Source - C.S.O.A. GABRIO

chi sogna non sarà mai sol@ ★ chi lotta non muore mai

FREE MAYA
Da più di un anno Maja è rinchius* nelle carceri ungheresi, estradat* e poi torturat* nel paese liberticida di cui Orban è dittatore, per il solo “crimine” di essere antifascista — crimine del quale siamo tutte, tutt* e tutti colpevol*! Negli ultimi mesi, Maja, ha subito abusi non troppo dissimili da quelli inflitti a Ilaria Salis: catene ai piedi e alle mani, collare e guinzaglio, un processo giuridico opaco e infiltrato da un chiaro messaggio politico fascista e autoritario contro chi lotta per la libertà. Come ultimo atto di autodeterminazione, Maja ha iniziato uno sciopero della fame, dapprima in cella d’isolamento e ora nell’ospedale carcerario ungherese al confine con la Romania. Un mese di lotta, attraverso il proprio corpo, che ha portato le sue attuali condizioni di salute ad essere a dir poco allarmanti: drastica perdita di peso, deterioramento degli organi vitali, danni al cuore. Riconosciamo e rimarchiamo la necessità del sostegno internazionale a tutt* l* compas e, in questo momento tragico, a Maja. Nel nostro piccolo, vogliamo mandare un messaggio di solidarietà e rilanciamo le richieste avanzate dal padre di Maja, Wolfram Jarosch, come possibile via d’uscita dal supplizio che l* compas sta subendo: 1. «In nessun caso si deve impiantare un pacemaker contro la volontà di Maja. Non sarebbe utile dal punto di vista medico, poiché la bassa frequenza cardiaca è una conseguenza diretta dello sciopero della fame.» 2. «Maja non deve essere legat* al letto. Una misura del genere sarebbe crudele e priva di giustificazione medica.» 3. «Il Ministero degli Esteri tedesco deve urgentemente porre fine all’isolamento carcerario e ottenere il rientro di Maja in Germania.» 4. «Non devono avvenire altre estradizioni verso l’Ungheria!» [Estratto da: Comunicato stampa congiunto di Wolfram Jarosch e del Comitato di solidarietà per lo sciopero della fame di Maja] Pretendiamo la liberazione immediata di Maja! Urge un fronte comune di lotta contro questa ondata fascista che, come un olezzo di roba rancida e putrefatta, si è riversata sul nostro mondo e nelle nostre città. Non possiamo aspettarci niente da uno stato fascista – ungherese o italiano che sia – e sicuramente non ci aspettiamo una narrazione istituzionale che definisca i nazisti come un problema di libertà. Cosa possiamo aspettarci, allora, da un tribunale in cui l’unico giudice fa anche parte dell’accusa, se non un teatrino della peggior specie? Possiamo però essere e restare solidal*, possiamo fare tutto ciò che pensiamo sia giusto per aumentare la solidarietà in maniera esponenziale, immaginando anche nuove forme di lotta. A Torino gridiamo da oltre trent’anni che “si parte e si torna insieme”: non è solo un coro, è una sfida vitale! Maja non è sol* #FreeAllAntifas #FreeMaja
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In solidarietà a Manituana
L’attacco a Manituana è un ulteriore atto nella guerra a bassa intensità che l’amministrazione comunale ha dichiarato contro gli spazi liberati e l’auto-organizzazione dal basso. La Torino che sognano di costruire è una città “smart” e ricca, dove chi ha potere economico può avere tutto, mentre chi è pover* semplicemente scompare. Una città di rentiers che spremono valore dalla speculazione edilizia, dagli affitti sempre più inaccessibili e dai grandi eventi. Naturalmente in tutto questo non c’è spazio per le persone in carne ed ossa che questa città la abitano davvero: persone con necessità e bisogni (casa, reddito, salute), con desideri e sogni (di relazioni sociali soddisfacenti, di una vita degna e interessante), con rabbia e aspirazioni ad un mondo altro. È in questo humus fertile, fatto di relazioni e politica, di auto-organizzazione e lotta, che gli spazi sociali come Manituana nascono e proliferano: perchè, come ci ricordano lu compas, una collettività politica non si può sradicare. Ed è difficile convincere chi ha sperimentato la possibilità di decidere sulla propria vita e sulle scelte della propria comunità a rientrare nei ranghi dell’obbedienza al comando della ragion (economica) di Stato. Manituana non ha genere, non ha specie e non ha padroni. È l’insradicabile necessità di costruire, immaginare futuri diversi, coltivare speranze e lotte in un presente in cui il cemento prova a soffocare ogni seme di resistenza. Di fronte al furto di spazio che GTT e Amiat-Iren progettano, Manituana promette di resistere. Non solo noi lo crediamo, ma assicuriamo fin d’ora che siamo e saremo al loro fianco.
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Speculazioni
La Torino che Vogliamo
SPECULAZIONE
PRESIDIO SOTTO LE MURA DEL CPR
Da marzo ad oggi si sono susseguite a più riprese proteste e scioperi della fame da parte dei reclusi al CPR di corso Brunelleschi. Molti dei detenuti che hanno lottato sono stati quasi tutti trasferiti in altri lager, con l’unico obiettivo di spezzare i legami che si stavano creando con chi dall’esterno solidarizza. Il nuovo ente gestore, Sanitalia, lavora in continuità con le multinazionali che l’hanno preceduto: ennesima prova che non esistono lager umani o umanizzabili. Nonostante il capitalato d’appalto prevedesse l’aumento dei posti nel 2026, negli ultimi giorni sono state aperte nuove aree, prontamente riempite anche da altri CPR. Sentiamo il bisogno di tornare sotto quelle mura per portare la nostra voce e la nostra solidarietà a chi lotta e a chi è recluso da uno stato razzista. Sabato 28 giugno dalle 16 saremo in Corso Brunelleschi Sosteniamo la loro lotta contro detenzione e deportazione! Sarà importante essere in tantə per far sentire la nostra vicinanza a chi è costretto dietro quelle mura infami. CHIUDERE I CPR, LIBERARE TUTTI! mai più CPR, mai più Lager
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CPR
Aggiornamenti dalla raccolta solidale
Dalla riapertura del lager di Corso Brunelleschi abbiamo sempre cercato di portare la nostra solidarietà alle persone recluse -che sbirri e operatori del centro con nervosismo continuano a chiamare “”ospiti””. Le condizioni all’interno del lager continuano a essere, e saranno sempre, degradanti. Le rivolte scoppiate nelle scorse settimane lo dimostrano chiaramente: non può esistere una vita dignitosa tra quelle mura. Negli ultimi giorni stanno venendo aperte nuove aree e le persone recluse sono sempre di più, quasi settanta ormai. Come ci raccontano i reclusi all’interno del lager, le condizioni di vita sono degradanti e i detenuti vengono umiliati quotidianamente. Crediamo che la solidarietà passi anche attraverso la consegna dei pacchi contenenti vestiti e generi alimentari. Questi ultimi molto importanti, non solo perché allo “shop” del CPR un pacco di biscotti arriva a costare 7 euro, ma anche perché il cibo somministrato è pieno di psicofarmaci utilizzati per sedare le persone recluse. Ma soprattutto gli consente di avere la libertà di scegliere se accettare o rifiutare il pasto. Consegnare i pacchi per noi è un modo per fare sentire alle persone recluse che non sono sole, che esiste una solidarietà, anche molto concreta, fuori da quelle mure. Sbirri, militari e operatori hanno sempre mostrato grande nervosismo quando siamo andat3 a consegnare tutti quei pacchi. Dopo le prime rivolte hanno man mano aggiunto regole e procedure per danneggiare anche questa forma di solidarietà, cercando sempre pretesti per non fare arrivare i pacchi ai detenuti. Qualche pacco (fortunatamente pochi) non è arrivato, il cibo prossimo alla scadenza le ultime volte è stato rifiutato, alcune cose accettate una volta, non lo sono state la volta successiva. E dulcis in fundo, durante l’ultime consegne ci è stato detto che si possono consegnare vestiti esclusivamente nuovi o con lo scontrino della lavanderia. Tutto ciò, dicono, per il “benessere” dei detenuti che altrimenti rischierebbero la scabbia (come se non fossimo in grado di lavare i vestiti). Ancor peggio è che, se per i primi pacchi era possibile incontrare i reclusi, salutarsi brevemente vis a vis, anche se circondatɜ da una dozzina di sbirri di ogni tipo, dopo le prime rivolte hanno deciso che questo non era più ammesso dal regolamento, che “non c’era bisogno”. Nel continuo processo di disumanizzazione e isolamento totale adesso sono gli sbirri a consegnare i pacchi. Insomma, la vendetta istituzionale per essersi rivoltati tenta di recidere i pochi legami di solidarietà, ma non arrendiamoci. Grazie alla raccolta, siamo riuscitɜ a fare delle grandi consegne di pacchi, ma le richieste da dentro continuano ad arrivare, per questo la raccolta va avanti. Ricordiamo che a causa delle nuove restrizioni i vestiti che raccogliamo devono essere NUOVI. Per chi volesse contribuire alla raccolta può passare il martedì e il mercoledì dalle 17.00 alle 20.30 al Gabrio in via Millio 42 o contribuire economicamente via satispay. Per chi volesse organizzarsi ci vediamo in assemblea tutti i martedì alle 19.30 al Gabrio Freedom, Hurrya, Libertà!
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AGGIORNAMENTI QUESTURA
L’orologio segna le 6.53. La coda che conduce all’ingresso di via Doré è tanto lunga da girare l’angolo e arrivare all’altro ingresso di via Grattoni. Qui, vengono distribuiti, ogni mattina, circa 8 tagliandini che consentono l’accesso alla struttura per formalizzare la domanda di asilo, un passo fondamentale senza cui i propri diritti al lavoro, alla casa, alla salute sono spesso negati. Fortunatamente, oggi non piove: il gazebo blu montato qualche mese fa non è infatti sufficiente a coprire nemmeno un quarto delle persone che già da ore attendono in coda.  A. è arrivato alle 4 e mezza del mattino per essere tra i primi della coda, trovando però già diverse persone davanti a lui. G. ha sedici anni, è in fila già da un paio d’ore. Dice che sta avendo problemi a scuola perché da ormai due settimane è costretto ad entrare alla seconda ora per tentare di presentare domanda di asilo.  Dopo un po’ il portone della questura si socchiude: la fila si ricompone e si forma anche un certo silenzio. Dal portone esce un uomo di mezza età, vestito con un pantalone mimetico, anfibi, un pullover nero e un cappellino verde militare che gli copre lo sguardo. Si accosta al portone e si accende una sigaretta. E’ solo osservando il modo in cui si rivolge ad alcune persone in divisa, uscite dopo di lui, che realizzo che non si tratta di qualcuno che hanno rilasciato dalla questura ma di un ispettore di polizia.  Per quanto alienante risulti per me, un poliziotto travestito da militare rispecchia la fusione tra apparato poliziesco e militare che a Torino caratterizza ormai la gestione dell'”ordine pubblico”. Una realtà familiare per molte delle persone in fila, esposte alla militarizzazione di interi quartieri e pratiche di profilazione razziale. Ad un certo punto, chiedono alla fila di spingersi contro il muro. Iniziano a camminare lungo la fila, ma l’ispettore non sembra degnare di uno sguardo nessuno. Cammina in mezzo ai poliziotti, aspirando di tanto in tanto dalla sua sigaretta. Fanno avanti e indietro un paio di volte, e disinteressandosi all’ordine della fila selezionano alcune persone. Dopo un po’, vado loro incontro, per segnalargli che vicino a me c’è una signora con un minore. “Loro sono sudamericani? Ho già preso una famiglia stamattina… devo dividere un po’ le etnie. Facciamo lunedì. Tanto io me li ricordo”. Alla mia richiesta di come avviene la selezione la risposta è che “cerchiamo di valutare un po’ tutto… le esigenze più grosse… la presenza più costante”.  Gli agenti invitano la fila a disperdersi: per oggi basta, bisogna tornare la prossima settimana. Qualcuno si allontana scuotendo la testa, esausto: “Lunedì, sempre lunedì… e poi la stessa storia“ Ovviamente nessun vero screening di vulnerabilità è stato fatto, nessun nome è stato annotato, nessuna lista è stata creata. L’accesso al diritto di asilo a Torino è lasciato al caso, alle procedure di profilazione razziale del funzionario di turno, alla speranza che la prossima volta non ci sia un ispettore diverso, che si ricordi di te o che non sia già stata fatta entrare una persona che condivide le tue stesse vulnerabilità o la tua stenza apparenza “etnica”.  Dietro all’informalità e regole contraddittorie, continuano a nascondersi discrezionalità e violenza. Di fronte a una persona che tenta da settimane di entrare, i funzionari non hanno problemi a riconoscere di vederlo lì tutte le mattine, ma di non averlo mai fatto entrare perché è “giovane e forte”.  Inoltre, se ad eventuali accompagnatori, spesso avvocati bianchi, è riservato un trattamento a tratti cordiale, chi attende in fila è frequentemente aggredito. A una persona che insisteva a chiedere informazioni sulla distribuzione dei numeri per entrare il questurino dice “abbassa la voce che sono le 7, non ti ho mai visto, la prossima volta impara a svegliarti prima e arrivare per tempo”. 
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RACCOLTA SOLIDALE PER I DETENUTI DEL CPR DI TORINO
Dopo due anni, torniamo a raccogliere beni di prima necessità per le persone recluse nel CPR. Il lager torinese ha riaperto ormai più di un mese fa; è cambiato l’ ente gestore, ma nella realtà nulla all’interno è cambiato. I detenuti sono trattenuti in condizioni invivibili, sia in termini materiali sia rispetto alla violenza quotidiana a cui sono costretti. Da dentro chiedono di poter accedere a beni di prima necessità, come vestiti puliti e biscotti. Il cibo, “offerto” dal nuovo gestore Sanitalia, è immangiabile, esattamente come in passato. Dentro il CPR c’è uno spaccio alimentare dove i prezzi sono proibitivi (un pacco di biscotti costa 7€). La dignità di queste persone è oggi come allora calpestata ogni giorno nei modi più disparati possibili. La nostra solidarietà è un’arma, usiamola! Leggi tutto: RACCOLTA SOLIDALE PER I DETENUTI DEL CPR DI TORINO Ci sono due modi per farlo: -facendo una donazione tramite satyspay -portando i generi di prima necessità martedì e mercoledì dalle 18.00 alle 20.30 al CSOA GABRIO in Via Millio 42 CHE COSA SERVE? (LEGGI CON ATTENZIONE) Beni alimentari: Caffè in cartone (in alluminio non entra) Thè Merendine Zucchero in bustine (pacchi grandi non entrano) Biscotti Pan bauletto Beni igienici: Shampoo Balsamo Bagnoschiuma Crema corpo (No plastica dura) Vestiti (appena lavati!): Tutto da uomo Mutande (nuove) Calzini (nuovi) Pantaloncini T-shirt Polo Magliette maniche lunghe Felpe (togliere lacci) Ciabatte di plastica dal 41 in sù (no parti di metallo)
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25 APRILE 25 – CONTRO IMPERIALISMO E GUERRA
Ci avviciniamo a celebrare l’80esimo anniversario della liberazione dal nazi-fascismo immersi in un’atmosfera da fine del mondo. Se non fosse bastata la promessa distruttiva della crisi ecologica in cui siamo immers*, con la sindemia del covid come trauma collettivo già quasi-rimosso, la guerra aperta è nuovamente esplosa anche nella “pacifica” Europa. Sappiamo bene che per i popoli e per le soggettività oppresse, così come per le lavoratrici e i lavoratori, la guerra, nelle sue forme più esplicite delle bombe in Palestina o in quelle meno dichiarate come femminicidi, transicidi, morti sul lavoro o in mare, non si era mai fermata.  Al contempo però assistiamo ad un cambio di paradigma, esemplificato dai discorsi intorno alla guerra guerreggiata, dal via libera al riarmo come unica soluzione per salvarci dalla barbarie, dal riaccendersi dei nazionalismi e dalle guerre commerciali. Eppure, di fronte all’intensificarsi del genocidio in Palestina, all’aumento vertigionoso delle spese in armamenti in Europa e nel mondo, alla violenta repressione del dissenso che, partendo dagli USA di Trump e passando per la “democratica” Germania, arriva fino alla fascistissima Italia, non è il momento di abbandonarci allo sconforto nè di soccombere alla disillusione. Il macro della geopolitica estera si riflette e rafforza nel micro delle nostre vite e dei quartieri in cui viviamo come nodi in tensione da cui rispondere, opporsi e resistere, soprattutto quando la sospensione totale di qualsiasi forma di democrazia si rende evidente. Ci scontriamo infatti con disuguaglianze di classe sempre più amplificate, le stesse che rendono impossibile a moltx avere una casa ed arrivare a fine mese nonostante un contesto urbano colmo di spazi abbandonati lasciati a marcire. Le città che abitiamo si rivelano divise in frontiere interne che separano i quartieri  “riqualificati”, accessibili a poch*, da quelli “indecorosi”, raccontati come pericolosi attraverso le famose “zone rosse” fino a rendere di nuovo legittimi e desiderabili luoghi di confine e tortura come le carceri e i cpr. Nel clima di guerra diffuso, non sono solo le fasce più marginalizzati a subire il neofascismo, siamo tutt noi, perché i tagli all’istruzione, alla ricerca, alla salute pubblica, ai centri antiviolenza hanno effetti reali sui corpi senza distinzioni, seppur con differenti gradi di severità. In questo meccanismo stratificato, la guerra si presenta come realtà pronta a riscrivere i presupposti di ulteriori divisioni sociali, nuovi sommersi e salvati mentre si allarga la fascia di persone e corpi sacrificabili. Se la confusione è grande sotto il cielo, il momento non è certo eccellente, eppure il mondo è lungi dall’essere pacificato: in Palestina il movimento di resistenza palestinese affronta con determinata ostinazione il tentativo di cancellazione del loro popolo, negli Stati Uniti studentesse e studenti infiammano le università sfidando l’ira repressiva del governo repubblicano, mentre dal Chiapas arriva l’appello a costruire “il giorno dopo” della tempesta capitalista. IL 25 aprile ci pare allora quanto mai attuale, nel suo interrogarci in maniera urgente, non solo oggi ma nelle lotte che animiamo tutti i giorni: di fronte alle crisi del mondo che conosciamo, con i suoi immancabili risvolti violenti e sanguinari, da che parte stiamo? Quali responsabilità, individuali e collettive, ci chiamano all’azione? Ieri come oggi, resistere rimane per noi una postura necessaria quanto diversificata nella molteplicità di pratiche, forme e idee disposte a contrastare imperialismi e fascismi vecchi e nuovi. Che sia nell’opporsi a progetti estrattivi ed ecocidi tramite sabotaggi e picchetti, occupando fabbriche e rivoluzionando gli assetti produttivi in chiave anti-capitalista, dis-armando una guerra contro le donne e le soggettività non conformi al mito patriarcale e alle sue soluzioni punitive e securitarie. Smontando il mito del progresso e della pace basate su violenza e sfruttamento lontano dai nostri occhi. Resistiamo e ci organizziamo nella lotta liberando spazi e menti, salvando il desiderio di un’alternativa rispetto a un mondo in fiamme, occupando case, palazzi, quartieri e università per dar spazio a nuove forme del sociale, di alleanze e di solidarietà nelle lotte di ciascun contro nemici comuni, perchè nessunx rimanga solx.  Oggi, dopo 80 anni, siamo qui per ricordare, e per non dimenticare mai, il costo della nostra libertà e la sua necessità, uno sforzo continuo da compiere insieme, giorno dopo giorno. Sarà un giorno di festa e di lotta, vogliamo passarlo con l* nostr* compagn*, sicur* che le nostre strade si incontreranno ancora e spesso nei tempi prossimi di resistenza.  Fino alla rivoluzione ★ PROGRAMMA ★ 
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25 aprile
Solidarietà all* compagn* indagat*, eravamo e rimaniamo al loro fianco!
In un momento storico segnato da tensioni crescenti, in cui la corsa al riarmo e la logica della guerra imperialista vengono imposte come orizzonte inevitabile, non sorprende che le istituzioni tentino di silenziare e reprimere chi sceglie di organizzarsi dal basso, animando e vivendo le lotte che si oppongono al deserto lasciato dalle politiche istituzionali. Da sempre, chi si oppone allo stato delle cose viene criminalizzatx. Oggi più che mai, chi non abbassa la testa e continua a resistere è oggetto di una repressione sempre più intensa, attraverso misure giudiziarie che mirano ad annichilire il dissenso e a trasformare in nemico pubblico chi crede che le lotte dal basso siano lotte di tuttx. Vorrebbero silenziarci, costringerci alla passività, pront* ad accettare il destino che hanno già scelto per noi. Non riuscendoci, usano l’unica arma che conoscono: la repressione e la macchina del fango. Sappiamo bene che hanno paura. Sanno che chi scende in strada non lo fa per un tornaconto personale, non lo fa per soldi o per potere, come un qualunque politico. Lottare significa credere in un mondo diverso, significa costruire pratiche di resistenza e solidarietà reali, significa portare avanti un’idea di un mondo diverso e di una vita degna per tutt*. Ed è proprio questa determinazione a spaventarli: l’idea che esista ancora chi non si piega, chi si organizza, chi non è disposto a farsi schiacciare senza reagire. Tra pochi giorni ci sarà la sentenza del Processo Sovrano, l’ennesimo capitolo di una strategia repressiva che da anni tenta di annientare le esperienze di lotta costruite con determinazione da tant* compagn*, in valle come in città. Un processo velenoso costruito dalla procura torinese con l’unico scopo di colpire chi ha scelto di non arretrare, incastrando pezzi di storie diverse per costruire il teorema di un’associazione a delinquere. Un’accusa strumentale, frutto di un impianto che non ha nulla a che vedere con la ricerca della verità, ma molto con la volontà di stroncare il dissenso. Non è la prima volta che assistiamo a simili manovre repressive: la magistratura torinese è da sempre in prima linea nel colpire chi lotta, mentre le denunce degli abusi delle FFO vengono sistematicamente archiviate. è un copione già visto, dove i ruoli sono sempre gli stessi, da un lato, chi difende gli interessi del potere con processi-farsa e campagne mediatiche denigratorie e dall’altro, chi resiste e continua a lottare per la giustizia sociale. Ma questa repressione non riguarda solo Torino. Il processo sovrano si inserisce in un contesto di progressivo restringimento degli spazi di libertà e di espressione in tutta Italia. Infatti se colleghiamo questa vicenda alla riforma della giustizia che mira a sottomettere definitivamente il potere giudiziario al potere politico esecutivo l’obbiettivo diventa ancora più chiaro: normalizzare la società, soffocare il dissenso, spegnere ogni voce critica prima che possa diventare una minaccia reale per l’ordine costituito. Ma chi lotta non è mai solx. Solidarietà all* compagn* indagate, eravamo e rimaniamo al loro fianco! L*  compagn* del CSOA Gabrio
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Basta sgomberi! Casa per tutt*
Esattamente una settimana fa arrivava l’annuncio dello sgombero del palazzo occupato in via Monginevro 46 nel 2013. Un’occupazione nata a seguito della crisi economica che in città aveva portato numerosi sfratti e sgomberi, a cui si è risposto con varie occupazioni abitative (7 solo in San Paolo). Occupazioni che hanno dato l’opportunità a decine di persone di avere un tetto che gli permettesse di non finire ancora più ai margini di una società sempre più individualista ed escludente. Occupazioni, ma soprattutto case. Case che hanno permesso di ripartire e progettare il proprio futuro senza sottostare a ricatti e umiliazioni. Purtroppo però, come per le altre esperienze in quartiere, sembra arrivata la fine anche di questa occupazione. Uno sgombero quasi annunciato insomma: nemmeno un anno fa era stato sgomberato il palazzo di via Muriaglio e pochi anni prima via Frejus e via Revello. Quest’ultima palazzina con le stesse modalità di via Monginevro. Nonostante i proclami sui giornali della settimana scorsa, lo sgombero non è avvenuto realmente. Come in altri casi, è stata messa in atto una pratica tanto violenta quanto subdola: il distacco della luce e/o dell’acqua. Un assedio silenzioso per forzare le persone ad andarsene ed evitare alle istituzioni di dover avanzare proposte concrete per risolvere la costante crisi abitativa.  Mentre le famiglie con minori vengono trasferite in strutture, costrette a vivere spesso in un monolocale (questa volta fortunatamente non hanno separato i genitori), per le persone singole non c’è nessuna prospettiva.  E oggi? E domani? saranno giornate di “sgomberi dolci” a Torino– così gli piace chiamarli- evitando di prendersi la responsabilità politica e morale dell’assenza di soluzioni alternative.  Ciò che accade in queste situazioni non è una novità: il razzismo istituzionale, la gentrificazione crescente del quartiere San Paolo e la mancanza di politiche abitative efficaci hanno reso impossibile l’accesso a soluzioni dignitose per chi vive in occupazione.  Ancora una volta, si prospettano solo dormitori aperti per sole 12 ore, un’ulteriore umiliazione per chi lavora su tre turni, e una condizione inaccettabile per persone che rivendicano il diritto di avere un tetto sopra la testa. Le persone che vivono in occupazione non stanno chiedendo la carità, ma solo una casa vera, dignitosa, dove poter vivere senza il rischio di essere sfrattati ogni volta che la situazione economica o sociale non rispecchi le prospettive di palazzinari e speculatori. Molti sarebbero disposti ad affittare un alloggio se non fosse che il razzismo diffuso e la continua gentrificazione del quartiere e della città non lo permettono, rendendo ancora più insostenibile la loro condizione. Il diritto alla casa dovrebbe essere garantito a tutt3 e non solo a chi può permettersi di pagare affitti in un mercato immobiliare speculativo. Esprimiamo quindi la nostra ferma richiesta ai servizi sociali, al Comune di Torino e alle istituzioni competenti: le persone che occupano la palazzina di via Monginevro e gli altri che vivono nelle stesse condizioni non vogliono un dormitorio temporaneo, ma un alloggio stabile e degno. E’ ora di risolvere l’emergenza abitativa in modo serio e duraturo.  Non si può continuare a fare finta che il problema non esista. La città di Torino e le sue istituzioni devono trovare soluzioni abitative vere, per tutte le persone, senza discriminazioni. La crisi abitativa non è un’emergenza, è una costante. Non può essere affrontata con risposte temporanee o marginalizzando ulteriormente chi già vive una condizione di vulnerabilità. Esigiamo che venga trovata una soluzione immediata e concreta per tutte le persone che rischiano di essere sgomberate, senza che la loro dignità venga ulteriormente calpestata. Non basta un dormitorio, vogliamo una casa! La casa è un diritto, non una concessione.  C.S.O.A. Gabrio
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🎭Reclaim the Theatre vol. II
Con la volontà di riappropriarsi di questa forma d’arte come veicolo espressivo, divulgativo e sociale. Con la consapevolezza che il teatro è quasi sempre in grado di abbracciare le rivoluzioni e diventarne un megafono potente e privilegiato. Speriamo che, a loro volta, anche le nostre rivoluzioni possano intessere un legame profondo e fertile con il teatro.   Scopri il programma qui
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Festival
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La riapertura del CPR di Torino è imminente.
Un luogo contornato da alte mura, materiali e simboliche, ben noto per essere stato teatro di soprusi di ogni tipo, a partire dalle condizioni degradanti di detenzione fino all’uso smodato di psicofarmaci per silenziare e annullare ogni forma di resistenza e dissenso. Un dispositivo repressivo ed esplicitamente razzista, dove abusi e violenze risultano essere all’ordine del giorno: pestaggi, intimidazioni e torture sono stati ripetutamente denunciati, senza conseguenza alcuna per i responsabili. Non possiamo dimenticare i morti che hanno segnato la storia del CPR di Torino. Tra i casi più eclatanti, ricordiamo la morte di Moussa Balde nel 2021, suicidatosi dopo essere stato vittima di un pestaggio razzista a Ventimiglia. Moussa, invece di ricevere protezione e cura, è stato rinchiuso nel CPR, dove l’ isolamento detentivo (ricordiamo a tal proposito l’uso dell'”ospedaletto” come mezzo punitivo) lo ha spinto a togliersi la vita. Altre morti, forse meno note, pesano in uguale maniera sulla coscienza collettiva. La nuova gestione del CPR è stata affidata alla cooperativa Sanitalia Service, già attiva nel settore sanitario piemontese; con un appalto da 8,4 milioni di euro, Sanitalia entra in un mercato che lucra sulla detenzione amministrativa, dimostrando come dietro le politiche migratorie si celino enormi interessi economici. Infatti, la gestione privata di strutture come il CPR non fa che incentivare l’abbattimento dei costi che rende la detenzione un business ei corpi migranti delle merci. Mobilitiamoci insieme, affinché non ci sia nessun CPR, né qui né altrove.
Antirazzismo
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antirazzismo
“EMERGENZA FREDDO” EMAIL BOMBING_16-17-18/12/24
Siamo stanch* che la precarietà abitativa venga trattata come un’emergenza. Guardiamola per quello che è: il frutto di politiche sociali inesistenti, tagli ai servizi, razzismo, complicità delle istituzioni con palazzinari e speculatori. La casa è un diritto che va garantito sempre, non una concessione fatta per evitare che le persone muoiano congelate sotto i portici del centro e le luci d’artista. Facciamo sapere al Comune di Torino che sappiamo bene di chi sono le colpe, inondiamolo di e-mail! Il 16, 17, 18 dicembre partecipa al e-mail bombing indirizzato al comune di Torino e ai servizi che si occupano di emergenza abitativa. Se non sei ispirat*, abbiamo preparato un email che puoi copiare e incollare: Destinatari:  sindaco.lorusso@comune.torino.it assessore.rosatelli@comune.torino.it direzione.generale@aslcittaditorino.it adulti@comune.torino.it Oggetto: USA LA FANTASIA! Se usiamo oggetti diversi la posta ha meno probabilità di finire nello spam.  Testo:  Caro sindaco Lo Russo,  Caro Assessore Rosatelli,  Caro Dott. Picco , Auto* responsabile del SAD, Per quanto tempo ancora chi non ha casa dovrà dormire fuori al freddo?  A Torino, il numero di persone senza fissa dimora è consistente e in aumento, ma il Comune non stanzia misure di accoglienza adeguate, ledendo il loro diritto alla casa. Il freddo peggiora la situazione, ma parlare di “emergenza freddo” è fuorviante. Di emergenziale ci sono solo interventi incapaci di offrire soluzioni a lungo termine. Non li vediamo questi 1000 posti per l’ accoglienza invernale delle persone senza fissa dimora, contrariamente a quanto dice il sito della città di Torino ( https://www.torinoclick.it/incomune/piano-di-accoglienza-invernale-della- citta-di-torino/ ).       Tante persone , che incontriamo ogni giorno nei nostri panni di cittadin*, attivist* o operator* del sociale, non hanno casa o ne hanno diverse precarie: una notte da amici, un mese al Sermig, una settimana al parco. La casa è un diritto che va garantito sempre, non una concessione fatta per evitare che le persone muoiano congelate sotto i portici del centro e le luci d’artista.   Inoltre, i l freddo non è un’emergenza ma torna ogni anno : l’unica emergenza che esiste è quella di un Comune, una Regione e uno Stato complici della speculazione abitativa, di A irbnb, degli sfratti, degli affitti in nero , e responsabilità dei tagli ai dormitori e a tutti i servizi che tutelano il diritto all’abitare.    Sono troppe le persone che non possono accedere al mercato immobiliare, in bilico tra il finire per strada e i ricatti del mercato nero degli affitti. Costrette a pagare cifre esorbitanti per stanze sovraffollate, spesso penalizzate da un cognome che non è abbastanza italiano per accedere a condizioni contrattuali dignitose. Sono troppe le persone richiedenti asilo costrette a passare le notti al parco o a vagare da un dormitorio all’altro, perché per avere un posto in accoglienza devono attendere mesi, se non anni. Sono troppe anche le persone che non possono accedere alla residenza. L’anagrafe cittadina rifiuta molte del le richieste di iscrizione all’indirizzo fittizio di ” via della casa comunale ” o, se le accetta, prevede mesi di attesa per chi dichiara di non avere una dimora stabile, sospendendo di fatto l’accesso ai propri diritti essenziali.    Sono troppe, infine, le persone in lista di attesa per un alloggio popolare: il numero cresce, insieme a quello degli edifici pubblici che rimangono vuoti. E nel frattempo Comune, Regione e ATC brindano agli sgomberi di chi questi alloggi se li è presi da sol*, perché stanc * di aspettare o perché esclus * dai criteri classisti e razzisti di questo sistema. Sono pochi invece, i 1000 posti che avete stanziato per questa “emergenza”, e non basteranno a ripulirvi la coscienza. 1000 posti offerti spesso in condizioni indegne, e nascosti nelle periferie più lontane. 1000 posti che in primavera spariranno, sempre ammesso che adesso riusciate ad aprirli: chi si è rivolto in Via Traves il 9 dicembre, giorno d’apertura ufficiale del dormitorio per l’emergenza freddo, ha trovato infatti le porte chiuse. Per quanto si dovrà attenderene l’apertura? Il freddo è arrivato da settimane, lo percepiamo tutt * . La verità, tuttavia, è che i diritti di chi vi proponete di accogliere sono congelati da molto più tempo. È anche per conto loro, che lottano ogni giorno, che oggi vi chiediamo: quando arriverà la primavera?
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