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Stato di Polizia
Zone rosse, daspo, militari per le strade, leggi speciali contro l’opposizione politica e sociale Il governo sperimenta nuovi meccanismi di esclusione e controllo degli indesiderabili. Muri invisibili ma concreti segmentano le città, separando chi può accedere liberamente nelle aree più pregiate e chi deve esserne tenuto fuori. Con le zone rosse e il daspo urbano il ministro dell’Interno ha arricchito la cassetta degli attrezzi della polizia di nuovi strumenti, che le forze del disordine statale possono utilizzare senza neppure scomodare un magistrato. La stretta securitaria, collaudata inizialmente a Bologna e Firenze, a dicembre si è estesa a Milano e Napoli, e con l’anno nuovo ha investito Roma, dove la morsa poliziesca durante il giubileo è imponente. A Torino il sindaco annuncia un approccio più “morbido”: niente zone rosse ma aree a “sorveglianza rinforzata”, come a Roma. Difficile cogliere le sfumature di fronte alla declinazione sabauda delle direttive governative. Nei fatti le forze di polizia possono allontanare con la forza chiunque, assuma “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Va da se che gli “atteggiamenti” non sono atti e, quindi gli uomini e le donne in divisa mandano via le persone il cui modo di stare in strada sia considerato, a loro arbitrio, indesiderabile. Queste direttive sono solo l’ultimo tassello del mosaico repressivo del governo, che colpisce ogni forma di contestazione e lotta politica e sociale. Il DDL 1236 – ex 1660 – approvato alla Camera in settembre ed oggi in discussione alla commissione giustizia e affari costituzionali del Senato si inserisce nel solco già aperto da altri provvedimenti (i decreti rave, Cutro, immigrazione, Caivano) che colpiscono i poveri, gli stili di vita non conformi, gli stranieri senza documenti. Le misure contro la socialità non mercificata, quelle contro i profughi e i migranti, l’affondo verso i giovani, la repressione dei movimenti di lotta sono le architravi del progetto repressivo del governo. Il DDL 1236 infligge colpi sempre più duri a chi lotta nei CPR e nelle carceri, a chi si batte contro gli sfratti, a chi occupa, a chi fa scritte su caserme e commissariati, a chi blocca una strada o un treno, a chi fa picchetti sui luoghi di lavoro, a chi sostiene e diffonde idee sovversive. Si criminalizzano i movimenti climatici, sociali e sindacali, anticarcerari e no border e si cerca di bloccarli, infliggendo lunghe pene detentive per banalissime pratiche di lotta politica e sociale. La logica di classe e di repressione verso chi cerca di cambiare il mondo intollerabile in cui viviamo è connaturata con l’ordinamento giudiziario democratico: ma i provvedimenti adottati da questo governo la rendono sempre più spudorata e violenta.  Quest’insieme di nuove leggi rende sempre più forti i poteri di polizia, riducendo le pur esili tutele alla libertà di espressione, movimento, opposizione sociale. L’articolo 31 del DDL 1236 permette ai servizi segreti di entrare a far parte di organizzazioni terroristiche, cercando di assumerne il controllo, nella certezza dell’anonimato e dell’impunità per i reati commessi. Dulcis in fundo questi agenti provocatori legalizzati possono costruire e detenere bombe. Finisce la favola dei servizi segreti “deviati”, le mele marce che hanno burattinato, con la complicità dei fascisti, le tante stragi di Stato che hanno insanguinato il nostro paese negli anni Settanta ed Ottanta. Oggi, con i fascisti al potere, stanno per ottenere la licenza di strage. Di Stato. Per Legge. Lo stesso articolo prevede l’obbligo, di fatto, anche per università ed enti di ricerca di collaborare con i servizi segreti, inclusa la possibilità di derogare alle normative sulla riservatezza. In generale il fortissimo aumento delle pene, l’introduzione di nuovi reati, la meticolosa scelta dei soggetti da colpire e di quelli da tutelare sono il segno distintivo del DDL 1236. Più galera per molti, ma non per tutti, perché la trama dei vari provvedimenti di Meloni è esplicitamente autoritaria e di classe. Le lotte nelle carceri e nei CPR vengono perseguite in modo più duro perché chi le attua è dipinto come costitutivamente criminale, illegale, fuori norma. A questo governo non basta massacrare di botte, privare di ogni dignità, vuole seppellire in carcere chi da vita a rivolte nei luoghi di reclusione. Questo governo vuole mettere a tacere qualunque protesta, introducendo nell’ordinamento un reato collettivo, equiparato a quelli di mafia e terrorismo, che persegue anche le azioni non violente come lo sciopero della fame. Dalla criminalizzazione pubblica dell’opposizione politica e sociale scaturisce il reato di “terrorismo della parola”. Questi dispositivi si configurano come diritto penale del nemico, pur mantenendosi in una cornice universalista. Il diritto penale del nemico è informato ad una logica di guerra. In guerra i nemici vanno annientati, ridotti a nulla, privati di vita, libertà e dignità. Per il nemico non valgono le tutele formali riservate ai cittadini. Quando la logica bellica si applica al diritto, alcuni gruppi umani vengono repressi per quello che sono più che per quello che fanno. L’intera azione dell’esecutivo è informata a questo principio. Un principio sulle cui fondamenta sono stati costruiti i lager nazisti e i gulag staliniani. La definizione del “nemico” interno è squisitamente politica ed è appannaggio di chi detiene il potere di decidere chi mantiene le prerogative del “cittadino” e chi ne è privato perché considerato individualmente e collettivamente incompatibile con il nuovo ordine che il governo sta costruendo. Un ordine che non ha neppure bisogno delle famigerate “leggi eccezionali” del 1926 per colpire la libertà di scioperare, di scrivere e dire la propria, di lottare per casa, salute, libertà, dignità. Le leggi sono il precipitato normativo dei rapporti di forza all’interno di una società. Oggi i fascisti al governo si sentono forti e giocano tutte le carte a loro disposizione per assicurarsi il totale controllo politico e il disciplinamento sociale. Il governo effettua una manovra a tenaglia, muovendosi contemporaneamente su più fronti. Oltre al piano squisitamente repressivo, Meloni punta ad una riforma istituzionale che renda ancora più forte l’esecutivo, e persegue un’egemonia culturale, che vede la scuola, i media e il territorio come spazi di conquista. Il fascismo sta tornando. Usano la cornice democratica per dare una secca svolta autoritaria al paese: segno che la democrazia è solo illusione di libertà e giustizia sociale. Fermarli è ancora possibile. Occorre rinforzare le reti ed i movimenti che si battono contro la svolta autoritaria e, insieme, mantenere fermo l’impegno contro la guerra, il militarismo, il patriarcato, le frontiere, lo sfruttamento, la devastazione ambientale, il nazionalismo. Il tempo è ora. 
January 17, 2025 / Anarres
Bulgaria. Frontiera di morte
La Bulgaria, paese recentemente entrato nell’area Schengen intende dimostrare a Bruxelles di saper controllare le proprie frontiere, specialmente quelle con i paesi dai quali transitano i migranti. Le politiche migratorie europee continuano a mietere vittime anche in questa zona dell’Unione, dove a fine anno sono morti tre ragazzini minorenni provenienti dall’Egitto. La polizia di frontiera aveva impedito agli attivisti di raggiungerli. I cadaveri sono stati ritrovati pochi giorni dopo il tentativo di soccorso. I loro corpi erano parzialmente mangiati dagli animali. La frontiera tra Bulgaria e Turchia è da anni percorsa da flussi più o meno consistenti di persone che tentano di attraversare quel confine e di raggiungere la Fortezza Europa da oriente. Queste persone provengono principalmente dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afganistan, dal Pakistan ma anche dalla Tunisia, dall’Egitto e dal Marocco. Le politiche migratorie europee hanno trasformato le frontiere di terra e di mare in veri e propri tritacarne autorizzati, che mettono le persone in pericolo e poi ne omettono il soccorso, rendendosi di fatto dirette responsabili della loro morte. Tra gli attivisti di Rotte Balcaniche e di No Name Kitchen che hanno partecipato alle azioni in frontiera, c’erano tre insegnanti torinesi. Il 24 dicembre sono stat fermat ed arrestat per aver chiamato un’ambulanza per soccorrere tre ragazzi che stavano per morire assiderati. Da radio Blackout
January 17, 2025 / Anarres
Anarres del 10 gennaio. Stato di Polizia. Città delle armi: il Politecnico in prima fila. La Siria come l’Afganistan? Seconda puntata…
ll podcast del nostro viaggio del venerdì su Anarres, il pianeta delle utopie concrete. Dalle 11 alle 13 sui 105,250 delle libere frequenze di Blackout. Anche in streaming. Ascolta e diffondi l’audio della puntata: > Anarres del 10 gennaio. Stato di Polizia. Città delle armi: il Politecnico in > prima fila. La Siria come l’Afganistan? Seconda puntata… Dirette, approfondimenti, idee, proposte, appuntamenti: Stato di Polizia. Zone rosse, profilazione etnica e sociale Il ministro dell’Interno ha arricchito la cassetta degli attrezzi della polizia con nuovi strumenti di controllo e punizione, che le forze del disordine statale possono utilizzare senza neppure scomodare un magistrato. Il Governo implementa le “zone rosse” nelle aree urbane. A Roma, nei prossimi due mesi nei quartieri Quarticciolo ed Esquilino, il prefetto Giannini ha disposto “zone a vigilanza rafforzata“: qui le forze di polizia possono allontanare con la forza chiunque, assuma “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Va da se che gli “atteggiamenti” non sono atti e, quindi, viene data alla polizia la possibilità di intervenire per spostare persone il cui modo di stare in strada sia considerato, a loro arbitrio, indesiderabile. Si tratta dell’estensione territoriale delle “zone rosse”, inizialmente disposte da Piantedosi a fine 2024 a Milano e Napoli città, dopo le prime sperimentazioni repressive di 3 mesi a Firenze e Bologna. Secondo il Viminale, dal 31 dicembre a oggi sono state controllate 25mila persone, con 228 allontanamenti coatti, quasi la metà dei quali solo a Milano: qui, su 8.303 controlli, 106 i provvedimenti disposti. Segue Bologna (7.613 controlli e 43 allontanamenti), Firenze (6.217 controlli, 68 allontanamenti) e infine Napoli (2.854 controlli, 11 allontanamenti). Nel frattempo il DDL 1660, passato in settembre alla Camera, dopo qualche mese in Commissione, approderà presto nell’aula del Senato. Ne abbiamo parlato con Eugenio Losco, avvocato milanese, che difende tanti indesiderabili politici e sociali. Città delle armi. Il coniglio dal cappello del Politecnico Il progetto di Città dell’Aerospazio, nuovo polo bellico a Torino, promosso da Leonardo, la maggiore industria armiera italiana, e dal Politecnico, è fermo dal 2021, quando venne annunciato per la prima volta l’avvio dei lavori. Nel 2023, in occasione della mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra, che si tiene ogni due anni a Torino, ci fu un nuovo annuncio, finito in nulla. Il 20 dicembre del 2024 il Politecnico ha tirato fuori dal cappello un bel mucchio di soldi. Nello specifico è stata annunciata la nascita di una “nuova infrastruttura tecnologica d’innovazione “IS4Aerospace – Knowledge Transfer Innovation Infrastructure for New Aerospace Challenges” dal valore complessivo di 23 milioni e 600mila euro, finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca nell’ambito del PNRR e proposta dal Politecnico di Torino, che la coordina, insieme ad Avio Aero, Leonardo e Thales Alenia Space, che cofinanziano l’iniziativa in partenariato pubblico-privato.” IS4Aerospace descritto come primo tassello per la Città dell’Aerospazio, che ospiterà laboratori congiunti per ricerca e impiego di tecnologie chiave nel campo dei velivoli di prossima generazione. Il Politecnico fornisce sempre maggiore copertura ad un’operazione volta a migliorare la capacità bellica di cacciabombardieri, droni, satelliti impiegati sui tanti fronti di guerra. La Siria come l’Afganistan? Seconda puntata La repentina caduta del regime baathista in Siria ci ricorda quanto avvenne nell’agosto del 2021 in Afganistan. L’accordo tra Stati Uniti e talebani portò al rapido ritiro degli statunitensi da Kabul e all’affermarsi dei talebani dal “volto umano”, che per qualche tempo hanno finto di voler mantenere qualche libertà alle donne, prima di murarle vive nelle case-prigioni, senza alcun diritto. Oggi gli jihadisti siriani, promossi di colpo dai media al rango di “ribelli” si sono presi buona parte della Siria, mentre le truppe di Assad si sono ritirate quasi senza combattere. Il vero vincitore della guerra mondiale per procura che si è combattuta negli ultimi 13 anni in Sira è la Turchia, che profittando dell’indebolimento di Russia, Iran ed Hezbollah, gli storici alleati di Assad, ha dato il via libera alle truppe jihadiste che ha foraggiato e sostenuto in questi anni. Nel nord della Siria, pur sotto durissimo attacco dell’Esercito Siriano Libero, diretta emanazione della Turchia, le formazioni dell’SDF provano a difendere l’esperienza del confederalismo democratico ed a combattere il ritorno degli Jihadisti. Il mese scorso ne abbiamo parlato con Lollo, questa settimana ne abbiamo discusso con Stefano Capello Appuntamenti: Sabato 18 gennaio Leggi di guerra, zone rosse, militari per le strade Il paradigma autoritario del governo Meloni Punto info al Balon dalle 10,30 alle 13,30 Venerdì 31 gennaio Crisi climatica e azione diretta Strumenti di ricerca, misurazione, analisi e lotta ore 21 alla FAT corso Palermo 46 Torino Interverrà il fisico Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR. A-Distro e SeriRiot ogni mercoledì dalle 18 alle 20 in corso Palermo 46 (A)distro – libri, giornali, documenti e… tanto altro SeriRiot – serigrafia autoprodotta benefit lotte Vieni a spulciare tra i libri e le riviste, le magliette e i volantini! Sostieni l’autoproduzione e l’informazione libera dallo stato e dal mercato! Informati su lotte e appuntamenti! Contatti: Federazione Anarchica Torinese corso Palermo 46 Riunioni – aperte agli interessati – ogni martedì dalle 20,30 per info scrivete a fai_torino@autistici.org Contatti: FB @senzafrontiere.to/ Telegram https://t.me/SenzaFrontiere Iscriviti alla nostra newsletter mandando una mail ad: anarres@inventati.org
January 16, 2025 / Anarres
Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata)
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci: quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura. In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi, utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate. PARTE TERZA – LA VERSIONE MOLOTOV – Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando. Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita. Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro. Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero, mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno. Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi, e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la mappa non è il territorio. La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada. C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli altri. Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si fa rischiare a chi è intorno. Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita. Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce, figuriamoci di altre, ben più delicate. OUTRO – UN ESEMPIO – Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella. Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”. L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata Bepi Zac alle creste di Costabella. Il fatto è il seguente: alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate nel secondo tratto, in zona Costabella. Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court. A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un bimbo in braccio ci si è comportati idioti. Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti sprovveduti?» Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…). Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto, che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore se lo carica in collo). Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai? È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere sicuri e al sicuro. Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo. Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli. È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo sulla pelle delle valli e delle cime. In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera proficua. La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di ragionevolezza. In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è ‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico, salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani. Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando con la pelle degli animali umani. Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta giocando con la pelle della società. Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale. In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate. Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione. L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
December 10, 2024 / Alpinismo Molotov
Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
INTRO – INQUADRAMENTO- La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone. In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie. Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello spazio e appiattimento dell’immaginario. Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido, sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e riflessione generale crediamo vada fatta.   La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario. Bocchette centrali di Brenta. Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma esplicitamente per cercare la difficoltà. Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto. Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata Castiglioni alla Cima d’Agola. Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di fruizione. 1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in alpi occidentali; 2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica, rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel gruppo dell’Adamello; 3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura: scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi, la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark. A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza. A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta – per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo incivile». Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole. Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente aumento del potere d’acquisto del ceto medio. Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza. Sopra la  ferrata delle Aquile in Paganella. Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel. PARTE PRIMA – L’APPROCCIO SCERIFFO – Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile. Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato a tema   modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti assimilabili al tipo 3. Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’. buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario schizzano dritte nella 3: adrenalina. Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da marketing, come nel caso dell’Epic trail. L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei geometri che progettano siffatti percorsi. Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori. Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco. In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno senso. Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che userà sarà in buono stato, funzionante e certificata. PARTE SECONDA – L’APPROCCIO BIMBOMINKIA – Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro in sé niente, non si sa, non si dice. Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo. Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa). Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero, alla preservazione della ‘carne-lavoro’. Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali. La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere qualcuno che ne ha colpa. In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata ‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa. A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.» Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi. Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’ potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che sentieri tecnicamente più difficili. In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di responsabilità post tragedia in Marmolada. O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione. Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo l’assicurazione, che l’individuo paghi. Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo di comportamenti non corretti per la morale corrente? Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto. Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza. In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata) è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo, se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile, assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e regolarne la corrente, il flusso. L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto. Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo morale. Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura, anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento ‘riservato’». Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro. Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua». Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.   L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
December 2, 2024 / Alpinismo Molotov
Always on the move. Torino: vetrina per turisti e città delle armi
Always on the move Torino. Vetrina per turisti e città delle armi Introduzione Era la capitale dell’auto. L’industria automobilistica era indicata tra le eccellenze cittadine nei cartelli di ingresso alla città. Torino è stata attraversata da due processi trasformativi paralleli: la città vetrina e la città delle armi. Il primo è il fulcro della narrazione pubblica, il secondo viene occultato tra satelliti ed esplorazioni spaziali. La lenta ma inesorabile fuga della Fiat, ormai solo più un marchio per le auto, ha decretato la decadenza e l’impoverimento della città. Sulle macerie di quella storia le amministrazioni comunali degli ultimi vent’anni, hanno provato a costruire, con alterna fortuna, “la città vetrina per i grandi eventi”, una scelta dalle conseguenze politiche e sociali devastanti, perché si è basata su violente dinamiche di controllo sociale ed interventi di riqualificazione escludente, una sempre più netta dinamica di gentrification. Riqualificazione escludente La gentrification è una trasformazione fisica, sociale, economica che per la prima volta è stata osservata a Londra negli anni ’60. All’epoca era un fenomeno sporadico e spontaneo, oggi, a varie latitudini, è una scelta strategica degli attori politici ed economici che governano le città. La gentrification avviene nelle aree urbane, in quartieri centrali o limitrofi al centro città generalmente occupati da fasce popolari. La riqualificazione dell’ambiente urbano e degli edifici rende queste zone appetibili per i ricchi, innescando un aumento dei prezzi degli immobili, degli affitti, dei bar e dei negozi, che provoca l’allontanamento dei poveri che ci abitavano in precedenza. In alcuni casi “l’avanguardia” del cambiamento è costituita da una popolazione di giovani creativi attratti dalla vivacità di certe periferie, la cui stessa presenza accelera la trasformazione dei pezzi di città in cui abitano. Spesso finiscono con il divenire catalizzatori delle scelte di gentrification per poi venire a loro volta espulsi, se non si adattano al ruolo di alternativi da vetrina, utili a mantenere un’aura “esotica”, vagamente bohémienne alle aree investite. Tra loro vengono reclutati i “giovani imprenditori” che si aggiudicano i lavori di restyling e adattamento culturale necessari sia a rendere più “morbida” la transizione, sia a proporre una narrazione più accattivante. Negli anni abbiamo assistito ad un progressivo accrescimento del ruolo dell’attore pubblico e ad un’espansione tanto orizzontale (ovvero la diffusione del fenomeno a livello globale) quanto verticale (la gentrification infatti non investe solo più la dimensione metropolitana ma anche le aree urbane di minore dimensione). Dagli anni ’90 in poi, con la globalizzazione e la fine del sistema fordista, il governo delle città riduce drasticamente il proprio ruolo nella promozione e gestione di servizi pubblici e basa il proprio intervento su logiche orientate principalmente al profitto. Questo scopo viene perseguito sia attraverso gli strumenti urbanistici e la pianificazione, sia attraverso strategie di produzione di beni simbolici quali cultura, intrattenimento e svago. Nei crateri delle grandi fabbriche A Torino il processo di trasformazione, inizialmente molto lento, ha avuto un impatto sociale che è stato possibile percepire solo a posteriori in aree come il quadrilatero romano e, in certa misura, anche San Salvario. Nell’ultimo decennio c’è stata una brusca accelerazione. Le riqualificazioni escludenti che hanno investito alcune zone della città, socialmente periferiche, ma geograficamente vicine al centro, derivano sia dal “vuoto” urbano, dagli immensi crateri lasciati dall’abbandono delle grandi fabbriche, sia dalla spinta alla turistificazione e studentizzazione di intere aree cittadine. Al posto delle fabbriche sono sorti centri commerciali, spazi culturali, centri per esposizioni e congressi, strutture dedicate allo sport. L’emblema del cambiamento è stata la Spina 3, realizzata tra il 1995 e il 2013. Il nuovo “quartiere” è sorto sui terreni occupati fino a due decenni prima dalle Ferriere Fiat, dagli stabilimenti Michelin, Savigliano, Paracchi. L’area ha una superficie di 1.002.956 metri quadrati e rappresenta il principale ambito di trasformazione del Piano regolatore del 1995. Dopo la chiusura delle industrie, che occupavano circa 20.000 operai, il Comune di Torino ha attivato un programma di investimenti per 800 milioni di euro con l’utilizzo di ingenti fondi nazionali ed europei. Il progetto di trasformazione di Spina 3, iniziato con la realizzazione dell’Environment Park su una parte dei terreni delle ex Ferriere Fiat (1997-2005), ha portato alla nascita di un vasto mix funzionale – comprendente residenze, spazi commerciali, uffici, laboratori, centri di ricerca e produzione e spazi per attività ricreative – insieme al recupero e alla rifunzionalizzazione delle Officine Savigliano e degli stabilimenti della Società Paracchi. Numerosi gli interventi e le architetture realizzate nell’area, come il Parco commerciale Dora (Studio Granma, PromoGeCo, 1999-2003) o la chiesa del Santo Volto di Mario Botta (2003-2006). Il cuore dell’operazione su Spina 3 è il Parco della Dora, esito di un concorso internazionale sulla base dei masterplan di Jean-Pierre Buffi e Andreas Kipar. Di quest’operazione hanno goduto soprattutto i privati proprietari delle ex fabbriche. Per l’edilizia abitativa, sacrificata dal consumo di suolo dedicato alle attività commerciali, hanno puntato sulla verticalità, costruendo torri verticali con 4.000 alloggi per circa 12.000 abitanti. Nessun intervento utile alla popolazione residente è stato realizzato. L’unico previsto, un asilo, è stato aperto solo per la pressione attiva della popolazione. Mancano scuole, ambulatori, uffici postali. La trasformazione urbana non risparmia le aree verdi, investite da colate di cemento. Si va dalla Pellerina, dove verrà edificato il nuovo ospedale per l’area nord-ovest della città, agli spazi verdi destinati all’ennesimo supermercato all’ex caserma La Marmora, sino alla costruzione del “Parco dello Sport” al Meisino. Studenti e turisti Un’altra pietra miliare della trasformazione cittadina è il Campus Einaudi inaugurato il 22 settembre del 2012. La nuova struttura universitaria sorta lungo le sponde della Dora ha determinato cambiamenti molto rapidi: i costi di locazione delle case, affittate a student* a prezzi altissimi, la nascita di locali dedicati alla movida giovane, hanno scatenato una reazione a catena che ha investito inizialmente i quartieri Vanchiglia e Aurora, per estendersi a macchia d’olio anche a Barriera di Milano. L’apertura nel 2013 dell’università privata IAAD – Istituto dell’arte applicata e del Design – e, nella medesima area, della Nuvola Lavazza inaugurata nel giugno del 2018, ha impresso una nuova accelerazione alle dinamiche di gentrification di Aurora, secondo una tendenza che vede le amministrazioni comunali arare il terreno che viene poi messo a valore dall’imprenditoria privata. Questo fenomeno non è specifico di Torino. David Harvey, studioso di geografia urbana, ha descritto il passaggio da una città manageriale, che gestisce un budget e lo amministra, a una città imprenditoriale che prepara il tessuto urbano per i vari Combo, Student Hotel, Mercato centrale… Non è più un governo della città che semplicemente gestisce, ma che facilita e apre la strada ad altri attori. L’attuazione di questo tipo di strategie crea polarizzazioni sociali e veri e propri processi di esclusione sociale. La trasformazione urbana sta investendo sia aree ex industriali, sia quartieri abitati in modo significativo da una popolazione razzializzata e povera. Il governo della città ha scelto di non approntare strumenti di attenuazione dell’impatto sociale delle scelte operate, demandandone la gestione alla polizia e ai militari. La violenza istituzionale, la militarizzazione dei quartieri “difficili” diviene sistematica e costantemente narrata secondo gli stilemi “dell’emergenza”, della “sicurezza”, della “paura”. Pulizia urbana Alcune operazioni di “pulizia urbana” sono emblematiche delle scelte operate dalla governance subalpina. Si comincia nel 2005 con lo sgombero di Fenix, Alcova e Rrosalia, piccole palazzine ai giardini Reali, occupate da tempo e luogo di incontro, socialità ed organizzazione politica di diverse aree anarchiche. Le Olimpiadi invernali erano alle porte ed il comune di Torino non poteva permettere che quei posti sporcassero la vetrina che, ogni sera, nel febbraio del 2006, ha scintillato in mondovisione dalla limitrofa piazza Castello. Le operazioni di pulizia politica e sociale non si sono mai interrotte. In quegli stessi anni parte il progetto di “riqualificazione” del Balon, il mercato degli stracci della città, che all’epoca non aveva nessun tipo di regolamentazione. I venditori, alcuni occasionali, ma tanti fissi da decenni, arrivavano nel cuore della notte a piazzare le plance e pezzi di stoffa che delimitavano il “loro” spazio. Qualche volta c’erano contrasti anche duri, ma nessuno coinvolgeva mai la polizia. La “riqualificazione” è stata attuata secondo la regola del divide et impera, cacciando i meno presentabili, quelli che esponevano le loro merci lungo le sponde fangose e sporche della Dora, spostando i fricchettoni nell’allora poco appetibile canale Molassi, ed imponendo a tutt* regole, affitti e controlli sugli spazi. Non fu un’operazione indolore. Molti venditori si organizzarono dando vita a proteste in Comune, intralciando attivamente le operazioni di normalizzazione violenta di uno spazio libero, luogo di aggregazione e socialità informale anche per la sinistra radicale e gli anarchici della città. I venditori più poveri, quelli che vendono merci recuperate nei cassonetti, vennero successivamente relegati all’ex Cimitero degli impiccati, in via San Pietro in Vincoli, un’area isolata ma limitrofa al Balon “storico”. Anche da qui, nel 2019, dopo nove mesi di resistenza allo sgombero, gli straccivendoli vengono cacciati e spostati in un piazzale recintato in via Carcano, un nulla urbano nei pressi del cimitero. Presto anche quest’area potrebbe essere chiusa, segnando l’ultimo capitolo di una guerra ai poveri fatta all’insegna di una riqualificazione urbana, che considera indecorosa la loro presenza. I tanti spazi abitativi e politici occupati nella zona nord della città vengono sgomberati uno dopo l’altro tra il 2019 e il 2023. Stessa sorte capita a tutti gli spazi autogestiti occupati successivamente, cancellati dalla polizia in breve tempo. Lo sgombero delle baraccopoli Tra il 2016 e il 2021 il comune ha sgomberato e distrutto le baraccopoli dove vivevano migliaia di rom, in buona parte immigrati dalla Romania. La violenza istituzionale, di cui sono stati protagonisti, oltre alla polizia, i vigili urbani del nucleo “nomadi” della Città di Torino, è stata “temperata” da associazioni del terzo settore che, lautamente pagate, hanno tentato ed in parte realizzato lo sgombero “dolce” dei baraccati, promettendo case e soldi a chi avesse accettato di andarsene, distruggendo le casette autocostruite in cui vivevano. Il nome evocativo del progetto dedicato alla baraccopoli di Lungo Stura Lazio era “la Città Possibile”. Questo progetto, costato 5 milioni di euro, ha arricchito la cordata guidata da Valdocco, era una truffa. I pochi che riuscirono ad avere una casa a basso prezzo, dopo pochi mesi la dovettero abbandonare perché non potevano pagare i fitti aumentati, altri finirono in luoghi malsani di proprietà del raiss delle soffitte Molino, affittati per i rom dall’associazione AIZO, altri ancora, illusi dalla promessa di denaro, tornarono temporaneamente in Romania. Nel caso di lungo Stura Lazio l’operazione venne rallentata ed in parte inceppata da diverse centinaia di baraccati che scesero in piazza, e infine occuparono una ex caserma in via Asti in parte gestita da Terra del Fuoco, una delle associazioni che aveva gestito e lucrato sullo sgombero della baraccopoli dove vivevano. Nel giro di pochi anni sono stati cacciati e sospinti ancora di più ai margini persone che, in parte vivevano raccogliendo roba vecchia rovistando tra l’immondizia, tra gli scarti ancora utili del capitalismo usa e getta, per venderla al Balon. Privati di un tetto e della possibilità di ricavare un reddito sono stati sospinti più lontano. Invisibili nel grande teatro della città vetrina. I militari per le strade Barriera di Milano, ormai da anni, è divenuta un laboratorio dove sperimentare tecniche di controllo sociale prima impensabili, pur di non spendere un soldo per la casa, la sanità, i trasporti, le scuole. Da gennaio 2024, su richiesta della circoscrizione di destra, parte dei 6.500 militari dell’operazione “Strade Sicure”, è stata destinata in Barriera di Milano, dove attuano un controllo etnicamente mirato del territorio a fianco di polizia e carabinieri. Da aprile, dopo le pressanti richieste delle circoscrizioni di sinistra, i militari dell’operazione “strade sicure” sono anche ad Aurora e San Salvario. Ad Aurora stazionano sul ponte Mosca, a due passi dal Balon, di fronte al cantiere dello Student Hotel, albergo/studentato di lusso, vicino alla scuola Holden, scrittura creativa a svariate migliaia di euro al mese di retta. Ed il cerchio si chiude. Operazioni cosmetiche La violenza poliziesca che investe gli indesiderabili politici e sociali non è accompagnata da investimenti che attenuino le difficoltà di chi vive nei quartieri in corso di trasformazione e non riesce a pagare fitti, mutui, bollette, e non può neppure permettersi di tutelare la propria salute, messa a repentaglio dai processi di privatizzazione, che hanno trasformato la salute in merce a caro prezzo. Semmai si foraggiano associazioni e cooperative “amiche” perché trasformino la povertà in esotismo per turisti, intercettando e trovando complicità tra la nascente borghesia immigrata e nel fitto sottobosco clientelare delle associazioni e delle cooperative del sociale. Non solo. Vengono promossi progetti che, sotto il cappello della riqualificazione, hanno come obiettivo il controllo del territorio. É stato il caso di ToNite. Un’iniziativa del comune di Torino nell’ambito del programma “European Urban Initiative”, che, utilizzando il Fondo Europeo di sviluppo regionale, ha messo insieme progetti diversi diretti alla vita notturna lungo la Dora tutti accomunati dall’intento esplicito di “aumentare la sicurezza percepita” da parte dei nuovi abitanti della zona, che – per ora – devono convivere con i vecchi residenti. Bene comune Torino, da decenni, a parte la parentesi pentastellata, è governata dalla sinistra, che sul piano nazionale si trova all’opposizione con scarse chance di uscirne presto. Da qui operazioni di restyling di immagine come quella recentemente promossa dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. La Fondazione, uno dei soggetti più attivi tra Barriera ed Aurora, ha di recente promosso un Community Land Trust in una palazzina di corso Giulio Cesare, al numero 34. I promotori del progetto scrivono, “Il Community Land Trust (CLT) è un modello di gestione della proprietà immobiliare che sottrae le unità abitative dal mercato speculativo per creare un mercato immobiliare sociale e fare del suolo un bene comune. L’obiettivo è facilitare l’accesso all’abitazione per persone o famiglie con bambinə a basso reddito o con difficoltà nell’ottenere prestiti bancari, contrastando la gentrificazione del quartiere.” Apparentemente un progetto dal sapore accattivante. Peccato che i soggetti coinvolti siano sottoposti ad una serie di obblighi e ricatti, in nome del “bene comune”. Chi vivrà in quella palazzina avrà la proprietà della casa ma non dei terreni: sarà ostaggio del trust, cui è obbligato a vendere se non riesce a pagare il mutuo. Un esempio della pericolosa contaminazione tra la dolce narrativa della sinistra istituzionale ed operazioni dall’agro sapore del business e del controllo sociale. Innegabilmente, a differenza di altre, questa è un’operazione abile. Un’operazione che dichiara esplicitamente di voler contrastare la gentrification, realizzando una riqualificazione includente. Peccato che per poter essere inclusi nel recinto dorato del Bene Comune occorra essere disponibili ed esservi reclusi. Una vetrina incrinata Torino, al contrario di Milano, che ha oltrepassato brillantemente i processi di deindustrializzazione della fine del secolo scorso, non riesce ad uscire dal pantano del dopo Fiat. I grandi eventi come il salone del libro, l’Eurocontest di tre anni fa, le ATP Finals, etc, attraggono migliaia di visitatori, riempiono alberghi e ristoranti ma sinora non sono stati la chiave destinata ad aprire una porta sul futuro immaginato dai padroni della città. “Always on the move” “sempre in movimento”, lo slogan coniato dall’amministrazione Chiamparino per le olimpiadi invernali del 2006, finite con impianti abbandonati e debiti, è l’emblema di una città dove, always on the move ci sono le migliaia di lavoratori precari sempre in moto per mettere insieme il pranzo con la cena. Industria bellica Torino è uno dei centri dell’industria bellica aerospaziale. Sono 350 le aziende grandi e piccole con un fatturato di circa 8 miliardi di euro. Il settore delle armi è un importante cavallo di battaglia sul quale scommettono le amministrazioni locali e l’imprenditoria subalpina. Il progetto di Città dell’Aerospazio e l’approdo in città di un acceleratore di innovazione della NATO ne sono l’indicatore più chiaro. Il definitivo declino del settore dell’automotive ha innescato un processo di riconversione che si è indirizzato verso l’industria bellica. Il passaggio da 20 a 35mila addetti non ha aumentato l’occupazione, ma è frutto del travaso dall’industria dell’auto a quella delle armi. Travaso destinato ad aumentare dopo il taglio dei finanziamenti all’automotive deciso dal governo nel 2024. La nascita, nel 2019, del Distretto Aerospaziale Piemontese ha segnato un’accelerazione per l’industria bellica aerospaziale nella nostra regione. Il Distretto Aerospaziale Piemontese svolge un compito di promozione, coordinamento ed affiancamento delle attività delle industrie del settore. Sino alla sua promozione a ministro della Difesa il DAP era guidato da Guido Crosetto: oggi a suo posto c’è Fulvia Quagliotti che ne sta ricalcando le orme. Per cogliere l’importanza di questo organismo di governance è sufficiente dare un’occhiata alla lista dei soci del DAP, in cui spiccano attori politici, industriali e poli della ricerca e della formazione. Nel consiglio direttivo del DAP, oltre alla presidente Quagliotti, designata dalla Regione Piemonte, e ai due vicepresidenti Giacomo Martinotti (in quota Regione), e Marco Silvano (per le aziende associate) ciascuno degli altri membri è stato indicato da industrie del settore o associazioni industriali. Mercato delle armi A Torino, ogni due anni si tiene l’Aerospace and defence meetings, che nel 2023 è arrivato alla nona edizione, con un incremento di scambi e partecipazioni rispetto all’edizione record del 2021. La convention si è tenuta dal 28 al 30 novembre 2023, come di consueto negli spazi dell’Oval Ligotto. centro congressi facente parte delle strutture nate sulle ceneri del complesso industriale dell’ex Fiat. La mostra-mercato è un evento chiuso riservato agli addetti ai lavori: fabbriche del settore, esponenti delle forze armate, organizzazioni internazionali, rappresentanti dei governi e compagnie di contractor. All’edizione del 2023 hanno partecipato 400 aziende, 1400 tra acquirenti, venditori e rappresentanti di governi. Il vero fulcro della convention sono stati gli incontri bilaterali per stringere accordi di cooperazione e vendita: nel 2021 ce ne furono oltre 7.500, lo scorso anno sono saliti a 9.000. All’Oval sono stati allestiti alveari di uffici, dove sono stati sottoscritti accordi commerciali per le armi che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. L’industria aerospaziale produce cacciabombardieri, missili balistici, sistemi di controllo satellitare, elicotteri da combattimento, droni armati per azioni a distanza. All’Aerospace and defence meetings si giocano partite mortali per milioni di persone in ogni dove. Tra gli sponsor ospiti del meeting spiccano la Regione Piemonte e la Camera di Commercio subalpina. Settima nel mondo e quarta in Europa, con un giro d’affari di oltre 16.4 miliardi di euro, 47.274 addetti l’industria aerospaziale è un enorme business di morte. Buona parte delle aziende italiane dell’aerospazio si trova in Piemonte. I settori produttivi sono strettamente connessi con le università, in primis il Politecnico, e altri settori della formazione. In Piemonte, ci sono ben cinque attori internazionali di primo piano: Leonardo, Avio Aero, Collins Aerospace, Thales Alenia Space, ALTEC. Gran parte delle industrie mondiali di prima grandezza hanno partecipato alla biennale dell’aerospazio: Airbus, Avic, Aernnova Aerospace, Boeing, Comac, Dell, Embraer, IHI Corporation, Lockheed Martin, Mahindra Aerostuctures, MBDA, Mitsubishi, Nanoracks Europe, Nikon, Northrop Grumman, SAAB, Poeton Polska, SKF Industrie, Superjet International, Tei-Tusas Engine Industries. Erano presenti tutti i 7 cluster aerospaziali italiani: la Lombardia, la Campania, il Lazio, l’Umbria, la Puglia e il Veneto e il Piemonte, la cui delegazione era la più ampia con 75 imprese e 11 startup. Nel testo di presentazione la Camera di Commercio scriveva che l’industria bellica aerospaziale “è un comparto strategico, grazie a un ecosistema caratterizzato da una forte collaborazione tra enti, mondo imprenditoriale e ricerca scientifica e a una filiera completa composta da grandi player e oltre 450 PMI che registra un fatturato complessivo che supera 8 miliardi di euro e impiega oltre 35.000 addetti”. Nonostante questo le “supply chain” sono ancora un anello debole di Leonardo, I ricavi globali della vendita di armi sono in costante aumento. La produzione di armi non riesce a stare dietro all’aumento della domanda. Nel 2022, con l’attacco russo all’Ucraina, la domanda globale di armi e dispositivi d’arma ha registrato un forte aumento e le aziende europee e statunitensi non sono riuscite a stare al passo. La guerra stessa ha determinato la crescita dei costi di produzione e numerose interruzioni della catena di approvvigionamento. É stata, purtroppo, una crisi di crescita, che Leonardo, per quanto riguarda il settore dei velivoli da guerra, affronta puntando sull’innovazione tecnologica, sulla ricerca e sul rinnovamento dei siti produttivi. Città dell’aerospazio La Città dell’aerospazio, un centro di eccellenza per l’industria bellica aerospaziale promosso dal colosso armiero Leonardo e dal Politecnico subalpino, sorgerà tra corso Francia e corso Marche. Nell’ottobre del 2022 Leonardo ha ceduto in comodato d’uso al Politecnico gli spazi della palazzina 37 dell’ex Alenia. Una foglia di fico per salvare la faccia al Politecnico che, nei fatti, accelera il processo di integrazione nel complesso militare industriale accingendosi a trasferire parte della ricerca in una struttura di proprietà di Leonardo. Nei fatti quest’impresa è rimasta ferma ai blocchi di partenza dal novembre 2021, quando ne venne annunciata la costruzione all’ottavo Aerospace and Defence Meetings. La campagna di informazione e lotta fatta negli ultimi anni dall’Assemblea Antimilitarista è riuscita a far emergere dall’opacità un progetto che mira a trasformare la nostra città in polo ad alta tecnologia per lo sviluppo dell’industria bellica. Il focus della ricerca è il miglioramento dell’efficienza dei micidiali strumenti già oggi capaci di distruggere il pianeta. Gli attori istituzionali, in primis la Regione Piemonte, ed i rappresentanti delle principali industrie hanno provato a minimizzare la vocazione squisitamente bellica della Città dell’Aerospazio. Ma non saranno certo le nebbie del “dual use” (militare e civile) o l’immaginario dei viaggi spaziali a nascondere la realtà. Lo dimostrano le dichiarazioni di Marco Zoff, capo divisione velivoli di Leonardo: «Siamo qui per condividere una ambizione, vogliamo portare in questi spazi la ricerca e lo sviluppo di alcuni dei programmi industriali nei quali Leonardo è impegnato, l’Eurodrone, le tecnologie dei sistemi senza pilota e il caccia del futuro. Per farlo abbiamo bisogno di uno spazio dove fare ricerca e sviluppo e questo della Città dell’aerospazio è un tassello fondamentale sulla strada che ci porterà a sviluppare nuovi progetti su questo territorio». Non è detto che questa ambizione sarà facilmente soddisfatta. Il 28 novembre 2023, mentre gli antimilitaristi bloccavano l’ingresso dell’Oval ai partecipanti all’Aerospace and defence meetings, clandestinamente, nell’area dell’ex Alenia una ruspa abbatteva un pezzo di muro. Secondo i media questo sarebbe stato il segnale di avvio della costruzione della Città dell’Aerospazio. Nessuna traccia del ministro Crosetto che un mese prima aveva annunciato la propria presenza. Un segno delle incertezze che ancora gravano sul progetto: Leonardo non trova privati disposti ad investire. Non per caso nelle ultime dichiarazioni fatte alla stampa emerge che il Politecnico sarà il “soggetto attuatore del progetto” che, assicura Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, il suo Gruppo “sosterrà”. Da protagonista a sostenitore? Cingolani appare decisamente prudente. Per ora di certo ci sono soltanto i 12mila mq di laboratori che saranno di pertinenza del Politecnico, un intervento da poco più di 40 milioni finanziato dalla Regione (15 milioni) e dai fondi del Pnrr (17 milioni), col sostegno del Politecnico di Torino per coprire gli extracosti. Siamo ben lontani dal budget necessario a coprire l’intera operazione. Un anno dopo, nell’autunno del 2024, è stato nuovamente annunciato l’avvio dei lavori in corso Marche, facendo comunque riferimento alla demolizione della palazzina la cui area è destinata al Politecnico. La NATO a Torino La Città dell’Aerospazio ospiterà anche un acceleratore d’innovazione nel campo della Difesa, uno dei nove nodi europei del Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic (D.I.A.N.A), una struttura della NATO. Questo progetto, partito nel giugno 2021 a Bruxelles, si inserisce nel programmi di innovazione tecnologica della NATO per il 2030. Compito del polo di Torino è quello di coordinare e gestire, attraverso bandi e fondi messi a disposizione dai Paesi alleati, una rete di aziende e start up italiane, per metterla al servizio delle necessità dell’Alleanza. In attesa della costruzione della Città dell’aerospazio l’acceleratore di innovazione ha sede alle OGR. In questo progetto la NATO investe un miliardo di dollari. Una montagna di soldi utilizzati per produrre tecnologie sempre più sofisticate, sempre più mortali. L’Alleanza Atlantica seleziona aziende e start up che hanno il compito di concretizzare i programmi di innovazione tecnologica della NATO per il 2030. Le OGR OGR Torino è stato aperto nel 2019: la ristrutturazione delle ex Officine Grandi Riparazioni è costata 100 milioni di euro. OGR è un grande spazio di 35 mila metri quadri a forma di “H” in corso Castelfidardo con con due missioni: da una parte ospitare mostre ed eventi di arte contemporanea, dall’altra diventare un luogo dell’innovazione. In questo la Torino vetrina e la Torino delle armi entrano in contatto, condividendo il medesimo cortile. Se una delle due “gambe” dell’H si chiama OGR Cult, l’altra è OGR Tech, un salone di 200 metri di lunghezza e 13 di altezza attraversato dal cosiddetto “boulevard”, che ai suoi lati ospita 14 programmi di accelerazione. Tra questi c’è uno dei Leonardo Labs, che effettuano ricerche in ambito bellico. Si tratta, scrive Leonardo, di “Hub tecnologici dedicati alla ricerca e allo sviluppo delle tecnologie di frontiera e breakthrough. Una rete di laboratori di ricerca e sviluppo interconnessa con università, politecnici, centri di ricerca e imprese partner, per un ecosistema dell’innovazione in costante evoluzione. I laboratori sono il motore propulsivo dell’innovazione, massimizzando la prossimità con i principali siti industriali di Leonardo e con i territori di riferimento.” Alle OGR si incontrano la città della tecnologia bellica e quella degli eventi artistici. Tempest, il nuovo cacciabombardiere Dulcis in fundo. il 14 dicembre 2023 i governi italiano, giapponese e britannico hanno sottoscritto l’accordo sul Global Combat Air Programme, che prevede la progettazione e realizzazione, da parte di Leonardo, Mitsubishi e BAE Systems, di un nuovo cacciabombardiere, destinato a sostituire l’Eurofighter e l’F35. In questo modo viene garantito un futuro anche allo stabilimento Alenia di Caselle Torinese, che terminate le commesse per gli Eurofighter, si rinnoverà per i nuovi, ancor più mortali, velivoli da guerra. La Città dell’Aerospazio e l’acceleratore di innovazione della NATO sono appoggiate attivamente dal governo della città, da quello della Regione e da Confindustria. I diversi attori imprenditoriali e politici sostengono il progetto giocando la carta del ricatto occupazionale, in una città sempre più povera, dove arrivare a fine mese è ancora più difficile, dove salute, istruzione, trasporti sono sempre più un privilegio per chi può pagare. É una logica perversa quella che vede nell’industria bellica il motore che renderà più prospera la nostra città. Un’economia di guerra produce solo altra guerra. Contrastare la nascita del nuovo polo bellico a Torino non è mera opposizione etica alle guerre capitaliste ed imperialiste, ma anche un passaggio necessario a ripensare lo spazio urbano e chi ci vive, come luogo di negazione delle dinamiche gerarchiche sottese all’opaca città dell’aerospazio ed alla scintillante vetrina dei grandi eventi. Federazione Anarchica Tprinese Assemblea Antimilitarista – Torino I quaderni di Anarres Novembre 2024 Scarica qui il pdf: opuscolo always on the move
November 29, 2024 / Anarres