Tag - Approfondimenti

A mezzo il cielo. Ancora su “radici, vento e (possibili) zavorre”
C’è un linguaggio nato dal vecchio mondo, indispensabile a capirlo per chi voglia cercare di disfarsene, e non c’è (ancora) una lingua della vita liberata, finché questa rimane tutta da inventare. Al di là dell’occasione che l’ha generato, ci sembra questo il suggerimento più prezioso di questo nuovo capitolo, scritto tra i baluginii del crepuscolo e i primi bagliori dell’aurora, di un dibattito su “radici, vento e (possibili) zavorre”, partito da un articolo sul numero 15 (giugno 2024) della rivista anarchica “i giorni e le notti” e ospitato anche sulle pagine di questo sito. Mentre ne attendiamo possibili (e probabili…) sviluppi, auguriamo ai nostri lettori e lettrici una buona lettura di questa nuova puntata, certi che li emozionerà come ha emozionato noi. Qui il pdf: a mezzo il cielo def A mezzo il cielo Ci sono amicizie che nascono sulla terraferma e altre che si annodano nella complicità irripetibile del naufragio, e di quella cosa di schiuma e di flutti hanno ancora il sale; nelle vele di alcune soffia il vento che porta ad approdi sicuri (non è detto che siano i migliori), in altre quello per continuare la navigazione fino a quando gli arrivi abbiano magari il tocco rude della verità (categoria un po’ scomoda di questi tempi), piuttosto che quello appiccicoso e dolciastro della consolazione. Con Peppe ci siamo conosciuti nel “diluvio universale covid”, con la sola bussola dei principî confermati e accordati al corpo teso alla vita. Le amicizie così, legami che nascono fuoritempo, non si misurano in anni e anche la scoperta delle affinità e disaffinità si fonda su un movimento particolare, in cui stima e sfida non si escludono nel gioco delle reciproche intelligenze. Il primo incontro è avvenuto su terra apparentemente ferma, addirittura tra le nostre montagne, in occasione della due-giorni su Sud, civiltà contadina, apocalisse culturale e cosmovisioni, rivoluzione. Quell’incontro nasceva dalla necessità improcrastinabile, cioè storicamente urgente, di fare un bilancio del biennio covid e, insieme, nominare dei varchi possibili per il futuro che, giustamente, immaginavamo altrettanto totalitario e guerresco. Dopo il naufragio imposto, ci prefiggevamo una deriva controllata: andare per mari inesplorati con alcuni punti fermi: la tensione anarchica e la sua storia, ad esempio. A partire dalle esperienze che ci hanno visti individualmente e collettivamente malconci, cosa salvare e cosa lasciare affondare del nostro strumentario teorico/pratico? E, in quanto diversi dentro un sociale che diventa macchina di annientamento delle diversità, quali i nodi da lavorare, da sciogliere, da tagliare? Quali le piste da percorrere, quali le risorse a cui attingere? Se abbiamo voluto Peppe in quella due giorni con noi è stato per porci insieme la domanda se a Sud si trovino ancora dei segni di qualcosa di diverso, uno scarto, rispetto all’apocalisse totale e marciante che si fa vanto di chiamarsi Occidente. Qualcosa di particolare sì, la civiltà contadina e le sue memorie non disperse per esempio, ma che riportato alla luce può avere un effetto liberatorio (potenzialmente) per tutti/e. Non un altrove e neanche un patrimonio ripristinabile a volontà, ma uno strumento di scavo della storia collettiva per capire da dove veniamo, come siamo stati educati a vedere come siamo. Eppure per scavare – o dissodare, o dinamitare – ci si dà da fare con i materiali a disposizione; poiché questa ricerca si muove su terreni teorici, gli strumenti teorici sono quelli su cui interrogarsi, che è giusto mettere in discussione. Siamo d’accordo: nessuna tecnica è neutra, così come non lo sono gli strumenti, nessuna eredità che non sia scelta (almeno in questo campo). È proprio su questo punto che si colloca la critica di Peppe: visto che certi mezzi possono fagocitare gli obiettivi per cui si utilizzano, bisogna fare attenzione ai primi come ai secondi. Quesiti enormi, che richiedono ben più di due giorni intensi, che continuano a presentarsi e a incalzarci al ritmo delle tragedie e della nostra inadeguatezza di fronte ad esse. Proprio per questo, che Peppe ci rintuzzi su queste cose, ci fa piacere; che si coltivi uno scambio che, tra gli odori di fine del mondo, ci inviti a non volare alla “bassezza dei tempi” non ci sembra sia una pratica scollegata rispetto agli altri doveri della vita e della lotta. Accogliamo quindi, e pure con un inchino, la critica all’uso accademico di Marx, al trascorrere dei concetti in parole d’ordine e al loro impastoiarsi nel blablabla che nelle università bisogna biascicare per inserirsi in questa o quella cordata, e farci carriera; e poi, una volta accreditati come bravi “marxisti” (o, quanto a ciò, come bravi “foucaultiani”, “postcoloniali”, “transfemministi” ecc.), starsene comodi col culo sullo scranno e senza trovar niente da ridire quando il governo mette tutta la popolazione ai domiciliari. Vorremmo poi rassicurare Peppe: nessuno di noi accende candeline sotto l’immagine di san Karl. Ma stiamo divagando, il punto è questo: c’è ancora un’utilità nei concetti marxiani? Le categorie di “proletario”, “feticismo”, “accumulazione primitiva” hanno ancora un’utilità o sono irrimediabilmente ferrivecchi? Questa prima domanda s’intreccia a una seconda questione, più ampia e cruciale: nella galleria degli orrori che è la storia dell’umanità per come noi la conosciamo, il capitalismo ha una sua originalità, porta un aggravamento specifico, oppure è solo una delle molte forme possibili di dominio? Che, per l’appunto, è la questione che Peppe pone nel suo scritto e che, di fatto, tutto l’anarchismo pone non solo ai marxisti (poverelli…) ma a chiunque trovi che lo stato del mondo è insopportabile. Non siamo affatto sicuri della risposta; sempre ammesso che una risposta ci sia e che non sia questione, soprattutto, di sensibilità. Qui proviamo ad argomentare a partire da un sospetto, dall’impressione persistente che, nell’infinita sequenza di modi sempre nuovi per opprimere gli umani, gli ultimi secoli abbiano una loro tragica specificità. Non parliamo solo del capitalismo in quanto sistema economico, ma più in generale della modernità, ovvero del mondo umano che ha preso forma nel convergere di colonialismo, capitalismo, formazione degli stati-nazione, industrialismo, sequestro accademico-statale della conoscenza e della cura. Insomma, la merda in cui nuotiamo. Non che l’impero romano, quello cinese o quello azteco ci facciano simpatia; così come non ce ne fanno le forme antiche e, per così dire, “pre-statali” di sfruttamento dell’uno sull’altro. Detto ciò, però, tocca fare i conti col fatto che il susseguirsi, senza quasi por tempo in mezzo, di colonialismo, totalitarismo, sradicamento di ogni forma di vita altra, tratta atlantica, genocidi, campi di sterminio, controllo integrale delle popolazioni, disastro ambientale e attacco sistematico al vivente (v. la storia del nucleare), uniti a forme straordinariamente efficaci di indottrinamento e cecità indotta, è un fenomeno tutto moderno. O se non altro, è moderna la dimensione industriale della distruzione; ma sospettiamo che, a monte, ci sia un baco specifico: l’idea tutta moderna di essere il solo sistema di vita possibile e degno, la squalificazione di principio, e quindi la distruzione, di ogni forma altra di organizzazione. Mentre altre forme di dominio, forse per mancanza di mezzi tecnici adeguati, lasciavano spazi liberi, la modernità coincide con l’esproprio, il sequestro e la messa a servizio di tutto: dell’ontologia con la partizione natura/cultura (e tutte le altre ontologie possibili sono solo storielle), della verità con la scienza (e ogni altra forma di conoscenza è superstizione), delle forme affettive con la distruzione delle regolazioni locali, del bene con il suo appiattimento nel progresso, della socialità con l’urbanistica di controllo, gli schermi, gli intruppamenti per classe d’età, delle forme affettive con la famiglia mononucleare e così via, all’infinito. Lo stesso infinito che il capitalismo assume come punto di fuga del plusvalore. Nel disastro globale che la modernità riversa sul mondo, la piega economicista – e quindi la rilevanza teorica del capitalismo – è un pezzo fondamentale perché si salda, molto presto, con il mito fondante della modernità: quello del progresso. Per questo ci pare che lo strumentario marxiano resti utile per analizzare uno snodo fondamentale del tempo in cui viviamo. (Poi, certo, nessuno che occupi la posizione di sfruttato vuole sentirsi chiamare “proletario”, ma a quel che ci consta neanche chi occupa la posizione di sfruttatore vuole sentirsi chiamare “borghese”). Così come ci sembra utile la descrizione marxiana dell’accumulazione primitiva come esproprio dei commons, che si può estendere da momento iniziale a condizione di possibilità del plusvalore; e quella del feticismo della merce come vera e propria cattura stregonesca dell’anima delle vittime, lungamente esplorata dalla critica radicale anni Settanta. Semmai, ma questo è stata più opera degli scolastici della religione marxista che di Marx stesso, la visione escatologica del processo storico (una dinamica rigidamente di fase: comunismo primitivo  antichità schiavistica  feudalesimo  capitalismo  socialismo  comunismo) ha creato diversi mostriciattoli giustamente citati da Peppe, ad esempio l’industrialismo e, come sottolineato dall’erratico Benjamin, la fiducia degli sfruttati nella corrente della Storia. E avremmo molto da ridire sul tatticismo etico, sulla prima Internazionale, sulla tecnolatria e su alcune ambiguità come il general intellect e l’atteggiamento verso lo Stato. In generale, quindi, l’uso che ci capita di fare dell’opera di Marx è lo stesso che ne fece Cafiero (o che ne fecero Benjamin, Anders, Cesarano, Coppo, Vaneigem, Camatte e altre decine di pensatori critici più o meno radicali): quella di un pensiero da discernere. E questo può significare, di volta in volta, litigarci, romperlo, prenderne un pezzo, stipulare un armistizio. La stessa cosa faremmo/facciamo col pensiero di Stirner, Bakunin, Malatesta, Goldman, Bonanno ecc. Un uso insomma non religioso: proprio perché la religiosità non è una caratteristica della cosa venerata ma del rapporto che si instaura con essa. E sì, è ironico, che proprio il pensiero di chi ha criticato il feticismo sia stato feticizzato, ma la cosa non ci riguarda personalmente (dice invece qualcosa dell’ambivalenza dell’umano coi simboli che produce). Invece, sulla specificità dello sguardo anarchico rispetto a quello marxista, pensiamo di convenire con Peppe, sta nella precedenza del momento militare rispetto a quello economico: prima l’esercito espropriatore delle autonomie, poi la fabbrica espropriatrice di vita. Eppure, sia lo sguardo anarchico che quello marxista classicamente intesi hanno bisogno di altri strumenti per sondare il lato cultuale dell’ordine costituito, il sequestro e l’organizzazione dei desideri, la colonizzazione della corporeità e dell’immaginario. Una nota sentimentale. La posizione di Peppe porta un timbro un poco malinconico, che si potrebbe tradurre pressappoco così: “il dominio c’è sempre stato, anche fra i cacciatori-raccoglitori, e ha sempre fatto schifo; inutile perder tempo con quello capitalista, che è solo l’ultimo rampollo”. Ora, qui davvero parliamo di strutture di sentimento, quelle che muovono nel più profondo e sulle quali forse c’è poco da discutere. Ma è possibile che questa visione sconsolata sia, anch’essa, effetto di stregoneria; che, cioè, sia indotta dallo studio della storia scritta dai vincitori, quella secondo cui bisogna per forza scegliere fra libertà e ricchezza, fra autonomia e sicurezza, fra controllo e barbarie. Ma se non fosse così? Sulla base di un insieme cospicuo di dati archeologici, L’alba di tutto di Graeber e Wengrow delinea una preistoria molto diversa da quella descritta nei manuali scolastici: un tempo, innanzitutto, di sperimentazioni sociali; dove l’organizzazione complessa (“cittadina”) era compatibile con l’autonomia e l’autogestione; dove i modi di vita non si disponevano secondo una progressione univoca (cacciatori-raccoglitori, poi pastori e agricoltori, infine industriali), ma c’era un andare e venire fra forme di organizzazione; dove si poteva vivere di caccia e raccolta in estate, ma si stava tutti insieme in villaggio in inverno; e dove non si riscontra alcun determinismo socio-economico (la struttura sociale dei cacciatori-raccoglitori non è necessariamente egualitaria, quella degli agricoltori non è necessariamente gerarchica e così via). Se così fosse, allora anche la domanda terribile, antropologica, sull’origine del dominio prenderebbe un’altra inflessione: c’è dominio non perché gli umani sono intrinsecamente bacati, geneticamente propensi al peggio o cattivi per natura, ma perché alcuni gruppi decidono di agire il dominio, mentre altri fanno di tutto per evitare che si produca. Allo stesso modo – e come notano anche gli autori – se fosse così, la specificità del dominio moderno non risiederebbe tanto nella sua presa e nella sua estensione materiale, quanto nella sua capacità di annichilire l’immaginazione, di rendere impensabile il divenire politico collettivo. Finiamo come abbiamo cominciato, con alcune considerazione alla (sulla) deriva. Un’impressione s’insinua: che il porsi tutte queste domande sul linguaggio analitico, sulla definizione, sulle lenti per guardare fuori ci inscriva, in qualche modo, ancora nella storia d’Occidente, della sua mania nominatrice come riflesso di una volontà ordinante che ci faccia sentire puri e puliti con una semplice operazione del pensiero. Certo, che ci piaccia o no, siamo occidentali, almeno fino a quando non avremo realizzato, insieme ad altri barbari, il destino d’Occidente1… di tramontare. Tutto il linguaggio dell’analisi del vecchio mondo fa parte del tramonto, le sue parole sono le pompe funebri che, traendo da vivere dalle cose morte, ne rimangono in qualche modo incaricate. Allora continueremo a usare questo linguaggio come qualcosa a cui non affezionarsi, perché è lì lì per cadere oltre le colonne d’Ercole del pensiero. Poi c’è il linguaggio delle cose vive, delle esperienze vere – quelle che rovesciano il tavolo delle passività e delle inimmaginabilità. Di fronte a questo linguaggio siamo come di fronte all’aurora. Se c’è infatti una differenza sensibile tra crepuscolo e aurora è questa: mentre durante il primo le cose si fanno definite, scolpite dalla vividezza della loro ombra, durante la seconda è tutto ancora molto indefinito, crogiolo di vita in potenza, tremore promettente. Di fronte all’aurora siamo tutti infanti, di fronte al crepuscolo ci sentiamo saggi perché pensiamo di sapere tutto della giornata trascorsa. La capacità che ci è richiesta è allora non quella di creare da subito un linguaggio delle cose nuove (momento ingovernabile che spetta al gioco degli umani con le loro sorgenti), ma di allenare gli occhi a distinguere albe e crepuscoli. Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto – a mezzo il cielo – sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza. Verso un dialogo sempre più stretto tra l’antico bambino e i morti – i ministri velati, onnipresenti della memoria. Capii bene come ascoltando i suoi nonni paterni – sbanditi e deposti dai conquistatori – il meticcio Garcilaso sapesse, una volta per tutte, che di se stesso avrebbe detto soltanto El Inca, sebbene fosse cristiano, cattolico ardente e figlio di un illustre Spagnolo. Comprese improvvisamente quei lamenti mille volte ascoltati, quei vecchi disperatamente nostalgici dei loro morti imperatori, terribili e soavi come il sole. Può non essere meno drammatico l’incontro con un ritratto di famiglia, l’uomo o la donna di cui mille volte udimmo parlare, il nonno che ha il nostro volto ma che – soltanto oggi è chiaro – ha veduto gli imperatori: porta nelle pupille fredde e tenere quello che noi cerchiamo dalla nascita, dentro e fuori. Qualcosa di molto simile alla terra, che (come un Indio si espresse) ci fu tolta sotto colore di aprirci il cielo. (Cristina Campo, In medio coeli) ConFra 1Ci riferiamo qui all’Occidente come concetto che si staglia sul panorama storico umano dopo avere eliminato le proprie specificità interne, e gli ostacoli ad un progetto di civilizzazione totalitario, non a tutte le spinte che qui hanno tentato di resistere a quel progetto.  
Approfondimenti
IA e Cibernetica: questioni definitorie e problematiche
Segnaliamo questa puntata di “Macerie su Macerie” andata in onda su Radio Blackout il mese scorso. Un’utile panoramica sulle differenze e le invarianze tra la Prima, la Seconda, la Terza e la Quarta rivoluzione industriale, tra i modelli computazionali e l’Intelligenza Artificiale, tra le tecnologie informatiche in generale e quelle “abilitanti” in particolare. Non una banale tassonomia, ma un contributo per affinare lo sguardo e le armi contro quel processo che ci ha portati – dalla cibernetica degli anni Cinquanta alle reti neurali artificiali – al primo genocidio automatizzato della storia, quello di Gaza. Più esternalizziamo le nostre capacità deliberative, di fantasia e di lavoro autonomo nei dispositivi tecnologici, più collaboriamo alla nostra trasformazione in materiale da macchina.  https://radioblackout.org/podcast/macerie-su-macerie-podcast-20-01-25-ia-e-cibernetica-questioni-definitorie-e-problematiche/ 
Approfondimenti
Datacenter, il lato sommerso dell’AI-ceberg. Tecnica, guerra, sacralità
Ci segnalano e segnaliamo questo eccellente approfondimento sui datacenter andato in onda su Radio Blackout con la seconda puntata di  Happy Hour. Pillole sintetiche del mondo-guerra. Prendendo spunto dai progetti già realizzati o previsti a Torino, la lunga riflessione parte dalla materialità di queste infrastrutture – la “cantina di Internet e IA” – per allargarsi al mondo che disegnano, dalla guerra high tech all’agricoltura 4.0, dall’automazione industriale alla “città dei varchi”, dall’Aerospazio alla “vampirizzazione dell’ecosistema”. Se ci troviamo di fronte a veri e propri “oracoli” – sia quando annunciano la luce del tecno-ottimismo sia quando annunciano le tenebre della catastrofe inevitabile -, essi sono tutt’altro che nebulosi e inattaccabili.  https://radioblackout.org/podcast/datacenter-il-lato-sommerso-dellai-ceberg-tecnica-guerra-sacralita/
Approfondimenti
Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista”
Riceviamo e diffondiamo questi spunti di riflessione. Diverse delle questioni che sollevano (in particolare il rapporto tra profitto capitalistico e potenza tecno-scientifica, da un alto, e il rapporto individuo-classe-specie nella rivolta contro il tecno-capitalismo, dall’altro), meritano senz’altro un confronto serio e serrato.    PDF scaricabile: Alcune-considerazioni-critiche-su-La-fase-nichilista Alcune considerazioni critiche su La fase nichilista «Il capitale che si fa uomo, fa di ogni uomo il capitale, di ogni vita l’impresa del valore, di ogni persona un’azienda in debito permanente del suo senso, creditrice permanente del non-senso generalizzato» Nell’arco dell’ultimo anno parlando con alcuni compagni e compagne di tendenza libertaria ho spesso sentito lamentare la mancanza di contributi teorici che esprimessero una visione organica di critica del modo di produzione capitalistico, dunque un’analisi globale dei fenomeni e dei processi in atto quali: lo stato del conflitto di classe locale e internazionale1, la crisi del debito e dell’accumulazione che continua a imperversare e aggravarsi in tutto il mondo, gli scenari di guerra in continuo sviluppo, i flussi migratori, la trasformazione del mercato del lavoro e dei processi di produzione/circolazione delle merci a fronte delle importanti modificazioni nella composizione organica di capitale (massiccia robotizzazione degli impianti, introduzione della IA), ecc. Neanche a farlo apposta proprio recentemente, e a distanza di almeno due anni, ho avuto modo di rileggere uno scritto che in campo anarchico, con i suoi limiti e al di là delle polemiche rispetto alle individualità che lo hanno prodotto, forse risponde maggiormente a queste caratteristiche. Mi riferisco a La fase nichilista, articolo pubblicato sul settimo numero del giornale anarchico “Vetriolo”, in cui si tenta un chiarimento delle determinazioni di questa fase, già menzionata e descritta in altri articoli, e dell’azione del proletariato che ne è protagonista. Per gli autori dell’articolo le rivolte ”irrazionali” tipiche di questa fase ancora allo stato germinale, sarebbero la conseguenza di un odio di classe che l’alienazione tecnologica e le mistificazioni ideologiche della classe dominante avrebbe tentato disperatamente di rimuovere negli ultimi trent’anni. La «sottrazione di ogni possibile orizzonte, fosse pure immaginifico, di rovesciamento rivoluzionario» avrebbe quindi generato tali manifestazioni di collera incosciente proletaria, i cui prodromi, a detta degli autori dell’articolo, possono essere rintracciati storicamente nelle celebri rivolte di Los Angeles e Parigi. Rispetto a queste «previsioni» circa l’andamento e le manifestazioni concrete del conflitto di classe nei paesi a capitalismo avanzato va detto che “Vetriolo” non dice nulla di nuovo, anzi arriva in ritardo rispetto a certe riflessioni teoriche prodotto a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta nell’ambito della critica radicale. Nell’affermare questo non voglio assolutamente sancire la supremazia di una teoria rispetto a un’altra, ché non siamo certo all’università (istituzione che sono convinto disprezziamo allo stesso modo). In effetti, personaggi come Giorgio Cesarano2, Jacques Camatte, ma anche gruppi come Ludd e Comontismo, riflettevano proprio in quegli anni su quelle che venivano definite, non certo in termini dispregiativi, «rivolte senza senso» di un proletariato eccedente tagliato fuori dal processo produttivo e dal mercato del lavoro proprio a causa della ristrutturazione in atto, un proletariato perlopiù giovane, senza prospettive, spesso marginalizzato e sprovvisto della fantomatica coscienza di classe, estraneo al mito della classe operaia e alla storia del movimento operaio, in mancanza di un bagaglio culturale e affascinato dalla fantasmagoria delle merci e dalla prospettiva del loro consumo. Tali individualità e gruppi riflettevano su questi fenomeni a partire da rivolte specifiche come quelle di Watts (1965) e Detroit (1967), rivolte sicuramente scaturite dall’oppressione razziale, ma dotate di una carica distruttiva senza precedenti3 e capaci di coinvolgere anche larghe fette di proletariato bianco impiegato nell’industria automobilistica, senza tralasciare gli episodi di Danzica e Stettino4. Ha proprio ragione “Vetriolo” quando afferma che queste rivolte non possono essere provocate dagli anarchici (e mi viene da dire menomale!), che esse «accadono e basta», tuttavia, almeno a mio modo di vedere, ha torto quando le riconduce unicamente allo sviluppo tecnologico e scientifico come se queste fossero dimensioni autonome e slegate dai meccanismi di accumulazione di capitale e valorizzazione delle merci. Ricollegandosi a quanto affermato da Bakunin 150 anni fa rispetto al ruolo della scienza, “Vetriolo” definisce gli scienziati come una casta autonoma, monopolisti di un trust specifico, giungendo ad affermare che «lo scienziato è il solo soggetto che non ha alcuna responsabilità (…), perché la scienza si pone come nuovo Dio e gli individui sono dei meri capri espiatori da sgozzare sul suo altare». Non fosse altro che, nonostante lo sviluppo tecnologico e scientifico raggiunto oggi, il dominio pervasivo dei dispositivi digitali, la quantificazione e la misurazione di ogni aspetto del reale garantito dalla scienza e dai suoi funzionari, la manipolazione della vita giunta a livelli impensabili, il capitale rimane il Dio di questo mondo. Gli scienziati, le imprese e gli istituti che si occupano di ricerca devono rispondere di ciò che fanno nella misura in cui le scoperte e le ricerche, siano esso civili o militari (ma ormai sappiamo che poco importa essendo intercambiabili e sovrapponibili) devono produrre valore e inserirsi nelle dinamiche di accumulazione, devono garantire dividendi ai mega-azionisti che li finanziano, ecc. Nel fare ciò è indubbio che la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico mirano ad eternizzare il dominio dello Stato e del capitale su una massa di senza riserve espropriata di tutto. Torniamo a concentrarci su questa fase nichilista delle cui manifestazioni materiali, procedendo da quanto scritto nell’articolo, non è che si sappia poi tanto. “Vetriolo” ci dice che è innanzitutto riflesso del venir meno di un’identità di classe forte e strutturata, la quale, mi permetto di aggiungere, non è stata smantellata da chissà quale autorità o complesso di dispositivi tecnologici divenuti di consumo di massa, ma è frutto di quella ristrutturazione permanente che, iniziata negli anni Settanta, perdura ancora oggi e che si è manifestata nella segmentazione della classe, nelle delocalizzazioni ed esternalizzazioni progressive delle attività a debole valore aggiunto, nella produzione just-in-time e zero-sprechi (leggi toyotismo), nella destabilizzazione dei confini netti fra impiego e disoccupazione con l’introduzione di flessibilità e precariato, nella terziarizzazione (forza lavoro impiegata in lavori non produttivi legati al momento della circolazione delle merci/servizi); insomma fine dell’operaio-massa, fine di una classe operaia che a livello produttivo e identitario, pur nella sua frammentazione politica, si erge monoliticamente contro il Capitale. «C’è stata una ristrutturazione integrale del rapporto fra proletariato e capitale, che ha trasformato l’uno e l’altro poiché ha trasformato il rapporto stesso»5. Nel prossimo futuro, nelle lotte economiche e salariali non vedremo certo riemergere prepotentemente un proletariato compatto nello stile dei decenni più combattivi del secolo passato, quindi, a meno che non si voglia perdere tempo e risorse a sostenere la necessità di rianimare vecchi cadaveri, i partiti di classe con il loro corollario di burocrati e opportunisti, capaci di unificare politicamente le istanze rivendicative delle varie fette di proletariato (ma quali poi quando anche le lotte più combattive si limitano a rivendicare l’applicazione di contratti collettivi o a tenersi stretto il posto di lavoro?), allora, da rivoluzionari, bisognerebbe interrogarsi circa le possibili modalità in cui potrebbe riemergere un consapevolezza più o meno diffusa della propria condizioni di senza riserve, di schiavi salariati o materiale umano eccedente alla mercé degli interessi del capitale e degli stati in guerra permanente. E qui torniamo veramente alla fase nichilista. Secondo “Vetriolo” l’odio di classe mistificato e incosciente assumerebbe molteplici forme: dal terrorismo islamico, al conservatorismo degli operai bianchi americani infarcito di razzismo e sessismo, all’integralismo cristiano, ai vari complottismi, tutti antagonisti della deriva scientista e «tecnoautoritaria». Spetterebbe quindi ai rivoluzionari andare oltre la forma fenomenica di queste manifestazioni per rintracciarne l’essenza ideale corrispondente a ciò che vi vogliono trovare: l’odio di classe… al netto di un’assenza di comportamenti di reale contrapposizione di classe o di pratiche tendenti a negare radicalmente la propria condizione di senza riserve. Non bisogna affatto rivendicare nessun socialismo scientifico per prendere atto che, coscienza o meno della propria condizione di proletari, il conflitto di classe e l’odio di classe per qualificarsi come tali devono assumere determinate forme che tendano a negare la riproduzione del rapporto sociale capitalistico; alternativamente possiamo trovare l’odio di classe dovunque, basta che soggettivamente lo vogliamo. Non sono quindi sufficienti comportamenti più o meno diffusi di insofferenza rispetto ai dispositivi di controllo tecnologico per parlare di odio di classe, anche perché tra le fila della stessa classe media questo fenomeno è rilevabile. Tale odio, tra l’altro, potrà essere più o meno cosciente, ma di certo non ha bisogno di cultura o teoria per esprimersi anche in maniera violenta e spontanea. Spostiamoci per un momento fuori dall’Europa e soffermiamoci su alcuni episodi6 di rivolte ”irrazionali” piuttosto interessanti, in cui il rapporto sociale capitalistico è stato parzialmente negato pur in presenza di pratiche pseudorivendicative sprovviste di connotazioni apertamente rivoluzionarie, ma animate da una carica considerevolmente distruttiva: –Johannesburg (Sudafrica), luglio 2015: ritardi dei treni provocano una rivolta. Due treni ed una stazione vengono dati alle fiamme. – Mumbai (India), gennaio 2015: continui ritardi scatenano la protesta da parte dei passeggeri. Risse tra passeggeri e personale; saccheggiate le casse, i bancomat e le biglietterie automatiche (denaro e tickets). Diversi veicoli bruciati e dieci treni danneggiati. Circa 12.000 persone e almeno due stazioni coinvolte. –Fugang Electronics (Dongguan), Gennaio 2013: Le cucine e la mensa dello stabilimento produttivo vengono saccheggiate da 1000 operai che fanno il turno di notte, perché i prodotti alimentari sono scadenti. L’aspetto interessante che emerge in episodi simili è che le esplosioni di rabbia e odio che si verificano in questo tipo di circostanze, anche quando sono legate a rivendicazioni relative al salario, mettono in questione il rapporto sociale e le strutture che rendono la normalità capitalistica possibile e riproducibile. In queste contingenze i dispositivi tecnologici e le macchine quando non vengono distrutte vengono utilizzati come strumenti in qualche misura funzionali all’espansione della rivolta (vedi smartphone e Telegram nelle rivolte degli ultimi cinque anni negli Stati Uniti, ad Hong Kong, in Cile, in Francia utilizzati per comunicazioni e condivisioni di informazioni utili alla organizzazione materiale delle sommesse). Ma le rivolte e la fase nichilista di cui “Vetriolo” parla, questa «passione degli sfruttati» è semplicemente una reazione di massa alla svolta tecnototalitaria o una negazione radicale di un’organizzazione sociale di cui lo sviluppo scientifico, per quanto pervasivo nelle sue applicazioni, rimane un mezzo e non un fine in sé, volta alla messa a valore, e dunque al controllo e alla prevedibilità, di ogni aspetto della vita dei proletari? Opterei per la seconda ipotesi aggiungendo che «il capitale, come modo sociale di produzione, realizza il proprio dominio reale quando perviene a rimpiazzare tutti i presupposti sociali o naturali che gli preesistono, con forme di organizzazione specificamente sue, che mediano la sottomissione di tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione; dunque l’essenza della Gemeinschaft del capitale si realizza come organizzazione». Il momento della rivolta senza senso diventa il momento della disarticolazione di questa organizzazione nei suoi spazi, tempi, mezzi riti e miti. Posto che le rivolte moderne avvengono a prescindere dall’azione dei rivoluzionari, siano essi di tendenza anarchica o meno, “Vetriolo” sostiene che al nichilismo vada affiancata una cultura rivoluzionaria. Quest’ultima, stando a quanto postula il «pensiero negativo», si configura come negazione radicale del già dato, che a sua volta oggi, mediante «l’instupidimento tecnologico, la derealizzazione, l’alienazione digitale, la banalizzazione dell’informazione», si propone di demolire la complessità di pensiero e azione. Per gli autori dell’articolo «la cultura non è conoscenza tecnica di un’elite, ma al contrario il gesto di Prometeo che sottrae agli dei il monopolio della conoscenza per incendiare il mondo». Anche volendo farsi andare bene un definizione del genere di cultura, resta da capire come i rivoluzionari possano propagarla tra gli sfruttati. Propaganda col fatto e pratiche radicali è la risposta dei nostri, che però ci ammoniscono del fatto che dalla radicalità e dalla violenza di tali pratiche non discende consequenzialmente e necessariamente un contenuto altrettanto radicale e rivoluzionario. Affermazione verissima, così com’è vero che l’azione vendicatrice può benissimo esser portata avanti da individualità non anarchiche (vedi il recente caso del buon Luigi Mangione). Sia chiaro, lungi da me stigmatizzare questa nobile pratica adoperata non solo dagli anarchici in campo rivoluzionario, ma anche da certe tendenze comuniste eretiche e antibolsceviche del ‘900 (vedi KAPD e ultrasinistra tedesca tra il 1918 e il 19237), tuttavia nutro seri dubbi sul fatto che tale cultura, termine che, non concordando nemmeno con la definizione proposta, mi lascia piuttosto perplesso, possa essere instillata con fare quasi pedagogico dall’azione degli anarchici che, almeno in questo Paese, mi sembrano piuttosto carenti di legami col proletariato e con la puzza sotto il naso nei confronti dei salariati (non che altri schieramenti rivoluzionari se la passino meglio eh!). Non dispongo di ricettari per la rivoluzione, né di dottrine di sorta da far passare come giuste, però credo che senza una ripresa della lotta di classe generalizzata, sul lavoro, legata alla casa, alla salute, ecc., sarà difficile che un proletariato così segmentato e diviso, perverrà ad una coscienza di sé e della propria condizione che, seppur condizionate da contraddizioni legate alla religione, al genere, a stereotipi e pregiudizi anche beceri (solo i liberals puri degli ambienti militanti possono pensare ad una eterogenea comunità proletaria in lotta scevra da tutto ciò), gli permetterà di realizzare, appunto solo attraverso la lotta, che non ci sono rivendicazioni che possano essere portate avanti al di fuori della fine di questo infame ordine sociale. La necessità è sicuramente quella di trovare individui affini coi quali condividere una progettualità rivoluzionaria e di demolizione di questo mondo, a partire dalla nostra condizione di classe e da uno spirito di piena comunanza e solidarietà che è sperimentabile solo all’interno dei percorsi di lotta non inquinati già in partenza dai rackets riformisti e opportunisti del caso. Le tendenze dell’anarchismo che si chiudono nella ricerca del nichilismo per il nichilismo, dell’azione per l’azione, della distruzione per la distruzione, nella disperata difesa di un individuo astratto e depurato da qualsiasi connotazione di classe, della sua battaglia contro qualsiasi organismo che rischi di sovradeterminarlo e spezzarne le ali (ma dove sono le ali che gli permetterebbero di volare oggi quando questo individuo purissimo è costretto all’interno di una rete di rapporti sociali in cui la merce, il salariato, la divisione del lavoro, l’appropriazione privata condizionano interamente la sua stessa esistenza?), rischiano per l’ennesima volta di eludere la necessità di dar forma nella lotta e nel confronto tra le superficiali, anche se apparentemente totalizzanti, alterità proletarie a loro modo refrattarie allo stato di cose presente, ad una comunità di lottatrici e lottatori sociali che permetta da subito, nella demolizione del modo di produzione capitalistico e delle sovrastrutture che lo caratterizzano, di trasformare i rapporti sociali immediatamente in senso comunista (contro qualsiasi transizione alla comunità umana senza Stato e senza classi), di farla finita con tutte le separazione che perdurano da millenni e sono andate sviluppandosi nei secoli: la famiglia, lo Stato, il genere, le religioni e tutta la vecchia merda. In un contesto simile la contraddizione tra individuo e comunità potrà venire progressivamente meno, così come il falso antagonismo tra individualismo e comunismo (smascherato già ne L’ideologia tedesca e ulteriormente decostruito in campo anarchico dal contributo di A. M. Bonanno, ma anche dall’I.S, da Noir et Rouge, ecc.). Immagino che queste ultime riflessioni potranno generare in alcuni/e fastidio e potenziali incomprensioni. Voglio perciò specificare che le considerazioni in merito alle tendenze nichiliste e irriducibilmente individualiste dell’anarchismo non vanno assolutamente interpretate come una condanna della violenza rivoluzionaria in quanto tale, che è patrimonio di tutto il movimento proletario e non monopolio esclusivo di alcuni anarchici, e, ancora meno, delle azioni e dei percorsi di quelle individualità anarchiche come Alfredo Cospito e Juan Sorroche che, assieme a tanti altri rivoluzionari anarchici del presente e del passato, hanno messo in gioco la loro stessa vita e libertà nella propria lotta e a cui tutti i sinceri rivoluzionari dovrebbero esprimere incondizionata solidarietà al di fuori delle specifiche appartenenze ”politiche” e/o di area. Vetriolo parla di azione per la strategia, una formula che pur non convincendomi affatto, penso tocchi, procedendo da punti di partenza diversi vincolati ad un contesto organizzativo e a compiti specifici, proprio degli anarchici o, forse più correttamente, di parte di essi, alcune delle questioni poste nella conclusione di questo contributo che spero possa essere in qualche modo utile. In caso contrario, in un momento storico in cui il dibattito tra rivoluzionari di diverse tendenze, almeno per quanto riguarda questo Paese, versa in condizioni pietose, queste pagine vanno lette come un tentativo in questo senso. Un fraterno saluto rivoluzionario. Sempre per la comunità umana senza Stato e senza classi, per il comunismo. * * * 1 In questo senso, chi, in campo anarchico, ha rinunciato definitivamente a leggere la realtà a partire da questa contraddizione costitutiva della civiltà capitalistica non credo troverà interessante questo modesto contributo critico prodotto da un individuo che non si richiama, almeno non più, direttamente al patrimonio teorico e storico del cosiddetto anarchismo insurrezionalista, ma che nemmeno lo disconosce o intende denigrarlo. 2 In Apocalisse e Rivoluzione, Cesarano riconduce questi episodi alla rivolta biologica dei corpi proletari contro il dominio reale totale del Capitale giunto a colonizzare praticamente tutti gli spazi di vita fisica e psicologica dell’essere umano. 3 Un testo interessante che a partire dalla George Floyd Rebellion riporta a quei formidabili episodi di insubordinazione e rivolta è Riot! George Floyd Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, a cura di Calusca City Lights e radiocane.info, Milano, maggio 2021. 4 1970. Danzica e Stettino come Detroit 5 Anzola è il mondo? A proposito della lotta alla Coop Adriatica di Anzola dell’Emilia, delle lotte operaie nel settore della logistica e di molto altro ancora, Edizioni Il lato cattivo, 2013. 6 Per ulteriori esempi di questo genere rimando all’articolo veramente interessante di Bruno Astarian, Alcune precisazioni sull’anti-lavoro, 2016. 7 Vedi L’ultrasinistra e il partito storico della rivoluzione, di Michele Garau, Porfido Edizioni, 2023
Approfondimenti