il superamento dei limiti biofisici, la disuguaglianza diffusa, la fame in intere regioni e un’atomizzazione senza precedenti della popolazione che, priva di legami collettivi di qualsiasi tipo, è completamente in balìa di fattori economici, mediatici e amministrativi. Una popolazione i cui bisogni e desideri sono costantemente manipolati per alimentare il mercato e favorire la sottomissione agli imperativi del potere. Il nostro obiettivo finale è invertire la situazione, il che richiede lo smantellamento radicale del dominio capitalista. Si tratta di costruire un mondo sulle rovine di quello vecchio, basato sui valori comunitari e sulle pratiche di un tempo, come l’equità, la reciprocità, l’autonomia, l’onestà, il gioco, la festa, il rispetto della natura, il dibattito pubblico e la presa di decisioni collettive. Qualità ed esperienze arricchite da nuovi contributi e adattate alle condizioni attuali, cioè aggiornate. Non dobbiamo tornare al passato, ma andare verso un futuro diverso. Quello della civiltà industriale è impraticabile. Miguel Amorós Titolo originale: El ludismo en las postrimerías de la civilización industrial, pubbilcato su Diario16+ il 12 aprile 2024.
November 2, 2024 / il Rovescio
I morti distrubano meno dei morenti — Verso il presidio del 4 novembre al consolato ucraino di Milano
Riceviamo e diffondiamo un intervento letto in occasione dell’assemblea “Disertiamo la guerra” che si è riunita domenica scorsa al Cox18 con lo scopo di organizzare per il 4 novembre un presidio davanti al consolato ucraino di Milano a sostegno dei disertori. Dal 18 maggio il Consolato ucraino di Milano non fornisce più servizi, tra cui il rinnovo del passaporto, agli uomini in età tra i 18 e i 60 anni se non aggiornano i propri dati sul registro elettronico militare che serve ad arruolare. Contro la gabbia delle identità digitali usate per sorvegliarci, arruolarci o eliminarci, disertiamo la guerra, solidarietà ai disertori! In vista del 4 novembre, festa delle Forze Armate, che diventerà per noi la Giornata del Disertore, con un presidio davanti al Consolato Generale d’Ucraina a Milano. Seguiranno a breve aggiornamenti sul presidio. Pdf scaricabile: opuscolo_imortidisturbanomeno.pdf
October 23, 2024 / il Rovescio
Università, ovvero la cruna dell’ago della produzione del Reale
Riceviamo da un collettivo universitario e diffondiamo questo testo che riflette sulle mobilitazioni universitarie in solidarietà con la Palestina e giunge alle stesse conclusioni di un contributo che arrivava dai campus americani questa primavera: non c’è modo di porre fine al mondo-guerra senza porre fine anche all’istituzione-Università. Università, ovvero la cruna dell’ago della produzione del Reale Il Reale non è un dato di fatto oggettivo, intoccabile e immutabile, ma è la sintesi puntuale e specifica di un insieme di forze, tensioni ed energie che tendono all’unificazione della realtà sotto un Reale dominante, visto come dato indiscutibile ed incontrovertibile. Il Reale in quanto “dato unificante” è perciò il risultato dell’unificazione della realtà sotto un unico mondo; questo mondo unito e dominante, per darsi effettivamente, ha bisogno di un meccanismo di produzione. Per nostra fortuna, questo meccanismo di produzione subisce forti scosse e fratture, che sta a noi intercettare, abitare ed allargare. Dopo il 7 ottobre 2023, una vasta e diffusa mobilitazione per la causa palestinese ha preso forma con diverse espressioni. Pensiamo che per andare avanti sia necessario concentrarci sugli obiettivi prodotti da questa mobilitazione. Se si vuole proseguire in maniera coerente, è giusto fermarsi e guardarsi indietro, percepire cosa questo momento storico sta producendo, che fratture si stanno aprendo e quali invece si chiudono inesorabilmente, per capire dove concentrare le proprie attenzioni ed energie. Un breve esempio: questa mobilitazione ha avuto la capacità di far emergere dei bersagli fondamentali per inceppare la macchina di guerra che permette il genocidio in corso e la diffusione della guerra, ovvero i siti di produzione bellica nei nostri territori e la logistica che permette alle armi di circolare, producendo così diverse forme di contestazione, dalle azioni dirette, ai blocchi di porti e stazioni, a cortei contro fabbriche di morte. Queste contestazioni nascono da questo momento di solidarietà al popolo palestinese, e devono essere tenute vive per alimentare una diffusa indisponibilità alla guerra. In breve, gli obiettivi nascono da dentro il momento, indicando i campi di battaglia più fertili su cui impegnarsi. Anche sul piano della mobilitazione universitaria secondo noi il ragionamento da sperimentare è lo stesso: è il momento di contestazione che produce gli obiettivi su cui concentrarsi, e non qualcosa di esterno ad esso. Pensiamo che tutte le ricerche, le discussioni, gli approfondimenti nati all’interno di questa mobilitazione sul rapporto Università-Guerra abbiano avuto il merito di inceppare un meccanismo di produzione della realtà per quanto concerne l’Università e il suo ruolo sociale. Questo implica un lavoro di ricerca di nuovi paradigmi per capire quanto sta succedendo, scartando ed oltrepassando quei paradigmi che questa mobilitazione ha dimostrato obsoleti. Con questo non intendiamo che è stata svelata la “vera natura” dell’istituzione universitaria, che è sempre stata così e sempre lo sarà: non siamo né storici né veggenti. Intendiamo però che, per rimanere fedeli a quanto questa mobilitazione sta rendendo evidente, ovvero la totale impossibilità di salvare l’istituzione universitaria in quanto parte integrante della macchina bellica, serva riconoscere le caratteristiche centrali di questa istituzione adesso, per percepire le fratture che si aprono nella produzione del Reale per tentare un agire destituente. Il primo paradigma che caratterizza la “critica” all’università, e che questa mobilitazione ha dimostrato essere obsoleto, è quello che dipinge l’Università come un luogo neutrale di produzione di “saperi critici”, che per errori di percorso fa accordi con il mondo militare, le aziende, i privati etc. Questo paradigma è sintomo di una visione che separa le istituzioni “buone”, la cui traiettoria deve essere corretta dalle spinte “dal basso”, come per l’appunto l’Università, caratterizzate da una possibile gestione più democratica del Potere, e le istituzioni “cattive” per le quali invece non c’è nulla da fare; viene fuori da una tradizione di pensiero strettamente liberale e riformista, volta alla democratizzazione del Potere e non alla sua eliminazione. Questa idea dipinge l’istituzione universitaria come una forza positiva dentro la società, e dipinge “noi” come i suoi protettori: l’università va protetta dai suoi possibili errori di percorso. Così facendo, questa debole critica non si sofferma mai su cos’è l’università, sul suo ruolo nella società di guerra e nella ricerca tecnologica. Piuttosto ci si concentra su come dovrebbe essere meglio gestita, senza mettere in dubbio le forme di potere ed oppressione che cristallizza al suo interno, ma semplicemente “criticando” determinati accordi o rapporti che, una volta eliminati, permettono all’università di “ritornare” al suo ruolo di produzione e riproduzione di saperi critici. Pensiamo che questo momento storico e la mobilitazione solidale alla causa palestinese abbiano dimostrato che l’università non sia da salvare o recuperare dalla guerra, ma anzi che essa è un tassello fondamentale per la guerra. Il secondo paradigma spesso utilizzato nella critica all’università, quello dell’università- azienda, è sicuramente più preciso e puntuale rispetto al primo sul piano della gestione dell’Università basata sul profitto, ma limitante per quanto riguarda il ruolo dell’istituzione nella società ora. Questo paradigma è molto utile per capire le implicazioni che questa gestione aziendale ha sulla vita di chi studia e sulla produzione e riproduzione del sapere per gli interessi di mercato. Ma è comunque limitante perché mantiene il proprio focus di analisi su come viene gestita l’Università e non su ciò che essa è. Questo sguardo ignora il ruolo specifico e di primo piano dell’università adesso: considerandola un’azienda tra le altre, ne sminuisce la funzione nella produzione del Reale. Si tende così a deresponsabilizzare l’università, perdendo la centralità del suo ruolo sociale nella guerra di questo momento storico. Da questa mobilitazione è emersa la necessità di distogliere l’attenzione da come l’università dovrebbe essere gestita, “dal basso” o fuori dalle logiche di profitto, cose impossibili vista la totale immanenza del Capitale in ogni ambito della vita. Questo momento ha fratturato i meccanismi che producono l’università come un’istituzione “buona” da salvare da errori di percorso o “dal capitalismo”. Aperta questa frattura, dobbiamo abitarla, concentrandoci su cosa sia l’università ora, abbandonando i vecchi paradigmi di “critica” per andare oltre. Quello che è stato messo in luce dalle svariate ricerche ed approfondimenti sul tema Università-Guerra prodotte durante questo “momento per la Palestina” è prima di tutto il ruolo che ricopre ora l’università nella società. L’onnipresenza di aziende belliche e tecnologiche all’interno dell’università serve alle prime per ricevere legittimità sociale, culturale e ideologica, oltre che un vero e proprio supporto tecnico e materiale, che l’università dà in quanto “istituzione neutra-buona”. L’università funge da cruna dell’ago all’interno della quale tutto passa, dalla ricerca bellica a quella tecnologica, a quella scientifica per essere legittimato socialmente e quindi potersi produrre e riprodurre più agilmente. Questo è possibile precisamente grazie all’idea liberale e democratica dell’università come istituzione buona: qualunque azienda o privato che collabora con essa, che produca algoritmi di controllo o strumenti di morte, o anche parti di ricerca che poi vanno a completare la costruzione di armi, è sempre legittimato proprio grazie a questo ruolo “buono” dell’università nella società. Il paradigma dell’università come cruna dell’ago per la produzione del Reale serve per concentrare l’attenzione sul ruolo di legittimazione culturale e ideologica nella produzione di guerra, controllo e dominio, che ha l’università adesso visto che è uno degli strumenti che compongono la produzione del Reale in quanto macchina di dominio. In questo periodo storico, mettere l’accento sulla guerra è necessario: questa è la forma di governo dell’attualità, che definisce la società tutta, e a cui tutte le istituzioni devono tendere. L’università ora è parte integrante e centrale del movimento generale verso la guerra, sia da un punto di vista ideologico (si pensi al caso di Med-Or) che materiale, visto il numero di ricerche che alimentano la guerra. Proprio come nel modello israeliano, per cui le università hanno una posizione in prima fila per la produzione tecnologica della guerra, così anche l’Occidente segue sempre più quella strada: le università non sono esenti. Questo ragionamento si basa sulle ricerche fatte tra università e varie aziende. I rapporti tra università e aziende non sono solo di tipo economico, o infrastrutturale, ma anche culturale e sociale. Questo ci porta a dire che le ricerche, le più disparate tra di loro, devono passare inequivocabilmente attraverso l’università: da qui la figura retorica della cruna dell’ago. L’università fornisce alle aziende e privati la legittimità sociale che permette loro di spendersi il meglio possibile, non solo sul mercato finanziario o bellico, ma anche su quello ideologico, inteso come insieme di paradigmi che producono il Reale. Questo ci porta a non essere d’accordo con il paradigma dell’università-azienda: metterla allo stesso piano di tutte le altre aziende farebbe perdere questa sua specificità singolare. Questa mobilitazione invece è riuscita ad inchiodare l’istituzione universitaria al suo ruolo sociale di primo piano nella produzione del Reale, perché è l’unica capace di dare un contributo tecnico, materiale, infrastrutturale, ideologico, sociale e culturale alla produzione di guerra. Cosa ci lascia questo discorso? Nulla, come sempre. La speranza è di dotarsi di nuovi strumenti di analisi prodotti dalla mobilitazione per la Palestina, per mantenere un piano di coerenza. Ovviamente, questa analisi non è esaustiva per tutto questo anno di mobilitazione, non ci siamo concentrati sulla composizione di classe che si è mobilitata, su nuove pratiche di conflittualità, e tante altre questioni messe in moto. Siamo partiti dalla questione universitaria per la centralità che ha avuto nel permettere il superamento di vecchi paradigmi, e quindi ora è il momento di cercarne di nuovi per percepire quanto ci succede attorno. Delle strade sono state giustamente percorse, degli approcci sono stati provati, ma è il momento che decreta le fratture da abitare per allargarle. Quello che questa mobilitazione dimostra è che non c’è nulla da migliorare o da co-gestire, l’università è un tassello fondamentale per la produzione del mondo-guerra, non sta a noi salvarla da questo suo ruolo. Non pensiamo ci sia qualcosa di preciso da fare, se non provare ad ascoltare e percepire quello che un momento produce, facendoci attraversare e permeare da esso. C’è sicuramente da disertare tante strade, tanti spazi, tanti discorsi: c’è semplicemente un intero mondo da destituire, la sfida è capire come.
October 4, 2024 / il Rovescio
Opuscolo su Miguel – Indigeno anarchico latitante
Miguel Peralta Betanzos è un indigeno della sierra mazateca (Messico), anarchico e latitante dal 2022. È stato condannato a 50 anni di carcere per un “delitto fabbricato”, cioè un omicidio non commesso. Per “fabbricazione di delitti” si intende una pratica di repressione usata in Messico, dove, in assenza della possibilità di colpire per reati puramente politici, vengono create prove per reati comuni non commessi. Di fatto, Miguel Peralta è perseguitato da anni per la sua partecipazione all’assemblea comunitaria indigena del suo municipio. In Messico, due entità organizzano i territori indigeni a livello locale, il municipio e il municipio indigeno. Il municipio è un’entità statale, quello che in italiano chiameremmo il Comune. I municipi indigeni sono invece zone con forme di organizzazione autonome più antiche, possono includere regioni geografiche distinte dai municipi statali e le decisioni vengono prese attraverso l’assemblea comunitaria. Nel caso della comunità di Miguel, Eloxochitlán de Flores Magón, che prende il nome dall’anarchico che vi nacque nel 1874, quando è iniziata la repressione alla sua comuntà l’assemblea comunitaria era in disputa con il municipio, governato da famiglie di potere con interessi estrattivi nel territorio. Quest’opuscolo, pubblicato a inizio 2024 in Messico, è una raccolta di articoli e lettere dalla latitanza (i testi 4 e 8 raccontano la vicenda). La traduzione arriva come contributo alla campagna in solidarietà a Miguel Peralta e sperando che diffondere questa storia anche qui possa essere utile alle riflessioni sul senso e le pratiche dell’internazionalismo. Si tratta del terzo opuscolo sulla vicenda repressiva, i due precedenti si intitolano “Bullicios de la montaña – cárcel, acompañamiento y lucha” e “Lucha comunitaria y represión política en Eloxochitlán de Flores Magon” .   qui trovate l’opuscolo in pdf:  MiguelPeralta_OaxacaMessico
September 30, 2024 / il Rovescio
“Dal fronte umano” n. 4 – Andate a farvi cablare!
Segnaliamo da terraeliberta.noblogs.org: “Dal fronte umano” n. 4 – Andate a farvi cablare! Qui il pdf: fronte_4 Un mondo cablato – wired – è un mondo di guerra e di genocidi, di campagne senza contadini e di scuole digitalizzate, di saccheggio minerario e di piante ingegnerizzate, di città disseminate di telecamere e di varchi elettronici. Noi puntiamo sulla variante umana. Contro l’artificializzazione della vita, la terra. Contro la schiavitù connessa, la libertà. Verso la guerra robotica totale. Un nuovo progetto Manhattan «Industrialismo» indica l’alleanza storica, a partire dal Rinascimento, tra lo Stato e il capitale, tra Cesare e Mammona. La potenza militare di Cesare dipende dalla prosperità di Mammona per il finanziamento, attraverso le tasse e l’indebitamento, dei suoi soldati, delle sue spie, dei suoi ricercatori, delle sue armi, della sua burocrazia e della sua logistica. E Mammona è tanto più prospera in quanto la potenza militare di Cesare le permette di estendere e rendere sicuro il suo campo d’azione. L’espansione dell’industrialismo genera due tipi di conflitti armati. Il primo è la guerra asimmetrica permanente, che garantisce il dominio dei centri industriali sulle nazioni poco industrializzate, nonostante conflitti contro-insurrezionali incessanti. Oggi, le macchine da guerra neocoloniali non mirano più, in generale, all’occupazione politica, ma semplicemente all’estrazione e al saccheggio delle risorse che alimentano l’alleanza tra Cesare e Mammona. Il secondo tipo è la guerra egemonica (o imperiale), nel corso della quale le superpotenze industriali rivaleggiano tra loro per la supremazia planetaria. Gli antagonismi che ne risultano sono continui, larvati e indiretti, ma provocano sporadicamente delle conflagrazioni mondiali, la cui ampiezza assassina è proporzionale alla potenza tecnologica dispiegata. Di ritorno, questi conflitti suscitano dei progressi tecnologici folgoranti. Questa scalata agli estremi si chiama oggi «corsa tecnologica». Come auspicava di recente la sottosegretaria americana alla Difesa per la Ricerca e l’Ingegneria: Non possiamo permetterci un livellamento del vantaggio tecnologico. È imperativo che il ministero incoraggi la ricerca nelle tecnologie emergenti al fine di prevenire le sorprese tecnologiche. Dobbiamo sfruttare le tecnologie commerciali di punta i cui rapidi progressi possono accrescere le nostre capacità militari. Nella maggior parte dei casi, tocca ai poteri pubblici (Cesare) farsi carico dell’elaborazione e del lancio di nuove tecnologie. Poiché gli inizi sono troppo incerti e troppo costosi per essere immediatamente redditizi. E poiché queste tecnologie possono dotare il Paese in cui appaiono di un vantaggio militare, prima di servire all’accumulazione di ricchezze private (Mammona). Il caso ideal-tipico è la creazione dell’industria nucleare attraverso il progetto Manhattan (fine 1942-agosto 1945) negli Stati Uniti. Vale a dire l’istituzione di un complesso scientifico-militar-industriale che ha mobilitato 600.000 persone in 32 siti, segreto sia nella realizzazione sia nelle conseguenze. Il suo obiettivo iniziale era la messa a punto accelerata dell’Arma assoluta, dalle ripercussioni ecologiche planetarie. Questo progetto segnò l’inizio della perdizione morale degli scienziati nel negazionismo nucleare che, in seguito, è diventato la norma, malgrado i 75 milioni di vittime legati ai primi bombardamenti, ai test, alle catastrofi e agli inquinamenti radioattivi. Tra il 1962 e il 1986, il Pentagono si è profuso nella ricerca in ingegneria informatica attraverso i programmi dell’Information Processing Techniques Office, incentrato principalmente sulla ripartizione del tempo, l’infografia, le reti (Arpanet) e l’intelligenza artificiale. Dal 1983 al 1993, la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) ha speso un miliardo di dollari supplementari in ricerche informatiche, nel quadro della Strategie Computing Initiative, concepito per l’ideazione e la fabbricazione di microprocessori, l’architettura informatica e i software di intelligenza artificiale. Questa informatica militare ha permesso dei passi avanti nei sistemi esperti, nella visione tramite computer, nel riconoscimento e nella generazione della parola. Negli anni Novanta, con una buona dose d’aiuti governativi, la generalizzazione dei micro-computer è stata l’occasione della transizione verso le applicazioni mercantili ben presto monopolizzate dai Gafam: Google (Alphabet), Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, così come dagli habitués dei finanziamenti militari (IBM, Intel ecc.). Tale generalizzazione ha aperto la strada all’estensione e alla riorganizzazione neoliberale dei mercati finanziari, affrancatisi dalle regolazioni pubbliche del periodo 1935-1975. Tanto più grazie all’high-frequency trading, che permette l’esecuzione a velocità sovrumana (nell’ordine dei decimi di millisecondo) delle transazioni finanziarie da parte degli algoritmi «intelligenti». L’accelerazione continua delle operazioni militari «intelligenti», la simultaneità del funzionamento dei sistemi autonomi e dell’ipersonica determinano una crisi del controllo e del comando: come governare macchine dalla velocità sovrumana, se non automatizzando a sua volta la direzione delle operazioni? È l’oggetto dei progetti di intelligenza artificiale degli eserciti americano e cinese: il JACD2 americano (Joint All-Domain Command Control) contro il MDPW cinese (Multi-Domain Precision Warfare) – oppure il Nation Defense Management Center russo. In tutti i casi, ritroviamo la stessa strategia di organizzazione del progetto Manhattan, vale a dire un complesso scientifico-militar-industriale incaricato di apprestare quanto prima il comando «intelligente» dell’esercito. Negli USA, la National Security Commission on Artificial Intelligence, istituita dal Congresso americano nel maggio 2018, ha integrato tra i suoi membri i rappresentanti d’Amazon Web Services, d’Oracle, di Microsoft Researche Lab e di Google Cloud. La corsa mondiale al profitto economico e alla potenza militare vieta agli Stati industriali di farla finita con la guerra e con i preparativi tecnologici alla guerra. Il sistema-mondo attuale è segnato dall’indebolimento relativo delle nazioni ancora egemoniche e l’emergere dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Di qui al 2030, la Cina, prima potenza produttrice, sarà responsabile da sola dell’aumento del 30% della domanda mondiale di energia, nel momento stesso in cui l’approvvigionamento delle risorse fossili sta declinando, senza sostituti di massa (che si tratti di idrocarburi non convenzionali o di illusioni rinnovabili). La potenza miltare-economica di uno Stato è proporzionale alla quantità d’energia di cui dispone per alimentare la propria macchina industriale. Fatto da cui deriva che la futura stagnazione delle risorse energetiche implica quella della quantità d’energia da ripartire tra gli Stati. Ne consegue che l’intelligenza artificiale apparirà ben presto come la causa e insieme l’effetto della preparazione precipitosa alla guerra robotica, chiamata «iperguerra» dagli americani. La sua materialità contribuirà alla moltiplicazione e all’intensificazione dei conflitti per l’accesso alle riserve critiche delle materie prime strategiche (petrolio, gas naturale, minerali, acqua). Al contempo, le sue performance puntano direttamente a ottimizzare l’efficacia omicida delle armi impiegate in tali conflitti. (brani tratti da Jacques Luzi, Ce que l’intelligenze artificielle ne peut pas faire, La Lenteur, 2024) Nelle viscere aperte della Terra La fornitura di materie prime cosiddette strategiche nella democratica Europa è garantita dall’estrazione in regioni del mondo nelle quali lo sfruttamento e l’immiserimento delle popolazioni passano in secondo piano rispetto ai profitti ricavati. Devastazione e inquinamento ambientale, espulsioni delle popolazioni da interi villaggi, malattie croniche per chi rimane e militarizzazione sono scenari molto comuni nei luoghi dove l’estrattivismo minerario si è imposto. Luoghi che comprendono l’America Latina, la Repubblica Democratica del Congo per quanto riguarda la produzione del 60% del cobalto mondiale usato per le batterie elettriche, ma soprattutto la Cina dove il capitalismo digitale convive a stretto contatto con il suo risvolto più materiale. Se lo scontro con la Federazione Russa non è che un’anteprima di quello più decisivo contro la Cina, è proprio da questa che il segretario generale della NATO Stoltenberg mette in guardia per quanto riguarda la “dipendenza da beni come i metalli rari”. E in Europa la questione è presa più che mai sul serio in quanto l’importazione delle terre rare dalla Cina riguarda il 98% del totale. Da un lato il capitalismo minerario di tutti i continenti ha continuato a sviluppare conoscenze e capacità predatorie, intrecciando il saccheggio dei combustibili fossili a quello delle terre rare dalle viscere della terra, dall’altra l’Europa da qualche decennio ha preferito promuovere l’ecocidio al di fuori del proprio cortile, tenendo ben nascosti i risvolti materiali e irreversibili arrecati all’ambiente naturale. Basti pensare che per estrarre un chilo di vanadio vanno purificate 8,5 tonnellate di roccia e utilizzati acidi e processi chimico-fisici non compatibili con la vita sulla Terra. I nuovi scenari geo-politici, con l’annesso sviluppo dell’industria bellica e digitale, esigono il ritorno dell’estrazione anche nei territori europei. E così, con il Critical Raw Materials Act del marzo 2024, il Vecchio Continente si prefigge di “garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime essenziali per l’industria dell’Unione” puntando ad estrarre almeno il 10 % delle materie critiche consumate in Europa da miniere europee. Di conseguenza anche il Senato italiano ha approvato definitivamente l’8 agosto la legge n. 115, che contiene le “disposizioni urgenti sulle materie prime critiche di interesse strategico”, aprendo la strada a nuove miniere attraverso le semplificazioni burocratiche che portano a non più di 18 mesi il tempo per le concessioni di nuovi siti e l’istituzione di un comitato tecnico che redigerà un piano nazionale, al di sopra di ogni scelta territoriale. Su indicazione dell’Europa vengono individuate 34 materie prime “critiche” di cui 16 definite “strategiche”. All’interno di queste compaiono metalli rari e non, rispetto alle quali l’ISPRA ha il compito di mappare e caratterizzare le aree più promettenti per le aziende minerarie. Ad oggi sono 3.016 i siti minerari censiti già sfruttati in passato, ma ora si tratta di aggiornare queste mappe alla luce dei nuovi materiali che storicamente non venivano estratti e ai valori di mercato odierni. I minerali comprendono il cobalto in Piemonte e Sardegna, il titanio in Liguria, il litio nei fluidi geotermici tosco-laziali-campani (con già 7 permessi di ricerca rilasciati dalla Regione Lazio) e quantitativi variabili di terre rare lungo tutto l’arco alpino. In particolare in Trentino-Sudtirolo i giacimenti riguardano la barite, il manganese, la fluorite, il rame e il tungsteno. Di fatto elementi che la Commissione Europea ritiene “rilevanti per le tecnologie che supportano la duplice transizione verde e digitale e gli obiettivi della difesa e dell’aerospazio”. La presenza di ricchi giacimenti minerari in piccole superfici montane porterebbe ad un aggravamento del già fragile e mercificato ambiente alpino. Ricordiamo che questi progetti sono pensati a meno di quarant’anni dalla strage di Stava (Tesero) dove il profitto ha prevalso sulla vita di 268 persone, affogate dall’intreccio di interessi e responsabilità della Provincia Autonoma di Trento e delle ditte estrattive. Tra i rilievi geologici e l’ingordigia dei proprietari delle macchine escavatrici, questo è il tempo di affiancarsi a quell’umanità che da Nord a Sud del pianeta si è messa di traverso al progresso del disastro. A chi si trastulla con l’adagio che la tecnologia digitale non è né buona né cattiva in sé ma dipende dall’uso che se ne fa, ricordiamo che, si tratti di preparare il prossimo mondo tecno-totalitario o di mantenere lo stato permanente di guerra, questi materiali risultano imprescindibili e la devastazione ecologica garantita. L’Intelligenza Artificiale al lavoro È sotto gli occhi di tutti l’enorme cambiamento che sta sconvolgendo il cosiddetto mondo del lavoro con l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale. In tantissimi campi, dall’agricoltura all’insegnamento, dalle fabbriche ai ristoranti, dal giornalismo arrivando fino all’arte, molte mansioni vengono sostituite dalle macchine “sapienti”. Chi tiene le redini della produzione capitalistica ci dice che per essere competitivi sul mercato è necessario dotarci di questi orpelli digitali. La pubblicità è allettante: gli esseri umani potranno dedicarsi alle attività creative (una vita di soli hobby e rilassanti passatempi), affidandosi alle ben più efficienti macchine per tutti i mestieri logoranti e ripetitivi, liberandosi al contempo dal sempre possibile errore umano e dai conflitti sociali. Riposi e diritti non valgono per l’Intelligenza Artificiale. Essa ha solo bisogno di enormi quantità di energia (e di terre, e di acqua). Se un simile futuro tecnologico non appare certo roseo, l’argomento azzera-critiche consiste nel convincerci ch’esso è comunque inevitabile. Al punto che Elon Musk e gli altri guru del Nuovo Mondo propongono un accordo tra imprese private e Stati per la costituzione di un reddito per chiunque perda il lavoro a causa della sua sostituzione con delle macchine. Come se la ricchezza prodotta dalle nuove tecnologie venisse equamente distribuita fra tutti, e non finisse nelle mani di un’iper-classe di miliardari e tecnocrati. Se dai cieli transumani torniamo sulla Terra, tuttavia, c’imbattiamo in qualcosa che le illusioni tecno-progressiste ci impediscono di vedere. La promessa dell’affrancamento dal lavoro penoso grazie agli «schiavi meccanici» risale fino ad Aristotele, ed ha influenzato gran parte dei movimenti di emancipazione, ma è sempre stata disattesa. Una ricerca recente d’Oltralpe conclude che nel mondo reale del capitalismo tecnologizzato ogni francese sfrutta quotidianamente il lavoro di quattro schiavi in carne ed ossa. Le necessità quotidiane (mangiare, avere un riparo, stare al caldo, crescere i figli ecc.) non scompariranno per miracolo. O qualcuno le svolge al posto nostro (le macchine incorporano lavoro umano e risorse naturali, e quelle “intelligenti” più delle altre), oppure le ripartiamo in maniera socialmente più equa ed ecologicamente (davvero) sostenibile. Cioè proprio quello che l’economia morale di sussistenza ha fatto per secoli e che ancora oggi garantisce la sopravvivenza di diverse comunità locali in varie zone del Pianeta. Andate a dirlo a un bambino che lavora nelle miniere del Congo o a una donna in lotta contro i colossi delle biotecnologie in Bangladesh che il macchinario digitale è immateriale e green! Andate a dirlo a un operaio di Amazon che nel mondo connesso del just in time si ha più tempo a disposizione! Intanto un sacco di persone, se non hanno la fortuna di possedere beni immobili, devono arrabattarsi in più lavori precari e sottopagati (con sms di lavoro che arrivano mentre si sta già dormendo) solo per pagare un esoso affitto. Se un domani, per uno dei tanti collassi che il mondo connesso porta nel suo grembo di silicio, la tecnologia ci abbandonasse insieme a Internet, ai tutorial su qualsivoglia tecnica manuale, e alle macchine che svolgevano per noi lavori tanto inessenziali quali procacciarci il cibo, l’umanità sarebbe ancora in grado di muovere le mani, costruirsi un riparo, garantirsi l’autosufficienza alimentare e tramandare i saperi artigianali? Mai come in questo periodo storico è il caso di imparare ciò che serve per vivere, custodendo come tesori quei mestieri necessari affinati in 30 mila anni di storia comunitaria, e usare il cervello. La giustizia sociale non sarà mai un problema tecnico. Le risposte delle macchine riflettono sempre le domande di chi le ha programmate. Contro la scuola digitale Il costo del digitale. Ci fanno credere che il digitale può salvare l’economia e il pianeta in contemporanea, che cliccare è apprendere, che si può fare lezione senza essere presenti, ecc. Le statistiche lasciano intravedere la possibilità di misurare tutto e qualunque cosa. Ma rammentiamo che, come ha dimostrato la crisi gestionale all’occasione dell’epidemia del Covid 19, i mezzi per generare numeri e per scegliere indicatori permettono di imporre scelte politiche. Intanto gli effetti dolorosi della scuola digitale sono sempre più evidenti: sofferenza al lavoro, perdita di senso, burn out, dimissioni o addirittura a suicidi. La digitalizzazione non aiuta in alcun caso gli alunni a imparare, ma si rivela al contrario nociva da tutti i punti di vista: pedagogico, sociale, sanitario, ambientale. Il tempo passato davanti agli schermi nei giovani dai 16 ai 24 anni arriva oramai alle dodici ore al giorno, provocando perdite di attenzione, riduzione della memoria e della vista, incapacità di concentrarsi su compiti lunghi, disturbi del sonno e dell’apprendimento, disturbi psichici, dipendenza fisicochimica (dopamina) dagli apparecchi elettronici, percezione offuscata del reale e del virtuale. aumento di fenomeni quali stress, angoscia, aggressività, susseguirsi molto rapido di stati d’animo opposti… L’umano è macchina. Secondo una certa visione delle neuroscienze, gli alunni, come cervelli algoritmici adattati a un mondo-macchina, si piegheranno alla regola imparare, dimenticare ciò che è stato imparato, imparare qualcos’altro. Meno che mai, la scuola è il luogo dell’emancipazione intellettuale e del pensiero. Vi sono apprese la redditività, l’adattabilità, la messa sotto pressione. Al posto di teste ben fatte, la taylorizazzione dei neuroni. Tutto ciò allorché il mestiere d’insegnante sta nella relazione. In un mondo algoritmico, il professore non ha più un granché da insegnare, né saperi né ironia né visione del mondo, e poca umanità da incarnare nei gesti. L’imprevedibile, l’emergere dell’idea che nasce dalla discussione, l’essenziale di una lezione, tutto ciò non ha più senso, perché ciò richiede del tempo. Una lezione costruita con una tale visione dell’umano, non insegna a pensare ma a comportarsi nel modo atteso. La digitalizzazione non è un’opzione. Il digitale non è uno strumento che potremmo scegliere di usare o meno a seconda delle situazioni, bensì un sistema che si impone a tutti ed in ogni circostanza, richiedendoci di adottare un funzionamento macchinico. Uno strumento è un oggetto creato per facilitare alcuni compiti e utilizzato in funzione dell’obiettivo che ci si è preposti. La scuola digitale non è uno strumento per l’insegnante: il suo utilizzo è imposto; il suo sviluppo risponde a delle strategie industriali, a delle domande provenienti dall’amministrazione. Non ha propositi pedagogici, tranne quello di seguire un modello educativo unico, che nessuno sceglie né pensa veramente, neanche l’istituzione, ma che sposa le forme date dallo sviluppo tecnologico: videoproiezione, connessione, trasmissione di dati fuori dall’orario scolastico… Potremmo appellarci alla libertà pedagogica, chiedere di non essere costretti all’utilizzo di macchine nelle nostre classi. Ma sappiamo che è impossibile, che a partire dal momento in cui una tecnica è introdotta, la libertà del suo utilizzo o meno diventa illusoria, perché si inserisce in un sistema globale che la esige. Dopo un breve momento, la scelta ancora possibile cede il passo all’obbligo di fatto. La creazione di bisogni che imprigionano. Oggi, quando la rete subisce un guasto, è la «rivolta» (sic) degli insegnanti davanti al Comune. «È ben la prova che c’è un bisogno di digitale». No, è la dimostrazione degli effetti della dipendenza tecnologica, in una situazione di monopolio radicale. È il risultato di un processo di spossessamento che, al principio dello sviluppo industriale, distruggeva dei modi di fare collaudati. Detto altrimenti, per produrre del valore per i mercanti di tecnologia, bisogna aver diffuso all’inizio del disvalore. Rendete le persone dipendenti dai beni e dai servizi dopo aver distrutto le condizioni sociali e culturali che permettevano loro di sussistere autonomamente, e considereranno averne diritto perché i beni ed i servizi rispondono ai loro «bisogni». È d’altronde perché Internet e le tecnologie del digitale non possono migliorare l’insegnamento, ma che sono stati creati per rendere i loro utilizzatori prigionieri, che gli ingegneri della Silicon Valley ne proteggono i loro figli. Non sottolineeremo mai abbastanza questo punto: è in scuole selettive, dotate di materiale in legno, che mettono l’accento su attività manuali che coltivano le virtù della pazienza e dell’attenzione (cucito, scultura, musica) che crescono i bambini di Bill Gates o Steve Jobs, questi grandi architetti della decerebrazione digitale. Qualche anno fa, ai primi segni del futuro digitale che ci aspettava, ci sembrava tutto ancora lontano, esagerato, improbabile. Se è abbastanza frustrante misurare l’errore di “svista” compiuto allora, possiamo anche dirci che ciò ci insegna l’importanza di opporsi a delle trasformazioni anche a prima vista insignificanti. Che dei piccoli rifiuti possono, chissà, diventare delle grandi resistenze. (estratti tradotti del libretto Face à l’école numerique, nous ne sommes pas seuls del Collettivo dell’Appello di Beauchastel pubblicato quest’anno dalle Edizioni La Lenteur. Il Collettivo, nato nel 2013, riunisce insegnanti che si oppongono alla digitalizzazione della scuola) Se l’inestirpabile resistenza palestinese è un imprevisto nei piani del colonialismo high tech, altre varianti umane si manifestano contro il mito dell’onnipotenza del sistema tecno-capitalista e contro i suoi giochi di dominio. Come la “delegazione inattesa” che ha sabotato le linee ad Alta Velocità in occasione delle Olimpiadi di Parigi. Ben tagliato, giovane talpa! Rovereto, settembre 2024 Collettivo Terra e libertà terraeliberta.noblogs.org Per contatti: terraeliberta@inventati.org
September 15, 2024 / il Rovescio