Seguendo il filone di approfondimenti sulle estreme destre e i movimenti antifa
in Europa – ad Harraga in onda su Radio Blackout – abbiamo avuto l’occasione di
fare un tuffo…
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A volte è più che necessario – è vitale – alzare un po’ gli occhi dall’agenda
militante e chiedersi per quale vita ci battiamo, per quali ragioni di fondo, e
con quali mezzi – materiali e ideali – pensiamo di raggiungerla. Per questo
riproponiamo questa vecchia conferenza del nostro amico Massimo, che tocca,
riaggiornandoli alla società tecnologica di massa, alcuni dei nodi fondamentali
dell’anarchismo rivoluzionario. Qual è l’etica su cui si fonda l’anarchismo?
Essa è solo individuale oppure vive anche in una trama di costumi collettivi?
Che forma vi assume il valore dell’uguaglianza? Quale violenza è rivoluzionaria,
e come si giustifica? Quanto può essere rivoluzionaria la non-violenza, e quanto
è fondata la sua pretesa di superiorità morale? Un testo che risponde ad alcune
di queste domande aprendo o lasciandone aperte molte altre, ultima ma
nient’affatto per importanza quella sul “che fare?”. Il cui peso, in questi
ultimi vent’anni, è soltanto cresciuto insieme alla dismisura tecnologica,
giunta oggi a produrre il primo genocidio automatizzato della storia.
L’autorganizzazione come etica, come modo di vivere
Individuo e società, violenza e non-violenza
IL TEMA DI STASERA è l’autorganizzazione come etica, come modo di vivere. Vorrei
cominciare con un passo tratto da Le città invisibili di Calvino:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già
qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo vivendo insieme. Due
modi ci sono per non soffrirne. II primo riesce facile a molti: accettare
l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. II secondo è
rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e
dargli spazio.
Ecco, per me questo qualcosa che non è inferno, questo qualcosa da far durare e
a cui dare spazio è un’etica, l’etica della reciprocità. A chi è talmente parte
dell’inferno contemporaneo da non vederlo più non ho nulla da dire. C’è forse
bisogno di dimostrare che quello che chiamano vivere civile è un quotidiano
omicidio di massa, una quotidiana carneficina di dignità, uno spaventoso
accumularsi di protesi tecnologiche che ci rendono ogni giorno più massificati e
allo stesso tempo più isolati?
Più che un ennesimo inventario degli orrori, ciò che serve è cogliere l’essenza
di questo inferno al fine di scorgere, appunto, ciò che non è inferno. E
l’essenza è la divisione in dirigenti ed esecutori, una divisione che la
produzione massificata – dal cibo alle telenovela, dall’energia ai massacri in
mondovisione – ha portato a livelli giganteschi. Nel corso di tutte le società
basate sul dominio – cioè sull’assoggettamento delle popolazioni ad opera di
qualche minoranza – è successo che un elemento di questo dominio abbia preso il
sopravvento su tutti gli altri. È quanto è accaduto con il capitalismo, un
sistema sociale in cui il motivo economico tende a soppiantare tutti gli altri.
Se le conseguenze del capitalismo sono state l’industrializzazione e il
concentramento urbano, è importante coglierne le cause specifiche:
– l’accelerazione enorme del cambiamento tecnico, legata allo sviluppo della
scienza;
– la nascita e il consolidamento dello Stato moderno, centralizzato e
burocratico, base e modello dell’impresa capitalista nascente;
– la creazione della nazione come spazio mercantile e giuridico unificato;
– la nascita di un nuovo tipo umano, in senso antropologico, caratterizzato
dalla mentalità del calcolo e del guadagno, il cui tempo è quello scandito e
misurabile.
La divisione in dirigenti ed esecutori si rafforza con la specializzazione dei
ruoli, la quale tende a soppiantare il comando autoritario con il potere
apparentemente impersonale dell’esperto.
OGGI, ASSISTIAMO ANCORA una volta a uno di questi processi che porta un elemento
del sistema a dominare tutti gli altri. Si tratta del movimento sempre più
autonomo della tecnoscienza, dei suoi apparati, dei suoi linguaggi. Questo
processo, che dalla seconda guerra mondiale ad oggi ha creato una Megamacchina
in cui si sono fusi la ricerca scientifica e l’industria, il sistema militare,
quello politico e mediatico, tende a ridurre ed eliminare il ruolo dell’uomo
nella produzione. L’uomo è da sempre l’elemento più difficile da dominare, ecco
perché il potere ne ha fatto qualcosa – per dirla con Gilnter Anders – di
antiquato. Arginare la resistenza degli sfruttati è stata la preoccupazione
costante che ha unito, in particolare negli ultimi decenni, le esigenze del
profitto e quelle del controllo sociale. Interrogarsi in senso astratto sulla
“tecnica” senza riferirsi alla storia e ai conflitti sociali che hanno fatto del
capitalismo sempre più una società tecnologica è un nonsenso buono per i
sociologi. Allo stesso modo, inorridire di fronte all’inferno delle guerre
telematizzate e degli esperimenti nucleari – oppure, andando indietro, dei campi
di concentramento e di sterminio – senza guardare nel ventre mostruoso da cui
sono nati e nascono ancora è un modo per illudere se stessi.
IL CONTRARIO DELLA DIVISIONE in dirigenti ed esecutori è l’autonomia individuale
e collettiva. E se autonomia significa capacità di dare a se stessi le proprie
regole, un’attività autonoma è un’attività di cui gli individui controllano gli
strumenti e le finalità. Quando gli strumenti agiscono da soli, quando la
specializzazione dei ruoli liquida la comprensione complessiva dei nostri atti e
quindi la coscienza delle loro conseguenze, dov’è l’autonomia? Quando si può
lavorare alla catena di montaggio di una fabbrica di armi con la spensieratezza
di una musica in filodiffusione, dov’è la coscienza? Come collegare i nostri
gesti ai corpi dilaniati da qualche bombardamento con cui la televisione condirà
la nostra cena? Perché porsi il problema, dal momento che, lavoratori salariati,
appariamo socialmente onesti? Fra gli integrati, chi vedrà l’inferno nel nerbo
stesso di ciò che ci tiene insieme?
PENSO CHE L’ETICA DELLA RECIPROCITÀ sia la base che può chiarire il concetto di
autorganizzazione e gettare allo stesso tempo un po’ di luce sul problema della
violenza e della non-violenza.
Autorganizzarsi significa organizzarsi da sé e anche organizzare se stessi – le
due cose vanno assieme ma non coincidono. Per organizzare la propria attività
bisogna organizzare il proprio sapere, il proprio linguaggio, le proprie
capacità manuali e così via. E viceversa, per sviluppare se stessi (per
organizzare le proprie attitudini in modo spontaneo e affinato) occorre poter
agire autonomamente.
Ora, quando parliamo di auto-organizzazione, chi è l’autós, il “se stesso” di
cui si parla, il soggetto che si organizza, appunto, “da sé”? Per non cadere in
visioni astratte e gerarchiche bisognerà rispondere: l’individuo. Anche le
società più totalitarie, infatti, organizzano “se stesse” e si organizzano “da
sé”, in quanto le cause della loro continua auto-istituzione sono immanenti, non
provengono da nessun al di là. Solo che al loro interno una minoranza comanda e
la massa ubbidisce, allo stesso tempo attiva e passiva, complice e vittima.
Prima ho detto: l’individuo, ma avrei potuto dire: gli individui. Per l’uomo che
nasce, il dato del mondo che lo accoglie è la pluralità degli uomini, tutti
diversi e tutti unici, come si rivela anche solo allo sguardo. Se, come diceva
Hannah Arendt, l’azione è la risposta tipicamente umana al fatto di essere nati,
l’introduzione della novità e della discontinuità in un ordine già-fatto, la
reciprocità è la condizione che assume fino in fondo la pluralità degli uomini,
per cui dire “individuo” significa sempre dire “individui”. L’etica della
reciprocità afferma: come tu a me, così io a te. Facendo dell’uguaglianza il
luogo in cui si esprimono le differenze, essa coniuga l’universalismo con
l’affermazione dell’unicità dell’individuo. L’unica cosa che ci rende davvero
uguali, l’unico dato davvero comune, universale, è il fatto che siamo tutti
diversi. A questo proposito, è comico e tragico insieme vedere come i sociologi
di sinistra siano incapaci di andare oltre le risposte impacciate e false nei
loro colloqui con i nuovi teorici del razzismo, i quali, abbandonati i rozzi
appelli alla biologia (la pelle, il sangue, eccetera), parlano di diversità
culturale e accusano l’universalismo di distruggere le differenze reali
(etniche, storiche, eccetera). Non riferendosi all’unica universalità concreta –
l’individuo – questi sociologi non sanno attaccare la menzogna di fondo del
nuovo razzismo: le differenze di cui esso parla sono sempre collettive, e cioè
sono identità monolitiche per gli individui presenti all’interno di una stessa
“cultura”, di una stessa “nazione” e così via. Ma questo sarebbe un discorso
lungo; ho voluto solo accennarvi.
L’ETICA DELLA RECIPROCITÀ è un’etica per cui “giusto” non è fare questo o
quello; “giusto” non è il costume di una comunità piuttosto che quello di
un’altra: giusto è ciò che permette alle diverse concezioni individuali di ciò
che è giusto e sbagliato di esprimersi. Relativismo assoluto che accetta
qualsiasi cosa e il suo contrario? Nient’affatto. Si tratta di un metodo che
nega ogni sopraffazione e ogni dominio, dell’intolleranza assoluta verso ogni
regola imposta dall’esterno.
Il dominio si caratterizza soprattutto per l’usurpazione di facoltà collettive
da parte di una minoranza. Benché la violenza ne sia il fondamento (nessun
potere gerarchico si regge senza il gendarme), violenza e dominio non sono
sinonimi. Vi sono metodi di dominio in cui la violenza in senso stretto
(inflizione, reale o minacciata, di sofferenza fisica) non è presente, perché la
loro natura è più subdola (pensiamo, ad esempio, alla pubblicità); così come
esiste una violenza che non è finalizzata al dominio, bensì alla liberazione dal
dominio. Ma su questo ritornerò. In generale, penso si possa definire violenza
in senso più profondo la negazione sistematica della reciprocità, cioè
l’imposizione unilaterale delle condizioni. Tutto ciò che accetto di compiere
spinto dalla necessità (politica e non “naturale”) di sopravvivere, non lo
accetto forse sotto minaccia? Non è uno stato di necessità che mi fa subire
“accordi” che non ho mai sottoscritto né condiviso e che chiamano “leggi”? Non è
per questo che svolgo un’attività lavorativa di cui non capisco il senso, di cui
non controllo le conseguenze e i cui effetti mi possono anche sembrare
socialmente nefasti? Se non mi ribello ogni volta che ne ho l’occasione, non è
forse per paura? Quello che passa per lo più per non-violenza è questa paura di
fronte alla violenza, è il fatto di rimanere alla finestra mentre l’inferno
continua. In tal senso, il 99% dei nostri contemporanei è composto da
“non-violenti”. Vi sembra una provocazione?
Se la reciprocità è il metodo per una comune libertà individuale, allora
l’autorganizzazione ne è la forma sociale. Autorganizzazione come etica sociale,
allora, come modo di vivere, le cui condizioni sono il dialogo reale, la libera
assemblea, il rifiuto di ogni rappresentanza irresponsabile. E non è forse
irresponsabile votare qualcuno ogni cinque anni senza poter incidere su quello
che ha fatto prima de! nostro voto né su quello che farà dopo? E pensare che
chiamano ciò “elezione”, cioè scelta in senso forte! Un modo autonomo di
organizzarsi presuppone non già il rifiuto di ogni forma di suddivisione dei
compiti, ma il rifiuto della loro specializzazione gerarchica e incontrollabile
– oggi potremmo aggiungere, pensando alle conseguenze della tecnologia sulla
natura e sulla specie umana: irreversibile. In una tale autonomia mi sembra
coincidere l’autentica paideia, come dicevano i Greci, cioè l’autoeducazione
degli individui. Se teniamo presente la definizione di azione come discontinuità
di un ordine già-fatto, pensiamo a come si svolgono le nostre giornate, fra
continui obblighi impersonali eppure terribilmente concreti, e chiediamoci:
quand’è che agiamo? Quand’è che le nostre parole e i nostri gesti modificano,
nel senso dell’autonomia, il mondo in cui viviamo? II mondo lo trasformiamo
eccome, e sempre più in modo globale, solo che siamo prigionieri dei nostri
cambiamenti. Ascoltiamo Anders:
Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo
cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è
anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento.
Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si
cambi in un mondo senza di noi.
INDIVIDUO E SOCIETÀ, VIOLENZA E NON-VIOLENZA. Una società libera è una società
di cui gli individui autocreano continuamente gli accordi, i saperi, i
linguaggi. Una società che ha liquidato ogni violenza strutturate è una società
basata sulla reciprocità. Il contrario di reciprocità è unilateralità, cioè
sfruttamento degli uni da parte degli altri. Fin in epoca moderna, il concetto
di “società” sottolineava l’aspetto volontario e non-violento, cioè reciproco,
degli accordi fra individui. Diversamente, infatti, si sarebbe sudditi, non
soci. Voglio soffermarmi ancora sulla nozione di etica, prima di affrontare il
tema della violenza e della nonviolenza.
CI SONO DUE SIGNIFICATI che, fin dall’antichità, coabitano nel concetto di
etica. L’etica è qualcosa di profondamente individuale – Eraclito diceva «etica
è a ciascuno il suo demone», e il demone è il proprio modo di essere, sia nelle
sue determinazioni coscienti sia nei suoi aspetti più oscuri ed enigmatici.
Questo demone non è un giudice che detta le sue leggi, come sostiene una ben
nota tradizione filosofica, ma una voce che ora parla per allusioni, ora urla
con la forza dell’evidenza. I suoi sono geroglifici dell’anima, e l’anima,
diceva ancora Eraclito l’oscuro, non ha confini. L’etica non è un’insieme di
norme, dunque, ma una continua esplorazione. Ma l’etica – l’ethos – è anche
qualcosa di collettivo, attinente ai costumi, ai saperi, al modo di abitare –
insomma, è quello che si definisce per lo più “morale”, per quanto i due termini
siano il secondo la trascrizione in latino del primo (mores e ethos sono,
infatti, sinonimi).
Perché queste precisazioni? Non per uno di quei vani esercizi di etimologia con
cui si sostiene tutto e il suo contrario, ma per chiarire che quando parlo di
un’etica della reciprocità parlo di qualcosa di profondamente personale e
insieme di un luogo collettivo, quello dell’autorganizzazione delle lotte e
della vita. E chi dice lotta e vita, dice rapporti, saperi, linguaggi, tecniche.
Quest’etica deve essere “globale” perché le conseguenze dei nostri gesti lo
sono, nel tempo come nello spazio. Essa afferma, come Ugo da San Vittore faceva
nel XIII secolo:
L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello
per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello
per cui l’intero mondo è un paese straniero.
Questo è il solo modo che trovo di essere solidale con chi è clandestino e con
tutti gli umiliati della Terra. Nel mondo della reciprocità non esistono
stranieri perché non ci sono cittadini. Il luogo dell’ethos va pensato in senso
non territoriale. L’etica della reciprocità emerge là dove il dialogo forgia le
sue armi e sovverte l’ordine delle cose; ancora una volta,
nell’autorganizzazione. Ma di questo – dell’autorganizzazione come metodo di
lotta e come pratica sociale – parleremo durante le prossime serate.
L’autonomia reale è un modo dì vivere il rapporto fra ciò che è pre-individuale
e ciò che è individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico,
come le facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali
che troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra
azione. Noi diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in
rapporto con la natura e con la storia.
Autonoma è una società in cui tale rapporto non è fissato in nessuna istituzione
esterna – come lo Stato o l’impresa capitalista – all’azione reciproca degli
individui; in cui la discussione, l’amore, il gioco, il conflitto e la
riproduzione delle condizioni materiali sono attività fra loro armoniche; in cui
non esistono un’economia, una politica, un’arte o una scienza come sfere
separate della vita.
ANCORA DUE PAROLE SU individuo e società. Si sa che secondo le varie teorie del
contratto sociale gli individui avrebbero rinunciato, a un certo punto della
storia, alle loro libertà naturali in cambio della protezione fornita dalla
società politica, cioè dallo Stato. Vi siete mai chiesti con che lingua comune
hanno potuto mai stipulare un simile contratto dal momento che essi vivevano
fuori della società? Il libero accordo non è l’inizio, bensì il risultato mai
raggiunto di una lunga esperienza sociale. Reciprocità significa: la mia libertà
esiste solo grazie alla libertà degli altri.
Penso che una vita piena sia una vita che sa mescolare con arte il piacere della
solitudine e il piacere dell’incontro. La società massificata distrugge
entrambi. Qualcuno ha parlato opportunamente, rispetto alla vita contemporanea,
di eremiti di massa. Siamo continuamente socializzati in un sistema-mondo dalla
pubblicità e dalle mille protesi tecnologiche e allo stesso tempo siamo separati
dai nostri simili. Gli spazi privati e quelli pubblici sono sempre più
indifferenziati e sempre più anonimi. Dopo la natura selvaggia, è scomparsa ogni
agorà e ogni libera assemblea. Credo che una nuova solitudine e una nuova
socialità nasceranno insieme, oppure ogni individualità diventerà antiquata.
E VENIAMO ORA ALL’ULTIMA QUESTIONE: violenza e non-violenza. Quelle che seguono
sono solo alcune banalità di base per cominciare a discutere davvero. Mezzi e
fini: questa è, si dice, la politica. L’esperienza tragica almeno dell’ultimo
secolo ci insegna che non ci può essere separazione fra mezzi e fini, che i
mezzi contengono già i propri fini. All’autonomia si giunge solo con
l’autonomia. All’autorganizzazione della vita si arriva solo autorganizzando le
lotte. Occorre ancora dimostrarlo? Non lo hanno già fatto la dittatura
stalinista e la lunga storia del parlamentarismo? Tagliamo corto: chiunque parli
di società non-violenta senza riferirsi esplicitamente alla demolizione dello
Stato e del capitalismo ha non uno, ma tanti cadaveri in bocca. Uno Stato
non-violento è una contraddizioni in termini. Il Diritto lo sa, e infatti parla
di monopolio legittimo della violenza. Legittimo? E chi lo dice? Lo Stato. II
non-violento ci crede. Nel migliore dei casi ha preso per buona l’immagine che
questa società dà di se stessa, quella di un pacifico mercato interrotto,
ahinoi, da qualche violenza. Se l’etica non ha nulla a che vedere con il diritto
– ché ubbidendo alle leggi si diventa oggi più che mai dei complici
nell’omicidio di massa –, la non-violenza non ha nulla a che vedere con il
codice penale. «Il nonviolento è tale solo quando rischia più del violento»,
scrive un compagno – Vincenzo Guagliardo – incarcerato da quasi vent’anni per
aver partecipato alla lotta armata. Da anni impegnato a trovare dei modi di
lotta per ridurre il più possibile la violenza nel mondo e per abolire ogni
logica sacrificale, ha scritto dopo Genova che serve a poco sfidare le zone
rosse se non si disertano le zone grigie. La zona grigia, nel linguaggio di
Primo Levi, è quella della collaborazione fra alcuni internati nei Lager e i
loro carnefici e, più in generale, fra un popolo e i suoi oppressori. Non è
ancora oggi la nostra collaborazione la zona grigia che fa continuare l’inferno?
E allora si può essere non-violenti senza rifiutarsi di collaborare con lo
Stato? Si può essere non-violenti e appoggiare chi bombarda intere popolazioni,
affama e desertifica paesi interi, oppure rinchiude chi non ha i documenti in
regola? Si può essere non-violenti ed accettare il carcere?
Il fine della non-violenza non può essere che una società senza Stato e senza
dominio. Utopia? Certo, e bisogna scegliere fra etica e realismo politico.
Penso che tutto quello che tende concretamente verso una tale società sia
liberazione in atto. Si potrà forse realizzarla, una simile società, senza
scontrarsi con la polizia? Così scriveva Aldo Capitini, uno dei maggiori teorici
della non-violenza in Italia:
La nonviolenza non è appoggio all’ingiustizia… Bisogna aver chiaro che la
nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma
proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo
metodo e la sua realtà… La nonviolenza è il punto della tensione più profonda
del sovvertimento di una società inadeguata.
Capitini, ma potremmo citare lo stesso Ghandi, propugnava il sabotaggio delle
strutture oppressive come metodo di lotta non-violenta? Che dicono i
“nonviolenti” che urlano al terrorismo, cioè alla violenza cieca e
indiscriminata, quando qualcuno sabota una centrale nucleare o un laboratorio di
biotecnologie? Simili azioni producono o distruggono la violenza? Non-violenza è
qui un altro nome per ignavia e viltà.
IL PUNTO È CHE TUTTI I DIFENSORI DELL’ORDINE definiscono non-violenza il
rispetto della legalità e del dialogo democratico. Quasi tutti quelli che si
chiamano nonviolenti accettano questa mistificazione. Eppure le maggiori
violenze commesse dallo Stato sono perfettamente legali, cioè giuridicamente
giustificate, per il semplice fatto che è la forza (non solo in senso militare,
ma economico, mediatico, sociale) a fondare il Diritto. Il “dialogo
democratico”, poi, è il contrario esatto di un dialogo reale: per dialogare
veramente, lo abbiamo visto, bisogna essere in una condizione di reciprocità. Se
qualcuno ha il potere di imporre unilateralmente le domande, le risposte gli
saranno sempre funzionali. In quel caso si può dire che le domande si rispondono
da sole. Un generale americano e un ragazzo afghano possono dialogare nella
misura esatta in cui Agnelli e i suoi operai in sciopero sono uguali di fronte
alla legge.
“Violento”, “terrorista” è oggi chiunque rifiuti il dialogo con le istituzioni,
chiunque distrugga anche solo le macchine per far parlare gli uomini. Chi
comanda, definisce il senso delle parole. Chi definisce il senso delle parole,
comanda.
Perché per i dirigenti è così importante imporre il loro senso alle parole?
Perché sanno che una ribellione contro la legge è una possibilità che esiste
concretamente nel mondo; perché sanno che dove gli umiliati, i dominati, gli
sfruttati dialogano realmente non c’è spazio per il dialogo fittizio della
democrazia. Per questo i libertari fanno paura, perché l’autorganizzazione di
cui parlano esiste già.
Mi pongo e vi pongo un ultimo interrogativo: è sufficiente limitarsi a
distruggere le strutture oppressive quando la polizia spara e tortura, quando
gli stermini continuano in ogni parte del pianeta?
E su questo lascio ancora la parola a Günter Anders, che così scriveva nel 1987,
a ottantacinque anni, dopo aver vissuto il nazismo, Hiroshima, il Vietnam e
Chernobyl.
Dal momento che non ci è concesso di restare indifferenti di fronte alla nostra
fine e a quella dei nostri figli – una tale indifferenza sarebbe omicida – non
dobbiamo neanche rifiutare la lotta contro gli aggressori con l’argomentazione
secondo cui il comandamento `Non uccidere” non ammette alcuna eccezione. Esso
l’ammette. Anzi l’esige. E ciò nel caso in cui attraverso l’atto-eccezione
vengano salvati più uomini di quanti ne muoiano a causa sua. Dobbiamo cioè
accettare la guerra a cui siamo costretti. E questo – noi non saremmo certamente
i primi, ma saremmo certamente gli ultimi! – con la stessa disperata risolutezza
con cui mezzo secolo fa migliaia di uomini e donne nei Paesi europei oppressi da
Hitler hanno (o avrebbero) dovuto accettare la lotta contro la politica di
sterminio del nazionalsocialismo.
Ancora oggi, perfino fuori della Francia, la parola résistance non ha perduto il
suo bel suono. Dovremmo forse vergognarci di fronte alla generazione d’allora?
Allora, infatti, furono solo i più ignobili ad avere il «coraggio della viltà»:
ossia il coraggio a non opporre nessuna resistenza, vantandosi persino, come
fanno oggi certi oppositori al nucleare, di limitarsi alla ‘resistenza
nonviolenta’ per motivi giuridici, morali o religiosi. A causa di una tale
autolimitazione perirono allora un gran numero di persone. Oggi si tratta di un
numero incomparabilmente più grande di allora. Perché il pericolo di oggi non
solo è più grande di allora, ma è – il comparativo non basta più – totale. E
potrebbe essere definitivo.
Per questa ragione noi contemporanei possiamo permetterci ancor meno di
accontentarci di ‘happenings’, o addirittura vantarci di un tale accontentarsi.
Piuttosto, adesso dobbiamo invece cercare di combattere gli odierni nemici e
aggressori con la medesima mancanza di riguardi con cui quarantacinque anni fa i
partigiani cercarono di combattere, di indebolire o di uccidere gli occupanti e
oppressori nazionalsocialisti dei loro Paesi. E pertanto anche noi dobbiamo
sentirci in dovere di diventare dei partigiani.
Rovereto, 28 novembre 2002
Massimo Passamani
[Conferenza nell’ambito dell’iniziativa UN’UTOPIA AGITA IL MONDO. Cinque
incontri sull’autorganizzazione. Rovereto, 28 novembre – 19 dicembre, sala di
Palazzo Balista, corso Rosmini 13
Giovedì 28 novembre 2002, ore 20:30]
Riceviamo e diffondiamo questa utile panoramica delle riconversioni belliche, in
Italia e non solo:
Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/riconversioni-belliche/
AL MERCATO DELLE RICONVERSIONI BELLICHE
Nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati
e la spartizione delle risorse, in un quadro che vede mutare gli assetti
geopolitici globali, si afferma la corsa al riarmo europeo. Mentre si cerca di
abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto, e cioè che in guerra ci siamo
già anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case; mentre gli Stati
europei – dai Paesi scandinavi alla Francia – forniscono ai loro cittadini
dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra
nucleare; e mentre alcune nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei
loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare… si sta affermando
l’idea che anche le aziende in crisi debbano essere riconvertite alla produzione
bellica.
Tra le prime, Volkswagen ha mostrato crescente interessamento. Pur riconoscendo
che una completa conversione alla produzione bellica richiederà anni, l’azienda
tedesca vuol tornare a fornire motori e trasmissioni per veicoli militari
collaborando con la conterranea Rheinmetall, come aveva già fatto durante la
seconda guerra mondiale quando collaborò coi nazisti.
Aziende come Rheinmetall, leader in Europa nella produzione di munizioni e
armamenti terrestri tra cui i carri armati Panther, e KNDS Group, joint venture
franco-tedesca specializzata in veicoli corazzati ed esplosivi con un fatturato
di 3 miliardi di euro, stanno già riconvertendo impianti civili, non solo
automobilistici, in linee di produzione bellica.
Il CEO di Rheinmetall, Armin Papperger, ha indicato che lo stabilimento di
Osnabrück di Volkswagen sarebbe “molto adatto” per la produzione di veicoli
blindati Lynx, a condizione di ricevere ordini per almeno 1.000 unità. Proprio
Rheinmetall ha realizzato una joint venture con l’italiana Leonardo per fornire
280 nuovi carri armati Panther e oltre mille veicoli blindati Lynx all’Esercito
italiano, una commessa da 23,2 miliardi di euro. Metà della produzione sarà
fatta da Leonardo in Italia. Parteciperà a questo progetto, con un contratto di
fornitura per circa il 15% del valore, anche Iveco Defence Vehicles (IDV)
controllata da Exor, la finanziaria olandese della famiglia Agnelli.
Leonardo e Rheinmetall vorrebbero partecipare al progetto per il futuro carro
armato pesante europeo, detto Mbt o Mgcs, un progetto lanciato da Francia e
Germania, che si scontra però con gli interessi anche della franco-tedesca KNDS,
holding che unisce la francese Nexter e la tedesca Krauss-Maffei Wegmann.
Un’altra società tedesca, la Helsoldt, che si occupa di elettronica per la
difesa, di cui è azionista Leonardo con il 22,8%, ha comprato una fabbrica di
elettrodomestici Bosch con 400 lavoratori annessi per riconvertirla.
La franco-tedesca KNDS, che produce il carro armato Leopard e il veicolo da
combattimento Puma, ha recentemente acquisito un’ex fabbrica ferroviaria a
Görlitz, in Germania, per espandere la sua capacità produttiva.
Anche l’ex insediamento Winchester di Anagni (Frosinone), nella Valle del Sacco
in Ciociaria, verrà riconvertita da KNDS Ammo Italy (ex Simmel Difesa) in una
fabbrica per produrre nitro-gelatina e polveri di lancio per proiettili. 11
nuovi capannoni su un’area di circa 2500 metri quadri per potenziare la filiera
delle armi1. Il paradosso sta che fino ad ora nell’ex stabilimento laziale di
Anagni si provvedeva al disinnesco dei proiettili scaduti. Tra Anagni e la
vicina Colleferro – dove KNDS possiede già uno dei più importanti stabilimenti
per il caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe –
arriverà a fabbricare fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno. Nel 2023 vi
era stata la visita del commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton,
allo stabilimento dei Colleferro, che aveva espressamente richiesto di
incrementare la produzione per missili e proiettili con cui riempire gli
arsenali europei. La riconversione dello stabilimento di Anagni, che dovrebbe
iniziare la produzione a partire dalla primavera 2026, si inserisce pienamente
nel quadro del piano “ReArm EU” ma ha anche ricevuto un finanziamento europeo di
41 milioni di euro dopo l’approvazione dell’ASAP (Act Support Ammunition
Production)2. L’ASAP è la legge europea, varata nel maggio 2023 e confermata a
marzo 2024 con l’impegno di 500 milioni di euro del bilancio UE, per potenziare
la produzione di esplosivi, polvere da sparo e munizioni dopo l’invasione russa
dell’Ucraina. L’ASAP ha calcolato che entro la fine del 2025 saranno 2 milioni i
proiettili che dovranno essere prodotti all’anno dalle industrie europee. 4,300
tonnellate l’anno gli esplosivi.
Attraverso l’ASAP la Commissione Europea ha selezionato una trentina di progetti
per sostenere l’industria bellica europea della produzione di polveri e
munizioni. In un primo tempo il maxiappalto riguardava solo le imprese europee,
ma a causa del mancato raggiungimento del numero previsto di munizioni da parte
dell’industria europea, ora i fondi UE possono essere usati per comprare
munizioni anche da Paesi terzi, con gli Stati Uniti ovviamente a farla da
padrone (con la seconda elezione di Trump, gli Stati Uniti non solo pretendono
che la UE acquisti il loro gas GNL ma anche le loro armi).
I 31 progetti industriali finanziati dall’UE coinvolgono Grecia, Francia,
Polonia, Norvegia, Italia, Germania, Finlandia, Slovacchia, Lettonia, Romania,
Repubblica Ceca, Spagna e Slovacchia. Oltre la KNDS Ammo Italy, tra questi 31
progetti finanziati dall’UE vi è anche quello presentato dalla bolognese
Baschieri&Pellagri, del gruppo della Fiocchi Munizioni Spa di Lecco. Il progetto
della Baschieri&Pellagri è stato finanziato con 3,7 milioni di euro e consiste
nella produzione di polvere da sparo per i proiettili.
Ritornando all’industria dell’automotive, non possiamo non citare il caso
dell’italo-olandese Stellantis (ex Fca-Fiat) del presidente John Elkann, della
famiglia Agnelli, che vive una crisi acuta, con un forte calo della produzione
automobilistica nazionale, e che potrebbe essere interessata da un piano di
riconversione sostenuto dai ministeri della Difesa e dell’Economia. Annunciato
dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, un piano per
rilanciare la filiera dell’auto prevede un finanziamento di 2,5 miliardi di euro
con fondi pubblici entro il 2027, con l’obiettivo di diversificare la produzione
coinvolgendo il settore auto nel cosiddetto “dual use”, ovvero l’utilizzo delle
stesse infrastrutture per scopi civili e militari.
Per Stellantis si parla di un ruolo di consulenza ingegneristica, ma forse anche
della riconversione di uno o più stabilimenti per la produzione di mezzi
militari o componentistica. Fra le ipotesi alla studio, per intercettare la
pioggia di miliardi del riarmo UE, c’è la riconversione dello stabilimento di
Termini Imerese (Palermo).
Per facilitare l’intesa il governo Meloni vuole superare il cosiddetto piano
green deal lanciato nel 2019 dalla Commissione europea, almeno per quanto
riguarda il settore auto. Le regole europee oggi impongono la riduzione della
produzione delle auto a combustione per ridurre le emissioni di gas serra e
contenere il riscaldamento globale entro +1,5°C rispetto ai livelli
preindustriali. Il che significa riconvertire il settore auto nell’elettrico,
settore nel quale l’Italia (ma anche la stessa Europa) è piuttosto indietro
rispetto a Paesi come la Cina. Anche i dazi minacciati da Trump sui prodotti
importati dai Paesi europei hanno giocato un ruolo sulla decisione di sospendere
le regole europee per il green deal, dato che tra i settori colpiti da questa
nuova guerra commerciale c’è senz’altro il mercato dell’automotive. Ma la vera
ragione della sospensione del green deal è un’altra. Come ha ricordato molto
chiaramente l’ex ministro dell’ambiente e della transizione ecologica nel
governo Draghi, Roberto Cingolani, oggi amministratore delegato della più grande
società bellica italiana, la Leonardo, società che stima ordini per 118 miliardi
fino al 2029 con l’obiettivo di raggiungere ricavi superiori a 26 miliardi entro
la fine del decennio, “il Green Deal era importante in tempi di pace, ora ci
sono altre priorità”.
Ricordiamo, sempre della famiglia Agnelli, anche il ruolo di Iveco Defense. Già
pienamente operativa nel settore militare, lo è ancora di più dopo un accordo
con Leonardo siglato a novembre 2024.
Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze
militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla
produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso. A ottant’anni dalla fine
della Seconda guerra mondiale, i nomi che ritornano sono sempre quelli: Famiglia
Agnelli, Volkswagen, Krupp.
Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il
pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di
lavoro. É la giustificazione che è stata usata, per esempio, a castelfranco
Veneto (Treviso) per la riconversione in industria bellica della Faber, che ha
cominciato a produrre bossoli e ogive, mentre prima produceva bombole d’ossigeno
e a gas.
A questo punto con buona probabilità anche i sindacati confederali
collaboreranno alla militarizzazione del lavoro, cosa che stanno già facendo nel
caso proprio della Faber, con la Fim Cisl di Treviso che ha sostenuto
apertamente il progetto di riconversione bellica, fino al punto di proporre la
riconversione ad uso militare anche delle vicine industrie della Berco, azienda
del gruppo tedesco dell’acciaio Thyssenkrupp (quest’ultimo attivo anche nel
settore bellico), che produce cingolati per trattori e che vuole ridimensionare,
con procedure di licenziamento aperte, le sedi produttive italiane di
Castelfranco Veneto, Copparo e Bologna. Secondo i giornali locali veneti gli
operai di Castelfranco Veneto, in cassa integrazione da molti mesi, sarebbero
persino favorevoli, pur di non perdere il posto di lavoro e mettere un pezzo di
pane a tavola. Dai cingolati per i trattori a quelli per i carri armati è un
attimo. Tra l’altro gli stabilimenti veneti sia della Berco che della Faber
nascono dallo scorporo dell’azienda bellica Simmel Difesa e le macchine per
produrre armamenti pare si trovino ancora all’interno degli stabilimenti.
Condotte come quelle della Cisl trevigiana non sono casi isolati. Già nel 2021 i
responsabili locali della Fiom-Cgil palermitana dichiararono che la costruzione
di navi da guerra, motovedette e portaerei nei Cantieri Navali di Fincantieri a
Palermo “avrebbe portato ulteriore lavoro, stabilità lavorativa e benefici
economici per tutta la città”. Sindacalisti per la guerra.
PiccoliFuochiVagabondi
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1 www.peacelink.it/disarmo/a/50660.html
2
https://defence-industry-space.ec.europa.eu/eu-defence-industry/asap-boosting-defence-production_en
La macchina del razzismo di Stato uccide. Lo fa nei CPR, nelle galere penali,
tramite la violenza delle deportazioni, la manipolazione nascosta sotto il
cosiddetto “rimpatrio volontario”, per mano della polizia…
In questa puntata di Harraga – in onda su Radio Blackout – abbiamo continuato la
serie di approfondimenti sulle estreme destre con un collegamento dalla
Germania, dove il fascismo sembra…
I fatti di Budapest di due anni fa e la conseguente pesante repressione che sta
colpendo le e gli antifascisti in Ungheria e fuori, hanno aperto una finestra
sull’antifascismo un…
C’è un linguaggio nato dal vecchio mondo, indispensabile a capirlo per chi
voglia cercare di disfarsene, e non c’è (ancora) una lingua della vita liberata,
finché questa rimane tutta da inventare. Al di là dell’occasione che l’ha
generato, ci sembra questo il suggerimento più prezioso di questo nuovo
capitolo, scritto tra i baluginii del crepuscolo e i primi bagliori dell’aurora,
di un dibattito su “radici, vento e (possibili) zavorre”, partito da un articolo
sul numero 15 (giugno 2024) della rivista anarchica “i giorni e le notti” e
ospitato anche sulle pagine di questo sito. Mentre ne attendiamo possibili (e
probabili…) sviluppi, auguriamo ai nostri lettori e lettrici una buona lettura
di questa nuova puntata, certi che li emozionerà come ha emozionato noi.
Qui il pdf: a mezzo il cielo def
A mezzo il cielo
Ci sono amicizie che nascono sulla terraferma e altre che si annodano nella
complicità irripetibile del naufragio, e di quella cosa di schiuma e di flutti
hanno ancora il sale; nelle vele di alcune soffia il vento che porta ad approdi
sicuri (non è detto che siano i migliori), in altre quello per continuare la
navigazione fino a quando gli arrivi abbiano magari il tocco rude della verità
(categoria un po’ scomoda di questi tempi), piuttosto che quello appiccicoso e
dolciastro della consolazione. Con Peppe ci siamo conosciuti nel “diluvio
universale covid”, con la sola bussola dei principî confermati e accordati al
corpo teso alla vita. Le amicizie così, legami che nascono fuoritempo, non si
misurano in anni e anche la scoperta delle affinità e disaffinità si fonda su un
movimento particolare, in cui stima e sfida non si escludono nel gioco delle
reciproche intelligenze.
Il primo incontro è avvenuto su terra apparentemente ferma, addirittura tra le
nostre montagne, in occasione della due-giorni su Sud, civiltà contadina,
apocalisse culturale e cosmovisioni, rivoluzione. Quell’incontro nasceva dalla
necessità improcrastinabile, cioè storicamente urgente, di fare un bilancio del
biennio covid e, insieme, nominare dei varchi possibili per il futuro che,
giustamente, immaginavamo altrettanto totalitario e guerresco. Dopo il naufragio
imposto, ci prefiggevamo una deriva controllata: andare per mari inesplorati con
alcuni punti fermi: la tensione anarchica e la sua storia, ad esempio.
A partire dalle esperienze che ci hanno visti individualmente e collettivamente
malconci, cosa salvare e cosa lasciare affondare del nostro strumentario
teorico/pratico? E, in quanto diversi dentro un sociale che diventa macchina di
annientamento delle diversità, quali i nodi da lavorare, da sciogliere, da
tagliare? Quali le piste da percorrere, quali le risorse a cui attingere? Se
abbiamo voluto Peppe in quella due giorni con noi è stato per porci insieme la
domanda se a Sud si trovino ancora dei segni di qualcosa di diverso, uno scarto,
rispetto all’apocalisse totale e marciante che si fa vanto di chiamarsi
Occidente. Qualcosa di particolare sì, la civiltà contadina e le sue memorie non
disperse per esempio, ma che riportato alla luce può avere un effetto
liberatorio (potenzialmente) per tutti/e. Non un altrove e neanche un patrimonio
ripristinabile a volontà, ma uno strumento di scavo della storia collettiva per
capire da dove veniamo, come siamo stati educati a vedere come siamo. Eppure per
scavare – o dissodare, o dinamitare – ci si dà da fare con i materiali a
disposizione; poiché questa ricerca si muove su terreni teorici, gli strumenti
teorici sono quelli su cui interrogarsi, che è giusto mettere in discussione.
Siamo d’accordo: nessuna tecnica è neutra, così come non lo sono gli strumenti,
nessuna eredità che non sia scelta (almeno in questo campo). È proprio su questo
punto che si colloca la critica di Peppe: visto che certi mezzi possono
fagocitare gli obiettivi per cui si utilizzano, bisogna fare attenzione ai primi
come ai secondi.
Quesiti enormi, che richiedono ben più di due giorni intensi, che continuano a
presentarsi e a incalzarci al ritmo delle tragedie e della nostra inadeguatezza
di fronte ad esse. Proprio per questo, che Peppe ci rintuzzi su queste cose, ci
fa piacere; che si coltivi uno scambio che, tra gli odori di fine del mondo, ci
inviti a non volare alla “bassezza dei tempi” non ci sembra sia una pratica
scollegata rispetto agli altri doveri della vita e della lotta.
Accogliamo quindi, e pure con un inchino, la critica all’uso accademico di Marx,
al trascorrere dei concetti in parole d’ordine e al loro impastoiarsi nel
blablabla che nelle università bisogna biascicare per inserirsi in questa o
quella cordata, e farci carriera; e poi, una volta accreditati come bravi
“marxisti” (o, quanto a ciò, come bravi “foucaultiani”, “postcoloniali”,
“transfemministi” ecc.), starsene comodi col culo sullo scranno e senza trovar
niente da ridire quando il governo mette tutta la popolazione ai domiciliari.
Vorremmo poi rassicurare Peppe: nessuno di noi accende candeline sotto
l’immagine di san Karl. Ma stiamo divagando, il punto è questo: c’è ancora
un’utilità nei concetti marxiani? Le categorie di “proletario”, “feticismo”,
“accumulazione primitiva” hanno ancora un’utilità o sono irrimediabilmente
ferrivecchi?
Questa prima domanda s’intreccia a una seconda questione, più ampia e cruciale:
nella galleria degli orrori che è la storia dell’umanità per come noi la
conosciamo, il capitalismo ha una sua originalità, porta un aggravamento
specifico, oppure è solo una delle molte forme possibili di dominio? Che, per
l’appunto, è la questione che Peppe pone nel suo scritto e che, di fatto, tutto
l’anarchismo pone non solo ai marxisti (poverelli…) ma a chiunque trovi che lo
stato del mondo è insopportabile.
Non siamo affatto sicuri della risposta; sempre ammesso che una risposta ci sia
e che non sia questione, soprattutto, di sensibilità. Qui proviamo ad
argomentare a partire da un sospetto, dall’impressione persistente che,
nell’infinita sequenza di modi sempre nuovi per opprimere gli umani, gli ultimi
secoli abbiano una loro tragica specificità. Non parliamo solo del capitalismo
in quanto sistema economico, ma più in generale della modernità, ovvero del
mondo umano che ha preso forma nel convergere di colonialismo, capitalismo,
formazione degli stati-nazione, industrialismo, sequestro accademico-statale
della conoscenza e della cura. Insomma, la merda in cui nuotiamo. Non che
l’impero romano, quello cinese o quello azteco ci facciano simpatia; così come
non ce ne fanno le forme antiche e, per così dire, “pre-statali” di sfruttamento
dell’uno sull’altro. Detto ciò, però, tocca fare i conti col fatto che il
susseguirsi, senza quasi por tempo in mezzo, di colonialismo, totalitarismo,
sradicamento di ogni forma di vita altra, tratta atlantica, genocidi, campi di
sterminio, controllo integrale delle popolazioni, disastro ambientale e attacco
sistematico al vivente (v. la storia del nucleare), uniti a forme
straordinariamente efficaci di indottrinamento e cecità indotta, è un fenomeno
tutto moderno. O se non altro, è moderna la dimensione industriale della
distruzione; ma sospettiamo che, a monte, ci sia un baco specifico: l’idea tutta
moderna di essere il solo sistema di vita possibile e degno, la squalificazione
di principio, e quindi la distruzione, di ogni forma altra di organizzazione.
Mentre altre forme di dominio, forse per mancanza di mezzi tecnici adeguati,
lasciavano spazi liberi, la modernità coincide con l’esproprio, il sequestro e
la messa a servizio di tutto: dell’ontologia con la partizione natura/cultura (e
tutte le altre ontologie possibili sono solo storielle), della verità con la
scienza (e ogni altra forma di conoscenza è superstizione), delle forme
affettive con la distruzione delle regolazioni locali, del bene con il suo
appiattimento nel progresso, della socialità con l’urbanistica di controllo, gli
schermi, gli intruppamenti per classe d’età, delle forme affettive con la
famiglia mononucleare e così via, all’infinito.
Lo stesso infinito che il capitalismo assume come punto di fuga del plusvalore.
Nel disastro globale che la modernità riversa sul mondo, la piega economicista –
e quindi la rilevanza teorica del capitalismo – è un pezzo fondamentale perché
si salda, molto presto, con il mito fondante della modernità: quello del
progresso. Per questo ci pare che lo strumentario marxiano resti utile per
analizzare uno snodo fondamentale del tempo in cui viviamo. (Poi, certo, nessuno
che occupi la posizione di sfruttato vuole sentirsi chiamare “proletario”, ma a
quel che ci consta neanche chi occupa la posizione di sfruttatore vuole sentirsi
chiamare “borghese”). Così come ci sembra utile la descrizione marxiana
dell’accumulazione primitiva come esproprio dei commons, che si può estendere da
momento iniziale a condizione di possibilità del plusvalore; e quella del
feticismo della merce come vera e propria cattura stregonesca dell’anima delle
vittime, lungamente esplorata dalla critica radicale anni Settanta. Semmai, ma
questo è stata più opera degli scolastici della religione marxista che di Marx
stesso, la visione escatologica del processo storico (una dinamica rigidamente
di fase: comunismo primitivo antichità schiavistica feudalesimo
capitalismo socialismo comunismo) ha creato diversi mostriciattoli
giustamente citati da Peppe, ad esempio l’industrialismo e, come sottolineato
dall’erratico Benjamin, la fiducia degli sfruttati nella corrente della Storia.
E avremmo molto da ridire sul tatticismo etico, sulla prima Internazionale,
sulla tecnolatria e su alcune ambiguità come il general intellect e
l’atteggiamento verso lo Stato. In generale, quindi, l’uso che ci capita di fare
dell’opera di Marx è lo stesso che ne fece Cafiero (o che ne fecero Benjamin,
Anders, Cesarano, Coppo, Vaneigem, Camatte e altre decine di pensatori critici
più o meno radicali): quella di un pensiero da discernere. E questo può
significare, di volta in volta, litigarci, romperlo, prenderne un pezzo,
stipulare un armistizio. La stessa cosa faremmo/facciamo col pensiero di
Stirner, Bakunin, Malatesta, Goldman, Bonanno ecc. Un uso insomma non religioso:
proprio perché la religiosità non è una caratteristica della cosa venerata ma
del rapporto che si instaura con essa. E sì, è ironico, che proprio il pensiero
di chi ha criticato il feticismo sia stato feticizzato, ma la cosa non ci
riguarda personalmente (dice invece qualcosa dell’ambivalenza dell’umano coi
simboli che produce). Invece, sulla specificità dello sguardo anarchico rispetto
a quello marxista, pensiamo di convenire con Peppe, sta nella precedenza del
momento militare rispetto a quello economico: prima l’esercito espropriatore
delle autonomie, poi la fabbrica espropriatrice di vita. Eppure, sia lo sguardo
anarchico che quello marxista classicamente intesi hanno bisogno di altri
strumenti per sondare il lato cultuale dell’ordine costituito, il sequestro e
l’organizzazione dei desideri, la colonizzazione della corporeità e
dell’immaginario.
Una nota sentimentale. La posizione di Peppe porta un timbro un poco
malinconico, che si potrebbe tradurre pressappoco così: “il dominio c’è sempre
stato, anche fra i cacciatori-raccoglitori, e ha sempre fatto schifo; inutile
perder tempo con quello capitalista, che è solo l’ultimo rampollo”. Ora, qui
davvero parliamo di strutture di sentimento, quelle che muovono nel più profondo
e sulle quali forse c’è poco da discutere. Ma è possibile che questa visione
sconsolata sia, anch’essa, effetto di stregoneria; che, cioè, sia indotta dallo
studio della storia scritta dai vincitori, quella secondo cui bisogna per forza
scegliere fra libertà e ricchezza, fra autonomia e sicurezza, fra controllo e
barbarie. Ma se non fosse così? Sulla base di un insieme cospicuo di dati
archeologici, L’alba di tutto di Graeber e Wengrow delinea una preistoria molto
diversa da quella descritta nei manuali scolastici: un tempo, innanzitutto, di
sperimentazioni sociali; dove l’organizzazione complessa (“cittadina”) era
compatibile con l’autonomia e l’autogestione; dove i modi di vita non si
disponevano secondo una progressione univoca (cacciatori-raccoglitori, poi
pastori e agricoltori, infine industriali), ma c’era un andare e venire fra
forme di organizzazione; dove si poteva vivere di caccia e raccolta in estate,
ma si stava tutti insieme in villaggio in inverno; e dove non si riscontra alcun
determinismo socio-economico (la struttura sociale dei cacciatori-raccoglitori
non è necessariamente egualitaria, quella degli agricoltori non è
necessariamente gerarchica e così via). Se così fosse, allora anche la domanda
terribile, antropologica, sull’origine del dominio prenderebbe un’altra
inflessione: c’è dominio non perché gli umani sono intrinsecamente bacati,
geneticamente propensi al peggio o cattivi per natura, ma perché alcuni gruppi
decidono di agire il dominio, mentre altri fanno di tutto per evitare che si
produca. Allo stesso modo – e come notano anche gli autori – se fosse così, la
specificità del dominio moderno non risiederebbe tanto nella sua presa e nella
sua estensione materiale, quanto nella sua capacità di annichilire
l’immaginazione, di rendere impensabile il divenire politico collettivo.
Finiamo come abbiamo cominciato, con alcune considerazione alla (sulla) deriva.
Un’impressione s’insinua: che il porsi tutte queste domande sul linguaggio
analitico, sulla definizione, sulle lenti per guardare fuori ci inscriva, in
qualche modo, ancora nella storia d’Occidente, della sua mania nominatrice come
riflesso di una volontà ordinante che ci faccia sentire puri e puliti con una
semplice operazione del pensiero.
Certo, che ci piaccia o no, siamo occidentali, almeno fino a quando non avremo
realizzato, insieme ad altri barbari, il destino d’Occidente1… di tramontare.
Tutto il linguaggio dell’analisi del vecchio mondo fa parte del tramonto, le sue
parole sono le pompe funebri che, traendo da vivere dalle cose morte, ne
rimangono in qualche modo incaricate. Allora continueremo a usare questo
linguaggio come qualcosa a cui non affezionarsi, perché è lì lì per cadere oltre
le colonne d’Ercole del pensiero. Poi c’è il linguaggio delle cose vive, delle
esperienze vere – quelle che rovesciano il tavolo delle passività e delle
inimmaginabilità. Di fronte a questo linguaggio siamo come di fronte all’aurora.
Se c’è infatti una differenza sensibile tra crepuscolo e aurora è questa: mentre
durante il primo le cose si fanno definite, scolpite dalla vividezza della loro
ombra, durante la seconda è tutto ancora molto indefinito, crogiolo di vita in
potenza, tremore promettente.
Di fronte all’aurora siamo tutti infanti, di fronte al crepuscolo ci sentiamo
saggi perché pensiamo di sapere tutto della giornata trascorsa. La capacità che
ci è richiesta è allora non quella di creare da subito un linguaggio delle cose
nuove (momento ingovernabile che spetta al gioco degli umani con le loro
sorgenti), ma di allenare gli occhi a distinguere albe e crepuscoli.
Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto – a mezzo il cielo –
sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il
mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza. Verso un
dialogo sempre più stretto tra l’antico bambino e i morti – i ministri velati,
onnipresenti della memoria. Capii bene come ascoltando i suoi nonni paterni –
sbanditi e deposti dai conquistatori – il meticcio Garcilaso sapesse, una volta
per tutte, che di se stesso avrebbe detto soltanto El Inca, sebbene fosse
cristiano, cattolico ardente e figlio di un illustre Spagnolo. Comprese
improvvisamente quei lamenti mille volte ascoltati, quei vecchi disperatamente
nostalgici dei loro morti imperatori, terribili e soavi come il sole. Può non
essere meno drammatico l’incontro con un ritratto di famiglia, l’uomo o la donna
di cui mille volte udimmo parlare, il nonno che ha il nostro volto ma che –
soltanto oggi è chiaro – ha veduto gli imperatori: porta nelle pupille fredde e
tenere quello che noi cerchiamo dalla nascita, dentro e fuori. Qualcosa di molto
simile alla terra, che (come un Indio si espresse) ci fu tolta sotto colore di
aprirci il cielo.
(Cristina Campo, In medio coeli)
ConFra
1Ci riferiamo qui all’Occidente come concetto che si staglia sul panorama
storico umano dopo avere eliminato le proprie specificità interne, e gli
ostacoli ad un progetto di civilizzazione totalitario, non a tutte le spinte che
qui hanno tentato di resistere a quel progetto.
Dall’elezione di Trump negli USA giungono voci martellanti dei deliri annunciati
e promessi dalla sua seconda amministrazione. Allo stesso tempo però, non troppo
sappiamo di cosa materialmente sta progettando per…
Riceviamo e diffondiamo: In questi ultimi giorni il Cpr di Trapani Milo ribolle.
Sono i giorni in cui i famigliari di Moussa Balde e Ousmane Sylla si trovano in
Italia…
Segnaliamo questa puntata di “Macerie su Macerie” andata in onda su Radio
Blackout il mese scorso. Un’utile panoramica sulle differenze e le invarianze
tra la Prima, la Seconda, la Terza e la Quarta rivoluzione industriale, tra i
modelli computazionali e l’Intelligenza Artificiale, tra le tecnologie
informatiche in generale e quelle “abilitanti” in particolare. Non una banale
tassonomia, ma un contributo per affinare lo sguardo e le armi contro quel
processo che ci ha portati – dalla cibernetica degli anni Cinquanta alle reti
neurali artificiali – al primo genocidio automatizzato della storia, quello di
Gaza. Più esternalizziamo le nostre capacità deliberative, di fantasia e di
lavoro autonomo nei dispositivi tecnologici, più collaboriamo alla nostra
trasformazione in materiale da macchina.
https://radioblackout.org/podcast/macerie-su-macerie-podcast-20-01-25-ia-e-cibernetica-questioni-definitorie-e-problematiche/