NESSUN IMPIANTO, NESSUN RIMORSO: ALCUNE CONSIDERAZIONI E UN RACCONTO A PIÙ VOCI
DELLA MOBILITAZIONE DELLO SCORSO FEBBRAIO
Lo scorso 9 febbraio una quindicina di escursioni hanno punteggiato la dorsale
appenninica e l’arco alpino al grido La montagna non si arrende. Dopo
l’esperienza di Reimagine winter (marzo ’23) e Ribelliamoci AlPeggio (ottobre
’23) decine di associazioni, spazi sociali, comitati di abitanti, climattiviste
si convocano in risposta alla chiamata dell’Associazione Proletari
Escursionisti.
Un primo dato interessante sta proprio qui: realtà diverse, associative e
militanti, singoli oppositori o gruppi organizzati riflettono le proprie voci di
dissenso a progetti che disegnano una prospettiva di turismo sempre più
aggressiva basata sulla depredazione dei territori. Troviamo che questa
saldatura descriva due importanti momenti. Tanto per cominciare, sappiamo che in
questa fase le lotte locali fanno paura al potere e sono tra le poche efficaci.
Basti qui ricordare la pesantissima repressione NoTav, le manganellate al parco
Don Bosco di Bologna, le forze dell’ordine sempre più spesso mandate a
monitorare gruppi e iniziative di protesta locale o ancora le lotte contro il
furto d’acqua e le dighe d’Oltralpe. Unire queste lotte a partire dall’urgenza
dello sperpero olimpico e metterle in connessione tra loro non farà che
rafforzarle e migliorarne l’efficacia, rendendo una volta ancora più esplicito
il trait d’union che le accomuna: la necessità di sviluppare comunità disposte a
interagire con i territori e a ragionare di come starci dentro e non sopra,
insieme alll’improrogabilità di opporsi a prospettive che minacciano e
calpestano luoghi ogni anno più fragili. Visioni superate, fuori tempo massimo,
che strizzano ancora dopo aver spremuto. Idee sepolte, energivore, idrovore e
che possono essere tranquillamente descritte come negazioniste del cambiamento
climatico.
In questo solco la proposta di una giornata di mobilitazione sincrona che
riconosce nei Giochi olimpici invernali 2026 l’elemento apicale di una lunga
sequenza di iniziative nocive e imposte, che drenano risorse pubbliche e minano
la vita non solo umana nei territori coinvolti, può fungere da apripista a una
galassia di resistenze contro cave e miniere, grandi opere stradali
sovradimensionate, impianti eolici industriali, estrazione di fonti fossili,
nuovi impianti di risalita. Un cartello capace di interrogare e interrogarsi su
possibili forme di mutuo appoggio, produzione di spazi di confronto e
formazione, impellenza di far emergere le lotte con lo scopo di portare a casa
piccoli e grandi risultati utili a infondere fiducia nel binomio stop nocività /
riprogettazione dal basso. Tutto nasce dall’appello: «Le terre alte bruciano.
Non è una metafora. Lo zero termico a 4200 metri in pieno autunno, i ghiacciai
si sfaldano, il permafrost si scioglie, le alluvioni devastanti sono la realtà
quotidiana delle nostre montagne. Una realtà che stride con l’ostinazione di
chi, dalle Alpi agli Appennini, continua a proporre un modello di sviluppo
anacronistico e predatorio, basato su pratiche estrattive e grandi-eventi come i
giochi olimpici invernali.
La monocoltura turistica sottrae risorse economiche pubbliche a beneficio di
pochi, a scapito di modelli plurali e alternativi di contrasto allo spopolamento
delle terre interne e di convivenza armonica in territori montani fragili e
unici».
I NUMERI, LE OPERE (E I GIORNI) DI UNA CRISI
Il versante sud delle alpi paga per primo il costo della crisi climatica: 260
impianti sciistici dismessi, oltre 170 in funzione “a intermittenza”, i bacini
per l’innevamento artificiale crescono del 10% toccando la cifra record di 158
secondo il Rapporto Neve Diversa di Legambiente. Sempre in tema di dati, le
prime analisi della Rete Open Olympics illustrano l’economia della promessa
olimpica a partire dagli open data pubblicati sul sito di SiMiCo, l’SpA a
controllo pubblico e principale stazione appaltante delle infrastrutture del
ticket Milano-Cortina 2026. Dati che raccontano il modello spompo di una nazione
al collasso che dopo essere implosa nell’industria e nella sua capacità di
produzione non sa far altro che iniettare liquidità per generare reddito
sottraendo spazi di cittadinanza. E così si ruba acqua a comunità che
necessitano di autobotti per bagnare gli orti, si progettano impianti che
abbattono boschi, si trasformano rifugi alpinistici in resort di lusso. La
logica della turistificazione genera souvenir finto-artigianali, attrae gruppi
di investimento, cancella servizi essenziali per le comunità. Il risultato di
questo “favore al turismo” costi quel che costi altro non è che l’annientamento
di economie locali, la crescita dei prezzi e l’impossibilità di vivere e
sviluppare relazioni dove si è nati e cresciuti, quando anche vi ci si volesse
rimanere.
L’esplosione e l’atomizzazione del tessuto sociale.
Scritte contro l’eccessiva invadenza del turismo all’Alpe di Siusi
A un anno dallo start nella gestione del cantiere olimpico 2026, la metà delle
opere risulta ancora in progettazione o in gara, le attese di una VAS nazionale
sono state tradite e sulla Lombardia insiste il carico più alto (50% ca. di 3,38
miliardi) sia per numero di opere che per costo. La conclusione di diverse opere
di “legacy”, che per il 70% sono stradali e per il 30% ferroviarie) è già in
agenda per il 2028, 2030, 2032. Il binomio fretta/ritardo, distrattamente
salutato come pura imperizia, costituisce una leva fondamentale della logica
commissariale e della sua capacità di accelerare i processi di trasformazione
territoriale bypassando i processi democratici di ascolto, interlocuzione,
cessione di potere all’agognata sovranità popolare. A questo scenario si
aggiungono i costi per la realizzazione dei Giochi veri e propri, in carico alla
Fondazione Milano Cortina 2026 per 1,6 miliardi di euro.
Il 70% delle opere collaterali alle Olimpiadi – in una nazione in cui crollano
ponti, si sfaldano guardrail e lo stato di edifici pubblici a cominciare dalle
scuole è pessimo, in cui le case non a norma, abusive, e a forte rischio in caso
di evento sismico o meteorologico è disarmante, in cui la manutenzione è
inesistente e la priorità è spostare masse di turisti nel grand tour
dell’invasione – sono strade. La politica pretende di ridurre gli intasamenti
stradali aumentando il numero delle carreggiate – come nel caso del Passante di
Bologna – e delle carrozzabili – come per la tangenziale di Bormio – senza
ammettere che così facendo fa aumentare il volume del traffico e torna al “via”,
a dover ampliare e costruire ancora e ancora.
Opere per giustificare opere: infrastrutture per raggiungere borghi e città
tronfi di mattone e bonus edilizi, centri urbani tirati a lucido e gentrificati,
in preda alla smania di decoro e respingenti. Un Paese ricco di infrastrutture
turistiche mal progettate che chiamano ciclabili. Opere inutili rispetto
all’idea originaria – agevolare la mobilità interna -, che quando non
contribuiscono a causare disastri, come in Emilia, sottraggono spazio ai
marciapiedi e pedoni.
L’ottica turistica nasconde nocività sotto al tappeto e inventa peculiarità e
tradizioni, economie e bella vita, in una valanga schizofrenica che si
ingigantisce e travolge tutto quel che incontra. Impianti anacronistici e funi
ricollocate nella tradizionale destinazione d’uso, come nel caso dell’ovovia di
Trieste, «una vetrina commerciale per le sue [di Leitner, ndr] cabinovie urbane,
dato che il cambiamento climatico preclude altri impianti in quota». Meleti
pervasivi che occupano il territorio in maniera tossica, fatta di fitofarmaci e
pesticidi, mentre si invita la gente a voltarsi dall’altra parte per ammirare
funivie che trasporteranno la frutta da stoccare. È questo il progetto Melinda
che, vestiti i panni di novella Grimm, racconta una Biancaneve al contrario
fatta di una funivia, riduzione del traffico di camion, buone mele “green” e
biodiversità. Come se non fosse una presa per i fondelli parlare di biodiversità
mentre si impone una monocoltura (o bi-coltura, se includiamo i vigneti) nociva.
Come se la costruzione e il mantenimento di un impianto non fossero energivori,
non impattassero sul territorio non inquinassero; come se, tolte poche centinaia
di metri al trasporto su gomma – l’”ultimo miglio” – i camion non continuassero
a portar merce dai produttori alla stazione di partenza della funivia, e dalla
cella ipogea della cava di stoccaggio ai centri di distribuzione.
In Trentino, la regione “illuminata” in cui l’invasione di animali umani inizia
a produrre più noie che reddito, la Provincia preferisce millantare invasioni di
una fauna anch’essa re-introdotta a uso turistico, salvo non garantirle il
minimo spazio vitale e negarle corridoi di dispersione per poterla poi additare
a emergenza criminale e pretendere di abbatterla.
La negazione della vita per l’aleatorietà del fatturato perché, grattata la
vernice, la menzogna si svela per quello che è: altro che interesse per
l’ambiente, rispetto per le comunità, scelte lungimiranti per la collettività.
INTERESSE PRIVATO E PITTATE DI VERNICE, STOP
Per i Giochi è previsto l’arrivo di 1,8 milioni di presenze, che a mezzo stampa
si usa arrotondare a 2 milioni, ma che in realtà è un modo curioso di parlare di
500.000 persone, per intenderci un settantesimo del giubileo capitolino.
Il Rapporto di sostenibilità, impatto e legacy è una lettura di sicuro svago per
gli amanti della chiarezza circa gli obiettivi dell’impresa: rafforzare la
posizione sia di Milano, come città met dinamica e votata ad ospitare eventi
internazionali, che di Cortina, quale località nel cuore delle Dolomiti e della
regione alpina, attrazione turistica e polo leader a livello mondiale per sport
invernali. Se solo escludiamo i nomi di località e discipline che riportano la
parola alpina o alpino questa è l’unica volta in cui le Alpi sono citate in 164
pagine di documento. A titolo di paragone il lemma Milano (sede di gara della
maggior parte delle discipline) restituisce oltre 250 risultati.
Narrazioni dunque, cumuli di narrazioni che mirano a intruppare e a spostare
l’attenzione dal cuore del problema: il modello di business distruttivo.
Ecco perché è importantissimo questo inizio di “camminata larga”, ecco perché ci
auguriamo che la contestazione fuori e oltre, al tema stretto “Milano-Cortina”,
si allarghi. Partire dalle singole opere, dagli impianti, dai progetti – che
siano in alto come in basso, in città come in piccoli borghi semi-disabitati –;
partire dai sommovimenti e dalle lotte, metterle in “rete”. Perché le narrazioni
attorno all’Olimpiade o a qualsiasi altro soggetto speculativo si adattano di
volta in volta succhiando respiro, ma sono accomunate dalla stessa logica,
perfettamente sovrapponibile a quella che anima l’assalto a tutto lo stivale:
soldi, sfruttamento, impoverimento sociale.
Leggere la dinamica aiuta a allargare lo sguardo, apre riflessioni di respiro, e
sposta il piano. In questa logica non ha senso controbattere alla produzione
immaginifica del monolite olimpico fatto di mille piedi, stare sul pezzo delle
Olimpiadi come evento anacronistico, immaginare un unico motore no-olimpico.
Come bene ha scritto Alberto di Monte, il nostro compagno Abo, su Umanità Nova:
«L’importante non è vincere, oggi è importante non partecipare». Ne siamo
convinti, le montagne meritano una nuova diserzione, le olimpiadi meritano
diserzione, questo mondo merita diserzione.
Disertare le loro battaglie e le loro costruzioni del nemico, spostare l’asse
verso il conflitto giusto: non contro le narrazioni sognanti e distorcenti che
produce il capitale, ma contro esso stesso.
BORMIO – FAKE SNOW, REAL PROFIT!
La comitiva in arrivo in pullman da Milano è accolta a Bormio dalla prima neve
di stagione, che da qualche giorno scende copiosa in alta valle. Le
centocinquanta persone partecipanti inscenano
un’escursione-manifestazione-perlustrazione fino all’imbocco della Valdidentro
prima di ripiegare nel centro storico per un pomeriggio di presidi itineranti.
Sì perché la contestazione olimpica non è ben accetta dall’amministrazione
locale né dalla questura di Sondrio e diverse iniziative sono state precettate
nel tentativo di scorare i dimostranti e di tenere a distanza le sensibilità più
curiose. L’epilogo di fronte all’ecomostro delle tribune al piede delle piste,
lungo la via che dovrebbe intercettare il traffico della nuova tangenzialina, è
la fotografia plastica dei “Giochi della sostenibilità”.
Lo ski stadium di Bormio durante il presidio
Per raggiungere Bormio abbiamo risalito la Valle Camonica e scavallato il passo
dell’Aprica. Lungo il tragitto, sopra le nostre teste nubi dense contrastano con
un paesaggio brullo, fatto per l’ennesimo inverno consecutivo di scarsissime
precipitazioni, sia piovose che nevose.
Attraversando la valle scorgiamo Montecampione, località sciistica fallita, e
per fortuna: per tutta la bassa valle non s’intravede nemmeno una spruzzata di
bianco. È febbraio ma sembra autunno.
Più a Nord la situazione non è migliore, qualche incrostazione dalla Presolana,
dal Pizzo Badile camuno e dalla Concarena in su, macchia appena monti di oltre
2000m di quota.
All’Aprica, poco meno di 1200 mslm, scorgiamo i primi spazzaneve, i primi
fiocchi. Siamo quasi stupiti, siamo in cinque ed è la prima neve dell’anno che
vediamo. La località è triste: poca gente per la via centrale, ancor meno sulle
piste, lingue bianche e artificiali a dividere masse verdi d’abete. Forse anche
la gente si sta stancando di sport invernali senza inverno.
Il passo dell’Aprica la mattina del 9 febbraio
Scendiamo in Valtellina: a Tirano monti e fondovalle sono asciutti quanto quelli
camuni. Man mano che ci inerpichiamo verso Bormio riprendono i fiocchi, “sta a
vedere che portiamo il dono più prezioso al nemico”. Arriviamo a Bormio in
leggero anticipo, la Piana dell’Alute è magnifica, ampia, di un verde che
comincia a imbiancare.
I bormini le sono molto legati, la amano per la sua storia, per il suo valore
paesaggistico, per quello che è. Andrebbe vista, visitata, protetta; la nuova
amministrazione invece la vorrebbe devastare per farci passare la
“tangenzialina”. Altro che tangere, sventrare una piana stupenda per proiettare
il vomito-massa nel cuore di Bormio. Chissà se reggerà a queste sollecitazioni.
Chissà se questo piccolo microcosmo resisterà all’infarto.
Cercando un parcheggio attraversiamo piazza Kuerc dove ancora non c’è nessuno.
Lasciamo l’auto, calziamo gli scarponi e torniamo in centro. Bormio fa la stessa
impressione dell’Aprica: pochi turisti, poco movimento in pista e fuori, i
vecchi fasti delle località sciistiche sono passati, resistono giusto i
comprensori-mastodonte come il Tonale, luogo di un’altra camminata di questo 9
febbraio.
In piazza ci dirigiamo verso un bar per un caffè, due ragazze ci fermano e
chiedono se sia qui il ritrovo. «Sì, e manca poco. Speriamo che il meteo non
rovini la giornata».
Al bar veniamo accolti bene, le ragazze che lo gestiscono ci chiedono se siamo
qui per via della manifestazione, sono curiose. Fuori le stesse scene, qualche
passante ci saluta e chiede, così come gli agricoltori che hanno approntato un
mercatino sotto la copertura della piazza.
La storiella dei valligiani chiusi, dei montanari ostili ai movimenti e felici
di vedere “soldi per lo sviluppo” si scioglie come i fiocchi che cadono sul
selciato di questa piazza.
Il pullman da Milano è in ritardo, cogliamo l’occasione per salutare qualche
conoscenza e per conoscere persone nuove che nel frattempo si stanno radunando.
Il pericolo è scongiurato, gente ce n’è.
A un certo punto avvertiamo una presenza chiassosa, svolto l’angolo e intravedo
uno striscione che recita «Milano-Cortina 2026. Dalle Montagne alle città.
Olimpiadi insostenibili».
È arrivato il pullman, e bene: la questura ha vietato di tutto un po’, cortei
compresi, ma la cosa non preoccupa né impensierisce troppo.
Ci muoviamo quasi subito dietro lo striscione, ci sono anche alcune bandiere e
intoniamo cori. I milanesi hanno studiato un canzoniere simpatico, provocatorio,
scherzoso.
Il corteo si fa, e attraversa tutto il paese. Qualche curioso si sporge dalle
finestre, qualcun’altra chiede. Un signore è incuriosito dalla bandiera
palestinese che sventola. «Cosa c’entra con questa iniziativa?», chiede. «Le
lotte si tengono assieme, così si dà senso alle cose, alle sorellanza».
Capisce. Annuisce. Se ne va sorridendo.
Attraversiamo il fondovalle costeggiando il canale termale e poi pieghiamo a
destra, inerpicandoci nei boschi, la neve attacca e meglio così, sotto di lei
insidiose lastre di ghiaccio fanno pattinare e battere le natiche a terra a più
di uno di noi. Ma fa presa anche negli animi, i cani ci zampettano felici,
qualcuno ci si tuffa, si comincia una divertita battaglia a palle di neve. Nel
frattempo tre digos stanchi, compito ingrato, ci seguono a sempre maggior
distanza.
Disinteressati.
I locali hanno preparato alcuni interventi che danno il senso della giornata: la
tangenziale, il progetto spalti della pista Stelvio che è già costato decine di
milioni di euro e che altrettanti ne mangerà, la gentrificazione, la difficoltà
del vivere ai margini dell’impero.
C’è di tutto, ce n’è per tutti; quello che una volta tanto manca è la
frustrazione, il senso di impotenza, e forse questa è la cosa più importante.
Il senso della giornata, il motivo dell’umore positivo è dato alla perfezione da
uno degli interventi del pomeriggio, di nuovo in Piazza del Kuerc, nel primo dei
presidi mobili a cui i divieti questurini di corteo ci hanno obbligato. Tessere,
unirsi, combattere. Essere consci che non è una battaglia per vincere, che le
olimpiadi si faranno, ma che su qualche opera si può vincere e se su quelle
vittorie si costruisce consapevolezza si segna un punto importante, si aggrega,
si rilancia.
Ci sarebbe di che confrontarsi, ce ne sarà occasione: i problemi bresciani
risuonano in quelli valtellinesi, che fanno eco a quelli milanesi, del tutto
simili a quelli appenninici, «che al mercato mio padre comprò»; se saremo bravi
sarà semplice intersecare le lotte, riportarle a quello che sono: un’unica
grande battaglia contro un unico nemico arrogante.
Durante il rientro attraversiamo boschi di abeti e larici, vallette, passiamo
dietro ai bagni di Bormio (ora irrimediabilmente chic), ci immergiamo in questa
testimonianza silente delle peculiarità di un territorio maestoso e delicato.
Lungo il cammino e prima della foto di rito da un belvedere, a fine camminata, è
previsto un altro breve intervento che – appunto perché la lotta è una – include
anche il racconto di quello che è successo al lago Bianco, dove si è pensato di
posare tubi al fine di sfruttare il bacino per l’innevamento artificiale. In
pieno Parco Nazionale dello Stelvio, prosciugando una torbiera e la sua
complessità ecologica, a dimostrazione che è tutto sott’attacco, anche le aree
più fragili e che pensavamo tutelate.
La camminata è stata intensa, avvolta dall’odore e da quel senso di ovattamento
sempre più raro che regala la neve, che aiuta a riflettere, che fa meglio
percepire le sinapsi. Torniamo in piazza, mangiamo qualcosa e ci prepariamo per
l’ultima parte della giornata, fatta di presidi dinamici che descrivano il senso
dell’iniziativa e i cantieri “insostenibili”, con ultima tappa sotto le colate
di cemento della già citata pista Stelvio.
Si uniscono a noi comitati locali, due arzilli avanti con gli anni volantinano e
raccolgono firme per i trasporti gestiti da regione Lombardia, contro il suo
assessore, contro Trenord. Altro piccolo legame tra le due valli unite nello
scempio: in quella camuna si va sviluppando il primo progetto italiano di treno
a idrogeno su una linea capace di offrire soltanto disservizio, da anni.
A causa di un piccolo acciacco e della conseguente sofferenza di uno di noi ce
ne andiamo poco prima della fine e dei saluti, non partecipando all’ultimo dei
presìdi, del resto “si parte e si torna insieme”. Ce ne andiamo però
soddisfatti, pieni del senso di una giornata proficua, necessaria.
Le connessioni ci sono tutte, le volontà anche. Non resta che cospirare.
CALDAROLA – ANCHE IN APPENNINO: LA MONTAGNA NON SI ARRENDE
(A DUE PASSI DAI SIBILLINI)
Ci ritroviamo a camminare nell’Appennino maceratese a distanza di diversi mesi
dall’escursione che ci portò a osservare dall’alto l’area interessata dal
progetto monster degli impianti di Sassotetto e a diversi anni dalla fantastica
Festa di Alpinismo Molotov del 2018. In questa fascia di montagna, a rispondere
all’appello per la giornata di mobilitazione sono state due associazioni locali:
C.A.S.A. Cosa Accade se Abitiamo e L’Occhio Nascosto dei Sibillini, ma la
partecipazione come vedremo è stata poi molto più ampia, sia da parte di singoli
che di realtà del territorio. Ma partiamo dalle basi, sottolineando un aspetto
che non smetteremo di evidenziare: le dinamiche predatorie e speculative che
interessano quest’area sono le stesse che ritroviamo in tutte le terre alte (e
non solo in quelle), con l’aggravante che vanno a insistere su un territorio che
ancora mostra tutte le ferite del sisma 2016/2017. Ferite visibili, fatte di
case e paesi ancora – quando va bene – in fase di ricostruzione e di un tessuto
sociale sempre più in difficoltà. Quando, nei primi mesi del post-terremoto,
parlavamo di un territorio che rischiava di essere ancor più sotto attacco
perché reso più debole dalle scosse e dalla mala gestione dell’emergenza (prima)
e della ricostruzione (poi), facevamo una previsione fin troppo semplice.
Per questo mobilitarsi in queste aree ha a avrà per lungo tempo una doppia
valenza, una “di base” e una specifica sulle varie tematiche che si intendono
affrontare. Questa volta gli interventi che hanno unito i nostri passi si sono
concentrati su tre temi di base: i progetti turistici sui Sibillini, il Gasdotto
SNAM che attraversa queste zone, il parco eolico che dovrebbe sorgere proprio
dove stiamo camminando. Quest’ultimo tema è quello su cui ci si è soffermati
maggiormente, anche ma non solo per il luogo scelto per l’escursione di questa
giornata.
Riprendiamo dall’appello: “(…) a ridosso del Parco Nazionale dei Monti
Sibillini, tra i comuni di Caldarola, Camerino e Serrapetrona, in provincia di
Macerata, dovrebbe sorgere un parco eolico con aerogeneratori alti 200 m. A
conferma di come l’energia rinnovabile, di cui ovviamente condividiamo la
necessità alla base, non sia buona “di per sé” ma vada comunque sempre inserita
in un contesto di rapporti sociali, politici ed economici e valutata
considerando anche l’impatto sull’ambiente, sulle comunità e sull’intero
territorio. Non è illogico riconoscere che dietro la famigerata transizione
ecologica si nascondano altri interessi (il parco eolico in questione è stato
richiesto appunto da una multinazionale norvegese con sede anche in Italia) che
non hanno nessuna ricaduta positiva sulle comunità – defraudate di qualunque
potere decisionale – perpetuando in chiave “green” lo stesso sistema economico
che ci ha portato fino a questo punto.”
Riportiamo queste considerazioni perché sono tornate più volte nel corso degli
interventi e perché se sostituiamo il parco eolico con gli impianti di risalita
o con il gasdotto il risultato finale non cambia: nessuna ricaduta positiva sui
territori ed estrattivismo da parte del capitale. Su queste basi ci ritroviamo
lungo il sentiero che da poco più avanti l’abitato di Castiglione si muove verso
i Prati delle Raie e Croce di Valcimarra. Ci muoviamo intorno ai mille metri di
quota e una fitta nebbia ci accompagna fin dalla partenza, siamo 100? 120? 90? È
persino difficile contarsi e nel lungo serpentone si riconoscono le sagome solo
dei dieci avanti e dietro ciascuno di noi. Una composizione variegata e di tutte
le età, compagne e compagni che si incontrano sia in piazza che lungo i sentieri
di montagna ma anche appassionati di escursionismo e persone del luogo sensibili
agli argomenti trattati. Chi conosce questi posti racconta di come normalmente
il panorama da quassù sia fantastico, da un lato le vette dei Sibillini che a
tratti spuntano dietro ogni curva, dall’altro la vallata e Camerino in
lontananza. Oggi la nebbia rende tutto surreale e qualcuno aggiunge che “oggi
non avremmo visto neanche le pale se le avessero già piazzate”.
Durante le prime due soste sul gasdotto e – soprattutto – sul parco eolico sono
tante le domande e le considerazioni che si accavallano e chi ne sa di più prova
a rispondere, non tanto sui tecnicismi quanto sull’assurdità del progetto in sé.
Qualcuno ricorda che solo nelle Marche sono più di cento le pale eoliche – alte
250 metri – che dovrebbero essere installate lungo i crinali appenninici, tanto
che sempre oggi sul Monte Strega è in corso un’altra escursione sempre sullo
stesso tema.
Continuiamo a salire e si iniziano a vedere i primi scampoli di cielo blu,
giusto in tempo per la foto di rito con uno striscione realizzato con su scritto
a caratteri cubitali “La montagna non si arrende”. Dopo poche centinaia di metri
accompagnati dal sole l’itinerario ci porta a ripiombare nella nebbia per
l’ultima “pausa narrata” sui progetti da decine di milioni di euro che andranno
a impattare sui Sibillini con la scusa della “transizione turistica”, che
ovviamente non viene chiamata così, ma sembra troppo affine alla transizione
ecologica per non fare un accostamento.
Scendendo ci siamo chiesti cosa avesse significato questa giornata e l’opinione
di tutti è che, nonostante il meteo e un territorio che negli ultimi anni ne ha
passate di tutti i colori, c’è ancora una spinta a mobilitarsi su questi temi.
Spinta che ci auguriamo sia solo il primo passo di una rincorsa verso i prossimi
appuntamenti, perché l’escursione di oggi ci ha dimostrato che nonostante tutto
gli spazi di possibilità ci sono. Sempre.
PONTE DI LEGNO – RI-PENSARE LE TERRE ALTE PER LA LORO SALVAGUARDIA
La camminata a Ponte di Legno – pensata e condotta da APE Brescia, MTO2694,
Unione Sportiva Stella Rossa, Collettivo 5.37 e L’Oco! Orco che orto – ha visto
la partecipazione di un centinaio di persone, nonostante una fitta nevicata
lungo il sentiero e pioggia battente all’imbocco della Val Sozzine, luogo di
ritrovo della manifestazione, ma non è stata che l’apice di un percorso
preparatorio di respiro.
Va infatti fatta una doverosa premessa: in Valle Camonica sono state organizzate
tre serate preparatorie alla camminata del 9 febbraio, con l’intento di
coinvolgere una popolazione che sobbolle disorientata, di mettere a fuoco le
tante questioni camune sul tavolo – Terme di Ponte di Legno, depredamento del
bacino del Lago Bianco per realizzare un nuovo impianto di innevamento
artificiale, ampliamento del comprensorio del Monte Tonale, Montecampione, terra
di progetti di turistificazione varia – tra i quali spicca Imago nei parchi
Nazionali delle Incisioni Rupestri. – e di tentativi di costruire relazioni
stabili tra cittadini sparsi, associazioni, comitati e collettivi locali che si
stanno opponendo o che ragionano criticamente su singoli progetti, per
rinforzare la protesta.
Tre serate molto partecipate e vivaci, organizzate da realtà strutturate che
sono state in grado di aprirsi e accogliere la partecipazione non scontata di
tanti singoli sparsi, sensibili ai temi ambientali e sociali del territorio. Tre
assemblee grazie alle quali si è generato un passaparola propedeutico a
allargare lo sguardo e le presenze del 9 febbraio.
Nel suo complesso, la mobilitazione è infatti stata molto più larga rispetto a
quella che ha frequentato il serpentone colorato del 9; sintomo di una tematica
sentita e della capacità di intercettare molte istanze e soprattutto molti volti
nuovi rispetto a quelli a cui ci la militanza camuna è abituata.
Il percorso scelto si è snodato lungo la ciclabile che da Ponte di Legno sale
verso il Passo del Tonale, una camminata adatta a tutti, con punti panoramici
dai quali osservare direttamente i luoghi delle criticità trattate e
sufficientemente visibile perché i turisti in risalita verso le piste del Tonale
se ne accorgessero. Ad accogliere i partecipanti giunti in auto e con un
pullman, una micro delegazione delle forze dell’ordine che, una volta
rassicurate rispetto all’idea pacifica della mobilitazione e della mancanza di
volontà di bloccare le piste – voce preoccupata e forse messa in circolo con una
certa malizia – si è allontanata salutando. Di altro tenore l’interesse della
stampa locale, presente con rappresentanti di tutte le emittenti, che si è
presentata per produrre servizi e articoli una volta tanto piuttosto potabili.
Il meteo non è stato clemente, ma un percorso ben studiato ha consentito a chi
non fosse attrezzato o si trovasse in difficoltà a camminare sotto la neve di
seguire gli interventi muovendosi da una sosta all’altra, lungo la strada. Gli
interventi hanno rivendicato maggiore vivibilità, sia economica e sociale che
ecologica e ambientale. Hanno messo in luce la scarsità di prospettive e di
servizi per i camuni: spopolamento, mancanza di servizi, redditi inferiori
rispetto a quelli di pianura, impossibilità di non avere un’auto a causa
dell’inefficienza della mobilità pubblica, aggravata dal progetto di Trenord di
realizzare una linea sperimentale a idrogeno e ribadito contrarietà al continuo
sperpero di risorse per ampliare i demani sciabili.
La Valle Camonica infatti, anche se non sarà direttamente impattata dalle
Olimpiadi, fa parte di quei territori che continuano a drenare fondi collettivi
per cercare di rilanciare il turismo con nuovi comprensori, cannoni e
sbancamenti, senza pensare minimamente di diversificare le proposte o gettando
lo sguardo a un turismo più responsabile e meno impattante.
Immaginando le tappe di avvicinamento e la giornata di mobilitazione, si è
scelto un percorso indagante, morbido e inclusivo ben riassunto da questa
dichiarazione del comitato MTO2694: «Progetti come quello sul Monte Tonale
Occidentale, poco chiaro e ancora fumoso, che in alcune ipotesi prevede lo
sbancamento della cima e il disboscamento della Valle del Lares, sono un attacco
all’ambiente e alla biodiversità». Un progetto «anacronistico, fuori tempo
massimo». […] «Le critiche sono tante e addirittura alcune sono condivise da
Regione Lombardia. La stessa Regione Lombardia che ha parzialmente finanziato
questi impianti. Le criticità sono davanti agli occhi di tutti». Siamo contrari
agli ampliamenti dei demani sciabili con nuovi impianti perché ci sembra una
forzatura, non solo nei confronti dell’ambiente ma anche del clima che cambia.
Noi non siamo contro lo sci, siamo contro le forzature».
Per concludere, questa scelta, premiata da una folta partecipazione complessiva,
ha dimostrato che stimolando un dibattito serio ci sono forze per continuare a
sviluppare percorsi di critica, e si riesce anche a attrarre nuove presenze,
fino all’8 febbraio per nulla scontate.
____________________________________
FONTI ISTITUZIONALI
Cruscotto con lo stato di avanzamento delle opere in carico a Simico
Dossier di candidatura
Rapporto di Sostenibilità, Impatto e Legacy 2023
Proposta Programma per la Realizzazione dei Giochi Olimpici
FONTI OPEN
Primo report OpenOlympics
Secondo report OpenOlympics
Rapporto Neve diversa 2024
FONTI COMPAGNE
LA MONTAGNA NON SI ARRENDE (UTILI IN CALCE ALLA PAGINA “MATERIALI AUDIO” E “COSE
INTERESSANTI”)
Tracce (immagini satellitari impianti sciistici in lombardia dal 2016, Off Topic
Lab)
Umanità nova (articolo di Alberto “Abo” di Monte)
Video integrale convegno Off Topic
Video Duccio Facchini – Altreconomia
L'articolo La montagna non si arrende ai giochi d’azzardo sembra essere il primo
su Alpinismo Molotov.
Tag - turistificazione
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile.
Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle
terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare
indifferenti.
Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi,
annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento
apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità,
decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono.
Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e
dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per
nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono
mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience
fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi
sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a
passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli
stessi cibi di lusso.
Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca
all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a
respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche
dello shopping e apericena.
Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri
però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che
portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via
via più performanti (si legga: idrovori).
Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa
all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene
diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto
all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia
repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere
infilato.
Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per
qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non
spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza
si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del
“recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire.
Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella
nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non
soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di
chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione
nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si
stia bene in montagna.
Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o
posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere.
Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso.
Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai
monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti,
capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi.
È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni
speranza e voglia di rimettersi in gioco.
Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita
sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano
grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi
di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly.
È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente
succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati
di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto
ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la
costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro
indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni
legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro
Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo
Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere
messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti.
Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro
e non abbandonarsi al fato.
Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e
importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché
ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e
viverle.
Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo
deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero
paesaggio.
Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze
pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi
qualcosa e stringete rapporti.
Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione
singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia
di iniziative che si vanno a creare.
Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora.
L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra
essere il primo su Alpinismo Molotov.
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci:
quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza
dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per
scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha
invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura.
In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è
radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera
facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in
maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del
territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità
nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi,
utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate.
PARTE TERZA
– LA VERSIONE MOLOTOV –
Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e
consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti
si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando.
Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe
necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza
pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila
nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita.
Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse
a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei
cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro.
Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può
fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero,
mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno.
Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi,
e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata
competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la
mappa non è il territorio.
La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in
solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada.
C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che
affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli
altri.
Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure
scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una
cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è
mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si
fa rischiare a chi è intorno.
Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è
isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono
comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita.
Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente
precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa
esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un
contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto
attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa
rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta
con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce,
figuriamoci di altre, ben più delicate.
OUTRO
– UN ESEMPIO –
Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello
snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella.
Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina
talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i
grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono
l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali
protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”.
L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata
Bepi Zac alle creste di Costabella.
Il fatto è il seguente:
alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre
sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate
nel secondo tratto, in zona Costabella.
Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno
questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi
totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché
incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court.
A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un
bimbo in braccio ci si è comportati idioti.
Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere
l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui
normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre
allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della
zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti
sprovveduti?»
Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più
esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il
pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne
possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…).
Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto,
che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore
se lo carica in collo).
Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai?
È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene
preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare
l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere
sicuri e al sicuro.
Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il
potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio
spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti
nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo.
Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che
obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o
un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli.
È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo
sulla pelle delle valli e delle cime.
In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i
mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera
proficua.
La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione
di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di
ragionevolezza.
In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è
‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico,
salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione
l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani.
Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti
acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale
e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando
con la pelle degli animali umani.
Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori
sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per
alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno
scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche
criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità
di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta
giocando con la pelle della società.
Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte
politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso
le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche
verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad
andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui
andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale.
In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate.
Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di
emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e
risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
(seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
INTRO
– INQUADRAMENTO-
La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il
ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio
maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed
esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone.
In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e
impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa
passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di
verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché
conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da
bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie.
Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione
turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo
terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle
similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e
poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano
il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello
spazio e appiattimento dell’immaginario.
Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido,
sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e
riflessione generale crediamo vada fatta.
La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario.
Bocchette centrali di Brenta.
Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di
mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche
o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma
esplicitamente per cercare la difficoltà.
Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a
che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la
medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto.
Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata
Castiglioni alla Cima d’Agola.
Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di
fruizione.
1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in
alpi occidentali;
2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica,
rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad
arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima
Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel
gruppo dell’Adamello;
3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé
stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura:
scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad
alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi,
la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark.
A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza.
A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta –
per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i
fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo
incivile».
Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di
attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano
così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole.
Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione
che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente
aumento del potere d’acquisto del ceto medio.
Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in
Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari
classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza.
Sopra la ferrata delle Aquile in Paganella.
Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel.
PARTE PRIMA
– L’APPROCCIO SCERIFFO –
Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le
sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile.
Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato
a tema
modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli
entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti
assimilabili al tipo 3.
Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto
dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su
ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto
un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso
risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente
più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde
non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada
che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma
non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e
si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’.
buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo
sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore
della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si
racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si
sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano
tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta
come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario
schizzano dritte nella 3: adrenalina.
Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi
opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da
marketing, come nel caso dell’Epic trail.
L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi
spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei
geometri che progettano siffatti percorsi.
Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori.
Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel
che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in
montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il
moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e
seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare
l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico
gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e
invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco.
In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei
sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati
esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica
conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati
soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno
lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno
senso.
Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il
biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti
alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che
lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che
userà sarà in buono stato, funzionante e certificata.
PARTE SECONDA
– L’APPROCCIO BIMBOMINKIA –
Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti
di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro
in sé niente, non si sa, non si dice.
Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si
fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano
domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere
alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo.
Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al
sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta
tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa).
Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per
stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero,
alla preservazione della ‘carne-lavoro’.
Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono
insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non
dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali.
La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per
scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso
diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere
qualcuno che ne ha colpa.
In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle
pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata
‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la
colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due
macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa.
A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si
potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.»
Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi.
Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte
quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’
potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono
manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di
roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che
sentieri tecnicamente più difficili.
In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della
rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i
sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di
responsabilità post tragedia in Marmolada.
O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per
uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in
generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione.
Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei
territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo
qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo
l’assicurazione, che l’individuo paghi.
Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo
di comportamenti non corretti per la morale corrente?
Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare
l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto.
Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi
riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si
auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza.
In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata)
è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo,
se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile,
assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e
regolarne la corrente, il flusso.
L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada
era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI
voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un
altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto.
Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un
giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di
aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo
morale.
Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome
del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà
la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita
o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della
salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto
ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità
collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è
acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte
come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali
o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata
la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e
sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura,
anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento
‘riservato’».
Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono
fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il
dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di
allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro.
Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista
che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal
momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e
quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le
responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e
descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire
in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua».
Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la
prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di
come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
Da circa tre anni il progetto della costruzione di un’ovovia che collegherebbe
il Carso al centro città è diventato il maggior argomento di discussione e lotta
nel capoluogo giuliano. Un progetto devastante ed inutile contro il quale si
battono gli ecologisti. Un progetto che implica la distruzione di importanti
aree boschive e un pesante impatto […]
A fine luglio la giunta comunale di Palermo, presieduta dal sindaco di destra
Roberto Lagalla, ha approvato una delibera che modifica la viabilità del
quartoere dell’Albergheria, nel cui cuore risiede il più grande e variegato
mercato dell’usato del centro storico della città, pedonalizzandone diverse
porzioni. Questo piano, relativo alla pedonalizzazione dell’Albergheria, fa a
sua volta […]