Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata)Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci:
quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza
dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per
scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha
invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura.
In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è
radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera
facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in
maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del
territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità
nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi,
utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate.
PARTE TERZA
– LA VERSIONE MOLOTOV –
Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e
consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti
si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando.
Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe
necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza
pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila
nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita.
Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse
a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei
cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro.
Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può
fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero,
mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno.
Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi,
e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata
competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la
mappa non è il territorio.
La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in
solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada.
C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che
affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli
altri.
Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure
scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una
cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è
mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si
fa rischiare a chi è intorno.
Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è
isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono
comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita.
Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente
precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa
esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un
contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto
attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa
rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta
con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce,
figuriamoci di altre, ben più delicate.
OUTRO
– UN ESEMPIO –
Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello
snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella.
Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina
talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i
grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono
l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali
protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”.
L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata
Bepi Zac alle creste di Costabella.
Il fatto è il seguente:
alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre
sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate
nel secondo tratto, in zona Costabella.
Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno
questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi
totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché
incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court.
A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un
bimbo in braccio ci si è comportati idioti.
Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere
l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui
normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre
allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della
zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti
sprovveduti?»
Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più
esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il
pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne
possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…).
Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto,
che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore
se lo carica in collo).
Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai?
È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene
preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare
l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere
sicuri e al sicuro.
Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il
potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio
spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti
nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo.
Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che
obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o
un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli.
È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo
sulla pelle delle valli e delle cime.
In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i
mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera
proficua.
La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione
di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di
ragionevolezza.
In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è
‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico,
salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione
l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani.
Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti
acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale
e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando
con la pelle degli animali umani.
Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori
sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per
alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno
scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche
criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità
di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta
giocando con la pelle della società.
Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte
politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso
le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche
verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad
andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui
andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale.
In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate.
Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di
emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e
risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione.
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