Rispolveriamo un vecchio, ma sempre valido slogan per dare qualche aggiornamento
sulla questione amianto al Gabrio, anche perché spesso tanto viene detto e
riportato da giornali e/o pseudo politici senza alcuna cognizione di causa.
Nella scuola occupata di via Millio c’è da sempre l’amianto, come nella maggior
parte dell’edilizia degli anni ’70 di Torino e non solo.
Una volta emersa la questione nel 1997 e fino al suo funzionamento, il Comune si
è occupato di alcuni lavori di messa in sicurezza e di un piano di gestione e
controllo. Quando la scuola nel 2013 è stata occupata, con estrema attenzione è
stata ripresa la documentazione pubblica esistente, messa in sicurezza la
struttura e prodotto un documento pubblico di (auto)gestione dello stabile¹.
In fondo, il nostro collettivo ha sempre dovuto fare i conti con la presenza
dell’amianto²: anche nella precedente occupazione di via Revello ci siamo presi
cura e messo in sicurezza un edificio che lo conteneva e abbiamo dovuto
sopportare gli attacchi di una certa politica pronta a gridare allo scandalo
mentre copre chi ha lucrato per anni sull’amianto ben conoscendone i danni per
la salute.
A dicembre 2024 abbiamo deciso di fare un controllo approfondito sullo stato
dell’amianto nella struttura: non c’era un’urgenza particolare, ma
dall’occupazione abbiamo seguito il documento e le indicazioni di espert*, anche
perché l’ultima era stata effettuata nel 2012.
Con ingegneri specializzati abbiamo revisionato il piano di Manutenzione e
Controllo, effettuato sopralluoghi in tutte le aree in cui è presente l’amianto
e fatto diversi campionamenti professionali dell’aria per verificare se ci fosse
dispersione di fibre di amianto.
I risultati³ hanno evidenziato che:
* non c’è nessuna dispersione di fibre di amianto;
* i manufatti che contengono amianto sono in sicurezza;
* come evidenziato dai tecnici, la manutenzione e il controllo dell’amianto
portato avanti dal collettivo è stato efficace per garantire la salute di chi
frequenta e di chi abita le aree circostanti.
Insomma
L’AMIANTO AL GABRIO C’È, MA È SOTTO CONTROLLO E IN SICUREZZA.
Questo si aggiunge ai fatti che dimostrano come la capacità di autogestire un
luogo sottratto all’abbandono sia concreta.
Cercare di creare un luogo in primis sicuro per chi lo frequenta o ci vive
vicino è sempre una nostra priorità, per questo abbiamo autofinanziato delle
costosissime analisi specialistiche e abbiamo speso e spendiamo altrettante ore
nella manutenzione fisica del Gabrio.
In un contesto in cui in nome del profitto e della speculazione anche le città
sono sempre più riempite di vecchie e nuove nocività, tra PFAS trovati nelle
acque, polveri sottili e depositi di smarino che si decidono di costruire vicino
a grandi centri abitati come a Susa, per noi le priorità continuano ad essere
altre: la messa in sicurezza dei territori e il prendersi cura delle comunità
che li vive.
Continueremo a fare la nostra parte anche dal 42 di Via Millio.
CSOA GABRIO
Note
¹ Piano di Manutenzione e Controllo – CSOA Gabrio
² Campagna I Love Gabrio
³ RELAZIONE_MISURE_AMIANTO_GABRIO_2024_25
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Dopo una grande settimana di mobilitazioni in tutt’Italia, il governo, che sul
piano pubblico continua a mantenere una posizione ambigua (e implicitamente
complice) sul genocidio portato avanti da Israele, è invece risoluto ed
efficiente nel portare avanti il suo progetto di repressione del dissenso
interno.
La storia di Anan, Alì e Mansour dimostra chiaramente sia la fame di repressione
che l’asservimento allo Stato genocida. A Milano, dove 200000 persone hanno
cercato di occupare la stazione centrale in segno di solidarietà col popolo
palestinese, la repressione ha colpito con una brutalità tanto eccessiva quanto
gratuita. Due compagnx minorenni organizzatx nell’ambito del CSA Lambretta sono
statx arrestatx con motivazioni pretestuose e, dopo aver passato 3 notti in
attesa di udienza al carcere Beccaria (tristemente noto per gli abusi della
gestione), si sono trovatx ad affrontare aggravanti pesanti, domiciliari e, cosa
di una gravità inaudita, persino il divieto di frequentare la scuola. A questo
si aggiungono altri arresti e altre misure repressive come l’obbligo di firma
per altrx compagnx maggiorenni.L’apparato repressivo mostra come la vera
violenza non siano due vetrine rotte, le cui spese verrano prontamente coperte
dalle assicurazioni dei marchi miliardari che hanno negli anni colonizzato la
stazione centrale, ma la furia con cui lo Stato si scaglia contro qualunque
espressione di dissenso che esca dai confini del “decoro”. Viene criminalizzato
qualunque momento di piazza nel quale la rabbia, l’angoscia e il legittimo
desiderio di lottare per un mondo migliore non si lascino imbrigliare
all’interno di una cornice pacificata, innocua per chi sta al potere e
accettabile per il pubblico moderato che guarda da casa, i cui sogni tranquilli
non vanno perturbati.Queste misure repressive cercano di farci sentire solx e
impotentx, sotto la perenne minaccia di uno Stato in grado di rovinare le nostre
vite e la nostra salute fisica e mentale se non ci lasciamo disciplinare.
Come CSOA Gabrio esprimiamo la nostra piena solidarietà e complicità a
Lambretta, a tutti i collettivi di Milano che sono scesi in piazza il 22
settembre e a tuttx lx compagnx arrestatx. Lx ringraziamo per aver avuto il
coraggio di sfidare il dispositivo di polizia che voleva impedire loro di
esercitare il diritto di scioperare e di portare la legittima e doverosa
solidarietà al popolo palestinese.In quelle stazioni c’eravamo tuttx e non
avremo paura di tornarci nelle prossime settimane.
Libertà per tuttx!
20250806_COSCO-Pisces-ASER
Da più di un anno Maja è rinchius* nelle carceri ungheresi, estradat* e poi
torturat* nel paese liberticida di cui Orban è dittatore, per il solo “crimine”
di essere antifascista — crimine del quale siamo tutte, tutt* e tutti colpevol*!
Negli ultimi mesi, Maja, ha subito abusi non troppo dissimili da quelli inflitti
a Ilaria Salis: catene ai piedi e alle mani, collare e guinzaglio, un processo
giuridico opaco e infiltrato da un chiaro messaggio politico fascista e
autoritario contro chi lotta per la libertà.
Come ultimo atto di autodeterminazione, Maja ha iniziato uno sciopero della
fame, dapprima in cella d’isolamento e ora nell’ospedale carcerario ungherese al
confine con la Romania.
Un mese di lotta, attraverso il proprio corpo, che ha portato le sue attuali
condizioni di salute ad essere a dir poco allarmanti: drastica perdita di peso,
deterioramento degli organi vitali, danni al cuore.
Riconosciamo e rimarchiamo la necessità del sostegno internazionale a tutt* l*
compas e, in questo momento tragico, a Maja.
Nel nostro piccolo, vogliamo mandare un messaggio di solidarietà e rilanciamo le
richieste avanzate dal padre di Maja, Wolfram Jarosch, come possibile via
d’uscita dal supplizio che l* compas sta subendo:
1. «In nessun caso si deve impiantare un pacemaker contro la volontà di Maja.
Non sarebbe utile dal punto di vista medico, poiché la bassa frequenza
cardiaca è una conseguenza diretta dello sciopero della fame.»
2. «Maja non deve essere legat* al letto. Una misura del genere sarebbe crudele
e priva di giustificazione medica.»
3. «Il Ministero degli Esteri tedesco deve urgentemente porre fine
all’isolamento carcerario e ottenere il rientro di Maja in Germania.»
4. «Non devono avvenire altre estradizioni verso l’Ungheria!»
[Estratto da: Comunicato stampa congiunto di Wolfram Jarosch e del Comitato di
solidarietà per lo sciopero della fame di Maja]
Pretendiamo la liberazione immediata di Maja!
Urge un fronte comune di lotta contro questa ondata fascista che, come un olezzo
di roba rancida e putrefatta, si è riversata sul nostro mondo e nelle nostre
città.
Non possiamo aspettarci niente da uno stato fascista – ungherese o italiano che
sia – e sicuramente non ci aspettiamo una narrazione istituzionale che definisca
i nazisti come un problema di libertà.
Cosa possiamo aspettarci, allora, da un tribunale in cui l’unico giudice fa
anche parte dell’accusa, se non un teatrino della peggior specie?
Possiamo però essere e restare solidal*, possiamo fare tutto ciò che pensiamo
sia giusto per aumentare la solidarietà in maniera esponenziale, immaginando
anche nuove forme di lotta.
A Torino gridiamo da oltre trent’anni che “si parte e si torna insieme”: non è
solo un coro, è una sfida vitale!
Maja non è sol*
#FreeAllAntifas
#FreeMaja
L’attacco a Manituana è un ulteriore atto nella guerra a bassa intensità che
l’amministrazione comunale ha dichiarato contro gli spazi liberati e
l’auto-organizzazione dal basso.
La Torino che sognano di costruire è una città “smart” e ricca, dove chi ha
potere economico può avere tutto, mentre chi è pover* semplicemente scompare.
Una città di rentiers che spremono valore dalla speculazione edilizia, dagli
affitti sempre più inaccessibili e dai grandi eventi.
Naturalmente in tutto questo non c’è spazio per le persone in carne ed ossa che
questa città la abitano davvero: persone con necessità e bisogni (casa, reddito,
salute), con desideri e sogni (di relazioni sociali soddisfacenti, di una vita
degna e interessante), con rabbia e aspirazioni ad un mondo altro.
È in questo humus fertile, fatto di relazioni e politica, di auto-organizzazione
e lotta, che gli spazi sociali come Manituana nascono e proliferano: perchè,
come ci ricordano lu compas, una collettività politica non si può sradicare.
Ed è difficile convincere chi ha sperimentato la possibilità di decidere sulla
propria vita e sulle scelte della propria comunità a rientrare nei ranghi
dell’obbedienza al comando della ragion (economica) di Stato.
Manituana non ha genere, non ha specie e non ha padroni. È l’insradicabile
necessità di costruire, immaginare futuri diversi, coltivare speranze e lotte in
un presente in cui il cemento prova a soffocare ogni seme di resistenza.
Di fronte al furto di spazio che GTT e Amiat-Iren progettano, Manituana promette
di resistere. Non solo noi lo crediamo, ma assicuriamo fin d’ora che siamo e
saremo al loro fianco.
Dalla riapertura del lager di Corso Brunelleschi abbiamo sempre cercato di
portare la nostra solidarietà alle persone recluse -che sbirri e operatori del
centro con nervosismo continuano a chiamare “”ospiti””.
Le condizioni all’interno del lager continuano a essere, e saranno sempre,
degradanti. Le rivolte scoppiate nelle scorse settimane lo dimostrano
chiaramente: non può esistere una vita dignitosa tra quelle mura.
Negli ultimi giorni stanno venendo aperte nuove aree e le persone recluse sono
sempre di più, quasi settanta ormai.
Come ci raccontano i reclusi all’interno del lager, le condizioni di vita sono
degradanti e i detenuti vengono umiliati quotidianamente.
Crediamo che la solidarietà passi anche attraverso la consegna dei pacchi
contenenti vestiti e generi alimentari. Questi ultimi molto importanti, non solo
perché allo “shop” del CPR un pacco di biscotti arriva a costare 7 euro, ma
anche perché il cibo somministrato è pieno di psicofarmaci utilizzati per sedare
le persone recluse.
Ma soprattutto gli consente di avere la libertà di scegliere se accettare o
rifiutare il pasto.
Consegnare i pacchi per noi è un modo per fare sentire alle persone recluse che
non sono sole, che esiste una solidarietà, anche molto concreta, fuori da quelle
mure.
Sbirri, militari e operatori hanno sempre mostrato grande nervosismo quando
siamo andat3 a consegnare tutti quei pacchi.
Dopo le prime rivolte hanno man mano aggiunto regole e procedure per danneggiare
anche questa forma di solidarietà, cercando sempre pretesti per non fare
arrivare i pacchi ai detenuti. Qualche pacco (fortunatamente pochi) non è
arrivato, il cibo prossimo alla scadenza le ultime volte è stato rifiutato,
alcune cose accettate una volta, non lo sono state la volta successiva. E dulcis
in fundo, durante l’ultime consegne ci è stato detto che si possono consegnare
vestiti esclusivamente nuovi o con lo scontrino della lavanderia. Tutto ciò,
dicono, per il “benessere” dei detenuti che altrimenti rischierebbero la scabbia
(come se non fossimo in grado di lavare i vestiti).
Ancor peggio è che, se per i primi pacchi era possibile incontrare i reclusi,
salutarsi brevemente vis a vis, anche se circondatɜ da una dozzina di sbirri di
ogni tipo, dopo le prime rivolte hanno deciso che questo non era più ammesso dal
regolamento, che “non c’era bisogno”. Nel continuo processo di disumanizzazione
e isolamento totale adesso sono gli sbirri a consegnare i pacchi.
Insomma, la vendetta istituzionale per essersi rivoltati tenta di recidere i
pochi legami di solidarietà, ma non arrendiamoci.
Grazie alla raccolta, siamo riuscitɜ a fare delle grandi consegne di pacchi, ma
le richieste da dentro continuano ad arrivare, per questo la raccolta va avanti.
Ricordiamo che a causa delle nuove restrizioni i vestiti che raccogliamo devono
essere NUOVI.
Per chi volesse contribuire alla raccolta può passare il martedì e il mercoledì
dalle 17.00 alle 20.30 al Gabrio in via Millio 42 o contribuire economicamente
via satispay.
Per chi volesse organizzarsi ci vediamo in assemblea tutti i martedì alle 19.30
al Gabrio
Freedom, Hurrya, Libertà!
Come ormai dovreste sapere, in quanto “Associazione riconosciuta” (Associazione
AI ODV) possiamo ricevere le donazioni tramite il 5×1000, ossia a chi destinare
una piccola parte delle tasse che si pagano.
La cosa vale solo per chi paga le tasse in Italia.
Per questo, se pensate di avere una qualche affinità con il nostro progetto e se
volete che continui a funzionare, vi invitiamo a destinarci il vostro 5×1000.
Chi sceglie di destinare il suo 5×1000 alla nostra associazione può farlo
apponendo la propria firma in uno degli appositi spazi sulla dichiarazione dei
redditi (Modello 730, Modello Redditi, Unico PF) e indicare il nostro codice
fiscale che è 93090910501. La firma va apposta nell’apposito riquadro “Sostegno
degli Enti del Terzo Settore…” che di solito è il primo a sinistra nella scheda.
Nel riquadro va scritto il nostro codice fiscale che è 93090910501.
Chi fa la dichiarazione on-line deve seguire la stessa procedura, anche se non
deve mettere una firma con la penna…
Anche chi non deve presentare la dichiarazione dei redditi può destinarci il suo
5×1000, basta compilare la scheda della CU (“Certificazione Unica”) che viene
data dal proprio datore di lavoro, inserendo nell’apposito riquadro il nostro
codice fiscale che è 93090910501. La scheda compilata va inserita in una busta
chiusa sulla quale va scritto in modo leggibile: Destinazione 5X1000 IRPEF, il
proprio Nome e Cognome, e il proprio codice fiscale. La busta deve essere
consegnata (non si paga nulla) presso gli uffici postali, i sportelli bancari o
gli intermediari abilitati.
Nel 2024 abbiamo ricevuto 3.577 euro. Ringraziamo tutte e tutti quelli che ci
hanno mostrato in questo modo il loro sostegno. Per avere un’idea delle nostre
spese potete guardare questa pagina.
Ci avviciniamo a celebrare l’80esimo anniversario della liberazione dal
nazi-fascismo immersi in un’atmosfera da fine del mondo.
Se non fosse bastata la promessa distruttiva della crisi ecologica in cui siamo
immers*, con la sindemia del covid come trauma collettivo già quasi-rimosso, la
guerra aperta è nuovamente esplosa anche nella “pacifica” Europa.
Sappiamo bene che per i popoli e per le soggettività oppresse, così come per le
lavoratrici e i lavoratori, la guerra, nelle sue forme più esplicite delle bombe
in Palestina o in quelle meno dichiarate come femminicidi, transicidi, morti sul
lavoro o in mare, non si era mai fermata.
Al contempo però assistiamo ad un cambio di paradigma, esemplificato dai
discorsi intorno alla guerra guerreggiata, dal via libera al riarmo come unica
soluzione per salvarci dalla barbarie, dal riaccendersi dei nazionalismi e dalle
guerre commerciali.
Eppure, di fronte all’intensificarsi del genocidio in Palestina, all’aumento
vertigionoso delle spese in armamenti in Europa e nel mondo, alla violenta
repressione del dissenso che, partendo dagli USA di Trump e passando per la
“democratica” Germania, arriva fino alla fascistissima Italia, non è il momento
di abbandonarci allo sconforto nè di soccombere alla disillusione.
Il macro della geopolitica estera si riflette e rafforza nel micro delle nostre
vite e dei quartieri in cui viviamo come nodi in tensione da cui rispondere,
opporsi e resistere, soprattutto quando la sospensione totale di qualsiasi forma
di democrazia si rende evidente. Ci scontriamo infatti con disuguaglianze di
classe sempre più amplificate, le stesse che rendono impossibile a moltx avere
una casa ed arrivare a fine mese nonostante un contesto urbano colmo di spazi
abbandonati lasciati a marcire. Le città che abitiamo si rivelano divise in
frontiere interne che separano i quartieri “riqualificati”, accessibili a
poch*, da quelli “indecorosi”, raccontati come pericolosi attraverso le famose
“zone rosse” fino a rendere di nuovo legittimi e desiderabili luoghi di confine
e tortura come le carceri e i cpr. Nel clima di guerra diffuso, non sono solo le
fasce più marginalizzati a subire il neofascismo, siamo tutt noi, perché i tagli
all’istruzione, alla ricerca, alla salute pubblica, ai centri antiviolenza hanno
effetti reali sui corpi senza distinzioni, seppur con differenti gradi di
severità. In questo meccanismo stratificato, la guerra si presenta come realtà
pronta a riscrivere i presupposti di ulteriori divisioni sociali, nuovi sommersi
e salvati mentre si allarga la fascia di persone e corpi sacrificabili.
Se la confusione è grande sotto il cielo, il momento non è certo eccellente,
eppure il mondo è lungi dall’essere pacificato: in Palestina il movimento di
resistenza palestinese affronta con determinata ostinazione il tentativo di
cancellazione del loro popolo, negli Stati Uniti studentesse e studenti
infiammano le università sfidando l’ira repressiva del governo repubblicano,
mentre dal Chiapas arriva l’appello a costruire “il giorno dopo” della tempesta
capitalista.
IL 25 aprile ci pare allora quanto mai attuale, nel suo interrogarci in maniera
urgente, non solo oggi ma nelle lotte che animiamo tutti i giorni: di fronte
alle crisi del mondo che conosciamo, con i suoi immancabili risvolti violenti e
sanguinari, da che parte stiamo? Quali responsabilità, individuali e collettive,
ci chiamano all’azione?
Ieri come oggi, resistere rimane per noi una postura necessaria quanto
diversificata nella molteplicità di pratiche, forme e idee disposte a
contrastare imperialismi e fascismi vecchi e nuovi. Che sia nell’opporsi a
progetti estrattivi ed ecocidi tramite sabotaggi e picchetti, occupando
fabbriche e rivoluzionando gli assetti produttivi in chiave anti-capitalista,
dis-armando una guerra contro le donne e le soggettività non conformi al mito
patriarcale e alle sue soluzioni punitive e securitarie. Smontando il mito del
progresso e della pace basate su violenza e sfruttamento lontano dai nostri
occhi. Resistiamo e ci organizziamo nella lotta liberando spazi e menti,
salvando il desiderio di un’alternativa rispetto a un mondo in fiamme, occupando
case, palazzi, quartieri e università per dar spazio a nuove forme del sociale,
di alleanze e di solidarietà nelle lotte di ciascun contro nemici comuni, perchè
nessunx rimanga solx.
Oggi, dopo 80 anni, siamo qui per ricordare, e per non dimenticare mai, il costo
della nostra libertà e la sua necessità, uno sforzo continuo da compiere
insieme, giorno dopo giorno.
Sarà un giorno di festa e di lotta, vogliamo passarlo con l* nostr* compagn*,
sicur* che le nostre strade si incontreranno ancora e spesso nei tempi prossimi
di resistenza.
Fino alla rivoluzione
★ PROGRAMMA ★
In un momento storico segnato da tensioni crescenti, in cui la corsa al riarmo e
la logica della guerra imperialista vengono imposte come orizzonte inevitabile,
non sorprende che le istituzioni tentino di silenziare e reprimere chi sceglie
di organizzarsi dal basso, animando e vivendo le lotte che si oppongono al
deserto lasciato dalle politiche istituzionali.
Da sempre, chi si oppone allo stato delle cose viene criminalizzatx. Oggi più
che mai, chi non abbassa la testa e continua a resistere è oggetto di una
repressione sempre più intensa, attraverso misure giudiziarie che mirano ad
annichilire il dissenso e a trasformare in nemico pubblico chi crede che le
lotte dal basso siano lotte di tuttx.
Vorrebbero silenziarci, costringerci alla passività, pront* ad accettare il
destino che hanno già scelto per noi.
Non riuscendoci, usano l’unica arma che conoscono: la repressione e la macchina
del fango.
Sappiamo bene che hanno paura.
Sanno che chi scende in strada non lo fa per un tornaconto personale, non lo fa
per soldi o per potere, come un qualunque politico. Lottare significa credere in
un mondo diverso, significa costruire pratiche di resistenza e solidarietà
reali, significa portare avanti un’idea di un mondo diverso e di una vita degna
per tutt*.
Ed è proprio questa determinazione a spaventarli: l’idea che esista ancora chi
non si piega, chi si organizza, chi non è disposto a farsi schiacciare senza
reagire.
Tra pochi giorni ci sarà la sentenza del Processo Sovrano, l’ennesimo capitolo
di una strategia repressiva che da anni tenta di annientare le esperienze di
lotta costruite con determinazione da tant* compagn*, in valle come in città.
Un processo velenoso costruito dalla procura torinese con l’unico scopo di
colpire chi ha scelto di non arretrare, incastrando pezzi di storie diverse per
costruire il teorema di un’associazione a delinquere. Un’accusa strumentale,
frutto di un impianto che non ha nulla a che vedere con la ricerca della verità,
ma molto con la volontà di stroncare il dissenso.
Non è la prima volta che assistiamo a simili manovre repressive: la magistratura
torinese è da sempre in prima linea nel colpire chi lotta, mentre le denunce
degli abusi delle FFO vengono sistematicamente archiviate. è un copione già
visto, dove i ruoli sono sempre gli stessi, da un lato, chi difende gli
interessi del potere con processi-farsa e campagne mediatiche denigratorie e
dall’altro, chi resiste e continua a lottare per la giustizia sociale.
Ma questa repressione non riguarda solo Torino. Il processo sovrano si
inserisce in un contesto di progressivo restringimento degli spazi di libertà e
di espressione in tutta Italia. Infatti se colleghiamo questa vicenda alla
riforma della giustizia che mira a sottomettere definitivamente il potere
giudiziario al potere politico esecutivo l’obbiettivo diventa ancora
più chiaro: normalizzare la società, soffocare il dissenso, spegnere ogni voce
critica prima che possa diventare una minaccia reale per l’ordine costituito.
Ma chi lotta non è mai solx.
Solidarietà all* compagn* indagate, eravamo e rimaniamo al loro fianco!
L* compagn* del CSOA Gabrio
Esattamente una settimana fa arrivava l’annuncio dello sgombero del palazzo
occupato in via Monginevro 46 nel 2013.
Un’occupazione nata a seguito della crisi economica che in città aveva
portato numerosi sfratti e sgomberi, a cui si è risposto con varie occupazioni
abitative (7 solo in San Paolo).
Occupazioni che hanno dato l’opportunità a decine di persone di avere un tetto
che gli permettesse di non finire ancora più ai margini di una società sempre
più individualista ed escludente.
Occupazioni, ma soprattutto case.
Case che hanno permesso di ripartire e progettare il proprio futuro senza
sottostare a ricatti e umiliazioni.
Purtroppo però, come per le altre esperienze in quartiere, sembra arrivata la
fine anche di questa occupazione.
Uno sgombero quasi annunciato insomma: nemmeno un anno fa era stato sgomberato
il palazzo di via Muriaglio e pochi anni prima via Frejus e via Revello.
Quest’ultima palazzina con le stesse modalità di via Monginevro.
Nonostante i proclami sui giornali della settimana scorsa, lo sgombero non è
avvenuto realmente. Come in altri casi, è stata messa in atto una pratica tanto
violenta quanto subdola: il distacco della luce e/o dell’acqua. Un assedio
silenzioso per forzare le persone ad andarsene ed evitare alle istituzioni di
dover avanzare proposte concrete per risolvere la costante crisi abitativa.
Mentre le famiglie con minori vengono trasferite in strutture, costrette a
vivere spesso in un monolocale (questa volta fortunatamente non hanno separato i
genitori), per le persone singole non c’è nessuna prospettiva.
E oggi? E domani? saranno giornate di “sgomberi dolci” a Torino– così gli piace
chiamarli- evitando di prendersi la responsabilità politica e morale
dell’assenza di soluzioni alternative.
Ciò che accade in queste situazioni non è una novità: il razzismo istituzionale,
la gentrificazione crescente del quartiere San Paolo e la mancanza di politiche
abitative efficaci hanno reso impossibile l’accesso a soluzioni dignitose per
chi vive in occupazione.
Ancora una volta, si prospettano solo dormitori aperti per sole 12 ore,
un’ulteriore umiliazione per chi lavora su tre turni, e una condizione
inaccettabile per persone che rivendicano il diritto di avere un tetto sopra la
testa.
Le persone che vivono in occupazione non stanno chiedendo la carità, ma solo una
casa vera, dignitosa, dove poter vivere senza il rischio di essere sfrattati
ogni volta che la situazione economica o sociale non rispecchi le prospettive di
palazzinari e speculatori.
Molti sarebbero disposti ad affittare un alloggio se non fosse che il razzismo
diffuso e la continua gentrificazione del quartiere e della città non lo
permettono, rendendo ancora più insostenibile la loro condizione. Il diritto
alla casa dovrebbe essere garantito a tutt3 e non solo a chi può permettersi di
pagare affitti in un mercato immobiliare speculativo.
Esprimiamo quindi la nostra ferma richiesta ai servizi sociali, al Comune di
Torino e alle istituzioni competenti: le persone che occupano la palazzina di
via Monginevro e gli altri che vivono nelle stesse condizioni non vogliono un
dormitorio temporaneo, ma un alloggio stabile e degno. E’ ora di risolvere
l’emergenza abitativa in modo serio e duraturo. Non si può continuare a fare
finta che il problema non esista. La città di Torino e le sue istituzioni devono
trovare soluzioni abitative vere, per tutte le persone, senza discriminazioni.
La crisi abitativa non è un’emergenza, è una costante. Non può essere affrontata
con risposte temporanee o marginalizzando ulteriormente chi già vive una
condizione di vulnerabilità.
Esigiamo che venga trovata una soluzione immediata e concreta per tutte le
persone che rischiano di essere sgomberate, senza che la loro dignità venga
ulteriormente calpestata.
Non basta un dormitorio, vogliamo una casa!
La casa è un diritto, non una concessione.
C.S.O.A. Gabrio