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Sull’operazione “Diana” contro l’anarchismo in Trentino. Cose utili da sapere
Riceviamo e diffondiamo queste utili righe informative sull’operazione “Diana”: Cose utili da sapere (dalle carte dell’operazione “Diana”) Nel fascicolo dell’operazione Diana sono riportate, in tutto o in parte, le carte relative a diversi procedimenti penali. Uno di questi è quello relativo ad un 270 bis nei confronti di diversi compagni e compagne e persone vicine al nostro amico e compagno Stecco. Quello che lo Stato ha messo in campo per arrestarlo è piuttosto impressionante. Se teniamo presente che Stecco, quando ha levato le tende, aveva un definitivo da scontare di 3 anni e 6 mesi, la sproporzione tra la sua condanna e l’accanimento sbirresco per scovarlo rivela quanto lo Stato consideri insopportabile che ci si possa sottrarre alle sue galere; e quanto il trattamento riservato ad anarchiche e anarchici abbia, sia pure dentro un avvitamento repressivo generale, un carattere indubbiamente selettivo. Una conoscenza aggiornata delle tecniche impiegate dalla polizia politica contro compagne e compagni passa molto spesso attraverso la lettura dei faldoni delle indagini poliziesco-giudiziarie. Per questo è importante che le indicazioni che ne emergono siano socializzate. Nel farlo è sempre necessario tener presenti due aspetti: il primo, è che si tratta di materiale fornito dal nemico; il secondo, è che la condivisione (ovviamente selezionata e omettendo nomi e cognomi che appaiono nelle carte) di tale materiale può involontariamente ingenerare il sentimento di una sorta di onnipotenza del nemico, con il relativo corredo di paranoia e di scarsa fiducia nei propri mezzi. È quindi bene ricordare che il dispiegamento di uomini e mezzi per la ricerca di latitanti non è lo stesso che si riserva al monitoraggio/indagine su altre circostanze che si danno nell’ambito dei movimenti e delle lotte; che nonostante l’avanzamento poliziesco-tecnologico, alcuni compagni ricercati hanno assaporato la libertà per mesi e anni; che ci sono compagne e compagni tutt’ora uccel di bosco in Europa e nel mondo. Sapere come si muove la controparte è necessario per adottare le contromisure più opportune, imparando dagli errori e facendo tesoro delle esperienze. Partiamo da alcuni dati quantitativi per fornire un’idea dell’estensione dell’intervento poliziesco: – Telecamere davanti a 6 abitazioni. – Intercettazioni ambientali nella casa di una persona vicina a Stecco, di altre persone connesse ad una persona particolarmente “attenzionata” e dello spazio anarchico “El Tavan”. – Intercettazioni telefoniche di oltre 40 persone: compagne e compagni, ma anche amici e persone vicine. – Sono state disposte intercettazioni ambientali “puntuali” in un caso in cui si riteneva che una persona vicina a Stecco potesse incontrare una persona che secondo la Digos avrebbe potuto fornirle delle informazioni su di lui. – Una persona particolarmente “attenzionata” viene pedinata almeno una volta dai servizi (l’intestazione della relazione di servizio è “Ministero degli interni”, mentre tutte le altre sono di varie Questure). – Analisi dei tabulati telefonici storici di 69 persone e di una cabina telefonica (il tempo massimo per cui si può tornare indietro sono 72 mesi). – Gps installati in 12 auto. Per alcune persone vicine a Stecco anche l’intercettazione ambientale e video. – “Attenzionate” le targhe di 311 auto. – Richiesta di esibizione bancaria di 59 persone per verificare l’esistenza di movimenti “sospetti” riconducibili ad eventuali appoggi economici alla latitanza. – Installazione di un dispositivo di tracciamento (nello specifico un localizzatore GSM, dunque non satellitare ma cellulare, di tipo “Spora”, ovvero un localizzatore miniaturizzato che comunica in tempo reale ad un telefono in utilizzo alla polizia la cella agganciata via sms) su una bicicletta ritenuta in uso da Stecco, localizzata tramite l’utilizzo di una telecamera in un paese nel quale è stato ripreso durante il periodo di latitanza. – In questo caso come nel caso della latitanza di un altro compagno, sono stati ritrovati dei documenti falsificati le cui generalità sono risultate appartenenti a persone realmente esistenti. Da questo è stato dato inizio ad una serie di ricerche e interrogatori alle persone interessate, con l’intento di confrontare spostamenti, pernottamenti in alberghi, controllo dei movimenti di alcuni conti correnti (ed anche, per esempio, la “carta Decathlon” almeno in un caso, sulla quale rimane una cronologia degli acquisti effettuati) indietro nel tempo di diversi anni (più di 10). – Mobilitata la polizia politica di Treviso, Padova, Verona, Brescia, Bergamo, Milano, Trento, Trieste, Genova. A partire dal momento in cui hanno iniziato a “stringere il cerchio”, la Digos di Trento ha ricevuto personale di rinforzo in pianta stabile, di sicuro almeno un agente da Trieste. Per un’analisi più qualitativa, invece, bisogna entrare nel merito delle tecniche impiegate. Diciamo che le indagini si muovono su due binari: l’analisi di un’enorme mole di dati telefonici e il controllo quasi costante di alcune persone, con particolare attenzione alle loro assenze dai rispettivi luoghi di residenza. Quando tali persone vengono di nuovo localizzate, si procede a ricostruire il più possibile a ritroso i loro spostamenti. La raccolta dei dati viene fatta con calma e in modo sistematico. Ecco alcuni esempi. – Due compagni in viaggio in treno vengono pedinati da quattro agenti della Digos, che si posizionano due in testa e due in coda al treno. In ognuna delle stazioni intermedie sono poi presenti due poliziotti in borghese nel caso in cui i compagni scendano dal treno; a tal fine è stata mobilitata polizia politica di sette Province. Dalle carte sembra che questo pedinamento sia stato disposto all’ultimo momento quando, la sera precedente, la polizia ha appreso in diretta dai microfoni installati in casa delle persone vicina ad una delle due persone, che questa sarebbe partita in treno il giorno dopo. – Dalle carte emerge che gli sbirri, oltre a chiedere a RFI di visionare le telecamere delle stazioni, hanno chiesto al gip di installare delle telecamere apposta in stazione a Rovereto per poterle visionare direttamente in Questura. Hanno anche potuto vedere quali biglietti sono stati emessi con ognuna delle biglietterie automatiche, quali ricerche siano state effettuate anche senza acquistare i biglietti e accedere alla telecamera che in alcuni casi sono installate direttamente sulle macchinette. Queste ultime telecamere conservano i video per massimo 10 giorni (nonostante la durata massima generale per infrastrutture meritevoli di maggior tutela sia di 7 giorni secondo il provvedimento del 2010 a firma del GDP, salvo specifiche richieste). – Avendo osservato che una persona particolarmente “attenzionata” aveva cercato gli orari dei treni per una determinata città con una biglietteria automatica, nel momento in cui questa persona si è assentata da casa sono state visionate le telecamere della stazione di quella città e di almeno altre quattro stazioni. È probabile che siano stati analizzati i dati relativi a più stazioni, che si trovano lungo tratte che portano alla città per la quale era stata effettuata la ricerca. Infatti, dato che dopo 7 giorni i dati vengono cancellati, la Digos di Trento si è recata in fretta e furia negli uffici di RFI Lombardia a Milano perché ritenevano di aver individuato la persona in una stazione (che non era né quella ricercata sulla macchinetta, né quelle vicine alla sua abitazione) in cui era passata 7 giorni prima e c’era il rischio che le immagini venissero sovrascritte prima che il download dei dati terminasse. – Nel tentativo di ricostruire il percorso della persona, visionano i dati di un esercizio commerciale esterno alla stazione in cui ritengono di averla localizzata, oltre che le telecamere del treno su cui ritengono sia salita in quella stazione. Dato che, tramite queste ultime, durante il viaggio la vedono leggere l’ultimo numero di una rivista di compagni, uscito da poco, chiedono l’esibizione bancaria anche per questa rivista. – Per ricostruire a ritroso il percorso che l’ha portata a quella stazione, si concentrano inizialmente sugli Intercity, dato che c’è l’obbligo di biglietto nominativo. Avendo individuato dall’elenco fornito da FSI un acronimo che ritengono sia riconducibile a quella persona, verificano dove sia stato emesso il biglietto relativo. Non avendo più a disposizione i video della stazione di acquisto a causa del decorso della durata di conservazione delle immagini, cercano di ricostruire in che modo la persona sia arrivata nella stazione di acquisto del biglietto. Scartati gli Intercity, non avendo trovato nessun nominativo riconducibile, si concentrano sui treni regionali e chiedono a FSI di comunicare per ognuno il numero di biglietti emessi dalle biglietterie automatiche delle stazioni di partenza, di quelle intermedie e di altre nelle vicinanze, in località “abitualmente frequentate” da anarchici: 150 pagine di liste trasmesse dalle Ferrovie. Controllano anche i traghetti e gli autobus. Dato che non trovano nulla, chiedono gli stessi dati di prima sulle biglietterie di 69 ulteriori stazioni e di eventuali multe emesse a bordo treno di 5 regionali. Parallelamente, chiedono alle Ferrovie l’elenco di tutti i biglietti acquistati con quell’acronimo nei mesi precedenti e di attivare un “alert di segnalazione automatica” nel caso in cui dovesse essere utilizzato nuovamente per acquistare dei biglietti. – Per ricostruire gli spostamenti di certe auto, vengono visionate le telecamere di vari caselli autostradali; una volta localizzata una macchina in un casello ritenuto sospetto, controllano anche le telecamere stradali del Comune. – Una volta individuata la zona in cui ritengono possa trovarsi Stecco, la Digos chiede di installare 5 telecamere “video lunga distanza” con riconoscimento facciale e 10 per “ripresa video interno/esterno” intorno a una data stazione, comprese fermate urbane e extraurbane degli autobus. Non vi è traccia della richiesta del PM al giudice, quindi non sappiamo se poi siano state installate o meno. Analizzano anche le immagini delle telecamere presenti sugli autobus. Chiedono di intercettare una persona e sua madre, nonché di avere accesso ai loro tabulati, perché in passato avrebbero affittato in zona delle abitazioni a dei compagni. – Una volta arrestato Stecco, mostrano la sua foto e interrogano varia gente del posto fino a quando non individuano la casa in cui avrebbe soggiornato. Prelevano impronte digitali e DNA da tutto quello che sequestrano nella casa. – Per quel che riguarda la ricerca tramite i telefoni, è da segnalare che non vengono intercettati solo i numeri di telefono, ma anche i dispositivi in cui alcune SIM sono state inserite, tramite numero IMEI. Questo non avviene per tutti i numeri, ma solo per quelli ritenuti più “interessanti” e sembra che sia sufficiente che la SIM venga inserita una sola volta (ed utilizzata). Inoltre, come già sappiamo, l’intercettazione comporta anche la geolocalizzazione del telefono, anche non smartphone (sebbene in questo caso si possa risalire solo alle celle via via agganciate e non alla posizione esatta). – Sotto il profilo dell’analisi del traffico telefonico, una volta stretto il cerchio su una determinata zona, cercano nei tabulati già acquisiti eventuali numeri di telefono di anarchici lì residenti (cioè se una delle 69 persone di cui hanno i tabulati abbia chiamato qualcuno che stava lì nei 6 anni precedenti), quindi tutte le chiamate fatte da Stecco nei 5 anni precedenti (prima che levasse le tende) a numeri che si trovavano in quella zona. – Cercano nei tabulati storici se ci sono delle chiamate ricevute da delle cabine telefoniche. Quindi cercano se dalla cabina di cui hanno i tabulati storici siano state fatte chiamate a numeri stranieri; una volta individuati, vedono se questi numeri abbiano mai chiamato i numeri emersi dai tabulati storici. Verificano inoltre se dalla cabina siano stati chiamati fissi o cellulari in quattro regioni italiane. – Analizzano i dati del traffico telefonico transitato per le celle di Tim, Wind, Vodafone e Iliad di nove località in alcuni momenti in cui reputano che vi possano essere stati contatti con un ipotetico telefono utilizzato da Stecco. Dato che la mole è enorme, provano a incrociarli con i numeri intercettati e poi con tutti numeri risultanti dalle utenze di cui hanno le tabulazioni. Questo tipo di ricerca (incrocio dati estrapolati da determinate celle telefoniche con numeri di telefono individuati tramite l’analisi di tabulati storici) viene ripetuto altre volte. In generale, in più punti troviamo l’analisi di tabulati storici, anche molto indietro nel tempo, e i tentativi di incrociare i numeri così estratti con i dati che man mano vengono raccolti nel corso dell’indagine. – Sebbene non ve ne sia poi traccia nelle intercettazioni, in più punti la Digos chiede l’autorizzazione per scaricare le chat di Whatsapp e in un caso anche di Telegram. – Per quel che riguarda le ricerche telematiche, è da segnalare il tentativo di installare uno spyware (un virus informatico che permette di ottenere completo accesso al dispositivo “infettato”) “mediante la procedura 1 click” che permette di rendere lo smartphone di una persona vicina a Stecco un microfono per intercettazione ambientale (definizione tecnica: “autorizzare l’intercettazione telematica attiva con eventuale intercettazione tra presenti attraverso l’attivazione di un microfono sul terminale mobile di tipo Android senza root”). Nella pratica, a questa persona viene mandato un sms che contiene un link, che se cliccato avrebbe portato all’installazione del virus. Dato che la persona non clicca sul link, avendo individuato il codice pin del suo telefono mediante una telecamera ad alta risoluzione installata all’interno dell’auto (la quale ha permesso di risalire alla lettura del codice mentre questo veniva digitato sul telefono), la Digos viene autorizzata ad installare direttamente il virus una volta ottenuto il temporaneo possesso del telefono. Questo non sembra sia avvenuto perché nel frattempo le indagini si sono orientate in un’altra direzione. – Per quel che riguarda le email, sembra che solo libero.it abbia fornito i dati relativi agli indirizzi email (file di Log compresi), mentre altri provider sembra non abbiano nemmeno risposto alle richieste (o quantomeno non c’è nessuna menzione al riguardo). – Oltre alle email, cercano di ottenere anche tutti i dati relativi a servizi di Microsoft Account e Google, compresi gli acquisti effettuati tramite queste piattaforme. A quest’ultimo proposito è interessante segnalare l’analisi che viene fatta dell’ID GAIA (Google Account and Id Administration) per il quale un numero ritenuto in possesso di Stecco riceve un sms. Praticamente, quando si cerca di entrare in una casella di posta elettronica Gmail da un dispositivo diverso da quello utilizzato normalmente, Google chiede una verifica ulteriore alla password, inviando un sms con un codice numerico ad un numero collegato all’indirizzo email. Dato che un numero collegato a Stecco riceve questo codice, cercano di recuperare i dati relativi al relativo account Google. Per farlo hanno inserito il numero di telefono nella pagina di accesso a Gmail e nella pagina in cui si chiede la password hanno cliccato col tasto destro e selezionato “Visualizza sorgente pagina”. Si è quindi aperta una finestra che contiene il codice HTML, hanno digitato CTRL+F (cerca) e nella casella di ricerca dato il comando per ottenere le 21 cifre che costituiscono l’ID GAIA, cioè ,[\” . Per sapere a chi fosse associato questo ID, hanno usato uno dei servizi di Google, nello specifico Google maps (dalla descrizione sembra che possano usare qualsiasi servizio offerto da Google, ma probabilmente Google Maps è quello in cui è più comune che vengano lasciate delle recensioni o comunque dei contributi). In pratica, nella barra degli indirizzi hanno digitato https://google.com/maps/contrib/ID GAIA, per visualizzare tutte le recensioni lasciate tramite quell’account Google e individuare quindi gli indirizzi email collegati. Hanno quindi chiesto a Google tutti i dati di registrazione relativi alle email, i numeri di telefono, la data in cui sono stati associati agli indirizzi email e le anagrafiche relativi all’ID GAIA e tutti i file di Log di ogni connessione a tale account. Non sembra abbiano ricevuto risposta. Per provare a fare una sintesi comprensibile, ad ogni ID GAIA possono essere associati più indirizzi email e più numeri di telefono di riferimento, una volta che la polizia conosce uno di questi dati può provare a risalire agli altri. – In seguito ad un’intercettazione ambientale in cui viene nominato un indirizzo email, chiedono a Microsoft l’anagrafica, i dati fatturazione dell’account nel caso in cui siano stati effettuati acquisti su Microsoft Online Store, i Log delle connessioni IP, tutti gli indirizzi email e i numeri di telefono associati a tale indirizzo e tutti i soggetti che si sono registrati con un nome collegato a quell’email. Inoltre chiedono al provider subito.it il tabulato dei file di Log e degli indirizzi IP utilizzati da questa email. – In un altro fascicolo, legato alla ricerca di un altro compagno latitante, abbiamo trovato questo passaggio relativo all’intercettazione telematica attiva e passiva di un computer: “Come noto, alla luce delle attuali tecnologie risulta assai difficoltoso effettuare un’infezione di un pc, in quanto sono numerose le variabili che determinano la riuscita o meno del servizio (sistema operativo, antivirus, scheda di rete, etc.). Pertanto, come da prassi, è indispensabile effettuare in un primo momento uno studio di fattibilità per stabilire il tipo di sistema operativo usato e gli eventuali antivirus attivi attraverso un’intercettazione passiva, per poi procedere all’intercettazione telematica attiva. Le modalità per procedere all’inoculamento dello spyware verranno successivamente concordate con i tecnici delle ditta incaricata dell’inoculazione del virus. Da attività di osservazione, si è notato che […] lascia talvolta il computer nel bagagliaio della propria autovettura […] quando si reca al lavoro in […]. Previa autorizzazione di codesta A.g., il tecnico provvederebbe ad installare un file a computer spento (ciò è fattibile solo lasciando inserita una chiavetta USB o qualunque altro supporto fisico di memoria nel pc), file che all’avvio verrà eseguito dal computer in automatico e provvederà ad installare altri piccoli programmi malevoli, necessari per svolgere lo studio dell’ambiente software presente sul dispositivo, per poi ottimizzare lo spyware che permetterà l’intercettazione telematica richiesta”. – Dopo aver sequestrato una chiavetta Tails, cercano la password con il programma “bruteforce-luks”. Nella comunicazione puntualizzano che non è possibile stimare i tempi di questa operazione. Significativamente, la sola delle 11 cartelle che formano l’indagine “Diana” a risultare vuota è quella con la dicitura: “Spese”. Ci sono comunque alcuni preventivi per il noleggio dei dispositivi per le intercettazioni, da cui tra l’altro emerge che quelli di localizzazione spesso offrono anche “l’opzione intercettazione”, quindi si tratta di un unico oggetto polivalente. Inoltre sembra che dal Covid siano possibili anche delle postazioni di ascolto da casa per il telelavoro. L’apertura di un fascicolo presso il Ministero degli Interni e alcune annotazioni che ne riportano l’intestazione suggeriscono il coinvolgimento dei servizi segreti. Ultimo ma non meno importante: contemporaneamente alle indagini per la ricerca di Stecco era attiva almeno un’altra indagine per 270 bis in cui parte degli indagati sono gli stessi del 270 bis relativo a Stecco. Giusto per dare un’idea della pervasività e della quotidianità del controllo a cui alcuni compagni sono sottoposti. Utile sapere che gli sbirri possono impiegare anche settimane a visionare le telecamere di stazioni, treni, caselli autostradali, autobus, alla ricerca di immagini che suggeriscano percorsi e destinazioni. Provando a farlo anche andando a ritroso rispetto a un viaggio che viene ritenuto sospetto, ricostruendo buona parte di un percorso a partire da quando questo termina, cercando le coincidenze tra momenti di “sparizione”, giorni, orari, mezzi utilizzati. Ognuno/a farà le sue valutazioni. Che si dia ancora più incisività alla critica pratica nei confronti del mondo della video sorveglianza e del controllo digitale, come campo di intervento irrinunciabile perché siano ancora possibili sogni e progetti di sovversione e di libertà. Che la fortuna arrida a chi è uccel di bosco e a chi, nella lotta per la libertà, sfida ogni identificazione. Qui il pdf: Cose utili da sapere (Diana)
Approfondimenti
Stato di emergenza
Le commedie di maggio. Riflessioni sul conflitto simulato
Riceviamo e diffondiamo questo bell’invito a “vivere nella verità”: Le Commedie di Maggio Riflessioni sul conflitto simulato «Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani» F. De André L’abbaglio Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione. Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere. Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento. Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1 Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, ad oggi, non possiamo più permetterci. Queste righe non hanno lo scopo di indicare un modo giusto di fare la lotta, né tracciare una strada da percorrere. Al contrario, sono un invito a valutare seriamente l’abolizione della nostra normalità e la rottura degli argini militanti, per tuffarsi finalmente nell’ignoto, lì dove può nascere l’impensabile. Conflitto simulato, perché proprio a noi? Partecipando a giornate di lotta europee, emerge subito un dato evidente: il conflitto a volte c’è, a volte non c’è, è più intenso, meno intenso ma di certo gli unici a tenerlo sotto controllo sono gli sbirri. Non ci sono, né tantomeno potrebbero esserci, avanguardie organizzate che sovrintendono e trattano tempi e modi del conflitto di piazza. Ma allora perché proprio a noi? Porsi questa domanda è ambizioso e circoscrivere il discorso obbliga a sorvolare discorsi importanti, come il modo in cui l’autorità ha gestito l’ordine pubblico dagli anni ‘70 ad oggi attraverso l’uso della polizia politica e il consequenziale protagonismo storico che la sinistra ha avuto nella repressione del fermento insurrezionale di quegli anni. Consapevoli di mancare qualche pezzo di storia militante la traiettoria più immediata e utile ai fini del testo è quella che ci porta a individuare nelle “Tute bianche” la genesi, o più probabilmente il perfezionamento, di questa modalità. Quella delle Tute bianche fu un’esperienza che nacque dall’area più morbida e riformista dei centri sociali (principalmente nel Nord – NordEst) e che ebbe, o almeno provò ad avere, la sua più importante espressione politica nelle giornate di Genova 2001. Un perfetto inquadramento lo troviamo in un articolo di Repubblica del 14 luglio 2001, in cui un grande simpatizzante del movimento, Luigi Manconi, ex portavoce dei Verdi, elogia la capacità pacificatoria delle Tute bianche, ecco due passaggi iconici: «…da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste performance belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva – sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse.» E ancora: «(…) L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo, che depotenziа e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da molti leader di movimento.» Successivamente Manconi racconta una riunione svoltasi in una prefettura del Nord-Est dove veniva contrattato con le autorità un punto, segnato da un numero civico, in cui si sarebbe poi svolto uno scontro totalmente simulato con la polizia il quale però apparve veritiero nello schermo televisivo. Quello che poi saranno le giornate del G8 purtroppo è impossibile da raccontare ma a questo testo interessa solo un pezzo di questa storia. Dopo roboanti minacce di guerra le Tute bianche arrivano a Genova pensando di portarsi a casa la giornata proprio nel modo profetizzato da Manconi. La mattina di venerdì 20 luglio non manca nulla: tute, scudi di plexiglas, caschi e i leader in testa a guidare il “Gruppo di contatto”; un feroce servizio d’ordine che disarma e aggredisce i “facinorosi”; la violazione della zona rossa ben organizzata e concordata con la controparte. Insomma tutto è pronto… ma poi il conflitto arriva sul serio. A Genova migliaia di ribelli, disinteressati allo scontro diretto con la polizia scelgono di disertare l’appuntamento mediatico e, lontano dalla trappola militare della zona rossa, rovesciano interi quartieri, sollevando al cielo l’asfalto e ciò che ci sta sopra; il fuoco non risparmia nulla e arriva fino al carcere di Marassi. Per alcune ore la libertà travolge impetuosa alcune aree della città. La polizia, presa alla sprovvista e incapace tatticamente di far fronte a questa orda di insorti, è sotto scacco. L’idea di uno scontro simulato, militarmente tutelato da una manciata di manifestanti organizzati, non può assolutamente soddisfare i migliaia di furiosi presenti a Genova e i primi a rendersene conto sono proprio gli sbirri, i quali non hanno più nessuna intenzione di andare avanti con la sceneggiata concordata con i rappresentanti. Gli ultimi ad accorgersene, in colpevole ritardo, è il gruppo di contatto delle Tute bianche che in via Tolemaide viene travolto da una spietata carica dei carabinieri che li costringe alla fuga. I restanti 15 mila manifestanti, mozzati della loro testa, si alzano dalla poltrona del pubblico in cui erano stati costretti e ingaggiano una disperata battaglia nelle vie adiacenti, scontrandosi con un dispositivo poliziesco omicida che lancia blindati sulla folla, usa armi fuori ordinanza e infine, messa alle strette dalla tenacia dei manifestanti, spara, uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni. La reazione immediata, poi in parte ritrattata, di una buona parte della società civile, nonché dei referenti delle Tute Bianche, sarà quella di gridare agli “infiltrati” accordati con la polizia per rovinare la manifestazione e prendendo le distanze dai manifestanti come Carlo Giuliani, il quale «…non era una tuta bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento.» Come riportarono tutti i quotidiani il giorno dopo. Dirà Oreste Scalzone, ex Autonomia Operaia: «Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?» Dopo le giornate di Genova si conclude il progetto delle Tute Bianche e rinasce, poco dopo, in quello della “Disobbedienza” il quale terminerà a sua volta nel 2004. Una precisa area politica raccoglie le pratiche di questo progetto e le porta avanti immutate, rendendole la norma, o peggio l’abitudine, nelle piazze di tutta Italia. «Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione, inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità e di senso di una rivolta.»2 Lo spettacolo I due modi di vedere la lotta proposti negli episodi genovesi si basano sulla contrapposizione tra la “Spettacolarizzazione del rifiuto e il rifiuto della spettacolarizzazione”3 che trovano nelle “Commedie di Maggio” delle iconiche riproduzioni in miniatura. -La spettacolarizzazione del rifiuto: Il copione è più o meno sempre lo stesso: un gruppo di contatto, inventandosi una zona proibita da raggiungere, si lancia a peso morto sulla polizia per essere manganellato a favore di telecamera finché un Capo macho non si butta in mezzo insieme alla DIGOS e, tra urla scimmiesche e cenni di intesa, ognuno spinge indietro “i suoi”; una volta portata a casa la credibilità rivoluzionaria grazie agli scontri si conclude la pantomima sui giornali, romanzando la giornata e lamentandosi delle sorprendenti violenze della polizia e della sospensione dello Stato di diritto. Il passo successivo e tutto contemporaneo è poi l’ossessiva esaltazione estetica delle immagini degli scontri, accompagnate da musiche di sottofondo e slogan ricondivise sui social, per il giubilo della polizia, proprio dalle stesse persone che vi hanno partecipato. È tragicomico fermarsi un attimo a pensare che tutto questo, senza una telecamera a riprendere la scena, sarebbe completamente inutile (più di quanto già lo sia); ciò che succede in piazza, le persone presenti o l’obiettivo dichiarato, non hanno nessun valore reale, il fine ultimo è unicamente quello di raccontare sé stessi, firmare la giornata e apparire sui social, in una spirale di autocompiacimento senza fine. Intere comunità politiche fondano le loro battaglie sulla convinzione di poter utilizzare lo strumento mediatico a proprio vantaggio, venendo poi tragicamente recuperati e fagocitati dallo spettacolo stesso o quando il nemico contrattacca davvero. Dietro questa convinzione ci sono da un lato consapevoli opportunistx elettorali, dall’altro c’è il tentativo di qualche illusx di incasellare il gesto della rivolta come una piccola parte di un grande puzzle che ci porterà tuttx, un giorno, tramite compromessi e confronti democratici, ad una poco chiara “presa del potere” e che finisce poi, nel migliore dei casi, ad essere l’accettazione di un capitalismo un po’ più democratico, un po’ più umano (che mai sarà). Infine fa riflettere quanto questi scontri alla giornata siano prerogativa unica di persone bianche e privilegiate; per qualcunx invece lo scontro con la controparte non è solo la totalità di un programma ma la diretta conseguenza di una postura nel mondo, nella maggior parte dei casi nemmeno voluta ma obbligata dal fatto di appartenere ad una minoranza minacciata e oppressa. – Il rifiuto della spettacolarizzazione: Basterebbe citare, tra i tumulti più recenti, quelli per Alfredo Cospito o per Ramy, le rivolte contro il lockdown, le eccedenze durante i cortei per la Palestina, le passeggiate rumorose dopo i femminicidi o le rivolte dentro le carceri e i CPR, dove è importante anche notare che la polizia ha tutt’altro approccio all’ordine pubblico, molto più violento e senza compromessi. Alcuni episodi però parlano più di mille giornate e vanno riportati: Luglio 2017, due persone fanno sesso sul balcone mentre sotto le strade di Amburgo vengono date alle fiamme dalle proteste contro il G20. Ottobre 2019, Santiago De Chile, sono le giornate dell’Insurrezione Cilena, intorno alla carcassa di un autobus incendiato delle persone si radunano per ballare al ritmo dei colpi sul metallo, qualcuno finge di guidarlo, qualcuno suona l’arpa. Giugno 2020, una manifestante con la maglietta “Black Lives Matter” twerka verso la polizia durante le proteste dopo la morte di George Floyd. Non serve comunque cercare esempi in momenti di sommossa generale né tantomeno uscire dai nostri confini per rendere ancora più chiara l’idea: Una ragazza sale sul cofano di una Tesla e ci piscia sopra durante una passeggiata rumorosa, qualcunx riscopre la sua chitarra o la gamba di un manichino come clava contro la celere, qualcun altrx gioca ad “Un, due, tre, Stella!” o improvvisa un karaoke circondatx dalla celere. Il filo che lega tra loro queste vicende è l’interruzione della normalità a favore di un capovolgimento del significato degli oggetti e dei luoghi. Il fine di una rivolta, che sia il calcio in bocca ad un maschio violento o i tre giorni di un rave party, è la sospensione del tempo e l’apertura di squarci nel quotidiano dentro la quale sperimentare gioiosamente avventure di libertà reale e collettiva. Chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di sovversione del quotidiano conosce la bellezza di riappropriarsi di una parte di ciò che ti viene sottratto ogni giorno ma soprattutto sa perfettamente che il gesto della rivolta non ha bisogno di nessuna legittimazione o argomentazione, è giusto perché è sempre un atto d’amore spontaneo verso sé stessi e gli altri. Ciò che ci divide dalla possibilità di vivere un gesto rivoluzionario è la difficoltà di scorgerlo quando se ne presenta l’occasione, per il semplice fatto che l’atto rivoluzionario è per definizione qualcosa che nessuno conosce ma che va inventato da zero sul momento. Agire, bucare questo Velo di Maya, questo muro invisibile che divide noi dall’azione, richiede di coltivare una tensione al pensiero rivoluzionario capace di generare un’intuizione, un’idea; che sia quella di infrangere una vetrina o comunicare un pensiero profondo ad una persona in un momento speciale, in entrambi i casi il peso enorme dei dubbi, delle paure e delle abitudini possono facilmente oscurare il rapidissimo lampo dell’intuizione o appesantirlo fino a spegnerlo. È desolante che proprio chi cammina al nostro fianco ed è più intimo a questi pensieri, non dia spazio a tutto questo ma anzi si adoperi attivamente per gettare acqua sul fuoco. Lx “Compagnx” che hanno appreso la militanza come un mestiere, annegatx dentro le ideologie e le strutture verticali, per lx qualx il momento di esprimere i desideri non è mai adesso ma domani, nell’avvenire rivoluzionario che loro stanno costruendo per noi. Si finisce dunque per avere piazze in cui, invece di trovare alleatx, trovi qualcunx che, in perfetto stile “Società dello spettacolo”, mette in scena i tuoi sentimenti al posto tuo, come nel mondo di tutti i giorni; tu rimani in disparte a guardare, a consumare il prodotto e se mai ti venisse in mente di voler anche tu indossare quel casco, armare la tua ira, allora devi prima scalare la gerarchia militante o quantomeno chiedere il permesso. Domandiamoci perché le nostre piazze, anche le più rabbiose a seguito di tragici eventi, si siano ridotte a veri e propri concerti itineranti per la città, nelle mani di qualche microfonatx che ci traghetta nella miserabile esperienza di urlare la nostra rabbia a ritmo di musica e cori esplosivi, circondatx da un cordone di polizia che ci tutela dal mondo reale. Alcuni collettivi, nati dal furore di rivendicazioni incandescenti, si sono ridotti ad un team di organizzatori di viaggi turistici delle ricorrenza di lotta, con le istanze politiche ridotte a badge di riconoscimento e finendo poi, a volte, ad abbassarsi al ruolo di guardie quando qualcunx ha l’ardore di arrabbiarsi davvero invece di godersi il ballo di gruppo. Non c’è da stupirsi poi se, durante i momenti di sommossa questx “Grandi compagnx” restino a braccia conserte mentre bruciano le camionette della Gendarmerie a Saint Soline o sprofondino nel divano quando esplode la rabbia per un ragazzo ucciso dai carabinieri. È proprio questo quello che dovrebbe spaventarci di più, la messa a nudo davanti alla realtà. La prova concreta di non saper affrontare quello che hai scimmiottato per anni, e che ti porterà, inesorabilmente, a mancare il tuo appuntamento con l’Insurrezione, a non saperla riconoscere e soprattutto a non sapere come vivertela, perché ti sei dimeticatx pure cosa desideravi. La lotta anticapitalista non si esaurisce nella giornata di mobilitazione, nell’appuntamento col nemico, ma nella diffusione di comportamenti sovversivi, nella condivisione di spazi di libertà illegale collettivi, dove mettersi alla prova davvero in prima persona, e dove, a volte, poter anche sbagliare ma con la dignità di aver compiuto qualcosa di tuo. Questo può accadere solo tenendo accesa la tensione verso un agire sovversivo, capire cosa significa per noi, riconoscerlo nei gesti altrui e sceglierlo tutti i giorni, dandogli spazio vitale. Imparare a prendersi cura di se stessx e di chi ci sta vicino, decostruirsi, boicottare la linea, perché “Il conflitto non avanza linearmente, per linee di classe o soggetti affinitari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni.”4 «Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario capitalista.» 5 Vivere nella verità L’utilizzo del conflitto simulato, con tutte le sue aberrazioni al seguito, è figlio di un’epoca dove saper vendere la rappresentazione spettacolare di sé stessx è la chiave del successo. La porta d’emergenza per uscire da questo teatro è quella di riconquistare una forza estetica molto più attraente, quella della verità. Mentire su ciò che succede in piazza, esagerare nei comunicati trionfalistici tutti uguali, decuplicare i numeri delle manifestazioni, ripetere come mantra slogan fiammeggianti in piazze finte e costruite; chi pensate di prendere in giro? A rimanere imbrigliatx in questa rete di bugie sono lx numerosx poser, opportunistx e abusers, animatorx di quelle relazioni sociali neutralizzanti che intossicano gli spazi di movimento. A non cadere nella trappola sono invece lx migliaia di possibili giovani ribelli che a ogni spazio non concesso, ad ogni bugia, abbandonano schifatx e delusx la lotta collettiva per chiudersi nell’individualismo ed egoismo capitalista. Invece di sacrificare energie nelle autonarrazioni teatrali è urgente tornare ad agire azione diretta, tornare a rendere le strade cornici di rivolte autentiche, capaci di attrarre almeno una parte di quella tensione che, costretta nel sottosuolo, trema sempre più forte e irrequieta. Sarà stupefacente riscoprire la potenza sovversiva del dilagare della rabbia di moltitudini furiose, per ora ancora sonnecchianti e represse. Con la definitiva approvazione del dl Sicurezza, sotto il cielo più nero degli ultimi ottant’anni, è ora di riscoprire la nostra più feroce voglia di vivere e stare insieme, stringendosi a chi, all’ombra dello show, alleva il dubbio, si prende cura della verità e, in silenzio, affila il coltello. Il più grande pensiero di solidarietà e affetto a Maja e Paolo in sciopero della fame per le brutali condizioni di vita nelle carceri, contro tutte le galere. GIUGNO 2025 -Teppistx, incivili, guastafeste 1 https://www.romatoday.it/politica/intervista-luca-blasi-scontri-no-decreto-sicurezza.html 2 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/ 3 Detour – la canaglia a Genova: https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/ 4 Guy Debord. La società dello spettacolo. Parigi, 1967 5 Marcello Tarì, Il Ghiaccio era sottile – per una storia della Autonomia, Derive e Approdi, 2012, Roma
Approfondimenti
Stato di emergenza
L’automobile, c’est la guerre.
Riceviamo e diffondiamo: L’automobile è stata a lungo la metafora della superiorità dell’Occidente capitalistico nei confronti del resto del mondo, in cui le popolazioni viaggiavano a piedi o al più a cavallo e ne ha rappresentato uno dei cuori pulsante della struttura industriale, diventando una merce di massa che implicava la crescita tanto dello sfruttamento lavorativo salariato, quanto dei consumi che, ça va sans dire, del progresso tecnico. E’ stata anche un potente propulsore di due mitologie capitaliste. Quella della “libertà” intesa come possibilità resa via via più accessibile alle masse di potersi muovere con più facilità, che ha contribuito a mistificare la libertà intesa come possibilità di preservare degli spazi di autonomia esistenziale. E quella del mondo inteso come “frontiera” sempre più dominabile, la riduzione della distanza, il mondo “a portata”. Oggi l’industria dell’automobile europea è in profondo declino. E’ il Green Deal UE ad aver spinto la strada dell’elettrificazione, ma nel comparto sta accadendo qualcosa di analogo a ciò che avvenne con la siderurgia. Le aziende cinesi, che prima del 2000 erano importatrici nette di acciaio e alluminio, in dieci anni sono diventate il primo produttore al mondo. Nel frattempo, dalle parole di Von der Leyen, lo scellerato piano di rearmo europeo da 800 miliardi di euro servirebbe per rilanciare l’economia in crisi ed è stato analizzato proprio come vettore di riconversione dell’industria automobilistica – in particolare tedesca – verso il militare. Un piano che, peraltro, ha solo la parvenza semantica di “sovranismo”, nel momento in cui gli esiti della scellerata guerra per procura combattuta in Ucraina svelano ancor più il ruolo vassallo degli Stati europei rispetto agli Stati Uniti: le armi per l’Unione Europea sono affari per il grande capitale finanziario statunitense. All’interno dell’attuale guerra mondiale “a pezzi”, particolare rilevanza assume nell’industria automobilistica il ruolo dell’automazione, con la corsa ai veicoli a guida autonoma, in cui si svela la compenetrazione tra civile e militare e la guerra a un’umanità considerata sempre più eccedente. Di seguito il podcast:   https://radioblackout.org/podcast/lautomobile-cest-la-guerre/
Approfondimenti
L’occhio del nemico – Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”
Riceviamo e diffondiamo: Scarica in formato pdf: occhiodelnemico_lettura occhiodelnemico_stampa L’occhio del nemico Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso” Gran parte del lavoro necessario ad imporre lo sviluppo tecnologico che incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone “normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di fare carriera. Di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi propagandò il computer e la rete come strumenti di emancipazione si è già occupata ampiamente la storia, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete». Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura. Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway, che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono) sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei foodsystems possono essere hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta rigenerativa all’estrattivismo dei dati.  Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la piattaforma di intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.   Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno 2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori, può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA). Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece, giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa. Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla base dell’analisi dei dati metereologici e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la seconda è che l’agricoltura contadina (agroecologica e di comunità) abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio di queste due menzogne è un vero capolavoro di impostura intellettuale che contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia, agricoltura, ecologia.  Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi. Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia tecnologica.  Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di computer che popolano i datacenter. Questo apparato globale inoltre non può esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che vengono sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo sociale sempre più avanzate.  Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante. L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche, sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino. In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidato si è affiancato il genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la morte nella Striscia. Alla luce del ruolo che l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere.  Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi dell’intelligenza artificiale con finalità agroecologiche e sostenere gli usi civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente. Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico, miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi interni. Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0 (estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi di intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria, elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la tecnologia, la sua definizione va ampliata fino ad includere, oltre al dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze, infrastrutture, obiettivi, immaginari) ed agisce in una maniera che Neil Postman definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una nuova società. Per fare un esempio, si immagini di dover spiegare cosa sia l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale. Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo con questa ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie moderne. La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che, al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni ecologici dislocati nei paesi in cui vengono estratte le risorse e prodotti i dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà facile preda di ciarlatani come Giordano. Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e ad occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che – riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo di fatto nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione ideologica che viene regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili. In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di pensare che porta dritti fra le braccia del nemico. Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale: l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo fondamentale: le parole ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale ed inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria, possano essere riorientati secondo valori diversi da quelli che effettivamente e materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il nemico perché ormai si guarda il mondo come lui. Rovereto, aprile 2025 Collettivo Terra e Libertà [1] https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commons-per-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/ [2] https://mondeggibenecomunque.noblogs.org/
Approfondimenti
In primo piano
Sul far della sera
Riprendiamo da http://terraeliberta.noblogs.org la postfazione a “La guerra come operazione di polizia internazionale” di Riccardo d’Este, rieditato nei mesi scorsi come opuscolo dal Collettivo terra e libertà. Qui l’articolo di Riccardo d’Este: https://ilrovescio.info/2022/05/09/la-guerra-del-golfo-trentanni-dopo/ Qui la postfazione in pdf: sul far della sera Sul far della sera Perché ripubblicare, a oltre trent’anni dalla sua prima uscita, questo articolo sulla prima guerra del Golfo? Non si tratta, in fondo, di analisi datate e dal sapore un po’ rétro, oggi che il Nuovo Ordine Mondiale a trazione statunitense di cui ci parla Riccardo d’Este appare in disfacimento, incalzato da vecchi e nuovi mostri alla riscossa «multipolare», e che la categoria di Governo Mondiale è stata recuperata da paranoici e reazionari di vario pelo? Secondo la notissima formula di Hegel, la nottola di Minerva spicca sempre il volo sul far della sera: è solo alla fine di un’epoca che la si comprende, divenendo consapevoli di un mondo che ci è passato accanto. Da questo punto di vista, i fatti degli ultimi anni illuminano queste bellissime pagine, e il tempo trascorso in mezzo, di una cruda luce retrospettiva. Se a suo tempo fece discutere la “mossa” teorica operata da Riccardo (prendere sul serio l’espressione «operazione di polizia internazionale» applicata alla prima guerra del Golfo), sono le conseguenze che ne trae questo lucidissimo compagno a esserci più utili per l’oggi: l’insufficienza di ogni spiegazione economicistica delle guerre; l’Impero capitalistico mondiale come gestore unificato dei «dislivelli» di produzione e sviluppo che esso stesso crea, e che ne permettono la riproduzione; e infine, inestricabilmente intrecciata alla «crescita esponenziale della microelettronica, della telematica, della cibernetica», la cattura della forma-Stato mondializzata sulla totalità della vita: «nonostante l’enfatica riproposizione, un po’ ovunque, di teorie “neoliberali” e “neoliberiste”, sta avvenendo esattamente l’opposto. Non è il “libero mercato” […], non è la legge del valore, bronzea o aurea, a determinare gli assetti sociali, economici e politico-istituzionali, ma, al contrario, è l’Ordine, nella forma Stato, nazionale o sovranazionale, ad imporre il mercato, a stabilire il valore, a determinare le regole dello scambio fondandosi sempre più sull’immaterialità dei beni e sullo spettacolo dei bisogni». Se Riccardo forse esagera nel proclamare – sia pure solo come tendenza – «l’autonomizzazione del capitale dai suoi stessi fondamenti», ovvero la concorrenza e la compravendita di lavoro-merce (l’attuale corsa verso la terza guerra mondiale è anche contro la concorrenza della «fabbrica del mondo» cinese, e per la riappropriazione da parte dell’Occidente del valore là prodotto), come non vedere, nel crescente furto e mercimonio dei Big Data, una immaterializzazione dei beni? Come non scorgere nei “vaccini” ad mRNA e nei vari PNRR delle gigantesche iniezioni nelle Borse di valori progettati a tavolino e alimentati a debito statale, sulla base dello «spettacolo dei bisogni» (e della paura)? E come non riconoscere, tra il campo di concentramento (divenuto nel frattempo campo di sterminio) di Gaza, e i droni che raccolgono i pompelmi a Tel Aviv, un vero e proprio concentrato dei «dislivelli» globalmente amministrati? Queste brevi note sull’Impero, scritte nella sua fase aurorale, sono l’esatto rovesciamento – e in anticipo – dell’omonimo best seller di Hardt e Negri di circa dieci anni dopo. Il fulcro del ragionamento, che Riccardo tiene ben fermo e da cui deriva tutto il resto, è proprio l’analisi del ruolo dello Stato nel mondo contemporaneo. Laddove i due professori post-operaisti, in un micidiale miscuglio di malafede e imbecillità, scambiano il declino ideologico dello Stato nazionale con la fine dello Stato tout court, Riccardo esprime in modo raffinato un concetto semplice: nella sua epoca imperiale – quella della polizia, dei militari e della sorveglianza tecnologica a ogni angolo, e della pianificazione sempre più centralizzata in poche cabine di regia –, lo Stato non fa che estendere e intensificare il proprio intervento: «si vede, infatti, che l’autorità oppressiva dello Stato, o del Sovrastato, anziché attenuarsi, “democratizzarsi”, tende a rafforzarsi su scala planetaria. Si vede che lo Stato, l’Ordine mondiale, non è semplicemente un comitato d’affari di capitalisti associati ma tende ad esprimere la volontà, l’interesse, il senso del capitale nella sua completa interezza: ci sono, naturalmente, bande fra loro rivali, che possono arrivare anche a scontrarsi, ma tutte perseguono il medesimo fine ed attraverso lo stesso mezzo, cioè il controllo statale» (e come non pensare, qui, ai «nuovi progetti Manhattan» di tecno-armamento e tecno-sviluppo in corso un po’ ovunque, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’Unione Europea?), laddove il fine è «“l’utopia del capitale”, il sogno cioè di eternizzarsi e sostituire la natura stessa» . Anziché essere uno «spazio liscio» che, nell’agevolare i «flussi» cibernetico-finanziari, finirebbe per liberare le «soggettività» contenute nella «moltitudine», l’assetto imperiale trasforma individui e collettività in una poltiglia ciberneticamente amministrata, sotto «il sole artificiale dello spettacolo». Abbagliati dal loro errore madornale sull’estinzione dello Stato, e quindi spintisi fino a teorizzare la «fine dell’imperialismo», Hardt e Negri vengono smentiti appena un anno dopo dall’invasione dell’Afghanistan e, di fronte alla seconda guerra all’Iraq che ne segue a stretto giro, non sanno darsi altra spiegazione che la «follia» di Bush II. Di nuovo, Riccardo li confuta in anticipo: «né più credibili possono risultare le interpretazioni di tipo psicologico, che pure qualche commentatore ha proposto, e cioè che Bush soffrirebbe di “delirio di potenza” o di profondo risentimento personale nei confronti del suo servitore fellone [Saddam Hussein, ndr]. La complessificazione della società non lascia spazio a simili semplificazioni». La guerra, al contrario, è il «tragico crocevia» del nostro tempo, «tra i luccichii delle opulenze del consumo e i bagliori delle armi». Se nel nostro presente queste analisi possono trasmettere una fastidiosa consonanza con un certo sovranismo, l’apparenza non deve ingannare. Che gli Stati Uniti abbiano esercitato fino all’altroieri un’egemonia pressoché assoluta nel capitalismo mondiale, è qualcosa di più e di meno di un giudizio di fatto: è una banalità talmente ovvia che non dovrebbe nemmeno essere ricordata. Più significativo, al contrario, è che tanti compagni e compagne sembrino esserselo dimenticato, mentre altri pezzi di società paiono scoprirlo proprio nel momento del declino dell’assetto imperiale. Chi crede che questa consapevolezza – arrivata in ritardo come la nottola di Minerva – non poggi su altro terreno che la propaganda dello Zar di Russia, fa soltanto del complottismo rovesciato (“politicamente corretto”). Se il mondo, dall’avvento di internet e in particolare delle bolle social, è segnato più che mai anche da «guerre cognitive» per accaparrarsi i cervelli, dietro i movimenti delle coscienze agiscono sempre delle cause materiali. Egemone nel periodo dell’egemonia statunitense (talmente tanto da aver inglobato, “culturalmente” e non solo, anche una parte del proletariato), la classe media declina con il declinare del «secolo americano». Sospesa tra piccoli privilegi sempre più residuali e una crescente proletarizzazione (a livello di salari, consumi, condizioni di vita, modalità di lavoro), e in un quadro di ri-sudditizzazione generale, ha sperimentato fin nei propri corpi tutta la violenza di cui è capace l’Ordine imperiale. Ma se teme quest’ultimo, teme anche i barbari che si affollano alle sue frontiere. Mentre, nella terra dei rapporti sociali, maledice le varie caste (i politici, i banchieri e i loro servi dell’Informazione e della Scienza), invoca dal cielo del Diritto quello stesso Stato che, da «comitato d’affari della borghesia», è ormai divenuto un vero e proprio gabinetto di pianificazione. A questo groviglio di pulsioni, tanto spiegabile quanto intimamente contraddittorio, si rivolgono i pifferai sovranisti, ai quali una certa compagneria – quella che da un po’ di anni ha cominciato a pensare che la NATO ha fatto anche cose buone, o che non bisogna confondersi con le luride plebi populiste – non fa altro che lasciare campo libero. E che musica suonano, i pifferai? In un mondo stravolto da mutamenti radicali che scorrono alla velocità delle immagini, scambiano costantemente la sostanza di quanto sta avvenendo con la sua pura esteriorità. Dal nostro punto di vista, non c’è dubbio che – come avvenuto più volte nella storia – siamo di fronte a un salto di specie della classe dominante, nello specifico dal potere classicamente borghese al potere di una nuova classe, che si può definire tecnocrazia. Al contrario della vulgata liberal-marxista, però, certi trapassi non avvengono mai per semplice rimpiazzo (una classe che ne soppianta un’altra con un colpo di mano). Tra gli Illuministi, che pure partorirono il pensiero borghese, non furono pochi gli aristocratici (pensiamo a un Montesquieu); e ve ne furono anche di più sulle barricate della rivoluzione francese. A Firenze, alcuni dei padroni della città sono tuttora famiglie che risalgono ai tempi di Dante, con tanto di blasoni e titoli. A Carrara, proprietarie delle cave sono a tuttoggi quelle stesse famiglie che se le spartirono nel Settecento. A cambiare, di epoca in epoca, non è tanto chi detiene il potere di classe, ma le condizioni del suo accesso. Definire la tecnocrazia come la classe finanziaria, alla maniera dei sovranisti, dice tutto e non dice nulla: al giorno d’oggi, qualsiasi capitalista di un certo calibro finanziarizza le proprie attività. Al contrario, quella tecnocrazia che sta superando il potere genericamente borghese andrebbe definita come la classe della potenza: quella che si afferma approntando allo Stato i mezzi del suo dominio (prima di tutto le armi, e poi tutto l’armamentario duale delle tecnoscienze, dai cavi in fibra ottica ai mega-datacenter, passando per gli OGM vecchi e nuovi, la biologia di sintesi, i droni, i super-computer quantistici…); e che solo secondariamente, come conseguenza, ha preso e prende sempre di più il controllo dei “mercati”. In questo presente che ama nascondere gli scheletri nell’armadio, i sovranisti hanno almeno il merito di indicarlo, l’armadio. Ma non lo aprono mai. Vi scorgerebbero un mondo degli orrori: schiavi, miniere e fabbriche per approntare quei mezzi di cui nessuno Stato può fare a meno; un mondo-laboratorio popolato da umani cablati per rendere questi mezzi operanti; guerre per accapparrarsi le risorse necessarie a fabbricarli; e, a tutte le latitudini, stuoli di tecnocrati grandi e piccoli pronti a servire i loro Leviatani nella rinegoziazione del mondo. Che le «bande rivali» abbiano imparato bene la lezione dai (sempre più ex-) reggenti imperiali, ce lo dice anche il nome scelto dal Cremlino per l’invasione dell’Ucraina (a sua volta già invasa dai capitali concorrenti e dai loro Servizi): «Operazione Militare Speciale». Quando l’esercito coadiuva o sostituisce la polizia nella normale gestione dell’ordine detto pubblico, mentre è sempre all’opera nel continuo gioco di provocazioni, spesso occultate o proprio invisibili, tra i vari Leviatani, – allora il suo sconfinamento non ne costituisce altro che la variante non-ordinaria e quindi prevista, come prova tecnica di dominio sovra-, o forse ormai meglio meta-, nazionale. Ciò detto, se oggi la «macchina sovranazionale» di cui ci parla Riccardo sta andando in pezzi (apparentemente in direzione di più blocchi globo-regionali anziché di un ritorno allo Stato-Nazione), le ragioni per attaccarla non sono di meno, ma di più. Messo alle strette dai poli capitalistici emergenti, il capitalismo occidentale è disposto a tutto pur di non mollare la presa, anche a costo di ritrovarsi tra le mani un cumulo di macerie radioattive. Già questa è una buona ragione per combatterlo: perché prenda forma un mondo diverso, deve ancora esserci un mondo. Ma ci sono altre ragioni, e più profonde. I rivoluzionari possono e devono scegliere come giocare (quali fini perseguire, e con che mezzi); ma non possono scegliere il campo da gioco, ovvero l’orizzonte storico in cui agiscono, e al cui interno, oggi, non opera solo la falsa alternativa tra «democrazie» e «regimi autoritari». Piaccia o non piaccia, la nostra è l’epoca in cui, dietro i poli capitalistici emergenti, ci sono masse di dannati della terra che premono per uscire dalla miseria, mentre nelle «aree centrali» milioni di persone scoprono di non vivere nel migliore dei mondi. Senza rinunciare a niente delle nostre prospettive, senza tifare per nessun concorrente, e continuando a ribadire che la sola alternativa reale è il comunismo anarchico (mentre il «multipolarismo» è solo una favola insanguinata), opporci innanzitutto al nostro imperialismo è – come ha scritto qualcuno – la «porta stretta» dalla quale un movimento rivoluzionario non può evitare di passare. Perché è il solo modo per avvicinarci a quei miliardi di esseri umani che sono due volte oppressi e sfruttati: dai loro regimi, che malsopportano, ma spesso accettano come “male minore”, e dalla «macchina sovranazionale» occidentale, dalla quale ora più che mai cercano di liberarsi; perché è il solo modo per ritrovarsi dalla stessa parte della rabbia che monta anche alle nostre latitudini, prima che qualche pifferaio riesca a canalizzarla contro altri oppressi; e perché una trasformazione rivoluzionaria non può né essere concepita né avviarsi senza lo stravolgimento dei rapporti di forza mondiali. Non sappiamo che cosa potrebbe scaturirne, da questo stravolgimento, e se ci concederà un’occasione per «rimettere in discussione, e praticamente, i fondamenti stessi del potere». Possiamo però scommettere che, se questa occasione si darà, sarà l’ultima che l’umanità avrà di fronte prima di sprofondare in quella «lunga stagione buia» su cui Riccardo ci ammoniva più di trent’anni fa. In questo paesaggio cupo possiamo cogliere almeno un aspetto positivo: se la frantumazione dell’Impero implica il ritorno delle guerre simmetriche, con il loro bisogno massiccio di carne da cannone da arruolare a forza anziché dei soli eserciti professionali, gli appelli alla diserzione smettono di essere mere «esercitazioni retoriche», e la variabile umana può farsi nuovamente sabbia nel motore del militarismo. Se poi l’economia di guerra estende ulteriormente l’arruolamento in senso sociale, raggiungendo luoghi di lavoro e territori, le occasioni per ammutinarsi (scioperando, bloccando, sabotando) si moltiplicano. Mentre i tecnocrati di ognidove corrono al riarmo, tutti gli uomini e le donne di cuore e buona volontà sono a loro volta chiamati ad armarsi: innanzitutto di idee chiare, coraggio e protervia. Mentre l’aria appare già piuttosto scura, sappiamo che l’alba non verrà da sola. [novembre 2024]
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