Tag - tortura

Violenze nel carcere di Reggio Emilia: derubricato il reato di tortura
E’ arrivata la sentenza che riguarda il processo, avvenuto con rito abbreviato, nei confronti di dieci agenti della polizia penitenziaria che agirono violenza nei confronti di un detenuto nel carcere di Reggio Emilia nell’aprile 2023. La notizia, uscita ieri, parla di condanne dai 4 ai 2 anni di carcere ma, l’aspetto più significativo, riguarda la […]
February 20, 2025 / Radio Blackout 105.25FM
Da Triaca agli ex Br al 41-bis, il lungo flirt tra Italia e tortura
Le relazioni pericolose tra il “belpaese” e gli abusi e torture. Enrico Triaca, il tipografo della colonna romana delle Br denunciò di essere stato seviziato. Stessa sorte toccò ai sequestratori di Dozier. E poi c’è il carcere duro di Frank Cimini da l’Unità L’Italia come del resto altre democrazie ha un rapporto non molto chiaro (eufemismo) con la tortura. Infatti non esiste una legge che sanzioni la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale soprattutto per l’opposizione storica dei sindacati di polizia che vorrebbero abrogare o comunque ridimensionare quel minimo di normativa attualmente in vigore. Su questo urge una riflessione da contestualizzare proprio nel momento in cui il torturatore libico ricercato dal Tribunale penale internazionale è stato liberato e riaccompagnato a casa. L’utilizzo della tortura caratterizzò gli anni in cui c’era da reprimere la sovversione interna. Al di là delle “belle parole” nel 1982 del presidente della Repubblica Sandro Pertini: “In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi”. Questa sera nel centro sociale Bruno a Trento viene proiettato il documentario dal titolo Il tipografo sulla vicenda di Enrico Triaca, militante della colonna romana delle Brigate Rosse arrestato a maggio del 1978. Venne torturato. Un agente dei Nocs Danilo Amore testimonia l’esistenza di quelle sevizie. All’epoca il tipografo denunciò di essere stato torturato e fu condannato per calunnia. A distanza a di circa 40 anni la condanna fu annullata dal Tribunale di Perugia. Era tutto vero. Ovviamente i reati commessi ai suoi danni nel frattempo prescritti. La stessa sorte era toccata ai sequestratori del generale Dozier ma a coprire il misfatto furono le parole dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni che se la cavò brillantemente dicendo: “Siamo in guerra”. Le carceri speciali furono luoghi in cui si annullava l’identità politica dei reclusi applicando l’articolo 90, l’antenato del 41bis del regolamento penitenziario che attualmente riguarda oltre 700 detenuti. In stragrande maggioranza sono mafiosi e il loro numero risulta superiore a quanti vi erano sottoposti ai tempi delle stragi. Nell’elenco ci sono anche Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi che fecero parte delle nuove Br, organizzazione che non esiste da oltre 20 anni. Nonostante ciò le istanze per la revoca del 41 bis vengono regolarmente rigettate a causa del rischio di collegamenti con un esterno che non c’è. E poi c’è Alfredo Cospito protagonista di un lunghissimo sciopero della fame (considerato di fatto a scopo di terrorismo) per protestare contro il carcere duro a tutela degli altri 700 più che di se stesso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
Nordio si erge ad avvocato di Almasri giustificando la tortura
Attacco alla Corte penale internazionale. Omissioni, inesattezze e buchi temporali in serie. Il modo nel quale Nordio ha difeso Almasri e polemizzato con la Corte dell’Aia non si regge in piedi. Le leggi sono chiare, lui doveva conoscerle e fare eseguire l’arresto di Gianfranco Schiavone da l’Unità La difesa dell’operato del Governo sul caso Almasri da parte del ministro Nordio si basa sulle seguenti argomentazioni; innanzitutto il mandato di cattura emesso da parte della CPI e l’intero incartamento è arrivato in lingua inglese senza essere tradotto, con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello. A quali criticità si riferisca Nordio lo spiega lo stesso ministro quando mette in evidenza come la richiesta della CPI consta di “una sessantina di paragrafi in cui vi è tutta la sequenza di crimini orribili addebitati al catturando, vi è un incomprensibile salto logico. Le conclusioni del mandato di arresto risultavano differenti rispetto alla parte motivazionale e rispetto alle conclusioni”. Nordio dunque ha ritenuto opportuno e legittimo entrare nelle motivazioni addotte dalla CPI rivendicando come “ Il ruolo del ministro non è solo di transito e di passacarte, è un ruolo politico: ho il potere e dovere di interloquire con altri organi dello Stato sulla richiesta della Cpi, sui dettagli e sulla coerenza delle conclusioni cui arriva la Corte. Coerenza che per noi manca assolutamente”. Nella sua alquanto sorprendente conclusione il Ministro Nordio ribadisce la sua posizione sul fatto di avere seguito le regole affermando che “noi non possiamo scavalcare le procedure, altrimenti legittimeremmo tutto” e chiude accusando nientemeno la Corte Penale stessa di non aver seguito le regole del diritto. Cosa dicono dunque le regole che sarebbero state rispettate con così estremo rigore da Nordio e violate dalla Corte? Lo statuto di Roma della Corte Penale Internazionale entrato in vigore il 1.02. 2022 con legge 12 luglio 1999, n. 232 (ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale) prevede innanzitutto che “Lo Stato Parte che ha ricevuto una richiesta di fermo, o di arresto e di consegna prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona di cui trattasi, secondo la sua legislazione e le disposizioni del capitolo IX del presente Statuto”. (Art. 59 par. 1). Sulla base di quanto disposto dallo stesso articolo 59 (par.2) spetta all’autorità giudiziaria dello Stato in cui è stato effettuato l’arreso accertare, secondo la sua legislazione che il mandato concerne elettivamente tale persona, che sia stata arrestata secondo una procedura regolare e che i suoi diritti sono stati rispettati. Però lo stesso articolo (par.4) precisa che “l’autorità competente dello Stato di detenzione non è abilitata a verificare se il mandato d’arresto é stato regolarmente rilasciato secondo i capoversi a) e b) del paragrafo 1 dell’articolo 58”. Le autorità dello Stato in cui viene effettuato l’arresto devono vigilare sul rispetto dei diritti della persona ricercata dalla Corte ma non possono sindacare le valutazioni effettuate dalla Corte sulla sussistenza dei presupposti per emettere il mandato di arresto; spetta infatti solo alla CPI stabilire “se vi sono fondati motivi di ritenere che tale persona ha commesso un reato di competenza della Corte (e se) “l’arresto di tale persona sembra necessario per garantire la comparizione della persona al processo” oppure se è parimenti necessario “per impedire che la persona continui in quel crimine o in un crimine commesso che ricade sotto la giurisdizione della Corte o che avviene nelle stesse circostanze”. Scuserà il lettore la scelta di entrare in questioni procedurali così di dettaglio ma farlo è necessario per mettere in evidenza come lo Statuto della CPI esclude tassativamente che le autorità dello Stato che effettua l’arresto possano sindacare le ragioni addotte dalla CPI per spiccare il mandato di arresto, o addirittura entrare nel merito della presunta incoerenza delle motivazioni della CPI come invece rivendica di poter fare il ministro Nordio, senza alcun fondamento. Il contenuto della richiesta di arresto e di consegna è altresì disciplinato dall’articolo 91 dello stesso Statuto della CPI che prevede che la richiesta debba contenere o essere accompagnata da un fascicolo che contenga “ i documenti dichiarazioni ed informazioni che possono essere pretesi nello Stato richiesto per procedere alla consegna” purché però non siano eccessivamente onerose. È altresì disciplinata anche l’ipotesi (art.92 par.1) in cui ricorra una situazione di emergenza; in tal caso “la Corte può chiedere il fermo della persona ricercata in attesa che siano presentate la richiesta di consegna ed i documenti giustificativi di cui all’articolo 91”. Solo se tali documenti giustificativi non giungono successivamente nei tempi stabiliti la “persona in stato di fermo può essere rimessa in libertà” (par.3) e comunque ciò “non pregiudica il suo successivo arresto e la sua consegna, se la richiesta di consegna accompagnata dai documenti giustificativi viene presentata in seguito”. Il Ministro Nordio non ha sostenuto nella sua audizione in Parlamento che il fascicolo inviato dalla CPI fosse fortemente incompleto; anzi il ministro sembra essersi lamentato (!) proprio dalla corposità della documentazione pervenuta. Ho ritenuto tuttavia utile ricordare anche l’ipotesi della carenza documentale al fine di sottolineare come i principi giuridici che disciplinano la procedura di arresto della persona ricercata dalla Corte siano chiari: il Ministro della Giustizia non aveva la facoltà di entrare nel merito delle valutazioni della Corte Penale Internazionale in relazione alle ragioni del mandato di cattura e alla valutazione sulla pericolosità del soggetto, nè poteva sindacare su presunte incoerenze nella ricostruzione dei fatti. Ma anche volendo spingersi fino a ritenere che le asserite incongruenze nella documentazione ricevuta fossero così forti e dirimenti da dover essere chiarite, in ogni caso, il Ministro avrebbe dovuto chiedere alla Corte con immediatezza chiarimenti ed integrazioni documentali e solo nella remota ipotesi nella quale la Corte fosse rimasta tenacemente inerte l’ultima estrema ipotesi, ovvero liberazione del ricercato Almarsi, avrebbe potuto avvenire. Non sembra tuttavia dalla ricostruzione dei fatti e dall’analisi di quanto previsto dalla procedura che regola i mandati di arresto emessi dalla CPI, che le tesi sostenute dal focoso ministro della Giustizia siano dunque in alcun modo sostenibili. La liberazione di Almasri ha vanificato il mandato di arresto emesso dalla Corte penale Internazionale e il suo successivo solerte accompagnamento in Libia ha annullato il primo e prioritario obiettivo che la Corte Penale Internazionale intendeva perseguire, ovvero impedire che la persona possa continuare, come invece farà, a perpetrare i crimini per i quali era ricercato. La pratica della tortura è salva. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 6, 2025 / Osservatorio Repressione
Torture nel carcere di Reggio Emilia, chiesta la condanna per gli agenti penitenziari
La richiesta della procura nel processo per direttissima ai 10 poliziotti accusati delle violenze su un detenuto. La pm: «Agli agenti 46 anni di pena complessivi» di Eleonora Martini da il manifesto Condanne fino a cinque anni e otto mesi di reclusione, per alcuni dei dieci agenti di polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso. È quanto richiesto dalla pm Maria Rita Pantani, al termine di quattro ore di requisitoria, nel processo ai poliziotti accusati del pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nei corridoi del penitenziario e nella sua cella. Le prove a loro carico sono contenute nei video registrati dalle telecamere interne al carcere che l’avvocato Luca Sebastiani è riuscito a salvare. Il video choc è stato mostrato durante la requisitoria nell’udienza di ieri nell’aula del Tribunale di Reggio Emilia dove si celebra il processo in rito abbreviato – richiesto dagli imputati – davanti al Gup Silvia Guareschi. I frame immortalano l’uomo incappucciato con una federa bianca stretta al collo e trascinato da un gruppo di agenti che lo colpiscono ripetutamente. Denudato, sgambettato, picchiato con calci e pugni e, una volta a terra ammanettato, calpestato. Un’altra inquadratura riprende il detenuto tornato in cella, di nuovo picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado fosse ferito e sanguinante. «Un’azione brutale, punitiva preordinata, di violenza assolutamente gratuita», l’ha definita la pm Pantani che ha anche spiegato come i poliziotti accusati abbiano cercato di costruirsi una linea difensiva inventando il ritrovamento di lamette tra gli effetti personali del detenuto. In particolare per uno dei dieci poliziotti, accusato di tortura, lesioni e falso, la pubblica accusa ha chiesto cinque anni e otto mesi di reclusione. Per altri sette agenti accusati di tortura e lesioni la pena richiesta è di cinque anni mentre la pm ha chiesto due anni e otto mesi per altri due poliziotti penitenziari che rispondono solo di falso ideologico. Stralciata la posizione di altri 4 agenti, non imputati in questo processo che vede anche l’associazione Antigone tra le parti civili. Il detenuto, tunisino di 40 anni, ha ormai pochi mesi di carcere da scontare ancora dei tre anni di reclusione a cui è stato condannato per reati legati allo spaccio. L’uomo, lasciato per oltre un’ora in cella, ha riferito di essersi ferito con dei frammenti di un lavandino fino a inondare il corridoio di sangue, per richiamare l’attenzione del medico che lo ha soccorso. Il giorno dopo ha chiamato il suo avvocato riferendogli l’accaduto e la rapidità di intervento ha permesso di salvare le immagini. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 26, 2024 / Osservatorio Repressione
Da Santa Maria Capua Vetere a Trapani: quando il carcere diventa luogo di pestaggi e torture
C’è un filo nero che lega gli ultimi episodi con tanti altri casi di violenze nei confronti dei detenuti per opera di agenti della Polizia penitenziaria. Lo scorso aprile 13 arresti per maltrattamenti nei confronti dei minori reclusi al “Beccaria” di Milano, ma la lista delle “mattanze” è molto più lunga. di Lorenzo Stasi da il Domani I segni del pestaggio? “Tanto questo è nero e non si vede niente”. “Al detenuto gli si devono dare legnate”. E poi: “Facciamoli coricare. Poi quando sono sul letto prendiamoli a secchiate”. Non di acqua, ma di “pisciazza mischiata con acqua”. E ancora: “Ammazzalo di bastonate, ‘sto pezzo di merda”. Così parlavano gli agenti penitenziari della casa circondariale di Trapani nel nuovo capitolo degli ormai tanti casi di violenze e torture nei penitenziari italiani. Sono 46 in totale gli indagati, quasi un quarto di quelli in servizio nella struttura. 11 di loro sono finiti ai domiciliari, sono stati sospesi in 14, mentre per gli altri 21 il gip non ha emesso misure cautelari. I pestaggi ricostruiti in tre anni di indagini erano sistematici e pianificati: veniva organizzata, come si legge negli atti dell’inchiesta, “la formazione di una squadretta punitiva di poliziotti penitenziari favorevoli all’utilizzo di metodi risolutivi e violenti per la repressione di forme di dissenso da parte dei detenuti”. Fuori dagli occhi ingombranti delle telecamere, in sezioni ad hoc del carcere: il Reparto blu, chiamato anche la “palazzina delle torture”. Un modus operandi che, secondo il procuratore Gabriele Paci, “non era episodico, bensì una sorta di metodo per garantire ordine”. Il tutto con “un intento persecutorio”. C’è un filo rosso che lega i fatti di Trapani con molti altri venuti a galla negli ultimi mesi e negli ultimi anni. Le carceri italiane, spesso veri e propri buchi neri del sistema-giustizia – con un indice di sovraffollamento del 130 per cento, con circa 10 mila detenuti in più, e con 81 suicidi solo nel 2024, l’ultimo il 21 novembre a Poggioreale – diventano in alcune occasioni veri e proprio luoghi di tortura. Dove la “rieducazione del condannato” rimane spesso molto fuori dalle celle. È stata definita un’”orribile mattanza” dallo stesso gip. Pugni, calci, schiaffi, persone nude picchiate con i manganelli, testate con caschi. Quella avvenuta il 6 aprile del 2020 in pieno lockdown, al carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) è stata una violenza in stile sudamericano raccontata in esclusiva da Domani. “Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “chiave e piccone”. Così parlavano gli agenti penitenziari che quel giorno – erano 283 – hanno partecipato a quel pestaggio di massa. “Premeditato”, precisano le carte dell’inchiesta. Il giorno prima, come in altre carceri italiane in quei giorni concitati, c’erano state alcune proteste per chiedere dispositivi di protezione per una pandemia, il Covid, che iniziava a correre velocemente e di cui si sapeva ancora molto poco. Una caccia al detenuto – quella del giorno dopo – durata 4 ore in cui una trentina di carcerati vengono portati nella sala socialità, fatti inginocchiare e picchiati. Ma anche fatti sfilare in un corridoio e presi a schiaffi. In un frammento di un video c’è un detenuto in sedia a rotelle che viene colpito dal manganello di un agente. Alla fine della mattanza sono state chiuse in isolamento 14 persone. Tra queste c’era Hakimi Lamine, che è morto ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento, e in quei giorni non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia di cui soffriva. Gli indagati in totale erano 111 (poi diventati 105), le misure cautelari 57. Ad alcuni imputati è stato contestato il reato di “tortura”, introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 dopo una serie di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo dopo “macelleria messicana” della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001. La prima condanna in Italia per questo delitto c’è stata il 15 dicembre del 2021, inflitta per la prima volta un tribunale italiano, quello di Ferrara, nei confronti di un agente. Il processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, iniziato il 7 novembre 2022, è ancora in corso, ma intanto lo scorso luglio è stata revocata la sospensione ad altri sei membri della polizia penitenziaria – ora tornati in servizio – dopo che ad agosto 2023 erano stati reintegrati 22 agenti. Il Beccaria di Milano – Scene simili al carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, dove lo scorso 23 aprile sono stati arrestati 13 agenti della penitenziaria su 25 indagati in totale (la metà di quelli in servizio), indagati per lesioni, maltrattamenti e tortura. Anche qui è venuto a galla un “sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni”, per usare le parole del gip, “un sistema per educare i minori detenuti”. Da carcere modello a esempio di abbandono, il Beccaria è finito negli ultimi mesi al centro delle cronache per le numerose evasioni e per i tanti tentativi di rivolta al proprio interno. Qui per oltre 20 anni non c’è stato un direttore stabile. Lo scorso dicembre Claudio Ferrari aveva interrotto la girandola di nomi, ma a breve l’istituto diventerà sorvegliato speciale, insieme al Nisida di Napoli “sede di incarico superiore”, e per guidarlo serviranno almeno dieci anni di anzianità. Quindi ci sarà un ulteriore cambio al vertice. “Sono arrivati sette agenti, mi hanno messo le manette e hanno cominciato a colpirmi”. “Vedevo tutto nero. L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sputavano addosso”. Le testimonianze delle vittime hanno fatto ricostruire agli inquirenti quello che il gip definisce senza mezzi termini un “sistema per educare i minori detenuti”. In un caso, “la più grave” tra le violenze, una spedizione punitiva contro un ragazzo che aveva reagito alle molestie sessuali di una delle guardie penitenziarie. Il riferimento ai fatti di Ivrea – Tra i passaggi al centro dell’inchiesta sui pestaggi di Trapani c’è un agente che fa uno specifico riferimento a un altro carcere finito negli scorsi anni al centro delle cronache, quello di Ivrea: “Gli si devono dare legnate. I colleghi non si toccano. A Ivrea noi facevano così, appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio”. Per le violenze nell’istituto piemontese il processo è ancora in corso. Quattro imputati, nel frattempo, sono usciti dal procedimento penale, e il reato di tortura è stato derubricato a lesioni, ma non c’è ancora una verità giudiziaria di quanto successo tra il 2015 e il 2016. Le violenze nel carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino – Anche il carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino è finito al centro di episodi di pestaggi contro una quindicina detenuti avvenuti tra il 2017 e il 2019. Il 14 novembre scorso la Corte d’appello del capoluogo piemontese ha assolto tre imputati (l’ex direttore, l’ex comandante della penitenziaria e un agente), ma il processo per gli altri 22 indagati va avanti. Foggia, Bari, San Gimignano – Qualche mese fa, il 18 marzo del 2024, dieci agenti della polizia penitenziaria sono stati arrestati ai domiciliari con l’accusa di aver partecipato a un violento pestaggio contro due detenuti. Tra i vari reati contestati anche quello di tortura. Due giorni dopo, il 20 marzo, a Bari cinque agenti Bari sono stati condannati per aver picchiato e umiliato un detenuto psichiatrico dopo che aveva dato fuoco a un materasso. Il 17 febbraio del 2021, invece, dieci membri della penitenziaria del carcere di San Gimignano sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate in concorso. Le rivolte durante il Covid a Modena – Tra procedimenti conclusi e molti altri ancora in corso (l’associazione Antigone è attualmente parte civile in 5 diversi processi) un grande punto interrogativo avvolge quanto avvenuto durante il Covid, dove le proteste dei detenuti – a partire da quelle a Santa Maria Capua Vetere – hanno infiammato le carceri della penisola. In quei giorni concitati del marzo del 2020, quando tutta Italia era appena entrata in lockdown, una grande rivolta nel carcere “Sant’Anna” di Modena si è conclusa con nove detenuti morti. Ufficialmente per aver ingerito metadone e altri farmaci rubati dall’infermeria. Lo scorso settembre il gip, Carolina Clò, non ha accolto la richiesta della procura di archiviare il fascicolo per tortura a carico di 120 agenti della penitenziaria. Le indagini dureranno altri sei mesi e serviranno per chiarire il mancato funzionamento, in quei momenti, di alcuni sistemi di videosorveglianza. Ma anche per studiare meglio i motivi di un incontro tra gli agenti prima della loro convocazione in questura e acquisire ulteriori cartelle cliniche per approfondire le lesioni subite dai detenuti.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 25, 2024 / Osservatorio Repressione
La tortura che non dà respiro
Altro che mele marce.  Se non ci si indigna di fronte a un poliziotto che riempie di urina una cella di un detenuto o lo pesta senza ragione, vuol dire che siamo di fronte a un processo diseducativo di massa che ha investito le nostre coscienze di Patrizio Gonnella da il manifesto Violenze fisiche, forme di scherno e umiliazione nei confronti di persone con disturbi psichici, secchiate di acqua e urina lanciate nelle celle anche in piena notte, frasi offensive condite da razzismo. L’inchiesta trapanese ci conferma quanto sia importante, se non decisivo, avere una magistratura indipendente che indaghi sul potere, in tutte le forme nelle quali esso si esprime. L’inchiesta è durata circa due anni (2021-2023), segno che non ha riguardato un singolo episodio ma una modalità criminale, violenta, truce, e purtroppo non estemporanea, di gestione della pena carceraria nei confronti dei più vulnerabili. La documentazione delle torture sarebbe terminata solo perché a un certo punto, nell’agosto del 2023, è stato chiuso il reparto di isolamento, dove si consumavano le violenze e dove era stata posta l’attenzione, anche con le riprese video (come sempre decisive), da parte degli investigatori. Ed è proprio la non episodicità che dovrebbe allarmare tutti noi. La tortura è qualcosa che riguarda l’intera comunità nonché lo stato della democrazia di un paese. Se non ci si indigna di fronte a un poliziotto che riempie di urina una cella di un detenuto o lo pesta senza ragione, vuol dire che siamo di fronte a un processo diseducativo di massa che ha investito le nostre coscienze. Vuol dire che è in corso la bancarotta delle agenzie della formazione pedagogica e dei corpi intermedi. Alcune considerazioni a margine dell’inchiesta trapanese. Le violenze sono principalmente avvenute nel reparto di isolamento. Molti suicidi avvengono in isolamento. A volte l’isolamento è imposto come sanzione disciplinare, altre volte invece è una condizione de facto nella quale è posto il detenuto, senza alcuna giustificazione legale. Antigone ha in piedi una campagna a livello globale per abolire questa pratica carceraria, insana, pericolosa, disumana. L’amministrazione penitenziaria dia un segnale in questa direzione. In secondo luogo va evidenziato che l’inchiesta avrebbe avuto il contributo decisivo del Nucleo investigativo della stessa Polizia penitenziaria. Questa è una buona notizia che va in controtendenza a quello spirito di corpo, che è sempre l’anticamera dell’impunità di massa. È evidente che chi, tra gli agenti e gli ufficiali di polizia penitenziaria, ha lavorato all’indagine non ha quella cultura dell’asfissia del sottosegretario Del Mastro. Una notizia invece non abbiamo potuto leggerla. Non abbiamo sentito preannunciare, né dal ministro della Giustizia Nordio, né dalla presidente del Consiglio Meloni, la futura costituzione di parte civile. Antigone è in tanti processi in giro per l’Italia e sarebbe decisivo, anche per il messaggio culturale sotteso, avere società civile e governo dalla stessa parte della legalità nella lotta contro i criminali che torturano. Infine, i torturatori se la prendono molto spesso contro i più vulnerabili, i meno protetti, le persone con disturbi psichici, contro chi non si sa fare la galera, ossia quelli per i quali il governo si è inventato il delitto di rivolta penitenziaria. È questa la manifestazione di una pratica machista contro la quale ci vorrebbe una rivoluzione culturale e formativa nel corpo di polizia penitenziaria. La presidente del Consiglio, per evitare di dover prendere le distanze dalle parole inaccettabili di Del Mastro, ha immaginato che il sottosegretario volesse «soffocare la mafia». Ma la verità è che la mafia respira ogniqualvolta lo Stato la emula nelle pratiche illegali e violente. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 21, 2024 / Osservatorio Repressione
Italiani, brava gente. Che tortura
Torture made in Italy di Marco Sommariva Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare, frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno tedesco di Stig Dagerman. Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio Rosencof. L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985. La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti, chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?” chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal manganello ma alla fine ce la fecero”. La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole. Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è rimasto è andato a finire nella Sala 8”. Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà. In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i morti e per i vivi”. Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof. Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al potere sino al marzo del 1990. Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254. Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono messi dei topi vivi “dentro”. In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di tristezza”. Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo periodo della dittatura di Pinochet. Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se qualcuno era morto”. In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava. Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre 2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale. Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi – uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere, provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/ con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso di recupero ancora in corso”. In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero, Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi. “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli conficcarono un manganello nel culo”, ricordate? Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.” Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a firma di Siegmund Ginzberg. E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi. Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti medici. Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti, senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani, ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley. E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi. Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di Auschwitz. Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria spietatezza. Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto”. www.marcosommariva.com       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
I cani d’Albania
Le deviazioni, gli abusi e la tortura nell’azione di contrasto alla lotta armata da parte di polizia. La loro rimozione, operata nei decenni scorsi dal mondo politico e giudiziario nella sua (quasi) totalità, non solo oltraggia la verità ma impedisce la piena comprensione di quegli anni e di quello che hanno significato nella vita del […] L'articolo I cani d’Albania sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 22, 2024 / Osservatorio Repressione
Il tabù della Repubblica: dalle torture contro Triaca nel 1978 a Bolzaneto nel 2001
Un ventennio di violenza degli apparati, di interrogatori non ortodossi, waterboarding e pestaggi, finte fucilazioni e sevizie, taciuti, negati, omessi di Paolo Persichetti da Insorgenze Giovedì 25 luglio alle ore 20,00 verrà proiettato presso il Loa Acrobax di Roma, a ponte Marconi, in via della Vasca navale 6, il film documentario “Il Tipografo” che racconta la […] L'articolo Il tabù della Repubblica: dalle torture contro Triaca nel 1978 a Bolzaneto nel 2001 sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
July 22, 2024 / Osservatorio Repressione
I tentativi del governo di abolire il reato di tortura
Fratelli d’Italia vuole abolire il reato di tortura e derubricarlo a mera aggravante.  Tutto quello da sapere sulla normativa e su come nasce il reato di tortura in Italia. di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu da il Domani “Se oggi esiste, in Italia, una versione sia pur blanda del reato di tortura è soprattutto […] L'articolo I tentativi del governo di abolire il reato di tortura sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
June 28, 2024 / Osservatorio Repressione