In questa puntata di Harraga parliamo di detenzione amministrativa in un modo
più diretto e vivido del solito, insieme ad alcuni reclusi nel CPR di Torino e
di un recluso…
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Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa riflessione, che fa da contrappunto a
certi “toni apocalittici” sulla guerra spesso utlizzati anche dal nostro sito.
Ne apprezziamo soprattutto lo sguardo verso la materialità dei rapporti
economici e politici a livello internazionale: ciò che più conta, per noi, non è
certo fare allarmismo, ma non perdere mai di vista la realtà, e in particolare
quella che va oltre le nostre immediate vicinanze (l’analisi dell’economia e
della politica internazionale, assolutamente necessaria in un mondo globale, non
è esattamente un punto di forza della maggioranza degli anarchici). Dal canto
nostro, crediamo però che sia sempre buona cosa prepararsi, e preparare chi ci
ascolta, allo scenario peggiore, specialmente in tempi di inerzia della
catastrofe. Il che non esclude, ma integra l’attenzione – giustamente richiama
dall’autore dell’articolo – agli effetti materiali che sono già prodotti dalla
guerra sulla pelle degli sfruttati.
Riarmo e toni apocalittici
Nell’attuale (e striminzito) campo rivoluzionario – quello che non ha rinunciato
ad adottare una postura classista, internazionalista, antimilitarista e
disfattista – la questione del riarmo viene spesso affrontata facendo largo
ricorso a toni apocalittici. In particolare, per quanto riguarda l’Europa,
stante lo scenario ucraino, il fatto che gli stati accelerino la corsa al
riarmo, sembra spingere molti a credere che la guerra totale alle nostre
latitudini sia questione di mesi, magari anni; la clessidra del tempo di ”pace”
va esaurendosi, la catastrofe incombe. Sarà poi così?
Se non si può rimanere indifferenti al riarmo europeo, soprattutto a quello
intrapreso da potenze come la Germania, per orientarsi nel caos propagandistico
e patriottardo promosso dalle classi dominanti del Vecchio continente,è
altrettanto impossibile prescindere da una serie di valutazioni circa lo stato
del conflitto in Ucraina e le possibilità concrete di ”scelta” alla portata, nel
breve-medio termine, degli stati dell’Europa centrale e occidentale, al fine di
preparasi a quella che viene presentata come un’incombente minaccia di attacco
russo. Sarà allora il caso di prendere atto, come invitano a fare analisti,
tutt’altro che sovversivi, del calibro di Fabio Mini o Lucio Caracciolo, che,
nell’immediato, la Russia non ha alcuna seria intenzione di attaccare l’Europa,
a partire dai paesi baltici; e non perché non disponga dei mezzi convenzionali e
nucleari indispensabili a questo scopo, in questo senso semmai il problema vale
per l’avversario. Ad esempio, dovrebbe far riflettere l’atteggiamento
dell’Europa, che mentre dipinge il nemico moscovita come il nemico della
democrazia pronto ad attaccarla da un momento all’altro, temporeggia, sperando
nella prosecuzione del conflitto in Ucraina, per compensare le deficienze che si
porta dietro da decenni sul piano militare, e non solo. Ad ogni modo, per la
Russia, sin dallo scoppio del conflitto ucraino nel 2022, aggredire l’Europa,
con la quale fino a pochi anni prima facevano affaroni, non è mai stata una
priorità strategica, quanto piuttosto un’azione insensata frutto delle
fantasticherie occidentali, dalla portata potenzialmente destabilizzante per
Mosca. In tutto ciò, gli USA sono ben lungi dall’essersi defilati dal conflitto
in Ucraina; fatto testimoniato dal recupero dei rapporti bilaterali con la
Russia, incrinati dall’amministrazione Biden, funzionali ad evitare un
coinvolgimento in uno scontro diretto con Mosca e, possibilmente, a tentare di
sganciarla dalla Cina. Sempre Fabio Mini recentemente ha sottolineato che la
titubanza dell’attuale amministrazione americana nel fornire agli ucraini i
tanto richiesti missili Tomahawk si inserisce in questa direzione; senza
tralasciare che il Pentagono ha fatto notare al dealmaker della Casa Bianca che
la fornitura non rinforzerebbe affatto la capacità di deterrenza verso la
Russia, ma anzi potrebbe favorire un’escalation nucleare. La Russia è dotata poi
di sistemi difensivi antimissile capaci di ridurre fortemente il successo, in
termini di capacità di colpire i bersagli russi individuati, a due missili su
dieci lanciati. «In Ucraina è già successo agli ATACMS e ai Patriot, che hanno
visto la loro percentuale di successo crollare dal 90% dichiarato al 6%
effettivo». Altro che deterrenza. Per lo sbirro mondiale tanto vale allora fare
più concessioni tattiche possibili a Mosca, rimettendo l’Europa, lacerata dai
contrasti interni, al suo posto, senza mancare di rammentargli la sua
irrilevanza, non avendo assolutamente nulla da mettere sulla bilancia dei
rapporti di forza esistenti. Ciò che rimane, a partire dalla futura
ricostruzione ucraina, è, ancora una volta, questione di affari. Tra i 28 punti
della bozza del piano di pace per l’Ucraina, a quanto pare elaborato in un mese
di confronto tra la delegazione statunitense e quella russa, era previsto non
solo l’addio dell’Ucraina ai piani di integrazione nella NATO, ma anche la
riammissione di Mosca nei circuiti della finanzia internazionale (leggi SWIFT),
la cancellazione delle sanzioni, in cambio del 50% dei proventi della
ricostruzione, finanziata in parte dagli assets russi congelati in Belgio e in
parte dalle tasche europee. Le richieste di modifica del piano da parte degli
europei evidenziano soprattutto, e per l’ennesima volta, il tentativo di mandare
in vacca il deal, rimettendo al centro la palla dell’integrazione ucraina nella
NATO. Intendiamoci, i proletari, di qualsiasi nazionalità siano, non hanno
amici: piano USA-Russia o piano UE, ogni decisione viene presa sulla loro pelle;
quattro anni di massacri in nome della difesa della democrazia contro la
tirannide dovrebbero averlo dimostrato, in barba alla mitizzazione della
resistenza ucraina, alimentata da disgraziati strappati via dalle proprie
famiglie e comunità. Ecco le magnifiche e progressive della coscrizione
obbligatorio e della legge marziale, ma, per l’amore del cielo, in salsa
democratica, mica come in Russia.
Ma torniamo al riarmo europeo, la cui necessità impellente non va attribuita
esclusivamente alla minaccia Russa, ma ancor prima al ruolo degli Stati Uniti in
Europa e all’incognita della loro permanenza nell’arco del prossimo decennio. La
Germania, recentemente presa in considerazione in relazione alla presentazione
della nuova legge sulla leva1, come sempre fa scuola, anche se bisogna tenere
ben presente che tra ciò che viene dichiarato e ciò che viene poi applicato la
corrispondenza non è automatica: gli investimenti nella spesa bellica e il
rafforzamento degli eserciti non avvengono dall’oggi al domani. Perché vengano
destinati efficacemente occorre continuità, stabilità politica interna,
collaborazione della popolazione e sforzo strategico nel lungo periodo.
Partendo dalle deficienze a cui si accennava sopra, le Forze armate tedesche tra
gli anni Novanta e il 2022 hanno perso finanziamenti per un valore complessivo
di 400 miliardi di euro, con serie conseguenze sul piano della prontezza
operativa, delle infrastrutture logistiche, delle scorte, del personale, delle
tecnologie della comunicazione, ecc. Nel 2022 Scholz dichiara pubblicamente che
la Germania si deve svegliare dal suo letargo pacifista per riarmarsi, e in
fretta. Viene così stanziato il primo fondo da 102 miliardi, poi nel marzo del
2025 è il turno del programma di potenziamento della Bundeswher: le spese
belliche oltre l’1% vanno fuori bilancio. Per il 2029 è previsto l’investimento
di 150 miliardi; intanto, per quanto riguarda il 2026, si passa ai 108 miliardi.
Sempre recentemente però, si è stimato ottimisticamente che entro il 2030 la
Germania non sarà minimamente in grado di reggere una guerra convenzionale, a
causa di tutte le mancanze di cui sopra. Anche perché per farlo è necessaria
un’altra cosa: la conversione dell’industria in chiave bellica; un processo che
richiede tempi lunghi, capitali e sviluppo tecnico. Rheinmetal punta già ad
acquisire stabilimenti Volkswagen, coerentemente con l’idea di far leva sul
settore automobilistico in forte crisi per realizzare la riconversione. Ancora
poco, se è vero che il tempo stringe, e stiamo parlando della Germania, mica
dell’Italietta.
In un articolo dell’ultimo numero della Rivista di Geopolitica Limes, sempre in
riferimento alla Germania, si riporta come: «le guerre del presente non si
combattono con armi tecnologicamente sofisticate e pochi mestieranti. Nessuna
blitzkrieg alle viste. Sono conflitti d’attrito, scontri di lunga durata tra
apparati bellici di vaste proporzioni. Perdi quando si logora il consenso
interno».
Quando avviene questa frattura? Questo Limes non ce lo dice, o meglio ce lo dice
diversamente: quando le condizioni di vita e la riproduzione della forza lavoro
subiscono una forte degradazione funzionale allo sforzo bellico; diversamente
gli appelli al disfattismo rivoluzionario, alla diserzione, sono esercitazione
retoriche ad uso e consumo degli addetti ai lavori, piaccia o meno. La lotta di
classe e l’antimilitarismo devono quindi essere necessariamente legate, giacché
separarla, ricondurre la seconda a ragioni etiche, di giustizia e morale, senza
sminuire la realtà e concretezza dell’atrocità, della disumanità connaturata a
questi fenomeni abominevoli di negazione totale delle vite proletarie, è opera
più da pretaglia che da sovversivi. Comunque, è lo stesso articolo a presentarci
il sostanziale accordo di due terzi dei tedeschi verso l’aumento delle spese
militari entro il 2032, ma con almeno due riserve: innanzitutto che non venga
toccato lo stato sociale – ma anche a fronte della possibilità di scorporare la
spesa bellica dal patto di stabilità, prima o poi i conti saranno da fare, e
saranno dolori-; secondo: poca disponibilità a sacrificarsi per la patria;
soltanto un tedesco su sei sarebbe pronto a rischiare la pelle per difendere i
confini tedeschi. Ancora una volta: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!
30/11/2025
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https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/11/15/una-levataccia-per-la-gioventu-tedesca-ed-europea/
Riprendiamo da lanemesi.noblogs.org questa risposta all’articolo su
Comunismo-e-individualismo, pubblicato anche su questo sito:
Qui il testo in pdf: Conciliare
“Che fatica, conciliare l’inconciliabile…”. Una risposta al contributo “Sulle
solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo
(con disimpegno a vista sul nichilismo)”
Che fatica, conciliare l’inconciliabile…
Recentemente è stato fatto circolare, sia su Il rovescio che su La Nemesi, un
contributo intitolato Sulle solite vecchie amate questioni. A proposito di
comunismo e individualismo
(https://ilrovescio.info/2025/10/22/sulle-solite-vecchie-amate-questioni-a-proposito-di-comunismo-e-individualismo/),
contenente alcune risposte a quattro scritti critici – di cui due riconducibili
a Juan Sorroche, prigioniero anarchico, uno ad un autore anonimo e l’altro
ancora al gruppo anarchico Panopticon – aventi per oggetto gli articoli La fase
nichilista e L‘anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, entrambi
pubblicati sul settimo numero del giornale anarchico Vetriolo.
I quattro scritti menzionati non sono affatto sovrapponibili, né per quanto
riguarda il loro contenuto, che nell’approccio metodologico, piaccia o meno il
termine, adottato nello sviluppo delle critiche.
Poco importa che dietro alle righe che avete sotto gli occhi vi sia l’autore di
uno di questi quattro testi; anonimato sia, tanto per quello (Alcune
considerazioni critiche su “La fase nichilista“), quanto per questo. Tuttavia,
non posso fare a meno di rilevare che emmeffe, l’autore della risposta, o meglio
dell’insieme di risposte, evidentemente meno avvezzo alla scelta dell’anonimato,
ha replicato in maniera piuttosto autoreferenziale e, mi verrebbe da dire
egocentrata, al mio contributo, ignorando di fatto una serie di punti critici
ben più rilevanti, ai fini di un dibattito tra rivoluzionari, di mal
interpretate accuse di scarsa originalità nella teorizzazione della cosiddetta
fase nichilista. Piuttosto che tornarci sopra – l’autoreferenzialità è
terribilmente noiosa – trovo maggiormente interessante collegarmi solo ad alcuni
punti sviluppati nel suo scritto, al di là del loro specifico riferimento alle
critiche mosse nei quattro diversi scritti, tentando di alimentare il dibattito.
A questo scopo, può essere utile avvalersi di alcune citazioni testuali. Faccio
solo presente che nell’opuscolo Bussole impazzite
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/09/25/bussole-impazzite-note-critiche-su-teoria-radicale-classe
coscienza-individuo-comunita-e-possibilita-di-rottura-rivoluzionaria/) – sono
state trattate alcune questioni – su cui non mi posso dilungare in questa sede –
attorno a cui si è sviluppato anche il dibattito in corso: l’individuo, la
comunità, il contenuto del comunismo e le recenti rivolte e sommosse
verificatesi in tutto il mondo.
* * *
«L’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli
anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del
pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti,
sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali
diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il
male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in
secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati
innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e
socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione
del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale
originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per
ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a
favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie
postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie)»
Il nostro autore la fa un po’ troppo facile. Il frontismo antifascista è
certamente una delle massime espressioni dell’assunzione ottimistica e della
partecipazione attiva a lotte sociali interclassiste. In questo senso, la
formula, abusata e raramente praticata nelle sue conseguenze pratiche,
«l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», conserva integralmente la
sua validità, e non solo perché, al termine della Seconda guerra mondiale, il
fascismo ha perso militarmente e ha vinto politicamente, in quanto modo di
essere del capitalismo (e quindi dello Stato). Il fatto è che, volendo essere
onesti, la tattica del frontismo antifascista non può essere ricondotta
esclusivamente ai partiti marxisti fedeli alle direttive della Terza
Internazionale, dominata dai bolscevichi. Tra l’altro, in seno ad essa non tutti
i partiti aderirono alla tattica del fronte unico; il caso del Partito comunista
d’Italia, da poco fondato e diretto dalla cosiddetta Sinistra comunista
italiana, e dal più volte evocato – poco coerentemente essendo il nostro autore
anarchico – Amadeo Bordiga, è emblematico, ma non esaurisce le posizioni
scettiche e di netto rifiuto del frontismo, più diffuse di quanto si immagini in
campo marxista, non solo al principio degli anni 20′.
Il frontismo è un fenomeno che ha coinvolto storicamente anche gli anarchici,
molti ma non tutti, tanto in Italia, ad inizio anni Venti con gli Arditi del
popolo, tra il 1943 e il 1945 con la Resistenza partigiana, che, ancora più
evidentemente, in Spagna, e precisamente nella misura in cui il fascismo veniva
visto come il nemico numero uno da combattere. La lotta di classe e lo scontro
ultimativo rivoluzionario venivano così rimandati a democrazia restaurata. È lo
stesso autore de La fase nichilista a farcelo presente più avanti: in Spagna
alcuni anarchici accettarono addirittura dei ministeri, per non parlare poi dei
tentativi di sabotaggio degli scioperi spontanei che si produssero più volte già
durante le prime fasi della guerra civile, del maggio 1937 a Barcellona, del
discorso pronunciato da Durruti a Radio Barcelona (e riportato sul bollettino
Solidaridad Obrera, il 5 novembre 1936), in cui il leader anarchico – si
sprecano gli esempi di veri e propri capi libertari nella storia dell’anarchismo
– esortava le organizzazioni operaie a non dimenticare che il dovere principale
a cui erano chiamate era combattere il fascismo, motivo per cui dovevano
lasciare perdere «i rancori e la politica, e pensare alla guerra». Tornando al
nostro autore, non è chiaro perché l’esempio del tradimento della CNT debba
costituire un’eccezione, tale da permettere di ricondurre il tatticismo
frontista ai marxisti, deresponsabilizzando storicamente gli anarchici.
La questione conserva una certa attualità. Infatti, ancora oggi l’antifascismo
militante classico, con tutto il suo squallido corollario da politicanti –
codismo, carrozzoni, logiche racketistiche, compromessi col ”meno peggio”, ecc –
viene volentieri abbracciato da molti/e attivisti/e; a monte c’è lo stesso
principio: prima si fanno i conti col pericolo fascista sempre dietro l’angolo –
evitando di fare un bilancio di cosa sia stato il fascismo oltre allo
squadrismo, alle camicie nere, all’olio di ricino, alla brutalità repressiva,
quindi ignorando il suo più profondo contenuto, circoscritto ad una fase
capitalistica e di scontro di classe che non esiste più nella forma in cui si
pose un secolo fa – poi, ammesso e concesso che ne venga riconosciuta
l’esistenza, c’è lo scontro di classe.
Ogni fronte antifascista è fronte democratico, ogni fronte interclassista è
fronte contro l’autonomia proletaria.
«Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto
riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai
due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In
occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima,
ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di
fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta
ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin,
Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle
frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa
possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la
produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la
lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo
poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato
a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo
occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti,
dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle
politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo
scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla
resistenza».
Da tempo ci troviamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma bisogna
fare delle precisazioni utili non a trastullarsi il cervello con menate
accademiche, come molti attivisti ostinatamente continuano a sostenere, ma a
comprendere dove sta andando il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto,
il processo di globalizzazione, risposta alla crisi di accumulazione emersa sul
finire della Golden Age, sin dal principio aveva fornito solo risposte parziali
e niente affatto risolutive per il precario stato di salute del capitalismo. La
globalizzazione inizialmente si configura come una vera e propria piattaforma di
rilancio dell’accumulazione mondiale sostenuta dall’imperialismo finanziario del
dollaro e dalla dilatazione della sua sfera d’influenza – resa possibile dalla
fine degli accordi di Bretton Woods – all’intero globo. Contemporaneamente, si
assiste al rapido sviluppo cinese, frutto del rapprochement sino-americano,
accompagnato da un sostanziale calo della produttività industriale negli USA e
dalla progressiva formazione di enormi bolle di capitale fittizio pronte a
scoppiare, ecc; contraddizioni che sono andate inasprendosi, nonostante gli
innumerevoli tentativi di arginarle, e che sono parzialmente deflagrate nella
grande crisi finanziaria dei titoli subprime del 2008.
Dire che la crisi in corso è resa possibile delle nuove tecnologie – una
formuletta meccanicista che un buon anarchico dovrebbe sbattere in faccia ai
suoi storici avversari, i ”socialisti scientifici” – è un’affermazione fumosa,
se non si prende in causa il fenomeno della caduta tendenziale del saggio di
profitto, quindi – essendo il capitale costretto a rivoluzionare continuamente i
propri mezzi di produzione per fronteggiare la concorrenza in termini di
produttività e costi – l’insieme di contraddizioni connesse al fenomeno della
sostituzione macchinica della forza lavoro viva, per cui, riducendo all’osso:
più capitale fisso = meno forza lavoro viva impiegata = meno estrazione di
plusvalore = popolazione eccedente crescente = quantità crescenti di merci
invendute, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista dei mercati, del
sistema monetario, del credito, della finanza, ecc. Se poi ce ne sbattiamo
altamente dei più recenti, ormai ricorrenti e sistematici, tentativi di
decoupling selettivo tra USA e Cina, del debito mondiale e, in particolar modo,
di quello yankee; del fatto che gli stessi Stati Uniti fanno sempre più fatica,
economicamente e militarmente, a sostenere la propria posizione di sbirro
mondiale, della messa in discussione dell’egemonia del dollaro come valuta di
riferimento per gli scambi internazionali, e tante altre cosette non da poco,
allora la confusione è più che garantita. La crisi della globalizzazione non può
quindi essere ridotta all’affermazione di nuove tecnologie nella sfera della
produzione e della logistica.
Sulla spaccatura politica interna ai grandi amministratori del capitale poi ci
sarebbe molto altro da aggiungere, per esempio che il reshoring e i già citati
tentativi di disaccoppiamento delle due più grandi economie – anche considerando
la sola Cina, che non è poco, senza di essa gli USA non starebbero in piedi –
stanno dando pochi risultati. Persino Biden e ”l’élite politica liberale” hanno
dovuto raccogliere il lascito trumpiano rappresentato dall’inasprimento della
guerra commerciale contro la Cina: un processo avviato formalmente nel 2018 con
le tariffe su acciaio e alluminio, arrivate a colpire le importazioni cinesi per
370 miliardi di dollari, nonché su merci e componenti ad elevato contenuto
tecnologico. Che vogliamo dire poi della reciproca dipendenza tecnologica tra le
due potenze, che vede la Cina detenere quasi il monopolio delle terre rare,
essenziali allo sviluppo delle moderne tecnologie e dei sistemi d’arma, con
particolare riferimento all’IA – su cui si sta già giocando la partita decisiva,
in vista dello scontro aperto tra i due colossi che va preparandosi, e che per
ora è solo rimandato – e gli Stati Uniti la supremazia (ancora per quanto?) in
materia di produzione di microprocessori e software più all’avanguardia?
Insomma, il nodo delle tecnologie e delle materie prime rende evidente
l’impossibilità di un disaccoppiamento totale delle due più grandi economie
mondiali. Alle restrizioni statunitensi nell’esportazione di tecnologie avanzate
la Cina risponde con restrizioni sull’esportazione di terre rare. Per il momento
non è possibile parlare di un’inversione della globalizzazione, anche e
soprattutto perché i tre processi fondamentali che la caratterizzano: catene
globali del valore, logistica e apertura dei mercati mondiali persistono…
scricchiolano, ma persistono.
«La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo
momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è
inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi
stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un
parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come
una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale.
Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua
espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza
di massa contro lo sviluppo scientifico»
Per un panoramica, tutt’altro che esauriente, sulle determinazioni della lotta
di classe internazionale contemporanea rimando al già citato Bussole impazzite.
Mi limito a sottolineare alcune contraddizioni individuate nel testo.
Inizialmente l’autore ci invita a diffidare delle lotte interclassiste, per poi
sostenere che la resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico coincide con
la lotta di classe. Quest’ultima presuppone un certo grado di autonomia del polo
proletario nello scontro col capitale e, stando a quanto si è verificato
globalmente negli ultimi cinque anni durante le manifestazioni di opposizione
allo sviluppo scientifico, come per esempio le lotte contro il green-pass e
l’obbligo vaccinale anti-Covid in Europa, sarebbe del tutto falso, al di là
delle valutazioni che possono essere fatte in merito a quelle stesse lotte,
affermare che in esse la componente proletaria sia stata dominante e, men che
meno, dotata di una propria autonomia sia in termini di obiettivi, se non in
sparuti casi, che di organizzazione, ecc. Non a caso si trattava di classici
esempi di lotte interclassiste.
È vero, la lotta di classe non è mai pura, ma non la si può cercare nemmeno dove
non è effettivamente presente. Rintracciare manifestazioni delle lotta di classe
in tutto il mondo è, data l’autoevidenza di fenomeni difficilmente analizzabili
nel dettaglio in questa sede, chiaramente possibile e necessario. Tuttavia, ciò
che risulta essenziale evidenziare è che esse, oggi più che mai, sono
direttamente legate alla crisi della riproduzione del proletariato e delle
classi medie impoverite, quindi alla crisi della riproduzione del rapporto
capitale-lavoro-popolazione eccedente. Il green-pass, per alcuni settori di
proletariato europeo, come di classe media, ha costituito motivo di
mobilitazione in primo luogo perché molto frequentemente il rifiuto della
vaccinazione comportava immediate difficoltà nel mantenere un’occupazione
relativamente stabile e portare a casa un salario che consentisse di
sopravvivere in tempi di pandemia. Principi, etica, passione per la libertà,
ecc, declinati in maniera più o meno democratoide, borghese o bottegaia – non si
può negare che l’influsso ideologico delle mezze classi sia stato evidente – e
molto più raramente libertaria, sono motivazioni secondarie. Un altro modo per
dire che sotto il capitalismo, se sei un senza riserve, con le dichiarazioni di
principio non ci fai uno stracazzo di niente, non ci paghi l’affitto, la spesa,
le bollette, le rette per i tuoi figli, se puoi permetterti di averne, ecc.
Bordiga, per cui emmeffe sembra avere un’incomprensibile passione, era solito
ripetere che dai bei principi, dall’etica, dalle pure volontà individuali e
dalla loro somma non può derivare quel fenomeno di ionizzazione sociale delle
molecole proletarie, fattore necessario perché possa prodursi un violento
scontro di classe generalizzato. Per il comunista partenopeo, la rivoluzione
sociale non è un fatto tanto diverso dall’evoluzione della specie umana: prima
la pancia, poi la mano, infine il cervello; una visione che poco si adatta al
volontarismo anarchico, e che deve molto al metodo scientifico, pur essendo
assai critica della scienza e delle teorie della conoscenza proprie della
civiltà borghese. Per Bordiga l’ortodosso, non esisteva una mezza misura: il
marxismo, concezione monistica del mondo e della realtà materiale, o si
accettava in toto o non si era altro che dei ciarlatani. Inoltre, e qui concludo
la parentesi sul primo segretario del PCd’I – difensore dell’anonimato e
acerrimo nemico di quella che definiva la peste individualista, nettamente
contrapposta al comunismo, che a sua volta non ha niente a che vedere col
comunismo anarchico, non movimento reale ma ideale da realizzare, di cui parla
il nostro autore – egli nutriva un sincero disprezzo per certo anarchismo, e per
qualsiasi forma di ”proudhonismo”e idealismo. Avversario della bolscevizzazione
e critico della cosiddetta degenerazione della Terza Internazionale, era
fermamente convinto che il processo di autorganizzazione del proletariato in
soviet dovesse essere comunque subordinato all’azione del partito di classe.
Alla difesa dei meccanismi democratici opponeva la dittatura proletaria e il
centralismo organico. Emmeffe, hai voglia a parlare di anarco-bordighismo!
Tornando a noi, le lotte portate avanti tra il 2020 e il 2021 in una serie di
fabbriche e magazzini in Italia per la chiusura degli stabilimenti, la tutela
della propria salute, per imporre un’immediata diminuzione dei ritmi di lavoro e
dei rischi di contagio, più pause per uscire all’aperto e respirare senza
mascherina, ecc (cfr. AA.VV, Loco19, Colibrì), non si sono certo verificate a
causa di un diffuso, consapevole o meno, sentimento di ribellione verso la
scienza e la civiltà industriale. Se fosse stato così, la messa in questione
della società industriale, della medicina, dei dispositivi di tracciamento,
difficilmente sarebbe tornata in maniera repentina sui propri passi ad emergenza
sanitaria rientrata. Fa specie allora che il nostro autore inviti i lettori a
non cadere nel tranello che porta chi si fa eccessivamente condizionare dalle
proprie convinzioni a cercare nelle manifestazioni di opposizione sociale e
nelle lotte ciò che desidera ardentemente scorgervi.
Negli USA l’assassinio di Floyd da parte degli sbirri – con gli effetti della
pandemia che premevano duramente sul proletariato, soprattutto su quello
razzializzato, sotto attacco da decenni, uniti alla disastrosa situazione
sanitaria e sociale – ha fatto da detonatore ad un accumulo di fattori pronti a
deflagrare nello scontro diretto con lo Stato. I risultati sono noti: prolungati
disordini, sommosse, blocchi, attacchi a commissariati, stazione e mezzi di
polizia, espropri, occupazioni di aree urbane sottratte al controllo delle
autorità, saccheggi e rivolte tendenti a superare i confini etnici per acquisire
contorni chiaramente classisti. Infatti, inizialmente il movimento aveva
incontrato la solidarietà e la partecipazione attiva di consistenti fette di
proletariato bianco – deluso e arrabbiato per le disattese aspettative di
aumento dell’occupazione e reindustrializzazione delle aree depresse del Paese
promosse da Trump nel 2016 – e latinos; solo in un secondo momento, con il
recupero operato dal variegato monnezzaio post-moderno, ha acquisito tratti
identitari, democratoidi ed infine elettorali. La rabbia della popolazione
ghettizzata, delle lavoratrici e dei lavoratori essenziali, spesso occupati in
occupazioni e mansioni richiedenti livelli minimi di specializzazione, ha fatto
da catalizzatore e ha trascinato altre fette di proletariato, anche quelle con
qualche ”garanzia” in più, fino alle classi medie proletarizzate e in via di
rapida proletarizzazione. Sarebbe impossibile poi elencare e riassumere le
caratteristiche delle rivolte, definite dai media, piuttosto superficialmente
(ma che vuoi mai), della GenZ, avvenute in tutto il mondo nel 2025, figuriamoci
durante gli ultimi cinque anni. La scienza e la tecnologia però non sembrano
essere stati affatto al centro di tutti questi episodi. Toccherà forse tirare
fuori l’inconscio freudiano?
«La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale
il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del
capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di
espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo
interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta,
«ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni
Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno
storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato
(peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di
«delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto
con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore
compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere
brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la
quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la
democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista,
viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe».
Partendo da una brevissima sintesi dello stato attuale della globalizzazione, si
è visto come essa abbia subito un rallentamento, di cui le politiche
protezioniste, il ristagno degli accordi commerciali multilaterali, la
restrizione degli investimenti diretti esteri a livello produttivo rappresentano
solo alcune manifestazioni. Il contesto storico presente non è fondamentalmente
caratterizzato dallo scontro politico tra sovranismo e liberismo, come sostiene
il nostro autore. Tale contrapposizione, al massimo, è riflesso delle
contraddizioni, brevemente presentate sopra e realmente centrali, di un modo di
produzione capitalistico che, in alcune aree del pianeta più di altre,
soprattutto in Occidente, versa in condizioni particolarmente difficili; tali da
far pensare, nel medio-lungo termine, ad una disarticolazione parziale
dell’attuale assetto geoeconomico e ad un’inevitabile riarticolazione del
capitalismo mondiale. Il termine disarticolazione richiama senza dubbio
l’emersione di fenomeni come le guerre commerciali e guerreggiate, simmetriche o
meno, ma anche sconquassi sociali generalizzati, ovvero una ripresa della lotta
di classe a varie latitudini passibile di sfuggire al controllo degli stati e
delle classi dominanti. Bisogna però tenere presente che la globalizzazione non
è una politica che si possa scegliere di abbracciare o abbandonare
volontaristicamente – quelle che l’autore chiama élite sovraniste e liberali, i
singoli amministratori del capitale, non dispongono delle forze per incidere
politicamente su processi globali altamente complessi, sedimentati e ramificati
– ma uno stadio del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione di
merci. Questo stadio, si è cercato di mostrarlo in poche righe, se certamente ha
generato contraddizioni gigantesche tendenti a metterlo in questione nella sua
totalità, non ha esaurito tutte le sue carte. Lo scontro politico tra élite di
cui parla l’autore non va quindi assolutizzato.
Le delocalizzazioni, contrariamente a quanto viene affermato in questo passaggio
del testo, non sono affatto venute meno; anzi la tendenza degli ultimi decenni è
riassumibile in un ulteriore processo di concentrazione e differenziazione di
gerarchie e funzioni all’interno delle catene globali del valore, con paesi
basati sull’esportazione di materie prime, paesi manifatturieri con larga
disponibilità di forza lavoro a basso costo, paesi a manifattura avanzata, ma
estremamente settorializzata e, infine, paesi caratterizzati da attività
economica volta allo sviluppo di tecnologie e servizi all’avanguardia e ad alto
contenuto tecnologico, perciò al vertice della gerarchia, ma comunque dipendenti
dalle altre economie su più piani. Dunque, Emmeffe dà la globalizzazione per
spacciata troppo presto.
Per quanto riguarda la sua parentesi sugli anni Settanta, beh, non so di chi
stia parlando, sono nato a PCI definitivamente morto da qualche anno. Ma
l’anagrafe è noiosa tanto quanto l’autoreferenzialità, meglio concludere.
«Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si
consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che
dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la
nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario
del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina
che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla
realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e
non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui
essa si esprime a livello di massa in Occidente»
L’autore vorrebbe far risorgere un cadavere, quello del nichilismo russo della
seconda metà dell’Ottocento, putrescente tanto quanto lo zarismo. Non è
possibile sorvolare sul parallelismo con la situazione di un impero alla cui
morte convivevano ancora almeno tre modi di produzione: feudale, asiatico e
capitalistico, oltre a vestige di antichissimo comunismo, rilevabili nella
comunità di villaggio o Obscina. La lotta di classe è una dinamica, invarianza
storica all’interno delle società di classe, non una ricetta, una formula o un
modello organizzativo trasponibile a piacimento, al di fuori del tempo e dello
spazio, sulla base dei gusti personali, delle aspettative e dei principi etici.
Le forme della lotta classe, le modalità di autorganizzazione degli sfruttati
mutano perché è il modo di produzione a trasformarsi nel tempo e la classe dei
senza riserve a scomporsi e ricomporsi in funzione di quelle. In questo senso,
ciò che più conta è la spontaneità del proletariato: l’unica forza capace di
dare corpo agli organismi dell’autonomia proletaria. La teoria rivoluzionaria ha
il dovere di sintonizzarsi con questa spontaneità, laddove e quando emerga,
senza illudersi di sostituirsi ad essa, pensando di bruciare tappe che non
possono essere bruciate da individui singoli o gruppi, imboccando presunte
scorciatoie che portano solo all’autoreferenzialità, all’autocompiacimento e
all’autocelebrazione delle proprie gesta militanti, che si fa beffa della
vigliaccheria e dell’attendismo degli schiavi sonnolenti. Che tale
sintonizzazione sia finalizzata a prendere il controllo del movimento
rivoluzionario onde dirigerlo, piuttosto che assecondarne l’autonoma spinta
verso la trasformazione dei rapporti sociali che incatenano l’umanità intera è
altra faccenda da affrontare necessariamente, quella dell’organizzazione
rivoluzionaria.
Riceviamo e diffondiamo:
Segnaliamo la pubblicazione dell’opuscolo:
Una storia. Il gasdotto TAP, l’aggressione a un territorio e l’esperienza di una
lotta locale.
Il Trans Adriatic Pipeline, segmento adriatico di un gasdotto che attraversa
Asia ed Europa, è stato messo in funzione nel dicembre 2020.
Questo equivale al fallimento della lotta contro la sua costruzione?
Chi ha realizzato questo opuscolo è stato parte integrante di quella lotta
vivendo notte e giorno la realtà del presidio nato nelle vicinanze del cantiere,
partecipando attivamente alle assemblee, all’organizzazione delle iniziative,
alle situazioni di contrapposizione e ai tanti momenti di socialità
disorganizzata.
Abbiamo raccolto un po’ dei materiali prodotti in quegli anni, tra manifesti,
volantini e fogli periodici con cui abbiamo provato a diffondere le nostre idee,
informare su ciò che stava accadendo, incoraggiare alla lotta. Aggiungendo
alcuni spunti per ragionare su quali sono state le criticità e quali invece le
pratiche, le argomentazioni e le idee che possono essere utili in altre
circostanze, per continuare a lottare con perseveranza per strade, montagne e
campagne che viviamo ogni giorno. L’intento è anche quello di raccontare quali
sono state le dinamiche messe in campo dalla repressione, per combatterle al
meglio in futuro.
Un presupposto ci ha spinto all’epoca a mobilitarci: successo o fallimento non
sarebbero stati i termini della nostra contrapposizione.
E difatti lottare contro Tap non ci ha costretti a giocare sul suo stesso campo
ma ci ha consentito di dissodare campi nuovi, quelli della complicità con
individui che altrimenti mai avremmo conosciuto. Se questi sono ancora i nostri
compagni allora vuol dire che quel campo era fertile.
Infine, non volevamo lasciare l’ultima parola a giudici e tribunali. Oltre ai
numerosi procedimenti penali “più piccoli” arrivati a conclusione, conseguenza
delle molte denunce con cui la procura leccese ha cercato di fermare la lotta,
va ricordato che anche i tre grossi processi imbastiti a partire dal 2020, che
coinvolgono a vario titolo e in più circostanze una cinquantina di imputati con
condanne previste dai quattro mesi ai due anni – manifestazione non autorizzata,
accensioni pericolose, travisamento, danneggiamento, getto pericoloso di cose,
violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico
servizio, violazione del foglio di via, violenza e minaccia privata –, sono
oramai nelle fasi conclusive.
A chi vi è coinvolto, va tutta la nostra solidarietà.
Per contatti e richieste: unastoria@autistiche.org
Qui il PDF scaricabile: Una storia Tap – Web
In questa puntata di Harraga, in onda su Radio Blackout ogni venerdì dalle 15
alle 16, con alcuni compagni dell’assemblea contro il CPR del Friuli Venezia
Giulia, abbiamo parlato degli…
La prima di una serie puntate di Harraga (trasmissione in onda su Radio Blackout
ogni venerdi dalle 15 alle 16) in cui proviamo a tracciare un fil rouge, che
dalla…
“Si vous connaissez votre ennemi et vous-même, votre victoire est assurée. Si
vous vous connaissez vous-même mais pas votre ennemi, vos chances de gagner et
de perdre sont égales. Si vous ne connaissez ni votre ennemi ni vous-même, vous
perdrez chaque bataille.”
Sun Tzu, L’Art de la guerre
« C’est le moment de la paix par la force. C’est le moment d’une défense
commune. Dans les semaines et les mois à venir, il faudra faire preuve de plus
de courage. Et d’autres choix difficiles nous attendent. Le temps des illusions
est révolu. » C’est ce qu’a déclaré, le 4 mars dernier, la présidente de la
Commission européenne Ursula Von der Leyern en présentant un plan en 5 points
pour le réarmement des États membres de l’Union européenne, mobilisant près de
800 milliards d’euros pour les dépenses de défense. Cette annonce précède et
s’ajoute au fonds allemand de 500 milliards d’euros que le Bundestag, le
parlement allemand, a approuvé le 18 mars avec les votes du SPD, de la CDUCSU et
des Verts, ainsi que les modifications constitutionnelles visant à investir dans
le réarmement et à surmonter l’« obstacle » de la limite de la dette et des
dépenses publiques. L’accord multimillionnaire pour financer la défense
allemande donne à son tour une impulsion au plan de réarmement européen. Ce
dernier est structuré et articulé autour de 5 points stratégiques. Le premier
point du plan « ReArm Europe » prévoit l’activation de la clause de sauvegarde
nationale du pacte de stabilité (c’est-à-dire le règlement qui régit les budgets
des États membres de l’UE). Cette mesure permettra aux États membres
d’augmenter leurs dépenses d’armement au-delà de la limite de 3 % du déficit
sans encourir de procédure d’infraction européenne. En pratique, les
gouvernements pourront investir d’avantage dans l’armement sans craindre de
sanctions de la part de l’UE (c’est-à-dire faire ce que tous les gouvernements
et politiciens, tant de droite que de gauche, disaient impossible pour les
dépenses sociales et sanitaires). Le deuxième point prévoit un nouvel instrument
financier de 150 milliards d’euros pour des investissements militaires «
partagés ». La particularité est que ces investissements militaires concerneront
des équipements standardisés entre les armées de différents États, afin de
garantir que les systèmes militaires puissent fonctionner ensemble en cas de
guerre. Pour mettre en place ce mécanisme, la Commission européenne utilisera
l’article 122 du traité de l’Union, qui permet de créer des instruments
financiers d’urgence sans l’approbation du parlement des États européens. Le
troisième point introduit la possibilité d’utiliser les fonds destinés à la
pacification sociale (les « fonds de cohésion » présents dans chaque « plan de
résilience » introduit ces dernières années et émanation directe du manifeste de
la bourgeoisie et des États européens, à savoir le document Next generation UE)
pour des projets de réarmement de guerre.
Le quatrième point du plan prévoit la participation de la Banque européenne
d’investissement au financement à long terme d’investissements à caractère
militaire, tandis que le cinquième et dernier point ordonne la mobilisation
générale du capital dit privé, c’est-à-dire le vol des petites économies des
classes sociales défavorisées du vieux continent afin de financer la guerre des
patrons et des États, en drainant l’argent des petits comptes bancaires pour les
transformer en capitaux à risque dans des investissements militaires et dans la
réindustrialisation du vieux continent. La mesure proposée par Mario Draghi et
Enrico Letta après le succès obtenu ces dernières années au détriment des
classes exploitées pour financer les grands travaux dans l’État italien (dans ce
cas également, comme pour le « front intérieur » des États articulé autour de
mesures répressives, la classe dominante et l’État italien font école dans
l’Union européenne). L’idéologie nationaliste sert d’enveloppe et de partie
prenante dans le déclenchement de la guerre mondiale, tant dans ses variantes
ouvertement réactionnaires (par exemple, tous les partis d’extrême droite
demandent une plus grande attention aux différents réarmements nationaux) que
dans ses variantes progressistes et de gauche (par exemple sont évidentes, les
déclarations en France de certains représentants du Nouveau Front Populaire sur
l’urgence de recréer une idéologie patriotique et nationaliste de gauche). Dans
ce climat d’union sacrée et de mobilisation des consciences et des corps,
déserter (en ce qui nous concerne) le front occidental devient une urgence de
plus en plus pressante. Comment faire ?
Essayons tout d’abord de photographier les dynamiques et de fixer certaines
coordonnées de la « Grande Guerre » qui s’accélère sur la pente qui nous conduit
vers l’abîme, en partant du front oriental européen et en tenant fermement entre
nos mains le sextant du défaitisme révolutionnaire et de l’internationalisme
anti-autoritaire. La victoire de la partie de la classe dominante américaine qui
soutient l’administration Trump a accéléré le renforcement de
l’interventionnisme des États-Unis sur le continent américain, africain,
moyen-oriental et surtout indo-pacifique, tandis que le lancement des
pourparlers et des « rencontres de paix » entre les classes dominantes russe et
nord-américain met en évidence l’opposition croissante avec les bourgeoisies du
vieux continent (il est intéressant de noter que l’une de ces « rencontres de
paix » s’est tenue dans la ville de Munich, déjà théâtre de la tristement
célèbre conférence de paix de 1938) dans le sillage d’une sorte de Yalta 2.0 qui
rappelle bien les déclarations du premier secrétaire général de l’Alliance
atlantique, à savoir que l’OTAN sert à « garder les Américains à l’intérieur,
les Russes à l’extérieur et les Allemands en dessous ». Cela nous amène à
rappeler l’objectif du plus grand acte de guerre commis ces dernières années en
Europe au détriment de nos hôtes, à savoir le sabotage du gazoduc Nord Stream.
Au cours des derniers mois, le territoire de la région de Koursk, ainsi que les
zones frontalières entre la région ukrainienne de Soumy et la région russe de
Belgorod, ont été complètement reconquises par les forces militaires russes et
nord-coréennes. En ce qui concerne les territoires ukrainiens, la région de
Donetsk est sous contrôle russe à plus de 73 %, celle de Kherson à 59 %, et nous
assistons à un contrôle total de la Russie sur la région de Lougansk.
Actuellement, plus de 21 % du territoire de l’ État ukrainien est sous le
contrôle des forces armées de Moscou. Il est évident que les succès remportés
ces derniers mois par l’armée russe sur le front oriental ont un impact
considérable sur les négociations, étant donné que la bourgeoisie russe est en
train de gagner la guerre, et la préoccupation actuelle de nos dirigeants est de
mettre rapidement fin à ce conflit avant que l’armée ukrainienne ne s’effondre
et que l’armée russe ne se répande. Le risque que les dirigeants des deux camps
redoutent le plus est la présence d’un invité de pierre à la table des
négociations de paix éventuelles, à savoir le rôle que notre classe sociale joue
des deux côtés du front, avec le risque de plus en plus visible d’une
augmentation exponentielle des désertions du militarisme russe et
ukrainien-OTAN, jusqu’à aboutir – comme l’ont déclaré le mois dernier certains
analystes géopolitiques des patronnats occidentaux – à la possibilité d’une
mutinerie des troupes ukrainiennes contre le gouvernement de Kiev. Comme nous
l’avons toujours soutenu, la guerre en Ukraine est aussi une guerre pour le
contrôle des importantes ressources en terres rares indispensables à l’économie
de guerre et à la transformation de la société et du mode de production
capitaliste vers la phase numérique. Alors que la poursuite éventuelle et de
plus en plus précaire de l’aide militaire américaine dépend de l’accord qui
place entre les mains du capitalisme américain les ressources minières et les
infrastructures ukrainiennes qui, selon certaines sources à Kiev ces derniers
mois, auraient déjà été attribuées à l’Empire 2.0 britannique sur la base d’un
accord signé lors de la visite du Premier ministre Starmer à Kiev. Lors de la
conférence de Munich, il avait déjà été question de la proposition par la
délégation du Congrès américain d’un contrat qui aurait accordé aux États-Unis
les droits sur 50 % des futures réserves minières ukrainiennes. Les désaccords
et les tiraillements avec Trump au sujet des terres rares ces derniers mois sont
dus au rôle actif joué dans cette affaire par les classes dirigeantes
britanniques qui, selon un accord préliminaire signé par Zelensky et Starmer,
l’État ukrainien s’était engagé à transférer tous les ports, les centrales
nucléaires, les systèmes de production et de transfert de gaz et les gisements
de titane sous le contrôle de Londres. Le gisement de lithium de Shevchenko
(Donetsk), reconquis par l’armée russe en janvier dernier, contient environ 13,8
millions de tonnes de minerais de lithium. Ce gisement est le plus grand non
seulement d’Ukraine, mais de toute l’Europe. Dès 2021, la société minière du
Commonwealth European Lithium avait annoncé qu’elle était en train de sécuriser
le site. La perte de ce gisement est un coup dur pour les besoins en lithium des
classes dominantes de l’UE, qui auraient de toute façon dû se tourner vers la
bourgeoisie britannique. Mais l’agro-industrie (c’est-à-dire l’exploitation
intensive des terres et des animaux d’élevage avec l’expulsion des communautés
locales) est également partie prenante dans la course des patrons rivaux pour le
contrôle des riches ressources de l’ancienne Sarmatie. Par exemple, dès 2013, la
société agricole ukrainienne « Ksg Agro » a signé un accord avec le « Xinjiang
Production and Construction Corps » de l’État chinois pour la location de terres
agricoles dans la région orientale de Dnipropetrovsk. L’accord prévoyait une
location initiale de 100 000 hectares, avec la possibilité d’étendre cette
superficie à 3 millions d’hectares au fil du temps, soit environ 5 % du
territoire ukrainien, dans le but principal de cultiver et d’élever des porcs
destinés au marché chinois. Ce projet a aujourd’hui échoué non seulement en
raison des événements guerriers, mais aussi à cause de la résistance et des
petites luttes des communautés locales. Selon le rapport 2023 de l’« Oakland
Institute », plus de 9 millions d’hectares de terres agricoles ukrainiennes sont
dominés par la grande bourgeoisie locale et par de grandes entreprises
agro-industrielles américaines, européennes et saoudiennes (telles que « NHC
Capital » aux États-Unis, « Agrogénération » en France et « KWS » et « Bayer »
en Allemagne). Terre frontalière depuis l’époque du Khanat de la Horde d’Or et
du grand-duché de Lituanie, tous les exploiteurs et oppresseurs de tous les
temps ont toujours cherché à contrôler la partie de la plaine sarmatique
caressée par la mer Noire. Le nom même « Ukraine » signifie « près de la
frontière », c’est-à-dire la frontière entre des blocs d’ États et des
capitalismes opposés et un petit bassin semi-fermé et peu profond : la mer
Noire. Le nom de cette dernière n’est toutefois pas lié à la couleur de ses
eaux, mais « Kara » (« Noir ») est le nom donné par les Turcs à cette étendue
d’eau selon une ancienne association des points cardinaux à des couleurs
spécifiques. Mais la morosité liée à cette étendue d’eau étroite est plus
ancienne. Au VIIe siècle avant J.-C., les premiers colonisateurs de ses côtes
(les Ioniens) l’appelaient « Pontos Axeinos » (« mer inhospitalière »). Les mots
ne sont jamais neutres, mais servent les intérêts des différentes classes
exploiteuses, tout comme ils peuvent aussi servir les intérêts des exploités en
appelant les choses par leur nom, en désignant les responsables de l’oppression
et en dépeignant une autre vision du monde et de la vie. Comme son nom
l’indique, cette mer n’a jamais été contrôlée par personne. Dans la conjoncture
historique actuelle, quatre blocs d’États et de capitalismes principaux se
rencontrent et s’affrontent sur les côtes et dans les eaux du Pont-Euséne :
celui de la Russie, celui des États-Unis, celui de l’« Europe » et celui du
néo-ottomanisme. Une mer fermée caractérisée par un seul accès : celui du
Bosphore-Dardanelles contrôlé par l’État turc. Les classes dominantes russes ont
toujours considéré cette mer comme stratégique, car elle constitue le seul accès
aux mers chaudes et à leurs routes logistiques. Pour le néo-ottomanisme de
l’État turc, éloigner les États rivaux de l’Anatolie est un facteur crucial,
alors que l’expansionnisme des intérêts du capital turc vers l’Europe,
l’Afrique, le Moyen-Orient et l’Asie centrale se poursuit. La nouvelle doctrine
militaire de la « Mavi Vatan » (Patrie bleue) reflète pleinement ces objectifs.
Entre États et puissances en guerre les uns contre les autres, la diplomatie
turque s’efforce d’ouvrir des marges d’influence le long des axes mentionnés
précédemment. Par exemple, elle condamne Moscou pour l’invasion de l’Ukraine,
mais ne cesse de faire affaire avec le Kremlin. Elle permet aux flottes de la
marine militaire russe d’entrer et de sortir du Bosphore, mais oblige les
exploitants russes à accepter qu’elle dirige la « Black Sea Grain Initiative »,
négociée précisément par Ankara pour permettre à la fertile Ukraine d’ exporter
des denrées alimentaires, en augmentant bien sûr les tarifs de transit des
navires marchands dans la mer de Marmara. Les tentatives sur cette mer par nos
dirigeants pour briser l’anoxie causée par l’étranglement des classes dominantes
rivales américaines et russes sur l’Europe sont considérables, dans ce qui est
manifestement de plus en plus une réaffirmation de l’accord de Yalta, par
exemple avec l’ exploitation des fonds marins de ce pélage. L’UE souhaite
réaliser un câble internet sous-marin de 1 100 km pour relier les États membres
à la Géorgie, avec un investissement d’environ 45 millions d’euros. Le projet
vise à réduire « la dépendance de la région à la connectivité par fibre optique
terrestre qui transite par la Russie », a déclaré la Commission européenne,
comme rapporte le Financial Times. Actuellement, environ 99 % du trafic internet
intercontinental est transmis par plus de 400 câbles sous-marins qui s’étendent
sur 1,4 million de km. La hiérarchie et le contrôle des routes maritimes, des
ports, des transports et de la logistique orientent la circulation des
marchandises et des capitaux. Elle exprime depuis toujours la puissance des
États, depuis leur naissance, et le développement du capital. La mer, le
capitalisme et la guerre déplacent et redéfinissent les rapports de force entre
les États et les classes dominantes, dans les deux derniers carnages mondiaux
comme aujourd’hui. La Grande Guerre en cours se livre stratégiquement sur les
vagues. Au-dessus et en dessous d’elles, entre le contrôle des fonds marins, de
la terre, de l’espace orbital et cybernétique jusqu’à la maîtrise des
technologies permettant de contrôler l’espace infiniment petit (génétique et
nanotechnologique) contracté en une seule dimension. Pour notre classe sociale,
tenter de bloquer la logistique qui permet à la mégamachine de la mort de
fonctionner est une urgence vitale et nécessaire pour pouvoir déserter leur
guerre Je vais maintenant essayer d’introduire deux outils conceptuels pour
analyser les mouvements et les positions de notre ennemi de classe et, surtout,
pour pouvoir saisir la « fécondité de l’imprévu » (Proudhon) et essayer de lui
donner forme dans les territoires où il se présente et se présentera de plus en
plus : à savoir le concept des « goulets d’étranglement maritimes » et des
possibilités insurrectionnelles et révolutionnaires qui s’ouvrent à nous dans
les « miroirs de faille », c’est-à-dire dans ces territoires où s’affrontent les
intérêts des États et des blocs opposés. Lorsque nous parlons de contrôle de la
mer et de contrôle des espaces (tant physiques que virtuels comme le numérique).
Pour nos ennemis de classe, il s’agit du contrôle des terres entourant ces
espaces et de la domination sur la logistique qui rend possible l’exploitation
et leur monde (des routes commerciales aux infrastructures matérielles telles
que les câbles Internet sous-marins, qui permettent la transformation de la
société et du mode de production capitaliste vers l’ère numérique). Pour
contrôler ces espaces et ces territoires, les États et la classe dominante
doivent contrôler les détroits maritimes, également appelés, au niveau mondial,
« goulets d’étranglement ». Il s’agit de nœuds naturels et/ou artificiels (comme
Panama et Suez) des artères des États et des mécanismes matériels de
valorisation et de reproduction du capital, par lesquels transite la
quasi-totalité des marchandises et des câbles Internet à l’échelle mondiale.
Malacca, Taïwan, Panama, Gibraltar, Otrante, le canal de Sicile, Suez, les
Dardanelles, Bab al-Mandab, Ormuz, Béring, le canal entre l’Islande et le
Groenland, la mer Égée, le Jutland, etc. Si l’on considère les différents fronts
ouverts à l’échelle mondiale depuis la Grande Guerre, nous nous rendons compte
que les affrontements et les guerres en cours de nos maîtres tournent autour de
la domination de ces goulets d’étranglement car pour les États et les
capitalismes, depuis leur naissance, la mer est un passage incontournable dans
la course à la puissance d’eux-mêmes et des classes exploiteuses. Celui qui
domine ces espaces et donc, en pratique, ces goulets d’étranglement, domine le
monde. Autour de ceux-ci s’affrontent et/ou se superposent les différentes «
failles » des blocs d’États et de capitalismes qui s’opposent les uns aux
autres. En général, dans certains des territoires limitant une ligne de faille,
les contradictions sociales et économiques apparaissent plus facilement. Il
s’agit de territoires et de sociétés directement disputés ou simplement
considérés comme des points faibles par le bloc opposé en raison de leurs
caractéristiques historiques, sociales, économiques et culturelles. Par exemple,
pour nos maîtres, les territoires et les sociétés d’Europe orientale et d’Europe
du Sud sont plus sensibles potentiellement en raison des contradictions qui
pourraient déboucher sur des insurrections ou des autogestions généralisées et
sur la catharsis révolutionnaire qui pourrait en résulter . Les exemples
historiques où nous pouvons utiliser ces deux outils d’ orientation et de
navigation pour les possibilités insurrectionnelles sont toutes les grandes
révolutions libertaires de l’histoire du XXe siècle (Mandchourie, Ukraine,
Cronstadt, Catalogne).
Si l’on considère les réflexions et les projets élaborés il y a déjà plusieurs
décennies dans le domaine de l’anarchisme d’action concernant les possibilités
et les occasions révolutionnaires dans les sociétés du sud de l’Europe et du
bassin méditerranéen, je pense qu’ aujourd’hui, parmi les contradictions qui
s’ouvrent dans certaines régions avec la Grande Guerre en cours et la
restructuration sociale du capitalisme, les analyses et les considérations que
nous avons faites il y a plusieurs décennies sont plus que jamais d’actualité et
précieuses, et ont confirmé toute leur validité et leur potentiel, en
particulier en ce qui concerne les zones rurales, par exemple en Europe du Sud.
Des zones rurales où il est possible de coordonner de manière informelle sur le
territoire spécifique en question des situations de lutte, d’autonomie
matérielle et de culture de résistance ; en substance, mettre en réseau et créer
des moments et des situations d’autonomie matérielle, d’une autre vision du
monde, de lutte et de travail insurrectionnel, en traçant un horizon politique
libertaire et anarchiste. En substance, des CLR (Collectivités Locales de
Résistance) où essayer dès maintenant de vivre matériellement et humainement sur
des territoires la vie pour laquelle nous nous battons dans la lutte contre la
dévastation causée par les États et le capital. Relancer et en même temps «
sortir » de cette manière de la simple intervention d’agitation tant théorique
que pratique pour entrer dans une perspective de possibilité révolutionnaire et
insurrectionnelle. Possibilité, malheureusement, bien connue et présente dans
les analyses des États de l’UE et de nos ennemis de classe, puisque dès 2017 ,
dans un document préparé pour la Commission européenne, déjà cité ces dernières
années dans divers articles de la rubrique « Apocalypse ou insurrection »,
soulignait que dans les zones rurales de l’est et du sud de l’Europe, déjà
fertiles pour nous en contradictions intrinsèques, la situation sociale était
potentiellement explosive. Savoir saisir et rendre fructueuses les
contradictions qui s’ouvrent et qui peuvent s’élargir au moment où nos maîtres
et les États de l’UE se trouvent en difficulté et s’affaiblissent face à leurs
adversaires dans cette Grande Guerre grande guerre. Pour nous, tout consiste à
saisir les possibilités qui s’ouvrent sur certains territoires à partir du
moment où nous savons interpréter l’espace-temps en profondeur et en ampleur, en
déclinant dans la pratique notre boussole de principes en tirant parti de
l’expérience historique des luttes de notre classe sociale, en fixant une ligne
de conduite générale et en l’élaborant dans un travail révolutionnaire afin que
les courants du devenir convulsif et frénétique de cette période historique ne
nous entraînent pas à la dérive.
Ce qui est d’autant plus facile c’est que la majeure partie de la classe
dominante, surtout occidentale, glisse, au niveau de l’analyse stratégique, vers
une démence post-historique et des problèmes mineurs enfermés dans l’illusion
d’un présent éternel. Essayons d’examiner les contradictions politico-sociales
et économiques qui se sont ouvertes ces derniers temps dans deux zones
géographiques situées sur la ligne de faille de l’Europe orientale : la Roumanie
et la Moldavie.
Que les territoires appartenant à l’État roumain et moldave soient disputés
entre deux blocs capitalistes opposés n’est une surprise pour personne. Les
événements institutionnels de l’année dernière en Roumanie (comme par exemple le
coup d’État pro-UE de décembre 2024) illustrent bien cette situation. Ce n’est
pas ici le lieu d’entrer dans le vif du sujet de ces dynamiques. Il est
toutefois intéressant, du point de vue de notre classe, de souligner les
contradictions sociales qui peuvent en découler. Par exemple, les grèves
continues des enseignants pour obtenir une augmentation de salaire, ou les vives
protestations des transporteurs et des petits agriculteurs en Roumanie. Bucarest
est en ébullition depuis plus d’un an maintenant. « Je raserais notre parlement.
Personne ne fait rien pour améliorer la situation économique du pays. Les
salaires n’augmentent pas, mais les prix des produits de première nécessité
continuent d’augmenter. Nous n’en pouvons plus », commente un chauffeur de taxi
de Bucarest.
La situation est similaire en Moldavie, région enclavée entre l’Ukraine et la
Roumanie et point de friction direct entre les ambitions d’élargissement des
États et des capitalismes de l’UE et les factions des classes dominantes locales
qui poussent à renforcer les liens avec Moscou. Ces dernières années, les rues
de Chisinau ont été le théâtre de manifestations et de mobilisations animées
contre la vie chère. Dans notre perspective de classe, anti-autoritaire et de
défaite révolutionnaire, il est essentiel de comprendre les difficultés et les
problèmes que traverse l’ennemi de chez nous dans le cadre de l’opposition
croissante entre les États et les bourgeoisies européennes et la classe
dominante américaine.
« Avec de tels amis, qui a besoin d’ennemis ? ». Depuis le 24 février 2022, la
célèbre phrase de Charlotte Brontë résume parfaitement la situation des patrons
et des États de l’UE vis-à-vis de la bourgeoisie américaine. Depuis le sabotage
du gazoduc Nord Stream au détriment des patrons allemands au début de la guerre,
jusqu’à la guerre commerciale des droits de douane et aux événements de l’année
dernière sur la question de l’approvisionnement énergétique. L’arrêt du transit
du gaz russe vers l’Europe via les gazoducs ukrainiens à la fin de 2024 a
entraîné des difficultés et une augmentation des coûts dans une grande partie du
continent, avec des prévisions d’augmentation considérable des factures. L’État
slovaque, membre de l’ OTAN et de l’UE, a été le plus touché par la décision
prise par Kiev avec le soutien total des États-Unis et, paradoxalement, mais pas
tant que cela si l’on tient compte de la position défavorisée des classes
sociales du vieux continent, de l’Union européenne. Washington a tout intérêt à
imposer son GNL coûteux (soutenu de manière persistante par Obama, Biden et
maintenant Trump).
L’attaque stratégique contre les gazoducs Nord Stream n’a certainement pas été
la dernière bataille de la guerre pour le marché énergétique européen. Le 11
janvier 2025, une attaque (ratée) a été menée avec neuf drones ukrainiens contre
la station de compression « Russkaya » du gazoduc « Turkstream », qui traverse
les fonds marins de la mer Noire et atteint la Turquie européenne, et qui est le
dernier gazoduc encore en service transportant du gaz russe vers des États
européens tels que la Serbie et la Hongrie.
Les factions de la classe dominante nord-américaine, qui trouve dans le
gouvernement républicain au pouvoir le représentant et le promoteur de ses
intérêts, accélèrent les pressions pour renforcer le « Yalta 2.0 » contre les
maîtres du vieux continent, notamment par le biais d’une sorte de paiement d’«
indemnités de guerre », c’est-à-dire en imposant aux États membres de l’UE
d’acheter davantage de produits « de défense » fabriqués aux États-Unis s’ils
veulent éviter la guerre – encore « non combattue » sur le plan militaire – des
droits de douane. Trump a prévu de réduire en quatre ans de 300 milliards sur
900 le budget annuel du Pentagone : le militarisme européen devra s’endetter
pour absorber les acquisitions d’ armements auxquelles renonceront les
Américains. L’industrie américaine est bien déterminée à occuper le marché
européen de la « défense », où les importations en provenance des États-Unis ont
augmenté de plus de 30 % depuis 2022. Pour dresser un tableau d’ensemble, au
conflit naissant (pour l’instant limité au niveau commercial et politique) entre
la bourgeoisie américaine et celle du vieux continent, s’ajoutent les compromis
croissants entre les États-Unis et la Russie, notamment dans les domaines
économique et énergétique.
Le début de la guerre mondiale des droits de douane se caractérise non seulement
par le durcissement des accords de Yalta, mais aussi par le renouveau de la
doctrine Monroe, qui vise directement les deux États voisins des États-Unis (le
Canada et le Mexique), menacés de voir leurs exportations vers Washington
affectées. Pour le Canada, les droits de douane représentent également un
élément d’une phase expansionniste qui culmine avec la menace d’annexion aux
États-Unis. Les revirements constants et l’apaisement des tensions caractérisent
l’attitude des classes exploiteuses nord-américaines envers leur véritable
ennemi : le patronat mandarin.
La classe dirigeante chinoise a obtenu des États-Unis une série de reculs sur
les droits de douane, comme le montre le dernier accord conclu en mai avec la
suspension temporaire et partielle des droits de douane élevés que les deux
États s’étaient imposés mutuellement. En effet, selon les conditions convenues,
les États-Unis réduiront de 145 à 30 % les droits de douane sur les marchandises
chinoises, tandis que l’État chinois, qui avait imposé des droits de douane
spéculaires, les réduira de 125 à 10 %. Pour les patrons américains, il s’agit
d’une énième capitulation unilatérale, qui montre l’improvisation de la
stratégie des États-Unis, qui, lorsqu’ils imposent des droits de douane,
affirment qu’ils serviront à la réindustrialisation et, lorsqu’ils les
suppriment, affirment qu’ils serviront à favoriser le commerce. Au cours des
derniers mois, aux atrocités indescriptibles qui caractérisent la poursuite du
premier génocide automatisé de l’histoire, s’ajoutent les conflits dans les
régions qui entourent le détroit d’ Ormuz, comme la micro-guerre menée entre le
Pakistan et l’Inde, et la guerre de 12 jours menée par Israël et les États-Unis
contre l’Iran.
En utilisant l’outil analytique et conceptuel des « goulots d’étranglement », en
ce qui concerne par exemple le conflit entre le Pakistan et l’Inde, nous
soulignons que, sur fond, se profile le problème du rééquilibrage des relations
commerciales entre l’État indien et les États-Unis.
La tendance au repositionnement de la bourgeoisie indienne vis-à-vis des
États-Unis a bouleversé l’équilibre du sous-continent. Alors que l’État
pakistanais a besoin d’une large frontière directe avec le territoire chinois
(fondamentale pour un accès direct à l’océan Indien afin de contourner un
éventuel blocus naval du détroit de Malacca), la bourgeoisie indienne cherche à
tout prix à interrompre ce canal de trafic commercial.
Autour des goulets d’étranglement disputés entre blocs d’États et capitalismes
rivaux d’Ormuz et de Malacca, des contradictions sociales et de classe
significatives sont en train de s’ouvrir. Il suffit de penser aux énormes
mobilisations et aux grèves qui se multiplient depuis quelques années. Par
exemple en Inde, à commencer par les grandes vagues de grèves qui ont débuté fin
2020 contre l’introduction de nouvelles lois agraires, et où la conjoncture
entre la crise climatique et hydrique, le revanchisme de l’idéologie
nationaliste indienne et le repositionnement consécutif des classes exploiteuses
hindoues sur le plan international de la Grande Guerre, ainsi que la
libéralisation du marché du charbon et la suppression de la loi qui contraint
l’utilisation des terres au consentement obligatoire des populations locales,
provoquent des bouleversements structurels importants et une forte
intensification de la lutte des classes.
Mais revenons à la situation qui concerne plus directement le territoire où nous
vivons et que nous traversons, en nous concentrant sur la situation du Groenland
et des routes qui traversent l’océan Arctique.
Le Groenland est la nouvelle île au trésor où les bourgeoisies chinoise,
américaine, russe
et européenne s’affrontent parmi les glaces. Frontière stratégique sur les
routes arctiques et riche en terres rares, en gaz et en pétrole, plusieurs
raisons ont suscité ces dernières années un intérêt croissant pour cette île, et
presque toutes ces raisons sont liées à un facteur : le
changement climatique. Le réchauffement climatique provoque la fonte des
glaciers dans tout l’ Arctique, modifiant ses contours, ouvrant de potentielles
nouvelles routes commerciales et militaires, dévoilant des richesses cachées et
des gisements de « terres rares ».
En raison de sa position géographique, le Groenland est considéré comme
stratégique par le militarisme américain.
L’île est entourée par les détroits qui mènent aux passages nord-ouest et
nord-est de l’océan Arctique et, avec l’ouverture des routes de plus en plus
navigables dans un avenir proche, les États-Unis ne veulent pas que les autres
puissances rivales en profitent. La fonte des glaces permettra en outre
d’exploiter davantage les ressources minérales présentes sur l’île, riche en
minéraux et métaux rares.
Une étude réalisée en 2023 a confirmé la présence de 25 des 34 minéraux
considérés comme « matières premières critiques » par la Commission européenne,
dont le graphite et le lithium. Mais dans le mécanisme des différentes économies
de guerre, où la sécurité de l’approvisionnement alimentaire joue un rôle
crucial dans le conflit entre capitalismes rivaux (comme c’est le cas en Afrique
dans la course à l’accaparement et à la prédation des terres nécessaires à la «
souveraineté alimentaire » des différentes puissances en guerre sur l’échiquier
mondial), les fonds marins du Groenland sont nécessaires à la pêche, car
plusieurs stocks halieutiques se déplacent de plus en plus vers le nord,
renforçant ainsi le potentiel du marché de la pêche de Nuuk.
La concurrence acharnée pour le contrôle de la plus grande île du monde, de ses
détroits et de ses mers (Macron lui-même s’est rendu à Nuuk le 15 juin dernier
pour « défendre l’intégrité territoriale » de ce territoire colonisé par le
Danemark) attise les contradictions sociales sur l’île : les protestations des
communautés
Inuit se multiplient en raison de l’accaparement des territoires et des eaux
adjacentes à l’île tandis que le taux de chômage et les carences en matière de
santé commencent à créer des signes d’insatisfaction dans le pays.
La région arctique est en train de devenir une nouvelle frontière de la
concurrence stratégique et commerciale. On estime que l’Arctique contient
environ 13 % des réserves mondiales de pétrole, 30 % des réserves de gaz et de
grandes quantités de ressources halieutiques et minérales rares.
Les États chinois et russe étendent leurs opérations dans l’Arctique, impliquant
les îles Svalbard et l’Islande. Le contrôle du cyberespace et des fonds
océaniques est une base fondamentale pour la guerre et pour la transformation de
la société et du mode de production capitaliste vers la phase numérique. Tous
ces points sont bien visibles en ce qui concerne l’espace arctique où, compte
tenu de l’activité croissante du capitalisme russe et chinois dans le domaine de
la logistique numérique via les câbles sous-marins, l’OTAN lance de nouveaux
projets qui « visent à rendre internet moins vulnérable au sabotage, en
redirigeant le flux de données vers l’espace en cas d’ endommagement des
dorsales sous-marines ».
L’activité d’extraction en eaux profondes pourrait même commencer dès cette
année. Début avril 2024, les membres de l’Autorité internationale des fonds
marins (ISA) ont révisé les règles régissant l’exploitation des fonds marins. La
nouvelle ruée vers l’or des abysses a commencé l’année dernière avec une loi de
l’État norvégien autorisant l’exploitation minière à l’échelle commerciale.
L’impact (également) environnemental de ces décisions entraînera la destruction
d’habitats entiers, sans compter le fait que 90 % de la chaleur excédentaire due
au réchauffement climatique est absorbée par les océans, dévastant ainsi
l’équilibre qui soutient la vie sur cette planète. En substance, la guerre
contre le vivant se poursuit et se ramifie sous toutes ses formes. La guerre est
de plus en plus manifestement au cœur de ce monde sans cœur. Alors que nos
maîtres continuent à s’équiper pour la guerre mondiale, la question (banale) que
nous posons est la suivante : qui paiera le réarmement des États et des
bourgeoisies locales ? Au cours des derniers mois, dans un article au titre qui
ne laisse place à aucune ambiguïté : « L’Europe doit réduire son État providence
pour construire un État guerrier », le « Financial Times » soutient que l’Europe
doit réduire ses dépenses sociales afin de s’assurer la capacité de soutenir un
réarmement important. L’accord visant à augmenter les dépenses militaires des
États membres de l’OTAN à 5 % du PIB, décidé lors du sommet de La Haye, va
pleinement dans ce sens, tout comme l’extraction et le vol des petites économies
privées, déjà présents dans les points qui articulent le réarmement européen.
Réaffirmant avec force que tant qu’il existera des États et des capitalismes,
les espoirs d’une paix durable seront illogiques, car la négation de la guerre
implique en premier lieu celle de l’État et du capital, face à ce monde de
conflits et de misères généralisées qui court à sa perte et à son
autodestruction, la résistance palestinienne (véritable force tellurique qui a
redonné espoir aux classes exploitées du monde entier), la révolte de Los
Angeles et l’intensification des insurrections, des mobilisations sociales, des
luttes et des actes d’insubordination quotidienne dans le monde entier sont
comme des éclairs prémonitoires qui déchirent l’Ancien régime, des signes qu’un
nouvel assaut prolétarien contre les bastions de l’aliénation et de l’
exploitation pourrait être imminent.
Il n’y a pas de nuit assez longue pour empêcher le soleil de se lever.
« Selon nous, les rivalités et les haines nationales font partie des moyens dont
disposent les classes dominantes pour perpétuer l’esclavage des travailleurs.
Quant au droit des petites nationalités de conserver, si elles le souhaitent,
leur langue et leurs coutumes, il s’agit simplement d’une question de liberté,
qui ne trouvera sa véritable solution finale que lorsque, les États détruits,
chaque groupe d’hommes, ou plutôt chaque individu, aura le droit de s’unir à
tout autre groupe ou de s’en séparer à sa guise. » (Errico Malatesta).
La sera del 20 ottobre, tra le 19:30 e le 20:00, cinque persone hanno deciso di
salire sul tetto dell’area verde per protestare, mettendo in gioco il proprio
corpo per…
Dal 2018, anno del primo accordo tra EU e Gambia per i rimpatri, fino ad oggi,
almeno 1000 Gambiani sono stati deportati dalla Germania, in voli charter
organizzati mensilmente. Voli…
Dinanzi al crescere delle deportazioni, approfondire i meccanismi della macchina
delle espulsioni appare fondamentale per tentare di opporsi, nonché lottare, nel
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