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Riarmo e toni apocalittici
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa riflessione, che fa da contrappunto a certi “toni apocalittici” sulla guerra spesso utlizzati anche dal nostro sito. Ne apprezziamo soprattutto lo sguardo verso la materialità dei rapporti economici e politici a livello internazionale: ciò che più conta, per noi, non è certo fare allarmismo, ma non perdere mai di vista la realtà, e in particolare quella che va oltre le nostre immediate vicinanze (l’analisi dell’economia e della politica internazionale, assolutamente necessaria in un mondo globale, non è esattamente un punto di forza della maggioranza degli anarchici). Dal canto nostro,  crediamo però che sia sempre buona cosa prepararsi, e preparare chi ci ascolta, allo scenario peggiore, specialmente in tempi di inerzia della catastrofe. Il che non esclude, ma integra l’attenzione – giustamente richiama dall’autore dell’articolo – agli effetti materiali che sono già prodotti dalla guerra sulla pelle degli sfruttati.   Riarmo e toni apocalittici Nell’attuale (e striminzito) campo rivoluzionario – quello che non ha rinunciato ad adottare una postura classista, internazionalista, antimilitarista e disfattista – la questione del riarmo viene spesso affrontata facendo largo ricorso a toni apocalittici. In particolare, per quanto riguarda l’Europa, stante lo scenario ucraino, il fatto che gli stati accelerino la corsa al riarmo, sembra spingere molti a credere che la guerra totale alle nostre latitudini sia questione di mesi, magari anni; la clessidra del tempo di ”pace” va esaurendosi, la catastrofe incombe. Sarà poi così? Se non si può rimanere indifferenti al riarmo europeo, soprattutto a quello intrapreso da potenze come la Germania, per orientarsi nel caos propagandistico e patriottardo promosso dalle classi dominanti del Vecchio continente,è altrettanto impossibile prescindere da una serie di valutazioni circa lo stato del conflitto in Ucraina e le possibilità concrete di ”scelta” alla portata, nel breve-medio termine, degli stati dell’Europa centrale e occidentale, al fine di preparasi a quella che viene presentata come un’incombente minaccia di attacco russo. Sarà allora il caso di prendere atto, come invitano a fare analisti, tutt’altro che sovversivi, del calibro di Fabio Mini o Lucio Caracciolo, che, nell’immediato, la Russia non ha alcuna seria intenzione di attaccare l’Europa, a partire dai paesi baltici; e non perché non disponga dei mezzi convenzionali e nucleari indispensabili a questo scopo, in questo senso semmai il problema vale per l’avversario. Ad esempio, dovrebbe far riflettere l’atteggiamento dell’Europa, che mentre dipinge il nemico moscovita come il nemico della democrazia pronto ad attaccarla da un momento all’altro, temporeggia, sperando nella prosecuzione del conflitto in Ucraina, per compensare le deficienze che si porta dietro da decenni sul piano militare, e non solo. Ad ogni modo, per la Russia, sin dallo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, aggredire l’Europa, con la quale fino a pochi anni prima facevano affaroni, non è mai stata una priorità strategica, quanto piuttosto un’azione insensata frutto delle fantasticherie occidentali, dalla portata potenzialmente destabilizzante per Mosca. In tutto ciò, gli USA sono ben lungi dall’essersi defilati dal conflitto in Ucraina; fatto testimoniato dal recupero dei rapporti bilaterali con la Russia, incrinati dall’amministrazione Biden, funzionali ad evitare un coinvolgimento in uno scontro diretto con Mosca e, possibilmente, a tentare di sganciarla dalla Cina. Sempre Fabio Mini recentemente ha sottolineato che la titubanza dell’attuale amministrazione americana nel fornire agli ucraini i tanto richiesti missili Tomahawk si inserisce in questa direzione; senza tralasciare che il Pentagono ha fatto notare al dealmaker della Casa Bianca che la fornitura non rinforzerebbe affatto la capacità di deterrenza verso la Russia, ma anzi potrebbe favorire un’escalation nucleare. La Russia è dotata poi di sistemi difensivi antimissile capaci di ridurre fortemente il successo, in termini di capacità di colpire i bersagli russi individuati, a due missili su dieci lanciati. «In Ucraina è già successo agli ATACMS e ai Patriot, che hanno visto la loro percentuale di successo crollare dal 90% dichiarato al 6% effettivo». Altro che deterrenza. Per lo sbirro mondiale tanto vale allora fare più concessioni tattiche possibili a Mosca, rimettendo l’Europa, lacerata dai contrasti interni, al suo posto, senza mancare di rammentargli la sua irrilevanza, non avendo assolutamente nulla da mettere sulla bilancia dei rapporti di forza esistenti. Ciò che rimane, a partire dalla futura ricostruzione ucraina, è, ancora una volta, questione di affari. Tra i 28 punti della bozza del piano di pace per l’Ucraina, a quanto pare elaborato in un mese di confronto tra la delegazione statunitense e quella russa, era previsto non solo l’addio dell’Ucraina ai piani di integrazione nella NATO, ma anche la riammissione di Mosca nei circuiti della finanzia internazionale (leggi SWIFT), la cancellazione delle sanzioni, in cambio del 50% dei proventi della ricostruzione, finanziata in parte dagli assets russi congelati in Belgio e in parte dalle tasche europee. Le richieste di modifica del piano da parte degli europei evidenziano soprattutto, e per l’ennesima volta, il tentativo di mandare in vacca il deal, rimettendo al centro la palla dell’integrazione ucraina nella NATO. Intendiamoci, i proletari, di qualsiasi nazionalità siano, non hanno amici: piano USA-Russia o piano UE, ogni decisione viene presa sulla loro pelle; quattro anni di massacri in nome della difesa della democrazia contro la tirannide dovrebbero averlo dimostrato, in barba alla mitizzazione della resistenza ucraina, alimentata da disgraziati strappati via dalle proprie famiglie e comunità. Ecco le magnifiche e progressive della coscrizione obbligatorio e della legge marziale, ma, per l’amore del cielo, in salsa democratica, mica come in Russia. Ma torniamo al riarmo europeo, la cui necessità impellente non va attribuita esclusivamente alla minaccia Russa, ma ancor prima al ruolo degli Stati Uniti in Europa e all’incognita della loro permanenza nell’arco del prossimo decennio. La Germania, recentemente presa in considerazione in relazione alla presentazione della nuova legge sulla leva1, come sempre fa scuola, anche se bisogna tenere ben presente che tra ciò che viene dichiarato e ciò che viene poi applicato la corrispondenza non è automatica: gli investimenti nella spesa bellica e il rafforzamento degli eserciti non avvengono dall’oggi al domani. Perché vengano destinati efficacemente occorre continuità, stabilità politica interna, collaborazione della popolazione e sforzo strategico nel lungo periodo. Partendo dalle deficienze a cui si accennava sopra, le Forze armate tedesche tra gli anni Novanta e il 2022 hanno perso finanziamenti per un valore complessivo di 400 miliardi di euro, con serie conseguenze sul piano della prontezza operativa, delle infrastrutture logistiche, delle scorte, del personale, delle tecnologie della comunicazione, ecc. Nel 2022 Scholz dichiara pubblicamente che la Germania si deve svegliare dal suo letargo pacifista per riarmarsi, e in fretta. Viene così stanziato il primo fondo da 102 miliardi, poi nel marzo del 2025 è il turno del programma di potenziamento della Bundeswher: le spese belliche oltre l’1% vanno fuori bilancio. Per il 2029 è previsto l’investimento di 150 miliardi; intanto, per quanto riguarda il 2026, si passa ai 108 miliardi. Sempre recentemente però, si è stimato ottimisticamente che entro il 2030 la Germania non sarà minimamente in grado di reggere una guerra convenzionale, a causa di tutte le mancanze di cui sopra. Anche perché per farlo è necessaria un’altra cosa: la conversione dell’industria in chiave bellica; un processo che richiede tempi lunghi, capitali e sviluppo tecnico. Rheinmetal punta già ad acquisire stabilimenti Volkswagen, coerentemente con l’idea di far leva sul settore automobilistico in forte crisi per realizzare la riconversione. Ancora poco, se è vero che il tempo stringe, e stiamo parlando della Germania, mica dell’Italietta. In un articolo dell’ultimo numero della Rivista di Geopolitica Limes, sempre in riferimento alla Germania, si riporta come: «le guerre del presente non si combattono con armi tecnologicamente sofisticate e pochi mestieranti. Nessuna blitzkrieg alle viste. Sono conflitti d’attrito, scontri di lunga durata tra apparati bellici di vaste proporzioni. Perdi quando si logora il consenso interno». Quando avviene questa frattura? Questo Limes non ce lo dice, o meglio ce lo dice diversamente: quando le condizioni di vita e la riproduzione della forza lavoro subiscono una forte degradazione funzionale allo sforzo bellico; diversamente gli appelli al disfattismo rivoluzionario, alla diserzione, sono esercitazione retoriche ad uso e consumo degli addetti ai lavori, piaccia o meno. La lotta di classe e l’antimilitarismo devono quindi essere necessariamente legate, giacché separarla, ricondurre la seconda a ragioni etiche, di giustizia e morale, senza sminuire la realtà e concretezza dell’atrocità, della disumanità connaturata a questi fenomeni abominevoli di negazione totale delle vite proletarie, è opera più da pretaglia che da sovversivi. Comunque, è lo stesso articolo a presentarci il sostanziale accordo di due terzi dei tedeschi verso l’aumento delle spese militari entro il 2032, ma con almeno due riserve: innanzitutto che non venga toccato lo stato sociale – ma anche a fronte della possibilità di scorporare la spesa bellica dal patto di stabilità, prima o poi i conti saranno da fare, e saranno dolori-; secondo: poca disponibilità a sacrificarsi per la patria; soltanto un tedesco su sei sarebbe pronto a rischiare la pelle per difendere i confini tedeschi. Ancora una volta: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare! 30/11/2025 1 https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/11/15/una-levataccia-per-la-gioventu-tedesca-ed-europea/
Approfondimenti
Rompere le righe
“Che fatica conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta a “Sulle care vecchie – amate – questioni”
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa risposta all’articolo su Comunismo-e-individualismo, pubblicato anche su questo sito: Qui il testo in pdf: Conciliare   “Che fatica, conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta al contributo “Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo (con disimpegno a vista sul nichilismo)” Che fatica, conciliare l’inconciliabile… Recentemente è stato fatto circolare, sia su Il rovescio che su La Nemesi, un contributo intitolato Sulle solite vecchie amate questioni. A proposito di comunismo e individualismo (https://ilrovescio.info/2025/10/22/sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo/), contenente alcune risposte a quattro scritti critici – di cui due riconducibili a Juan Sorroche, prigioniero anarchico, uno ad un autore anonimo e l’altro ancora al gruppo anarchico Panopticon – aventi per oggetto gli articoli La fase nichilista e L‘anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, entrambi pubblicati sul settimo numero del giornale anarchico Vetriolo. I quattro scritti menzionati non sono affatto sovrapponibili, né per quanto riguarda il loro contenuto, che nell’approccio metodologico, piaccia o meno il termine, adottato nello sviluppo delle critiche. Poco importa che dietro alle righe che avete sotto gli occhi vi sia l’autore di uno di questi quattro testi; anonimato sia, tanto per quello (Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista“), quanto per questo. Tuttavia, non posso fare a meno di rilevare che emmeffe, l’autore della risposta, o meglio dell’insieme di risposte, evidentemente meno avvezzo alla scelta dell’anonimato, ha replicato in maniera piuttosto autoreferenziale e, mi verrebbe da dire egocentrata, al mio contributo, ignorando di fatto una serie di punti critici ben più rilevanti, ai fini di un dibattito tra rivoluzionari, di mal interpretate accuse di scarsa originalità nella teorizzazione della cosiddetta fase nichilista. Piuttosto che tornarci sopra – l’autoreferenzialità è terribilmente noiosa – trovo maggiormente interessante collegarmi solo ad alcuni punti sviluppati nel suo scritto, al di là del loro specifico riferimento alle critiche mosse nei quattro diversi scritti, tentando di alimentare il dibattito. A questo scopo, può essere utile avvalersi di alcune citazioni testuali. Faccio solo presente che nell’opuscolo Bussole impazzite https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/09/25/bussole-impazzite-note-critiche-su-teoria-radicale-classe coscienza-individuo-comunita-e-possibilita-di-rottura-rivoluzionaria/) – sono state trattate alcune questioni – su cui non mi posso dilungare in questa sede – attorno a cui si è sviluppato anche il dibattito in corso: l’individuo, la comunità, il contenuto del comunismo e le recenti rivolte e sommosse verificatesi in tutto il mondo. * * * «L’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti, sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie)» Il nostro autore la fa un po’ troppo facile. Il frontismo antifascista è certamente una delle massime espressioni dell’assunzione ottimistica e della partecipazione attiva a lotte sociali interclassiste. In questo senso, la formula, abusata e raramente praticata nelle sue conseguenze pratiche, «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», conserva integralmente la sua validità, e non solo perché, al termine della Seconda guerra mondiale, il fascismo ha perso militarmente e ha vinto politicamente, in quanto modo di essere del capitalismo (e quindi dello Stato). Il fatto è che, volendo essere onesti, la tattica del frontismo antifascista non può essere ricondotta esclusivamente ai partiti marxisti fedeli alle direttive della Terza Internazionale, dominata dai bolscevichi. Tra l’altro, in seno ad essa non tutti i partiti aderirono alla tattica del fronte unico; il caso del Partito comunista d’Italia, da poco fondato e diretto dalla cosiddetta Sinistra comunista italiana, e dal più volte evocato – poco coerentemente essendo il nostro autore anarchico – Amadeo Bordiga, è emblematico, ma non esaurisce le posizioni scettiche e di netto rifiuto del frontismo, più diffuse di quanto si immagini in campo marxista, non solo al principio degli anni 20′. Il frontismo è un fenomeno che ha coinvolto storicamente anche gli anarchici, molti ma non tutti, tanto in Italia, ad inizio anni Venti con gli Arditi del popolo, tra il 1943 e il 1945 con la Resistenza partigiana, che, ancora più evidentemente, in Spagna, e precisamente nella misura in cui il fascismo veniva visto come il nemico numero uno da combattere. La lotta di classe e lo scontro ultimativo rivoluzionario venivano così rimandati a democrazia restaurata. È lo stesso autore de La fase nichilista a farcelo presente più avanti: in Spagna alcuni anarchici accettarono addirittura dei ministeri, per non parlare poi dei tentativi di sabotaggio degli scioperi spontanei che si produssero più volte già durante le prime fasi della guerra civile, del maggio 1937 a Barcellona, del discorso pronunciato da Durruti a Radio Barcelona (e riportato sul bollettino Solidaridad Obrera, il 5 novembre 1936), in cui il leader anarchico – si sprecano gli esempi di veri e propri capi libertari nella storia dell’anarchismo – esortava le organizzazioni operaie a non dimenticare che il dovere principale a cui erano chiamate era combattere il fascismo, motivo per cui dovevano lasciare perdere «i rancori e la politica, e pensare alla guerra». Tornando al nostro autore, non è chiaro perché l’esempio del tradimento della CNT debba costituire un’eccezione, tale da permettere di ricondurre il tatticismo frontista ai marxisti, deresponsabilizzando storicamente gli anarchici. La questione conserva una certa attualità. Infatti, ancora oggi l’antifascismo militante classico, con tutto il suo squallido corollario da politicanti – codismo, carrozzoni, logiche racketistiche, compromessi col ”meno peggio”, ecc – viene volentieri abbracciato da molti/e attivisti/e; a monte c’è lo stesso principio: prima si fanno i conti col pericolo fascista sempre dietro l’angolo – evitando di fare un bilancio di cosa sia stato il fascismo oltre allo squadrismo, alle camicie nere, all’olio di ricino, alla brutalità repressiva, quindi ignorando il suo più profondo contenuto, circoscritto ad una fase capitalistica e di scontro di classe che non esiste più nella forma in cui si pose un secolo fa – poi, ammesso e concesso che ne venga riconosciuta l’esistenza, c’è lo scontro di classe. Ogni fronte antifascista è fronte democratico, ogni fronte interclassista è fronte contro l’autonomia proletaria. «Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima, ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin, Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti, dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla resistenza». Da tempo ci troviamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma bisogna fare delle precisazioni utili non a trastullarsi il cervello con menate accademiche, come molti attivisti ostinatamente continuano a sostenere, ma a comprendere dove sta andando il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto, il processo di globalizzazione, risposta alla crisi di accumulazione emersa sul finire della Golden Age, sin dal principio aveva fornito solo risposte parziali e niente affatto risolutive per il precario stato di salute del capitalismo. La globalizzazione inizialmente si configura come una vera e propria piattaforma di rilancio dell’accumulazione mondiale sostenuta dall’imperialismo finanziario del dollaro e dalla dilatazione della sua sfera d’influenza – resa possibile dalla fine degli accordi di Bretton Woods – all’intero globo. Contemporaneamente, si assiste al rapido sviluppo cinese, frutto del rapprochement sino-americano, accompagnato da un sostanziale calo della produttività industriale negli USA e dalla progressiva formazione di enormi bolle di capitale fittizio pronte a scoppiare, ecc; contraddizioni che sono andate inasprendosi, nonostante gli innumerevoli tentativi di arginarle, e che sono parzialmente deflagrate nella grande crisi finanziaria dei titoli subprime del 2008. Dire che la crisi in corso è resa possibile delle nuove tecnologie – una formuletta meccanicista che un buon anarchico dovrebbe sbattere in faccia ai suoi storici avversari, i ”socialisti scientifici” – è un’affermazione fumosa, se non si prende in causa il fenomeno della caduta tendenziale del saggio di profitto, quindi – essendo il capitale costretto a rivoluzionare continuamente i propri mezzi di produzione per fronteggiare la concorrenza in termini di produttività e costi – l’insieme di contraddizioni connesse al fenomeno della sostituzione macchinica della forza lavoro viva, per cui, riducendo all’osso: più capitale fisso = meno forza lavoro viva impiegata = meno estrazione di plusvalore = popolazione eccedente crescente = quantità crescenti di merci invendute, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dei mercati, del sistema monetario, del credito, della finanza, ecc. Se poi ce ne sbattiamo altamente dei più recenti, ormai ricorrenti e sistematici, tentativi di decoupling selettivo tra USA e Cina, del debito mondiale e, in particolar modo, di quello yankee; del fatto che gli stessi Stati Uniti fanno sempre più fatica, economicamente e militarmente, a sostenere la propria posizione di sbirro mondiale, della messa in discussione dell’egemonia del dollaro come valuta di riferimento per gli scambi internazionali, e tante altre cosette non da poco, allora la confusione è più che garantita. La crisi della globalizzazione non può quindi essere ridotta all’affermazione di nuove tecnologie nella sfera della produzione e della logistica. Sulla spaccatura politica interna ai grandi amministratori del capitale poi ci sarebbe molto altro da aggiungere, per esempio che il reshoring e i già citati tentativi di disaccoppiamento delle due più grandi economie – anche considerando la sola Cina, che non è poco, senza di essa gli USA non starebbero in piedi – stanno dando pochi risultati. Persino Biden e ”l’élite politica liberale” hanno dovuto raccogliere il lascito trumpiano rappresentato dall’inasprimento della guerra commerciale contro la Cina: un processo avviato formalmente nel 2018 con le tariffe su acciaio e alluminio, arrivate a colpire le importazioni cinesi per 370 miliardi di dollari, nonché su merci e componenti ad elevato contenuto tecnologico. Che vogliamo dire poi della reciproca dipendenza tecnologica tra le due potenze, che vede la Cina detenere quasi il monopolio delle terre rare, essenziali allo sviluppo delle moderne tecnologie e dei sistemi d’arma, con particolare riferimento all’IA – su cui si sta già giocando la partita decisiva, in vista dello scontro aperto tra i due colossi che va preparandosi, e che per ora è solo rimandato – e gli Stati Uniti la supremazia (ancora per quanto?) in materia di produzione di microprocessori e software più all’avanguardia? Insomma, il nodo delle tecnologie e delle materie prime rende evidente l’impossibilità di un disaccoppiamento totale delle due più grandi economie mondiali. Alle restrizioni statunitensi nell’esportazione di tecnologie avanzate la Cina risponde con restrizioni sull’esportazione di terre rare. Per il momento non è possibile parlare di un’inversione della globalizzazione, anche e soprattutto perché i tre processi fondamentali che la caratterizzano: catene globali del valore, logistica e apertura dei mercati mondiali persistono… scricchiolano, ma persistono. «La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale. Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico» Per un panoramica, tutt’altro che esauriente, sulle determinazioni della lotta di classe internazionale contemporanea rimando al già citato Bussole impazzite. Mi limito a sottolineare alcune contraddizioni individuate nel testo. Inizialmente l’autore ci invita a diffidare delle lotte interclassiste, per poi sostenere che la resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico coincide con la lotta di classe. Quest’ultima presuppone un certo grado di autonomia del polo proletario nello scontro col capitale e, stando a quanto si è verificato globalmente negli ultimi cinque anni durante le manifestazioni di opposizione allo sviluppo scientifico, come per esempio le lotte contro il green-pass e l’obbligo vaccinale anti-Covid in Europa, sarebbe del tutto falso, al di là delle valutazioni che possono essere fatte in merito a quelle stesse lotte, affermare che in esse la componente proletaria sia stata dominante e, men che meno, dotata di una propria autonomia sia in termini di obiettivi, se non in sparuti casi, che di organizzazione, ecc. Non a caso si trattava di classici esempi di lotte interclassiste. È vero, la lotta di classe non è mai pura, ma non la si può cercare nemmeno dove non è effettivamente presente. Rintracciare manifestazioni delle lotta di classe in tutto il mondo è, data l’autoevidenza di fenomeni difficilmente analizzabili nel dettaglio in questa sede, chiaramente possibile e necessario. Tuttavia, ciò che risulta essenziale evidenziare è che esse, oggi più che mai, sono direttamente legate alla crisi della riproduzione del proletariato e delle classi medie impoverite, quindi alla crisi della riproduzione del rapporto capitale-lavoro-popolazione eccedente. Il green-pass, per alcuni settori di proletariato europeo, come di classe media, ha costituito motivo di mobilitazione in primo luogo perché molto frequentemente il rifiuto della vaccinazione comportava immediate difficoltà nel mantenere un’occupazione relativamente stabile e portare a casa un salario che consentisse di sopravvivere in tempi di pandemia. Principi, etica, passione per la libertà, ecc, declinati in maniera più o meno democratoide, borghese o bottegaia – non si può negare che l’influsso ideologico delle mezze classi sia stato evidente – e molto più raramente libertaria, sono motivazioni secondarie. Un altro modo per dire che sotto il capitalismo, se sei un senza riserve, con le dichiarazioni di principio non ci fai uno stracazzo di niente, non ci paghi l’affitto, la spesa, le bollette, le rette per i tuoi figli, se puoi permetterti di averne, ecc. Bordiga, per cui emmeffe sembra avere un’incomprensibile passione, era solito ripetere che dai bei principi, dall’etica, dalle pure volontà individuali e dalla loro somma non può derivare quel fenomeno di ionizzazione sociale delle molecole proletarie, fattore necessario perché possa prodursi un violento scontro di classe generalizzato. Per il comunista partenopeo, la rivoluzione sociale non è un fatto tanto diverso dall’evoluzione della specie umana: prima la pancia, poi la mano, infine il cervello; una visione che poco si adatta al volontarismo anarchico, e che deve molto al metodo scientifico, pur essendo assai critica della scienza e delle teorie della conoscenza proprie della civiltà borghese. Per Bordiga l’ortodosso, non esisteva una mezza misura: il marxismo, concezione monistica del mondo e della realtà materiale, o si accettava in toto o non si era altro che dei ciarlatani. Inoltre, e qui concludo la parentesi sul primo segretario del PCd’I – difensore dell’anonimato e acerrimo nemico di quella che definiva la peste individualista, nettamente contrapposta al comunismo, che a sua volta non ha niente a che vedere col comunismo anarchico, non movimento reale ma ideale da realizzare, di cui parla il nostro autore – egli nutriva un sincero disprezzo per certo anarchismo, e per qualsiasi forma di ”proudhonismo”e idealismo. Avversario della bolscevizzazione e critico della cosiddetta degenerazione della Terza Internazionale, era fermamente convinto che il processo di autorganizzazione del proletariato in soviet dovesse essere comunque subordinato all’azione del partito di classe. Alla difesa dei meccanismi democratici opponeva la dittatura proletaria e il centralismo organico. Emmeffe, hai voglia a parlare di anarco-bordighismo! Tornando a noi, le lotte portate avanti tra il 2020 e il 2021 in una serie di fabbriche e magazzini in Italia per la chiusura degli stabilimenti, la tutela della propria salute, per imporre un’immediata diminuzione dei ritmi di lavoro e dei rischi di contagio, più pause per uscire all’aperto e respirare senza mascherina, ecc (cfr. AA.VV, Loco19, Colibrì), non si sono certo verificate a causa di un diffuso, consapevole o meno, sentimento di ribellione verso la scienza e la civiltà industriale. Se fosse stato così, la messa in questione della società industriale, della medicina, dei dispositivi di tracciamento, difficilmente sarebbe tornata in maniera repentina sui propri passi ad emergenza sanitaria rientrata. Fa specie allora che il nostro autore inviti i lettori a non cadere nel tranello che porta chi si fa eccessivamente condizionare dalle proprie convinzioni a cercare nelle manifestazioni di opposizione sociale e nelle lotte ciò che desidera ardentemente scorgervi. Negli USA l’assassinio di Floyd da parte degli sbirri – con gli effetti della pandemia che premevano duramente sul proletariato, soprattutto su quello razzializzato, sotto attacco da decenni, uniti alla disastrosa situazione sanitaria e sociale – ha fatto da detonatore ad un accumulo di fattori pronti a deflagrare nello scontro diretto con lo Stato. I risultati sono noti: prolungati disordini, sommosse, blocchi, attacchi a commissariati, stazione e mezzi di polizia, espropri, occupazioni di aree urbane sottratte al controllo delle autorità, saccheggi e rivolte tendenti a superare i confini etnici per acquisire contorni chiaramente classisti. Infatti, inizialmente il movimento aveva incontrato la solidarietà e la partecipazione attiva di consistenti fette di proletariato bianco – deluso e arrabbiato per le disattese aspettative di aumento dell’occupazione e reindustrializzazione delle aree depresse del Paese promosse da Trump nel 2016 – e latinos; solo in un secondo momento, con il recupero operato dal variegato monnezzaio post-moderno, ha acquisito tratti identitari, democratoidi ed infine elettorali. La rabbia della popolazione ghettizzata, delle lavoratrici e dei lavoratori essenziali, spesso occupati in occupazioni e mansioni richiedenti livelli minimi di specializzazione, ha fatto da catalizzatore e ha trascinato altre fette di proletariato, anche quelle con qualche ”garanzia” in più, fino alle classi medie proletarizzate e in via di rapida proletarizzazione. Sarebbe impossibile poi elencare e riassumere le caratteristiche delle rivolte, definite dai media, piuttosto superficialmente (ma che vuoi mai), della GenZ, avvenute in tutto il mondo nel 2025, figuriamoci durante gli ultimi cinque anni. La scienza e la tecnologia però non sembrano essere stati affatto al centro di tutti questi episodi. Toccherà forse tirare fuori l’inconscio freudiano? «La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta, «ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato (peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di «delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista, viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe». Partendo da una brevissima sintesi dello stato attuale della globalizzazione, si è visto come essa abbia subito un rallentamento, di cui le politiche protezioniste, il ristagno degli accordi commerciali multilaterali, la restrizione degli investimenti diretti esteri a livello produttivo rappresentano solo alcune manifestazioni. Il contesto storico presente non è fondamentalmente caratterizzato dallo scontro politico tra sovranismo e liberismo, come sostiene il nostro autore. Tale contrapposizione, al massimo, è riflesso delle contraddizioni, brevemente presentate sopra e realmente centrali, di un modo di produzione capitalistico che, in alcune aree del pianeta più di altre, soprattutto in Occidente, versa in condizioni particolarmente difficili; tali da far pensare, nel medio-lungo termine, ad una disarticolazione parziale dell’attuale assetto geoeconomico e ad un’inevitabile riarticolazione del capitalismo mondiale. Il termine disarticolazione richiama senza dubbio l’emersione di fenomeni come le guerre commerciali e guerreggiate, simmetriche o meno, ma anche sconquassi sociali generalizzati, ovvero una ripresa della lotta di classe a varie latitudini passibile di sfuggire al controllo degli stati e delle classi dominanti. Bisogna però tenere presente che la globalizzazione non è una politica che si possa scegliere di abbracciare o abbandonare volontaristicamente – quelle che l’autore chiama élite sovraniste e liberali, i singoli amministratori del capitale, non dispongono delle forze per incidere politicamente su processi globali altamente complessi, sedimentati e ramificati – ma uno stadio del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione di merci. Questo stadio, si è cercato di mostrarlo in poche righe, se certamente ha generato contraddizioni gigantesche tendenti a metterlo in questione nella sua totalità, non ha esaurito tutte le sue carte. Lo scontro politico tra élite di cui parla l’autore non va quindi assolutizzato. Le delocalizzazioni, contrariamente a quanto viene affermato in questo passaggio del testo, non sono affatto venute meno; anzi la tendenza degli ultimi decenni è riassumibile in un ulteriore processo di concentrazione e differenziazione di gerarchie e funzioni all’interno delle catene globali del valore, con paesi basati sull’esportazione di materie prime, paesi manifatturieri con larga disponibilità di forza lavoro a basso costo, paesi a manifattura avanzata, ma estremamente settorializzata e, infine, paesi caratterizzati da attività economica volta allo sviluppo di tecnologie e servizi all’avanguardia e ad alto contenuto tecnologico, perciò al vertice della gerarchia, ma comunque dipendenti dalle altre economie su più piani. Dunque, Emmeffe dà la globalizzazione per spacciata troppo presto. Per quanto riguarda la sua parentesi sugli anni Settanta, beh, non so di chi stia parlando, sono nato a PCI definitivamente morto da qualche anno. Ma l’anagrafe è noiosa tanto quanto l’autoreferenzialità, meglio concludere. «Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui essa si esprime a livello di massa in Occidente» L’autore vorrebbe far risorgere un cadavere, quello del nichilismo russo della seconda metà dell’Ottocento, putrescente tanto quanto lo zarismo. Non è possibile sorvolare sul parallelismo con la situazione di un impero alla cui morte convivevano ancora almeno tre modi di produzione: feudale, asiatico e capitalistico, oltre a vestige di antichissimo comunismo, rilevabili nella comunità di villaggio o Obscina. La lotta di classe è una dinamica, invarianza storica all’interno delle società di classe, non una ricetta, una formula o un modello organizzativo trasponibile a piacimento, al di fuori del tempo e dello spazio, sulla base dei gusti personali, delle aspettative e dei principi etici. Le forme della lotta classe, le modalità di autorganizzazione degli sfruttati mutano perché è il modo di produzione a trasformarsi nel tempo e la classe dei senza riserve a scomporsi e ricomporsi in funzione di quelle. In questo senso, ciò che più conta è la spontaneità del proletariato: l’unica forza capace di dare corpo agli organismi dell’autonomia proletaria. La teoria rivoluzionaria ha il dovere di sintonizzarsi con questa spontaneità, laddove e quando emerga, senza illudersi di sostituirsi ad essa, pensando di bruciare tappe che non possono essere bruciate da individui singoli o gruppi, imboccando presunte scorciatoie che portano solo all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e all’autocelebrazione delle proprie gesta militanti, che si fa beffa della vigliaccheria e dell’attendismo degli schiavi sonnolenti. Che tale sintonizzazione sia finalizzata a prendere il controllo del movimento rivoluzionario onde dirigerlo, piuttosto che assecondarne l’autonoma spinta verso la trasformazione dei rapporti sociali che incatenano l’umanità intera è altra faccenda da affrontare necessariamente, quella dell’organizzazione rivoluzionaria.
Approfondimenti
Opuscolo sulla lotta contro Tap
Riceviamo e diffondiamo:  Segnaliamo la pubblicazione dell’opuscolo: Una storia. Il gasdotto TAP, l’aggressione a un territorio e l’esperienza di una lotta locale. Il Trans Adriatic Pipeline, segmento adriatico di un gasdotto che attraversa Asia ed Europa, è stato messo in funzione nel dicembre 2020. Questo equivale al fallimento della lotta contro la sua costruzione? Chi ha realizzato questo opuscolo è stato parte integrante di quella lotta vivendo notte e giorno la realtà del presidio nato nelle vicinanze del cantiere, partecipando attivamente alle assemblee, all’organizzazione delle iniziative, alle situazioni di contrapposizione e ai tanti momenti di socialità disorganizzata. Abbiamo raccolto un po’ dei materiali prodotti in quegli anni, tra manifesti, volantini e fogli periodici con cui abbiamo provato a diffondere le nostre idee, informare su ciò che stava accadendo, incoraggiare alla lotta. Aggiungendo alcuni spunti per ragionare su quali sono state le criticità e quali invece le pratiche, le argomentazioni e le idee che possono essere utili in altre circostanze, per continuare a lottare con perseveranza per strade, montagne e campagne che viviamo ogni giorno. L’intento è anche quello di raccontare quali sono state le dinamiche messe in campo dalla repressione, per combatterle al meglio in futuro. Un presupposto ci ha spinto all’epoca a mobilitarci: successo o fallimento non sarebbero stati i termini della nostra contrapposizione. E difatti lottare contro Tap non ci ha costretti a giocare sul suo stesso campo ma ci ha consentito di dissodare campi nuovi, quelli della complicità con individui che altrimenti mai avremmo conosciuto. Se questi sono ancora i nostri compagni allora vuol dire che quel campo era fertile. Infine, non volevamo lasciare l’ultima parola a giudici e tribunali. Oltre ai numerosi procedimenti penali “più piccoli” arrivati a conclusione, conseguenza delle molte denunce con cui la procura leccese ha cercato di fermare la lotta, va ricordato che anche i tre grossi processi imbastiti a partire dal 2020, che coinvolgono a vario titolo e in più circostanze una cinquantina di imputati con condanne previste dai quattro mesi ai due anni – manifestazione non autorizzata, accensioni pericolose, travisamento, danneggiamento, getto pericoloso di cose, violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, violazione del foglio di via, violenza e minaccia privata –, sono oramai nelle fasi conclusive. A chi vi è coinvolto, va tutta la nostra solidarietà. Per contatti e richieste: unastoria@autistiche.org Qui il PDF scaricabile: Una storia Tap – Web
Approfondimenti
GRANDE GUERRE, ÉTRANGLEMENTS ET MIROIRS DE FAILLE
“Si vous connaissez votre ennemi et vous-même, votre victoire est assurée. Si vous vous connaissez vous-même mais pas votre ennemi, vos chances de gagner et de perdre sont égales. Si vous ne connaissez ni votre ennemi ni vous-même, vous perdrez chaque bataille.”                                                                                                 Sun Tzu, L’Art de la guerre « C’est le moment de la paix par la force. C’est le moment d’une défense commune. Dans les semaines et les mois à venir, il faudra faire preuve de plus de courage. Et d’autres choix difficiles nous attendent. Le temps des illusions est révolu. » C’est ce qu’a déclaré, le 4 mars dernier, la présidente de la Commission européenne Ursula Von der Leyern en présentant un plan en 5 points pour le réarmement des États membres de l’Union européenne, mobilisant près de 800 milliards d’euros pour les dépenses de défense. Cette annonce précède et s’ajoute au fonds allemand de 500 milliards d’euros que le Bundestag, le parlement allemand, a approuvé le 18 mars avec les votes du SPD, de la CDUCSU et des Verts, ainsi que les modifications constitutionnelles visant à investir dans le réarmement et à surmonter l’« obstacle » de la limite de la dette et des dépenses publiques. L’accord multimillionnaire pour financer la défense allemande donne à son tour une impulsion au plan de réarmement européen. Ce dernier est structuré et articulé autour de 5 points stratégiques. Le premier point du plan « ReArm Europe » prévoit l’activation de la clause de sauvegarde nationale du pacte de stabilité (c’est-à-dire le règlement qui régit les budgets des États membres de l’UE).  Cette mesure permettra aux États membres d’augmenter leurs dépenses d’armement au-delà de la limite de 3 % du déficit sans encourir de procédure d’infraction européenne. En pratique, les gouvernements pourront investir d’avantage dans l’armement sans craindre de sanctions de la part de l’UE (c’est-à-dire faire ce que tous les gouvernements et politiciens, tant de droite que de gauche, disaient impossible pour les dépenses sociales et sanitaires). Le deuxième point prévoit un nouvel instrument financier de 150 milliards d’euros pour des investissements militaires « partagés ». La particularité est que ces investissements militaires concerneront des équipements standardisés entre les armées de différents États, afin de garantir que les systèmes militaires puissent fonctionner ensemble en cas de guerre. Pour mettre en place ce mécanisme, la Commission européenne utilisera l’article 122 du traité de l’Union, qui permet de créer des instruments financiers d’urgence sans l’approbation du parlement des États européens. Le troisième point introduit la possibilité d’utiliser les fonds destinés à la pacification sociale (les « fonds de cohésion » présents dans chaque « plan de résilience » introduit ces dernières années et émanation directe du manifeste de la bourgeoisie et des États européens, à savoir le document Next generation UE) pour des projets de réarmement de guerre. Le quatrième point du plan prévoit la participation de la Banque européenne d’investissement au financement à long terme d’investissements à caractère militaire, tandis que le cinquième et dernier point ordonne la mobilisation générale du capital dit privé, c’est-à-dire le vol des petites économies des classes sociales défavorisées du vieux continent afin de financer la guerre des patrons et des États, en drainant l’argent des petits comptes bancaires pour les transformer en capitaux à risque dans des investissements militaires et dans la réindustrialisation du vieux continent. La mesure proposée par Mario Draghi et Enrico Letta après le succès obtenu ces dernières années au détriment des classes exploitées pour financer les grands travaux dans l’État italien (dans ce cas également, comme pour le « front intérieur » des États articulé autour de mesures répressives, la classe dominante et l’État italien font école dans l’Union européenne). L’idéologie nationaliste sert d’enveloppe et de partie prenante dans le déclenchement de la guerre mondiale, tant dans ses variantes ouvertement réactionnaires (par exemple, tous les partis d’extrême droite demandent une plus grande attention aux différents réarmements nationaux) que dans ses variantes progressistes et de gauche (par exemple sont évidentes, les déclarations en France de certains représentants du Nouveau Front Populaire sur l’urgence de recréer une idéologie patriotique et nationaliste de gauche). Dans ce climat d’union sacrée et de mobilisation des consciences et des corps, déserter (en ce qui nous concerne) le front occidental devient une urgence de plus en plus pressante. Comment faire ? Essayons tout d’abord de photographier les dynamiques et de fixer certaines coordonnées de la « Grande Guerre » qui s’accélère sur la pente qui nous conduit vers l’abîme, en partant du front oriental européen et en tenant fermement entre nos mains le sextant du défaitisme révolutionnaire et de l’internationalisme anti-autoritaire. La victoire de la partie de la classe dominante américaine qui soutient l’administration Trump a accéléré le renforcement de l’interventionnisme des États-Unis sur le continent américain, africain, moyen-oriental et surtout indo-pacifique, tandis que le lancement des pourparlers et des « rencontres de paix » entre les classes dominantes russe et nord-américain met en évidence l’opposition croissante avec les bourgeoisies du vieux continent (il est intéressant de noter que l’une de ces « rencontres de paix » s’est tenue dans la ville de Munich, déjà théâtre de la tristement célèbre conférence de paix de 1938) dans le sillage d’une sorte de Yalta 2.0 qui rappelle bien les déclarations du premier secrétaire général de l’Alliance atlantique, à savoir que l’OTAN sert à « garder les Américains à l’intérieur, les Russes à l’extérieur et les Allemands en dessous ». Cela nous amène à rappeler l’objectif du plus grand acte de guerre commis ces dernières années en Europe au détriment de nos hôtes, à savoir le sabotage du gazoduc Nord Stream. Au cours des derniers mois, le territoire de la région de Koursk, ainsi que les zones frontalières entre la région ukrainienne de Soumy et la région russe de Belgorod, ont été complètement reconquises par les forces militaires russes et nord-coréennes. En ce qui concerne les territoires ukrainiens, la région de Donetsk est sous contrôle russe à plus de 73 %, celle de Kherson à 59 %, et nous assistons à un contrôle total de la Russie sur la région de Lougansk. Actuellement, plus de 21 % du territoire de l’ État ukrainien est sous le contrôle des forces armées de Moscou. Il est évident que les succès remportés ces derniers mois par l’armée russe sur le front oriental ont un impact considérable sur les négociations, étant donné que la bourgeoisie russe est en train de gagner la guerre, et la préoccupation actuelle de nos dirigeants est de mettre rapidement fin à ce conflit avant que l’armée ukrainienne ne s’effondre et que l’armée russe ne se répande. Le risque que les dirigeants des deux camps redoutent le plus est la présence d’un invité de pierre à la table des négociations de paix éventuelles, à savoir le rôle que notre classe sociale joue des deux côtés du front, avec le risque de plus en plus visible d’une augmentation exponentielle des désertions du militarisme russe et ukrainien-OTAN, jusqu’à aboutir – comme l’ont déclaré le mois dernier certains analystes géopolitiques des patronnats occidentaux – à la possibilité d’une mutinerie des troupes ukrainiennes contre le gouvernement de Kiev. Comme nous l’avons toujours soutenu, la guerre en Ukraine est aussi une guerre pour le contrôle des importantes ressources en terres rares indispensables à l’économie de guerre et à la transformation de la société et du mode de production capitaliste vers la phase numérique. Alors que la poursuite éventuelle et de plus en plus précaire de l’aide militaire américaine dépend de l’accord qui place entre les mains du capitalisme américain les ressources minières et les infrastructures ukrainiennes qui, selon certaines sources à Kiev ces derniers mois, auraient déjà été attribuées à l’Empire 2.0 britannique sur la base d’un accord signé lors de la visite du Premier ministre Starmer à Kiev. Lors de la conférence de Munich, il avait déjà été question de la proposition par la délégation du Congrès américain d’un contrat qui aurait accordé aux États-Unis les droits sur 50 % des futures réserves minières ukrainiennes. Les désaccords et les tiraillements avec Trump au sujet des terres rares ces derniers mois sont dus au rôle actif joué dans cette affaire par les classes dirigeantes britanniques qui, selon un accord préliminaire signé par Zelensky et Starmer, l’État ukrainien s’était engagé à transférer tous les ports, les centrales nucléaires, les systèmes de production et de transfert de gaz et les gisements de titane sous le contrôle de Londres. Le gisement de lithium de Shevchenko (Donetsk), reconquis par l’armée russe en janvier dernier, contient environ 13,8 millions de tonnes de minerais de lithium. Ce gisement est le plus grand non seulement d’Ukraine, mais de toute l’Europe. Dès 2021, la société minière du Commonwealth European Lithium avait annoncé qu’elle était en train de sécuriser le site. La perte de ce gisement est un coup dur pour les besoins en lithium des classes dominantes de l’UE, qui auraient de toute façon dû se tourner vers la bourgeoisie britannique. Mais l’agro-industrie (c’est-à-dire l’exploitation intensive des terres et des animaux d’élevage avec l’expulsion des communautés locales) est également partie prenante dans la course des patrons rivaux pour le contrôle des riches ressources de l’ancienne Sarmatie. Par exemple, dès 2013, la société agricole ukrainienne « Ksg Agro » a signé un accord avec le « Xinjiang Production and Construction Corps » de l’État chinois pour la location de terres agricoles dans la région orientale de Dnipropetrovsk. L’accord prévoyait une location initiale de 100 000 hectares, avec la possibilité d’étendre cette superficie à 3 millions d’hectares au fil du temps, soit environ 5 % du territoire ukrainien, dans le but principal de cultiver et d’élever des porcs destinés au marché chinois. Ce projet a aujourd’hui échoué non seulement en raison des événements guerriers, mais aussi à cause de la résistance et des petites luttes des communautés locales. Selon le rapport 2023 de l’« Oakland Institute », plus de 9 millions d’hectares de terres agricoles ukrainiennes sont dominés par la grande bourgeoisie locale et par de grandes entreprises agro-industrielles américaines, européennes et saoudiennes (telles que « NHC Capital » aux États-Unis, « Agrogénération » en France et « KWS » et « Bayer » en Allemagne). Terre frontalière depuis l’époque du Khanat de la Horde d’Or et du grand-duché de Lituanie, tous les exploiteurs et oppresseurs de tous les temps ont toujours cherché à contrôler la partie de la plaine sarmatique caressée par la mer Noire. Le nom même « Ukraine » signifie « près de la frontière », c’est-à-dire la frontière entre des blocs d’ États et des capitalismes opposés et un petit bassin semi-fermé et peu profond : la mer Noire. Le nom de cette dernière n’est toutefois pas lié à la couleur de ses eaux, mais « Kara » (« Noir ») est le nom donné par les Turcs à cette étendue d’eau selon une ancienne association des points cardinaux à des couleurs spécifiques. Mais la morosité liée à cette étendue d’eau étroite est plus ancienne. Au VIIe siècle avant J.-C., les premiers colonisateurs de ses côtes (les Ioniens) l’appelaient « Pontos Axeinos » (« mer inhospitalière »). Les mots ne sont jamais neutres, mais servent les intérêts des différentes classes exploiteuses, tout comme ils peuvent aussi servir les intérêts des exploités en appelant les choses par leur nom, en désignant les responsables de l’oppression et en dépeignant une autre vision du monde et de la vie. Comme son nom l’indique, cette mer n’a jamais été contrôlée par personne. Dans la conjoncture historique actuelle, quatre blocs d’États et de capitalismes principaux se rencontrent et s’affrontent sur les côtes et dans les eaux du Pont-Euséne : celui de la Russie, celui des États-Unis, celui de l’« Europe » et celui du néo-ottomanisme. Une mer fermée caractérisée par un seul accès : celui du Bosphore-Dardanelles contrôlé par l’État turc. Les classes dominantes russes ont toujours considéré cette mer comme stratégique, car elle constitue le seul accès aux mers chaudes et à leurs routes logistiques. Pour le néo-ottomanisme de l’État turc, éloigner les États rivaux de l’Anatolie est un facteur crucial, alors que l’expansionnisme des intérêts du capital turc vers l’Europe, l’Afrique, le Moyen-Orient et l’Asie centrale se poursuit. La nouvelle doctrine militaire de la « Mavi Vatan » (Patrie bleue) reflète pleinement ces objectifs. Entre États et puissances en guerre les uns contre les autres, la diplomatie turque s’efforce d’ouvrir des marges d’influence le long des axes mentionnés précédemment. Par exemple, elle condamne Moscou pour l’invasion de l’Ukraine, mais ne cesse de faire affaire avec le Kremlin. Elle permet aux flottes de la marine militaire russe d’entrer et de sortir du Bosphore, mais oblige les exploitants russes à accepter qu’elle dirige la « Black Sea Grain Initiative », négociée précisément par Ankara pour permettre à la fertile Ukraine d’ exporter des denrées alimentaires, en augmentant bien sûr les tarifs de transit des navires marchands dans la mer de Marmara. Les tentatives sur cette mer par nos dirigeants pour briser l’anoxie causée par l’étranglement des classes dominantes rivales américaines et russes sur l’Europe sont considérables, dans ce qui est manifestement de plus en plus une réaffirmation de l’accord de Yalta, par exemple avec l’ exploitation des fonds marins de ce pélage. L’UE souhaite réaliser un câble internet sous-marin de 1 100 km pour relier les États membres à la Géorgie, avec un investissement d’environ 45 millions d’euros. Le projet vise à réduire « la dépendance de la région à la connectivité par fibre optique terrestre qui transite par la Russie », a déclaré la Commission européenne, comme rapporte le Financial Times. Actuellement, environ 99 % du trafic internet intercontinental est transmis par plus de 400 câbles sous-marins qui s’étendent sur 1,4 million de km. La hiérarchie et le contrôle des routes maritimes, des ports, des transports et de la logistique orientent la circulation des marchandises et des capitaux. Elle exprime depuis toujours la puissance des États, depuis leur naissance, et le développement du capital. La mer, le capitalisme et la guerre déplacent et redéfinissent les rapports de force entre les États et les classes dominantes, dans les deux derniers carnages mondiaux comme aujourd’hui. La Grande Guerre en cours se livre stratégiquement sur les vagues. Au-dessus et en dessous d’elles, entre le contrôle des fonds marins, de la terre, de l’espace orbital et cybernétique jusqu’à la maîtrise des technologies permettant de contrôler l’espace infiniment petit (génétique et nanotechnologique) contracté en une seule dimension. Pour notre classe sociale, tenter de bloquer la logistique qui permet à la mégamachine de la mort de fonctionner est une urgence vitale et nécessaire pour pouvoir déserter leur guerre Je vais maintenant essayer d’introduire deux outils conceptuels pour analyser les mouvements et les positions de notre ennemi de classe et, surtout, pour pouvoir saisir la « fécondité de l’imprévu » (Proudhon) et essayer de lui donner forme dans les territoires où il se présente et se présentera de plus en plus : à savoir le concept des « goulets d’étranglement maritimes » et des possibilités insurrectionnelles et révolutionnaires qui s’ouvrent à nous dans les « miroirs de faille », c’est-à-dire dans ces territoires où s’affrontent les intérêts des États et des blocs opposés. Lorsque nous parlons de contrôle de la mer et de contrôle des espaces (tant physiques que virtuels comme le numérique). Pour nos ennemis de classe, il s’agit du contrôle des terres entourant ces espaces et de la domination sur la logistique qui rend possible l’exploitation et leur monde (des routes commerciales aux infrastructures matérielles telles que les câbles Internet sous-marins, qui permettent la transformation de la société et du mode de production capitaliste vers l’ère numérique). Pour contrôler ces espaces et ces territoires, les États et la classe dominante doivent contrôler les détroits maritimes, également appelés, au niveau mondial, « goulets d’étranglement ». Il s’agit de nœuds naturels et/ou artificiels (comme Panama et Suez) des artères des États et des mécanismes matériels de valorisation et de reproduction du capital, par lesquels transite la quasi-totalité des marchandises et des câbles Internet à l’échelle mondiale. Malacca, Taïwan, Panama, Gibraltar, Otrante, le canal de Sicile, Suez, les Dardanelles, Bab al-Mandab, Ormuz, Béring, le canal entre l’Islande et le Groenland, la mer Égée, le Jutland, etc. Si l’on considère les différents fronts ouverts à l’échelle mondiale depuis la Grande Guerre, nous nous rendons compte que les affrontements et les guerres en cours de nos maîtres tournent autour de la domination de ces goulets d’étranglement car pour les États et les capitalismes, depuis leur naissance, la mer est un passage incontournable dans la course à la puissance d’eux-mêmes et des classes exploiteuses. Celui qui domine ces espaces et donc, en pratique, ces goulets d’étranglement, domine le monde. Autour de ceux-ci s’affrontent et/ou se superposent les différentes « failles » des blocs d’États et de capitalismes qui s’opposent les uns aux autres. En général, dans certains des territoires limitant une ligne de faille, les contradictions sociales et économiques apparaissent plus facilement. Il s’agit de territoires et de sociétés directement disputés ou simplement considérés comme des points faibles par le bloc opposé en raison de leurs caractéristiques historiques, sociales, économiques et culturelles. Par exemple, pour nos maîtres, les territoires et les sociétés d’Europe orientale et d’Europe du Sud sont plus sensibles potentiellement en raison des contradictions qui pourraient déboucher sur des insurrections ou des autogestions généralisées et sur la catharsis révolutionnaire qui pourrait en résulter . Les exemples historiques où nous pouvons utiliser ces deux outils d’ orientation et de navigation pour les possibilités insurrectionnelles sont toutes les grandes révolutions libertaires de l’histoire du XXe siècle (Mandchourie, Ukraine, Cronstadt, Catalogne). Si l’on considère les réflexions et les projets élaborés il y a déjà plusieurs décennies dans le domaine de l’anarchisme d’action concernant les possibilités et les occasions révolutionnaires dans les sociétés du sud de l’Europe et du bassin méditerranéen, je pense qu’ aujourd’hui, parmi les contradictions qui s’ouvrent dans certaines régions avec la Grande Guerre en cours et la restructuration sociale du capitalisme, les analyses et les considérations que nous avons faites il y a plusieurs décennies sont plus que jamais d’actualité et précieuses, et ont confirmé toute leur validité et leur potentiel, en particulier en ce qui concerne les zones rurales, par exemple en Europe du Sud. Des zones rurales où il est possible de coordonner de manière informelle sur le territoire spécifique en question des situations de lutte, d’autonomie matérielle et de culture de résistance ; en substance, mettre en réseau et créer des moments et des situations d’autonomie matérielle, d’une autre vision du monde, de lutte et de travail insurrectionnel, en traçant un horizon politique libertaire et anarchiste. En substance, des CLR (Collectivités Locales de Résistance) où essayer dès maintenant de vivre matériellement et humainement sur des territoires la vie pour laquelle nous nous battons dans la lutte contre la dévastation causée par les États et le capital. Relancer et en même temps « sortir » de cette manière de la simple intervention d’agitation tant théorique que pratique pour entrer dans une perspective de possibilité révolutionnaire et insurrectionnelle. Possibilité, malheureusement, bien connue et présente dans les analyses des États de l’UE et de nos ennemis de classe, puisque dès 2017 , dans un document préparé pour la Commission européenne, déjà cité ces dernières années dans divers articles de la rubrique « Apocalypse ou insurrection », soulignait que dans les zones rurales de l’est et du sud de l’Europe, déjà fertiles pour nous en contradictions intrinsèques, la situation sociale était potentiellement explosive. Savoir saisir et rendre fructueuses les contradictions qui s’ouvrent et qui peuvent s’élargir au moment où nos maîtres et les États de l’UE se trouvent en difficulté et s’affaiblissent face à leurs adversaires dans cette Grande Guerre grande guerre. Pour nous, tout consiste à saisir les possibilités qui s’ouvrent sur certains territoires à partir du moment où nous savons interpréter l’espace-temps en profondeur et en ampleur, en déclinant dans la pratique notre boussole de principes en tirant parti de l’expérience historique des luttes de notre classe sociale, en fixant une ligne de conduite générale et en l’élaborant dans un travail révolutionnaire afin que les courants du devenir convulsif et frénétique de cette période historique ne nous entraînent pas à la dérive. Ce qui est d’autant plus facile c’est que la majeure partie de la classe dominante, surtout occidentale, glisse, au niveau de l’analyse stratégique, vers une démence post-historique et des problèmes mineurs enfermés dans l’illusion d’un présent éternel. Essayons d’examiner les contradictions politico-sociales et économiques qui se sont ouvertes ces derniers temps dans deux zones géographiques situées sur la ligne de faille de l’Europe orientale : la Roumanie et la Moldavie. Que les territoires appartenant à l’État roumain et moldave soient disputés entre deux blocs capitalistes opposés n’est une surprise pour personne. Les événements institutionnels de l’année dernière en Roumanie (comme par exemple le coup d’État pro-UE de décembre 2024) illustrent bien cette situation. Ce n’est pas ici le lieu d’entrer dans le vif du sujet de ces dynamiques. Il est toutefois intéressant, du point de vue de notre classe, de souligner les contradictions sociales qui peuvent en découler. Par exemple, les grèves continues des enseignants pour obtenir une augmentation de salaire, ou les vives protestations des transporteurs et des petits agriculteurs en Roumanie. Bucarest est en ébullition depuis plus d’un an maintenant. « Je raserais notre parlement. Personne ne fait rien pour améliorer la situation économique du pays. Les salaires n’augmentent pas, mais les prix des produits de première nécessité continuent d’augmenter. Nous n’en pouvons plus », commente un chauffeur de taxi de Bucarest. La situation est similaire en Moldavie, région enclavée entre l’Ukraine et la Roumanie et point de friction direct entre les ambitions d’élargissement des États et des capitalismes de l’UE et les factions des classes dominantes locales qui poussent à renforcer les liens avec Moscou. Ces dernières années, les rues de Chisinau ont été le théâtre de manifestations et de mobilisations animées contre la vie chère. Dans notre perspective de classe, anti-autoritaire et de défaite révolutionnaire, il est essentiel de comprendre les difficultés et les problèmes que traverse l’ennemi de chez nous dans le cadre de l’opposition croissante entre les États et les bourgeoisies européennes et la classe dominante américaine. « Avec de tels amis, qui a besoin d’ennemis ? ». Depuis le 24 février 2022, la célèbre phrase de Charlotte Brontë résume parfaitement la situation des patrons et des États de l’UE vis-à-vis de la bourgeoisie américaine. Depuis le sabotage du gazoduc Nord Stream au détriment des patrons allemands au début de la guerre, jusqu’à la guerre commerciale des droits de douane et aux événements de l’année dernière sur la question de l’approvisionnement énergétique. L’arrêt du transit du gaz russe vers l’Europe via les gazoducs ukrainiens à la fin de 2024 a entraîné des difficultés et une augmentation des coûts dans une grande partie du continent, avec des prévisions d’augmentation considérable des factures. L’État slovaque, membre de l’ OTAN et de l’UE, a été le plus touché par la décision prise par Kiev avec le soutien total des États-Unis et, paradoxalement, mais pas tant que cela si l’on tient compte de la position défavorisée des classes sociales du vieux continent, de l’Union européenne. Washington a tout intérêt à imposer son GNL coûteux (soutenu de manière persistante par Obama, Biden et maintenant Trump). L’attaque stratégique contre les gazoducs Nord Stream n’a certainement pas été la dernière bataille de la guerre pour le marché énergétique européen. Le 11 janvier 2025, une attaque (ratée) a été menée avec neuf drones ukrainiens contre la station de compression « Russkaya » du gazoduc « Turkstream », qui traverse les fonds marins de la mer Noire et atteint la Turquie européenne, et qui est le dernier gazoduc encore en service transportant du gaz russe vers des États européens tels que la Serbie et la Hongrie. Les factions de la classe dominante nord-américaine, qui trouve dans le gouvernement républicain au pouvoir le représentant et le promoteur de ses intérêts, accélèrent les pressions pour renforcer le « Yalta 2.0 » contre les maîtres du vieux continent, notamment par le biais d’une sorte de paiement d’« indemnités de guerre », c’est-à-dire en imposant aux États membres de l’UE d’acheter davantage de produits « de défense » fabriqués aux États-Unis s’ils veulent éviter la guerre – encore « non combattue » sur le plan militaire – des droits de douane. Trump a prévu de réduire en quatre ans de 300 milliards sur 900 le budget annuel du Pentagone : le militarisme européen devra s’endetter pour absorber les acquisitions d’ armements auxquelles renonceront les Américains. L’industrie américaine est bien déterminée à occuper le marché européen de la « défense », où les importations en provenance des États-Unis ont augmenté de plus de 30 % depuis 2022. Pour dresser un tableau d’ensemble, au conflit naissant (pour l’instant limité au niveau commercial et politique) entre la bourgeoisie américaine et celle du vieux continent, s’ajoutent les compromis croissants entre les États-Unis et la Russie, notamment dans les domaines économique et énergétique. Le début de la guerre mondiale des droits de douane se caractérise non seulement par le durcissement des accords de Yalta, mais aussi par le renouveau de la doctrine Monroe, qui vise directement les deux États voisins des États-Unis (le Canada et le Mexique), menacés de voir leurs exportations vers Washington affectées. Pour le Canada, les droits de douane représentent également un élément d’une phase expansionniste qui culmine avec la menace d’annexion aux États-Unis. Les revirements constants et l’apaisement des tensions caractérisent l’attitude des classes exploiteuses nord-américaines envers leur véritable ennemi : le patronat mandarin. La classe dirigeante chinoise a obtenu des États-Unis une série de reculs sur les droits de douane, comme le montre le dernier accord conclu en mai avec la suspension temporaire et partielle des droits de douane élevés que les deux États s’étaient imposés mutuellement. En effet, selon les conditions convenues, les États-Unis réduiront de 145 à 30 % les droits de douane sur les marchandises chinoises, tandis que l’État chinois, qui avait imposé des droits de douane spéculaires, les réduira de 125 à 10 %. Pour les patrons américains, il s’agit d’une énième capitulation unilatérale, qui montre l’improvisation de la stratégie des États-Unis, qui, lorsqu’ils imposent des droits de douane, affirment qu’ils serviront à la réindustrialisation et, lorsqu’ils les suppriment, affirment qu’ils serviront à favoriser le commerce. Au cours des derniers mois, aux atrocités indescriptibles qui caractérisent la poursuite du premier génocide automatisé de l’histoire, s’ajoutent les conflits dans les régions qui entourent le détroit d’ Ormuz, comme la micro-guerre menée entre le Pakistan et l’Inde, et la guerre de 12 jours menée par Israël et les États-Unis contre l’Iran. En utilisant l’outil analytique et conceptuel des « goulots d’étranglement », en ce qui concerne par exemple le conflit entre le Pakistan et l’Inde, nous soulignons que, sur fond, se profile le problème du rééquilibrage des relations commerciales entre l’État indien et les États-Unis. La tendance au repositionnement de la bourgeoisie indienne vis-à-vis des États-Unis a bouleversé l’équilibre du sous-continent. Alors que l’État pakistanais a besoin d’une large frontière directe avec le territoire chinois (fondamentale pour un accès direct à l’océan Indien afin de contourner un éventuel blocus naval du détroit de Malacca), la bourgeoisie indienne cherche à tout prix à interrompre ce canal de trafic commercial. Autour des goulets d’étranglement disputés entre blocs d’États et capitalismes rivaux d’Ormuz et de Malacca, des contradictions sociales et de classe significatives sont en train de s’ouvrir. Il suffit de penser aux énormes mobilisations et aux grèves qui se multiplient depuis quelques années. Par exemple en Inde, à commencer par les grandes vagues de grèves qui ont débuté fin 2020 contre l’introduction de nouvelles lois agraires, et où la conjoncture entre la crise climatique et hydrique, le revanchisme de l’idéologie nationaliste indienne et le repositionnement consécutif des classes exploiteuses hindoues sur le plan international de la Grande Guerre, ainsi que la libéralisation du marché du charbon et la suppression de la loi qui contraint l’utilisation des terres au consentement obligatoire des populations locales, provoquent des bouleversements structurels importants et une forte intensification de la lutte des classes. Mais revenons à la situation qui concerne plus directement le territoire où nous vivons et que nous traversons, en nous concentrant sur la situation du Groenland et des routes qui traversent l’océan Arctique. Le Groenland est la nouvelle île au trésor où les bourgeoisies chinoise, américaine, russe et européenne s’affrontent parmi les glaces. Frontière stratégique sur les routes arctiques et riche en terres rares, en gaz et en pétrole, plusieurs raisons ont suscité ces dernières années un intérêt croissant pour cette île, et presque toutes ces raisons sont liées à un facteur : le changement climatique. Le réchauffement climatique provoque la fonte des glaciers dans tout l’ Arctique, modifiant ses contours, ouvrant de potentielles nouvelles routes commerciales et militaires, dévoilant des richesses cachées et des gisements de « terres rares ». En raison de sa position géographique, le Groenland est considéré comme stratégique par le militarisme américain. L’île est entourée par les détroits qui mènent aux passages nord-ouest et nord-est de l’océan Arctique et, avec l’ouverture des routes de plus en plus navigables dans un avenir proche, les États-Unis ne veulent pas que les autres puissances rivales en profitent. La fonte des glaces permettra en outre d’exploiter davantage les ressources minérales présentes sur l’île, riche en minéraux et métaux rares. Une étude réalisée en 2023 a confirmé la présence de 25 des 34 minéraux considérés comme « matières premières critiques » par la Commission européenne, dont le graphite et le lithium. Mais dans le mécanisme des différentes économies de guerre, où la sécurité de l’approvisionnement alimentaire joue un rôle crucial dans le conflit entre capitalismes rivaux (comme c’est le cas en Afrique dans la course à l’accaparement et à la prédation des terres nécessaires à la « souveraineté alimentaire » des différentes puissances en guerre sur l’échiquier mondial), les fonds marins du Groenland sont nécessaires à la pêche, car plusieurs stocks halieutiques se déplacent de plus en plus vers le nord, renforçant ainsi le potentiel du marché de la pêche de Nuuk. La concurrence acharnée pour le contrôle de la plus grande île du monde, de ses détroits et de ses mers (Macron lui-même s’est rendu à Nuuk le 15 juin dernier pour « défendre l’intégrité territoriale » de ce territoire colonisé par le Danemark) attise les contradictions sociales sur l’île : les protestations des communautés Inuit se multiplient en raison de l’accaparement des territoires et des eaux adjacentes à l’île tandis que le taux de chômage et les carences en matière de santé commencent à créer des signes d’insatisfaction dans le pays. La région arctique est en train de devenir une nouvelle frontière de la concurrence stratégique et commerciale. On estime que l’Arctique contient environ 13 % des réserves mondiales de pétrole, 30 % des réserves de gaz et de grandes quantités de ressources halieutiques et minérales rares. Les États chinois et russe étendent leurs opérations dans l’Arctique, impliquant les îles Svalbard et l’Islande. Le contrôle du cyberespace et des fonds océaniques est une base fondamentale pour la guerre et pour la transformation de la société et du mode de production capitaliste vers la phase numérique. Tous ces points sont bien visibles en ce qui concerne l’espace arctique où, compte tenu de l’activité croissante du capitalisme russe et chinois dans le domaine de la logistique numérique via les câbles sous-marins, l’OTAN lance de nouveaux projets qui « visent à rendre internet moins vulnérable au sabotage, en redirigeant le flux de données vers l’espace en cas d’ endommagement des dorsales sous-marines ». L’activité d’extraction en eaux profondes pourrait même commencer dès cette année. Début avril 2024, les membres de l’Autorité internationale des fonds marins (ISA) ont révisé les règles régissant l’exploitation des fonds marins. La nouvelle ruée vers l’or des abysses a commencé l’année dernière avec une loi de l’État norvégien autorisant l’exploitation minière à l’échelle commerciale. L’impact (également) environnemental de ces décisions entraînera la destruction d’habitats entiers, sans compter le fait que 90 % de la chaleur excédentaire due au réchauffement climatique est absorbée par les océans, dévastant ainsi l’équilibre qui soutient la vie sur cette planète. En substance, la guerre contre le vivant se poursuit et se ramifie sous toutes ses formes. La guerre est de plus en plus manifestement au cœur de ce monde sans cœur. Alors que nos maîtres continuent à s’équiper pour la guerre mondiale, la question (banale) que nous posons est la suivante : qui paiera le réarmement des États et des bourgeoisies locales ? Au cours des derniers mois, dans un article au titre qui ne laisse place à aucune ambiguïté : « L’Europe doit réduire son État providence pour construire un État guerrier », le « Financial Times » soutient que l’Europe doit réduire ses dépenses sociales afin de s’assurer la capacité de soutenir un réarmement important. L’accord visant à augmenter les dépenses militaires des États membres de l’OTAN à 5 % du PIB, décidé lors du sommet de La Haye, va pleinement dans ce sens, tout comme l’extraction et le vol des petites économies privées, déjà présents dans les points qui articulent le réarmement européen. Réaffirmant avec force que tant qu’il existera des États et des capitalismes, les espoirs d’une paix durable seront illogiques, car la négation de la guerre implique en premier lieu celle de l’État et du capital, face à ce monde de conflits et de misères généralisées qui court à sa perte et à son autodestruction, la résistance palestinienne (véritable force tellurique qui a redonné espoir aux classes exploitées du monde entier), la révolte de Los Angeles et l’intensification des insurrections, des mobilisations sociales, des luttes et des actes d’insubordination quotidienne dans le monde entier sont comme des éclairs prémonitoires qui déchirent l’Ancien régime, des signes qu’un nouvel assaut prolétarien contre les bastions de l’aliénation et de l’ exploitation pourrait être imminent. Il n’y a pas de nuit assez longue pour empêcher le soleil de se lever. « Selon nous, les rivalités et les haines nationales font partie des moyens dont disposent les classes dominantes pour perpétuer l’esclavage des travailleurs. Quant au droit des petites nationalités de conserver, si elles le souhaitent, leur langue et leurs coutumes, il s’agit simplement d’une question de liberté, qui ne trouvera sa véritable solution finale que lorsque, les États détruits, chaque groupe d’hommes, ou plutôt chaque individu, aura le droit de s’unir à tout autre groupe ou de s’en séparer à sa guise. » (Errico Malatesta).
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