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Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Qui in pdf: Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Nel 2021 è uscito in Italia, tradotto da Einaudi, un libro importante, passato, almeno negli ambiti sovversivi, per lo più inosservato. Si tratta de Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro presente. In questo testo, il giornalista californiano Vincent Bevins dimostra, in modo ampio e accurato, che il colpo di Stato realizzato in Indonesia nel 1965 con l’appoggio degli Stati Uniti è stato un episodio centrale della Guerra fredda perché ha rappresentato, appunto, un metodo. Leggere il libro di Bevins mentre si sta compiendo il genocidio del popolo palestinese toglie alla lettura ogni distanza storica, scaraventandoci nel presente. Il Metodo Giacarta «Negli anni tra il 1954 e il 1990 emerse in tutto il mondo una rete informale di programmi anticomunisti di sterminio appoggiati dagli Stati Uniti che commise omicidi di massa in almeno ventitré paesi. Non ci fu un piano d’insieme, né una cabina di regia in cui fu orchestrato tutto, ma penso che i programmi di sterminio in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Indonesia, Iraq, Messico, Nicaragua, Paraguay, Sri Lanka, Sudan, Taiwan, Thailandia, Timor Est, Uruguay, Venezuela e Vietnam fossero collegati tra loro e abbiano avuto un ruolo cruciale nella Guerra fredda. (E non includo gli interventi militari diretti né gli innocenti che persero la vita in guerra come “danni collaterali”). Gli uomini che intenzionalmente hanno giustiziato dissidenti e civili indifesi imparavano gli uni dagli altri; adottavano metodi già applicati in altri paesi; a volte chiamavano persino le loro operazioni come altri programmi che volevano emulare. Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora “Giacarta”, tratta dal più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi (dodici, se consideriamo lo Sri Lanka, dove il governo applicò quella che chiamò “soluzione indonesiana”). Ma anche i regimi che non furono mai influenzati da questo particolare linguaggio avevano visto molto chiaramente che cosa aveva fatto l’esercito indonesiano e il successo e il prestigio che le loro azioni avevano portato al loro paese in Occidente. E anche se alcuni di questi programmi furono condotti malamente e spazzarono via spettatori innocenti che non costituivano nessuna minaccia, in effetti riuscirono a eliminare i veri oppositori al progetto globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora una volta, l’Indonesia è l’esempio più importante. Senza lo sterminio del Pki [Partito comunista indonesiano], il paese non sarebbe passato da Sukarno a Suharto. Anche nei paesi dove il destino dei governi non era in bilico, gli omicidi di massa mostravano cosa sarebbe successo a chi opponeva resistenza: una forma efficace di terrore di Stato che venne applicata anche nelle regioni circostanti. […] Voglio affermare che questa rete informale di programmi di sterminio, organizzata e giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella vittoria degli Stati Uniti e che quella violenza ha profondamente influenzato il mondo in cui viviamo oggi». Una spietata efficacia «L’Indonesia divenne davvero un “partner docile e compiacente” degli Stati Uniti, cosa che spiega come mai oggi così tanti americani abbiano a malapena sentito parlare di quel paese. Ma a quel tempo le cose erano molto diverse. L’annientamento del terzo partito comunista del mondo e il sorgere di una dittatura fanaticamente anticomunista scosse violentemente l’Indonesia e provocò uno tsunami che arrivò in quasi ogni angolo del globo. Nel lungo periodo, la forma dell’economia globale cambiò per sempre. Inoltre, le dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale indonesiana». In poche parole «”Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluta da Washington. Basta guardarsi intorno”, ha detto indicando la sua città e l’intero arcipelago indonesiano intorno a lui”. Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto. Winarso smette di muoversi: “Ci avete ammazzati”». I numeri di un massacro Da sola, la mappa intitolata «I programmi di sterminio anticomunista, 1945-2000» e pubblicata come Appendice al libro di Bevins racconta una storia così feroce che lascia semplicemente allibiti quanto poco sia presente nella coscienza collettiva. Ecco i luoghi, le date, i numeri: Messico 1965-1982: 1300 Honduras 1980-1993: 200 Nicaragua 1979-1989: 50 000 Guatemala 1954-1996: 200 000 Venezuela 1959-1970: 500-1500 El Salvador 1979-1992: 75 000 Colombia 1985-1995: 3000-5000 Paesi membri dell’Operazione Condor (l’Alleanza anticomunista tra Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay), Anni Settanta-Ottanta: 60 000-80 0000 Iraq 1963 e 1978: 5000 Iran 1988: 9 000 («l’unico caso in cui le violenze sono state compiute da un avversario geopolitico degli Stati Uniti») Sudan 1971: un po’ meno di 100 Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000 Thailandia 1973: 3000 Corea del Sud 1948-1950: 100 000-200 000 Taiwan 1947: 10 000 Filippine 1972-1986: 3250 Vietnam, Operazione Phoenix 1968-1972: 50 000 Timor Est 1975-1999: 300 000 Indonesia 1965-1966: 1 000 000 «Giacarta sta arrivando» O semplicemente «GIACARTA» sono le scritte che, nel 1972, appaiono in diverse città del Cile e che i militanti di sinistra si vedono recapitare per posta. A incaricarsi dell’operazione sono il gruppo fascista Pátria y Libertad e la sezione cilena dell’organizzazione anticomunista brasiliana Tradición, Família y Propriedad – base sociale del golpe militare in Brasile del 1964 –, entrambe finanziate dalla CIA. L’11 settembre 1973 avviene il colpo di Stato. Quando migliaia di “rossi” vengono radunati allo Estadio Nacional, per essere interrogati, torturati e uccisi, a presiedere le operazioni ci sono consiglieri militari brasiliani. La Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet creata dalla CIA, assassina in pochi giorni tremila oppositori. La violenza contro indigeni e dissidenti in Guatemala viene promossa dalla Mano Blanca (organizzazione razzista e ferocemente anticomunista) con l’appoggio dei Berretti verdi nord-americani. «Dal 1978 al 1983 l’esercito guatemalteco uccise più di duecentomila persone. Circa un terzo di loro, soprattutto nelle aree urbane, furono portate via e fatte “sparire”. La maggior parte degli altri erano indigeni maya massacrati all’aperto nei campi e sulle montagne dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni». Nel 1982 vengono sterminati interi villaggi. «In Indonesia l’omicidio di massa potrebbe non essere stato genocidio, ma solo omicidio di massa anticomunista. In Guatemala fu genocidio anticomunista». Nel 1979, per stroncare il Nicaragua sandinista gli Stati Uniti dispiegano i contras, forze anticomuniste finanziate dalla CIA e addestrate da Argentina, Guatemala e Cile come proseguo dell’Operazione Condor (con cui «il fanatismo anticomunista conquistò il continente» latino-americano). In un incontro organizzato dall’ambasciatore USA in Spagna, le squadre speciali argentine e guatemalteche parlano ancora di «Piano Giacarta». Perché «Giacarta»? Operazione Annientamento Operasi Penumpasan. Così si chiama l’operazione lanciata l’8 ottobre 1965 dall’esercito indonesiano contro i comunisti. In circa sei mesi viene sterminato un milione di persone e altrettante vengono rinchiuse nei campi di concentramento. Preparato dalla CIA fin dal 1958 sul modello del golpe in Guatemala, il colpo di Stato del generale Suharto ricalca fin nei dettagli il modo con cui si è imposta l’anno precedente la dittatura in Brasile. L’ideologia è quella fornita dalla «teoria della modernizzazione», secondo la quale in certi contesti è l’esercito che deve rimuovere, con la forza, ciò che si oppone alla modernizzazione capitalistica di un Paese. È l’esercito modernizzatore guatemalteco che nel 1954 permette, con un colpo di Stato, di assicurare il controllo sulla produzione agricola alla United Fruit Company. Lo stesso avverrà con l’ITT nel Cile del generale Pinochet, così come, nel 1976, dopo il colpo di Stato del generale Videla, in Argentina, dove «l’azienda automobilista Ford e Citibank collaborarono alla sparizione di lavoratori appartenenti al sindacato». Ma il modello che segue il generale Suharto per «estirpare dalle radici» la presenza comunista (parliamo, tra il Pki, il sindacato operaio, il fronte contadino, l’organizzazione studentesca e il Gerwani, cioè il movimento delle donne, di qualcosa come dieci milioni di persone) si ispira, nelle tecniche di propaganda, a quelle sperimentate dalla CIA nel colpo di Stato in Brasile del 1964. S’inventa un piano segreto comunista per attaccare l’esercito e assumere il potere, con tanto di streghe comuniste che evirano nel sonno gli ufficiali e poi ballano nude attorno ai cadaveri mutilati. Si erige un monumento ai militari golpisti uccisi dai comunisti, si producono film da proiettare ufficialmente ogni anno e si trasforma la giornata delle forze armate nella celebrazione dell’annientamento dei nemici della nazione. Si trasforma l’esercito nel centro organizzativo della modernizzazione. «Un anno dopo un colpo di Stato nella nazione più importante dell’America Latina, parzialmente ispirato da una leggenda sui soldati comunisti che accoltellano generali nel sonno, il generale Suharto racconta alla nazione più importante del Sud-est asiatico che comunisti e soldati di sinistra avevano trascinato via i generali dalle proprie case nel cuore della notte per ucciderli lentamente a coltellate, e poi entrambe le dittature militari anticomuniste, allineate con Washington per decenni, celebrano l’anniversario di queste ribellioni in modo molto simile». A partire dal 1958, la Fondazione Ford organizza viaggi di studio negli Stati Uniti a giovani ufficiali indonesiani, i quali vengono addestrati, tra un corso sull’economia americana e le serate nei locali di spogliarello, nelle basi militari del Kansas. Erano, il Brasile del 1964 e l’Indonesia del 1965, Paesi sul bordo della rivoluzione? Nient’affatto. Nel primo caso, qualche timida riforma sgradita ai latifondisti, nel secondo caso un governo messosi a capo, con il congresso di Bandung del 1955, dei Paesi appena usciti dal gioco coloniale o intenzionati a farlo, un governo – quello di Sukarno – appoggiato dai nazionalisti, dagli islamici e anche dal Pki, partito la cui strategia era totalmente socialdemocratica. Paesi non abbastanza allineati con Washington e con la sua guerra al comunismo. Bevins sostiene che i colpi di Stato in Brasile e in Indonesia, con il loro effetto domino, sono stati gli eventi decisivi della Guerra fredda, la quale non si è giocata tanto e soltanto con i missili nucleari e con il napalm, ma con le politiche di sterminio nelle colonie o ex colonie. Al punto che la vittoria degli USA in Indonesia (e a Timor Est, dove Suharto ha assassinato un terzo della popolazione) ha controbilanciato la sconfitta in Vietnam. La differenza tra il Brasile e l’Indonesia è che quando, a modernizzazione raggiunta, le rispettive dittature militari si sono concluse, nel Paese latino-americano la «riconciliazione nazionale» ha dovuto fare i conti con gli assassinati e i desaparecidos, mentre lo sterminio indonesiano è stato semplicemente rimosso, con un’intera popolazione letteralmente streghizzata. Una militante novantenne, sopravvissuta alla detenzione e alla tortura, racconta a Bevins che per gli abitanti del quartiere in cui vive lei è ancora una strega comunista. Silenzio «Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di avere qualche associazione con il Pki. Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell’Occidente. Sumiyati, esponente di Gerwani, sfuggì alla polizia per due mesi prima di costituirsi. Le fecero bere l’urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque. Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi. […] Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato dalle cicatrici e smarrito». Il Metodo Gaza Dopo il crollo dell’URSS, il concetto di «comunismo» è stato sostituito con quello di «terrorismo». Nella crociata mondiale «antiterrorista» che si è dispiegata soprattutto dopo il 2001, un ruolo cruciale lo ha giocato, non a caso, Israele. Se il concetto di «terrorismo» risale a Babeuf, il paradigma operativo del ribelle come «terrorista» è infatti tipicamente coloniale. E la storia insegna che tutto ciò che viene sperimentato nelle colonie – dai bombardamenti aerei sui civili alla detenzione amministrativa, dalle tecniche di tortura all’architettura dell’occupazione – prima o poi torna indietro. I primi campi di concentramento (in senso letterale: campos de concentración) sono stati realizzati dalla Spagna a Cuba nel 1896, replicati nelle Filippine (dalla Spagna e in seguito dagli Stati Uniti) e poi in Sudafrica dall’impero Britannico, per diventare l’emblema stesso del nazismo. I metodi impiegati in Algeria verranno insegnati dalla polizia militare francese alle polizie militari e segrete del Brasile, del Guatemala, del Cile, dell’Argentina… La repressione «anticomunista» più feroce in America Latina avviene là dove il nemico della nazione e il selvaggio anticivile si confondono: in Guatemala. Così come nella rimozione storica dello sterminio in Indonesia e a Timor Est (qui viene eliminato un terzo della popolazione) pesa il fatto che gli assassinati non fossero bianchi. Lo spazio intermedio tra le colonie e il territorio nazionale sono le zone di confine. Non a caso la violenza fascista, a Trieste e dintorni, colpì prima le popolazioni slave e poi gl’italiani “rossi”, ebbe modalità a metà tra la spedizione punitiva e le tecniche militari di guerra e creò lo «slavo-comunista» come nemico nazionale, versione bianca dell’indigeno maya-comunista del Guatemala (dove le pratiche di sterminio condotte dall’esercito guatemalteco avvennero con l’addestramento e la supervisione di quello israeliano). E non è un caso che i primi a sperimentare sulla propria pelle, nell’Italia degli anni Sessanta, la tortura come metodo militare furono i secessionisti tirolesi (a dirigere le operazioni contro i quali troviamo gli stessi personaggi di quell’Ufficio Affari Riservati che ha pianificato la strage di Piazza Fontana). Se la legislazione italiana «antiterrorismo», dal 1980 in avanti, ha fatto scuola a livello internazionale (anticipando quella europea degli anni Duemila) e il carcere di guerra 41 bis viene oggi studiato dallo Stato cileno, non deve sorprendere che i più accaniti sostenitori di Netanyahu (gli altri lo sostengono con maggiore discrezione) siano gli esponenti di quella destra anticomunista e antisemita erede della Guardia di Ferro filonazista (Orban), del Metodo Giacarta e dell’Operazione Condor (Bolsonaro e Milei) e dell’esercito quale baluardo contro i froci e i rossi (Vannacci). Oppure afrikaner la cui potenza tecnologica conferisce al loro suprematismo una dimensione addirittura cosmica (si pensi a Elon Musk e a Peter Thiel). Ma anche la sinistra istituzionale ha raccolto l’insegnamento del Metodo Giacarta (non a caso Berlinguer giustificava il «compromesso storico» riferendosi esplicitamente al colpo di Stato di Pinochet, come prima Togliatti giustificò la «svolta di Salerno», operata in obbedienza a Mosca, per scongiurare una «situazione alla greca», cioè lo scontro con la CIA), schierandosi attivamente – con i questionari, con le denunce alla polizia, con la «linea della fermezza» nel caso Moro – a fianco della repressione «antiterrorista», fino all’immondo slogan «il proletariato salverà lo Stato». È il colonialista a definire chi è l’indigeno; è l’inquisitore a stabilire chi è la strega; è il suprematista bianco a stabilire chi è il negro; è l’antisemita a definire chi è l’ebreo; è il sionista a stabilire chi è l’antisemita; è l’anticomunismo a stabilire chi è il comunista; è l’antiterrorismo a stabilire chi è il terrorista. Interrogarsi sulla sostanza sociale, politica o ontologica di queste categorie di reietti è non solo fuorviante, ma comporta uno scivolamento sul terreno del potere accusatore, della sua propaganda e della sua guerra psicologica. Mentre assistiamo al declino dell’impero statunitense, con le dichiarazioni trumpiane di annessione del Canada e di conquista della Groenlandia, con le navi nucleari statunitensi schierate nell’Indo-Pacifico e di fronte al Venezuela e con il Pentagono ribattezzato senza fronzoli Dipartimento della Guerra, dobbiamo capire che Gaza non è un orrore contro il quale richiamare dal basso al rispetto del Diritto internazionale o alla democrazia, bensì un Metodo che compendia un’intera storia di massacri, e che vale da monito per tutti i palestinizzabili del mondo. L’ordine è già stato impartito «Ci ispiriamo alla strategia di Haussmann per la Parigi del XIX secolo» è scritto nel documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT). Come noto, il barone von Haussmann distrusse la vecchia Parigi dei vicoli e delle strade strette (che facilitavano le barricate e le insurrezioni) e la riorganizzò su vasti boulevard che facilitavano la cavalleria e lo spostamento delle truppe nell’area urbana. Ancora oggi, l’architettura imperiale è parte integrante della contro-insurrezione, cioè della continuazione del colonialismo nello spazio urbano. Senza distruggere le strade, i tunnel e la resistenza di Gaza non si possono costruire i Poli tecnologici né edificare, su decine di migliaia di cadaveri, gli hotel di lusso. Il terrorista – in Palestina come in Occidente – è qualunque barbaro contrasti il destino manifesto dell’impero. Il linguaggio sempre più esplicitamente religioso e “messianico” (meglio sarebbe dire teocratico) ci informa che più gli obiettivi sembrano impossibili, più i mezzi si fanno smisurati e totali. Oggi il Metodo Giacarta, dotato di tutti gli strumenti che il complesso scientifico-miltare-industraile ha approntato nel frattempo, è capeggiato da un immobiliarista e sostenuto da transumanisti che hanno tutti i mezzi di potenza per i propri deliri. La cosa più insensata è spiegare a Ubu Re che è folle pensare di deportare due milioni di palestinesi per fare una riviera di lusso. La solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese deve essere rafforzata dalla consapevolezza che qualcosa di simile è già accaduto. Gli hotel e i club di Bali, meta turistica e sessuale dei bianchi ricchi d’Occidente, sono stati eretti letteralmente sull’Operazione Annientamento (che solo in quell’isola indonesiana sterminò il cinque per cento della popolazione, vale a dire ottantamila persone). La sabbia su cui sono stati costruiti i resort e i beach club dove «i bianchi possono permettersi di comprare ospitalità di lusso, o sesso, dalla gente del posto», è «la stessa sabbia dove i militari portarono persone da Kerobokan, qualche chilometro a est, per ucciderle durante la notte». «”Doveva ammazzare i comunisti, così gli investitori stranieri potevano portare qui i loro capitali”, dice Ngurath Termana». Che la rivolta in corso in Indonesia faccia saltare per aria quei resort e l’infame violenza su cui sono stati costruiti. Una credenza insostenibile In un’intervista rilasciata a «Jacobin Italia» poco dopo la traduzione italiana del suo libro, Bevins diceva: «Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina, resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dài, siamo negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia, soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora». Se c’è un popolo che sa che dal nemico deve aspettarsi tutta la violenza possibile, è quello palestinese. Una violenza sterminatrice che, a differenza di quella dispiegata dall’Operazione Annientamento, avviene in diretta mondiale. Siamo noi che, di fronte al Piano Gaza, non dobbiamo cedere né all’incredulità né all’orrore disarmato.
Approfondimenti
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Bruno Filippi. Proletario, anarchico, dinamitardo
Qui in pdf: Bruno Filippi Bruno Filippi. Proletario, anarchico, dinamitardo Livragare «Fu nell’estate del 1919 che in Italia si forgiò la locuzione “fronte interno”: a indicare, scrisse Volontà (il 16 luglio 1919), “la linea di combattimento fra il governo e i suoi satelliti e complici da un lato e dal lato opposto i proletari e tutti quanti aspirano al socialismo, alla libertà, alla rivoluzione. Noi siamo il nemico interno, contro cui ferve la guerra, più aspra e implacabile ancora di quando si temeva o si fingeva di temere che la nostra opposizione giovasse al nemico esterno”». Così scriveva nel 1979 Vincenzo Mantovani in una nota del suo Mazurka blu. La strage del Diana, libro fondamentale per capire la storia degli anni 1919-1922 a Milano quale laboratorio d’Italia. Emblematico del rapporto fra guerra, violenza coloniale e repressione anti-proletaria è il verbo «livragare». Precisa sempre Mantovani, in un’altra nota: «Derivato dal cognome del tenente Dario Livraghi, un ufficiale che in Eritrea si era reso responsabile di gravissimi atti di violenza contro gli indigeni, nel gergo politico della sinistra significava “uccidere”, “distruggere”, “annientare”». A Massaua, nel 1891, Livraghi, tenente dei Reali Carabinieri, insieme al segretario degli affari coloniali Eteocle Cagnassi, aveva torturato e fucilato senza processo ottocento eritrei. Lo «scandalo Livraghi-Cagnassi» diede vita persino a una commissione d’inchiesta, funzionale a prender tempo e poi a insabbiare la strage, come avverrà con tutte le altre efferate violenze compiute dal colonialismo italiano. A serbarne memoria, e a schierarla sul fronte interno, il linguaggio socialista e proletario. In un articolo dal titolo Parla la dinamite! uscito sull’«Iconoclasta!» del 15 settembre 1919, scriveva l’anarchico Bruno Filippi: «Dal 13 aprile ad oggi 54 persone furono assassinate dal piombo regio. Ecco la propaganda dell’odio! Gli incettatori affamano, gli industriali mettono al bivio fra lo sfruttamento più nefando e la fame. […] Dunque la provocazione viene dall’alto. Sono i vari Breda [l’industriale milanese che pochi giorni prima, durante lo sciopero dei metallurgici, era scampato a due attentati] protetti dalla camorra di Stato, sono i Centanni i cinici livragatori di folle, sono i gros bonnet dell’esercito, lordi di sangue e furenti di libidine sadica». Una rozza calzetta Quando Parla la dinamite! veniva pubblicato, Bruno Filippi era già morto. Dilaniato, nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, dalla bomba che il 7 settembre voleva collocare al Club dei Nobili, «il ritrovo preferito di molti e molto noti aristocratici» nonché di gallonati livragatori di operai e contadini. Se all’inizio si era pensato a una fuga di gas, l’ipotesi dell’attentato emerse quando un pompiere «vide una scarpa tra i calcinacci e notò, con orrore, che essa conteneva un piede umano fasciato in una “rozza calzetta”». «Il morto era povero, a giudicare dagli indumenti e dalle scarpe risuolate che portava, e dunque non poteva essere un frequentare abituale né del Biffi [caffè-ristorante dell’alta borghesia milanese] né del Clubino [il Club dei Nobili]». L’imperativo categorico Proletario e anarchico individualista, il diciannovenne Bruno Filippi era già stato condannato per «minacce a mano armata e resistenza alla forza pubblica». Sempre in prima fila negli scontri con guardie e fascisti, il giovane compagno aveva appoggiato con attacchi dinamitardi lo sciopero dei metallurgici, individuando un nesso chiarissimo tra aristocrazia, industriali e «pescecani» di guerra. Come scrisse «Il Libertario» del 10 settembre 1919: «[…] mentre molte migliaia di lavoratori metallurgici soffrono ogni sorta di privazioni per la caparbietà degli industriali, che durante la guerra hanno accumulato vistose ricchezze, costoro gavazzano nei loro eleganti ritrovi, nelle sontuose villeggiature e nelle stazioni climatiche alla moda». Ed è proprio in uno di quegli eleganti ritrovi, dove non possono entrare né rozze calzette né scarpe risuolate, che Bruno Filippi voleva colpire i livragatori di proletari e i gran signori loro committenti. «La vita era in lui esuberanza ed energia. Il suo imperativo categorico era il verbo agire», dirà di lui l’anarchico milanese Carlo Molaschi. «Una volta sette o otto studenti interventisti lo assalirono e lo bastonarono ben bene. Egli era solo e disarmato… e dovette lasciar fare. Ma tempo pochi mesi gli aggressori, uno per uno, si riebbero “individualmente” quel che “collettivamente” avevano dato a lui», racconterà Virgilio Gozzoli sull’«Iconoclasta!» del 24 ottobre 1919. Persino l’«Avanti!» ebbe per il giovane anarchico parole di stima: «Bruno Filippi era ben conosciuto negli ambienti politici sovversivi come un idealista devoto alle proprie convinzioni e capace per esse di qualsiasi sacrificio. Nel periodo della neutralità, quando il partito socialista lottava disperatamente per contrastare il prevalere dell’interventismo, il Filippi militò con noi e in più di una contingenza lo vedemmo affrontare – in dimostrazioni non veramente pacifiche – le intolleranze irose dei nemici comuni». Delle motivazioni del giovane anarchico il quotidiano socialista tracciava un profilo tutto sommato onesto: «Le congetture che si fanno sono molteplici, ma quella che presenta maggiore fondamento è che il Filippi abbia voluto colpire i frequentatori del club, che appartengono tutti agli alti ranghi del capitalismo milanese, alla nobiltà, al militarismo. Una protesta violenta sino al fanatismo, che avrebbe voluto fiaccare con un sol gesto tremendo la caparbia volontà di lotta e di resistenza fino all’estremo che spinge i capitalisti milanesi contro quelle maestranze industriali dal cui lavoro, durante la guerra, hanno tratto vistose e immeritate ricchezze». Il giornale del Partito socialista non mancava tuttavia di definire il gesto di Filippi «una follia sterile e vana». Questa grande e amorosa anima Così gli rispondeva «L’Avvenire Anarchico» il 12 settembre 1919: «Guardate. Mentre la vita si fa sempre più aspra, misera, tribolata; mentre Nitti prepara l’affamamento di tutte le stentate plebi d’Italia aumentando il pane e tutti i generi di prima necessità, mentre per tutte le città d’Italia si fa scempio della vita umana e Nitti fa l’elogio del carabiniere, e li aumenta, e crea la Guardia Reale per strappare il pane di bocca agli affamati onde dare il 5 e mezzo alla borghesia che provocò la nostra rovina; e il Corriere della Sera fa l’apologia dell’assassinio, mentre voi avete spezzato i moti rivoluzionari del 5-10 luglio per preparare, d’accordo coi gialli di Francia, d’Inghilterra e d’Italia, il gran festival, il fallimento del 20-21 [lo sciopero internazionale del 20-21 luglio a sostegno della rivoluzione russa] e creare l’atmosfera agli esperimenti della Confederazione e alle insurrezioni… elettorali; mentre logorate 300.000 operai, e opponete le zuppe e le processioni calme, educate, ben ordinate; la Rivoluzione ha espresso dal suo turgido seno uno dei suoi numerosi e meravigliosi figli, i quali a prezzo della loro vita, colla voce possente della dinamite vi richiamano alla dura realtà, rimette sulla via maestra il movimento liberatore smarritosi nei tortuosi vicoli della viltà e nei meandri del suicidio volontario». Per concludere: «Salutiamola, o compagni, questa grande e amorosa anima». Balzo di tigre «Molto usata nel secondo decennio del secolo, questa parola [livragare] cadde poi in disuso». La pratica, invece, è proseguita, sempre più letale, tecnologica, de-umanizzata. Mentre i livragatori sono al lavoro in Palestina, e il Club dei Nobili internazionale intasca profitti lordi di sangue, dalle segrete della storia irrompe, con un balzo di tigre, il corpo dilaniato di Bruno Filippi. Il suo incontenibile e tremendo bisogno di giustizia non si lascia scansare. Men che meno con l’esaltazione. Contro una tale scorciatoia del cuore e dello spirito ci ha ammonito, con più di un secolo di anticipo, Leda Rafanelli: «Può esaltarlo solo chi lo saprà imitare».
Approfondimenti
Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere
Qui il pdf: Angiolillo Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere L’8 agosto 1896, nella stazione termale basca di Santa Águeda, il primo ministro spagnolo Antonio Cánovas del Castillo viene ucciso con un colpo di pistola. A sparare è Michele Angiolillo, un anarchico foggiano di venticinque anni. Durante la sua arringa difensiva, il giovane anarchico dichiarerà di aver ucciso Cánovas in quanto personificazione di «ciò che hanno di più ripugnante la ferocia religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un giustiziere!». Il suo riferimento al «mondo intero» non è un’iperbole retorica. Negli stessi anni in cui il primo ministro spagnolo dispiega una feroce repressione interna, culminata nella proclamazione della legge marziale a Barcellona e nelle torture inflitte a centinaia di prigionieri nell’infame fortezza di Montjuïc, i suoi governatori coloniali e i suoi generali rispondono con la strage e con i campi di concentramento (i primi della storia) all’insurrezione cubana e alla sollevazione nelle Filippine. Non a caso il libro che Angiolillo porta con sé, quando parte da Londra con il proposito di giustiziare Cánovas, è Les Inquisiteurs d’Espagne, de Cuba e des Filippines, scritto dall’anarchico creolo cubano Fernando Tarrida del Mármol, anch’egli detenuto a Montjuïc. Nella sua arringa Angiolillo parla esplicitamente, oltre che di Montjuïc, della violenza coloniale a Cuba e nelle Filippine. Sotto il tallone di Crispi Michele Angiolillo era nato a Foggia il 5 giugno 1871 (subito dopo la sanguinosa repressione della Comune di Parigi). Durante gli anni di studio presso un istituto tecnico, diventa un militante repubblicano radicale. Esce dall’esperienza della coscrizione militare con convinzioni anarchiche. In occasione delle elezioni del 1895, pubblica un manifesto contro le «leggi scellerate» promulgate dal primo ministro Crispi. Il Cánovas italiano, subito dopo avare represso nel sangue il moto dei Fasci siciliani e l’insurrezione scoppiata in Lunigiana in solidarietà con i contadini della Sicilia, si prepara all’aggressione imperialista in Abissinia – conclusasi con la disastrosa sconfitta di Adua –, di cui la legislazione d’emergenza è il riflesso sul fronte interno. Per il suo manifesto Angiolillo viene arrestato con l’accusa di «incitazione all’odio di classe». Rilasciato in attesa del processo, il giovane compagno spedisce una lettera al ministro della Giustizia in cui attacca il pubblico ministero, cosa che gli procura una condanna a diciotto mesi di carcere e tre anni di confino. A quel punto Angiolillo parte sotto falso nome e raggiunge Barcellona passando per Marsiglia. Nel capoluogo catalano impara il mestiere di tipografo e partecipa attivamente alle attività del movimento anarchico, all’epoca vero e proprio crocevia cosmopolita. Collabora, tra le altre cose, a «La Ciencia Social» insieme a Tarrida e Ramón Sempau (lo scrittore e poeta bohémien, nonché simpatizzante anarchico, che cercherà di giustiziare il luogotenente Portas, responsabile delle torture a Montjuïc). Dopo l’attentato al Corpus Domini – di cui diremo in seguito –, Angiolillo scampa alla retata organizzata da Cánovas contro centinaia di sovversivi – tra cui Cayetano Oller, compagno dell’anarchico foggiano – e ripara a Marsiglia. Qui viene arrestato per dei documenti falsi e, dopo un mese di carcere, viene espulso in Belgio. Quando la campagna internazionale lanciata da Tarrida contro Cánovas è al suo apice, Angiolillo si trasferisce a Londra, dove ritrova Oller – sottoposto a terribili torture a Montjuïc, rilasciato per mancanza di prove ed espulso dal suo stesso Paese –, e dove partecipa all’imponente manifestazione organizzata dal Commitee on Spanish Atrocities, comitato promosso anche da Tarrida, il quale nell’occasione parla per la delegazione dei rivoluzionari cubani. Durante la manifestazione prende la parola anche l’anarchico francese Charles Malato, che nel suo intervento invoca vendetta per le vittime di Cánovas, tra cui cita lo scrittore filippino José Rizal, assassinato nella colonia spagnola; ma soprattutto salgono sul palco alcuni dei torturati di Montjuïc, i quali mostrano in pubblico i loro corpi mutilati. Qualche tempo dopo, l’anarchico foggiano incontra personalmente Francisco Gana, che portava i segni indelebili delle sevizie subite dagli aguzzini spagnoli. Così descrive la scena, nella sua autobiografia (Nella tormenta), l’anarchico tedesco Rudolf Rocker: Quella notte, quando Gana mostrò le sue membra mutilate e le cicatrici che le torture avevano lasciato su tutto il suo corpo, capimmo che leggere di tali questioni è una cosa, ma sentirne parlare dalle labbra di chi le ha subite è un’altra. […] Eravamo tutti seduti immobili, pietrificati, e trascorsero diversi minuti prima che fossimo in grado di proferire qualche parola di indignazione. Solo Angiolillo rimase in silenzio e, poco dopo, si alzò pronunciando un laconico saluto per poi lasciare l’abitazione. […] Questa fu l’ultima volta che lo vidi. L’ultima volta che lo vide il mondo, fu il 20 agosto 1986, il giorno in cui il giovane anarchico fu garrotato. Non prima di aver urlato al mondo «Germinal!». Dalle segrete di Montjuïc Il 7 giugno 1896, a Barcellona, una bomba esplode durante la processione del Corpus Domini, causando tre morti sul colpo e decine di feriti (nove dei quali moriranno in seguito). Benché non si possa escludere che sia stata un’azione indiscriminata – alla Oberdan, per intenderci – contro l’odiatissima Chiesa spagnola, alleata della monarchia, stampella dei latifondisti e architrave dell’amministrazione coloniale, i sospetti di una provocazione poliziesca perdurano tutt’oggi. Come che sia, Cánovas decreta la legge marziale a Barcellona e fa arrestare più di trecento persone. Meno noto è che la fortezza di Montjuïc diventa – a dispetto dei nuovi inquisitori – un luogo di incontro tra anarchici di vari Paesi, rivoluzionari cubani e deportati filippini. Un esempio emblematico di tale crogiuolo è la condivisione della stessa cella da parte di Ramón Sempau – incarcerato per aver cercato di giustiziare il torturatore Portas – e di Isabelo de los Reyes, già autore del pionieristico El Folk-lore Filipino. Tornato poi a Manila, Isabelo, che aveva conosciuto anche Malatesta, vi porta le prime pubblicazioni anarchiche apparse nelle Filippine, e metterà in campo quello che dice di aver imparato dagli anarchici nell’organizzazione degli scioperi e nella creazione delle prime Unioni Operaie. Quanto a Sempau – esempio di intreccio tra mondo artistico radicale, ideali libertari e propaganda del fatto – sfuggirà alla corte marziale e alla condanna a morte grazie alla campagna internazionale sugli orrori di Montjuïc. Tornanti La condanna a morte di Francisco Ferrer nel 1909, così come il movimento internazionale per impedirla, prolunga questa storia. Non solo perché l’esecuzione avvenne, il 13 ottobre, proprio nella fortezza di Montjuïc. Ma soprattutto perché l’accusa contro Ferrer era quella di aver fomentano la «Settimana tragica», la rivolta proletaria e anarchica per impedire l’invio di coscritti chiamati a sedare l’insurrezione in Marocco. In molte città europee le manifestazioni per Ferrer daranno vita a scontri con la polizia. A Torino, dopo la proclamazione dello sciopero generale, le dimostrazioni assumeranno un carattere quasi insurrezionale nei quartieri di Barriera di Milano e di Borgo San Paolo. Per via del ruolo giocato dai repubblicani e dai democratici nella campagna per Ferrer, quest’ultimo è ricordato come un martire del libero pensiero, come un precursore dell’educazione laica contro l’oscurantismo religioso. Ferrer fu anche questo, certo, ma fu soprattutto un combattente sociale, redattore tra l’altro de «La Huelga general», i cui proclami erano inequivocabili: Viva la Revolución, Viva la dinamita!. In un’epoca in cui soffiano di nuovo i venti di guerra e sull’altra sponda del Mediterraneo il suprematismo occidentale sta consumando un genocidio; in un presente nel quale si moltiplicano attraverso i continenti le odierne «leggi scellerate» contro il dissenso interno, ricordare il gesto di Angiolillo e il suo «Germinal!» significa riattualizzare quell’internazionalismo che è parte integrante della nostra storia. Non siamo piume al vento. (Gli elementi storici alla base di questo testo sono tratti soprattutto dal prezioso Anarchismo e immaginario coloniale, scritto da Benedict Anderson nel 2005 e pubblicato quest’anno da elèuthera)
Approfondimenti
Stato di emergenza
Quelli che benpensano, ovvero della difesa del clan
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: Quelli che benpensano(1) QUELLI CHE BENPENSANO. OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso. Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia, per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate. Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici (anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno brillante che sia. Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso, criticabile da diversi punti di vista. L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere, non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera. Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate, complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni. Postmodernismo? Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del solito. Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento” anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste sotteso è più o meno lo stesso. Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento” anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un capro espiatorio un po’ fuori tempo massimo, a dir la verità). Il sabotatore interno, un po’ come alcuni dicevano appunto del femminismo negli anni ‘70 e fino all’altroieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un po’ più in sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale. I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni parte assediati da essi. Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci informano. Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note come “teorie del complotto”. A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte. Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza” di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove. Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si potrebbe definire persino scientista. Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe mai immaginato dover vedere? Neanche questo… Perché si è tutto sommato intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà quale motivo? Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”, oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”. Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante. Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri? Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti. Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle per non correre il rischio di farsi abbindolare. Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo, s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste, ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo spesso. Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico? Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto, realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente, inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo, l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare. Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente irrilevante? Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza, denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre persone la cui sola idea ripugna. Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti. Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore e non piuttosto l’aggredita. Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire. Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista… A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella pratica non si sa che farsene. Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice. Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale. Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna sempre al punto di partenza. Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti – svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi, troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non siano poi così gravi, questi episodi. Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare. Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”. Banalità di base (I) Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo, antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione. Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate. Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero insieme, è miserevole. A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della federazione anarchica italiana. Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe, per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un altro discorso. Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel che resta non portare effettivamente da nessuna parte. Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica – ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un poveraccio, sia a livello politico, che umano. Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati, c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra quotidianità ripetendo concetti molto simili per mezzo di ogni tipo mass media. Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima considerazione. Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito, plenarie sindacali o conclavi? Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi tipo? Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in modo netto, è diventato autoritario? Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto. Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere, indirizzo, controllo.. Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non autonomia di pensiero e azione. Quale classe, quale lotta Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine (per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata” per motivi che proverò a chiarire più avanti. Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico. Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della violenza. Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta “accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come “caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente; colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie europee nel continente americano. Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici. Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai. I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”. Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non lo intravedono ancora. Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era di libertà per tutti/e? Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di “classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio. L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma. Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per tutti/e. A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – sfruttata ci si riferisce esattamente? Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare tutti/e parte di una classe sfruttata. Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico, no. Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della propria posizione, in opposizione, a questi. Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece di complici del proprio sfruttamento? Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo. Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori, desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più. Non sempre e non dappertutto, certamente. Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un po’ di mesi in qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le tensioni, il quadro esistenziale di riferimento. Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”. Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso? Forse. La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre, estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione, volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, come in molti/e peraltro fanno? Secondo me sì. Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare dalla propria condizione di sottomissione. A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti guardare? Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa, rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una volta all’anno. I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o europeo/a e con questi/e quasi mai si organizzano. I “dannati/e” sono quelli che affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera. Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città. Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e. Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro “integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o durante un controllo di polizia. Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi. Banalità di base (II) Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (che talvolta, peraltro, assumono solo un carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e. Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni, spesso non si ravvisa molto altro degno di nota. Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le “battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche. La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà, isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra. Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità – acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto che essa sia condivisa. Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche, spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili. Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo. Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile. È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere la nostra energia e il nostro impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni. Non mandrie, ma gruppi di affini. Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si occupi di quelle. Un anarchico
Approfondimenti
Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. Sun Tzu, L’arte della guerra «Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18 marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE). Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150 miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei, ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano (anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda) dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare? Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta 2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod, sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire 2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer, lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko (Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa 13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness (cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari, con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo, equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital” degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania, tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni) lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose, indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato controllato da nessuno. Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali: quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli controllato dallo Stato turco. Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche. Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente questi obiettivi. Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari, aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo sfruttamento dei fondali di questo pelago. L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro. Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il 99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400 cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare, capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse, tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo (genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e, soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”, ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi (sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo (dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali (come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan, Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya). Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità, purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia. Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante, invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo più», commenta un tassista di Bucarest. Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e borghesie europee con la classe dominante statunitense. “Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico. Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e, paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea. Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump). L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e Ungheria. Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi, accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”, e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta” sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4 anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico) fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed energetico. L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati Uniti. I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico: il padronato mandarino. La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese, che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia, si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran. Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra Stato indiano e statunitense. La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese (fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale. Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe. Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle rotte che attraversano il Mar Artico. La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi, statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci. Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a che fare con un fattore: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”. La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal militarismo statunitense. L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino. Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari. Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati “materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio. Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della pesca di Nuuk. La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese. La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di risorse ittiche e minerali rari. Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico, coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che «puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali sottomarine». La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane? Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo. L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5% del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti che articolano il riarmo europeo. Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può essere alle porte. Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere. «Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori. E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati, ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
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Un lavoretto da portare a termine. Sul 41-bis
Riceviamo e diffondiamo: Qui l’articolo in pdf: Un lavoretto da portare a termine Un lavoretto da portare a termine All’inizio del mese di luglio (2025) il tribunale di sorveglianza di Roma ha rinnovato l’applicazione del regime detentivo 41-bis a Marco Mezzasalma. Marco è stato arrestato nel 2003 ed in seguito condannato all’ergastolo per le azioni dell’organizzazione di cui faceva parte: le Brigate Rosse per la Costituzione del Partito Comunista Combattente. Le più note azioni di questa organizzazione armata furono l’eliminazione di Massimo D’Antona, presidente della commissione tecnica per la redazione di un testo unico per la disciplina del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni del governo Amato, e di Marco Biagi, consulente del ministro del welfare Roberto Maroni per l’elaborazione della riforma del mercato del lavoro. Entrambi i giuslavoristi erano impegnati nella trasformazioni dei rapporti di sfruttamento per renderli idonei all’affermazione del modello economico neoliberista. Marco Mezzasalma, come altri due membri della sua organizzazione Nadia Lioce e Roberto Morandi, è soggetto al 41-bis da oltre vent’anni, periodo in cui l’applicazione del regime speciale gli è stata costantemente rinnovata. Il 41bis prevede la reclusione in istituti appositamente dedicati; l’isolamento; l’assenza di spazi comuni; limitazioni all’accesso all’aria e la gestione delle sezioni unicamente da parte di corpi speciali della polizia penitenziaria (GOM); la limitazione dei colloqui e l’utilizzo di vetri divisori; la censura della posta e forti limitazioni alla possibilità di studio; la totale impossibilità di comunicare con l’esterno. Si tratta quindi di una forma di detenzione finalizzata all’annientamento fisico, mentale e politico del detenuto. Dalla data del 2 marzo 2023, in cui si verificò il conflitto a fuoco che portò alla morte del combattente Mario Galesi e di un agente della PolFer, alla cattura di Nadia Lioce, ed al successivo arresto di altri membri del loro gruppo, l’esistenza dell’organizzazione PCC non si è più manifestata. Quindi è palesemente inesistente il presupposto legale per cui viene applicato il 41-bis ai tre compagni, cioè recidere i contatti tra il detenuto e l’organizzazione all’esterno, mentre è altrettanto evidente la sua non dichiarata funzione punitiva. L’accanimento con cui viene prorogato il 41-bis sembra quindi essere l’esercizio della vendetta e dell’odio di classe della borghesia verso chi ne ha messo in discussione il potere; ed essere inoltre un castigo esemplare attraverso cui si sottopone un corpo a condizioni estreme per lanciare un monito a molti altri: che sappiano cosa li potrebbe aspettare se la loro rivolta superasse determinati limiti. Il 41-bis si manifesta come sospensione (delle regole previste dall’ordinamento penitenziario), si tratta quindi dell’instaurazione dello stato di emergenza all’interno delle carceri, cioè di una misura di carattere eccezionale e provvisorio prevista per gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza. Nei fatti, una volta introdotta, questa misura di governo delle carceri è stata normalizzata e la sua applicazione progressivamente estesa: l’eccezione è divenuta la regola. Infatti il 41-bis, che riprende il percorso del carcere speciale (una storia sia europea che specificamente italiana legata alla repressione dell’insorgenza rivoluzionaria degli anni 70), è stato inizialmente introdotto a tempo determinato negli anni 80, ma successivamente la sua applicazione è stata costantemente prorogata ed infine è diventata stabile nell’ordinamento penitenziario. Inoltre il limite di tempo per il quale un detenuto può esservi sottoposto è stato prolungato da due a quattro anni. Ma soprattutto, per quanto riguarda la durata, è importante rilevare che le istituzioni preposte ad amministrare questa misura – la cui applicazione, dato il suo elevato livello di afflizione, era appunto prevista per periodi limitati – hanno assunto nella maggior parte dei casi la decisione di rinnovarla costantemente, ed in sostanza automaticamente, facendola diventare una pesante pena accessoria che, per molti detenuti, accompagna l’intera durata della reclusione. Questa è una grave responsabilità politica di chi gestisce il 41-bis, cioè in primo luogo del Ministro della Giustizia in carica e del tribunale di sorveglianza di Roma, ma evidentemente, risalendo l’ordine gerarchico, anche del presidente del consiglio e del presidente della repubblica che avrebbero il potere di porre fine a questa situazione disumana. Infine il 41-bis, originariamente utilizzato per contrastare “l’emergenza mafia”, dal 2002 è diventato uno strumento di repressione politica, e vi possono essere sottoposti gli accusati di delitti commessi con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Inoltre 41-bis si è esteso nello spazio, facendo dello Stato italiano un punto di riferimento per le politiche repressive in campo internazionale. Infatti recentemente questo modello detentivo, sperimentato in Italia, è stato proposto e preso in considerazione dalle amministrazioni dei sistemi carcerari cileno e francese. Il principale argomento utilizzato per giustificare il carcere duro è la sua utilità nel contrastare la mafia, conseguenza della diffusa quanto reazionaria ideologia antimafia. Essere contro la mafia non vuol dire essere favorevoli al carcere duro, ad esempio gli anarchici sono contro la mafia, perché qualsiasi mafia è un sistema fondato sulla gerarchia, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento e quando lo scontro tra le classi si accende si dimostra fedele alleata dei capitalisti e dello Stato, ma allo stesso tempo gli anarchici sono per la distruzione del carcere. Basterebbe conoscere la storia degli anarchici di Africo in Calabria, della loro lotta contro la ‘ndrangheta e di come lo Stato li abbia repressi per favorire l’insediamento delle Cosche, per fugare qualsiasi dubbio in merito a questa irreversibile inimicizia, messa recentemente in discussione dalle vergognose insinuazioni del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Non pretendiamo rappresentare l’opinione di tutti ma, limitandoci alle idee di chi scrive, riteniamo che l’esistenza della mafia sia indissolubilmente connaturata all’ingiustizia insita nel sistema capitalista e che quindi solo tramite la distruzione di questo sistema si potrà estinguerla. Il carcere duro invece non risolve nulla in questo senso, infatti non solo la logica punitiva ed il carcere duro non hanno evidentemente sconfitto la mafia, ma l’antimafia ha creato nuove concentrazioni di potere e rafforzato la parte più profonda e totalitaria dello Stato. Rigettiamo totalmente quindi la logica punitiva insita nella concezioni giustizialiste, tanto di destra quanto di sinistra, che arrivano a fare presa perfino in ambiti che si definiscono libertari. Questa visione, strettamente legate al pensiero dominante, si concentra sulle responsabilità individuali di fenomeni ritenuti criminali o nocivi per la società, rifiutandosi di indagarne le cause. Ragionando in questi termini i conflitti interni alla società vengono letti come un problema di legalità e la soluzione è sempre la repressione. Invitiamo a ribaltare completamente questo paradigma ed a considerare che si possono risolvere i problemi di una società solo analizzandone e comprendendone le cause originanti ed andando a ad agire su di esse. La lotta di classe quindi è l’unica soluzione possibile per avere giustizia, per un vero cambiamento della società, e anche per sconfiggere la mafia. Il 41-bis va chiuso perché è tortura, è il carcere nella sua massima espressione, e la sua funzione antimafia non lo giustifica. Inoltre il 41 bis va chiuso perché è uno strumento di guerra, pronto per per essere usato dallo Stato contro chiunque osi metta in discussione l’ordine che domina la società in cui viviamo. In un periodo di relativa pace sociale, lo Stato si è dotato di una serie di potenti strumenti repressivi, che vanno dall’apice del 41-bis, fino arrivare al decreto sicurezza approvato quest’anno. Questi strumenti non sono scollegati tra loro, ma andrebbero letti come un sistema complessivo che abbraccia l’intero spettro delle pratiche con cui si esprime il conflitto sociale, mirando a impedirgli qualsiasi possibilità di espressione che non sia totalmente sterile o recuperabile. Oggi che il pluridecennale periodo di dominio incontrastato del capitalismo occidentale è giunto al termine e sul suo orizzonte si addensano pesanti nubi che portano tempesta, il rapporto tra conflitto sociale e repressione è di stringente attualità. Segnaliamo alcune importanti questioni, che comportano l’aumento della repressione, quali la fine del mondo unipolare e la ridefinizione degli equilibri internazionali, quindi la guerra come questione fondamentale del presente e quindi la necessità di mantenere un rigido controllo del fronte interno. Altra importante questione è la diminuzione costante della richiesta di forza lavoro all’interno dell’occidente, dovuta ad una somma di cause tra cui l’introduzione di nuove tecnologie, che porta all’esistenza di masse umane eccedenti rispetto alle esigenze del capitale, quindi alla necessità per chi detiene il potere di gestirle: l’aumento di repressione e controllo è la soluzione che è stata adottata. Il 41-bis è un carcere di guerra, è la punta di diamante di questo guerra di classe dall’alto verso il basso, uno strumento che oggi è rivolto conto pochi combattenti ma che è a disposizione dello Stato qualora dovesse allargarsi il conflitto. Lo sciopero della fame intrapreso dal compagno anarchico Alfredo Cospito per l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo ostativo, ha avuto il grande merito di fare prendere coscienza a molti, anche al di fuori del movimento, della inaccettabile esistenza del 41 bis. Questa iniziativa è stata sostenuta da una campagna di solidarietà internazionale. In previsione della decisione su un eventuale rinnovo del regime speciale di detenzione al compagno, che verrà presa dal ministro della giustizia Carlo Nordio nei prossimi mesi, è giunta l’ora di riprendere la discussione e la mobilitazione in merito a questa lotta. Un lavoro iniziato bene che dobbiamo ancora concludere… complici e solidali
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