Un quartiere sotto sequestro, e poi cos’altro ci aspetta?
di CPA FI-SUD
Il 3 e 4 Febbraio Firenze ha subito l’oltraggio di dover ospitare un convegno
sionista. Relatori oltre a Marco Carrai, console “onorario” dell’entità
sionista, anche due ufficiali dell’esercito israeliano, due criminali di guerra
che nonostante il loro contributo all’esecuzione di un genocidio hanno potuto
essere presenti grazie all’impunità garantita dalle nostre istituzioni ai
rappresentanti dello stato sionista. Nonostante il poco tempo a disposizione per
poter organizzare una mobilitazione adeguata che mettesse in discussione
l’appuntamento, numerosi solidali si sono ritrovati non solo per contestare il
convegno e le varie posizioni di complicità, a partire da quella dell’università
di Firenze, ma anche per riaffermare la solidarietà verso la Resistenza
Palestinese.
Detto questo, ci teniamo a sottolineare un fatto che in pochi stanno
evidenziando: per garantire un ignobile convegno, è stato messo sotto sequestro
un quartiere. Tutto bloccato, nessuno poteva transitare, nemmeno a piedi, per
via de Benci, piazza s. Croce compresa. Una zona rossa insomma, che a vedere
bene non è una novità a Firenze, città in cui l’ignobile e falsa equiparazione
tra antisionismo ed antisemitismo vede il divieto sistematico ai cortei di
solidarietà per la Palestina a transitare per tutto un quadrante di centro
storico, con la scusa della vicinanza della Sinagoga ritenuta “obiettivo
sensibile”.
Le tanto decantate zone rosse, strumento rivendicato tanto dal centrodestra
quanto dal centrosinistra come dispositivo a tutela della “sicurezza” delle
persone, sono state quindi realizzate senza problemi.
La zona rossa come strumento per “l’ordine pubblico”. La zona rossa che deve
diventare la normalità. Riteniamo necessario fare in modo che quanto successo il
3 Febbraio sia da insegnamento per chi vuole praticare il conflitto sociale
contro lo stato di cose presenti. Riteniamo centrale in questo momento
identificare le zone rosse come uno strumento di quella repressione che tra
strumenti amministrativi e ddl sicurezza sta restringendo sempre di più lo
spazio di agibilità per lavoratori e lavoratrici di rivendicare una società
diversa, che veda soddisfatte le loro necessità e non quelle del capitale.
Invitiamo Firenze tutta a scendere in piazza con noi già oggi Sabato 8 febbraio,
nel corteo lanciato da Firenze Antifascista per le 15 in piazza Pier Vettori,
per dire no alla repressione, al fascismo e al collaborazionismo con l’entità
sionista da parte di chi ci governa.
FIRENZE RIFIUTA ZONE ROSSE E REPRESSIONE!
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Tag - appello
Riceviamo e pubblichiamo, l’appello dal blog della campagna Vogliamo rompere un
tabù.
Vogliamo rompere un tabù, rompere il silenzio sul fatto che lo Stato italiano
tiene in carcere da quarant’anni 16 militanti delle Brigate Rosse e ne ha
sottoposti altri tre, da oltre 20 anni, al regime dell’articolo 41 bis
dell’ordinamento penitenziario.
Il regime speciale dell’art.41 bis è finalizzato all’annientamento psico-fisico
del detenuto, che viene tenuto in isolamento quasi totale: ventidue ore al
giorno in isolamento, due ore d’aria al giorno, una breve visita mensile per i
familiari dietro una parete di vetro, nessun libro o giornale dall’esterno del
carcere… Questo regime carcerario è uno dei più intollerabili in Europa. Ha due
obiettivi: tagliare ogni comunicazione con il mondo esterno e costringere i
detenuti a diventare “pentiti”, collaboratori di giustizia.
Alcuni opinionisti sostengono che questi prigionieri preferiscono rimanere in
carcere, rifiutando ostinatamente di beneficiare di misure alternative alla
detenzione o della liberazione condizionale. Ma queste affermazioni non
menzionano il fatto che, queste misure alternative, sono soggette ad una logica
di scambio: si concedono solo in cambio della messa in discussione del proprio
passato politico, di un’autocritica formale, che verrà amplificata dai media; si
richiede loro quindi di rinnegare, in modo puro e semplice, la propria storia
politica e il proprio passato rivoluzionario.
Non si tratta di una questione astratta: a questi militanti si chiede di
rinunciare a un’identità che per loro è la scelta di una vita, il che spiega la
loro incredibile resistenza a quarant’anni di privazione della libertà; si
chiede loro di rinunciare a convinzioni che corrispondono a correnti di pensiero
profondamente radicate nella storia universale, in più di un secolo di lotta di
classe, una lotta che è stata internazionale. Che si condividano o meno queste
idee, è questa lotta-identità che è in gioco e nient’altro.
Ma mentre lo Stato si vanta per la sua fermezza nel perseguire l’annientamento
dei prigionieri, alcuni pretendono di ridurre la loro lotta a una semplice
questione di principio che i prigionieri difenderebbero con eccessiva
ostinazione. Come se alla base della loro resistenza non ci fosse una profonda
coerenza, il rifiuto di mercanteggiare e mercificare il loro pensiero politico.
Ma per capire meglio perché è importante rompere questo tabù, dobbiamo anche
chiederci quali sono le ragioni fondamentali per cui lo Stato italiano ancora
oggi, mantiene una feroce linea di condotta nei loro confronti, perché persiste
in questa linea d’azione implacabile.
Stiamo vivendo una fase storica caratterizzata dalla crescita sfrenata delle
disuguaglianze, da un susseguirsi di crisi e da una forte intensificazione del
confronto tra gli Stati che dominano il mondo. Un confronto che sta diventando
sempre più pericoloso e globalizzato. In questo contesto, la crisi del sistema
politico si sta intensificando, come in altre fasi storiche, come negli anni tra
le due guerre o durante le guerre coloniali. Queste tensioni rendono la
democrazia rappresentativa sempre più “inadatta” alla gestione delle crisi,
tanto che le classi dirigenti sembrano ogni giorno più inclini a cercare
soluzioni autoritarie e a liquidare le conquiste sociali.
Di questa tendenza ne sono prova,per esempio, la violenta repressione da parte
dello Stato francese contro i Gilets jaunes o durante le manifestazioni contro
la riforma delle pensioni, rifiutata dalla stragrande maggioranza della
popolazione; ma anche la repressione in Germania e in Francia del movimento
ambientalista, le leggi antisciopero nel Regno Unito, nonché le misure senza
precedenti contro i migranti. In Italia si è assistito a una massiccia
criminalizzazione dei movimenti sociali: attacchi ai sindacati, agli studenti, a
coloro che lottano per il diritto alla casa, al movimento dei disoccupati, alle
ONG che cercano di difendere la vita degli immigrati e agli stessi immigrati,
privati della protezione preventiva di pregresse tutele e attaccati
violentemente nei loro lavori precari.
Allo stesso tempo, il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero viene
costantemente limitato: diventa compromettente difendere i palestinesi e chi
denuncia il massacro in atto nei confronti del popolo gazawi è messo all’indice.
Qualsiasi discussione sulla guerra in Ucraina che non adotti immediatamente e
senza discussioni il punto di vista della NATO viene vista come sostegno alla
Russia e tradimento. In generale, stiamo assistendo alla graduale
criminalizzazione di tutta l’opposizione, non solo di quella radicale. Infine,
dopo innumerevoli processi e incarcerazioni di manifestanti, attivisti
antiglobalizzazione e anarchici, la repressione in Italia ha raggiunto il suo
culmine quando, su ordine del Ministro della Giustizia, Alfredo Cospito è stato
sottoposto al regime del 41 bis. È stato il primo anarchico a essere sottoposto
a questo spietato regime di detenzione.
Così, la repressione sempre più severa dei movimenti sociali, delle
manifestazioni, dei militanti e degli attivisti, a prescindere dalle loro
convinzioni e azioni, sta gradualmente creando un clima che ricorda la
“strategia della tensione” che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Allora,
questa strategia mirava a soffocare un forte movimento di protesta che stava
attraversando l’intera società. Oggi, questa strategia della tensione vorrebbe
impedire che il crescente malcontento e il disorientamento ideologico trovino
un’espressione politica, si trasformino in una vera contestazione. In questo
contesto si inserisce la “guerra” che da tempo viene condotta contro la memoria
delle lotte degli anni Settanta. In quegli anni, le classi subalterne erano
portatrici ed espressione di un importante processo di trasformazione sociale,
di un vero e proprio “assalto al cielo”. Ecco perché questo periodo è
sistematicamente oggetto di analisi riduttive o mistificatorie da parte del
potere. Negando l’esistenza della lotta di classe, si ostinano a fingere che il
mondo possa essere ridotto a un’opposizione tra i sostenitori delle democrazie
liberali e gli altri.
È solo nel contesto di questa “guerra” alla memoria che possiamo comprendere la
politica silenziosa di annientamento dei prigionieri. Lo Stato vede questi
prigionieri come una sorta di trofeo e, facendo della loro prigionia un esempio
e uno spauracchio, mira a scoraggiare qualsiasi lotta, nella speranza di
soffocare lo sviluppo delle contraddizioni attuali, che potrebbero portare a un
ribaltamento della situazione, a un nuovo “assalto al cielo”.
Rompere il tabù, rompere il silenzio su questi prigionieri, sulle condizioni
della loro detenzione, sulla loro durata infinita, non può essere ridotto a una
reazione umanitaria. È un passo necessario per liberarci dalle nostre paure, per
sciogliere il cappio delle costrizioni, dell’ingabbiamento in cui vorrebbero
richiudere le lotte e i movimenti.
Questo inaccettabile regime carcerario, il rinnegamento che si richiede ai
prigionieri per poter sfuggire a questo regime è un ulteriore modo per soffocare
tutte le lotte.
Quindi, rompere questo tabù è interesse innanzitutto di coloro che subiscono le
conseguenze delle disastrose condizioni economiche e politiche della società nel
suo complesso,che possono essere trasformate solo da un cambiamento radicale
delle strutture sociali e politiche esistenti. Rompere questo silenzio è anche
un modo per riappropriarci di una libertà e di un pensiero critico, in modo da
poter trovare liberamente delle possibilità di soluzione e per interrompere la
spirale mortale in cui i potenti ci stanno trascinando con le loro politiche
sempre più repressive, classiste e guerrafondaie.
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Ultima generazione: Mattarella, non prestarti a una firma vigliacca. La morte
del giovane Ramy anticipa la condizione di protezione e impunità verso gli abusi
della polizia che avverrà con la nuova legge
Vorremmo chiedere a Mattarella quanto sia possibile appellarsi alla neutralità
della propria funzione quando il progetto politico che il governo porta avanti è
chiaramente anti-democratico.
Vorremmo chiedergli cosa avrebbe fatto un presidente come Pertini davanti ad una
proposta del genere.
Vorremmo chiedergli come possiamo sentirci garantiti da chi, eletto al secondo
mandato dalla stragrande maggioranza del Parlamento, in questi anni non è
riuscito a imporre mai la propria voce nel dibattito pubblico se non nel far
eleggere il governo Draghi e continuare la svendita del paese?
Le grida di dolore per le incessanti morti sul lavoro vengono ignorate, sepolte
sotto un mare di parole paternalistiche e prive di sostanza. Stavolta, però, non
è solo il disinteresse a preoccupare: è la certezza che dietro questa retorica
vuota si nasconde una volontà deliberata di portare il Paese verso una deriva
autoritaria sempre più evidente. Non è paura per il nostro Paese, è rabbia per
la sistematica demolizione dei suoi valori democratici, con il Presidente
Mattarella che, con il suo silenzio e la sua complicità, tradisce i principi
fondamentali della Costituzione che dovrebbe incarnare e difendere.
Cos’è il patriottismo?
Il tema del patriottismo è stato al centro del discorso di fine anno del
Presidente Mattarella.
Saranno da considerare ‘patrioti’ gli esponenti delle forze dell’ordine che, se
verrà approvato il ddl Sicurezza, avranno garantita la protezione legale per gli
abusi che commetteranno sulle persone che manifesteranno pacificamente in
maniera nonviolenta? Sono forse dei ‘patrioti’ i carabinieri che hanno provocato
la morte di Ramy? Oppure i poliziotti della questura di Brescia, che lunedì
hanno fatto denudare delle persone che erano lì per normali procedure
identificative a seguito dell’azione nonviolenta davanti la sede di Leonardo
s.p.a.?
Il governo soffia pericolosamente sul fuoco, Mattarella che farà?
Dopo gli scontri di sabato a Bologna e Roma, il Governo sfrutta subito
l’occasione per accelerare l’approvazione del ddl Sicurezza: una legge che
instaurerà di fatto uno stato di polizia, soffocando ogni protesta pacifica. Un
disegno di legge impantanato per mesi, ora ripescato dalle paludi parlamentari
nonostante i rilievi del Quirinale e del Consiglio d’Europa, viene usato per
intimidire chiunque non aderisca alla reazionaria visione della società della
maggioranza. Che faranno le opposizioni? Assisteranno passivamente, come nel
1924, alla nascita di un nuovo fascismo, o si batteranno nelle piazze? E
Mattarella? Si limiterà a firmare, tradendo ancora una volta la Costituzione? Ci
sarà di nuovo la firma di rito, per l’ennesima legge che non condivide e che
ritiene sbagliata, o avrà finalmente il coraggio di fermare questo assalto
autoritario?
Mattarella, il diritto al dissenso democratico è il sale della nostra
costituzione
Chiediamo che Mattarella non firmi il ddl Sicurezza, già approvato dalla Camera
il 18 settembre: una legge che introduce nuove misure repressive, inasprisce
pene e crea nuovi reati per colpire la libertà di protesta. È il più grande
attacco alla democrazia repubblicana e la nostra petizione, già a quota 25 mila,
ne è la prova. Con una trentina di nuovi reati e sanzioni, questo Governo mostra
il suo volto più autoritario, riducendo la “sicurezza” a un arsenale di divieti
e punizioni, mentre ignora la vera sicurezza sociale, lavorativa e umana. Se
Mattarella firmasse, confermerebbe che anche il Quirinale è complice del
passaggio della nostra Repubblica a una “democratura”. Sta quindi a noi
cittadini reagire: collettivamente, con la disobbedienza nonviolenta, possiamo
rompere l’isolamento che vogliono imporci, pretendendo giustizia e un futuro
vivibile.
Chiediamo a tutte le persone di attivarsi sottoscrivendo la petizione a questo
link.
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Borrelli Luigi RSU e RLS delegato sindacale dell’USB all’aeroporto di
Montichiari, ha subito un provvedimento disciplinare di sei giorni di
sospensione a seguito delle denunce e delle iniziative sindacali intraprese dai
lavoratori dell’aeroporto civile Montichiari di Brescia contro l’invio di armi
belliche dall’aeroporto civile di Brescia
di USB Lavoro Privato
A seguito delle denunce e delle iniziative sindacali intraprese dai lavoratori
dell’aeroporto civile Montichiari di Brescia negli ultimi mesi, contro l’invio
di armi belliche, contro tutte le guerre e per la tutela della salute e
sicurezza dei lavoratori e della popolazione dei comuni limitrofi all’aeroporto,
oggi pomeriggio la direzione della GDA Handling a seguito della contestazione
disciplinare, ha fatto pervenire al sig. Borrelli Luigi RSU e RLS di USB
all’aeroporto di Montichiari, il provvedimento disciplinare di sei giorni di
sospensione.
Perché tanta violenza?
Un provvedimento disciplinare evidentemente pretestuoso e strumentale, che segue
una contestazione al lavoratore non per le rivendicazioni ma per aver in qualche
modo reso pubblica una situazione di pericolo, “colpire uno per educarne cento”
Questa è la scelta della direzione GDA Handling?
Dare un avvertimento a chi vuole difendere “la missione” civile dello scalo
monteclarense, a chi difende i diritti e la salute e sicurezza dei lavoratori e
dei cittadini dei comuni limitrofi, a chi non vuole essere partecipe e complice
delle guerre che hanno e continuano a produrre migliaia di morti civili,
innocenti.
Montichiari è un aeroporto civile, perché allora si spediscono le armi?
Anche domani potrebbe esserci un volo “segreto”; nuovo invio di armi o pezzi di
esse, con conseguente chiusura dello spazio aereo, un altro aereo che viene
collocato in fondo all’aeroporto, che tutti notano contro ogni dubbio.
Abbiamo chiesto incontro al sig. Prefetto e alle istituzioni senza risposta,
oltre alle interrogazioni parlamentari di AVS e 5 stelle che non hanno ancora
avuto alcuna risposta.
Perché Montichiari deve rischiare di diventare un obiettivo sensibile? Perché si
tiene all’oscuro cittadini e lavoratori?
NON ci fermeremo e non ci faremo mettere nessun bavaglio, NON vogliamo essere
complici e chiederemo al Tribunale ed in ogni altra sede di salvaguardare e
difendere i diritti sindacali del nostro rappresentante e delle lavoratrici e
lavoratori; perché non vogliamo essere complici.
APPELLO: IO STO CON LUIGI
Stanno cercando di mettere a tacere la voce coraggiosa di un lavoratore che da
tempo sta denunciando l’utilizzo ripetuto e sistematico dell’aeroporto civile di
Montichiari di Brescia per la movimentazione di materiale bellico. Gli hanno
comminato tre provvedimenti disciplinari, una multa, sei giorni di sospensione,
ed ora altri 8 giorni di sospensione.
Luigi Borrelli lavora nell’aeroporto di Montichiari da più di vent’anni presso
la GDA HANDLING SPA, un’azienda che fornisce assistenza a terra. Quando si è
accorto che in aeroporto si procedeva ad attività di carico e scarico di
missili, materiale esplosivo ed altri armamenti e che lui e i suoi colleghi
dovevano provvedere a movimentare gli ordigni, spesso senza neanche esserne
consapevoli, ha posto il problema e insieme all’USB, di cui è delegato, ha
informato l’azienda e le istituzioni dell’uso improprio dell’aeroporto civile.
Per tutta risposta l’azienda lo sta sanzionando, contestandogli di rendere note
informazioni riservate che quindi non dovrebbero essere rese pubbliche.
Nell’azienda, nonostante l’USB sia largamente maggioritaria, la direzione si è
sempre rifiutata di riconoscere l’organizzazione più rappresentativa tra i suoi
dipendenti. Luigi è stato eletto come RSU ed è Rappresentante dei lavoratori per
la sicurezza (RLS).
Io sto con Luigi perché sta denunciando l’utilizzo militare di un aeroporto
civile.
Io sto con Luigi perché, in qualità di delegato sindacale e di rappresentante
per la salute e sicurezza sul lavoro, sta difendendo l’incolumità dei suoi
colleghi.
Io sto con Luigi perché sono contro tutte le guerre e non voglio essere complice
di nessuna politica di guerra.
Io sto con Luigi perché ha il coraggio di raccontare la verità.
Sostieni anche tu Luigi, manda una tua foto con cartello a lombardia@usb.it!
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Questo appello nasce a seguito della manifestazione del 5 ottobre scorso quando
più di 10.000 persone hanno violato i divieti del governo e della questura di
Roma per manifestare la loro solidarietà alla resistenza palestinese e al popolo
libanese, e per lottare contro la guerra e contro l’approvazione del DDL 1660,
il nuovo “pacchetto sicurezza”. Questo, nonostante il clima di criminalizzazione
e di terrore creato dal governo e le misure adottate dalla questura di Roma per
provare, invano, a scoraggiare qualunque forma di partecipazione alla giornata.
Il 5 ottobre la questura di Roma ha fatto un uso sistematico della repressione
preventiva, un meccanismo che si va sempre più consolidando ed estendendo:
percorsi obbligati in modo da impedire di raggiungere i palazzi del potere;
controlli, perquisizioni e identificazioni ai caselli autostradali;
militarizzazione delle aree circostanti la piazza del concentramento. In cifre:
1600 identificazioni, 200 persone allontanate dalla città, 51 delle quali
colpite da fogli di via, tre denunciati a piede libero, il fermo ed il
successivo arresto di Tiziano, ora ai domiciliari in attesa che cominci il
processo nei suoi confronti.
La manifestazione del 5 è stata, perciò, la prova preliminare del nuovo
pacchetto sicurezza a firma Piantedosi-Nordio-Crosetto: si è provato a mettere a
tacere ogni voce di dissenso e di protesta. Con i venti di guerra che soffiano
impetuosi, la situazione non farà altro che peggiorare con i governi occidentali
che hanno la necessità di silenziare le lotte sociali per compattare il fronte
interno. Con il DDL 1660 l’esecutivo Meloni prepara un salto di qualità nella
repressione di tutte le lotte, operaie, sociali, ecologiste, a cominciare dalle
proteste contro la sempre più marcata tendenza alla guerra e all’instaurazione
di un’economia di guerra, e di una disciplina da stato di guerra nei luoghi di
lavoro, nelle scuole, nella società. Dobbiamo reagire con forza a questo corso
repressivo, come abbiamo fatto non accettando il divieto di manifestare il 5
ottobre.
Non possiamo, poi, accettare che il foglio di via diventa qualcosa di normale: i
51 comminati dalla questura di Roma a persone che “presumibilmente” si trovavano
in città per commettere atti illeciti, essendo interessati/e da procedimenti in
corso per iniziative di lotta e per manifestazioni, trasforma la presunzione di
innocenza in presunzione di colpa. Né possiamo accettare altre misure preventive
come gli obblighi di firma comminati a chi lotta contro la guerra, com’è
accaduto a Napoli a chi manifestava contro il sostegno della RAI al genocidio
sionista in Palestina, e com’è avvenuto a Luigi Spera, tuttora in carcere con
l’accusa di aver partecipato ad un’azione dimostrativa contro la Leonardo, fiore
all’occhiello dell’industria bellica italiano, che fa profitti miliardari grazie
all’guerra.
Rispetto a tutto ciò è necessaria una presa di parola collettiva, con una
campagna di sostegno e solidarietà ai colpiti dalle misure repressive del 5
ottobre, per la revoca dei 51 fogli di via e, soprattutto, per la liberazione
immediata di Tiziano, ora agli arresti domiciliari e che il 14 novembre
affronterà la prima udienza del processo a suo carico. Criminale non è chi lotta
contro la guerra, ma chi contribuisce con ogni mezzo al genocidio in Palestina e
fomenta gli scenari bellici in allargamento in tutto il mondo. La presa di
parola non riguarda soltanto noi che facciamo parte della Rete: deve coinvolgere
tutta quella parte della società, i lavoratori anzitutto, ma anche i giuristi e
le giuriste autenticamente democratici, gli artisti e le artiste sensibili al
rifiuto dell’oppressione, gli operatori dell’informazione non allineati, che
avvertono il doppio grande pericolo che incombe su tutti/e: lo stato di polizia,
la guerra alle porte!
Libere e liberi di lottare contro la guerra e contro lo stato di polizia! Revoca
di tutti i fogli di via e gli obblighi di firma! Libertà immediata per Tiziano!
Fermiamo il DDL 1660!
Rete Liberi/e di lottare – Fermiamo insieme il DDL 1660
fermiamoidecretisicurezza@gmail.com
Nelle carceri italiane ci sono 14mila persone in più rispetto ai posti
regolamentari. Le condizioni di vita sono inumane. Da gennaio, oltre 70 detenuti
e 7 agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita. Una legge di amnistia
e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni è, oggi, una necessità
assoluta per ripristinare condizioni di umanità. Non solo ma è anche uno
strumento che aiuta a contenere la recidiva.
Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage di vite e diritti nelle carceri
italiane. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un
luogo di morte e di disperazione. Dall’inizio dell’anno ormai ben oltre settanta
le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre, quanti non mai
dall’inizio del secolo in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di
farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Ognuno di loro avrà avuto le
proprie personali ragioni per arrivare a quella scelta ultima ed estrema, ma
quelle morti ci interrogano sull’ambiente di vita e professionale in cui
avvengono e sulle sue croniche carenze. Sono ormai 62.000 i detenuti nelle
carceri italiane, circa quattordicimila in più dei posti effettivamente
disponibili. In un anno, quasi quattromila in più.
Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che
potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio
adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un
terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni
criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi
senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il carcere, i
suoi operatori, i detenuti non ce la fanno più. Anche i migliori propositi, come
quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di abbattere la
recidiva attraverso il potenziamento della formazione, dell’orientamento e
dell’inserimento lavorativo dei detenuti, per potersi avverare hanno bisogno di
ridimensionare il numero dei detenuti in modo che gli operatori possano seguirli
efficacemente. Per non dire della prevenzione del rischio suicidario e della
necessaria assistenza sanitaria.
È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata
dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che
partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal
carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche
mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia
di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un
intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del
sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale
riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede
come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità
e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza
generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di
indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con
l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per
i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e
per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti
gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che
questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere
il problema del sovraffollamento.
Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale
per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe
di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua
approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze
politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento
necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre
carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio
Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la
comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di
clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi
dell’articolo 27 della Costituzione. In ultimo, ricordiamo che – contrariamente
a una errata opinione molto diffusa – quel provvedimento ha dato risultati molto
positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella
riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti, Jocteau,
commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila
detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere
cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la
percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria
pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova,
pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i
beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e
da cui trarre coerenti conseguenze.
ottobre 2024
Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Michele Ainis, Mons. Vincenzo Paglia, Gaia
Tortora, Giovanni Fiandaca, Gherardo Colombo, Clemente Mastella, Daria Bignardi,
Mauro Palma, Francesco Petrelli, Tullio Padovani, Rita Bernardini, Dacia
Maraini, Alessandro Bergonzoni, Mattia Feltri, Andrea Pugiotto, Ornella Favero,
Franco Corleone, Patrizio Gonnella, Franco Maisto, Luigi Pagano, Grazia Zuffa,
Valentina Calderone, Samuele Ciambriello
Per info e contatti: clemenzaperlecarceri@gmail.com
Cresce la protesta contro la presenza del ministro dell’Interno, Matteo
Piantedosi, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università del Molise.
La cerimonia si terrà il 30 ottobre, ma contro l’invito del ministro è stato
lanciato un appello che ha già raccolto centinaia di adesioni
Il prossimo 30 ottobre ad inaugurare l’anno accademico dell’Università degli
Studi del Molise sarà presente il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi
L’attività del Ministro in questi due anni di Governo è stata tutta incentrata
alla repressione e alla criminalizzazione del dissenso, della solidarietà, dei
poveri e marginali.
La democrazia, così come la cultura, sono fondate sulla possibilità di
dissentire. Solo il dissenso permette la diversità delle posizioni e delle idee,
solo il dissenso mette al vaglio la verità e la giustizia, solo il dissenso è
alla base del pensiero.
L’itinerario che il ministro Piantedosi e il governo stanno perseguendo fin dal
primo giorno e che culmina con una legge, il Ddl “sicurezza” 1660, detto anche
legge anti-Gandhi, che proibisce in tutte le sue forme, attiva e passiva,
disarmata e non violenta, ogni dissenso, manda oggi al macero la democrazia e la
cultura che il dopoguerra ha pazientemente costruito, con il sostegno della
Costituzione della Repubblica Italiana.
Ci riconosciamo nella libertà di pensare e di esprimere il nostro pensiero sotto
ogni forma, parlata e scritta, stampata e diffusa con qualsiasi mezzo, di
riunirci e associarci, di informare ed essere informati, di insegnare ed essere
istruiti, di scegliere liberamente la nostra occupazione, il nostro domicilio e
liberamente viaggiare; e riconosciamo queste libertà per noi, gli stranieri e
gli apolidi, i rifugiati e i richiedenti asilo, e intendiamo esercitare i nostri
diritti inviolabili, a cominciare dal diritto di solidarizzare con chi si
oppone, sia con lo sciopero che con l’occupazione pacifica o con manifestazioni
pubbliche di dissenso, con chi reclama dallo Stato leggi che permettano alla
nostra terra di difendersi da catastrofi climatiche o dagli orrori delle guerre
e infine con chiunque risponda al richiamo della giustizia e della umanità: e se
questi sono reati, ci autodenunciamo responsabili di questi reati, passati,
presenti e futuri, tutti e ciascuno, consapevoli che solo così facendo possiamo
proteggere la democrazia e i valori Costituzionali.
In una regione come il Molise che dà scarsissime possibilità lavorative ai neo
laureati, in un paese che conta un tasso di laureati che è tra i più bassi
d’Europa, dove l’ascensore sociale è rotto da decenni e il diritto
all’istruzione è in pratica negato, l’Università del Molise pensa bene di
invitare uno dei massimi rappresentanti di una stretta punitiva e sicuritaria,
l’antitesi, per storia e pratiche governative, ad un’idea di sapere e di società
aperta inclusiva e rispettosa dei diritti e del diritto al dissenso. Nelle aule
universitarie non ci dovrebbe essere posto per il carcere e manganello elevati a
dogma di gestione dell’ordine pubblico
Per questo invitiamo i docenti, gli studenti i rappresentati istituzionali
politici, sindacali e del mondo dell’associazionismo e del volontariato a
disertare l’inaugurazione dell’anno accademico alla presenza di Piantedosi come
atto visibile e concreto contro le politiche repressive che il governo Meloni
sta mettendo in essere.
Per adesioni: nopiantedosi@gmail.com
Ilaria Agostini
Pasquale Amelio
Maria Teresa Amodio
Luana Angelicola
Giuseppe Aragno
Silvio Arcolesse
Pino Ippolito Arminio
Maria Angela Astore
Isabella Astorri
Andrea Battinelli
Angelo Bavaro
Umberto Berardo
Sara Bernabeo
Renza Bertuzzi
Piero Bevilacqua
Giacomo Bonasera
Flavio Brunetti
Gabriella Buldrini
Vincenzo Boncristiano
Antonietta Caccia
Alberto Cancellario
Chiara Cancellario
Celeste Caranci
Roberto Carluccio
Gianluca Carmosino
Nino Carpenito
Francesco Centracchio
Vincenzo Centritto
Concetta Chimisso
Caterina Ciaccia
Marinella Ciamarra
Francesca Ciarla
Paolo Cimini
Mara Cinquino
Angelo M. Cirasino
Giuseppe Colavecchia
Amalia Collisani
Ivano Cotugno
CROMA
Donatella Crosta
Lorenza Cuccaro
Fernando Damiani
Mino Dentizzi
Luisa Diodati
Amodio Dionisio
Gigino D’Angelo
Cosima De Angelis
Rosa De Angelis
Giusi De Castro
Giuseppe De Lena
Roberto De Lena
Francesco De Lellis
Roberto De Libero
Rosa De Renzis
Domenico De Simone
Barbara Di Giovanni
Antonio Di Lalla
Rosamaria Di Lauro
Paolo Di Lella
Pasquale Di Lena
Laura Di Leo
Domenico Di Lisa
Francesco Di Lucia
Lucia Di Matteo
Andrea Di Meo
Giulia Di Paola
Italo Di Sabato
Mirco Di Sandro
Leda Di Santo
Giovanna Di Soccio
Michele Durante
Francesco Paolo Eliseo
Vittorino Facciolla
Laura Fanelli
Nicola Farina
Sara Ferri
Lino Finelli
Adele Fraracci
Lorenzo Fuschino
Filomena Fusco
Roberto Budini Gattai
Giovanni Germano
Michele Giambarba
Pasquale Giancola
Rosita Giardino
Francesco Giovannangelo
Nunzia Granitto
Lucilla Grimani
Miriam Iacovantuono
Vittorio Ialenti
Marco Iannotta
Alessandro Ugo Imbriglia
Patrizia Ionata
Mattia Iorillo
Nicola Lanza
Tiziana Lembo
Maria Assunta Libertucci
Lucia Longari
Carla Mancini
Ferdinando A. Mancini
Luca Mancini
Luisa Marinucci
Maria Masecchia
Ilaria Mastrangelo
Alessio Mastromonaco
Cristina Mazzoccoli
Giovanni Mininni
Michele Montano
Stefano Di Santo Morelli
Giovanni Moriello
Cristina Muccilli
Tiziana Nadalutti
Andrea Nasillo
Marilena Natilli
Fabrizio Nocera
Vincenzo Notarangelo
Virginia Notarpasquale
Franco Novelli
Alessandro Nusco
Nicola Palombo
Gianni Palumbo
Alessandro Paolo
Alice Papi
Anna Pastoressa
Valentina Patete
Rossano Pazzagli
Michele Petraroia
Marco Petti
Carmine Pietrangelo
Maria Paola Pietropaolo
Giuseppe Pittà
Fulvia Pizzi
Viviana Pizzi
Daniela Poli
Clementina Porzio
Marinetta Porzio
Antonio Priston
Cristina Ratino
Michele Roccia
Andrea Rossi
Alessandra Salvatore
Giuseppe Saponaro
Vito Saulino
Enzo Scandurra
Andrea Sellitto
Marisa Schillaci
Francesco Simonelli
Pasquale Sisto
Davide Smake
Marilisa Spalatino
Aldo Spedalieri
Pina Sprovieri
Marcella Stumpo
Carmine Tomeo
Emidio Ranieri Tomeo
Nicholas Tomeo
Francesco Trane
Giustino Trivisonno
Stefania Trivisonno
Renato Turturro
Nicola Valentino
Roberto Vassallo
Stefano Vavolo
Alessandra Ventura
Achille Zarlenga
Ornella Zarrillo
Luciana Zingaro
Alberto Ziparo
L'articolo No a Piantedosi all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Unimol
sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include
la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o
idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e
senza limiti di frontiera.
di Federico Giusti
art 21 Costituzione Italiana
Nella Costituzione italiana esiste la piena libertà di manifestare il pensiero
in ogni forma eccezion fatta se ci sono reati di ingiuria, calunnia,
diffamazione, vilipendio, istigazione a delinquere e se viene recata offesa al
“buon costume.
La Costituzione ha recepito tuttavia il Codice penale Rocco di emanazione
fascista e per quanto siano affermati principi di libertà molte manifestazioni
sono state proibite e ferocemente represse in nome della difesa dell’ordine
pubblico.
La sinistra italiana e prima il Pci non hanno mai voluto porre al centro
dell’operato la riscrittura del codice penale e per questo sono arrivate tutte
le legislazioni emergenziali che da eccezionali sono divenute con il tempo
ordinarie.
Se il fascismo trasformò il codice penale in una sorta di “schermo” dietro il
quale celare i veri intenti del regime, oggi analoga considerazione potremmo
fare in merito al decreto di legge 1660.
Il divieto posto alla manifestazione per la Palestina del 5 ottobre da parte
della Questura arriva dopo pesante intrusioni da parte governativa, e non solo,
per impedire questo corteo promosso dalla Comunità palestinese.
Questo divieto è assolutamente illegittimo anche alla luce dei recenti fatti, in
presenza del genocidio in corso con decine di migliaia di morti tra i civili
palestinesi e libanesi, vietare una manifestazione per alcuni documenti o
commenti apparsi sui social evidentemente lede un diritto costituzionale.
Il diritto costituzionale è ormai una tigre di carta ed è evidente la natura
politica della posizione assunta per vietare il corteo del 5 ottobre.
Anche Amnesty international scende in campo per difendere il diritto a
manifestare
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad alcune delle più grandi mobilitazioni da
decenni a questa parte: Black Lives Matter, MeToo, i movimenti contro i
cambiamenti climatici hanno ispirato milioni di persone a scendere in strada per
chiedere giustizia per le persone discriminate su base etnica e per
l’uguaglianza, i mezzi di sostentamento, la giustizia climatica, la fine della
violenza e della discriminazione di genere.
Ovunque, le persone si sono mobilitate contro la violenza e gli omicidi della
polizia, la repressione di stato e l’oppressione. Quasi senza eccezione, la
risposta delle autorità statali a questa ondata di proteste di massa è
ostruttiva, repressiva e spesso violenta. Invece di creare le condizioni per
esercitare il diritto di protesta, i governi stanno ricorrendo a misure ancora
più estreme per stroncarlo. Ecco perché Amnesty International ha deciso di
lanciare questa campagna.
https://www.amnesty.it/campagne/proteggo-la-protesta/
Quanto scrive Amnesty vale anche per l’Italia in rapporto al decreto 1660.
Le organizzazioni sindacali e sociali dovrebbero adoperarsi direttamente per la
revoca del divieto a manifestare sapendo che in ogni caso migliaia
disobbediranno scendendo in piazza contro il genocidio del popolo palestinese,
questo divieto è solo l’inizio di una svolta autoritaria che presto si abbatterà
su tante altre istanze sindacali, sociali e politiche.
Anni fa gli accordi di Abramo vennero accolti con troppa sufficienza in Europa,
l’idea di uno stato di Israele “dal fiume al mare” dimostra che la guerra in
corso si prefigge l’obiettivo di estenderne i confini e di proseguire con quel
colonialismo da insediamento che anche alcune risoluzioni Onu hanno condannato.
Convocare a un anno dall’inizio delle operazioni militari una manifestazione
contro il genocidio del popolo palestinese e la politica annessionista di
Israele è quindi da configurare come una risposta legittima e democratica delle
comunità palestinesi e delle tante realtà solidali presenti nel paese.
Il divieto di manifestare serve per gettare nell’oblio quanto oggi accade in
Medio Oriente, equiparare l’antisionismo con l’antisemitismo, va detto e urlato
con estrema chiarezza: siamo in presenza di un velenoso antipasto di quanto
avverrà dopo la approvazione al Senato del decreto legislativo già approvato
alla Camera.
Sono in gioco le libertà e le agibilità sociali e collettive, per questo
difendere la libertà di manifestare il 5 ottobre è una battaglia di civiltà, di
democrazia ma anche la risposta legittima contro il genocidio del popolo
palestinese con una Ue silente e complice al contrario di quando invece prendeva
parola e posizione per rivendicare il diritto a una terra per un popolo
martoriato e cacciato via dalle proprie case.
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L'articolo Difendiamo il diritto democratico a manifestare. Il divieto per la
manifestazione a Roma il 5 ottobre è sbagliato e ingiusto sembra essere il primo
su Osservatorio Repressione.
Ci vogliono zitti e obbedienti. Un appello dopo il provvedimento disciplinare a
carico di Christian Raimo, “reo” di aver criticato il ministro Valditara
In Italia un insegnante rischia il licenziamento per aver criticato il ministro
dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. È una notizia grave e
allarmante, che dice molto sulla democrazia sostanziale che viviamo oggi in
Italia e sulla torsione autoritaria in atto.
Il docente in questione si chiama Christian Raimo, insegna storia e filosofia in
un liceo, si occupa di storia della scuola e di pratica pedagogica. È anche
scrittore e giornalista, insomma è un intellettuale il cui lavoro e la cui
passione è fare l’insegnante e rendere la scuola più democratica. In questa
doppia veste, quella dell’intellettuale e quella del professore, ha criticato
l’idea di scuola che propugna il ministro del governo Meloni. Non è il solo,
considerato che le nuove linee per l’educazione civica proposte dal ministro
sono state bocciate del Consiglio superiore della Pubblica istruzione, che ha
sottolineato l’approccio squisitamente personalistico e produttivistico, in cui
sparisce tra l’altro il valore della collettività e della responsabilità
sociale indicata dalla stessa Costituzione come fondamentale.
Raimo si è visto raggiunto dall’istruttoria di un procedimento disciplinare che
rischia di provocarne la sospensione dall’insegnamento senza stipendio, fino ad
arrivare al licenziamento. La situazione ha dell’incredibile, visto e
considerato che il docente ha semplicemente paragonato, con una citazione pop
immediatamente comprensibile, le politiche del ministro Valditara alla “Morte
Nera” che nel film-cult Star Wars l’alleanza ribelle colpisce mentre se ne sta
ultimando la costruzione. Un modo popolare per dire che il punto debole del
governo è proprio l’idea di scuola della destra.
Adesso quelle dichiarazioni vengono utilizzate per tentare di silenziare Raimo,
minacciando di estrometterlo dalla scuola, adducendo come ragione il fatto che
avrebbe leso l’immagine dell’istituzione scolastica in pubblico, per di più
facendolo sui social.
Come arma di censura si usa un codice comportamentale per i docenti adottato con
D.M. n. 105 del 26.04.2022, che all’articolo 13 dispone che il dipendente si
astenga “dal pubblicare, tramite l’utilizzo dei social network, contenuti che
possano nuocere all’immagine dell’Amministrazione”.
Cosa hanno a che fare questo articolo e questo intervento del ministero con
l’articolo 21 della Costituzione, che recita: «Tutti hanno diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o
censure»? Cosa hanno a che fare con l’articolo 11 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea che dice: «Ogni persona ha diritto alla
libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà
di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere
ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera»?
Crediamo che la voce e la passione di Christian Raimo siano un valore importante
per il dibattito sulla scuola pubblica, che è e deve restare luogo di confronto
di idee e crescita democratica, e che per questo Raimo vada difeso da questo
attacco. Crediamo soprattutto che, lungi dall’essere un caso personale, questo
genere di norme e di provvedimenti – di cui il disegno di legge “Sicurezza” in
via di approvazione è esempio tristemente calzante – assomiglino a quelle
di governi che chiamiamo democrature. Cioè democrazie solo formali, sospese,
regimi, e non democrazia liberali che abbiano a cuore la libertà di espressione
e di critica come principio fondante.
Per sottoscrivere: liberidicriticare@gmail.com
I primi firmatari:
Marco Balzano
Marco Jacopo Bianchi (Cosmo)
Daria Bignardi
Giulia Blasi
Vasco Brondi
Giulia Caminito
Ascanio Celestini
Teresa Ciabatti
Francesca Coin
Giancarlo De Cataldo
Mario Desiati
Antonio Dimartino
Paolo Di Paolo
Claudia Durastanti
Matteo Garrone
Carlo Ginzburg
Vera Gheno
Fabrizio Gifuni
Paolo Giordano
Carlo Greppi
Nicola Lagioia
Vincenzo Latronico
Gad Lerner
Loredana Lipperini
Franco Lorenzoni
Luigi Manconi
Marco Missiroli
Tomaso Montanari
Claudio Morici
Valerio Nicolosi
Giorgio Parisi
Valeria Parrella
Alessandro Robecchi
Vanessa Roghi
Roberto Saviano
Tiziano Scarpa
Giovanni Scifoni
Giorgia Serughetti
Marino Sinibaldi
Adriano Sofri
Valeria Solarino
Lorenzo Urciollo (Colapese)
Chiara Valerio
Sandro Veronesi
Zerocalcare
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L'articolo La libertà di dissentire è a rischio: solidarietà con Christian Raimo
sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
Una norma che viola i diritti umani fondamentali utilizzando strumenti
repressivi.
Comunicato congiunto della rete In Difesa Di con Ultima Generazione,
Extinction Rebellion, Legal Team Italia, Osservatorio Repressione, Giuristi
Democratici
Una società sana deve poter esprimersi anche attraverso forme di dissenso e di
pacifica protesta e in particolare di chi, come gli ambientaliste ed
ambientalisti, lotta per la giustizia climatica e quindi sociale nel mondo
Il disegno di legge 1660, approvato il 18 settembre alla Camera dei Deputati, si
colloca nel solco del panpenalismo repressivo che connota da molti anni la
risposta delle istituzioni alla protesta, al dissenso e al disagio.
Questa tendenza ha caratterizzato i governi e le maggioranze parlamentari che si
sono succedute almeno a far data dal 2001, con la ricorrente adozione di
“pacchetti sicurezza” che hanno introdotto nuovi reati e aggravanti – o nuovi
sistemi sanzionatori parapenali, come il DASPO – e aumento delle pene per
quelli già previsti (nel marzo 2001 era Presidente del Consiglio Giuliano Amato
e Ministro dell’Interno Enzo Bianco, ma altri “pacchetti” sono ricordati per i
nomi dei Ministri dell’epoca, da Maroni a Veltroni, da Minniti a Salvini).
> Il DDL 1660 si caratterizza, però, per un notevole “salto di qualità” nella
> stretta repressiva e nella costruzione di quello che potremmo definire un vero
> e proprio “diritto penale (e non solo) del nemico”, ed anche nel ridisegnare
> alcuni istituti mutandone profondamente la natura.
Così vi sono norme che innalzano le pene per il reato di occupazione
introducendo anche nuove ipotesi di reato (sarà punito penalmente anche il non
lasciare l’immobile locato dopo una procedura di sfratto), che consentono
l’incarcerazione anche delle donne in gravidanza e delle donne con neonato (in
disposizioni che è stata significativamente battezzata “norma anti donne rom”),
che introducono il reato di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo”
(per cui sarà reato il semplice possesso di materiale, al di là del concreto
pericolo che il soggetto intenda porre in essere attività terrorista, così
anticipando la soglia di punibilità sino al limite della sfera esclusivamente
privata della persona), che introducono nuove ipotesi di Daspo disposto dal
questore o di cd. “Daspo giudiziario” (imponendo per chi sia condannato per
alcuni reati il divieto di accedere a determinati luoghi e subordinando la
concessione della sospensione condizionale della pena al rispetto di tale
divieto), che sanciscono l’obbligo per i cittadini stranieri di esibire il
permesso di soggiorno per poter attivare una utenza mobile (norma finalizzata ad
impedire alle persone migranti irregolari di poter avere un telefono cellulare,
facendo loro intorno “terra bruciata”), che aumentano le possibilità di revoca
della cittadinanza italiana acquisita dal cittadino straniero, che aumentano le
pene per il reato di accattonaggio.
> A queste norme se ne aggiungono alcune che intendono reprimere duramente le
> proteste e ridurre gli spazi di possibile espressione di dissenso, colpendo
> anche (e in alcuni casi specificamente) i movimenti ambientalisti, e altre che
> tendono a demolire anni di conquiste democratiche (nelle istituzioni totali e
> nei rapporti tra autorità e cittadini), tentando di fatto di far “tornare
> indietro le lancette della storia” di ottant’anni.
A quest’ultimo proposito non si può non far riferimento al “nuovo” reato di
rivolta carceraria e nei CPR (ma anche negli hot spot e nei centri di
accoglienza per persone migranti, quindi non solo in luoghi di detenzione e di
privazione della libertà ), con il quale si vuole punire (con pene che vanno, a
seconda delle ipotesi, da un minimo di uno a un massimo di venti anni) non solo
le rivolte (non meglio definite) violente, ma anche gli atti di resistenza anche
passiva all’esecuzione degli ordini impartiti che impediscano il compimento
degli atti di ufficio o servizio: si disegna un “nuovo” modello di detenuto (ma
non solo, anche di migrante accolto in un centro) del tutto spersonalizzato,
privato anche del diritto di utilizzare metodi non violenti e pacifici di
contestazione e dal quale si pretende obbedienza “cieca e assoluta” agli ordini.
La persona detenuta e la persona migrante (trattenuta o accolta) devono essere
dei docili oggetti di controllo, pena la perpetuazione della loro condizione di
persone private della libertà personale (il reato di rivolta carceraria verrebbe
anche ricompreso tra i cd reati ostativi alle misure alternative al carcere).
Questa “prima volta” nella repressione della resistenza passiva rischia di
divenire un precedente che permetterà, in futuro, di punire ogni forma di
disobbedienza a qualunque ordine ed in qualunque ambito (così come il Daspo,
nato negli stadi per reprimere gli ultras, è stato poi esteso agli ambiti
urbani ed è oggi uno strumento di repressione amministrativa – la cui violazione
peraltro fa cadere l’interessato nel sistema penale – buono per tutte le forme
di disagio e/o di dissenso).
Un altro palese esempio di questa involuzione è la volontà (non nascosta) di
ridisegnare i rapporti tra le forze di “pubblica sicurezza” e le persone che
sono loro sottoposte, allontanandosi da quella che la Corte Costituzionale ha
definito una “diversa disciplina dei rapporti tra cittadino e autorità
rispettivamente negli ordinamenti liberal-democratici e nei regimi totalitari”
che aveva caratterizzato la produzione normativa repubblicana post fascista (la
Corte aveva usato quella definizione a proposito della discriminante della
reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, per cui non è punibile il
cittadino che reagisca, anche con violenza, ad un atto illegittimo ed arbitrario
del pubblico ufficiale).
Nel senso di consolidare una supremazia anche formale degli apparati di pubblica
sicurezza rispetto al popolo vanno: l’introduzione di una circostanza aggravante
per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale quando i fatti sono
commessi ai danni di un agente o ufficiale di pubblica sicurezza (così potrà
essere punita molto più gravemente la resistenza a un agente di polizia che non
quella a un impiegato comunale, a un medico di ospedale, anche a un giudice); la
previsione di un aumento di pena per il reato di lesioni se cagionate a un
agente di pubblica sicurezza (anche in questo caso, quindi, si sancisce la
“supremazia” della vittima-agente su ogni altra vittima); la previsione che gli
agenti di pubblica sicurezza possano portare senza licenza armi anche fuori dal
servizio; la copertura delle spese per un legale di fiducia (sino a 10.000 euro
per ogni grado di giudizio) per gli agenti di pubblica sicurezza (nonché vigili
del fuoco e militari) indagati o imputati per fatti inerenti il servizio (salva,
invero, possibile rivalsa se infine condannati a titolo doloso; non ci sarebbe
rivalsa, ad esempio, in caso di omicidio colposo di un arrestato). Le forze di
pubblica sicurezza, dunque, sono collocate normativamente (potrebbe dirsi
ideologicamente) in una posizione di supremazia su tutta la popolazione e di
preminenza anche all’interno dell’apparato dello Stato.
Il Disegno di legge contiene, poi, una lunga serie di disposizioni
specificamente destinate a reprimere il dissenso, spesso palesemente disegnate
su uno “specifico” soggetto ritenuto, evidentemente, da reprimere in modo
particolare: una vera e propria costruzione di un diritto sanzionatorio speciale
d’autore (in cui la gravità del reato, e talvolta la stessa sussistenza di un
reato, dipendono non tanto dal “fatto” che è stato commesso quanto dal “tipo
d’autore” che lo ha commesso).
Già con il decreto cd ecovandali, peraltro, questa legislatura ci aveva abituato
alla costruzione di reati sugli attivisti ambientalisti e sulle loro modalità di
protesta (si pensi alla circostanza aggravante prevista per il reato di
imbrattamento se commesso su “teche, custodie e altre strutture adibite
all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei,
pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni,
degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto
pubblico”; è evidente che si è voluto specificamente colpire determinate
proteste e determinati attivisti).
Tra le disposizioni specificamente dirette alla repressione del dissenso (e
degli attivisti ambientali in primis) spicca la circostanza aggravante (e dunque
la previsione che la pena sia aumentata, con un massimo che può raggiungere i 20
anni) per i reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale (ma anche ad
altri reati, come le minacce) nel caso in cui il fatto “è commesso al fine di
impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura
strategica”. Qui è chiarissima la volontà di colpire più duramente i movimenti
che si battono contro le grandi opere (come il movimento No Tav, il movimento No
Tap, il movimento No Ponte, per citarne solo alcuni).
Ancora, un aggravio di pena viene introdotto per i danneggiamenti commessi in
occasione di manifestazioni (ipotesi che era già stata introdotta nel 2019) se
commessi con violenza o minaccia (anche qui evidente è che questa norma è
finalizzata a reprimere il dissenso ed il conflitto, essendo sufficiente che il
danneggiamento sia accompagnato da una semplice condotta minacciosa).
Così come una circostanza aggravante (con conseguente aggravio di pena) è
previsto per il reato di imbrattamento se commesso su beni adibiti all’esercizio
di funzioni pubbliche con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il
decoro dell’istituzione (vengono alla mente alcune proteste simboliche, come il
collocamento di mucchi di letame presso sedi istituzionali).
> Le disposizioni del DDL 1660 attualmente in discussione, dunque, paiono voler
> disegnare un nuovo assetto nei rapporti tra il potere esecutivo (la cui
> espressione ultima sono proprio le forze di pubblica sicurezza) e la
> popolazione, e colpire ogni forma di dissenso, riducendo il cittadino
> (vogliamo utilizzare questo termine in senso atecnico, non come cittadino
> italiano ma come persona che è sottoposta a quel potere sovrano) ad un
> docile oggetto di controllo, in una società che si vorrebbe plebiscitaria. Chi
> si ribella (oggi in particolar modo nelle carceri o nei CPR, ma con un modello
> che potrà essere esteso a chiunque), chi anche solo protesta (magari
> rivendicando il diritto ad un ambiente salubre e in ultima analisi ad un
> futuro) è un soggetto estraneo al modello di società che deve essere punito.
E’ un modello di società estremamente pericoloso ed estraneo ai principi
costituzionali; ecco perché la rete In Difesa Di, che dal 2016 raccoglie ed
organizza enti ed associazioni impegnate in Italia e nel mondo per la difesa
delle persone difensore dei diritti umani ed ambientali, ritiene che se il
disegno di legge sarà definitivamente approvato, molte delle sue norme saranno
poi, probabilmente, dichiarate incostituzionali; ma avranno nel frattempo fatto
germogliare nella società le male piante politiche e culturali che le nutrono
(oltre ad aver colpito le persone che ne saranno nel frattempo state vittime).
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