Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile.
Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle
terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare
indifferenti.
Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi,
annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento
apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità,
decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono.
Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e
dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per
nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono
mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience
fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi
sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a
passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli
stessi cibi di lusso.
Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca
all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a
respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche
dello shopping e apericena.
Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri
però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che
portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via
via più performanti (si legga: idrovori).
Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa
all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene
diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto
all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia
repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere
infilato.
Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per
qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non
spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza
si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del
“recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire.
Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella
nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non
soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di
chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione
nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si
stia bene in montagna.
Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o
posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere.
Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso.
Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai
monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti,
capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi.
È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni
speranza e voglia di rimettersi in gioco.
Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita
sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano
grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi
di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly.
È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente
succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati
di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto
ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la
costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro
indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni
legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro
Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo
Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere
messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti.
Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro
e non abbandonarsi al fato.
Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e
importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché
ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e
viverle.
Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo
deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero
paesaggio.
Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze
pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi
qualcosa e stringete rapporti.
Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione
singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia
di iniziative che si vanno a creare.
Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora.
L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra
essere il primo su Alpinismo Molotov.
Tag - turistificazione
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci:
quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza
dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per
scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha
invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura.
In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è
radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera
facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in
maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del
territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità
nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi,
utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate.
PARTE TERZA
– LA VERSIONE MOLOTOV –
Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e
consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti
si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando.
Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe
necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza
pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila
nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita.
Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse
a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei
cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro.
Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può
fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero,
mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno.
Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi,
e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata
competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la
mappa non è il territorio.
La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in
solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada.
C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che
affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli
altri.
Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure
scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una
cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è
mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si
fa rischiare a chi è intorno.
Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è
isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono
comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita.
Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente
precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa
esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un
contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto
attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa
rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta
con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce,
figuriamoci di altre, ben più delicate.
OUTRO
– UN ESEMPIO –
Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello
snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella.
Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina
talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i
grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono
l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali
protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”.
L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata
Bepi Zac alle creste di Costabella.
Il fatto è il seguente:
alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre
sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate
nel secondo tratto, in zona Costabella.
Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno
questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi
totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché
incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court.
A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un
bimbo in braccio ci si è comportati idioti.
Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere
l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui
normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre
allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della
zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti
sprovveduti?»
Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più
esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il
pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne
possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…).
Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto,
che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore
se lo carica in collo).
Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai?
È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene
preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare
l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere
sicuri e al sicuro.
Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il
potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio
spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti
nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo.
Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che
obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o
un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli.
È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo
sulla pelle delle valli e delle cime.
In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i
mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera
proficua.
La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione
di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di
ragionevolezza.
In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è
‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico,
salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione
l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani.
Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti
acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale
e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando
con la pelle degli animali umani.
Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori
sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per
alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno
scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche
criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità
di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta
giocando con la pelle della società.
Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte
politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso
le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche
verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad
andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui
andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale.
In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate.
Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di
emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e
risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
(seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
INTRO
– INQUADRAMENTO-
La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il
ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio
maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed
esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone.
In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e
impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa
passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di
verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché
conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da
bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie.
Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione
turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo
terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle
similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e
poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano
il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello
spazio e appiattimento dell’immaginario.
Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido,
sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e
riflessione generale crediamo vada fatta.
La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario.
Bocchette centrali di Brenta.
Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di
mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche
o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma
esplicitamente per cercare la difficoltà.
Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a
che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la
medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto.
Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata
Castiglioni alla Cima d’Agola.
Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di
fruizione.
1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in
alpi occidentali;
2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica,
rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad
arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima
Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel
gruppo dell’Adamello;
3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé
stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura:
scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad
alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi,
la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark.
A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza.
A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta –
per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i
fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo
incivile».
Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di
attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano
così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole.
Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione
che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente
aumento del potere d’acquisto del ceto medio.
Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in
Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari
classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza.
Sopra la ferrata delle Aquile in Paganella.
Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel.
PARTE PRIMA
– L’APPROCCIO SCERIFFO –
Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le
sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile.
Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato
a tema
modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli
entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti
assimilabili al tipo 3.
Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto
dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su
ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto
un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso
risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente
più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde
non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada
che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma
non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e
si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’.
buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo
sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore
della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si
racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si
sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano
tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta
come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario
schizzano dritte nella 3: adrenalina.
Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi
opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da
marketing, come nel caso dell’Epic trail.
L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi
spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei
geometri che progettano siffatti percorsi.
Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori.
Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel
che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in
montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il
moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e
seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare
l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico
gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e
invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco.
In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei
sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati
esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica
conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati
soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno
lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno
senso.
Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il
biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti
alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che
lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che
userà sarà in buono stato, funzionante e certificata.
PARTE SECONDA
– L’APPROCCIO BIMBOMINKIA –
Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti
di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro
in sé niente, non si sa, non si dice.
Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si
fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano
domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere
alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo.
Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al
sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta
tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa).
Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per
stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero,
alla preservazione della ‘carne-lavoro’.
Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono
insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non
dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali.
La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per
scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso
diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere
qualcuno che ne ha colpa.
In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle
pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata
‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la
colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due
macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa.
A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si
potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.»
Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi.
Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte
quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’
potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono
manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di
roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che
sentieri tecnicamente più difficili.
In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della
rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i
sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di
responsabilità post tragedia in Marmolada.
O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per
uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in
generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione.
Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei
territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo
qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo
l’assicurazione, che l’individuo paghi.
Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo
di comportamenti non corretti per la morale corrente?
Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare
l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto.
Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi
riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si
auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza.
In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata)
è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo,
se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile,
assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e
regolarne la corrente, il flusso.
L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada
era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI
voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un
altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto.
Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un
giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di
aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo
morale.
Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome
del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà
la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita
o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della
salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto
ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità
collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è
acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte
come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali
o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata
la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e
sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura,
anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento
‘riservato’».
Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono
fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il
dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di
allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro.
Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista
che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal
momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e
quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le
responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e
descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire
in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua».
Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la
prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di
come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
Da circa tre anni il progetto della costruzione di un’ovovia che collegherebbe
il Carso al centro città è diventato il maggior argomento di discussione e lotta
nel capoluogo giuliano. Un progetto devastante ed inutile contro il quale si
battono gli ecologisti. Un progetto che implica la distruzione di importanti
aree boschive e un pesante impatto […]
A fine luglio la giunta comunale di Palermo, presieduta dal sindaco di destra
Roberto Lagalla, ha approvato una delibera che modifica la viabilità del
quartoere dell’Albergheria, nel cui cuore risiede il più grande e variegato
mercato dell’usato del centro storico della città, pedonalizzandone diverse
porzioni. Questo piano, relativo alla pedonalizzazione dell’Albergheria, fa a
sua volta […]