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Voci dalla rivolta in Indonesia
Traduciamo dal sito statunitense it.crimethinc.com questo interessante rapporto sulla sollevazione in Indonesia e sul ruolo che vi ha giocato il movimento anarchico. VOCI DALLA RIVOLTA IN INDONESIA AFFAN KURNIAWAN CONTINUA A VIVERE NELLE STRADE Un’ondata di proteste è esplosa in tutta l’Indonesia alla fine di agosto 2025. In questo rapporto, presentiamo un’intervista con uno scrittore anarchico indonesiano incarcerato, insieme a varie dichiarazioni di gruppi anarchici che sono giunte alle testate di lingua inglese dall’inizio della rivolta. Dopo settimane di proteste in tutta l’Indonesia in risposta alle misure di austerità, la settimana del 25 agosto i dimostranti si sono radunati in massa per accusare l’élite politica indonesiana di disprezzo verso la gente e corruzione. Il governo indonesiano eroga ai rappresentanti parlamentari uno stipendio mensile di 100 milioni di rupie (circa 6.081 dollari), ovvero circa 30 volte lo stipendio minimo di Giacarta, dove si registrano gli stipendi più alti del Paese. La rabbia è esplosa quando sono circolate voci secondo cui i rappresentanti ricevevano 50 milioni di rupie in più al mese come indennità di alloggio. La notizia è stata diffusa in un periodo di forte inflazione, una nuova tornata di misure di austerità e un peggioramento della povertà. Sindacati, anarchici, studenti, esponenti della sinistra, giovani e altri manifestanti hanno riempito le strade la settimana del 25 agosto. Hanno subìto una dura repressione da parte della polizia al servizio dell’attuale presidente, Prabowo Subianto, che in precedenza ha ricoperto la carica di ministro della Difesa. Il 28 agosto, un’auto blindata della Brigata Mobile della Polizia Nazionale ha investito e ucciso Affan Kurniawan, un fattorino di 21 anni che si stava recando a consegnare del cibo. In risposta all’omicidio di Affan, fattorini, anarchici e giovani di diverse etnie si sono ribellati. I dimostranti hanno saccheggiato diverse stazioni di polizia, bruciato e saccheggiato le case dei politici e dato alle fiamme edifici governativi. Questa situazione ha costretto il primo ministro a saltare il vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) cinese. Il governo ha suggerito di tagliare alcuni dei benefici concessi ai politici e alcune delle misure di austerità che hanno scatenato la rivolta. Tuttavia, il presidente Prabowo Subianto ha raddoppiato la repressione e ha chiamato l’esercito, causando almeno sei morti, tra cui uno studente picchiato a morte dalla polizia a Yogyakarta, Giava, e un conducente di risciò morto per esposizione a gas lacrimogeni a Solo, Giava. Il bilancio completo delle vittime rimane sconosciuto. Governata dal colonialismo olandese fino al 1949, l’Indonesia rimane profondamente polarizzata, con enormi disparità di risorse e potere; negli anni ‘60, le violenze contro membri e presunti simpatizzanti del Partito Comunista Indonesiano (PKI) costarono almeno centinaia di migliaia di vite. Il movimento anarchico contemporaneo emerse alla fine degli anni ‘80, grazie anche all’impegno delle band punk. La polizia istituì una divisione “anti-anarchia” nel 2011 e, in molteplici episodi, coloro che erano percepiti come anarco-punk furono rapiti e incarcerati in campi di rieducazione approvati dallo Stato. Ciononostante, il movimento anarchico ha continuato a crescere malgrado le avversità. Con una repressione statale senza precedenti in atto in tutto il pianeta, le coraggiose azioni dei ribelli in Indonesia sono di profonda ispirazione per coloro che rifiutano l’ordine mondiale capitalista. I manifestanti in Indonesia hanno segnalato diverse forme di repressione delle comunicazioni digitali, che probabilmente si intensificheranno se il conflitto continuerà a intensificarsi. Ci auguriamo che questo rapporto preliminare possa attirare l’attenzione sulla situazione, incoraggiando le persone in tutto il mondo a informarsi di più e ad agire in modo solidale. Affan Kurniawan non sarà dimenticato, né i suoi assassini perdonati. Solidarietà con i coraggiosi che lo stanno facendo nelle strade. Anarchici solidali con la rivolta indonesiana UNA CONVERSAZIONE CON IL PRIGIONIERO ANARCHICO E SCRITTORE BIMA Bima è uno scrittore, traduttore e ricercatore indipendente anarchico indonesiano, in carcere dal 2021. È ancora attivo dietro le sbarre come membro di una federazione anarchica. È anche il fondatore della casa editrice autoprodotta Pustaka Catut e autore del libro Anarchy in Alifuru: The History of Stateless Societies in the Maluku Islands, pubblicato da Minor Compositions. Puoi sostenere Bima tramite Patreon e scoprire di più su una campagna FireFund precedentemente attiva a loro favore. Abbiamo condotto questa intervista con Bima nei primi giorni di settembre 2025. Come vorresti presentarti? Sono uno scrittore, un prigioniero e un membro di una federazione anarchica che ha scelto di rimanere anonimo per motivi di sicurezza in questo momento spaventoso. Puoi fornire qualche informazione di contesto sulla rivolta attuale? Questa ondata di ribellione, iniziata a fine agosto 2025, è stata causata dall’accumulo di rabbia per varie questioni politiche ed economiche. Non c’era un problema unico. Ma tutto è degenerato a causa dei massicci aumenti delle imposte sulle case in tutta la regione, dovuti al deficit di bilancio del governo. Allo stesso tempo, i parlamentari hanno ricevuto un aumento di stipendio decuplicato. La situazione è stata aggravata dalle dichiarazioni spesso faziose dei funzionari. Ad esempio, il Reggente di Pati (il politico responsabile della supervisione del governo locale, delle politiche e dei servizi pubblici nella Reggenza di Pati, Giava Centrale, Indonesia) ha dichiarato: “Le tasse non saranno ridotte, nemmeno se si terrà una manifestazione di massa di 50.000 persone”. Pati è stata la prima città a esplodere, con un’affluenza di circa 100.000 persone il 10 agosto 2025. Le proteste contro l’aumento delle tasse si sono estese a Bone (nella provincia di Sulawesi Meridionale), poi ad altre città. Durante una manifestazione del 28 agosto a Giacarta, un fattorino di un’app di consegna di cibo online è stato ucciso dopo essere stato investito da un veicolo della polizia durante le proteste. Il giorno seguente, le manifestazioni si sono estese a molte città e continuano ancora oggi, mentre vi scrivo. Finora, almeno sei civili sono stati uccisi direttamente a causa della repressione della polizia, diverse abitazioni di funzionari sono state saccheggiate e una mezza dozzina di uffici della Camera dei Rappresentanti sono stati parzialmente o interamente incendiati. Eravamo convinti che questa ribellione si sarebbe placata, ma non è stato così. Quali tipi di gruppi sono stati coinvolti nella rivolta? E in che misura sono uniti? Sono numerose le organizzazioni, le reti e i gruppi che formulano richieste. Si potrebbe persino dire che ogni città ha le sue esigenze specifiche. In generale, le richieste “rivoluzionarie” sono due: la prima, proveniente dal Partito Socialista Indonesiano, Perserikatan Sosialis (PS), e l’altra, una rete informale e decentralizzata che ha emanato la Dichiarazione della Rivoluzione Federalista Indonesiana 2025, che chiede lo scioglimento dello Stato unitario e del sistema della DPR (Camera dei Rappresentanti indonesiana) e la sua sostituzione con un Confederalismo Democratico composto da migliaia di consigli popolari per l’attuazione della democrazia diretta. Ahmad Sahroni, membro della Camera dei Rappresentanti (DPR) del Partito Democratico Nazionale (NasDem), ha definito queste richieste “stupide”. Ciò ha portato all’attacco e al saccheggio della sua casa a Giacarta Nord il 30 agosto. Gli anarchici insurrezionalisti, gli individualisti e i post-sinistra si concentrano su attacchi e scontri di piazza, invocando la distruzione dello Stato e del capitalismo, ma senza preoccuparsi di una piattaforma o di un programma di rivendicazioni che si limitino a chiedere la riforma di ciò che già esiste. In genere non esiste un fronte unito, ma evitiamo un eccessivo settarismo ideologico. Purtroppo, ci sono anche liberali progressisti con richieste più riformiste, come la richiesta 17+8 (uno slogan attivista “pro-democrazia” che chiede che le richieste riformiste siano soddisfatte entro il 5 settembre 2025). Questo gruppo è fortemente influenzato dagli influencer liberali online che esortano a porre fine alle proteste. Questi influencer si sono spinti fino a sostenere che i manifestanti saranno ritenuti responsabili se l’esercito dichiarasse la legge marziale a causa della resistenza dimostrata nelle strade (tipico gaslighting centrista di recupero e demonizzazione della resistenza e delle organizzazioni rivoluzionarie). Fortunatamente, tutti gli elementi di sinistra e anarchici concordano sul fatto che le proteste dovrebbero intensificarsi. Non sappiamo ancora cosa accadrà, poiché questa guerra dei discorsi è ancora in corso. Onestamente, ci sono troppi gruppi coinvolti nella rivolta per offrire una risposta semplice. L’intero movimento di sinistra e anarchico di varie organizzazioni è sceso in piazza, ma non c’è stato un fronte unito. In ogni città, elementi progressisti della società, che si trattasse di studenti universitari, sindacati o persino studenti, hanno consolidato le loro azioni. Alcune azioni sono state spontanee e sono emerse come iniziative comunitarie non coordinate, come gli attacchi a posti e stazioni di polizia, in cui diversi di essi sono stati bruciati. In che modo gli anarchici contribuiscono alla rivolta? Sono un pessimista rivoluzionario, influenzato dal discorso dell’anarco-nichilismo. Ma continuo a sostenere la rivoluzione sociale perché non esiste uno spazio sociale vuoto. L’Indonesia è l’arcipelago più multiculturale del mondo, con migliaia di etnie e lingue. In alcune regioni sta emergendo un discorso separatista. Alcuni nobili di antiche monarchie spingono per il revivalismo. Ci sono anche fondamentalisti islamici autoritari e jihadisti che vogliono un califfato nel Paese. Quindi penso che sia impossibile per i rivoluzionari non offrire il loro programma come alternativa a tutte queste pessime possibilità. L’ondata di ribellione è un sintomo dell’imminente grande divisione, e gli anarchici devono assumere un ruolo. Altrimenti, le scelte sono pessime. Molto pessime. Cosa pensi che succederà con questa rivolta? E cosa vedi per il futuro del movimento anarchico in Indonesia? Sono pessimista al riguardo. Ci siamo affermati in diverse città, ma nel complesso siamo relativamente deboli, anche se fondamentalmente siamo piuttosto militanti. Siamo influenzati dall’approccio uruguaiano dell’Espesifismo, che prevede un’organizzazione a due livelli. Ciò significa che oltre ad aderire a organizzazioni politiche, aderiamo anche a movimenti di base come sindacati, organizzazioni studentesche, organizzazioni indigene e così via. Utilizziamo ancora la definizione classica di rivoluzione, ma per realizzarla è necessaria una solida base organizzativa popolare. Nonostante ciò, le recenti rivolte si sono ripetute come un ciclo dal 2019. Questo ci entusiasma perché significa che dobbiamo impegnarci per tenere il passo con le rivolte popolari e la volontà delle masse. Ma dobbiamo crescere e aumentare la nostra militanza per rimanere al passo con il ritmo della rabbia popolare. Non credo che ci saranno riforme a meno che non ci sia un violento rovesciamento del potere e il potere in carica non prometta riforme. L’attuale classe dirigente ha formato una coalizione gonfia che abbraccia tutta la sua precedente opposizione e “dà loro una fetta della torta”. Finora, siamo gli unici membri della rete antiautoritaria informale e decentralizzata a chiedere la rimozione del presidente e del vicepresidente. Il problema è che non c’è stata alcuna richiesta per la loro rimozione. Quindi, la riforma richiederà ancora tempo e una rivoluzione anarchica è impossibile a causa delle debolezze organizzative e dell’assenza di sindacati progressisti in grado di condurre uno sciopero nazionale. Tuttavia, la richiesta spontanea del popolo di sciogliere il parlamento attraverso l’hashtag #bubarkanDPR [“sciogliere il DPR”], il coinvolgimento di una massa più eterogenea di persone nelle proteste (l’Indonesia è nota per aver romanticizzato l’avanguardismo studentesco nel 1965 e nel 1998) e l’uso della violenza, rappresentano un progresso che sarebbe stato inimmaginabile un decennio fa. Gli anarchici hanno svolto un ruolo cruciale in questo. Tuttavia, personalmente non credo che il movimento anarchico porterà a una rivoluzione anarchica, anche se ne esistesse l’opportunità. Ma potrebbe esercitare un’enorme influenza libertaria attraverso un fronte unito che operi all’interno di gruppi consolidati. Ad esempio, la proposta di un confederalismo democratico rivoluzionario, che è in realtà in linea con le proposte anarchiche classiche, verrebbe probabilmente accettata dall’intero spettro dei movimenti di liberazione nazionale di sinistra e separatisti esistenti in alcune regioni. Forse. Anche le proteste del 2020 contro la Legge Omnibus sono state significative, ma la rivolta di quest’anno è la più sanguinosa, la più devastante e la più coinvolgente (abbiamo assistito a un notevole grado di radicalizzazione tra elementi della società). Non ha ancora superato l’escalation vista durante la caduta del regime militarista di Suharto nel 1998. Tuttavia, sono fiducioso che ciò possa accadere presto. Purtroppo, da ieri vi avverto che quando arriverà il momento atteso, non saremo pronti per la rivoluzione, anche se risponderemo principalmente partecipando a battaglie di strada. ALTRE VOCI DALL’INDONESIA Oltre all’intervista con Bima, il 2 settembre abbiamo ricevuto il seguente resoconto da Reza Rizkia a Giacarta: L’ondata di manifestazioni iniziate il 25 agosto 2025 in tutta l’Indonesia continua a dispiegarsi, lasciando dietro di sé una scia di tragedia e disordini. Quella che è iniziata come una protesta contro la proposta di un sussidio mensile di 50 milioni di rupie per l’alloggio dei parlamentari si è trasformata in un movimento nazionale con richieste più ampie: la valutazione delle prestazioni parlamentari, la riforma della polizia e la fine dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza. Il 28 agosto, le tensioni sono aumentate dopo che un tassista motociclista, Affan Kurniawan, è stato investito e ucciso da un veicolo tattico della Brigata Mobile (Brimob) a Bendungan Hilir, Giacarta. Le immagini dell’incidente si sono diffuse rapidamente sui social media, scatenando proteste di solidarietà da parte di studenti e comunità di autisti delle piattaforme. La tragedia ha segnato un punto di svolta, amplificando la portata delle manifestazioni sia nella capitale che in tutto il Paese. La violenza si è presto estesa ad altre grandi città. A Makassar, i manifestanti hanno dato fuoco al palazzo del parlamento regionale (DPRD), uccidendo tre membri dello staff rimasti intrappolati all’interno. A Solo, un conducente di risciò di nome Sumari è morto negli scontri, mentre a Yogyakarta, lo studente Rheza Sendy Pratama è stato ucciso durante una manifestazione davanti al quartier generale della polizia regionale. Un’altra vittima, Rusmadiansyah, un conducente di risciò, è stato picchiato a morte dalla folla dopo essere stato accusato di essere un agente dei servizi segreti. Alcuni rapporti indicano anche altre vittime, tra cui uno studente di una scuola professionale a Pati. In totale, almeno sette-otto persone hanno perso la vita durante i disordini fino alla fine di agosto. Il governo ha risposto con le condoglianze. Il presidente Prabowo Subianto ha ordinato un’indagine aperta, mentre il capo della polizia nazionale e il capo della polizia di Giacarta hanno rilasciato pubbliche scuse per le vittime. Sette agenti della Brimob collegati alla morte di Affan Kurniawan sono stati arrestati e devono affrontare procedimenti legali. Tuttavia, la rabbia pubblica non accenna a placarsi. Al 2 settembre, le manifestazioni sono ancora in corso in diverse regioni con intensità sostenuta. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nell’ultima settimana, raggiungendo il picco il 29 agosto, quando oltre 1.300 persone sono state arrestate in un solo giorno. Allo stesso tempo, l’Alleanza dei Giornalisti Indipendenti (AJI) ha segnalato casi di violenza e ingerenze ai danni dei giornalisti che seguivano le proteste. Le manifestazioni di fine agosto segnano una delle più grandi ondate di protesta degli ultimi anni in Indonesia. Con il bilancio delle vittime in aumento, gli arresti di massa e i danni diffusi alle proprietà, l’opinione pubblica ora si chiede se il governo e il parlamento risponderanno alle richieste dei cittadini con riforme concrete, o se rischieranno di aggravare ulteriormente la crisi. Quando la rivolta iniziò a fare notizia a livello internazionale, anarchici anonimi scrissero diverse dichiarazioni descrivendo la situazione dal loro punto di vista, usando lo pseudonimo di “Arcipelago di Fuoco”. Volevamo includere anche le loro voci. 25 agosto 2025 “Giacarta non appartiene più alle élite corrotte. Migliaia di persone provenienti da ogni angolo del Paese hanno preso d’assalto la capitale. Questa non è solo una protesta, è un’esplosione collettiva di rabbia contro l’aumento delle tasse sulla casa, la corruzione senza fine e i cani poliziotto militari dello Stato. Dall’alba a mezzanotte, le strade si trasformano in un campo di battaglia di sfida. Urla, fuoco e pietre diventano il linguaggio della furia della gente. “Questo non è uno spettacolo di marionette delle élite; è rabbia pura, incontrollata, senza guida e impossibile da controllare”. 29 AGOSTO 2025 “I giovani arrabbiati si stanno ribellando, spinti dall’aumento delle tasse e da un esercito repressivo. Non c’è organizzazione; l’insurrezione è guidata da giovani anarchici, nichilisti e incontrollabili. Molti giovani anarchici delle associazioni studentesche delle scuole superiori vengono arrestati. Gli studenti delle scuole superiori sono l’energia. Circa 400 di loro sono stati arrestati il 25 agosto, secondo quanto riportato. La maggior parte delle azioni è coordinata in diretta sui social media. Di solito, qualche sindacato liberale o partito di opposizione controlla le narrazioni, ma non questa volta. Persino i media mainstream riconoscono che i social media sono la fonte della documentazione. I politici non possono più controllare le narrazioni. È tradizione da decenni che i corpi studenteschi esecutivi siano normalmente gli istigatori di questo tipo di manifestazioni, ma ogni anno questi mediatori vengono smascherati. Dagli studenti stessi. Ecco perché ONG, sindacati, “anarchici civili” e associazioni studentesche di sinistra e di destra odiano la fazione anti-organizzativa. “Che vadano tutti a quel paese. Noi stimoliamo i giovani ad agire da soli. “Gli individui non sono più spaventati dal dovere ideologico, dalle norme e da tutti quei valori esterni. “Ieri sera (28 agosto 2025), la polizia ha ucciso una persona. Sono scoppiate rivolte in tutto il paese contro l’aumento delle tasse. In diverse città, la rivolta è stata spontanea e auto-organizzata. L’immagine pubblica della polizia continua a sgretolarsi, mentre la gente sostiene i rivoltosi. Alcune cellule hanno coordinato altre azioni e i proclami nichilisti-insurrezionalisti stanno dominando la narrazione. “Account anonimi sui social media con migliaia di follower invocano un’insurrezione antipolitica. Ogni giorno, fanno proclami e forniscono spiegazioni convincenti. “I sindacalisti hanno annunciato che sarebbero scesi in piazza e che ‘non ci sarebbero state rivolte’, ma i giovani e i rivoltosi li hanno subito presi in giro sui social media. Lasciamo fare ai giovani. Possiamo solo stimolarli a essere più incontrollabili. Di notte, internet è andato a rotoli. Mentre gli “anarchici civili” chiedono consigli popolari, noi chiediamo di mandare tutto all’aria. Forniamo solo coordinamento di rete e dati tecnici per l’azione di strada. Non organizziamo mai veramente le persone. “A partire da venerdì 29 agosto, gli anarchici controllano sostanzialmente la narrazione. La gente sta rispondendo a livello nazionale all’appello per attaccare le stazioni di polizia e la polizia stessa. I mass media hanno perso il controllo dell’informazione e delle notizie. “La nostra rete continua a invocare vendetta dopo l’omicidio della polizia di ieri sera, e la situazione si fa sempre più critica. Le cellule sono nelle strade. “Si può vedere la rivolta su vari organi di informazione, anche se i video migliori si trovano solo sui social media”. Arcipelago di Fuoco “Questo va oltre le nostre previsioni. Di solito, durante una manifestazione, i manifestanti si limitavano a lanciare pietre o a bruciare uno pneumatico davanti all’ufficio. Non hanno mai fatto irruzione nell’edificio per dargli fuoco”. Anarchici anonimi in Indonesia
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Terrorizzare e reprimere (da disfare 2)
Diffondiamo un articolo pubblicato sul secondo numero di disfare. Ricordiamo che è possibile ordinare copie del secondo numero scrivendo a disfare@autistici.org (al prezzo di 4 euro a copia, 3 euro per i distributori dalle 3 copie in su). Scarica l’articolo in formato pdf: disfare_2_terrorizzare_e_reprimere Terrorizzare e reprimere Per dispiegarsi compiutamente e senza remore di sorta, la forza coercitiva dello Stato democratico necessita di argomentazioni almeno parzialmente plausibili e condivisibili da parte della cosiddetta “opinione pubblica”. Queste si basano spesso sul rovesciamento semantico di determinati concetti, affinché la carica negativa scaturente dal rovesciamento di tali elementi ricada interamente sull’individuo o sul gruppo da reprimere. È il caso, ad esempio, del concetto di “terrorismo”. A dispetto della sua origine, ancora oggi pietrificata nella stessa radice della parola (terror), esso oggi ha poco a che vedere con l’imposizione del terrore sulla popolazione, ma sembra piuttosto riguardare il terrore che gli Stati hanno delle popolazioni e degli individui. Rovesciamenti semantici Il termine “terrorismo” venne coniato a partire dall’esperienza del Regime del Terrore, instauratosi nella Francia del 1793, a forza di teste ghigliottinate secondo le decisioni del Comitato di Salute Pubblica, organo del governo giacobino allora in carica. I neologismi francesi terrorisme e terroriser, creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col significato – tuttora attestato nei vocabolari – di «azione del potere politico di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza»[1].   Formalmente ristretto a un periodo di emergenza, il terrore per sua natura tende ad eternarsi e a divenire definitivo, senza possibilità di mutamento, con una crescita esponenziale di eccessi e di atti di barbarie. Si tratta in sostanza di un sistema tirannico che agisce contro il popolo, spargendo trappole per insidiare ogni passo del cittadino, introducendo una spia in ogni casa, un traditore in ogni famiglia, un assassino in ogni tribunale. Questo sistema è perciò un’arte, «l’arte del terrore», praticata da un potere arbitrario e fortemente concentrato nelle mani di poche persone. Per questa ragione, il terrore si attaglia meglio a una monarchia, ma in verità può essere praticato anche da una repubblica: in questo secondo caso, tuttavia, esso si dimostra ben peggiore, perché rende il popolo indifferente alla libertà e anzi la fa odiare. Il risultato consiste comunque ineluttabilmente nel dividere l’intera società in due classi distinte: una minoranza persecutrice che fa paura e una maggioranza perseguitata che ha paura. Si delineava così, per la prima volta, una fondamentale presa d’atto: l’esistenza di una divaricazione tra il fine dichiarato del terrore, ossia punire talune persone o certi gruppi ritenuti colpevoli di attentare al regime o alla vita sociale, e il fine vero, scientemente attuato, quello di controllare, mediante la paura, l’intera società[2]. L’origine del concetto di terrore e terrorismo, dunque, tradisce chiaramente il fatto di riferirsi ad un metodo di governo, adottato da un regime politico costituito, rivolto alla repressione del dissenso e al controllo sociale. È quindi connaturato allo Stato stesso. Col passare degli anni, un capovolgimento semantico avvenne con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono dello stigma legato all’impiego del termine terrorismo contro quelle popolazioni asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di sterminio e depredazione delle risorse. In alcuni casi l’accusa di terrorismo aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne in Namibia per la popolazione Herero trucidata dall’esercito tedesco[3]. Dietro a simili azioni, in cui l’intera popolazione, senza alcuna distinzione tra, ad esempio, combattenti e civili, veniva colpita, stava la concezione e teorizzazione di una modalità di conflitto integrale ed assoluto. Una modalità che con la prima guerra mondiale diventerà prassi. Nel 1914, il generale e teorico militare tedesco Colmar von der Goltz (all’epoca più letto di Clausewitz), nominato governatore del Belgio, sostenne con chiarezza la necessità di punire esemplarmente gli atti ostili «non solo per la colpa ma anche per l’innocenza», inaugurando la consuetudine di colpire per chilometri i villaggi e i luoghi abitati attorno alla zona di un attentato. Sorte analoga spettò ai Mau Mau in Kenya, massacrati dagli inglesi durante gli anni ’50 del secolo scorso. Col pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso sistematico dell’elettrochoc. Anche il colonialismo italiano non fu da meno nel dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come nei Balcani. A tal riguardo, possiamo di sfuggita segnalare il processo del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tenutosi nel 1940 contro 60 sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo con finalità terroristiche in quanto partecipanti «ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato». Col trascorrere del tempo, dunque, i diversi Stati europei operarono un progressivo rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, che da metodo di governo utilizzato verso i governati si trasformava in metodo di lotta adottato dai governati stessi contro le istituzioni e i suoi funzionari. Ne rappresenta un emblematico esempio la definizione adottata dalla Convenzione per la prevenzione e repressione del terrorismo, elaborata a Ginevra nel 1937, secondo cui sono terroristici: «i fatti criminali diretti contro uno Stato e i cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate personalità, gruppi di persone o il pubblico». Dal terrore generalizzato della popolazione, sotteso alla nozione primigenia di terrorismo, allo spavento di qualche personaggio c’è evidentemente un abisso, eppure in questa definizione il terrore di determinate personalità e quello del pubblico sono considerati equivalenti. È poi particolarmente significativo che tale definizione sia stata coniata proprio nel medesimo anno in cui la cittadina basca di Guernica fu sottoposta a un bombardamento a tappeto a opera dello squadrone volontario Condor della Luftwaffe (l’aviazione tedesca), supportato dall’aviazione legionaria italiana. La stampa mondiale diede da subito grande risalto all’accaduto, sottolineando il carattere terroristico dell’azione bellica condotta a sostegno delle forze franchiste in lotta contro i repubblicani, in piena guerra civile spagnola. Il corrispondente del New York Times, George Steer, mise l’accento proprio sull’intento deliberato di colpire la popolazione inerme. Scopo dell’azione era «la demoralizzazione della popolazione civile e la distruzione della culla del popolo basco». Con una simile azione, preceduta da un analogo raid distruttivo contro la vicina cittadina di Durango ad opera dell’aviazione legionaria italiana, si inaugurava l’epoca dei bombardamenti a tappeto contro la popolazione civile, una manifestazione di quella che lo stesso Steer aveva chiamato la «guerra moderna»: un modo di pensare l’attività bellica come evento totale. Una volta superata una concezione limitata della guerra come combattimento regolato fra opposte forze armate e una volta annullata la distinzione classica fra militari e civili – inevitabile corollario del graduale imporsi, a partire dagli inizi dell’Ottocento, dell’idea di Nazione – si faceva del nemico un’entità unica, da colpire in modo indiscriminato, con tutti i mezzi possibili[4]. Nonostante il progressivo rovesciamento semantico operato a livello istituzionale, l’originaria concezione del termine terrorismo riusciva comunque a mantenere talvolta una certa persistenza, senza dubbio in conseguenza del succedersi di determinati eventi e processi storici, come ad esempio il fenomeno della decolonizzazione sviluppatosi in Africa durante gli anni ’60 del Novecento[5]. Tutelare la tranquillità dei pubblici poteri Nei paesi dell’Europa Occidentale, ed in Italia in particolare, sarà nel corso degli anni ’70 ed ’80 del Novecento che si compirà il deciso e definitivo rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, con lo scopo di contrastare, da parte dell’ordine statale, l’insorgenza politica e sociale interna sviluppatasi in quel medesimo periodo. A partire da tale data, terrorista sarà sempre e solo chi svolge un’attività finalizzata ad un cambiamento radicale dell’ordine costituito, cioè tende all’eversione dello Stato. Inoltre, sarà sempre durante gli anni ’80 che il ribaltato concetto di terrorismo assurgerà come nuovo termine chiave del lessico politico statale. Infatti, con l’elezione nel 1981 alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, riprese decisamente vigore, proseguendo nel solco già tracciato da precedenti amministrazioni, l’iniziativa politico-ideologica antisovietica, sostenuta dalla tendenza ad accrescere fortemente il budget militare e ad attaccare ideologicamente l’URSS proprio mediante la denuncia del terrorismo come merce sovietica, strumento d’aggressione ai danni del «mondo libero»[6]. La sottocommissione del Senato sui problemi del terrorismo e della sicurezza fu un organo fondamentale nel processo di reificazione del terrorismo, e cioè nella produzione di discorsi finalizzati alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra. Nella retorica di quella sottocommissione, e più in generale della nuova amministrazione, il terrorismo andava concepito come un fenomeno guidato dall’alto, che promanava da Stati sponsor che lo stesso Reagan, con un termine destinato ad essere più volte ripreso in seguito, chiamò Stati canaglia. Nell’alimentare il processo di autonomia discorsiva della tematica del terrorismo, un ulteriore punto di svolta sul piano concettuale si ebbe nel 1986 con la pubblicazione del libro Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere, edito da Benjamin Netanyahu e contenente gli atti di una seconda conferenza organizzata dal Jonathan Institute di Gerusalemme, cinque anni dopo la prima. Nella sua introduzione Netanyahu descriveva la situazione politica mondiale come una lotta in corso tra civiltà e barbarie: nella comunità internazionale – osservava – c’è un sufficiente consenso circa il ruolo di URSS e OLP nel supporto al terrorismo internazionale e anche una discreta sensibilità rispetto al pericolo incarnato dalla Repubblica islamica dell’Iran, ma ciò che manca è una risposta comune ai terroristi e ai loro sponsor, a causa di un’insufficiente concettualizzazione del fenomeno. È assurdo – egli affermava – paragonare un atto terroristico con le perdite di civili in guerra: queste ultime sono prodotte da atti casuali e involontari, laddove invece nel caso dei terroristi si tratta di «scelte volute e calcolate». I terroristi di conseguenza non sono guerriglieri, soldati irregolari che combattono contro forze nemiche molto superiori, ma impuniti che attaccano obiettivi indifesi. Fu Edward Said a intuire immediatamente la portata del mutamento concettuale e d’impostazione contenuto in quelle tesi. Per Said, la definizione di Netanyahu dipendeva da un assioma a priori: «Noi non siamo mai terroristi; sono loro, i mussulmani e i comunisti che lo sono […] non importa che cosa abbiano fatto; loro lo sono e lo saranno sempre». Questa nuova visione tendeva ad obliterare la storia e la stessa temporalità, nel tentativo di «creare un nemico essenzializzato, isolato dal tempo, dalla causalità, dalle azioni compiute in precedenza e quindi a disegnarlo come ontologicamente e gratuitamente interessato a scatenare il caos». Netanyahu – osservava Said – combatte una battaglia basata su una visione del mondo che stabilisce che certi fini ideologici e religiosi richiedano determinati mezzi, tali da comportare lo sgretolamento di ogni inibizione morale. La giustificazione spuria di combattere il terrorismo legittima cioè ogni atto di violenza commesso in suo nome. Non si trattava di un mero dibattito fra intellettuali: nel 1984, al momento della rielezione di Reagan, il segretario di Stato George Shultz aveva tenuto un discorso alla sinagoga newyorkese di Park Avenue, incentrato sulla lotta al terrorismo, in cui aveva proclamato che il tempo della difesa passiva era finito. Quello che occorreva adesso era un’attiva capacità di colpire per primi e anche di esercitare pronte ritorsioni, rispondendo agli attacchi terroristici con la flessibilità necessaria, in una varietà di modalità belliche, scegliendo luoghi e tempi in cui attaccare. Forte di questa tesi, la seconda amministrazione Reagan adottò il terrorismo così inteso come nuovo nemico globale e lo considerò un incentivo per giustificare il terrore come arma di reazione. Sul piano istituzionale e formale, sarà poi la risoluzione del parlamento europeo del 30 gennaio 1997 ad adottare ufficialmente una definizione di terrorismo in linea con il già menzionato rovesciamento semantico[7].  Inoltre, nell’indeterminatezza di quali atti concreti siano terroristici, è il movente ideologico che diventa fondamentale. Non è un caso che l’elenco delle motivazioni terroristiche segua un ordine crescente di psicologizzazione: aspirazioni separatistiche, concezioni ideologiche estremiste, fanatismo, moventi irrazionali e soggettivi. In un crescendo esponenziale, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, l’Unione Europea ha avvertito l’esigenza di elaborare una disciplina sul terrorismo che imponesse maggiori obblighi agli Stati membri. Veniva così adottata la decisione quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE). Tale decisione quadro verrà recepita, ed anzi aggravata nella sua valenza repressiva, dal codice penale italiano con l’introduzione, avvenuta nel 2005, all’indomani degli attentati alla metropolitana di Londra, dell’art. 270 sexies. Anche questa definizione si orienta verso la sostanziale tutela dei pubblici poteri. Per la prima volta però essi sono tutelati non solo da un loro potenziale rovesciamento rivoluzionario, ma addirittura da possibili influenze e controversie temporanee su questioni specifiche. In ultima analisi, anche una vertenza sindacale, uno sciopero, potrebbe essere considerato come un atto terroristico contro l’ordine costituito. Il diritto internazionale, svalutando progressivamente l’elemento del terrore, ha oggi due pesi e due misure per il terrorismo non statale e per quello statale. Nel primo caso si può essere considerati terroristi persino a prescindere dall’elemento del terrore, poiché si valorizza la finalità di destabilizzazione del sistema politico statale o di contrasto di una sua specifica decisione. Nel secondo caso, il terrore ingenerato manu militari nella popolazione, attraverso ad esempio un bombardamento aereo di una città, non basta da solo a qualificare come terrorista uno Stato, perché bisogna dimostrare che tale stato di terrore fosse il movente principale dell’azione militare[8], e non un semplice effetto collaterale di tale azione, ancorché previsto e voluto. Al di fuori dello Stato, il nulla Il rovesciamento semantico del concetto di terrorismo ha quindi provocato anche il concomitante rovesciamento del termine indiscriminato. Se infatti originariamente era lo Stato che terrorizzava l’intera popolazione di un territorio attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico o ideologico, ora questi atti vengono addossati ad una parte, grande o piccola, della popolazione stessa nei riguardi dello Stato. In tal modo, lo Stato prende il posto della popolazione, sicché gli atti violenti indiscriminati risulteranno quelli diretti contro gli apparati istituzionali. Dietro ad un tale rovesciamento emerge l’assunto che la società sia un tutto organico e monolitico, ed essa coincida necessariamente con lo Stato. Si va ben oltre l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale, giungendo fino all’assorbimento ed all’assimilazione del corpo sociale nello Stato. In base a questo assunto, lo Stato diviene principio di intelligibilità di ciò che è, ma anche di ciò che deve essere. Lo Stato diviene fondamentalmente l’idea regolatrice di quella forma di pensiero, di riflessione, di calcolo e di intervento che prende il nome di politica: la politica come mathesis, come forma razionale dell’arte di governo. Per edificare e rendere evidente la razionalità e necessità dello Stato, gli si crea un mito fondante, gli si inventa una tradizione. Sarà il giusnaturalismo a fornirgliela, nel corso del XVII secolo, proprio in quello stesso arco di tempo in cui si andava sviluppando ed imponendo nelle scienze una filosofia meccanicistica[9]. Poco importa che una simile teorizzazione non abbia alcunché di reale, relativamente alla ipotizzata condizione dello stato di natura, e che un tale mito fondante non si sia mai verificato in alcun luogo ed in alcun tempo. La sua rilevanza sta nel fatto che ha avuto – ed ha – la forza di modificare e modellare la realtà stessa, imprimendo e trasmettendo valori e costumi funzionali a concetti asimmetrici quali quelli di obbedienza e dipendenza, su cui lo Stato basa la sua ragion d’essere. In tal modo, un regicidio, o una qualsiasi azione contro delle personalità o delle strutture istituzionali, non sarà più diretta a terrorizzare unicamente i regnanti e le classi dominanti, come sarebbe nelle intenzioni di chi auspica un cambiamento radicale dell’ordine sociale, bensì potrà essere ascritta quale atto terroristico indiscriminato, in quanto regnanti e classi dominanti rappresentano e coincidono con l’intera società. Addirittura, come abbiamo già avuto modo di vedere, anche una controversia su una questione specifica, tendente ad esprimere dissenso verso particolari atti riguardanti la sfera economica, politica, sociale e ambientale, come ad esempio una vertenza sindacale o l’opposizione ad un progetto infrastrutturale, potranno essere considerati come atti terroristici, perché tendenti a modificare l’ordine costituito intrinsecamente immodificabile.   D’altro canto, quale logica conseguenza dell’idea della necessità ed immutabilità dell’ordinamento statale, un bombardamento a tappeto su un territorio densamente popolato attuato da uno Stato (ogni riferimento al genocidio che si sta realizzando nella striscia di Gaza non è per niente casuale), non sarà considerato un atto terroristico indiscriminato, bensì una legittima e mirata azione di guerra. Un’azione chirurgica, come da alcuni decenni va tanto di moda designare i bombardamenti aerei sulle città, terminologia e concetto che tende a celare e porre in secondo piano i cosiddetti effetti collaterali, ossia i previsti e voluti massacri di civili, senza i quali non sarebbe possibile pervenire al reale e principale obiettivo desiderato: abbattere il morale della popolazione, ossia, ancora una volta, seminare il terrore. Nonostante tutti i rovesciamenti semantici descritti, in definitiva quella statale è la forma archetipica di terrorismo. Il terrorismo è insomma prevalentemente una pratica di governo. E ciò è sostanzialmente dovuto al fatto – come efficacemente dimostra il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff nell’opera Lo Stato e la guerra – che lo Stato, soprattutto a partire da quello formatosi nell’era moderna (XVII secolo) e nelle sue successive declinazioni quali lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale, ecc., è intrinsecamente legato alla guerra, è essenzialmente uno Stato militare, e le guerre che esso ha continuamente condotto non sono un fatto secondario, bensì fanno parte della sua vera essenza. L’apparato militare e coercitivo, strumento di guerra sia esterna che interna, è la quintessenza dello Stato. Senza tale apparato, lo Stato perderebbe la sua ragion d’essere. Non è un caso che nel 1919 il sociologo Max Weber, nel saggio La politica come vocazione, abbia descritto lo Stato come il detentore del monopolio della violenza. E questa violenza può e deve essere esercitata sia all’esterno che all’interno del territorio posto sotto il suo controllo, quindi anche – e aggiungerei soprattutto – contro i propri governati, siano essi definiti come cittadini, sudditi, schiavi, prigionieri, ecc. Per garantire la propria sicurezza, lo Stato ha bisogno di effettuare ed organizzare una sempre più capillare opera di disciplinamento dei propri cittadini al suo volere, per giungere a quell’acritico consenso generale essenziale ad ogni ordine costituito. Sorvegliare e punire, come direbbe Michel Foucault, attualmente declinato nel più consono ed effettivo terrorizzare e reprimere. Tiravento [1] Fu il deputato montagnardo Jean-Lambert Tallien, protagonista della caduta di Robespierre, nonostante fosse stato un suo funzionario incaricato dal governo giacobino della repressione a Bordeaux, in un importante discorso tenuto alla Convenzione l’11 Fruttidoro (28 agosto 1794), un mese dopo il 9 Termidoro (26 luglio 1794), a svolgere una prima analisi critica del terrore inteso non come espressione di un’unica volontà individuale, malefica e mostruosa, ma come un vero e proprio sistema di governo. Nel suo intervento Tallien (il cui discorso era stato scritto per lui da Pierre-Louis Roederer, un giurista, economista e politico moderato) asseriva che il terrore non era il prodotto dell’azione violenta di una folla in preda alle emozioni, bensì il calcolo deliberato di un governo assoluto, autocratico, che non rende conto a nessuno dei suoi atti e che minaccia sistematicamente il popolo. [2] La spirale di violenza e di paura, una volta innescata, diviene dunque pervasiva e non risparmia nessuno, neppure i membri dell’apparato repressivo, i quali diventano essi stessi prigionieri del meccanismo, consapevoli che la paura che instillano può in ogni momento rivolgersi contro di loro, e raggiungerli. [3] Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il 1904 e il 1907, scrisse: «Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento specifico.[…] L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere qualcosa di nuovo, che resterà». [4] Il terreno di coltura di una tale concezione era stata la prima guerra mondiale, ma senza dubbio essa affondava le sue radici in periodi antecedenti, soprattutto nell’esperienza coloniale tardo ottocentesca, come si è già avuto modo di accennare. Durante la guerra civile americana, in particolare, si era realizzata una sorta di circolarità fra i metodi usati dall’esercito statunitense per sconfiggere il blocco degli Stati confederati e quelli adottati per piegare la resistenza delle popolazioni “indiane” all’occupazione delle proprie terre da parte dei coloni. [5] In una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 dicembre 1972 si ribadiva solennemente «la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale», condannando «gli atti di terrorismo statale, compiuti dai regimi coloniali, razzisti e stranieri». Ed il Comitato speciale per il terrorismo internazionale, costituito con la suddetta risoluzione, affermava poi che «il terrorismo individuale è effetto di quello statale, costituendo una risposta violenta della popolazione civile alla politica statale di oppressione». [6] Tesi condivisa dal circolo più stretto dei consiglieri del presidente statunitense, tra cui vi erano esponenti di punta di una nuova generazione di politici conservatori, come Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz, capace di orientare la politica estera americana nell’epoca di Reagan e che poi sarebbe divenuta egemone al tempo delle presidenze dei Bush. [7] Questi rappresentanti dei governi occidentali, sentendosi in fondo autorizzati dal crollo dell’Unione Sovietica a teorizzare la fine delle ideologie non capitalistiche e il conseguente esaurirsi della possibilità e legittimità di qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria di cambiamento, in tale risoluzione affermavano che «costituisce atto di terrorismo ogni delitto commesso da singoli individui o gruppi attraverso la violenza o la minaccia della stessa e rivolto contro un paese, le sue istituzioni, la sua popolazione in generale o contro specifici individui, il quale, motivato da aspirazioni separatistiche, da concezioni ideologiche estremiste o dal fanatismo, o ispirato a moventi irrazionali e soggettivi, mira a sottomettere i poteri pubblici, alcuni individui o gruppi sociali o, più in generale, l’opinione pubblica ad un clima di terrore». In ultima analisi, in una simile risoluzione, grazie ad un intenzionale mescolamento di elementi originari ed attuali della nozione di terrorismo, la tranquillità tutelata è unicamente quella dei poteri pubblici. [8] Infatti, secondo i Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relative alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali e non, sono vietati soltanto «gli atti di violenza o le minacce di violenza il cui fine principale sia di diffondere il terrore tra la popolazione civile». [9] In particolare, ciò si attuerà attraverso le riflessioni di Thomas Hobbes, lo Stato diviene fonte del diritto e della morale, il suo potere è indivisibile e congloba in sé anche l’autorità religiosa. Lo Stato è quindi il migliore dei mondi possibili, anzi è l’unico mondo possibile, è la ratio unica ed assoluta della civiltà, senza di esso gli esseri umani vivrebbero nell’insicurezza continua, in una situazione di guerra permanente.  
Approfondimenti
In primo piano
Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Qui in pdf: Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Nel 2021 è uscito in Italia, tradotto da Einaudi, un libro importante, passato, almeno negli ambiti sovversivi, per lo più inosservato. Si tratta de Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro presente. In questo testo, il giornalista californiano Vincent Bevins dimostra, in modo ampio e accurato, che il colpo di Stato realizzato in Indonesia nel 1965 con l’appoggio degli Stati Uniti è stato un episodio centrale della Guerra fredda perché ha rappresentato, appunto, un metodo. Leggere il libro di Bevins mentre si sta compiendo il genocidio del popolo palestinese toglie alla lettura ogni distanza storica, scaraventandoci nel presente. Il Metodo Giacarta «Negli anni tra il 1954 e il 1990 emerse in tutto il mondo una rete informale di programmi anticomunisti di sterminio appoggiati dagli Stati Uniti che commise omicidi di massa in almeno ventitré paesi. Non ci fu un piano d’insieme, né una cabina di regia in cui fu orchestrato tutto, ma penso che i programmi di sterminio in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Indonesia, Iraq, Messico, Nicaragua, Paraguay, Sri Lanka, Sudan, Taiwan, Thailandia, Timor Est, Uruguay, Venezuela e Vietnam fossero collegati tra loro e abbiano avuto un ruolo cruciale nella Guerra fredda. (E non includo gli interventi militari diretti né gli innocenti che persero la vita in guerra come “danni collaterali”). Gli uomini che intenzionalmente hanno giustiziato dissidenti e civili indifesi imparavano gli uni dagli altri; adottavano metodi già applicati in altri paesi; a volte chiamavano persino le loro operazioni come altri programmi che volevano emulare. Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora “Giacarta”, tratta dal più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi (dodici, se consideriamo lo Sri Lanka, dove il governo applicò quella che chiamò “soluzione indonesiana”). Ma anche i regimi che non furono mai influenzati da questo particolare linguaggio avevano visto molto chiaramente che cosa aveva fatto l’esercito indonesiano e il successo e il prestigio che le loro azioni avevano portato al loro paese in Occidente. E anche se alcuni di questi programmi furono condotti malamente e spazzarono via spettatori innocenti che non costituivano nessuna minaccia, in effetti riuscirono a eliminare i veri oppositori al progetto globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora una volta, l’Indonesia è l’esempio più importante. Senza lo sterminio del Pki [Partito comunista indonesiano], il paese non sarebbe passato da Sukarno a Suharto. Anche nei paesi dove il destino dei governi non era in bilico, gli omicidi di massa mostravano cosa sarebbe successo a chi opponeva resistenza: una forma efficace di terrore di Stato che venne applicata anche nelle regioni circostanti. […] Voglio affermare che questa rete informale di programmi di sterminio, organizzata e giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella vittoria degli Stati Uniti e che quella violenza ha profondamente influenzato il mondo in cui viviamo oggi». Una spietata efficacia «L’Indonesia divenne davvero un “partner docile e compiacente” degli Stati Uniti, cosa che spiega come mai oggi così tanti americani abbiano a malapena sentito parlare di quel paese. Ma a quel tempo le cose erano molto diverse. L’annientamento del terzo partito comunista del mondo e il sorgere di una dittatura fanaticamente anticomunista scosse violentemente l’Indonesia e provocò uno tsunami che arrivò in quasi ogni angolo del globo. Nel lungo periodo, la forma dell’economia globale cambiò per sempre. Inoltre, le dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale indonesiana». In poche parole «”Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluta da Washington. Basta guardarsi intorno”, ha detto indicando la sua città e l’intero arcipelago indonesiano intorno a lui”. Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto. Winarso smette di muoversi: “Ci avete ammazzati”». I numeri di un massacro Da sola, la mappa intitolata «I programmi di sterminio anticomunista, 1945-2000» e pubblicata come Appendice al libro di Bevins racconta una storia così feroce che lascia semplicemente allibiti quanto poco sia presente nella coscienza collettiva. Ecco i luoghi, le date, i numeri: Messico 1965-1982: 1300 Honduras 1980-1993: 200 Nicaragua 1979-1989: 50 000 Guatemala 1954-1996: 200 000 Venezuela 1959-1970: 500-1500 El Salvador 1979-1992: 75 000 Colombia 1985-1995: 3000-5000 Paesi membri dell’Operazione Condor (l’Alleanza anticomunista tra Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay), Anni Settanta-Ottanta: 60 000-80 0000 Iraq 1963 e 1978: 5000 Iran 1988: 9 000 («l’unico caso in cui le violenze sono state compiute da un avversario geopolitico degli Stati Uniti») Sudan 1971: un po’ meno di 100 Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000 Thailandia 1973: 3000 Corea del Sud 1948-1950: 100 000-200 000 Taiwan 1947: 10 000 Filippine 1972-1986: 3250 Vietnam, Operazione Phoenix 1968-1972: 50 000 Timor Est 1975-1999: 300 000 Indonesia 1965-1966: 1 000 000 «Giacarta sta arrivando» O semplicemente «GIACARTA» sono le scritte che, nel 1972, appaiono in diverse città del Cile e che i militanti di sinistra si vedono recapitare per posta. A incaricarsi dell’operazione sono il gruppo fascista Pátria y Libertad e la sezione cilena dell’organizzazione anticomunista brasiliana Tradición, Família y Propriedad – base sociale del golpe militare in Brasile del 1964 –, entrambe finanziate dalla CIA. L’11 settembre 1973 avviene il colpo di Stato. Quando migliaia di “rossi” vengono radunati allo Estadio Nacional, per essere interrogati, torturati e uccisi, a presiedere le operazioni ci sono consiglieri militari brasiliani. La Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet creata dalla CIA, assassina in pochi giorni tremila oppositori. La violenza contro indigeni e dissidenti in Guatemala viene promossa dalla Mano Blanca (organizzazione razzista e ferocemente anticomunista) con l’appoggio dei Berretti verdi nord-americani. «Dal 1978 al 1983 l’esercito guatemalteco uccise più di duecentomila persone. Circa un terzo di loro, soprattutto nelle aree urbane, furono portate via e fatte “sparire”. La maggior parte degli altri erano indigeni maya massacrati all’aperto nei campi e sulle montagne dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni». Nel 1982 vengono sterminati interi villaggi. «In Indonesia l’omicidio di massa potrebbe non essere stato genocidio, ma solo omicidio di massa anticomunista. In Guatemala fu genocidio anticomunista». Nel 1979, per stroncare il Nicaragua sandinista gli Stati Uniti dispiegano i contras, forze anticomuniste finanziate dalla CIA e addestrate da Argentina, Guatemala e Cile come proseguo dell’Operazione Condor (con cui «il fanatismo anticomunista conquistò il continente» latino-americano). In un incontro organizzato dall’ambasciatore USA in Spagna, le squadre speciali argentine e guatemalteche parlano ancora di «Piano Giacarta». Perché «Giacarta»? Operazione Annientamento Operasi Penumpasan. Così si chiama l’operazione lanciata l’8 ottobre 1965 dall’esercito indonesiano contro i comunisti. In circa sei mesi viene sterminato un milione di persone e altrettante vengono rinchiuse nei campi di concentramento. Preparato dalla CIA fin dal 1958 sul modello del golpe in Guatemala, il colpo di Stato del generale Suharto ricalca fin nei dettagli il modo con cui si è imposta l’anno precedente la dittatura in Brasile. L’ideologia è quella fornita dalla «teoria della modernizzazione», secondo la quale in certi contesti è l’esercito che deve rimuovere, con la forza, ciò che si oppone alla modernizzazione capitalistica di un Paese. È l’esercito modernizzatore guatemalteco che nel 1954 permette, con un colpo di Stato, di assicurare il controllo sulla produzione agricola alla United Fruit Company. Lo stesso avverrà con l’ITT nel Cile del generale Pinochet, così come, nel 1976, dopo il colpo di Stato del generale Videla, in Argentina, dove «l’azienda automobilista Ford e Citibank collaborarono alla sparizione di lavoratori appartenenti al sindacato». Ma il modello che segue il generale Suharto per «estirpare dalle radici» la presenza comunista (parliamo, tra il Pki, il sindacato operaio, il fronte contadino, l’organizzazione studentesca e il Gerwani, cioè il movimento delle donne, di qualcosa come dieci milioni di persone) si ispira, nelle tecniche di propaganda, a quelle sperimentate dalla CIA nel colpo di Stato in Brasile del 1964. S’inventa un piano segreto comunista per attaccare l’esercito e assumere il potere, con tanto di streghe comuniste che evirano nel sonno gli ufficiali e poi ballano nude attorno ai cadaveri mutilati. Si erige un monumento ai militari golpisti uccisi dai comunisti, si producono film da proiettare ufficialmente ogni anno e si trasforma la giornata delle forze armate nella celebrazione dell’annientamento dei nemici della nazione. Si trasforma l’esercito nel centro organizzativo della modernizzazione. «Un anno dopo un colpo di Stato nella nazione più importante dell’America Latina, parzialmente ispirato da una leggenda sui soldati comunisti che accoltellano generali nel sonno, il generale Suharto racconta alla nazione più importante del Sud-est asiatico che comunisti e soldati di sinistra avevano trascinato via i generali dalle proprie case nel cuore della notte per ucciderli lentamente a coltellate, e poi entrambe le dittature militari anticomuniste, allineate con Washington per decenni, celebrano l’anniversario di queste ribellioni in modo molto simile». A partire dal 1958, la Fondazione Ford organizza viaggi di studio negli Stati Uniti a giovani ufficiali indonesiani, i quali vengono addestrati, tra un corso sull’economia americana e le serate nei locali di spogliarello, nelle basi militari del Kansas. Erano, il Brasile del 1964 e l’Indonesia del 1965, Paesi sul bordo della rivoluzione? Nient’affatto. Nel primo caso, qualche timida riforma sgradita ai latifondisti, nel secondo caso un governo messosi a capo, con il congresso di Bandung del 1955, dei Paesi appena usciti dal gioco coloniale o intenzionati a farlo, un governo – quello di Sukarno – appoggiato dai nazionalisti, dagli islamici e anche dal Pki, partito la cui strategia era totalmente socialdemocratica. Paesi non abbastanza allineati con Washington e con la sua guerra al comunismo. Bevins sostiene che i colpi di Stato in Brasile e in Indonesia, con il loro effetto domino, sono stati gli eventi decisivi della Guerra fredda, la quale non si è giocata tanto e soltanto con i missili nucleari e con il napalm, ma con le politiche di sterminio nelle colonie o ex colonie. Al punto che la vittoria degli USA in Indonesia (e a Timor Est, dove Suharto ha assassinato un terzo della popolazione) ha controbilanciato la sconfitta in Vietnam. La differenza tra il Brasile e l’Indonesia è che quando, a modernizzazione raggiunta, le rispettive dittature militari si sono concluse, nel Paese latino-americano la «riconciliazione nazionale» ha dovuto fare i conti con gli assassinati e i desaparecidos, mentre lo sterminio indonesiano è stato semplicemente rimosso, con un’intera popolazione letteralmente streghizzata. Una militante novantenne, sopravvissuta alla detenzione e alla tortura, racconta a Bevins che per gli abitanti del quartiere in cui vive lei è ancora una strega comunista. Silenzio «Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di avere qualche associazione con il Pki. Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell’Occidente. Sumiyati, esponente di Gerwani, sfuggì alla polizia per due mesi prima di costituirsi. Le fecero bere l’urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque. Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi. […] Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato dalle cicatrici e smarrito». Il Metodo Gaza Dopo il crollo dell’URSS, il concetto di «comunismo» è stato sostituito con quello di «terrorismo». Nella crociata mondiale «antiterrorista» che si è dispiegata soprattutto dopo il 2001, un ruolo cruciale lo ha giocato, non a caso, Israele. Se il concetto di «terrorismo» risale a Babeuf, il paradigma operativo del ribelle come «terrorista» è infatti tipicamente coloniale. E la storia insegna che tutto ciò che viene sperimentato nelle colonie – dai bombardamenti aerei sui civili alla detenzione amministrativa, dalle tecniche di tortura all’architettura dell’occupazione – prima o poi torna indietro. I primi campi di concentramento (in senso letterale: campos de concentración) sono stati realizzati dalla Spagna a Cuba nel 1896, replicati nelle Filippine (dalla Spagna e in seguito dagli Stati Uniti) e poi in Sudafrica dall’impero Britannico, per diventare l’emblema stesso del nazismo. I metodi impiegati in Algeria verranno insegnati dalla polizia militare francese alle polizie militari e segrete del Brasile, del Guatemala, del Cile, dell’Argentina… La repressione «anticomunista» più feroce in America Latina avviene là dove il nemico della nazione e il selvaggio anticivile si confondono: in Guatemala. Così come nella rimozione storica dello sterminio in Indonesia e a Timor Est (qui viene eliminato un terzo della popolazione) pesa il fatto che gli assassinati non fossero bianchi. Lo spazio intermedio tra le colonie e il territorio nazionale sono le zone di confine. Non a caso la violenza fascista, a Trieste e dintorni, colpì prima le popolazioni slave e poi gl’italiani “rossi”, ebbe modalità a metà tra la spedizione punitiva e le tecniche militari di guerra e creò lo «slavo-comunista» come nemico nazionale, versione bianca dell’indigeno maya-comunista del Guatemala (dove le pratiche di sterminio condotte dall’esercito guatemalteco avvennero con l’addestramento e la supervisione di quello israeliano). E non è un caso che i primi a sperimentare sulla propria pelle, nell’Italia degli anni Sessanta, la tortura come metodo militare furono i secessionisti tirolesi (a dirigere le operazioni contro i quali troviamo gli stessi personaggi di quell’Ufficio Affari Riservati che ha pianificato la strage di Piazza Fontana). Se la legislazione italiana «antiterrorismo», dal 1980 in avanti, ha fatto scuola a livello internazionale (anticipando quella europea degli anni Duemila) e il carcere di guerra 41 bis viene oggi studiato dallo Stato cileno, non deve sorprendere che i più accaniti sostenitori di Netanyahu (gli altri lo sostengono con maggiore discrezione) siano gli esponenti di quella destra anticomunista e antisemita erede della Guardia di Ferro filonazista (Orban), del Metodo Giacarta e dell’Operazione Condor (Bolsonaro e Milei) e dell’esercito quale baluardo contro i froci e i rossi (Vannacci). Oppure afrikaner la cui potenza tecnologica conferisce al loro suprematismo una dimensione addirittura cosmica (si pensi a Elon Musk e a Peter Thiel). Ma anche la sinistra istituzionale ha raccolto l’insegnamento del Metodo Giacarta (non a caso Berlinguer giustificava il «compromesso storico» riferendosi esplicitamente al colpo di Stato di Pinochet, come prima Togliatti giustificò la «svolta di Salerno», operata in obbedienza a Mosca, per scongiurare una «situazione alla greca», cioè lo scontro con la CIA), schierandosi attivamente – con i questionari, con le denunce alla polizia, con la «linea della fermezza» nel caso Moro – a fianco della repressione «antiterrorista», fino all’immondo slogan «il proletariato salverà lo Stato». È il colonialista a definire chi è l’indigeno; è l’inquisitore a stabilire chi è la strega; è il suprematista bianco a stabilire chi è il negro; è l’antisemita a definire chi è l’ebreo; è il sionista a stabilire chi è l’antisemita; è l’anticomunismo a stabilire chi è il comunista; è l’antiterrorismo a stabilire chi è il terrorista. Interrogarsi sulla sostanza sociale, politica o ontologica di queste categorie di reietti è non solo fuorviante, ma comporta uno scivolamento sul terreno del potere accusatore, della sua propaganda e della sua guerra psicologica. Mentre assistiamo al declino dell’impero statunitense, con le dichiarazioni trumpiane di annessione del Canada e di conquista della Groenlandia, con le navi nucleari statunitensi schierate nell’Indo-Pacifico e di fronte al Venezuela e con il Pentagono ribattezzato senza fronzoli Dipartimento della Guerra, dobbiamo capire che Gaza non è un orrore contro il quale richiamare dal basso al rispetto del Diritto internazionale o alla democrazia, bensì un Metodo che compendia un’intera storia di massacri, e che vale da monito per tutti i palestinizzabili del mondo. L’ordine è già stato impartito «Ci ispiriamo alla strategia di Haussmann per la Parigi del XIX secolo» è scritto nel documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT). Come noto, il barone von Haussmann distrusse la vecchia Parigi dei vicoli e delle strade strette (che facilitavano le barricate e le insurrezioni) e la riorganizzò su vasti boulevard che facilitavano la cavalleria e lo spostamento delle truppe nell’area urbana. Ancora oggi, l’architettura imperiale è parte integrante della contro-insurrezione, cioè della continuazione del colonialismo nello spazio urbano. Senza distruggere le strade, i tunnel e la resistenza di Gaza non si possono costruire i Poli tecnologici né edificare, su decine di migliaia di cadaveri, gli hotel di lusso. Il terrorista – in Palestina come in Occidente – è qualunque barbaro contrasti il destino manifesto dell’impero. Il linguaggio sempre più esplicitamente religioso e “messianico” (meglio sarebbe dire teocratico) ci informa che più gli obiettivi sembrano impossibili, più i mezzi si fanno smisurati e totali. Oggi il Metodo Giacarta, dotato di tutti gli strumenti che il complesso scientifico-miltare-industraile ha approntato nel frattempo, è capeggiato da un immobiliarista e sostenuto da transumanisti che hanno tutti i mezzi di potenza per i propri deliri. La cosa più insensata è spiegare a Ubu Re che è folle pensare di deportare due milioni di palestinesi per fare una riviera di lusso. La solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese deve essere rafforzata dalla consapevolezza che qualcosa di simile è già accaduto. Gli hotel e i club di Bali, meta turistica e sessuale dei bianchi ricchi d’Occidente, sono stati eretti letteralmente sull’Operazione Annientamento (che solo in quell’isola indonesiana sterminò il cinque per cento della popolazione, vale a dire ottantamila persone). La sabbia su cui sono stati costruiti i resort e i beach club dove «i bianchi possono permettersi di comprare ospitalità di lusso, o sesso, dalla gente del posto», è «la stessa sabbia dove i militari portarono persone da Kerobokan, qualche chilometro a est, per ucciderle durante la notte». «”Doveva ammazzare i comunisti, così gli investitori stranieri potevano portare qui i loro capitali”, dice Ngurath Termana». Che la rivolta in corso in Indonesia faccia saltare per aria quei resort e l’infame violenza su cui sono stati costruiti. Una credenza insostenibile In un’intervista rilasciata a «Jacobin Italia» poco dopo la traduzione italiana del suo libro, Bevins diceva: «Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina, resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dài, siamo negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia, soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora». Se c’è un popolo che sa che dal nemico deve aspettarsi tutta la violenza possibile, è quello palestinese. Una violenza sterminatrice che, a differenza di quella dispiegata dall’Operazione Annientamento, avviene in diretta mondiale. Siamo noi che, di fronte al Piano Gaza, non dobbiamo cedere né all’incredulità né all’orrore disarmato.
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Bruno Filippi. Proletario, anarchico, dinamitardo
Qui in pdf: Bruno Filippi Bruno Filippi. Proletario, anarchico, dinamitardo Livragare «Fu nell’estate del 1919 che in Italia si forgiò la locuzione “fronte interno”: a indicare, scrisse Volontà (il 16 luglio 1919), “la linea di combattimento fra il governo e i suoi satelliti e complici da un lato e dal lato opposto i proletari e tutti quanti aspirano al socialismo, alla libertà, alla rivoluzione. Noi siamo il nemico interno, contro cui ferve la guerra, più aspra e implacabile ancora di quando si temeva o si fingeva di temere che la nostra opposizione giovasse al nemico esterno”». Così scriveva nel 1979 Vincenzo Mantovani in una nota del suo Mazurka blu. La strage del Diana, libro fondamentale per capire la storia degli anni 1919-1922 a Milano quale laboratorio d’Italia. Emblematico del rapporto fra guerra, violenza coloniale e repressione anti-proletaria è il verbo «livragare». Precisa sempre Mantovani, in un’altra nota: «Derivato dal cognome del tenente Dario Livraghi, un ufficiale che in Eritrea si era reso responsabile di gravissimi atti di violenza contro gli indigeni, nel gergo politico della sinistra significava “uccidere”, “distruggere”, “annientare”». A Massaua, nel 1891, Livraghi, tenente dei Reali Carabinieri, insieme al segretario degli affari coloniali Eteocle Cagnassi, aveva torturato e fucilato senza processo ottocento eritrei. Lo «scandalo Livraghi-Cagnassi» diede vita persino a una commissione d’inchiesta, funzionale a prender tempo e poi a insabbiare la strage, come avverrà con tutte le altre efferate violenze compiute dal colonialismo italiano. A serbarne memoria, e a schierarla sul fronte interno, il linguaggio socialista e proletario. In un articolo dal titolo Parla la dinamite! uscito sull’«Iconoclasta!» del 15 settembre 1919, scriveva l’anarchico Bruno Filippi: «Dal 13 aprile ad oggi 54 persone furono assassinate dal piombo regio. Ecco la propaganda dell’odio! Gli incettatori affamano, gli industriali mettono al bivio fra lo sfruttamento più nefando e la fame. […] Dunque la provocazione viene dall’alto. Sono i vari Breda [l’industriale milanese che pochi giorni prima, durante lo sciopero dei metallurgici, era scampato a due attentati] protetti dalla camorra di Stato, sono i Centanni i cinici livragatori di folle, sono i gros bonnet dell’esercito, lordi di sangue e furenti di libidine sadica». Una rozza calzetta Quando Parla la dinamite! veniva pubblicato, Bruno Filippi era già morto. Dilaniato, nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, dalla bomba che il 7 settembre voleva collocare al Club dei Nobili, «il ritrovo preferito di molti e molto noti aristocratici» nonché di gallonati livragatori di operai e contadini. Se all’inizio si era pensato a una fuga di gas, l’ipotesi dell’attentato emerse quando un pompiere «vide una scarpa tra i calcinacci e notò, con orrore, che essa conteneva un piede umano fasciato in una “rozza calzetta”». «Il morto era povero, a giudicare dagli indumenti e dalle scarpe risuolate che portava, e dunque non poteva essere un frequentare abituale né del Biffi [caffè-ristorante dell’alta borghesia milanese] né del Clubino [il Club dei Nobili]». L’imperativo categorico Proletario e anarchico individualista, il diciannovenne Bruno Filippi era già stato condannato per «minacce a mano armata e resistenza alla forza pubblica». Sempre in prima fila negli scontri con guardie e fascisti, il giovane compagno aveva appoggiato con attacchi dinamitardi lo sciopero dei metallurgici, individuando un nesso chiarissimo tra aristocrazia, industriali e «pescecani» di guerra. Come scrisse «Il Libertario» del 10 settembre 1919: «[…] mentre molte migliaia di lavoratori metallurgici soffrono ogni sorta di privazioni per la caparbietà degli industriali, che durante la guerra hanno accumulato vistose ricchezze, costoro gavazzano nei loro eleganti ritrovi, nelle sontuose villeggiature e nelle stazioni climatiche alla moda». Ed è proprio in uno di quegli eleganti ritrovi, dove non possono entrare né rozze calzette né scarpe risuolate, che Bruno Filippi voleva colpire i livragatori di proletari e i gran signori loro committenti. «La vita era in lui esuberanza ed energia. Il suo imperativo categorico era il verbo agire», dirà di lui l’anarchico milanese Carlo Molaschi. «Una volta sette o otto studenti interventisti lo assalirono e lo bastonarono ben bene. Egli era solo e disarmato… e dovette lasciar fare. Ma tempo pochi mesi gli aggressori, uno per uno, si riebbero “individualmente” quel che “collettivamente” avevano dato a lui», racconterà Virgilio Gozzoli sull’«Iconoclasta!» del 24 ottobre 1919. Persino l’«Avanti!» ebbe per il giovane anarchico parole di stima: «Bruno Filippi era ben conosciuto negli ambienti politici sovversivi come un idealista devoto alle proprie convinzioni e capace per esse di qualsiasi sacrificio. Nel periodo della neutralità, quando il partito socialista lottava disperatamente per contrastare il prevalere dell’interventismo, il Filippi militò con noi e in più di una contingenza lo vedemmo affrontare – in dimostrazioni non veramente pacifiche – le intolleranze irose dei nemici comuni». Delle motivazioni del giovane anarchico il quotidiano socialista tracciava un profilo tutto sommato onesto: «Le congetture che si fanno sono molteplici, ma quella che presenta maggiore fondamento è che il Filippi abbia voluto colpire i frequentatori del club, che appartengono tutti agli alti ranghi del capitalismo milanese, alla nobiltà, al militarismo. Una protesta violenta sino al fanatismo, che avrebbe voluto fiaccare con un sol gesto tremendo la caparbia volontà di lotta e di resistenza fino all’estremo che spinge i capitalisti milanesi contro quelle maestranze industriali dal cui lavoro, durante la guerra, hanno tratto vistose e immeritate ricchezze». Il giornale del Partito socialista non mancava tuttavia di definire il gesto di Filippi «una follia sterile e vana». Questa grande e amorosa anima Così gli rispondeva «L’Avvenire Anarchico» il 12 settembre 1919: «Guardate. Mentre la vita si fa sempre più aspra, misera, tribolata; mentre Nitti prepara l’affamamento di tutte le stentate plebi d’Italia aumentando il pane e tutti i generi di prima necessità, mentre per tutte le città d’Italia si fa scempio della vita umana e Nitti fa l’elogio del carabiniere, e li aumenta, e crea la Guardia Reale per strappare il pane di bocca agli affamati onde dare il 5 e mezzo alla borghesia che provocò la nostra rovina; e il Corriere della Sera fa l’apologia dell’assassinio, mentre voi avete spezzato i moti rivoluzionari del 5-10 luglio per preparare, d’accordo coi gialli di Francia, d’Inghilterra e d’Italia, il gran festival, il fallimento del 20-21 [lo sciopero internazionale del 20-21 luglio a sostegno della rivoluzione russa] e creare l’atmosfera agli esperimenti della Confederazione e alle insurrezioni… elettorali; mentre logorate 300.000 operai, e opponete le zuppe e le processioni calme, educate, ben ordinate; la Rivoluzione ha espresso dal suo turgido seno uno dei suoi numerosi e meravigliosi figli, i quali a prezzo della loro vita, colla voce possente della dinamite vi richiamano alla dura realtà, rimette sulla via maestra il movimento liberatore smarritosi nei tortuosi vicoli della viltà e nei meandri del suicidio volontario». Per concludere: «Salutiamola, o compagni, questa grande e amorosa anima». Balzo di tigre «Molto usata nel secondo decennio del secolo, questa parola [livragare] cadde poi in disuso». La pratica, invece, è proseguita, sempre più letale, tecnologica, de-umanizzata. Mentre i livragatori sono al lavoro in Palestina, e il Club dei Nobili internazionale intasca profitti lordi di sangue, dalle segrete della storia irrompe, con un balzo di tigre, il corpo dilaniato di Bruno Filippi. Il suo incontenibile e tremendo bisogno di giustizia non si lascia scansare. Men che meno con l’esaltazione. Contro una tale scorciatoia del cuore e dello spirito ci ha ammonito, con più di un secolo di anticipo, Leda Rafanelli: «Può esaltarlo solo chi lo saprà imitare».
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