In questo episodio di Harraga, in onda ogni venerdì su Radio Blackout, insieme
al prezioso contributo di un compagno dalla Sardegna abbiamo parlato di uno dei
CPR più isolati, punitivi…
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Riceviamo e pubblichiamo questo testo in controtendenza (potremmo definirlo una
critica su basi scientifiche dell’attuale modello tecnoscientifico), e in
continuo aggiornamento sul blog http://nodominio.noblogs.org. Si tratta di un
saggio lungo e complesso, supportato da numerose note e fonti ipertestuali, che,
partendo dalla “questione del clima” e da una critica dei movimenti per la
“giustizia climatica”, tocca diversi nodi ineludibili per chi intenda affrontare
davvero la catastrofe ecologica in corso (alla cui base si trova proprio quel
paradigma cibernetico al quale le nuove ideologie “ecoclimatiche” sono del tutto
interne). Un fronteggiamento che – a parere dell’autore come nostro – non può
non passare da una rivoluzione libertaria, decentralizzatrice e agroecologica, e
non può non scontrarsi tanto con la classe dominante e il sistema capitalista in
generale quanto con le diverse “transizioni” pseudo-green e ultratecnologiche.
Di seguito qualche bello stralcio per avvertire i lettori di cosa li aspetta:
«La visione ecologica sottesa a questa temperie culturale è anch’essa
produttivista, atteggiamento tipico di chi vuole esercitare controllo. In essa
la missione di ogni specie è la massimizzazione dell’efficienza e dell’impiego
di energia (principio di massima potenza di Lotka). Ciò è un obbligo
storicamente indotto da parte dei sistemi di dominio, ormai introiettato e
recondito. Nasce dalla volontà di ostacolare l’invecchiamento e il prevalente
caos delle forze naturali ostili. Trova riscontro nelle formule
tecno-scientifiche di conversione dell’energia in lavoro e di aumento
dell’entropia, come recita il secondo principio della termodinamica. La
declinazione moralistica e contraddittoria di questo dogma emerge
nell’imperativo rivolto solo ai sudditi di evitare gli sprechi, benché questi
siano inevitabilmente enormi nei sistemi produttivisti per via delle loro
caratteristiche intrinseche. Giammai ciò accade per sinceri principi di equità e
sintonia, quanto proprio per permettere ai sistemi di dominio stessi, più o meno
velatamente, di sfruttare all’estremo tutte le forze “naturali” e umane.»
«Più nello specifico, va denunciata la deriva tecno-totalitaria che il pensiero
sistemico ha intrapreso nell’ultimo secolo. Da alcune tendenze oliste, risonanti
e vitaliste esso è poi paradossalmente stato sviato su modelli oggettivanti e
totalitari di controllo riduzionista e meccanicistico sempre più complessi. Ciò
fino ad arrivare al paradigma cibernetico-informazionale che fa convergere i
riduzionismi tecnologici riunificandoli in un sistema di dominio. Esso orienta
anche le valutazioni scientifiche e socio—economiche […] e persino le branche
attualmente maggioritarie dell’ecologia politica stessa. […] Gli odierni
movimenti “”climatici” mainstream sono figli di questa temperie culturale. Tra
di essi è quasi del tutto assente una seria critica della dipendenza dal sistema
tecno-industriale, così come manca la critica della digitalizzazione e
dell’iperconnessione.»
«Sforzandosi di giocare al gioco del potere, si perde il potere di cambiare le
regole.»
Qui il testo: clima, di lotta o dirotta (1)
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: DA PARI A PARI
DA PARI A PARI
Contro l’autoritarismo identitario
Siamo alcuni compagni e compagne anarchici che hanno preso parte all’assemblea
“Sabotiamo la guerra”. Con questo scritto vogliamo prendere parola su una brutta
vicenda capitata alla nostra assemblea (non la sola di questo tipo, ma la più
grave), ma soprattutto su una forma mentis e un’ideologia che rendono ormai
sistematici episodi di questo genere. Se ci presentiamo in maniera tanto
circoscritta è perché “Sabotiamo la guerra” è appunto un’assemblea, fatta di
volta in volta da chi vi partecipa, e non possiamo parlare a nome di tutti i
suoi numerosi partecipanti, passati, presenti e futuri. Fatta questa premessa,
cominciamo a spiegarci.
Gli scorsi 11, 12 e 13 ottobre 2024, presso la Villa Occupata di Milano, avrebbe
dovuto svolgersi la “tre giorni” di discussione Sfidare la vertigine,
organizzata dalla nostra assemblea e dedicata appunto ad alcune delle questioni
vertiginose ma ineludibili che ci pone questo presente (a partire da quelle
legate alla guerra, che ne costituisce né più né meno che l’orizzonte storico).
La “tre giorni” è stata rinviata sine die, e di fatto annullata, per
l’opposizione di alcuni (sottolineiamo: alcuni) frequentatori della Villa, i
quali accusano di stupro un compagno che partecipa a questo percorso, e
l’assemblea stessa di supportarlo. Sarebbe stato più semplice e conveniente, da
parte nostra, ignorare questo episodio e tirare avanti, come d’altronde abbiamo
fatto in altre occasioni, quando ci sono stati simili tentativi di far saltare
nostre iniziative per via della presenza di questo compagno all’interno del
nostro percorso. Le nostre coscienze ci hanno invece detto di esprimerci.
Essendo a conoscenza delle dinamiche che hanno portato a generare questa grave
accusa, e avendo buoni motivi per considerarla infondata, ci sembra una vera e
propria ingiustizia che queste voci continuino a circolare senza che nessuno
dica niente. Un’ingiustizia verso il nostro compagno e poi verso la nostra
assemblea. Ragionandone insieme, ci siamo resi conto che era impossibile
affrontare il problema senza entrare nel merito dei presupposti ideologici,
etici e di mentalità alla base di questo episodio, mentre farlo è un’esigenza
che già sentivamo a prescindere. Se quella contro il compagno è infatti
un’accusa molto grave, non si tratta, purtroppo, di un episodio isolato: è
diventato ormai prassi corrente – negli ambienti “antagonisti” come in vasti
settori della società – accusare questo o quell’individuo, questo o quel gruppo
di colpe infamanti (di volta in volta legate alla sfera sessuale, ai rapporti
tra i generi o persino a generiche “dinamiche di potere”) senza farsi carico di
fornire motivazioni, né dare a nessuno – si tratti del diretto interessato o di
altri – la possibilità di discutere la consistenza delle accuse mosse, o ancora
di valutare autonomamente come affrontarle qualora si rivelino fondate. Oltre a
questo, ci pare che una certa mentalità e una certa ideologia (che qui
chiameremo “identitaria” per motivi che si chiariranno leggendo) stia producendo
da anni una serie di dinamiche che vanno ben oltre la sfera della sessualità e
dei rapporti interpersonali e che, almeno da parte nostra, abbiamo aspettato fin
troppo tempo per tentarne una critica (tuttavia, meglio tardi che mai). Da
queste riflessioni è nato questo scritto, che vuole essere un atto di denuncia e
un contributo al dibattito che va molto al di là della vicenda da cui è
scaturito. Se questo tipo di problemi sta lacerando sempre più mondi, portando
nei nostri anche a forme di desolidarizzazione verso intere realtà pesantemente
colpite dalla repressione, le ideologie che ne stanno alla base hanno, a nostro
parere, anche conseguenze più profonde, e profondamente nefaste. Da qui
l’esigenza di guardare tutto questo anche in prospettiva.
Sull’accusa in sé non intendiamo entrare in questa sede. Certi fatti, come si
suol dire “delicati” (e anche potenzialmente sensibili da un punto di vista
penale) devono essere trattati in spazi e momenti opportuni, quantomeno per non
fornire a sbirri e pennivendoli materiale su cui speculare. Ci limitiamo a dire
che se considerassimo il nostro compagno uno stupratore non ci organizzeremmo
con lui. È inoltre sottinteso – ma è il caso di esplicitarlo – che sia noi come
estensori di questo scritto, sia il compagno direttamente accusato, siamo ben
disposti a confrontarci faccia a faccia con chiunque ce lo richieda. Abbiamo
invece molto da dire sulle modalità con cui simili accuse vengono sempre più
spesso mosse, sulla mentalità che le sottende e sulle conseguenze che
determinano.
Posto che anche per noi, quando una persona denuncia di aver subito delle
violenze, bisogna mettersi in ascolto, questo non può diventare un alibi per non
discutere i fatti per quello che sono (o, più modestamente, per come appaiono a
noi poveri mortali), né per apporre marchi di infamia su chicchessia senza
neanche dargli la possibilità di replicare. Continuiamo testardamente a pensare
che chi muove accuse pesanti contro qualcuno – si tratti di aver compiuto una
violenza sessuale, di aver rubato soldi da una cassa comune o di essere un
delatore – dovrebbe farsi carico di quello che dice, sostenendolo con
argomentazioni chiare e circostanziate, e all’interno di spazi e momenti
opportuni. Che anche stavolta questo momento di confronto sia mancato ci pare,
con tutta evidenza, prodotto di una mentalità che ha sostituito la condizione al
fatto, e il vittimismo al pensiero. Siccome il problema non è banale, ci tocca
prenderlo un po’ alla larga.
Attraverso la mediazione di quello che possiamo definire femminismo
intersezionale, è arrivata da Oltreoceano un’ideologia che recita più o meno
così: pensarsi come esseri umani liberi ed eguali, che in quanto tali tentano di
sperimentare qui e ora, per quanto è possibile, rapporti di reciprocità (“ciò
che puoi fare tu, lo posso fare anch’io, e viceversa”) non è altro che una
vecchia fiaba umanistica. Siccome in quella guerra permanente che chiamiamo
società noi siamo in realtà diseguali – attraversati, spesso senza rendercene
conto, da dinamiche di sopraffazione che ruotano attorno alla linea del genere,
del colore, dell’abilità fisica o intellettuale, dell’età ecc. – bisogna essere
svegli e vigili (woke, espressione slang americana per “awake”), cogliendo tutte
quelle violenze che sono costantemente invisibilizzate e intervenendo nelle
relazioni umane per ristabilire l’equilibrio perduto. Da una parte esercitando
una moralizzazione permanente dei comportamenti (a partire dalla nota ossessione
per il linguaggio), specie se «agìti» da chi ha (o avrebbe) un qualche
«privilegio», ovvero una quota di potere sociale in più; dall’altro dando più
potere a chi ne avrebbe socialmente di meno. (È con questi “criteri” che ormai
diversi anni fa, negli Stati Uniti, alcune femministe proposero di far valere
doppio il voto delle donne e degli afroamericani.) Lo sfondo e – insieme – il
corollario di questo tipo di visione, è la filosofia postmodernista. Se la
verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile, l’unico “criterio” per
orientarsi e decidere in merito ai fatti, che pure non smettono di accadere,
diventa l’adesione emo-partigiana al punto di vista di chi è ritenuto più
«oppresso». Alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un
determinato soggetto.
Se sarebbe lungo produrre una critica complessiva di questa ideologia, e non
possiamo certo farlo in questa sede, una sua prima conseguenza è chiara: la
balcanizzazione all’infinito dell’umanità. Se non c’è la possibilità di
discutere tra eguali, perché diseguali sono le nostre esperienze e quindi i
nostri punti di vista, il risultato non può che essere la guerra di tutti contro
tutti, costellata da alleanze più o meno precarie. Con un corollario: siccome
nell’universo postmoderno non esistono più valori ma un solo disvalore –
affermare qualcosa con una qualche presunzione di certezza – a vincere il
confronto non è chi porta l’argomentazione più convincente o fatti
incontrovertibili, ma chi sa esibire meglio la propria condizione identitaria di
“vittima”, ed ha abbastanza letteratura accademica (i cosiddetti «studies») alle
spalle per essere considerato tale.
Se a taluni questa ideologia sembrerà ultra-libertaria, a noi pare portatrice di
un autoritarismo tanto più pericoloso quanto più si nasconde dietro la propria
presunta debolezza postmoderna. Se è infatti evidente che queste posizioni
troncano ogni possibilità di reciprocità tra gli individui concreti (ciò che
puoi fare tu posso farlo anch’io, quindi la mia parola vale quanto la tua),
fanno anche rientrare dalla porta di servizio quella ideologia del soggetto che
l’anarchismo aveva da tempo cacciato dalla porta principale. Prevedendo che «la
religione dell’umanità» avrebbe presto generato i suoi sacerdoti e i suoi
burocrati, nel lontano 1844 Stirner scriveva di schierarsi dalla parte dei
proletari, ma si rifiutava di «sacralizzarne le mani callose». Fuor di metafora,
Stirner afferma che se la condizione di oppressione patita dai proletari va
riconosciuta, bisognerebbe evitare come la peste di pensare che il proletariato
ha sempre ragione, per il semplice fatto che, come «soggetto», il proletariato…
non esiste (esistono solo individui concreti che, tra le altre cose, sono dei
proletari), e quindi non può avere né ragione né torto. Al passo con i tempi,
bisognerebbe dire la stessa cosa delle donne e dei neri, delle persone
omosessuali, degli immigrati e dei transgender. Se riconosciamo la diversa
oppressione specifica patita dagli individui appartenenti a queste categorie, la
combattiamo solo dove la ravvisiamo concretamente, senza mai rinunciare al
nostro giudizio autonomo e senza dare nessuna delega in bianco a chi si iscrive
a questa o quella parte di umanità perseguitata. Non solo perché teniamo alla
nostra libertà come a quella di chiunque altro, e quindi non daremmo neanche
all’individuo più vessato e umiliato del mondo quella che è di fatto una delega
di potere; ma perché sappiamo bene che, quando si stabilisce che qualcuno, per
una qualsiasi ragione, deve contare più di un altro, ad avvantaggiarsene non
sono “gli oppressi”, ma i loro autonominati rappresentanti. Per farci intendere,
ci tocca entrare nella parte più scomoda della questione. Quando, nelle nostre
piccole collettività, vengono sollevate accuse più o meno fondate di abusi
sessuali o di genere, a chi ha qualcosa da ridire viene dogmaticamente ribadito
che «bisogna ascoltare le compagne». Ora, già di per sé questa affermazione
contiene un’accusa implicita e non per forza giustificata (magari uno ascolta
eccome «le compagne», ma non è d’accordo con quanto viene detto); ma
soprattutto: ad essere considerate sono davvero tutte le compagne e le donne?
Per la nostra esperienza, la risposta è no. Vengono considerate solo quelle
compagne e quei compagni (uomini) allineati a posizioni già definite, ovvero ai
dogmi della nuova sinistra globale. Tutte le altre donne vengono ignorate,
quando non stigmatizzate come complici del loro «patriarcato interiorizzato». A
ben vedere, in questa nuova arte d’ottenere ragione, ciò che fa la differenza
non è tanto l’appartenenza concreta a una categoria offesa, ma l’adesione
all’ideologia che le santifica. A pretendere “ascolto” (ovvero, in realtà, un
allineamento rigido e schematico) è la nuova Chiesa sensibilista e politicamente
corretta… altro che «le compagne», i «non-bianchi» o i «corpi non normati»!
Ovviamente siamo consapevoli che la violenza sessuale, nelle sue varie forme,
non corrisponde sempre e solo all’immaginario comune della mera aggressione
fisica; che violenze piccole e grandi esistono anche nei nostri ambienti; che le
donne (ma si potrebbe allargare lo spettro a molte altre categorie oppresse)
hanno trovato e trovano spesso grandi difficoltà, resistenze e boicottaggi
quando le denunciano; mentre siamo favorevoli all’affrontamento collettivo di
abusi e violenze e, se necessario, anche ad applicare coralmente delle sanzioni
verso chi li ha commessi. Ci sembra legittimo, ad esempio, che una collettività
allontani qualcuno da un determinato spazio, o persino da un intero territorio,
qualora la sua presenza lo renda infrequentabile da una persona seriamente
offesa; oppure che un collettivo rifiuti di organizzarsi (per un determinato
periodo, fino a un chiarimento risolutore o anche per sempre) con chi, con i
suoi comportamenti, ha incrinato o perso la fiducia dei suoi compagni e delle
sue compagne. Ciò che pretendiamo, però, è che tutte e tutti abbiano la stessa
facoltà di parola in merito; che le accuse vengano messe alla prova dei fatti,
nei limiti in cui una data situazione lo permette (sarebbe atroce, ad esempio,
pretendere che chi ha subìto violenza la rievochi per filo e per segno; ma tra
questo e una delega di fiducia in bianco si possono trovare praticamente sempre
altre possibilità); e che all’accusato sia data la possibilità di difendersi
anche negando il fatto, qualora pensi e sostenga di non averlo commesso. Se
queste semplici istanze, riconosciute dall’umanità di ogni tempo, e a suo tempo
strappate con le lotte allo Stato assoluto, possono avere un po’ l’apparenza del
“diritto borghese”, si rifletta sul fatto che i criteri opposti ci riportano né
più né meno che al diritto inquisitorio, in cui la sola via al proscioglimento
era l’ammissione di colpa (oggi, al passo coi tempi, «di responsabilità»). Si
dirà che fatti di questo tipo sono particolarmente difficili da dirimere, perché
– oltre a chiamare in causa dinamiche interpersonali sottili – avvengono
solitamente in àmbiti privati e intimi, dove nessun altro vede. Questo è
verissimo. Ma a pensarci bene la stragrande maggioranza dei fatti umani che
danno da discutere avvengono al riparo degli sguardi altrui, o sotto pochi
sguardi che facilmente si contraddicono tra loro, avendo magari colto solo
indizi riguardo la consumazione di un gesto (pensiamo ad esempio a una
situazione in cui sono spariti dei soldi, e nelle vicinanze è stata vista solo
una certa persona: qualcuno dice di averla vista a una certa ora o in un certo
atteggiamento, un altro in un altro, ma nessuno l’ha vista rubare); i gesti
scabrosi che avvengono su una pubblica piazza, o davanti a dieci testimoni che
affermano più o meno lo stesso, sono, da che mondo è mondo, una minoranza, e si
attirano immediatamente la riprovazione generale. Con che criteri, quindi, in
situazioni incerte, si decide se qualcuno ha commesso o non ha commesso
qualcosa? In genere, ci si basa sulla verosimiglianza, ovvero sulla comparazione
delle dinamiche del fatto con altre analoghe vissute, viste, ascoltate in altri
momenti e situazioni (in una parola: sull’esperienza pregressa); il che, in
presenza di versioni discordanti, è possibile solo ascoltando e comparando più
campane. Si può sbagliare, applicando questo criterio? Certamente, e lo si fa
dalla notte dei tempi. Ma ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per
partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì
reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili.
Qualsiasi cosa, anche molto sensata, si possa obiettare a ciò (per esempio che
le differenze di «socializzazione» e vissuto tra uomini e donne non permettono
di cogliere appieno certe sfumature), non elimina quella che rimane una
conseguenza inaggirabile (a meno che non si sostenga che gli appartenenti a
categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche
raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di
soggettivismo quasi psichedelico).
Oltre a ciò, sarà mai possibile che, anche nel caso di fatti accertati, venga
applicata in maniera pressoché automatica la medesima modalità (l’allontanamento
della persona, e la terra bruciata intorno a chi continua a organizzarvisi
assieme), senza che si valuti né la gravità specifica del fatto né forme di
riparazione possibili, e magari commisurate?
No, questo è reso impossibile. Perché agli attivisti identitari non interessa
affatto trovare modi migliori di convivenza tra le persone, ma solo purificare
il mondo da tutto ciò che non è loro gradito. Non c’è da stupirsi che, da un po’
di tempo a questa parte, certuni stiano passando dal tentativo di cancellare
determinati individui alla cancel culture delle idee e di ciò che più le
veicola: i libri. C’è infatti chi ha dato vita a vere e proprie campagne contro
case editrici, edizioni e distribuzioni variamente “di movimento” (sia perché
curate da persone accusate di abusi, sia perché ree di pubblicare testi
considerati «problematici») e a liste di proscrizione contro autori e autrici
considerati di volta in volta transfobici, omofobi, sessisti sulla base
dell’interpretazione distorta dei loro testi, della partecipazione a iniziative
organizzate da altri “incriminati” o persino per la semplice recensione di testi
altrui; mentre sappiamo di qualche compagno mai accusato di alcuna violenza, ma
che viene diffidato dal presentarsi in determinati contesti per le sue posizioni
critiche verso il movimento LGBTQ +, che gli meriterebbero l’accusa di
«transfobia». Mentre ci domandiamo con sconcerto da quando in qua gli anarchici
si occupano di difendere i riformisti, questa posizione è semplicemente
allucinante per disonestà politica e intellettuale. Quello LGBTQ + è per
l’appunto un movimento politico che, per quanto giochi a rappresentare tutte le
persone omosessuali e transgender, non rappresenta in realtà altro che se
stesso. Dire che chi critica l’autoritarismo di alcune frange queer è omofobo o
transfobico, è come dire che chi critica Black Lives Matter è per ciò stesso un
razzista. Nient’altro, appunto, che politica nel senso peggiore del termine.
Ci dispiace, ma dietro a tanto (e crescente) furore accusatorio e persecutorio,
che sta rovinando la vita a sempre più compagni sulla base di accuse sempre più
“ardite” e fantasiose, non riusciamo a vedere solo una sincera volontà di
opporsi a sessismo e prepotenze, o di accogliere istanze taciute per troppo
tempo. Ci vediamo anche un’assunzione di quella cultura della pena che in altri
àmbiti si chiama giustizialismo: punire il malcapitato di turno (che sia
effettivamente “colpevole” o “innocente”) per dare l’esempio a tutti gli altri.
Ci vediamo anche una smania di potere e controllo. Ma soprattutto ci vediamo,
più in generale, un veleno autoritario e reazionario che dalle università
statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano
nell’anarchismo, e che rischia seriamente di estinguerlo dall’interno (mentre la
repressione continua a picchiare duro dall’esterno), rovesciandone i princìpi
mentre pretende di radicalizzarli. Se c’è un concetto condiviso da tutti gli
anarchici, è che l’autorità non limita la tendenza degli umani a sopraffarsi
l’un l’altro, ma la aggrava e la rende più strutturale. Ciò detto, l’abolizione
dell’autorità e quindi la libertà non è la panacea che libererà l’umanità
oppressa da tutti i mali, ma «la via aperta a ogni miglioramento» (Malatesta):
un punto di svolta e di inizio, ma proprio per questo necessario. Per quanto si
dia arie libertarie e ultra-radicali, la sinistra postmodernista e identitaria
ragiona in maniera esattamente contraria. Non si dà alcuna via d’uscita dalla
miseria presente, ma solo un’eterna lotta tra soggettività (che si sentono)
oppresse all’interno d’una rete di micro-poteri ramificata e onnipresente, che
può trovare un po’ di quiete solo in una sorta di reciprocità negativa: anziché
un principio che proclama: “faccio ciò che voglio nella misura in cui tu puoi
fare ciò che vuoi”, un credo che recita più o meno: “non farò ciò che voglio a
patto che tu non faccia ciò che vuoi”. In breve, una serie infinita di divieti.
Lo si vede molto bene in certe università occupate dalle giovani generazioni,
dove sui muri, al posto dei volantini incendiari, si trovano sempre più spesso
intimazioni a non fare questo o quest’altro, insieme alle indicazioni per
raggiungere il care team qualora non ci si senta abbastanza safe. Un modello
sostanzialmente hobbesiano: se gli individui, divenuti lupi dopo secoli di
«etero-patriarcato bianco», sprofondano nella guerra di tutti contro tutti,
allora è necessario inventare degli artifici per tenerli a freno: l’eterna
giustificazione della polizia. Se poi gli anarchici hanno sempre sostenuto la
necessità di distruggere la società presente per permettere l’evoluzione degli
individui, ma liberandoli così come sono, la sinistra identitaria pretende di
cambiare la società cambiandone i costumi, con la pretesa di procedere dal
singolo ai rapporti sociali anziché viceversa. Pura merda reazionaria, degna dei
Padri della Chiesa o della Ginevra calvinista del Cinquecento.
Venendo meno il principio di reciprocità, vengono meno le basi stesse
dell’autorganizzazione di classe, e la lotta di classe medesima. Da questo punto
di vista, è significativo che tra i vari «privilegi» snocciolati dagli
identitari non venga mai citata l’istruzione, che pure traccia un solco
profondissimo tra le classi, e non solo in termini di accesso al lavoro. Anni fa
una compagna, reduce da molti anni di carcere, ci raccontava di quanto in
prigione facesse la differenza essere stati o meno “istruiti”, tanto per la
conoscenza dei propri “diritti” legali quanto nella capacità di farsi valere
davanti alle autorità. Se si considera la loro provenienza universitaria, e
l’adozione dei loro precetti da parte di persone che frequentano o hanno
frequentato l’università, può davvero apparire casuale questa assenza in mezzo a
studies dedicati a ogni tipo di condizione e vessazione? (Con questo, speriamo
di non dare involontariamente il suggerimento ad aprire un nuovo filone
persecutorio, o spingere qualcuno ad abbandonare francescanamente gli studi: i
mezzi culturali servono eccome! e, al pari di altri mezzi, non andrebbero
aboliti, ma messi a disposizione delle lotte e della nostra classe). Se infatti
certe ideologie, penetrando negli àmbiti “di movimento”, finiscono per
raggiungere anche giovani più o meno proletari, esse vengono tipicamente
promosse e assunte dalla classe media e in particolare dalla sua variante
cognitiva, quella che non vuole cambiare il mondo ma renderlo più civile: da
questo l’elusione del problema dell’istruzione, cui spesso si accompagna il
disprezzo verso quel proletariato (in specie bianco e quindi grottescamente
considerato «privilegiato») che non sa o non vuole assumere il linguaggio e le
categorie del “cognitariato” di sinistra, laddove quest’ultimo si percepisce e
si presenta come autentico modello del cittadino globale come si deve. Se questa
sostanziale indifferenza in materia di classe dovrebbe suggerirci quanto i
teorici identitari abbiano davvero a cuore le dannate e i dannati della terra,
non fa meraviglia come costoro non si accorgano (ma davvero non se ne
accorgono?) di quanto la loro ideologia finisca da un lato per minare le
possibilità stesse di organizzarsi tra sfruttati, e dall’altro per rafforzare il
securitarismo padronale. Come ci si può organizzare insieme, quando si adotta
una visione schizofrenica che considera i propri compagni insieme dei complici e
dei nemici (nemmeno tanto) potenziali, segnati dal peccato originale dei propri
«privilegi» più o meno di nascita? Quando le qualità personali – l’impegno, la
schiettezza, l’affidabilità, il coraggio nelle sue varie forme, la capacità di
ragionare e argomentare, la coerenza con quanto si proclama – vengono
squalificate a meri mezzi di sopraffazione? Quando non si può prendere alcuna
decisione comune senza che venga evocato il fantasma della
«sovradeterminazione»? Se si smette di considerare l’uguaglianza un
concetto-limite (lo spazio che permette l’espressione delle differenze, e in cui
emergono per forza anche alcune disuguaglianze), il risultato non può che essere
la paralisi, e una miseria generalizzata in cui le differenze, ovvero ciò che fa
la ricchezza di qualsivoglia collettività, vengono annientate in nome di un
egualitarismo astratto e disciplinante (mentre a spadroneggiare sono,
orwellianamente, quanti pretendono di essere «più uguali degli altri»).
Certamente anche il “classismo”, a suo modo, è identitario; ma si tratta di un
modo profondamente diverso dai vari identitarismi di genere, “razza” e
quant’altro, e che apre tutt’altre possibilità. Senza disconoscere che anche la
linea del genere e quella del colore hanno un peso nell’articolazione dei
rapporti di potere, oppressione e sfruttamento (e nell’economia complessiva
dell’attuale dominio capitalistico), solo la linea della classe apre a una
liberazione universale, creando quella rottura verticale in cui le liberazioni
delle donne, degli omosessuali e transessuali, delle minoranze (post)coloniali
“interne” ed “esterne” ecc. si possano realizzare senza snaturarsi in nuove
configurazioni di potere e del dominio. Essere sfruttati e sfruttate, infatti,
ha almeno due aspetti differenti dall’essere donne, neri ecc. Il primo è che si
tratta di una condizione meramente sociale, non legata a tratti fisiologici: si
è sfruttati finché esiste una società basata sullo sfruttamento; con la fine del
razzismo e del sessismo si smetterebbe di essere «socializzati» come uomini e
donne, «razzializzati» come neri ecc., ma non si smetterebbe di essere uomini,
donne, neri. Il secondo aspetto è che il sesso, il colore della pelle,
l’orientamento sessuale ecc. sono caratteristiche che – salvo eccezioni,
ovviamente – la gran parte degli individui non vorrebbe perdere in un processo
di liberazione, ma semplicemente poter incarnare senza tutte le discriminazioni,
umiliazioni e stereotipi che vi sono associati – ovvero sono caratteristiche non
indesiderabili di per sé; mentre nessuno (psicosi lavoriste-stakanoviste a
parte) vorrebbe restare uno sfruttato. Nella sua mera negatività, il cui sbocco
ultimo è l’autosoppressione della classe sfruttata nel momento in cui questa
sopprime la classe sfruttatrice, solo la linea della classe realizza un
umanesimo non-astratto (nessuna equiparazione tra sfruttati e sfruttatori in
nome della comune ”umanità”, ma un processo che potrà dare forma a un’umanità
diversa), aprendo lo spazio alla liberazione di tutti e di ciascuna, mentre
colpisce laddove il sistema può al massimo arretrare, ma non ricrearsi come
sistema di sfruttamento: un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza
generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere; una
società di classe senza classi, no. Transfemminismo, “teoria critica della
razza” ecc. tendono ad applicare l’antagonismo pressoché assoluto del classismo,
possibile perché basato su alterità meramente sociali, ad alterità incarnate
negli esseri (in linguaggio filosofico: ontologiche) e/o di cui gli individui
concreti non vogliono (e non dovrebbero) per forza disfarsi. Il risultato è
quasi sempre un pasticcio in cui affiora un certo razzismo di ritorno, laddove
certi individui (maschi, e poi a cascata etero, bianchi, “abili” ecc.) patiscono
una squalifica di fondo per ciò che sono e non per ciò che fanno, e in cui le
stesse persone vengono da una parte riconosciute come oppresse e potenzialmente
complici, e dall’altra, non appena subentra un contrasto, trattate come “nemici
di categoria” contro cui serrare le file dei “propri”. Questo non significa che
conflitti di natura diversa da quello di classe non esistano o non abbiano mai
ragione di essere aperti, se necessario anche con durezza (lo ribadiamo: non
sacralizziamo le mani callose): ciò su cui ammoniamo è il modo di considerarli e
trattarli, che dovrebbe avere le sue caratteristiche specifiche. Se non si è
capaci di operare queste distinzioni, le conseguenze sono catastrofiche. Di
fronte a una vertenza in una fabbrica o in un magazzino, noi stiamo sempre dalla
parte degli operai, e poco ci importa di chi dice il “vero” (possiamo pure dirci
tra noi che gli operai stanno dicendo cazzate, ma questa rimane una questione
inter nos, che semmai discuteremo da questa parte del cancello). Possiamo dire
la stessa cosa quando il conflitto si apre tra un compagno (uno sfruttato, un
amico) e una compagna (una sfruttata, un’amica)? O, a cascata, tra un compagno
gay (o trans, o nero) e uno etero (o cis, o bianco)? Quando un padrone o un
governo fa un passo falso – che gli attira in un modo o in un altro la
riprovazione pubblica – è assolutamente sensato attaccarlo, ricavandone ciò che
se ne può ricavare per l’avanzamento della lotta, senza stare troppo a
discettare di quanto sia effettivamente “grave” ciò che ha commesso. Si può dire
la stessa cosa… ecc.?
L’applicazione meccanica di logiche tipiche della lotta di classe a conflitti
d’altro genere finisce per uccidere la lotta per la liberazione. Venendo
frammentato in una serie di micro-conflitti, peraltro facilmente esposti a
cortocircuiti logici (chi è più oppresso tra un «non-bianco cis-etero» e una
«bianca transgender»? con chi ci si schiererebbe in caso di dissidio?), il
conflitto verticale (sfruttati contro sfruttatori, rivoluzionari contro Stato)
viene fagocitato da un perenne conflitto orizzontale. Un paradigma che peraltro
somiglia (siamo i soli a notarlo?) a una sorta di contraltare di sinistra alla
guerra tra poveri fomentata negli anni dalle destre; e che, brandendo la safety
al posto della security, contribuisce ai medesimi obiettivi di pacificazione
sociale (diritti per tutt* e ovunque, libertà per nessuno e da nessuna parte).
Il desiderio di essere protetti e garantiti nel proprio isolamento contro i
propri simili, sempre più percepiti come dissimili, si sostituisce all’urgenza
di liberarsi insieme a tutti gli altri.
Prima di concludere questa serie di considerazioni, ci preme chiarire un punto,
onde evitare possibili (e magari furbeschi) fraintendimenti. Le critiche di cui
sopra non possono essere applicate meccanicamente e in toto a tutti i gruppi di
ispirazione identitaria: quelle che ci interessa è fotografare delle tendenze,
ed è in questo senso che queste considerazioni vanno lette. Allo stesso modo, a
differenza di altri, noi non vogliamo attribuire a tutti coloro che variamente
aderiscono a ideologie e approcci identitario-postmodernisti la colpa di tutte
le derive che hanno attraversato i movimenti antagonisti negli ultimi anni
(dall’adesione al securitarismo sanitario-Covid all’appoggio a una inesistente
“resistenza” nella guerra in Ucraina). Se il vittimismo tipico di queste
ideologie ha fornito, soprattutto all’estero, un contributo più che “generoso” a
queste derive (si veda il raduno internazionale di Saint-Imier nel 20231),
simili sbandate sono state spesso trasversali a ideologie e aree (si sono avute,
per esempio, da parte di raggruppamenti di varia tendenza marxista o libertaria
che poco o nulla hanno a che fare con l’identitarismo postmoderno), mentre in
Italia, soprattutto in àmbito anarchico e libertario, c’è stato un salutare
smarcamento di segno opposto che ha attraversato mondi diversi, compresi alcuni
ambienti queer e transfemministi. Ci fa inoltre piacere constatare, a livello
internazionale – pensiamo soprattutto agli Stati Uniti – che i tentativi del
potere di creare distanze dalla resistenza palestinese agitando gli spettri
dell’”oscurantismo religioso” e dei presunti “stupri di Hamas” (una fake news
cui pure, inizialmente, qualcuno ha abboccato e qualcun altro continua ad
abboccare) sono andati in gran parte a vuoto, e che molti compagni e compagne di
lotta di tendenza transfemminista, intersezionale ecc. si sono schierati anima e
corpo con gli oppressi palestinesi (con tanto di benedizione da parte della
papessa Judith Butler). Di fronte a queste semplici constatazioni, certe analisi
troppo manichee ci sembrano inadeguate alla realtà confusa, complessa, mutevole
del nostro tempo, e non le facciamo nostre. Ciò che vogliamo suggerire è
qualcosa di più sottile, che ha a che fare col modo in cui agiscono le idee a
livello sociale e individuale, portando gli individui anche dove non vorrebbero
arrivare. Quando cominci a ragionare in un certo modo, diceva ancora Malatesta,
non vai dove vuoi tu, ma dove ti porta il ragionamento. Un esempio potrà
chiarire cosa intendiamo.
Non ci sembra esattamente un caso che non solo il mercato e lo spettacolo, ma
persino le istituzioni e le forze dell’ordine abbiano ormai fatto proprie
retoriche ispirate all’identitarismo woke, con preziosi ritorni in termini di
controllo sociale (militarizzazione giustificata dalla «difesa delle donne»,
ergastolo automatico per i «femminicidi», ma anche interventi sempre più
frequenti degli sbirri nelle scuole, contro violenze di genere, «bullismo»,
«abilismo» e quant’altro, cui si affiancano frotte di psicologi a caccia di
insicurezze, disagi… e clienti). Che tante (trans)femministe replichino che la
maggior parte degli stupri avvengono in realtà in casa e da parte di persone
conosciute, o che oppongano a simili strumentalizzazioni la presenza e
l’autodifesa diretta delle donne nelle strade, o la denuncia del carattere
comunque «patriarcale» della polizia e finanche del «sistema» nel suo insieme,
ci sembra senz’altro apprezzabile, ma anche insufficiente di fronte a una
propaganda onnipervasiva che raggiunge sempre più persone (e in specie i
giovanissimi) direttamente sui loro smartphone, e che spinge sempre più
categorie (donne, persone omosessuali, transessuali, “colorate”, con disabilità,
“neurodivergenti” ecc.) a sentirsi perennemente sotto attacco da parte di chi
avrebbe qualche «privilegio» in più (o qualche problema in meno). [Non molti
anni fa, in Francia, degli spazi anarchici colpevoli di proclamare e praticare
la loro intolleranza contro tutte le religioni sono stati attaccati con la
taccia di «islamofobia»2, mentre in diversi territori degli Stati Uniti, a furia
di voler fare gli interessi delle “minoranze” mettendole al riparo dalle insidie
dei “privilegiati”, si sta tornando di fatto alla segregazione razziale, con
scuole e classi separate per i soli neri3. ]Non sarebbe il caso di tentare una
riflessione più profonda, prima che sia troppo tardi? Purtroppo – e qui,
viceversa, ci tocca tirare in ballo la gran parte delle realtà infette dal morbo
identitario – quello che viene fatto è sistematicamente il contrario: non appena
qualcuno solleva questioni scomode per le loro ideologie o per qualche loro
alleato, gli attivisti identitari – col silenzio-assenso dei loro amici più
“moderati” – gli si gettano alla gola puntando il dito su questa o quella uscita
infelice, questa o quella parola, questa o quella virgola fuori posto (spesso
mescolando, alla bisogna e senza vergogna, ciò che uno scrive con calma alla
propria scrivania con quel che gli esce di bocca nella foga di una discussione,
o davanti a un bicchiere di vino); e così evitano di dover affrontare le
questioni stesse. Quello che viene messo in campo, di fatto, è una serie di
dispositivi che impediscono tanto di discutere quanto di pensare (senza
possibilità di confronti, alla lunga il pensiero muore).
Ecco l’aria da Chiesa che da troppo tempo ci tocca respirare, e di cui ne
abbiamo fin sopra i capelli. Ecco ciò che denunciamo, al di là dell’occasione
che ha generato questa denuncia. Il problema, per noi, non è tanto che questa
serie di dispositivi fattasi ideologia abbia generato, nei nostri ambienti, una
grande quantità di scazzi (se non sempre inutili o infondati, quasi sempre
malgestiti); ma soprattutto che, assestando colpi micidiali al pensiero critico,
vi ha innescato un vero e proprio processo di degrado etico, cognitivo,
spirituale. Che tipo di ambiente morale e intellettuale può prodursi, quando si
smette di ragionare sui fatti lasciando campo libero a un soggettivismo sfrenato
e allo stesso tempo imprigionato in categorie stagne, che arriva a propinare
dogmi demenziali (demenziali come tutti i dogmi, la cui essenza è di dover
essere creduti pur restando incomprensibili) come «violenza è ciò che una
persona percepisce come tale» (e a «violenza» si può sostituire a piacimento
«sovradeterminazione», «potere» ecc.)? L’interiorità senza esteriorità, diceva
Hegel, è vuota. Senza passare dall’incontro-scontro con la realtà come suo
momento di verifica, e quindi senza presupporne l’esistenza e la possibilità di
indagarla, la soggettività non diventa altro che una girandola perpetua di
sensazioni, emozioni, percezioni (e paranoie). Se in questa fase storica sono
gli individui in generale a essere sempre più prodotti come individui senza
mondo dall’ultra-soggettivismo dilagante (e dalla smaterializzazione informatica
del reale); e se qualsiasi impostazione ideologica agisce come un filtro,
determinando quali tipi umani tenderanno ad avvicinarsi o allontanarsi da
determinati ambienti, è fatale che, laddove domina la paranoia woke, si
avvicinano e si avvicineranno sempre di più ai “movimenti” proprio i tipi più
inconsistenti, sconclusionati e tendenzialmente rancorosi: quelli poco propensi
al ragionamento e molto propensi al lamento; quelli che non amano fare seri
sforzi per identificare e combattere il Potere (quello vero), e molto amanti
della lotta a buon mercato contro il “potere” diffuso ovunque… ma soprattutto
vicino a loro; quelli che cercano un gruppo che si prenda cura delle loro
paturnie, anziché sfidare ogni collettività e quindi arricchire quelle che si
scelgono liberamente con l’originalità delle proprie tensioni e idee; quelli che
non vogliono essere individui irripetibili, e quindi irriducibili a qualsiasi
categoria ma, appunto, soggetti.
In questa corsa all’annichilimento della realtà e, insieme, dell’individualità
pensante, in cui l’autoritarismo trova una dimora accogliente e in cui risorgono
in forma nuova i ferrivecchi della reazione, un episodio come quello di Milano,
e come altri occorsi alla nostra assemblea nel suo anno e mezzo di vita (ma
risòltisi più felicemente), ci rattristano ma non ci stupiscono. L’autorità e
l’autoritarismo rimpiccioliscono sempre gli esseri umani e imbruttiscono sempre
i rapporti. Non è quindi strano che, in questa mezzanotte del secolo, tutte le
porte siano spalancate ai piccoli Torquemada e agli opportunisti senza princìpi,
e chiuse in faccia a chi si ostina a dire parole chiare su un presente molto più
tragico che serio.
In mezzo a tanta merda reazionaria di ritorno noi andiamo avanti, con i nostri
princìpi ben stretti in pugno.
Penisola italiana, primavera 2025
Cinque piccoli indiani fuori dalla riserva
1Per uno sguardo su quanto accaduto in quell’occasione si veda il testo Grosso
guaio a St Imier sul blog della trasmissione radiofonica “la nave dei folli”, a
questa pagina:
https://lanavedeifolli.noblogs.org/files/2023/09/Grosso-a-guaio-a-St-Imier.pdf
2Si veda ad esempio
https://danslabrume.noblogs.org/post/2023/07/24/anti-anti-racialisme/
3Cfr. Yascha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli, Milano 2024
Riceviamo e diffondiamo questo prezioso – ed estremamente attuale… –
approfondimento sul ruolo di IBM nel genocidio perpetrato quasi un secolo fa dai
nazisti,
da https://bergteufelbz.noblogs.org/genocidi-automatizzati-libm-e-lolocausto/#more-1972
Ieri con i nazisti tedeschi, oggi con i sionisti israeliani: questa è IBM.
Mentre i regimi passano, i fabbricanti di orrori resteranno finché non sarà
demolito il sistema capitalistico.
Genocidi automatizzati – L’IBM e l’olocausto
Il testo che segue è uno dei capitoli di un opuscolo di prossima pubblicazione.
Proprio ieri, il Senato accademico dell’Università di Trento ha votato per
mantenere, nonostante la contrarietà degli studenti e la mobilitazione contro le
complicità con il genocidio a Gaza, un progetto di ricerca con Ibm Israel, sulla
«resilienza dei sistemi di intelligenza artificiale contro gli attacchi alla
sicurezza». La divisione israeliana della multinazionale è tra i fornitori delle
tecnologie di controllo della popolazione palestinese. I motivi del voto di ieri
sarebbero «sia di fattibilità che di volontà», in quanto «sono presenti diversi
accordi con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei
diritti umani» e «bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca
universitaria».
Nell’ultimo anno e mezzo si è spesso parlato dello sterminio della popolazione
di Gaza come del primo genocidio automatizzato della storia – e a ragion veduta,
visti i sistemi di intelligenza artificiale impiegati dall’esercito israeliano
per massimizzare gli effetti dei bombardamenti. Tuttavia, quest’espressione
– genocidio automatizzato – si trovava già in un libro del 2001, pubblicato in
Italia da Rizzoli, mai più ristampato e oggi pressoché introvabile: L’IBM e
l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, del
giornalista americano Edwin Black. Se la fornitura da parte dell’IBM di
tecnologie che sono servite al regime nazista per censire le sue vittime e poi
per organizzare la «soluzione finale» è un fatto relativamente noto, la lettura
di questo documentatissimo volume restituisce un quadro a dir poco
impressionante, soprattutto alla luce dei progressi che hanno fatto negli ultimi
ottant’anni i mezzi tecnologici per rendere gli individui più efficientemente
controllabili – e all’occorrenza uccidibili. Come scrive l’autore, «l’alba
dell’era informatica coincise con il tramonto della dignità umana».
Il libro parte da una domanda: «i tedeschi disponevano sempre di liste
contenenti i nomi degli ebrei. All’improvviso, uno squadrone di soldati delle SS
arrivava in una piazza cittadina e affiggeva un avviso che ordinava alle persone
elencate di riunirsi il giorno seguente alla stazione ferroviaria per essere
deportate a Est. Ma come riuscivano i nazisti a procurarsi le liste?».
La risposta sta nelle schede perforate e nel sistema per la loro selezione, «una
sorta di precursore del computer». La futura IBM Germania era stata fondata nel
1896 da Herman Hollerith come società di tabulazioni per censimenti. «Hollerith
ideò una scheda con fori standardizzati, ciascuno dei quali rappresentava un
tratto diverso: sesso, nazionalità, occupazione e così via. La scheda doveva
essere inserita in un “lettore”. Grazie a meccanismi a molla facilmente
regolabili e a brevi contatti elettrici a spazzole che rilevavano i fori, le
schede potevano essere “lette” mentre passavano attraverso un alimentatore
meccanico. Le schede elaborate potevano quindi essere suddivise in pile seguendo
una determinata serie di perforazioni. Era così possibile selezionare e
riselezionare milioni di schede. Si poteva isolare qualsiasi tratto desiderato,
fosse esso generale o specifico, semplicemente selezionandole e riselezionandole
in base ai fori associati ai dati. Le macchine erano in grado di fornire il
quadro di un’intera popolazione oppure di evidenziare un gruppo all’interno di
quella popolazione. Era infatti possibile individuare un uomo tra milioni di
persone praticando un numero sufficiente di fori sulla scheda e selezionandoli
per un numero sufficiente di volte. Ogni scheda perforata sarebbe diventata un
magazzino informativo limitato solo dal numero di fori. Non si trattava d’altro
che di un codice a barre ottocentesco per gli esseri umani».
Arrivati al potere, ai nazisti si pose il problema della mancanza di un
censimento affidabile della popolazione, anche e soprattutto su base razziale.
«I pianificatori nazisti volevano che tutti i quarantuno milioni di prussiani
venissero censiti e che i risultati preliminari fossero disponibili entro un
periodo record di quattro mesi». L’IBM Germania, conosciuta all’epoca
come Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), «propose una
soluzione: avrebbe gestito quasi l’intero progetto come un contratto. Avrebbe
studiato un pacchetto per i censimenti in grado di conteggiare e classificare
ogni cittadino. Avrebbe inoltre reclutato, addestrato e persino nutrito le
centinaia di lavoratori temporanei necessari a condurre il censimento, che
avrebbero svolto il lavoro nei locali della stessa Dehomag. Se il governo fosse
riuscito a raccogliere le informazioni, l’azienda si sarebbe occupata di tutto
il resto».
Black descrive così il meccanismo: «giorno e notte, i dipendenti della Dehomag
immettevano le informazioni relative a quarantuno milioni di prussiani al ritmo
di centocinquanta schede all’ora. […] Le istruzioni erano chiare e semplici. La
colonna 22, religione, doveva essere punzonata in corrispondenza del foro 1 per
i protestanti, 2 per i cattolici e 3 per gli ebrei. Le colonne 26 e
27, nazionalità, dovevano essere codificate nella fila 10 per i madrelingua
polacchi. […] Le verificatrici tabulavano e controllavano la punzonatura di
oltre quindicimila schede l’ora. Quando, all’interno della popolazione, veniva
rilevata la presenza di un ebreo, il suo luogo di nascita veniva registrato su
un’apposita “scheda di conteggio degli ebrei”, che veniva poi elaborata
separatamente. Cominciava quindi il tremendo processo di selezione e riselezione
per venticinque categorie di informazioni ordinate e filtrate mediante ben
trentacinque operazioni distinte: in base alla professione, alla residenza, alle
origini nazionali e a una miriade di altri tratti. Il tutto doveva essere
correlato con le informazioni fornite dagli uffici del catasto, dalle liste
municipali e dalle autorità ecclesiastiche al fine di creare un nuovo esauriente
database. Il risultato era una rilevazione della presenza ebrea professione per
professione, città per città e addirittura rione per rione».
Una scheda Hollerith
A partire dal 1934, lo stesso sistema venne usato anche per elaborare i dati
raccolti dai medici sullo stato di salute dei pazienti, dati che creavano un
«profilo eugenetico» sulla base del quale ogni singolo paziente sarebbe
rientrato o meno nei programmi di sterilizzazione, che «colpirono innanzitutto
coloro che erano stati giudicati malati di mente, ritardati, epilettici o
affetti da sindrome maniaco-depressiva», per poi essere allargati anche agli
«indesiderabili dal punto di vista sociale. I cosiddetti antisociali, vale a
dire i disadattati che non sembravano idonei al lavoro».
Nel 1939, il copione del censimento razziale si ripeté, questa volta per
settantatré milioni di tedeschi e austriaci, con l’obiettivo di «individuare
ciascun soggetto prima di ghettizzarlo o di sottoporlo a una qualsiasi azione».
«La Germania si stava inoltre preparando per la guerra totale e, senza il
censimento, non avrebbe potuto sapere con esattezza dove si trovassero gli
uomini arruolabili e quali donne si sarebbero assunte le responsabilità
economiche una volta iniziata la mobilitazione. Per questi motivi, il censimento
era di fondamentale importanza per la guerra» di Hitler. Come già nel 1933, «la
Dehomag allestì enormi saloni per il conteggio e divisioni direttive presso la
sede centrale dell’Ufficio di statistica berlinese per tabulare le informazioni.
All’inizio, l’esercito di operatori della Dehomag perforava 450.000 schede al
giorno. Con il passare del tempo, il volume raggiunse il milione al giorno. La
società rispettò la scadenza. I risultati preliminari furono pronti già il 10
novembre 1939», primo anniversario della Notte dei cristalli.
Una volta scoppiata la guerra, il regime nazista riuscì a individuare con la
stessa velocità gli ebrei di ogni paese invaso o assoggettato, anche grazie
all’infrastruttura predisposta nei vari paesi da tutte le filiali europee
dell’IBM, che «collaboravano da tempo al fine di sfruttare gli avvenimenti
politici e militari del Vecchio continente. Gli addetti alle vendite facevano di
continuo la spola tra i loro paesi e New York o Berlino per l’addestramento e
venivano quindi trasferiti di nuovo nelle nazioni d’origine per sovrintendere
alle operazioni riguardanti le schede perforate. Verso la fine del 1939, con il
consenso di Thomas Watson [presidente dell’IBM], fu aperta a Berlino una scuola
di addestramento internazionale per i capi della manutenzione IBM di tutta
l’Europa». Anche «gli ordini urgenti piazzati dagli eserciti di paesi come
l’Olanda e la Polonia andavano a vantaggio del Reich. Quando i nazisti
invadevano i nuovi territori, le macchine Hollerith venivano confiscate e
convertite agli scopi tedeschi».
Anche l’elaborazione, in sole quarantott’ore, dei dati riguardanti gli ebrei di
Varsavia e dell’intera Polonia – e la successiva organizzazione, in pochi
giorni, della deportazione di milioni di individui – fu possibile grazie ai
sistemi Hollerith dell’IBM, che era «presente in Polonia, con una sede centrale
a Varsavia. L’officina tipografica per le schede perforate, ubicata al numero 6
di via Rymarska, distava solo pochi metri dal ghetto. Là dentro furono prodotti
oltre venti milioni di schede».
Come sintetizza Black, «In tutta la Germania e nei territori conquistati, la
Dehomag cercò in ogni modo di stare al passo con un’interminabile serie di
censimenti, registrazioni e analisi di persone, proprietà e operazioni militari,
progetti per i quali erano necessari sia le sue attrezzature sia i suoi servizi
di riparazione ed elaborazione. Ogni settimana venivano stampati milioni di
schede per soddisfare la domanda».
Se «oltre duemila di questi apparecchi multifunzionali vennero distribuiti in
Germania, e altre migliaia raggiunsero i paesi europei sotto il dominio
tedesco», anche «in ognuno dei principali campi di concentramento esisteva un
centro per la selezione delle schede», noto come Dipartimento Hollerith. «In
certi campi, come Dachau e Storkow, erano installate non meno di due dozzine di
selezionatrici, tabulatrici e stampanti IBM». Questi dipartimenti e le loro
macchine si occupavano del «compito immenso di registrare con efficienza le
deportazioni dalle città e i ghetti di diversi paesi, le quotidiane assegnazioni
di lavori, e gli orari dello sterminio». Per ogni recluso veniva compilata una
scheda perforata contenente «colonne e fori indicanti nazionalità, data di
nascita, stato civile, numero di figli, motivo dell’incarcerazione,
caratteristiche fisiche ed esperienze lavorative», che avrebbe permesso al
sistema Hollerith di seguirlo in tutti i suoi spostamenti e di confrontare le
sue caratteristiche con quelle richieste per gli “incarichi” di lavoro forzato
vacanti nei vari campi o nelle industrie che se ne servivano. A ciascuno era
assegnato «un tipico numero Hollerith a cinque cifre», gli stessi numeri che per
primi sarebbero stati tatuati sugli avambracci dei prigionieri di Auschwitz.
«Senza i macchinari dell’IBM, la manutenzione continua e il rifornimento di
schede perforate, i campi di Hitler non avrebbero mai potuto eseguire i loro
terrificanti compiti come invece fecero», e, come l’autore giustamente rimarca,
i dipartimenti Hollerith «non potevano funzionare con manodopera non
specializzata. Erano necessari i cosiddetti esperti di Hollerith addestrati da
una filiale dell’IBM, che si trattasse della Dehomag in Germania o di un’azienda
qualsiasi della località in cui si trovavano i dipartimenti».
Come riassume Black, «come ogni altra evoluzione tecnologica, ogni nuova
soluzione alimentava nuove sinistre prospettive e una nuova serie di crudeli
opportunità. Quando la Germania decise di identificare gli ebrei per nome, l’IBM
mostrò come fare. Quando la Germania decise di utilizzare quelle informazioni
per lanciare programmi di espropriazione ed espulsione sociale, l’IBM le fornì i
mezzi tecnologici. Quando occorreva che i treni collegassero puntualmente le
città o i campi di concentramento, l’IBM ideò un’altra soluzione idonea. In
sostanza, non vi era soluzione che l’IBM non fosse pronta a studiare per un
Reich disposto a pagare per i servizi resi. Una soluzione conduceva all’altra.
Mentre l’orologio ticchettava, mentre le schede perforate frusciavano, mentre
gli ebrei tedeschi vedevano annientare la propria esistenza, altri vedevano
crescere la propria fortuna».
Se quello appena riassunto è il più agghiacciante, le macchine dell’IBM vennero
impiegate dal Terzo Reich – così come dagli altri Stati belligeranti – in molti
altri modi: i nazisti scoprirono che potevano «meccanizzare, organizzare e
controllare quasi tutti gli aspetti della vita commerciale e privata, dal più
grande cartello industriale al più umile negoziante locale»: «le disposizioni
del governo imponevano alle società di installare le macchine Hollerith per
garantire resoconti tempestivi, omogenei e aggiornati che potessero essere
rielaborati». «La tecnologia Hollerith era diventata una componente fondamentale
della vita amministrativa tedesca. Le schede perforate avrebbero permesso
all’intero Reich di mettersi sul piede di guerra. Per l’IBM iniziò un periodo di
grande prosperità».
Manifesto pubblicitario della Dehomag: «Visione d’insieme con le schede
perforate Hollerith»
Fra i maggiori clienti della Dehomag c’erano le ferrovie tedesche: «ogni anno
circa centoquaranta milioni di passeggeri prenotavano il posto mediante i
sistemi di selezione delle schede prodotti dalla Dehomag». Durante la guerra,
l’IBM fornì le sue apparecchiature a quasi tutte le ferrovie dell’Europa
occupata. «I sistemi per schede perforate individuavano l’esatta posizione dei
carri merci, il carico che potevano trasportare e gli orari che avrebbero dovuto
rispettare per garantire la massima efficienza». Grazie a questo sistema, «le
posizioni dei carri merci venivano aggiornate ogni quarantott’ore. Senza le
apparecchiature, la localizzazione del materiale ferroviario sarebbe rimasta
indietro di oltre due settimane».
Allo stesso modo, i sistemi Hollerith «consentivano al Reich di schierare
strategicamente sia gli operai specializzati all’interno della Germania sia i
gruppi di forzati e di schiavi importati dai paesi occupati», e venivano
utilizzati in tutta l’Europa in guerra per la mobilitazione delle truppe e per
gestire la produzione di materiale bellico.
I documenti raccolti da Black permettono di escludere qualsiasi giustificazione
o attenuante per la complicità dell’IBM e dei suoi dirigenti con il regime
nazista. L’azienda non si è infatti limitata a fornire i macchinari, ma, con il
beneplacito della sede centrale di New York, ha dovuto personalizzare ogni
applicazione e fornire continuo supporto: «i tecnici inviavano schede campione
agli uffici del Reich finché le colonne dei dati risultavano accettabili,
proprio come farebbe oggi un progettista di software. Le schede perforate
potevano essere progettate, stampate e vendute da un’unica azienda: l’IBM. Le
macchine non venivano vendute, bensì noleggiate, e venivano regolarmente
sottoposte a migliorie e interventi di manutenzione da parte di un’unica
azienda: l’IBM. Le filiali addestravano gli ufficiali nazisti e i loro
rappresentanti in tutta l’Europa». Inoltre, le macchine dovevano essere
«controllate in loco circa una volta al mese, anche quando si trovavano
all’interno di un campo di concentramento o nelle sue vicinanze».
Per dodici anni, i funzionari dell’IBM New York «si recavano a Berlino o Ginevra
per monitorare le attività e assicurarsi che la casa madre non venisse esclusa
dai profitti o dalle opportunità commerciali offerte dal nazismo», e anche
«quando le leggi statunitensi dichiararono illegali simili contatti diretti, la
sede svizzera dell’IBM divenne il fulcro dell’intero processo e garantì
all’ufficio di New York un flusso continuo di informazioni e una facciata
rispettabile».
In dodici anni, nessuna delle – più che esplicite – dichiarazioni della
gerarchia nazista spinse l’IBM a pronunciare una sola parola che rischiasse di
limitare le attività – e i profitti – della sua filiale tedesca. Tantomeno a
ritirarsi dalla collaborazione con il Reich – cosa che avrebbe inferto un duro
colpo alla macchina nazista: al regime infatti sarebbero serviti anni per
rimpiazzare l’IBM nella produzione delle macchine e delle schede, con gravi
conseguenze sulla capacità di pianificare e condurre la guerra.
Il peso dei mezzi forniti dall’IBM nel compimento dello sterminio è ben
esemplificato dal confronto fra il destino degli ebrei in Olanda, «un bastione
dell’infrastruttura delle Hollerith», e in Francia, dove «i nazisti erano
costretti ad affidarsi ai loro rastrellamenti a casaccio» perché
l’infrastruttura di perforazione delle schede «era un disastro assoluto»: «dei
140.000 ebrei olandesi schedati, più di 107.000 furono deportati e di questi
102.000 furono uccisi – un tasso di mortalità di circa il settantatré per cento.
Dei circa 300.000-350.000 ebrei che, secondo le stime, vivevano in Francia in
entrambe le zone, ne furono deportati circa 85.000 e di questi ne sopravvissero
a stento 3000. Il tasso di mortalità in Francia fu di circa il venticinque per
cento».
Perché un’azienda come l’IBM ha scientemente fornito a un regime come quello
nazista i mezzi per «raggiungere un obiettivo mai realizzato in precedenza:
l’automazione della distruzione umana»? Condivisibili le considerazioni di Edwin
Black: «all’IBM non interessava il nazismo e tanto meno l’antisemitismo».
«Egocentrica e abbagliata dal suo stesso vortice di possibilità tecniche, l’IBM
agiva obbedendo a un’immorale filosofia aziendale:
se possiamo farlo, dobbiamo farlo». L’ennesima dimostrazione che i crimini
nazisti sono stati tutt’altro che una parentesi di irrazionalità ma, al
contrario, la moderna razionalità tecnica portata alle sue estreme
conseguenze[1].
Se il contributo dell’IBM era indispensabile per lo sforzo bellico nazista,
anche gli Alleati non potevano fare a meno della tecnologia dell’azienda: «in un
certo senso l’IBM era più grande della guerra». Il dipartimento della Guerra
statunitense discusse «con Watson di convertire la capacità produttiva dell’IBM
per metterla al servizio dell’impresa bellica». «Nel 1943 due terzi dell’intera
capacità di produzione dell’IBM erano stati spostati dalle tabulatrici alle
munizioni». Oltre alla produzione di armi, l’IBM intraprese diversi progetti di
ricerca per l’esercito americano, incredibilmente coordinati dallo stesso
funzionario responsabile delle operazioni dell’azienda nell’Europa nazista. E le
macchine Hollerith servirono per organizzare la mobilitazione di milioni di
soldati. Anche sul lato americano del fronte, gli introiti per l’IBM furono
enormi, mentre Watson ripuliva la propria immagine cogliendo «l’occasione di
diventare il principale patriota tra gli industriali del paese».
L’azienda sviluppò anche potenti unità mobili Hollerith. «Le Machine Record
Units (MRU) non erano altro che unità militari addestrate dall’IBM e
specializzate nello spiegamento delle attrezzature prodotte dall’IBM. Erano
anche progettate per contribuire alla cattura di qualsiasi Hollerith venisse
scoperta in Europa o nel teatro del Pacifico», dato che si trattava di «macchine
strategiche da salvaguardare e non da distruggere»: «la dotazione della Dehomag
era la chiave di un’agevole occupazione militare della Germania e di altri
territori dell’Asse».
Quando l’8 maggio 1945 la guerra finì in Europa, l’IBM «si precipitò a
recuperare le sue macchine e i suoi conti bancari nel territorio nemico». La
Dehomag era uscita «dagli anni del conflitto con danni relativamente esigui e,
in pratica, pronta a riprendere una normale attività. Le macchine erano state
recuperate, i profitti salvaguardati e il valore societario intatto. Di
conseguenza alla fine della guerra l’IBM di New York fu in grado di riprendersi
la sua filiale tedesca problematica ma fruttuosa, insieme con le sue macchine e
tutti i suoi proventi».
Quando i campi di concentramento erano stati abbandonati, le macchine erano
state trasferite in gran parte in località insospettabili, e gli archivi
distrutti per cancellare ogni traccia dei crimini di guerra. Questo contribuì a
rendere l’IBM e la sua filiale tedesca immuni da qualsiasi accusa. Macchine come
«quelle di Auschwitz, Buchenwald, Westerbork e del ghetto di Varsavia furono
semplicemente recuperate e riassorbite nell’elenco delle proprietà dell’IBM.
Sarebbero state impiegate un altro giorno, in un altro modo, per un altro
cliente. Non dovette fornire spiegazioni o risposte. Domande sulle Hollerith di
Hitler non furono mai nemmeno formulate». Ironicamente, però, nel processo di
Norimberga l’IBM un ruolo lo ebbe: per far fronte alla difficoltà di tradurre
tutti i documenti, i giudici fecero ricorso «a una procedura appena inventata
chiamata “traduzione simultanea”. Una società esaminò tutte le prove presentate
e le tradusse non solo per l’uso in tempo reale e per le procedure processuali,
ma anche per la posterità. Questa società era l’International Business Machines
Corporation». Watson offrì i servigi della società gratuitamente.
Come se tutto questo non bastasse, dalle macchine Hollerith e dagli operatori
della Dehomag dipendeva anche l’ufficio statunitense segreto di analisi
statistica incaricato di valutare gli effetti – anche morali – dei bombardamenti
alleati sulla Germania. Le analisi e le previsioni di questo ufficio fecero
parte del processo decisionale che portò a sganciare le due bombe atomiche su
Hiroshima e Nagasaki.
Com’è noto, «negli anni successivi l’IBM acquisì una statura mondiale ancor
maggiore e divenne un faro della causa del progresso. Adottò un motto aziendale:
“La società delle soluzioni”. Ovunque ci fosse un compito impossibile, l’IBM
avrebbe trovato la soluzione». Giustamente l’autore fa, tra le altre, questa
considerazione: «l’alba dell’era informatica coincise con il tramonto della
dignità umana».
[1] Su questi temi si consiglia la lettura di Zygmunt Bauman, Modernità e
Olocausto, Il Mulino, 2010, e di Johann Chapoutot, Nazismo e management. Liberi
di obbedire, Einaudi, 2021.
Riceviamo e diffondiamo queste utili righe informative sull’operazione “Diana”:
Cose utili da sapere (dalle carte dell’operazione “Diana”)
Nel fascicolo dell’operazione Diana sono riportate, in tutto o in parte, le
carte relative a diversi procedimenti penali. Uno di questi è quello relativo ad
un 270 bis nei confronti di diversi compagni e compagne e persone vicine al
nostro amico e compagno Stecco.
Quello che lo Stato ha messo in campo per arrestarlo è piuttosto impressionante.
Se teniamo presente che Stecco, quando ha levato le tende, aveva un definitivo
da scontare di 3 anni e 6 mesi, la sproporzione tra la sua condanna e
l’accanimento sbirresco per scovarlo rivela quanto lo Stato consideri
insopportabile che ci si possa sottrarre alle sue galere; e quanto il
trattamento riservato ad anarchiche e anarchici abbia, sia pure dentro un
avvitamento repressivo generale, un carattere indubbiamente selettivo.
Una conoscenza aggiornata delle tecniche impiegate dalla polizia politica contro
compagne e compagni passa molto spesso attraverso la lettura dei faldoni delle
indagini poliziesco-giudiziarie. Per questo è importante che le indicazioni che
ne emergono siano socializzate.
Nel farlo è sempre necessario tener presenti due aspetti: il primo, è che si
tratta di materiale fornito dal nemico; il secondo, è che la condivisione
(ovviamente selezionata e omettendo nomi e cognomi che appaiono nelle carte) di
tale materiale può involontariamente ingenerare il sentimento di una sorta di
onnipotenza del nemico, con il relativo corredo di paranoia e di scarsa fiducia
nei propri mezzi. È quindi bene ricordare che il dispiegamento di uomini e mezzi
per la ricerca di latitanti non è lo stesso che si riserva al
monitoraggio/indagine su altre circostanze che si danno nell’ambito dei
movimenti e delle lotte; che nonostante l’avanzamento poliziesco-tecnologico,
alcuni compagni ricercati hanno assaporato la libertà per mesi e anni; che ci
sono compagne e compagni tutt’ora uccel di bosco in Europa e nel mondo.
Sapere come si muove la controparte è necessario per adottare le contromisure
più opportune, imparando dagli errori e facendo tesoro delle esperienze.
Partiamo da alcuni dati quantitativi per fornire un’idea dell’estensione
dell’intervento poliziesco:
– Telecamere davanti a 6 abitazioni.
– Intercettazioni ambientali nella casa di una persona vicina a Stecco, di altre
persone connesse ad una persona particolarmente “attenzionata” e dello spazio
anarchico “El Tavan”.
– Intercettazioni telefoniche di oltre 40 persone: compagne e compagni, ma anche
amici e persone vicine.
– Sono state disposte intercettazioni ambientali “puntuali” in un caso in cui si
riteneva che una persona vicina a Stecco potesse incontrare una persona che
secondo la Digos avrebbe potuto fornirle delle informazioni su di lui.
– Una persona particolarmente “attenzionata” viene pedinata almeno una volta dai
servizi (l’intestazione della relazione di servizio è “Ministero degli interni”,
mentre tutte le altre sono di varie Questure).
– Analisi dei tabulati telefonici storici di 69 persone e di una cabina
telefonica (il tempo massimo per cui si può tornare indietro sono 72 mesi).
– Gps installati in 12 auto. Per alcune persone vicine a Stecco anche
l’intercettazione ambientale e video.
– “Attenzionate” le targhe di 311 auto.
– Richiesta di esibizione bancaria di 59 persone per verificare l’esistenza di
movimenti “sospetti” riconducibili ad eventuali appoggi economici alla
latitanza.
– Installazione di un dispositivo di tracciamento (nello specifico un
localizzatore GSM, dunque non satellitare ma cellulare, di tipo “Spora”, ovvero
un localizzatore miniaturizzato che comunica in tempo reale ad un telefono in
utilizzo alla polizia la cella agganciata via sms) su una bicicletta ritenuta in
uso da Stecco, localizzata tramite l’utilizzo di una telecamera in un paese nel
quale è stato ripreso durante il periodo di latitanza.
– In questo caso come nel caso della latitanza di un altro compagno, sono stati
ritrovati dei documenti falsificati le cui generalità sono risultate
appartenenti a persone realmente esistenti. Da questo è stato dato inizio ad una
serie di ricerche e interrogatori alle persone interessate, con l’intento di
confrontare spostamenti, pernottamenti in alberghi, controllo dei movimenti di
alcuni conti correnti (ed anche, per esempio, la “carta Decathlon” almeno in un
caso, sulla quale rimane una cronologia degli acquisti effettuati) indietro nel
tempo di diversi anni (più di 10).
– Mobilitata la polizia politica di Treviso, Padova, Verona, Brescia, Bergamo,
Milano, Trento, Trieste, Genova. A partire dal momento in cui hanno iniziato a
“stringere il cerchio”, la Digos di Trento ha ricevuto personale di rinforzo in
pianta stabile, di sicuro almeno un agente da Trieste.
Per un’analisi più qualitativa, invece, bisogna entrare nel merito delle
tecniche impiegate. Diciamo che le indagini si muovono su due binari: l’analisi
di un’enorme mole di dati telefonici e il controllo quasi costante di alcune
persone, con particolare attenzione alle loro assenze dai rispettivi luoghi di
residenza. Quando tali persone vengono di nuovo localizzate, si procede a
ricostruire il più possibile a ritroso i loro spostamenti. La raccolta dei dati
viene fatta con calma e in modo sistematico. Ecco alcuni esempi.
– Due compagni in viaggio in treno vengono pedinati da quattro agenti della
Digos, che si posizionano due in testa e due in coda al treno. In ognuna delle
stazioni intermedie sono poi presenti due poliziotti in borghese nel caso in cui
i compagni scendano dal treno; a tal fine è stata mobilitata polizia politica di
sette Province. Dalle carte sembra che questo pedinamento sia stato disposto
all’ultimo momento quando, la sera precedente, la polizia ha appreso in diretta
dai microfoni installati in casa delle persone vicina ad una delle due persone,
che questa sarebbe partita in treno il giorno dopo.
– Dalle carte emerge che gli sbirri, oltre a chiedere a RFI di visionare le
telecamere delle stazioni, hanno chiesto al gip di installare delle telecamere
apposta in stazione a Rovereto per poterle visionare direttamente in Questura.
Hanno anche potuto vedere quali biglietti sono stati emessi con ognuna delle
biglietterie automatiche, quali ricerche siano state effettuate anche senza
acquistare i biglietti e accedere alla telecamera che in alcuni casi sono
installate direttamente sulle macchinette. Queste ultime telecamere conservano i
video per massimo 10 giorni (nonostante la durata massima generale per
infrastrutture meritevoli di maggior tutela sia di 7 giorni secondo il
provvedimento del 2010 a firma del GDP, salvo specifiche richieste).
– Avendo osservato che una persona particolarmente “attenzionata” aveva cercato
gli orari dei treni per una determinata città con una biglietteria automatica,
nel momento in cui questa persona si è assentata da casa sono state visionate le
telecamere della stazione di quella città e di almeno altre quattro stazioni. È
probabile che siano stati analizzati i dati relativi a più stazioni, che si
trovano lungo tratte che portano alla città per la quale era stata effettuata la
ricerca. Infatti, dato che dopo 7 giorni i dati vengono cancellati, la Digos di
Trento si è recata in fretta e furia negli uffici di RFI Lombardia a Milano
perché ritenevano di aver individuato la persona in una stazione (che non era né
quella ricercata sulla macchinetta, né quelle vicine alla sua abitazione) in cui
era passata 7 giorni prima e c’era il rischio che le immagini venissero
sovrascritte prima che il download dei dati terminasse.
– Nel tentativo di ricostruire il percorso della persona, visionano i dati di un
esercizio commerciale esterno alla stazione in cui ritengono di averla
localizzata, oltre che le telecamere del treno su cui ritengono sia salita in
quella stazione. Dato che, tramite queste ultime, durante il viaggio la vedono
leggere l’ultimo numero di una rivista di compagni, uscito da poco, chiedono
l’esibizione bancaria anche per questa rivista.
– Per ricostruire a ritroso il percorso che l’ha portata a quella stazione, si
concentrano inizialmente sugli Intercity, dato che c’è l’obbligo di biglietto
nominativo. Avendo individuato dall’elenco fornito da FSI un acronimo che
ritengono sia riconducibile a quella persona, verificano dove sia stato emesso
il biglietto relativo. Non avendo più a disposizione i video della stazione di
acquisto a causa del decorso della durata di conservazione delle immagini,
cercano di ricostruire in che modo la persona sia arrivata nella stazione di
acquisto del biglietto.
Scartati gli Intercity, non avendo trovato nessun nominativo riconducibile, si
concentrano sui treni regionali e chiedono a FSI di comunicare per ognuno il
numero di biglietti emessi dalle biglietterie automatiche delle stazioni di
partenza, di quelle intermedie e di altre nelle vicinanze, in località
“abitualmente frequentate” da anarchici: 150 pagine di liste trasmesse dalle
Ferrovie. Controllano anche i traghetti e gli autobus. Dato che non trovano
nulla, chiedono gli stessi dati di prima sulle biglietterie di 69 ulteriori
stazioni e di eventuali multe emesse a bordo treno di 5 regionali.
Parallelamente, chiedono alle Ferrovie l’elenco di tutti i biglietti acquistati
con quell’acronimo nei mesi precedenti e di attivare un “alert di segnalazione
automatica” nel caso in cui dovesse essere utilizzato nuovamente per acquistare
dei biglietti.
– Per ricostruire gli spostamenti di certe auto, vengono visionate le telecamere
di vari caselli autostradali; una volta localizzata una macchina in un casello
ritenuto sospetto, controllano anche le telecamere stradali del Comune.
– Una volta individuata la zona in cui ritengono possa trovarsi Stecco, la Digos
chiede di installare 5 telecamere “video lunga distanza” con riconoscimento
facciale e 10 per “ripresa video interno/esterno” intorno a una data stazione,
comprese fermate urbane e extraurbane degli autobus. Non vi è traccia della
richiesta del PM al giudice, quindi non sappiamo se poi siano state installate o
meno. Analizzano anche le immagini delle telecamere presenti sugli autobus.
Chiedono di intercettare una persona e sua madre, nonché di avere accesso ai
loro tabulati, perché in passato avrebbero affittato in zona delle abitazioni a
dei compagni.
– Una volta arrestato Stecco, mostrano la sua foto e interrogano varia gente del
posto fino a quando non individuano la casa in cui avrebbe soggiornato.
Prelevano impronte digitali e DNA da tutto quello che sequestrano nella casa.
– Per quel che riguarda la ricerca tramite i telefoni, è da segnalare che non
vengono intercettati solo i numeri di telefono, ma anche i dispositivi in cui
alcune SIM sono state inserite, tramite numero IMEI. Questo non avviene per
tutti i numeri, ma solo per quelli ritenuti più “interessanti” e sembra che sia
sufficiente che la SIM venga inserita una sola volta (ed utilizzata). Inoltre,
come già sappiamo, l’intercettazione comporta anche la geolocalizzazione del
telefono, anche non smartphone (sebbene in questo caso si possa risalire solo
alle celle via via agganciate e non alla posizione esatta).
– Sotto il profilo dell’analisi del traffico telefonico, una volta stretto il
cerchio su una determinata zona, cercano nei tabulati già acquisiti eventuali
numeri di telefono di anarchici lì residenti (cioè se una delle 69 persone di
cui hanno i tabulati abbia chiamato qualcuno che stava lì nei 6 anni
precedenti), quindi tutte le chiamate fatte da Stecco nei 5 anni precedenti
(prima che levasse le tende) a numeri che si trovavano in quella zona.
– Cercano nei tabulati storici se ci sono delle chiamate ricevute da delle
cabine telefoniche. Quindi cercano se dalla cabina di cui hanno i tabulati
storici siano state fatte chiamate a numeri stranieri; una volta individuati,
vedono se questi numeri abbiano mai chiamato i numeri emersi dai tabulati
storici. Verificano inoltre se dalla cabina siano stati chiamati fissi o
cellulari in quattro regioni italiane.
– Analizzano i dati del traffico telefonico transitato per le celle di Tim,
Wind, Vodafone e Iliad di nove località in alcuni momenti in cui reputano che vi
possano essere stati contatti con un ipotetico telefono utilizzato da Stecco.
Dato che la mole è enorme, provano a incrociarli con i numeri intercettati e poi
con tutti numeri risultanti dalle utenze di cui hanno le tabulazioni. Questo
tipo di ricerca (incrocio dati estrapolati da determinate celle telefoniche con
numeri di telefono individuati tramite l’analisi di tabulati storici) viene
ripetuto altre volte. In generale, in più punti troviamo l’analisi di tabulati
storici, anche molto indietro nel tempo, e i tentativi di incrociare i numeri
così estratti con i dati che man mano vengono raccolti nel corso dell’indagine.
– Sebbene non ve ne sia poi traccia nelle intercettazioni, in più punti la Digos
chiede l’autorizzazione per scaricare le chat di Whatsapp e in un caso anche di
Telegram.
– Per quel che riguarda le ricerche telematiche, è da segnalare il tentativo di
installare uno spyware (un virus informatico che permette di ottenere completo
accesso al dispositivo “infettato”) “mediante la procedura 1 click” che permette
di rendere lo smartphone di una persona vicina a Stecco un microfono per
intercettazione ambientale (definizione tecnica: “autorizzare l’intercettazione
telematica attiva con eventuale intercettazione tra presenti attraverso
l’attivazione di un microfono sul terminale mobile di tipo Android senza root”).
Nella pratica, a questa persona viene mandato un sms che contiene un link, che
se cliccato avrebbe portato all’installazione del virus. Dato che la persona non
clicca sul link, avendo individuato il codice pin del suo telefono mediante una
telecamera ad alta risoluzione installata all’interno dell’auto (la quale ha
permesso di risalire alla lettura del codice mentre questo veniva digitato sul
telefono), la Digos viene autorizzata ad installare direttamente il virus una
volta ottenuto il temporaneo possesso del telefono. Questo non sembra sia
avvenuto perché nel frattempo le indagini si sono orientate in un’altra
direzione.
– Per quel che riguarda le email, sembra che solo libero.it abbia fornito i dati
relativi agli indirizzi email (file di Log compresi), mentre altri provider
sembra non abbiano nemmeno risposto alle richieste (o quantomeno non c’è nessuna
menzione al riguardo).
– Oltre alle email, cercano di ottenere anche tutti i dati relativi a servizi di
Microsoft Account e Google, compresi gli acquisti effettuati tramite queste
piattaforme.
A quest’ultimo proposito è interessante segnalare l’analisi che viene fatta
dell’ID GAIA (Google Account and Id Administration) per il quale un numero
ritenuto in possesso di Stecco riceve un sms. Praticamente, quando si cerca di
entrare in una casella di posta elettronica Gmail da un dispositivo diverso da
quello utilizzato normalmente, Google chiede una verifica ulteriore alla
password, inviando un sms con un codice numerico ad un numero collegato
all’indirizzo email. Dato che un numero collegato a Stecco riceve questo codice,
cercano di recuperare i dati relativi al relativo account Google. Per farlo
hanno inserito il numero di telefono nella pagina di accesso a Gmail e nella
pagina in cui si chiede la password hanno cliccato col tasto destro e
selezionato “Visualizza sorgente pagina”. Si è quindi aperta una finestra che
contiene il codice HTML, hanno digitato CTRL+F (cerca) e nella casella di
ricerca dato il comando per ottenere le 21 cifre che costituiscono l’ID GAIA,
cioè ,[\” . Per sapere a chi fosse associato questo ID, hanno usato uno dei
servizi di Google, nello specifico Google maps (dalla descrizione sembra che
possano usare qualsiasi servizio offerto da Google, ma probabilmente Google Maps
è quello in cui è più comune che vengano lasciate delle recensioni o comunque
dei contributi).
In pratica, nella barra degli indirizzi hanno digitato
https://google.com/maps/contrib/ID GAIA, per visualizzare tutte le recensioni
lasciate tramite quell’account Google e individuare quindi gli indirizzi email
collegati. Hanno quindi chiesto a Google tutti i dati di registrazione relativi
alle email, i numeri di telefono, la data in cui sono stati associati agli
indirizzi email e le anagrafiche relativi all’ID GAIA e tutti i file di Log di
ogni connessione a tale account. Non sembra abbiano ricevuto risposta.
Per provare a fare una sintesi comprensibile, ad ogni ID GAIA possono essere
associati più indirizzi email e più numeri di telefono di riferimento, una volta
che la polizia conosce uno di questi dati può provare a risalire agli altri.
– In seguito ad un’intercettazione ambientale in cui viene nominato un indirizzo
email, chiedono a Microsoft l’anagrafica, i dati fatturazione dell’account nel
caso in cui siano stati effettuati acquisti su Microsoft Online Store, i Log
delle connessioni IP, tutti gli indirizzi email e i numeri di telefono associati
a tale indirizzo e tutti i soggetti che si sono registrati con un nome collegato
a quell’email. Inoltre chiedono al provider subito.it il tabulato dei file di
Log e degli indirizzi IP utilizzati da questa email.
– In un altro fascicolo, legato alla ricerca di un altro compagno latitante,
abbiamo trovato questo passaggio relativo all’intercettazione telematica attiva
e passiva di un computer: “Come noto, alla luce delle attuali tecnologie risulta
assai difficoltoso effettuare un’infezione di un pc, in quanto sono numerose le
variabili che determinano la riuscita o meno del servizio (sistema operativo,
antivirus, scheda di rete, etc.). Pertanto, come da prassi, è indispensabile
effettuare in un primo momento uno studio di fattibilità per stabilire il tipo
di sistema operativo usato e gli eventuali antivirus attivi attraverso
un’intercettazione passiva, per poi procedere all’intercettazione telematica
attiva. Le modalità per procedere all’inoculamento dello spyware verranno
successivamente concordate con i tecnici delle ditta incaricata
dell’inoculazione del virus. Da attività di osservazione, si è notato che […]
lascia talvolta il computer nel bagagliaio della propria autovettura […] quando
si reca al lavoro in […]. Previa autorizzazione di codesta A.g., il tecnico
provvederebbe ad installare un file a computer spento (ciò è fattibile solo
lasciando inserita una chiavetta USB o qualunque altro supporto fisico di
memoria nel pc), file che all’avvio verrà eseguito dal computer in automatico e
provvederà ad installare altri piccoli programmi malevoli, necessari per
svolgere lo studio dell’ambiente software presente sul dispositivo, per poi
ottimizzare lo spyware che permetterà l’intercettazione telematica richiesta”.
– Dopo aver sequestrato una chiavetta Tails, cercano la password con il
programma “bruteforce-luks”. Nella comunicazione puntualizzano che non è
possibile stimare i tempi di questa operazione.
Significativamente, la sola delle 11 cartelle che formano l’indagine “Diana” a
risultare vuota è quella con la dicitura: “Spese”. Ci sono comunque alcuni
preventivi per il noleggio dei dispositivi per le intercettazioni, da cui tra
l’altro emerge che quelli di localizzazione spesso offrono anche “l’opzione
intercettazione”, quindi si tratta di un unico oggetto polivalente. Inoltre
sembra che dal Covid siano possibili anche delle postazioni di ascolto da casa
per il telelavoro.
L’apertura di un fascicolo presso il Ministero degli Interni e alcune
annotazioni che ne riportano l’intestazione suggeriscono il coinvolgimento dei
servizi segreti.
Ultimo ma non meno importante: contemporaneamente alle indagini per la ricerca
di Stecco era attiva almeno un’altra indagine per 270 bis in cui parte degli
indagati sono gli stessi del 270 bis relativo a Stecco. Giusto per dare un’idea
della pervasività e della quotidianità del controllo a cui alcuni compagni sono
sottoposti.
Utile sapere che gli sbirri possono impiegare anche settimane a visionare le
telecamere di stazioni, treni, caselli autostradali, autobus, alla ricerca di
immagini che suggeriscano percorsi e destinazioni. Provando a farlo anche
andando a ritroso rispetto a un viaggio che viene ritenuto sospetto,
ricostruendo buona parte di un percorso a partire da quando questo termina,
cercando le coincidenze tra momenti di “sparizione”, giorni, orari, mezzi
utilizzati.
Ognuno/a farà le sue valutazioni.
Che si dia ancora più incisività alla critica pratica nei confronti del mondo
della video sorveglianza e del controllo digitale, come campo di intervento
irrinunciabile perché siano ancora possibili sogni e progetti di sovversione e
di libertà.
Che la fortuna arrida a chi è uccel di bosco e a chi, nella lotta per la
libertà, sfida ogni identificazione.
Qui il pdf: Cose utili da sapere (Diana)
Il 24 marzo 2025 riapre il CPR di Corso Brunelleschi dopo 2 anni di inutilizzo a
seguito delle coraggiose rivolte che nel marzo 2023 ne determinarono la
chiusura. Ad Harraga,…
Mentre lo Stato si impegna – a suon di tortura e manganelli – a tenere in-piedi
il lager deportativo di Gradisca d’Isonzo; tra le sue celle e in mezzo alle…
Nella notte tra l’1 e il 2 maggio, nel CPR di Brindisi-Restinco, muore Abel
Okubor, cittadino nigeriano. Le cause della sua morte restano incerte, ma i suoi
compagni di prigionia…
Riceviamo e diffondiamo questo bell’invito a “vivere nella verità”:
Le Commedie di Maggio
Riflessioni sul conflitto simulato
«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie
mani»
F. De André
L’abbaglio
Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città
d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del
conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua
riproposizione.
Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro
prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con
grande carica estetica e abbaglia le telecamere.
Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato
seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e
vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche
narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.
Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato
che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non
apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con
tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro»
contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati
(parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice
citazione). 1
Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole
piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui
fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca
la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi
storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato
repressivo più debole, ad oggi, non possiamo più permetterci.
Queste righe non hanno lo scopo di indicare un modo giusto di fare la lotta, né
tracciare una strada da percorrere. Al contrario, sono un invito a valutare
seriamente l’abolizione della nostra normalità e la rottura degli argini
militanti, per tuffarsi finalmente nell’ignoto, lì dove può nascere
l’impensabile.
Conflitto simulato, perché proprio a noi?
Partecipando a giornate di lotta europee, emerge subito un dato evidente: il
conflitto a volte c’è, a volte non c’è, è più intenso, meno intenso ma di certo
gli unici a tenerlo sotto controllo sono gli sbirri. Non ci sono, né tantomeno
potrebbero esserci, avanguardie organizzate che sovrintendono e trattano tempi e
modi del conflitto di piazza.
Ma allora perché proprio a noi? Porsi questa domanda è ambizioso e circoscrivere
il discorso obbliga a sorvolare discorsi importanti, come il modo in cui
l’autorità ha gestito l’ordine pubblico dagli anni ‘70 ad oggi attraverso l’uso
della polizia politica e il consequenziale protagonismo storico che la sinistra
ha avuto nella repressione del fermento insurrezionale di quegli anni.
Consapevoli di mancare qualche pezzo di storia militante la traiettoria più
immediata e utile ai fini del testo è quella che ci porta a individuare nelle
“Tute bianche” la genesi, o più probabilmente il perfezionamento, di questa
modalità.
Quella delle Tute bianche fu un’esperienza che nacque dall’area più morbida e
riformista dei centri sociali (principalmente nel Nord – NordEst) e che ebbe, o
almeno provò ad avere, la sua più importante espressione politica nelle giornate
di Genova 2001.
Un perfetto inquadramento lo troviamo in un articolo di Repubblica del 14 luglio
2001, in cui un grande simpatizzante del movimento, Luigi Manconi, ex portavoce
dei Verdi, elogia la capacità pacificatoria delle Tute bianche, ecco due
passaggi iconici:
«…da un decennio, in Italia, non si verificano scontri di piazza paragonabili,
per intensità di violenza, a quelli degli anni ’70. Ci sono, piuttosto,
rappresentazioni di battaglie di strada e scontri simulati. Spesso, queste
performance belliche – grazie alla raffigurazione fotografica o televisiva –
sono apparse come vere. Ma, a parte rare eccezioni, si è trattato esclusivamente
di rappresentazioni. Posso dirlo perché ho partecipato ad alcune di esse.»
E ancora:
«(…) L’attività delle “tute bianche” è, dunque, letteralmente, un esercizio
sportivo, che depotenziа e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran parte di
essa. Certo, questo presuppone un’idea della violenza di piazza come una sorta
di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è proprio in questi
termini che viene trattata da numerosi responsabili dell’ordine pubblico e da
molti leader di movimento.»
Successivamente Manconi racconta una riunione svoltasi in una prefettura del
Nord-Est dove veniva contrattato con le autorità un punto, segnato da un numero
civico, in cui si sarebbe poi svolto uno scontro totalmente simulato con la
polizia il quale però apparve veritiero nello schermo televisivo.
Quello che poi saranno le giornate del G8 purtroppo è impossibile da raccontare
ma a questo testo interessa solo un pezzo di questa storia.
Dopo roboanti minacce di guerra le Tute bianche arrivano a Genova pensando di
portarsi a casa la giornata proprio nel modo profetizzato da Manconi.
La mattina di venerdì 20 luglio non manca nulla: tute, scudi di plexiglas,
caschi e i leader in testa a guidare il “Gruppo di contatto”; un feroce servizio
d’ordine che disarma e aggredisce i “facinorosi”; la violazione della zona rossa
ben organizzata e concordata con la controparte. Insomma tutto è pronto… ma poi
il conflitto arriva sul serio.
A Genova migliaia di ribelli, disinteressati allo scontro diretto con la polizia
scelgono di disertare l’appuntamento mediatico e, lontano dalla trappola
militare della zona rossa, rovesciano interi quartieri, sollevando al cielo
l’asfalto e ciò che ci sta sopra; il fuoco non risparmia nulla e arriva fino al
carcere di Marassi. Per alcune ore la libertà travolge impetuosa alcune aree
della città.
La polizia, presa alla sprovvista e incapace tatticamente di far fronte a questa
orda di insorti, è sotto scacco.
L’idea di uno scontro simulato, militarmente tutelato da una manciata di
manifestanti organizzati, non può assolutamente soddisfare i migliaia di furiosi
presenti a Genova e i primi a rendersene conto sono proprio gli sbirri, i quali
non hanno più nessuna intenzione di andare avanti con la sceneggiata concordata
con i rappresentanti. Gli ultimi ad accorgersene, in colpevole ritardo, è il
gruppo di contatto delle Tute bianche che in via Tolemaide viene travolto da una
spietata carica dei carabinieri che li costringe alla fuga.
I restanti 15 mila manifestanti, mozzati della loro testa, si alzano dalla
poltrona del pubblico in cui erano stati costretti e ingaggiano una disperata
battaglia nelle vie adiacenti, scontrandosi con un dispositivo poliziesco
omicida che lancia blindati sulla folla, usa armi fuori ordinanza e infine,
messa alle strette dalla tenacia dei manifestanti, spara, uccidendo Carlo
Giuliani, 23 anni.
La reazione immediata, poi in parte ritrattata, di una buona parte della società
civile, nonché dei referenti delle Tute Bianche, sarà quella di gridare agli
“infiltrati” accordati con la polizia per rovinare la manifestazione e prendendo
le distanze dai manifestanti come Carlo Giuliani, il quale «…non era una tuta
bianca, bensì un punkabbestia, uno squatter, uno degli “utili idioti” contro i
quali le tute bianche avevano cercato di mettere in guardia il movimento.» Come
riportarono tutti i quotidiani il giorno dopo.
Dirà Oreste Scalzone, ex Autonomia Operaia:
«Come si fa a fare per settimane una “guerriglia mediatica” dicendo “Violeremo
la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche
salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare,
veniamo con le pistole ad acqua…” e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le
pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno
riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i
sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto?… Come si fa a dare dei
teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e
poi gestire tutti assieme la morte di Carlo Giuliani? Carlo chi era?»
Dopo le giornate di Genova si conclude il progetto delle Tute Bianche e rinasce,
poco dopo, in quello della “Disobbedienza” il quale terminerà a sua volta nel
2004.
Una precisa area politica raccoglie le pratiche di questo progetto e le porta
avanti immutate, rendendole la norma, o peggio l’abitudine, nelle piazze di
tutta Italia.
«Solo una cieca ottusità può pensare di razionalizzare secondo criteri di
moralità o utilità politica il gesto gratuito e passionale della distruzione,
inibendo la sfrenatezza del piacere che è invece l’unica garanzia di autenticità
e di senso di una rivolta.»2
Lo spettacolo
I due modi di vedere la lotta proposti negli episodi genovesi si basano sulla
contrapposizione tra la “Spettacolarizzazione del rifiuto e il rifiuto della
spettacolarizzazione”3 che trovano nelle “Commedie di Maggio” delle iconiche
riproduzioni in miniatura.
-La spettacolarizzazione del rifiuto:
Il copione è più o meno sempre lo stesso: un gruppo di contatto, inventandosi
una zona proibita da raggiungere, si lancia a peso morto sulla polizia per
essere manganellato a favore di telecamera finché un Capo macho non si butta in
mezzo insieme alla DIGOS e, tra urla scimmiesche e cenni di intesa, ognuno
spinge indietro “i suoi”; una volta portata a casa la credibilità rivoluzionaria
grazie agli scontri si conclude la pantomima sui giornali, romanzando la
giornata e lamentandosi delle sorprendenti violenze della polizia e della
sospensione dello Stato di diritto.
Il passo successivo e tutto contemporaneo è poi l’ossessiva esaltazione estetica
delle immagini degli scontri, accompagnate da musiche di sottofondo e slogan
ricondivise sui social, per il giubilo della polizia, proprio dalle stesse
persone che vi hanno partecipato.
È tragicomico fermarsi un attimo a pensare che tutto questo, senza una
telecamera a riprendere la scena, sarebbe completamente inutile (più di quanto
già lo sia); ciò che succede in piazza, le persone presenti o l’obiettivo
dichiarato, non hanno nessun valore reale, il fine ultimo è unicamente quello di
raccontare sé stessi, firmare la giornata e apparire sui social, in una spirale
di autocompiacimento senza fine.
Intere comunità politiche fondano le loro battaglie sulla convinzione di poter
utilizzare lo strumento mediatico a proprio vantaggio, venendo poi tragicamente
recuperati e fagocitati dallo spettacolo stesso o quando il nemico contrattacca
davvero.
Dietro questa convinzione ci sono da un lato consapevoli opportunistx
elettorali, dall’altro c’è il tentativo di qualche illusx di incasellare il
gesto della rivolta come una piccola parte di un grande puzzle che ci porterà
tuttx, un giorno, tramite compromessi e confronti democratici, ad una poco
chiara “presa del potere” e che finisce poi, nel migliore dei casi, ad essere
l’accettazione di un capitalismo un po’ più democratico, un po’ più umano (che
mai sarà).
Infine fa riflettere quanto questi scontri alla giornata siano prerogativa unica
di persone bianche e privilegiate; per qualcunx invece lo scontro con la
controparte non è solo la totalità di un programma ma la diretta conseguenza di
una postura nel mondo, nella maggior parte dei casi nemmeno voluta ma obbligata
dal fatto di appartenere ad una minoranza minacciata e oppressa.
– Il rifiuto della spettacolarizzazione:
Basterebbe citare, tra i tumulti più recenti, quelli per Alfredo Cospito o per
Ramy, le rivolte contro il lockdown, le eccedenze durante i cortei per la
Palestina, le passeggiate rumorose dopo i femminicidi o le rivolte dentro le
carceri e i CPR, dove è importante anche notare che la polizia ha tutt’altro
approccio all’ordine pubblico, molto più violento e senza compromessi.
Alcuni episodi però parlano più di mille giornate e vanno riportati:
Luglio 2017, due persone fanno sesso sul balcone mentre sotto le strade di
Amburgo vengono date alle fiamme dalle proteste contro il G20.
Ottobre 2019, Santiago De Chile, sono le giornate dell’Insurrezione Cilena,
intorno alla carcassa di un autobus incendiato delle persone si radunano per
ballare al ritmo dei colpi sul metallo, qualcuno finge di guidarlo, qualcuno
suona l’arpa.
Giugno 2020, una manifestante con la maglietta “Black Lives Matter” twerka verso
la polizia durante le proteste dopo la morte di George Floyd.
Non serve comunque cercare esempi in momenti di sommossa generale né tantomeno
uscire dai nostri confini per rendere ancora più chiara l’idea:
Una ragazza sale sul cofano di una Tesla e ci piscia sopra durante una
passeggiata rumorosa, qualcunx riscopre la sua chitarra o la gamba di un
manichino come clava contro la celere, qualcun altrx gioca ad “Un, due, tre,
Stella!” o improvvisa un karaoke circondatx dalla celere.
Il filo che lega tra loro queste vicende è l’interruzione della normalità a
favore di un capovolgimento del significato degli oggetti e dei luoghi.
Il fine di una rivolta, che sia il calcio in bocca ad un maschio violento o i
tre giorni di un rave party, è la sospensione del tempo e l’apertura di squarci
nel quotidiano dentro la quale sperimentare gioiosamente avventure di libertà
reale e collettiva.
Chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di sovversione del
quotidiano conosce la bellezza di riappropriarsi di una parte di ciò che ti
viene sottratto ogni giorno ma soprattutto sa perfettamente che il gesto della
rivolta non ha bisogno di nessuna legittimazione o argomentazione, è giusto
perché è sempre un atto d’amore spontaneo verso sé stessi e gli altri.
Ciò che ci divide dalla possibilità di vivere un gesto rivoluzionario è la
difficoltà di scorgerlo quando se ne presenta l’occasione, per il semplice fatto
che l’atto rivoluzionario è per definizione qualcosa che nessuno conosce ma che
va inventato da zero sul momento.
Agire, bucare questo Velo di Maya, questo muro invisibile che divide noi
dall’azione, richiede di coltivare una tensione al pensiero rivoluzionario
capace di generare un’intuizione, un’idea; che sia quella di infrangere una
vetrina o comunicare un pensiero profondo ad una persona in un momento speciale,
in entrambi i casi il peso enorme dei dubbi, delle paure e delle abitudini
possono facilmente oscurare il rapidissimo lampo dell’intuizione o appesantirlo
fino a spegnerlo.
È desolante che proprio chi cammina al nostro fianco ed è più intimo a questi
pensieri, non dia spazio a tutto questo ma anzi si adoperi attivamente per
gettare acqua sul fuoco. Lx “Compagnx” che hanno appreso la militanza come un
mestiere, annegatx dentro le ideologie e le strutture verticali, per lx qualx il
momento di esprimere i desideri non è mai adesso ma domani, nell’avvenire
rivoluzionario che loro stanno costruendo per noi.
Si finisce dunque per avere piazze in cui, invece di trovare alleatx, trovi
qualcunx che, in perfetto stile “Società dello spettacolo”, mette in scena i
tuoi sentimenti al posto tuo, come nel mondo di tutti i giorni; tu rimani in
disparte a guardare, a consumare il prodotto e se mai ti venisse in mente di
voler anche tu indossare quel casco, armare la tua ira, allora devi prima
scalare la gerarchia militante o quantomeno chiedere il permesso.
Domandiamoci perché le nostre piazze, anche le più rabbiose a seguito di tragici
eventi, si siano ridotte a veri e propri concerti itineranti per la città, nelle
mani di qualche microfonatx che ci traghetta nella miserabile esperienza di
urlare la nostra rabbia a ritmo di musica e cori esplosivi, circondatx da un
cordone di polizia che ci tutela dal mondo reale.
Alcuni collettivi, nati dal furore di rivendicazioni incandescenti, si sono
ridotti ad un team di organizzatori di viaggi turistici delle ricorrenza di
lotta, con le istanze politiche ridotte a badge di riconoscimento e finendo poi,
a volte, ad abbassarsi al ruolo di guardie quando qualcunx ha l’ardore di
arrabbiarsi davvero invece di godersi il ballo di gruppo.
Non c’è da stupirsi poi se, durante i momenti di sommossa questx “Grandi
compagnx” restino a braccia conserte mentre bruciano le camionette della
Gendarmerie a Saint Soline o sprofondino nel divano quando esplode la rabbia per
un ragazzo ucciso dai carabinieri.
È proprio questo quello che dovrebbe spaventarci di più, la messa a nudo davanti
alla realtà.
La prova concreta di non saper affrontare quello che hai scimmiottato per anni,
e che ti porterà, inesorabilmente, a mancare il tuo appuntamento con
l’Insurrezione, a non saperla riconoscere e soprattutto a non sapere come
vivertela, perché ti sei dimeticatx pure cosa desideravi.
La lotta anticapitalista non si esaurisce nella giornata di mobilitazione,
nell’appuntamento col nemico, ma nella diffusione di comportamenti sovversivi,
nella condivisione di spazi di libertà illegale collettivi, dove mettersi alla
prova davvero in prima persona, e dove, a volte, poter anche sbagliare ma con la
dignità di aver compiuto qualcosa di tuo.
Questo può accadere solo tenendo accesa la tensione verso un agire sovversivo,
capire cosa significa per noi, riconoscerlo nei gesti altrui e sceglierlo tutti
i giorni, dandogli spazio vitale.
Imparare a prendersi cura di se stessx e di chi ci sta vicino, decostruirsi,
boicottare la linea, perché “Il conflitto non avanza linearmente, per linee di
classe o soggetti affinitari, bensì si diffonde per risonanza, per cerchi di
intensità, attraverso la polarizzazione dei vissuti comuni.”4
«Ai contestatori dell’Impero che insegnano alle persone a lottare per farsi
concedere dei “diritti”, i nemici del totalitarismo capitalista ribattono che
non ci sono diritti da elemosinare, ma la totalità della vita da conquistare. Ai
primi che organizzano scontri e conflitti simbolici funzionali al mercato della
rappresentazione politica, i secondi controbattono la necessità di rivolte
autentiche e spontanee capaci di creare momenti di libertà immediati, effimere
schegge spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario
capitalista.» 5
Vivere nella verità
L’utilizzo del conflitto simulato, con tutte le sue aberrazioni al seguito, è
figlio di un’epoca dove saper vendere la rappresentazione spettacolare di sé
stessx è la chiave del successo.
La porta d’emergenza per uscire da questo teatro è quella di riconquistare una
forza estetica molto più attraente, quella della verità.
Mentire su ciò che succede in piazza, esagerare nei comunicati trionfalistici
tutti uguali, decuplicare i numeri delle manifestazioni, ripetere come mantra
slogan fiammeggianti in piazze finte e costruite; chi pensate di prendere in
giro?
A rimanere imbrigliatx in questa rete di bugie sono lx numerosx poser,
opportunistx e abusers, animatorx di quelle relazioni sociali neutralizzanti che
intossicano gli spazi di movimento.
A non cadere nella trappola sono invece lx migliaia di possibili giovani ribelli
che a ogni spazio non concesso, ad ogni bugia, abbandonano schifatx e delusx la
lotta collettiva per chiudersi nell’individualismo ed egoismo capitalista.
Invece di sacrificare energie nelle autonarrazioni teatrali è urgente tornare ad
agire azione diretta, tornare a rendere le strade cornici di rivolte autentiche,
capaci di attrarre almeno una parte di quella tensione che, costretta nel
sottosuolo, trema sempre più forte e irrequieta. Sarà stupefacente riscoprire la
potenza sovversiva del dilagare della rabbia di moltitudini furiose, per ora
ancora sonnecchianti e represse.
Con la definitiva approvazione del dl Sicurezza, sotto il cielo più nero degli
ultimi ottant’anni, è ora di riscoprire la nostra più feroce voglia di vivere e
stare insieme, stringendosi a chi, all’ombra dello show, alleva il dubbio, si
prende cura della verità e, in silenzio, affila il coltello.
Il più grande pensiero di solidarietà e affetto a Maja e Paolo in sciopero della
fame per le brutali condizioni di vita nelle carceri, contro tutte le galere.
GIUGNO 2025
-Teppistx, incivili, guastafeste
1
https://www.romatoday.it/politica/intervista-luca-blasi-scontri-no-decreto-sicurezza.html
2 Detour – la canaglia a Genova:
https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/
3 Detour – la canaglia a Genova:
https://www.rivoluzioneanarchica.it/detour-la-canaglia-a-genova-2/#/
4 Guy Debord. La società dello spettacolo. Parigi, 1967
5 Marcello Tarì, Il Ghiaccio era sottile – per una storia della Autonomia,
Derive e Approdi, 2012, Roma
L’11 Marzo viene portata in Commissione Europea la nuova proposta per un quadro
giuridico sui rimpatri applicabile dal giugno 2026. Un vero e proprio
regolamento, che prevede diverse iniziative su…