Riceviamo e diffondiamo questi spunti di riflessione. Diverse delle questioni
che sollevano (in particolare il rapporto tra profitto capitalistico e potenza
tecno-scientifica, da un alto, e il rapporto individuo-classe-specie nella
rivolta contro il tecno-capitalismo, dall’altro), meritano senz’altro un
confronto serio e serrato.
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Alcune considerazioni critiche su La fase nichilista
«Il capitale che si fa uomo, fa di ogni uomo il capitale, di ogni vita l’impresa
del valore,
di ogni persona un’azienda in debito permanente del suo senso,
creditrice permanente del non-senso generalizzato»
Nell’arco dell’ultimo anno parlando con alcuni compagni e compagne di tendenza
libertaria ho spesso sentito lamentare la mancanza di contributi teorici che
esprimessero una visione organica di critica del modo di produzione
capitalistico, dunque un’analisi globale dei fenomeni e dei processi in atto
quali: lo stato del conflitto di classe locale e internazionale1, la crisi del
debito e dell’accumulazione che continua a imperversare e aggravarsi in tutto il
mondo, gli scenari di guerra in continuo sviluppo, i flussi migratori, la
trasformazione del mercato del lavoro e dei processi di produzione/circolazione
delle merci a fronte delle importanti modificazioni nella composizione organica
di capitale (massiccia robotizzazione degli impianti, introduzione della IA),
ecc.
Neanche a farlo apposta proprio recentemente, e a distanza di almeno due anni,
ho avuto modo di rileggere uno scritto che in campo anarchico, con i suoi limiti
e al di là delle polemiche rispetto alle individualità che lo hanno prodotto,
forse risponde maggiormente a queste caratteristiche. Mi riferisco a La fase
nichilista, articolo pubblicato sul settimo numero del giornale anarchico
“Vetriolo”, in cui si tenta un chiarimento delle determinazioni di questa fase,
già menzionata e descritta in altri articoli, e dell’azione del proletariato che
ne è protagonista.
Per gli autori dell’articolo le rivolte ”irrazionali” tipiche di questa fase
ancora allo stato germinale, sarebbero la conseguenza di un odio di classe che
l’alienazione tecnologica e le mistificazioni ideologiche della classe dominante
avrebbe tentato disperatamente di rimuovere negli ultimi trent’anni. La
«sottrazione di ogni possibile orizzonte, fosse pure immaginifico, di
rovesciamento rivoluzionario» avrebbe quindi generato tali manifestazioni di
collera incosciente proletaria, i cui prodromi, a detta degli autori
dell’articolo, possono essere rintracciati storicamente nelle celebri rivolte di
Los Angeles e Parigi.
Rispetto a queste «previsioni» circa l’andamento e le manifestazioni concrete
del conflitto di classe nei paesi a capitalismo avanzato va detto che “Vetriolo”
non dice nulla di nuovo, anzi arriva in ritardo rispetto a certe riflessioni
teoriche prodotto a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli
anni Settanta nell’ambito della critica radicale. Nell’affermare questo non
voglio assolutamente sancire la supremazia di una teoria rispetto a un’altra,
ché non siamo certo all’università (istituzione che sono convinto disprezziamo
allo stesso modo). In effetti, personaggi come Giorgio Cesarano2, Jacques
Camatte, ma anche gruppi come Ludd e Comontismo, riflettevano proprio in quegli
anni su quelle che venivano definite, non certo in termini dispregiativi,
«rivolte senza senso» di un proletariato eccedente tagliato fuori dal processo
produttivo e dal mercato del lavoro proprio a causa della ristrutturazione in
atto, un proletariato perlopiù giovane, senza prospettive, spesso marginalizzato
e sprovvisto della fantomatica coscienza di classe, estraneo al mito della
classe operaia e alla storia del movimento operaio, in mancanza di un bagaglio
culturale e affascinato dalla fantasmagoria delle merci e dalla prospettiva del
loro consumo.
Tali individualità e gruppi riflettevano su questi fenomeni a partire da rivolte
specifiche come quelle di Watts (1965) e Detroit (1967), rivolte sicuramente
scaturite dall’oppressione razziale, ma dotate di una carica distruttiva senza
precedenti3 e capaci di coinvolgere anche larghe fette di proletariato bianco
impiegato nell’industria automobilistica, senza tralasciare gli episodi di
Danzica e Stettino4.
Ha proprio ragione “Vetriolo” quando afferma che queste rivolte non possono
essere provocate dagli anarchici (e mi viene da dire menomale!), che esse
«accadono e basta», tuttavia, almeno a mio modo di vedere, ha torto quando le
riconduce unicamente allo sviluppo tecnologico e scientifico come se queste
fossero dimensioni autonome e slegate dai meccanismi di accumulazione di
capitale e valorizzazione delle merci. Ricollegandosi a quanto affermato da
Bakunin 150 anni fa rispetto al ruolo della scienza, “Vetriolo” definisce gli
scienziati come una casta autonoma, monopolisti di un trust specifico, giungendo
ad affermare che «lo scienziato è il solo soggetto che non ha alcuna
responsabilità (…), perché la scienza si pone come nuovo Dio e gli individui
sono dei meri capri espiatori da sgozzare sul suo altare». Non fosse altro che,
nonostante lo sviluppo tecnologico e scientifico raggiunto oggi, il dominio
pervasivo dei dispositivi digitali, la quantificazione e la misurazione di ogni
aspetto del reale garantito dalla scienza e dai suoi funzionari, la
manipolazione della vita giunta a livelli impensabili, il capitale rimane il Dio
di questo mondo. Gli scienziati, le imprese e gli istituti che si occupano di
ricerca devono rispondere di ciò che fanno nella misura in cui le scoperte e le
ricerche, siano esso civili o militari (ma ormai sappiamo che poco importa
essendo intercambiabili e sovrapponibili) devono produrre valore e inserirsi
nelle dinamiche di accumulazione, devono garantire dividendi ai mega-azionisti
che li finanziano, ecc. Nel fare ciò è indubbio che la ricerca scientifica e lo
sviluppo tecnologico mirano ad eternizzare il dominio dello Stato e del capitale
su una massa di senza riserve espropriata di tutto.
Torniamo a concentrarci su questa fase nichilista delle cui manifestazioni
materiali, procedendo da quanto scritto nell’articolo, non è che si sappia poi
tanto. “Vetriolo” ci dice che è innanzitutto riflesso del venir meno di
un’identità di classe forte e strutturata, la quale, mi permetto di aggiungere,
non è stata smantellata da chissà quale autorità o complesso di dispositivi
tecnologici divenuti di consumo di massa, ma è frutto di quella ristrutturazione
permanente che, iniziata negli anni Settanta, perdura ancora oggi e che si è
manifestata nella segmentazione della classe, nelle delocalizzazioni ed
esternalizzazioni progressive delle attività a debole valore aggiunto, nella
produzione just-in-time e zero-sprechi (leggi toyotismo), nella
destabilizzazione dei confini netti fra impiego e disoccupazione con
l’introduzione di flessibilità e precariato, nella terziarizzazione (forza
lavoro impiegata in lavori non produttivi legati al momento della circolazione
delle merci/servizi); insomma fine dell’operaio-massa, fine di una classe
operaia che a livello produttivo e identitario, pur nella sua frammentazione
politica, si erge monoliticamente contro il Capitale. «C’è stata una
ristrutturazione integrale del rapporto fra proletariato e capitale, che ha
trasformato l’uno e l’altro poiché ha trasformato il rapporto stesso»5.
Nel prossimo futuro, nelle lotte economiche e salariali non vedremo certo
riemergere prepotentemente un proletariato compatto nello stile dei decenni più
combattivi del secolo passato, quindi, a meno che non si voglia perdere tempo e
risorse a sostenere la necessità di rianimare vecchi cadaveri, i partiti di
classe con il loro corollario di burocrati e opportunisti, capaci di unificare
politicamente le istanze rivendicative delle varie fette di proletariato (ma
quali poi quando anche le lotte più combattive si limitano a rivendicare
l’applicazione di contratti collettivi o a tenersi stretto il posto di lavoro?),
allora, da rivoluzionari, bisognerebbe interrogarsi circa le possibili modalità
in cui potrebbe riemergere un consapevolezza più o meno diffusa della propria
condizioni di senza riserve, di schiavi salariati o materiale umano eccedente
alla mercé degli interessi del capitale e degli stati in guerra permanente. E
qui torniamo veramente alla fase nichilista.
Secondo “Vetriolo” l’odio di classe mistificato e incosciente assumerebbe
molteplici forme: dal terrorismo islamico, al conservatorismo degli operai
bianchi americani infarcito di razzismo e sessismo, all’integralismo cristiano,
ai vari complottismi, tutti antagonisti della deriva scientista e
«tecnoautoritaria». Spetterebbe quindi ai rivoluzionari andare oltre la forma
fenomenica di queste manifestazioni per rintracciarne l’essenza ideale
corrispondente a ciò che vi vogliono trovare: l’odio di classe… al netto di
un’assenza di comportamenti di reale contrapposizione di classe o di pratiche
tendenti a negare radicalmente la propria condizione di senza riserve. Non
bisogna affatto rivendicare nessun socialismo scientifico per prendere atto che,
coscienza o meno della propria condizione di proletari, il conflitto di classe e
l’odio di classe per qualificarsi come tali devono assumere determinate forme
che tendano a negare la riproduzione del rapporto sociale capitalistico;
alternativamente possiamo trovare l’odio di classe dovunque, basta che
soggettivamente lo vogliamo. Non sono quindi sufficienti comportamenti più o
meno diffusi di insofferenza rispetto ai dispositivi di controllo tecnologico
per parlare di odio di classe, anche perché tra le fila della stessa classe
media questo fenomeno è rilevabile. Tale odio, tra l’altro, potrà essere più o
meno cosciente, ma di certo non ha bisogno di cultura o teoria per esprimersi
anche in maniera violenta e spontanea. Spostiamoci per un momento fuori
dall’Europa e soffermiamoci su alcuni episodi6 di rivolte ”irrazionali”
piuttosto interessanti, in cui il rapporto sociale capitalistico è stato
parzialmente negato pur in presenza di pratiche pseudorivendicative sprovviste
di connotazioni apertamente rivoluzionarie, ma animate da una carica
considerevolmente distruttiva:
–Johannesburg (Sudafrica), luglio 2015: ritardi dei treni provocano una rivolta.
Due treni ed una stazione vengono dati alle fiamme.
– Mumbai (India), gennaio 2015: continui ritardi scatenano la protesta da parte
dei passeggeri. Risse tra passeggeri e personale; saccheggiate le casse, i
bancomat e le biglietterie automatiche (denaro e tickets). Diversi veicoli
bruciati e dieci treni danneggiati. Circa 12.000 persone e almeno due stazioni
coinvolte.
–Fugang Electronics (Dongguan), Gennaio 2013: Le cucine e la mensa dello
stabilimento produttivo vengono saccheggiate da 1000 operai che fanno il turno
di notte, perché i prodotti alimentari sono scadenti.
L’aspetto interessante che emerge in episodi simili è che le esplosioni di
rabbia e odio che si verificano in questo tipo di circostanze, anche quando sono
legate a rivendicazioni relative al salario, mettono in questione il rapporto
sociale e le strutture che rendono la normalità capitalistica possibile e
riproducibile. In queste contingenze i dispositivi tecnologici e le macchine
quando non vengono distrutte vengono utilizzati come strumenti in qualche misura
funzionali all’espansione della rivolta (vedi smartphone e Telegram nelle
rivolte degli ultimi cinque anni negli Stati Uniti, ad Hong Kong, in Cile, in
Francia utilizzati per comunicazioni e condivisioni di informazioni utili alla
organizzazione materiale delle sommesse).
Ma le rivolte e la fase nichilista di cui “Vetriolo” parla, questa «passione
degli sfruttati» è semplicemente una reazione di massa alla svolta
tecnototalitaria o una negazione radicale di un’organizzazione sociale di cui lo
sviluppo scientifico, per quanto pervasivo nelle sue applicazioni, rimane un
mezzo e non un fine in sé, volta alla messa a valore, e dunque al controllo e
alla prevedibilità, di ogni aspetto della vita dei proletari? Opterei per la
seconda ipotesi aggiungendo che «il capitale, come modo sociale di produzione,
realizza il proprio dominio reale quando perviene a rimpiazzare tutti i
presupposti sociali o naturali che gli preesistono, con forme di organizzazione
specificamente sue, che mediano la sottomissione di tutta la vita fisica e
sociale ai propri bisogni di valorizzazione; dunque l’essenza della Gemeinschaft
del capitale si realizza come organizzazione». Il momento della rivolta senza
senso diventa il momento della disarticolazione di questa organizzazione nei
suoi spazi, tempi, mezzi riti e miti.
Posto che le rivolte moderne avvengono a prescindere dall’azione dei
rivoluzionari, siano essi di tendenza anarchica o meno, “Vetriolo” sostiene che
al nichilismo vada affiancata una cultura rivoluzionaria. Quest’ultima, stando a
quanto postula il «pensiero negativo», si configura come negazione radicale del
già dato, che a sua volta oggi, mediante «l’instupidimento tecnologico, la
derealizzazione, l’alienazione digitale, la banalizzazione dell’informazione»,
si propone di demolire la complessità di pensiero e azione. Per gli autori
dell’articolo «la cultura non è conoscenza tecnica di un’elite, ma al contrario
il gesto di Prometeo che sottrae agli dei il monopolio della conoscenza per
incendiare il mondo». Anche volendo farsi andare bene un definizione del genere
di cultura, resta da capire come i rivoluzionari possano propagarla tra gli
sfruttati. Propaganda col fatto e pratiche radicali è la risposta dei nostri,
che però ci ammoniscono del fatto che dalla radicalità e dalla violenza di tali
pratiche non discende consequenzialmente e necessariamente un contenuto
altrettanto radicale e rivoluzionario. Affermazione verissima, così com’è vero
che l’azione vendicatrice può benissimo esser portata avanti da individualità
non anarchiche (vedi il recente caso del buon Luigi Mangione).
Sia chiaro, lungi da me stigmatizzare questa nobile pratica adoperata non solo
dagli anarchici in campo rivoluzionario, ma anche da certe tendenze comuniste
eretiche e antibolsceviche del ‘900 (vedi KAPD e ultrasinistra tedesca tra il
1918 e il 19237), tuttavia nutro seri dubbi sul fatto che tale cultura, termine
che, non concordando nemmeno con la definizione proposta, mi lascia piuttosto
perplesso, possa essere instillata con fare quasi pedagogico dall’azione degli
anarchici che, almeno in questo Paese, mi sembrano piuttosto carenti di legami
col proletariato e con la puzza sotto il naso nei confronti dei salariati (non
che altri schieramenti rivoluzionari se la passino meglio eh!).
Non dispongo di ricettari per la rivoluzione, né di dottrine di sorta da far
passare come giuste, però credo che senza una ripresa della lotta di classe
generalizzata, sul lavoro, legata alla casa, alla salute, ecc., sarà difficile
che un proletariato così segmentato e diviso, perverrà ad una coscienza di sé e
della propria condizione che, seppur condizionate da contraddizioni legate alla
religione, al genere, a stereotipi e pregiudizi anche beceri (solo i liberals
puri degli ambienti militanti possono pensare ad una eterogenea comunità
proletaria in lotta scevra da tutto ciò), gli permetterà di realizzare, appunto
solo attraverso la lotta, che non ci sono rivendicazioni che possano essere
portate avanti al di fuori della fine di questo infame ordine sociale.
La necessità è sicuramente quella di trovare individui affini coi quali
condividere una progettualità rivoluzionaria e di demolizione di questo mondo, a
partire dalla nostra condizione di classe e da uno spirito di piena comunanza e
solidarietà che è sperimentabile solo all’interno dei percorsi di lotta non
inquinati già in partenza dai rackets riformisti e opportunisti del caso.
Le tendenze dell’anarchismo che si chiudono nella ricerca del nichilismo per il
nichilismo, dell’azione per l’azione, della distruzione per la distruzione,
nella disperata difesa di un individuo astratto e depurato da qualsiasi
connotazione di classe, della sua battaglia contro qualsiasi organismo che
rischi di sovradeterminarlo e spezzarne le ali (ma dove sono le ali che gli
permetterebbero di volare oggi quando questo individuo purissimo è costretto
all’interno di una rete di rapporti sociali in cui la merce, il salariato, la
divisione del lavoro, l’appropriazione privata condizionano interamente la sua
stessa esistenza?), rischiano per l’ennesima volta di eludere la necessità di
dar forma nella lotta e nel confronto tra le superficiali, anche se
apparentemente totalizzanti, alterità proletarie a loro modo refrattarie allo
stato di cose presente, ad una comunità di lottatrici e lottatori sociali che
permetta da subito, nella demolizione del modo di produzione capitalistico e
delle sovrastrutture che lo caratterizzano, di trasformare i rapporti sociali
immediatamente in senso comunista (contro qualsiasi transizione alla comunità
umana senza Stato e senza classi), di farla finita con tutte le separazione che
perdurano da millenni e sono andate sviluppandosi nei secoli: la famiglia, lo
Stato, il genere, le religioni e tutta la vecchia merda.
In un contesto simile la contraddizione tra individuo e comunità potrà venire
progressivamente meno, così come il falso antagonismo tra individualismo e
comunismo (smascherato già ne L’ideologia tedesca e ulteriormente decostruito in
campo anarchico dal contributo di A. M. Bonanno, ma anche dall’I.S, da Noir et
Rouge, ecc.).
Immagino che queste ultime riflessioni potranno generare in alcuni/e fastidio e
potenziali incomprensioni. Voglio perciò specificare che le considerazioni in
merito alle tendenze nichiliste e irriducibilmente individualiste
dell’anarchismo non vanno assolutamente interpretate come una condanna della
violenza rivoluzionaria in quanto tale, che è patrimonio di tutto il movimento
proletario e non monopolio esclusivo di alcuni anarchici, e, ancora meno, delle
azioni e dei percorsi di quelle individualità anarchiche come Alfredo Cospito e
Juan Sorroche che, assieme a tanti altri rivoluzionari anarchici del presente e
del passato, hanno messo in gioco la loro stessa vita e libertà nella propria
lotta e a cui tutti i sinceri rivoluzionari dovrebbero esprimere incondizionata
solidarietà al di fuori delle specifiche appartenenze ”politiche” e/o di area.
Vetriolo parla di azione per la strategia, una formula che pur non convincendomi
affatto, penso tocchi, procedendo da punti di partenza diversi vincolati ad un
contesto organizzativo e a compiti specifici, proprio degli anarchici o, forse
più correttamente, di parte di essi, alcune delle questioni poste nella
conclusione di questo contributo che spero possa essere in qualche modo utile.
In caso contrario, in un momento storico in cui il dibattito tra rivoluzionari
di diverse tendenze, almeno per quanto riguarda questo Paese, versa in
condizioni pietose, queste pagine vanno lette come un tentativo in questo senso.
Un fraterno saluto rivoluzionario.
Sempre per la comunità umana senza Stato e senza classi,
per il comunismo.
* * *
1 In questo senso, chi, in campo anarchico, ha rinunciato definitivamente a
leggere la realtà a partire da questa contraddizione costitutiva della civiltà
capitalistica non credo troverà interessante questo modesto contributo critico
prodotto da un individuo che non si richiama, almeno non più, direttamente al
patrimonio teorico e storico del cosiddetto anarchismo insurrezionalista, ma che
nemmeno lo disconosce o intende denigrarlo.
2 In Apocalisse e Rivoluzione, Cesarano riconduce questi episodi alla rivolta
biologica dei corpi proletari contro il dominio reale totale del Capitale giunto
a colonizzare praticamente tutti gli spazi di vita fisica e psicologica
dell’essere umano.
3 Un testo interessante che a partire dalla George Floyd Rebellion riporta a
quei formidabili episodi di insubordinazione e rivolta è Riot! George Floyd
Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, a cura di Calusca City Lights
e radiocane.info, Milano, maggio 2021.
4 1970. Danzica e Stettino come Detroit
5 Anzola è il mondo? A proposito della lotta alla Coop Adriatica di Anzola
dell’Emilia, delle lotte operaie nel settore della logistica e di molto altro
ancora, Edizioni Il lato cattivo, 2013.
6 Per ulteriori esempi di questo genere rimando all’articolo veramente
interessante di Bruno Astarian, Alcune precisazioni sull’anti-lavoro, 2016.
7 Vedi L’ultrasinistra e il partito storico della rivoluzione, di Michele Garau,
Porfido Edizioni, 2023
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Dietro il caso Almasri c’è una lunga storia, che affonda le proprie radici nel
colonialismo italiano (prima liberale e poi fascista) in Libia, per arrivare
agli affari con Gheddafi, ai bombardamenti del 2011 (un secolo esatto dopo la
guerra scatenata contro le popolazioni libiche dal governo Giolitti) e infine
alla collaborazione con quella banda di torturatori, trafficanti di uomini e
milizie a libro paga dell’ENI chiamata “governo libico”. Se il governo Meloni si
è trovato a riaccompagnare in Libia con un volo di Stato un aguzzino, uno
stupratore e un assassino come Almasri proprio mentre deportava nei lager
albanesi alcuni immigrati torturati dal “generale” libico, unendo un’infamia
indicibile e delle giustificazioni semplicemente grottesche, lo scandalo della
cosiddetta opposizione è esso stesso scandaloso. Gli accordi con gente come
Almasri li ha fatto Marco Minniti, allora ministro degli Interni del governo
Gentiloni, nonché presidente della Fondazione Med-Or (oggi Fondazione per
l’Italia), del gruppo Leonardo, impegnato a costruire muri elettronici e a
difendere con le armi gli interessi dell’ENI. In quegli accordi c’era – e c’è,
come sa anche Conte – esattamente la costruzione e la gestione dei lager libici
con soldi italiani. Questo per quanto riguarda il PD (e Calendda, e Renzi).
Ricordiamo poi che la detenzione amministrativa – tipico dispositivo coloniale,
non a caso centrale nella repressione sionista dei palestinesi – è stata
introdotta in Italia nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano (entrami DS e poi PD;
il secondo, presidente della Repubblica mentre il governo Berlusconi partecipava
ai bombardamenti contro la popolazione libica), legge passata anche con i voti
di Verdi e Rifondazione Comunista. In fatto di lager e di accordi con i
seviziatori, il più pulito, insomma, ha la rogna. A conferma del fatto che il
razzismo di Stato è un elemento strutturale, finalizzato ad accaparrarsi merce
umana da sfruttare a basso costo.
Per ricordare questa storia – che racconta anche, a partire dal caso libico,
come nasce uno Stato – ripubblichiamo un pieghevole scritto nel 2017 quale
contributo alla solidarietà con le indagati e gli indagati per il corteo del
Brennero e soprattutto a una “campagna” contro l’ENI che aveva portato, tra le
altre cose, al primo corteo in Italia, nello specifico a Milano, contro il cane
a sei zampe. Sono proprio quei contenuti anticolonialisti e internazionalisti
che vanno scagliati ancora oggi contro gli aguzzini del mare e del deserto, da
Gaza alla Libia.
[it, es] Gli aguzzini del mare e del deserto. La politica del governo italiano
in Libia
Qui il pieghevole in italiano:
Sulla-Politica-Italiana-in-Libia-Versione-PDF
Qui la traduzione in castigliano:
Lybia
Nel Gennaio 2025 le rivolte e proteste, quasi quotidiane, portate avanti dai
prigionieri del lager di Gradisca d’Isonzo han bucato il velo di silenzio che
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collettivo Rotte Balcaniche abbiamo approfondito gli ultimi, tragici eventi
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In questa puntata di Harraga, in onda su Radio Blackout proviamo a restituire la
complessità del contesto libanese grazie al contributo di una compagna che da
anni vive a Beirut. L’analisi…
Riceviamo e diffondiamo questo lungo e utile volantino, diffuso da alcune
individualità anarchiche antispeciste lo scorso 21 dicembre a Bergamo durante un
presidio a favore della Gestazione Per Altri (più crudamente detta “utero in
affitto”):
La GPA è violenza sui corpi delle donne