E’ arrivata la sentenza che riguarda il processo, avvenuto con rito abbreviato,
nei confronti di dieci agenti della polizia penitenziaria che agirono violenza
nei confronti di un detenuto nel carcere di Reggio Emilia nell’aprile 2023. La
notizia, uscita ieri, parla di condanne dai 4 ai 2 anni di carcere ma, l’aspetto
più significativo, riguarda la […]
Tag - tortura
Le relazioni pericolose tra il “belpaese” e gli abusi e torture. Enrico Triaca,
il tipografo della colonna romana delle Br denunciò di essere stato seviziato.
Stessa sorte toccò ai sequestratori di Dozier. E poi c’è il carcere duro
di Frank Cimini da l’Unità
L’Italia come del resto altre democrazie ha un rapporto non molto chiaro
(eufemismo) con la tortura. Infatti non esiste una legge che sanzioni la tortura
come reato tipico del pubblico ufficiale soprattutto per l’opposizione storica
dei sindacati di polizia che vorrebbero abrogare o comunque ridimensionare quel
minimo di normativa attualmente in vigore. Su questo urge una riflessione da
contestualizzare proprio nel momento in cui il torturatore libico ricercato dal
Tribunale penale internazionale è stato liberato e riaccompagnato a casa.
L’utilizzo della tortura caratterizzò gli anni in cui c’era da reprimere la
sovversione interna. Al di là delle “belle parole” nel 1982 del presidente della
Repubblica Sandro Pertini: “In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule
di giustizia e non negli stadi”.
Questa sera nel centro sociale Bruno a Trento viene proiettato il documentario
dal titolo Il tipografo sulla vicenda di Enrico Triaca, militante della colonna
romana delle Brigate Rosse arrestato a maggio del 1978. Venne torturato. Un
agente dei Nocs Danilo Amore testimonia l’esistenza di quelle sevizie. All’epoca
il tipografo denunciò di essere stato torturato e fu condannato per calunnia. A
distanza a di circa 40 anni la condanna fu annullata dal Tribunale di Perugia.
Era tutto vero. Ovviamente i reati commessi ai suoi danni nel frattempo
prescritti. La stessa sorte era toccata ai sequestratori del generale Dozier ma
a coprire il misfatto furono le parole dell’allora ministro dell’Interno
Virginio Rognoni che se la cavò brillantemente dicendo: “Siamo in guerra”.
Le carceri speciali furono luoghi in cui si annullava l’identità politica dei
reclusi applicando l’articolo 90, l’antenato del 41bis del regolamento
penitenziario che attualmente riguarda oltre 700 detenuti. In stragrande
maggioranza sono mafiosi e il loro numero risulta superiore a quanti vi erano
sottoposti ai tempi delle stragi. Nell’elenco ci sono anche Nadia Desdemona
Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi che fecero parte delle nuove Br,
organizzazione che non esiste da oltre 20 anni. Nonostante ciò le istanze per la
revoca del 41 bis vengono regolarmente rigettate a causa del rischio di
collegamenti con un esterno che non c’è. E poi c’è Alfredo Cospito protagonista
di un lunghissimo sciopero della fame (considerato di fatto a scopo di
terrorismo) per protestare contro il carcere duro a tutela degli altri 700 più
che di se stesso.
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Attacco alla Corte penale internazionale. Omissioni, inesattezze e buchi
temporali in serie. Il modo nel quale Nordio ha difeso Almasri e polemizzato con
la Corte dell’Aia non si regge in piedi. Le leggi sono chiare, lui doveva
conoscerle e fare eseguire l’arresto
di Gianfranco Schiavone da l’Unità
La difesa dell’operato del Governo sul caso Almasri da parte del ministro Nordio
si basa sulle seguenti argomentazioni; innanzitutto il mandato di cattura emesso
da parte della CPI e l’intero incartamento è arrivato in lingua inglese senza
essere tradotto, con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile
l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte
d’appello.
A quali criticità si riferisca Nordio lo spiega lo stesso ministro quando mette
in evidenza come la richiesta della CPI consta di “una sessantina di paragrafi
in cui vi è tutta la sequenza di crimini orribili addebitati al catturando, vi è
un incomprensibile salto logico. Le conclusioni del mandato di arresto
risultavano differenti rispetto alla parte motivazionale e rispetto alle
conclusioni”. Nordio dunque ha ritenuto opportuno e legittimo entrare nelle
motivazioni addotte dalla CPI rivendicando come “ Il ruolo del ministro non è
solo di transito e di passacarte, è un ruolo politico: ho il potere e dovere di
interloquire con altri organi dello Stato sulla richiesta della Cpi, sui
dettagli e sulla coerenza delle conclusioni cui arriva la Corte. Coerenza che
per noi manca assolutamente”.
Nella sua alquanto sorprendente conclusione il Ministro Nordio ribadisce la sua
posizione sul fatto di avere seguito le regole affermando che “noi non possiamo
scavalcare le procedure, altrimenti legittimeremmo tutto” e chiude accusando
nientemeno la Corte Penale stessa di non aver seguito le regole del diritto.
Cosa dicono dunque le regole che sarebbero state rispettate con così estremo
rigore da Nordio e violate dalla Corte? Lo statuto di Roma della Corte Penale
Internazionale entrato in vigore il 1.02. 2022 con legge 12 luglio 1999, n. 232
(ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale
internazionale) prevede innanzitutto che “Lo Stato Parte che ha ricevuto una
richiesta di fermo, o di arresto e di consegna prende immediatamente
provvedimenti per fare arrestare la persona di cui trattasi, secondo la sua
legislazione e le disposizioni del capitolo IX del presente Statuto”. (Art. 59
par. 1).
Sulla base di quanto disposto dallo stesso articolo 59 (par.2) spetta
all’autorità giudiziaria dello Stato in cui è stato effettuato l’arreso
accertare, secondo la sua legislazione che il mandato concerne elettivamente
tale persona, che sia stata arrestata secondo una procedura regolare e che i
suoi diritti sono stati rispettati. Però lo stesso articolo (par.4) precisa che
“l’autorità competente dello Stato di detenzione non è abilitata a verificare se
il mandato d’arresto é stato regolarmente rilasciato secondo i capoversi a) e b)
del paragrafo 1 dell’articolo 58”. Le autorità dello Stato in cui viene
effettuato l’arresto devono vigilare sul rispetto dei diritti della persona
ricercata dalla Corte ma non possono sindacare le valutazioni effettuate dalla
Corte sulla sussistenza dei presupposti per emettere il mandato di arresto;
spetta infatti solo alla CPI stabilire “se vi sono fondati motivi di ritenere
che tale persona ha commesso un reato di competenza della Corte (e se)
“l’arresto di tale persona sembra necessario per garantire la comparizione della
persona al processo” oppure se è parimenti necessario “per impedire che la
persona continui in quel crimine o in un crimine commesso che ricade sotto la
giurisdizione della Corte o che avviene nelle stesse circostanze”.
Scuserà il lettore la scelta di entrare in questioni procedurali così di
dettaglio ma farlo è necessario per mettere in evidenza come lo Statuto della
CPI esclude tassativamente che le autorità dello Stato che effettua l’arresto
possano sindacare le ragioni addotte dalla CPI per spiccare il mandato di
arresto, o addirittura entrare nel merito della presunta incoerenza delle
motivazioni della CPI come invece rivendica di poter fare il ministro Nordio,
senza alcun fondamento. Il contenuto della richiesta di arresto e di consegna è
altresì disciplinato dall’articolo 91 dello stesso Statuto della CPI che prevede
che la richiesta debba contenere o essere accompagnata da un fascicolo che
contenga “ i documenti dichiarazioni ed informazioni che possono essere pretesi
nello Stato richiesto per procedere alla consegna” purché però non siano
eccessivamente onerose.
È altresì disciplinata anche l’ipotesi (art.92 par.1) in cui ricorra una
situazione di emergenza; in tal caso “la Corte può chiedere il fermo della
persona ricercata in attesa che siano presentate la richiesta di consegna ed i
documenti giustificativi di cui all’articolo 91”. Solo se tali documenti
giustificativi non giungono successivamente nei tempi stabiliti la “persona in
stato di fermo può essere rimessa in libertà” (par.3) e comunque ciò “non
pregiudica il suo successivo arresto e la sua consegna, se la richiesta di
consegna accompagnata dai documenti giustificativi viene presentata in seguito”.
Il Ministro Nordio non ha sostenuto nella sua audizione in Parlamento che il
fascicolo inviato dalla CPI fosse fortemente incompleto; anzi il ministro sembra
essersi lamentato (!) proprio dalla corposità della documentazione pervenuta.
Ho ritenuto tuttavia utile ricordare anche l’ipotesi della carenza documentale
al fine di sottolineare come i principi giuridici che disciplinano la procedura
di arresto della persona ricercata dalla Corte siano chiari: il Ministro della
Giustizia non aveva la facoltà di entrare nel merito delle valutazioni della
Corte Penale Internazionale in relazione alle ragioni del mandato di cattura e
alla valutazione sulla pericolosità del soggetto, nè poteva sindacare su
presunte incoerenze nella ricostruzione dei fatti. Ma anche volendo spingersi
fino a ritenere che le asserite incongruenze nella documentazione ricevuta
fossero così forti e dirimenti da dover essere chiarite, in ogni caso, il
Ministro avrebbe dovuto chiedere alla Corte con immediatezza chiarimenti ed
integrazioni documentali e solo nella remota ipotesi nella quale la Corte fosse
rimasta tenacemente inerte l’ultima estrema ipotesi, ovvero liberazione del
ricercato Almarsi, avrebbe potuto avvenire.
Non sembra tuttavia dalla ricostruzione dei fatti e dall’analisi di quanto
previsto dalla procedura che regola i mandati di arresto emessi dalla CPI, che
le tesi sostenute dal focoso ministro della Giustizia siano dunque in alcun modo
sostenibili. La liberazione di Almasri ha vanificato il mandato di arresto
emesso dalla Corte penale Internazionale e il suo successivo solerte
accompagnamento in Libia ha annullato il primo e prioritario obiettivo che la
Corte Penale Internazionale intendeva perseguire, ovvero impedire che la persona
possa continuare, come invece farà, a perpetrare i crimini per i quali era
ricercato. La pratica della tortura è salva.
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La richiesta della procura nel processo per direttissima ai 10 poliziotti
accusati delle violenze su un detenuto. La pm: «Agli agenti 46 anni di pena
complessivi»
di Eleonora Martini da il manifesto
Condanne fino a cinque anni e otto mesi di reclusione, per alcuni dei dieci
agenti di polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia accusati a vario
titolo di tortura, lesioni e falso. È quanto richiesto dalla pm Maria Rita
Pantani, al termine di quattro ore di requisitoria, nel processo ai poliziotti
accusati del pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nei
corridoi del penitenziario e nella sua cella. Le prove a loro carico sono
contenute nei video registrati dalle telecamere interne al carcere che
l’avvocato Luca Sebastiani è riuscito a salvare.
Il video choc è stato mostrato durante la requisitoria nell’udienza di ieri
nell’aula del Tribunale di Reggio Emilia dove si celebra il processo in rito
abbreviato – richiesto dagli imputati – davanti al Gup Silvia Guareschi. I frame
immortalano l’uomo incappucciato con una federa bianca stretta al collo e
trascinato da un gruppo di agenti che lo colpiscono ripetutamente. Denudato,
sgambettato, picchiato con calci e pugni e, una volta a terra ammanettato,
calpestato. Un’altra inquadratura riprende il detenuto tornato in cella, di
nuovo picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado
fosse ferito e sanguinante. «Un’azione brutale, punitiva preordinata, di
violenza assolutamente gratuita», l’ha definita la pm Pantani che ha anche
spiegato come i poliziotti accusati abbiano cercato di costruirsi una linea
difensiva inventando il ritrovamento di lamette tra gli effetti personali del
detenuto.
In particolare per uno dei dieci poliziotti, accusato di tortura, lesioni e
falso, la pubblica accusa ha chiesto cinque anni e otto mesi di reclusione. Per
altri sette agenti accusati di tortura e lesioni la pena richiesta è di cinque
anni mentre la pm ha chiesto due anni e otto mesi per altri due poliziotti
penitenziari che rispondono solo di falso ideologico. Stralciata la posizione di
altri 4 agenti, non imputati in questo processo che vede anche l’associazione
Antigone tra le parti civili.
Il detenuto, tunisino di 40 anni, ha ormai pochi mesi di carcere da scontare
ancora dei tre anni di reclusione a cui è stato condannato per reati legati allo
spaccio. L’uomo, lasciato per oltre un’ora in cella, ha riferito di essersi
ferito con dei frammenti di un lavandino fino a inondare il corridoio di sangue,
per richiamare l’attenzione del medico che lo ha soccorso. Il giorno dopo ha
chiamato il suo avvocato riferendogli l’accaduto e la rapidità di intervento ha
permesso di salvare le immagini.
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C’è un filo nero che lega gli ultimi episodi con tanti altri casi di violenze
nei confronti dei detenuti per opera di agenti della Polizia penitenziaria. Lo
scorso aprile 13 arresti per maltrattamenti nei confronti dei minori reclusi al
“Beccaria” di Milano, ma la lista delle “mattanze” è molto più lunga.
di Lorenzo Stasi da il Domani
I segni del pestaggio? “Tanto questo è nero e non si vede niente”. “Al detenuto
gli si devono dare legnate”. E poi: “Facciamoli coricare. Poi quando sono sul
letto prendiamoli a secchiate”. Non di acqua, ma di “pisciazza mischiata con
acqua”. E ancora: “Ammazzalo di bastonate, ‘sto pezzo di merda”.
Così parlavano gli agenti penitenziari della casa circondariale di Trapani nel
nuovo capitolo degli ormai tanti casi di violenze e torture nei penitenziari
italiani. Sono 46 in totale gli indagati, quasi un quarto di quelli in servizio
nella struttura. 11 di loro sono finiti ai domiciliari, sono stati sospesi in
14, mentre per gli altri 21 il gip non ha emesso misure cautelari.
I pestaggi ricostruiti in tre anni di indagini erano sistematici e pianificati:
veniva organizzata, come si legge negli atti dell’inchiesta, “la formazione di
una squadretta punitiva di poliziotti penitenziari favorevoli all’utilizzo di
metodi risolutivi e violenti per la repressione di forme di dissenso da parte
dei detenuti”. Fuori dagli occhi ingombranti delle telecamere, in sezioni ad hoc
del carcere: il Reparto blu, chiamato anche la “palazzina delle torture”. Un
modus operandi che, secondo il procuratore Gabriele Paci, “non era episodico,
bensì una sorta di metodo per garantire ordine”. Il tutto con “un intento
persecutorio”.
C’è un filo rosso che lega i fatti di Trapani con molti altri venuti a galla
negli ultimi mesi e negli ultimi anni. Le carceri italiane, spesso veri e propri
buchi neri del sistema-giustizia – con un indice di sovraffollamento del 130 per
cento, con circa 10 mila detenuti in più, e con 81 suicidi solo nel 2024,
l’ultimo il 21 novembre a Poggioreale – diventano in alcune occasioni veri e
proprio luoghi di tortura. Dove la “rieducazione del condannato” rimane spesso
molto fuori dalle celle.
È stata definita un’”orribile mattanza” dallo stesso gip. Pugni, calci,
schiaffi, persone nude picchiate con i manganelli, testate con caschi. Quella
avvenuta il 6 aprile del 2020 in pieno lockdown, al carcere “Francesco Uccella”
di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) è stata una violenza in stile sudamericano
raccontata in esclusiva da Domani.
“Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “chiave e piccone”. Così
parlavano gli agenti penitenziari che quel giorno – erano 283 – hanno
partecipato a quel pestaggio di massa. “Premeditato”, precisano le carte
dell’inchiesta. Il giorno prima, come in altre carceri italiane in quei giorni
concitati, c’erano state alcune proteste per chiedere dispositivi di protezione
per una pandemia, il Covid, che iniziava a correre velocemente e di cui si
sapeva ancora molto poco.
Una caccia al detenuto – quella del giorno dopo – durata 4 ore in cui una
trentina di carcerati vengono portati nella sala socialità, fatti inginocchiare
e picchiati. Ma anche fatti sfilare in un corridoio e presi a schiaffi. In un
frammento di un video c’è un detenuto in sedia a rotelle che viene colpito dal
manganello di un agente. Alla fine della mattanza sono state chiuse in
isolamento 14 persone. Tra queste c’era Hakimi Lamine, che è morto ingerendo un
mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva
andare in isolamento, e in quei giorni non ha ricevuto i farmaci per curare la
malattia di cui soffriva.
Gli indagati in totale erano 111 (poi diventati 105), le misure cautelari 57. Ad
alcuni imputati è stato contestato il reato di “tortura”, introdotto nel nostro
ordinamento nel 2017 dopo una serie di condanne della Corte europea dei diritti
dell’uomo dopo “macelleria messicana” della scuola Diaz e della caserma di
Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001. La prima condanna in Italia per
questo delitto c’è stata il 15 dicembre del 2021, inflitta per la prima volta un
tribunale italiano, quello di Ferrara, nei confronti di un agente.
Il processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, iniziato il 7 novembre
2022, è ancora in corso, ma intanto lo scorso luglio è stata revocata la
sospensione ad altri sei membri della polizia penitenziaria – ora tornati in
servizio – dopo che ad agosto 2023 erano stati reintegrati 22 agenti.
Il Beccaria di Milano – Scene simili al carcere minorile “Cesare Beccaria” di
Milano, dove lo scorso 23 aprile sono stati arrestati 13 agenti della
penitenziaria su 25 indagati in totale (la metà di quelli in servizio), indagati
per lesioni, maltrattamenti e tortura. Anche qui è venuto a galla un “sistema
consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali,
umiliazioni”, per usare le parole del gip, “un sistema per educare i minori
detenuti”. Da carcere modello a esempio di abbandono, il Beccaria è finito negli
ultimi mesi al centro delle cronache per le numerose evasioni e per i tanti
tentativi di rivolta al proprio interno. Qui per oltre 20 anni non c’è stato un
direttore stabile. Lo scorso dicembre Claudio Ferrari aveva interrotto la
girandola di nomi, ma a breve l’istituto diventerà sorvegliato speciale, insieme
al Nisida di Napoli “sede di incarico superiore”, e per guidarlo serviranno
almeno dieci anni di anzianità. Quindi ci sarà un ulteriore cambio al vertice.
“Sono arrivati sette agenti, mi hanno messo le manette e hanno cominciato a
colpirmi”. “Vedevo tutto nero. L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sputavano
addosso”. Le testimonianze delle vittime hanno fatto ricostruire agli inquirenti
quello che il gip definisce senza mezzi termini un “sistema per educare i minori
detenuti”. In un caso, “la più grave” tra le violenze, una spedizione punitiva
contro un ragazzo che aveva reagito alle molestie sessuali di una delle guardie
penitenziarie.
Il riferimento ai fatti di Ivrea – Tra i passaggi al centro dell’inchiesta sui
pestaggi di Trapani c’è un agente che fa uno specifico riferimento a un altro
carcere finito negli scorsi anni al centro delle cronache, quello di Ivrea: “Gli
si devono dare legnate. I colleghi non si toccano. A Ivrea noi facevano così,
appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio”. Per le violenze
nell’istituto piemontese il processo è ancora in corso. Quattro imputati, nel
frattempo, sono usciti dal procedimento penale, e il reato di tortura è stato
derubricato a lesioni, ma non c’è ancora una verità giudiziaria di quanto
successo tra il 2015 e il 2016.
Le violenze nel carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino – Anche il carcere “Lo
Russo e Cutugno” di Torino è finito al centro di episodi di pestaggi contro una
quindicina detenuti avvenuti tra il 2017 e il 2019. Il 14 novembre scorso la
Corte d’appello del capoluogo piemontese ha assolto tre imputati (l’ex
direttore, l’ex comandante della penitenziaria e un agente), ma il processo per
gli altri 22 indagati va avanti.
Foggia, Bari, San Gimignano – Qualche mese fa, il 18 marzo del 2024, dieci
agenti della polizia penitenziaria sono stati arrestati ai domiciliari con
l’accusa di aver partecipato a un violento pestaggio contro due detenuti. Tra i
vari reati contestati anche quello di tortura. Due giorni dopo, il 20 marzo, a
Bari cinque agenti Bari sono stati condannati per aver picchiato e umiliato un
detenuto psichiatrico dopo che aveva dato fuoco a un materasso. Il 17 febbraio
del 2021, invece, dieci membri della penitenziaria del carcere di San Gimignano
sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate in concorso.
Le rivolte durante il Covid a Modena – Tra procedimenti conclusi e molti altri
ancora in corso (l’associazione Antigone è attualmente parte civile in 5 diversi
processi) un grande punto interrogativo avvolge quanto avvenuto durante il
Covid, dove le proteste dei detenuti – a partire da quelle a Santa Maria Capua
Vetere – hanno infiammato le carceri della penisola.
In quei giorni concitati del marzo del 2020, quando tutta Italia era appena
entrata in lockdown, una grande rivolta nel carcere “Sant’Anna” di Modena si è
conclusa con nove detenuti morti. Ufficialmente per aver ingerito metadone e
altri farmaci rubati dall’infermeria.
Lo scorso settembre il gip, Carolina Clò, non ha accolto la richiesta della
procura di archiviare il fascicolo per tortura a carico di 120 agenti della
penitenziaria. Le indagini dureranno altri sei mesi e serviranno per chiarire il
mancato funzionamento, in quei momenti, di alcuni sistemi di videosorveglianza.
Ma anche per studiare meglio i motivi di un incontro tra gli agenti prima della
loro convocazione in questura e acquisire ulteriori cartelle cliniche per
approfondire le lesioni subite dai detenuti.
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Altro che mele marce. Se non ci si indigna di fronte a un poliziotto che
riempie di urina una cella di un detenuto o lo pesta senza ragione, vuol dire
che siamo di fronte a un processo diseducativo di massa che ha investito le
nostre coscienze
di Patrizio Gonnella da il manifesto
Violenze fisiche, forme di scherno e umiliazione nei confronti di persone con
disturbi psichici, secchiate di acqua e urina lanciate nelle celle anche in
piena notte, frasi offensive condite da razzismo. L’inchiesta trapanese ci
conferma quanto sia importante, se non decisivo, avere una magistratura
indipendente che indaghi sul potere, in tutte le forme nelle quali esso si
esprime.
L’inchiesta è durata circa due anni (2021-2023), segno che non ha riguardato un
singolo episodio ma una modalità criminale, violenta, truce, e purtroppo non
estemporanea, di gestione della pena carceraria nei confronti dei più
vulnerabili. La documentazione delle torture sarebbe terminata solo perché a un
certo punto, nell’agosto del 2023, è stato chiuso il reparto di isolamento, dove
si consumavano le violenze e dove era stata posta l’attenzione, anche con le
riprese video (come sempre decisive), da parte degli investigatori. Ed è proprio
la non episodicità che dovrebbe allarmare tutti noi.
La tortura è qualcosa che riguarda l’intera comunità nonché lo stato della
democrazia di un paese. Se non ci si indigna di fronte a un poliziotto che
riempie di urina una cella di un detenuto o lo pesta senza ragione, vuol dire
che siamo di fronte a un processo diseducativo di massa che ha investito le
nostre coscienze. Vuol dire che è in corso la bancarotta delle agenzie della
formazione pedagogica e dei corpi intermedi.
Alcune considerazioni a margine dell’inchiesta trapanese. Le violenze sono
principalmente avvenute nel reparto di isolamento. Molti suicidi avvengono in
isolamento. A volte l’isolamento è imposto come sanzione disciplinare, altre
volte invece è una condizione de facto nella quale è posto il detenuto, senza
alcuna giustificazione legale. Antigone ha in piedi una campagna a livello
globale per abolire questa pratica carceraria, insana, pericolosa, disumana.
L’amministrazione penitenziaria dia un segnale in questa direzione.
In secondo luogo va evidenziato che l’inchiesta avrebbe avuto il contributo
decisivo del Nucleo investigativo della stessa Polizia penitenziaria. Questa è
una buona notizia che va in controtendenza a quello spirito di corpo, che è
sempre l’anticamera dell’impunità di massa. È evidente che chi, tra gli agenti e
gli ufficiali di polizia penitenziaria, ha lavorato all’indagine non ha quella
cultura dell’asfissia del sottosegretario Del Mastro.
Una notizia invece non abbiamo potuto leggerla. Non abbiamo sentito
preannunciare, né dal ministro della Giustizia Nordio, né dalla presidente del
Consiglio Meloni, la futura costituzione di parte civile. Antigone è in tanti
processi in giro per l’Italia e sarebbe decisivo, anche per il messaggio
culturale sotteso, avere società civile e governo dalla stessa parte della
legalità nella lotta contro i criminali che torturano.
Infine, i torturatori se la prendono molto spesso contro i più vulnerabili, i
meno protetti, le persone con disturbi psichici, contro chi non si sa fare la
galera, ossia quelli per i quali il governo si è inventato il delitto di rivolta
penitenziaria. È questa la manifestazione di una pratica machista contro la
quale ci vorrebbe una rivoluzione culturale e formativa nel corpo di polizia
penitenziaria.
La presidente del Consiglio, per evitare di dover prendere le distanze dalle
parole inaccettabili di Del Mastro, ha immaginato che il sottosegretario volesse
«soffocare la mafia». Ma la verità è che la mafia respira ogniqualvolta lo Stato
la emula nelle pratiche illegali e violente.
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Torture made in Italy
di Marco Sommariva
Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente
letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al
contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e
proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare
fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare,
frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per
il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston
di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di
Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque
oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola
dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno
tedesco di Stig Dagerman.
Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio
Rosencof.
L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación
Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione
comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto
prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per
undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato
solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985.
La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri
ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella
sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità
di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un
manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti,
chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò
la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?”
chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la
polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone
estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal
manganello ma alla fine ce la fecero”.
La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio
spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima
dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime
deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo
fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono
stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli
occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi
hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia
e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio
con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole.
Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove
immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è
rimasto è andato a finire nella Sala 8”.
Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col
provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti
continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per
provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che
qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà.
In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa
scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi
lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un
sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria
esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono
disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi
mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e
poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e
bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il
presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla
pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla
finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido,
spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere
la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i
morti e per i vivi”.
Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui
inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof.
Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador
Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della
polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare
guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e
dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al
potere sino al marzo del 1990.
Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri
di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali
non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono
state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il
1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e
quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254.
Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a
prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata
costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici
anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta
legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono
messi dei topi vivi “dentro”.
In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire
nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non
ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì,
sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del
MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole
topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel
Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per
via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire
di tristezza”.
Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo
periodo della dittatura di Pinochet.
Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del
sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe
che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che
usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai
seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le
informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa
sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se
qualcuno era morto”.
In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la
televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non
arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era
l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava.
Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna
Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre
2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro
colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja
Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in
Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre
all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere
dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e
colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per
renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa
della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin
puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita
politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla
Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per
cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale.
Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi –
uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà
nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un
pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere,
provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link
https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/
con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio
Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di
un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini
sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza
precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo
che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si
è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto
disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso
di recupero ancora in corso”.
In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in
borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di
dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata
conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni
residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze
del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero,
Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un
coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza
dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le
chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico
del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto
“Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una
volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua
stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi.
“Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come
succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli
conficcarono un manganello nel culo”, ricordate?
Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una
peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati
sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le
telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e
abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro
Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono
stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare
firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.”
Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi
confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto
affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa
commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo
grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante
articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a
firma di Siegmund Ginzberg.
E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui
ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della
superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi.
Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la
crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare
loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti
medici.
Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici
ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti,
senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno
che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani,
ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley.
E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la
femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di
Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi.
Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu
Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di
Auschwitz.
Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in
quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro
arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a
spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio
ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria
spietatezza.
Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna
conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi.
È a questo che si riduce tutto”.
www.marcosommariva.com
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