La corsa alle terre per le rinnovabili. La lotta fra Enel Brasile e le comunità indigene di Bahía
Enel Green Power è diventata una delle più grandi aziende di rinnovabili in Brasile. Tuttavia, ha raggiunto questa posizione in parte appoggiandosi a società locali, accusate in diversi casi di land grabbing contro alcune delle comunità più povere e vulnerabili del Paese L'articolo La corsa alle terre per le rinnovabili. La lotta fra Enel Brasile e le comunità indigene di Bahía proviene da IrpiMedia.
February 19, 2025 / IrpiMedia
Taranto inerme. Il progetto del dissalatore tra criticità e pareri contrari
(disegno di india santella) Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini. La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio, raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi respinti dalla popolazione della vicina Massafra. A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici. Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente caratterizzata dalle attività antropiche. Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia, quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026. Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International, Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa, società molto attiva nel settore dei rifiuti. Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri. Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità, salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi “no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul peso della componente politica rispetto a quella tecnica. Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia.  Arpa fa notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove, e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove aree ed eventualmente ad avere frutti. Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico (quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso. Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate. In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri, condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da calcio. Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta cittadini. Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto, costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat marino. Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento strutturale del piano iniziale.  Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico, mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda. Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi? (domenico colucci)
February 18, 2025 / NapoliMONiTOR
Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile. Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare indifferenti. Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi, annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità, decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono. Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli stessi cibi di lusso. Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche dello shopping e apericena. Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via via più performanti (si legga: idrovori). Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere infilato. Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del “recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire. Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si stia bene in montagna. Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere. Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso. Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti, capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi. È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni speranza e voglia di rimettersi in gioco. Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly. È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti. Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro e non abbandonarsi al fato. Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e viverle. Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero paesaggio. Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi qualcosa e stringete rapporti. Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia di iniziative che si vanno a creare. Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora. L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
February 5, 2025 / Alpinismo Molotov
La sentenza sulla Terra dei Fuochi e l’archivio delle lotte ambientali
(disegno di naum) Tra le calunnie mosse agli attivisti e ai comitati campani dai vari carrozzoni politici e mediatici che negli anni hanno presieduto allo svolgersi di uno dei più grandi disastri ambientali della storia italiana, le più infamanti erano due: “siete manovrati dalla camorra” e “se vi ammalate è colpa dei vostri stili di vita”. Noi che ci siamo stati sulle discariche, noi che abbiamo denunciato la camorra e lo Stato in ogni sede, noi che abbiamo studiato il problema nelle sue articolazioni criminali, tossicologiche e sanitarie, noi sapevamo che erano accuse strumentali. Erano modi attraverso cui governanti e pseudo-intellettuali scaricavano le proprie responsabilità, sotterrando la verità della loro complicità o indifferenza nel vociare della propaganda di regime, legittimando la repressione. Nei presìdi e alle manifestazioni alle volte eravamo in pochi, altre in tanti, molti di più di quanto i nostri avversari si aspettassero. In ogni caso, niente di ciò che è stato fatto al suolo, all’aria e all’acqua di quella che è diventata tristemente famosa come Terra dei Fuochi, fu ignorato o non combattuto dalla militanza ecologica degli attivisti campani. Noi sapevamo, e ve l’abbiamo detto in tutti i modi. E ora, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ci ha dato ragione, condannando lo Stato italiano perché se n’è sempre lavato le mani. Il 30 gennaio 2025, la Corte ha infatti emesso una sentenza che riscrive la storia ufficiale della Terra dei Fuochi, conferendo i crismi della verità giudiziaria alle analisi e alle accuse che i comitati campani contro l’inquinamento da rifiuti – che abbiamo chiamato Biocidio – avevano già portato nelle strade, nei media, nelle prefetture e negli uffici ministeriali. Una sentenza che inchioda le istituzioni dello Stato alle proprie menzogne e inettitudini. Il procedimento, iniziato nel 2015, ha preso le mosse dalla denuncia di quarantuno cittadini campani e cinque associazioni locali contro lo stato italiano per aver messo a repentaglio il loro diritto alla vita. Secondo i querelanti, le istituzioni del nostro paese hanno tollerato che i rischi da contaminazione ambientale da rifiuti persistessero, e addirittura aumentassero, ben oltre l’emergere delle evidenze che ne imponevano la presa in carico e la risoluzione. Il processo ha affrontato la questione Terra dei Fuochi in tutta la sua estensione temporale: dal finire degli anni Ottanta fin quasi al presente. La sentenza chiarisce le omissioni continue delle autorità statali nell’intervenire in maniera efficace sulla prevenzione, deterrenza, messa in sicurezza e informazione di un disastro ambientale certamente complesso e diffuso, ma eclatante e documentato fin dalle origini. In particolare, la Corte ha rilevato che “non vi fossero prove sufficienti di una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi”. I progressi nella valutazione degli impatti dell’inquinamento su salute e ambiente sono stati “glaciali”, di una lentezza inammissibile per i doveri di uno Stato. Rispetto poi alle bonifiche, la Corte stigmatizza un “problema generalizzato di coordinamento e attribuzione di responsabilità”, tale da rendere “impossibile farsi un’idea generale di dove si debba ancora decontaminare”. Lo stato italiano ha inoltre fallito nel combattere lo smaltimento illegale di rifiuti a causa di un ordinamento normativo sui crimini ambientali prima assente e poi, quando lentamente approvato, parziale e inefficace. Constatata l’entità e la gravità della situazione, la Corte ha anche deplorato lo stato italiano per l’incapacità di approntare “una strategia di comunicazione completa e accessibile per informare il pubblico sui rischi per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi”. Per queste ragioni, la Corte certifica che il problema della Terra dei Fuochi non è stato affrontato “con la diligenza giustificata dalla gravità della situazione”. E conclude, lapidaria: “Lo stato italiano non ha fatto tutto ciò che gli era richiesto per proteggere la vita dei ricorrenti”. Esattamente la ragione per cui protestavano i comitati campani. Alla luce del giudizio, la Corte fornisce indicazioni dettagliate sulle misure che le autorità italiane devono adottare. In primo luogo, occorre approntare una strategia complessiva che riunisca tutte le misure esistenti o previste per affrontare il fenomeno dell’inquinamento, includendo la cittadinanza e le associazioni locali nella pianificazione. Ciò implica identificare le aree di smaltimento illegale, valutarne la contaminazione ambientale e indagare gli impatti sulla salute. I tempi devono essere chiari, le risorse dedicate corpose, e la loro allocazione trasparente. In secondo luogo, queste attività devono essere supervisionate da un meccanismo indipendente che ne monitori l’attuazione, l’impatto e l’aderenza alle tabelle di marcia. I membri di tale organo di controllo devono essere liberi da influenze del governo; le loro deliberazioni rese pubbliche. Infine, in terzo luogo, la cittadinanza va informata puntualmente sui problemi e sulle misure per affrontarli, attraverso un’unica piattaforma pubblica. In sostanza, la Corte impone all’Italia di programmare, controllare e informare: tutto quello che è stata incapace di fare correttamente per tre decadi. L’Italia ha ora due anni per attuare queste misure. Ad attenderla al varco, nel caso fallisca (ancora) nell’onorare gli obblighi, ci sono più di quattromila ulteriori denuncianti dalla medesima terra e con la medesima accusa che la Corte si impegna a valutare. Essendo questo un ricorso-pilota, si offre all’Italia abbastanza tempo per dimostrare un radicale cambio di passo nell’affrontare le condizioni strutturali alla base della violazione del diritto alla vita, condizioni rilevanti per le altre cause pendenti mosse dai cittadini campani. RIAPRIRE L’ARCHIVIO Il collegio di avvocati per l’Italia si è difeso dinanzi alla corte con lo stesso vecchio arnese che rappresentanti dello Stato hanno già utilizzato in passato per delegittimare le ragioni dei cittadini in agitazione: l’assenza di un nesso di causalità certo tra uno specifico inquinante da una determinata discarica e un preciso danno biologico in ogni singolo querelante. Volevano convincere i giudici che non può essere dimostrato che quelle che si definiscono “vittime” dell’incompentenza e corruzione delle istituzioni italiane siano tali. D’accordo, stanno morendo, ma siamo sicuri che sia per la diossina e i PCB che respirano quotidianamente? L’Italia ha provato di nuovo ad affrancarsi da ogni responsabilità. Ma la Corte ha determinato che il chiarimento scientifico del nesso di causalità tra le discariche illegali e i roghi di rifiuti che hanno contaminato le matrici ambientali, da un lato, e l’insorgenza di patologie nei residenti, dall’altro, non è mai stato dirimente per la presa in carico da parte dello Stato dell’obbligo di proteggere la cittadinanza dall’inquinamento. La conoscenza che vi era una dispersione incontrollata di inquinanti che hanno impatti devastanti sulla salute sarebbe sempre dovuta essere, ed è tuttora, condizione sufficiente e necessaria per agire. La Corte ha accettato l’esistenza nella Terra dei Fuochi di un rischio per la vita “sufficientemente grave, reale e accertabile” e “imminente”. E in base al principio di precauzione ciò impone il dovere di protezione da parte dello Stato. Prendano nota gli oppositori istituzionali alle richieste dei cittadini in altre zone inquinate d’Italia. La corte non poteva essere più chiara. E così mette un’altra pietra sopra le narrazioni tossiche – già stroncate nei processi penali e dalla scienza – che proliferavano durante gli anni delle mobilitazioni. Riaprendo l’archivio delle lotte ci troviamo i ministri e gli “esperti” che a più riprese hanno stigmatizzato le popolazioni campane in rivolta come ignoranti e irrazionali. Il ministro Lorenzin, il ministro Balduzzi, gli epidemiologi di stato, i medici senza deontologia, costoro blandivano e accusavano i campani preoccupati dei tumori e della mortalità inusitate nella loro terra, additando come causa la povertà relativa e i supposti stili di vita individuali dei meridionali. Ma quelle illazioni, come sapevamo e come deduciamo dalla sentenza della Corte, servivano solo a sviare l’attenzione dalle condizioni concrete del territorio e dalle omissioni dello Stato. La Corte riconosce che solo dopo il 2013, con il decreto 136/2013, poi convertito nella legge 6/2014, lo sdetato italiano inizia, con estremo ritardo, a interessarsi alla questione in maniera sistematica. Risalgono alle disposizioni di quel decreto la mappatura dei terreni agricoli contaminati, l’elargizione di risorse per il monitoraggio ambientale e gli screening sanitari, e l’aumento dei controlli sul territorio. Un anno prima, nel dicembre 2012, l’allora ministro degli interni Cancellieri nominava Donato Cafagna “commissario antiroghi” e lo metteva a capo della cabina di regia presso la prefettura di Napoli con il compito di con­trasto e prevenzione degli smaltimenti abusivi. E un anno dopo, nel 2014, i cittadini campani formati come “osservatori civici” vengono per la prima volta inclusi e ascoltati. E ancora, nel 2015, sono finalmente codificati nel codice penale, con la legge 68/2015, i delitti ambientali. Ma cos’era successo per arrivare a quelle leggi e a quegli interventi? Apriamo l’archivio e scopriamo una stagione di mobilitazioni ambientali senza precedenti in Campania per persistenza e numeri, che costruiva sull’eredità dei comitati campani dei primi dieci anni del duemila, i quali combattevano contro il piano disastroso per i rifiuti urbani e denunciavano gli sversamenti illegali. Nell’estate del 2012 fu organizzato il Coordinamento Comitati Fuochi, una rete di oltre cinquanta comitati campani contro l’inquinamento, che si adoperò con campagne di denuncia e bussò a tutte le porte, sedendosi a tutti i tavoli di concertazione che poteva. Alimentò una campagna mediatica martellante e ubiqua, che con il supporto del quotidiano Avvenire a poco a poco veicolò il dolore e la rabbia di vivere tra fumi tossici e discariche illegali sempre più lontano, sempre più in alto. Si dedicò inoltre al lavoro di raccordo e comunicazione tra comitati, attori economici, parrocchie e centri sociali. Giungendo, grazie all’alleanza con i Cittadini Campani per un Piano Alternativo dei Rifiuti, con la Rete Commons e con altri gruppi storicamente impegnati sull’ambiente, a costituire la Coalizione Stop Biocidio. Decine di marce per la vita attraversarono i territori tra il 2012 e il 2013, fino all’apice del Fiume in Piena, la manifestazione dei centomila da tutta la regione che il 16 novembre 2013 inondò Napoli per imporre il problema della Terra dei Fuochi. Fu solo la pressione delle mobilitazioni sociali a costringere i governi regionale e nazionale a intervenire, pur se ancora in maniera insufficiente. La pubblicazione della sentenza ha innescato il si salvi chi può. Come ha provato a fare l’assessore regionale all’ambiente Fulvio Bonavitacola, lesto a diramare una dichiarazione in cui tenta di smarcare la Regione dalle responsabilità dettagliate dalla Corte, e prova a incensare il suo operato. Ma con il governo regionale di cui Bonavitacola è assessore non è aumentata né la sicurezza né la chiarezza per i cittadini campani. La sentenza della Corte rileva che nel periodo 2018-2021 “il fenomeno dell’inquinamento non sembrava essersi esaurito, in quanto continuavano a essere scoperte discariche abusive di rifiuti e segnalazioni di incendi abusivi”, mentre le informazioni ai cittadini erano scarne e imprecise. Inoltre, continua, nello stesso periodo “i progressi complessivi negli sforzi di decontaminazione sono stati lenti e molte delle azioni hanno riguardato solo fasi preliminari intraprese di recente”, nonostante la responsabilità per le bonifiche fosse passata alla Regione. Attenti ad attribuirvi meriti che non avete, noi ricordiamo tutto. Anche lo “spot pubblicitario” della rimozione delle ecoballe, o il fatto che la Regione Campania nel 2020 non riconfermò la Commissione Speciale Terra dei Fuochi. UNA FINE CHE È UN INIZIO La sentenza della Corte Europea ha mandato scariche elettriche sulle sedie di non pochi rappresentanti dello stato. Costringendoli ad attivarsi. Già il giorno dopo, sabato primo febbraio, è stato convocato un incontro alla prefettura di Napoli per fare il punto sugli interventi, invitando anche gli esperti dei comitati. Gli stessi comitati che stanno analizzando la sentenza, con l’impegno di riportarla sui territori in incontri e dibattiti pubblici. A partire da ora, ci sembra siano almeno tre le priorità emergenti dalla discontinuità che la Corte ha segnato sulla questione Terra dei Fuochi. Come affermato con forza dai giudici, la popolazione non deve solo essere informata puntualmente, ma le espressioni di cittadinanza attiva che la Campania ha prodotto in numero considerevole vanno incluse nella pianificazione, nel monitoraggio e nella valutazione delle soluzioni approntate. Per assicurarsi che ciò accada, non basterà avere la forza di una sentenza dietro, pur se basata sui diritti umani ed emessa dalla più alta autorità giudiziaria a livello europeo. La pressione popolare è imprescindibile, occorre riannodare i fili della cooperazione tra gruppi di base, storici e recenti. Una larga Coalizione – determinante in passato per i destini regionali e nazionali – va riorganizzata e potenziata. Infine, l’agenda da imporre dal basso deve includere tutte le direttive della sentenza, ma anche andare oltre. Le parole d’ordine sono riparazione e rigenerazione del territorio. Per fare questo ingenti risorse economiche devono essere messe a disposizione, e qualunque sia il governo di turno bisogna fargli sentire il fiato sul collo. Le mistificazioni che abbiamo dovuto sopportare finora vanno spazzate via, non accetteremo mezze misure. Sappiamo la verità e ci assicureremo che venga onorata. Ci assumiamo la responsabilità di tenere alta l’attenzione, ma qualunque figura istituzionale che è o sarà incaricata di agire materialmente sulle consegne della Corte, deve assumersi la piena responsabilità del proprio ruolo e delle azioni che metterà in moto. È finito lo scaricabarile, è finita la confusione. Vi abbiamo trascinato in tribunale e fatto condannare, non metteteci ancora alla prova. Ci siamo mobilitati e continueremo a farlo. Finché non riusciremo a riappropriarci di questa amata terra nostra. (salvatore de rosa)
February 4, 2025 / NapoliMONiTOR
Il ritorno del nucleare. In salsa verde
Il ddl che, se approvato, potrebbe riaprire le porte al ritorno delle centrali atomiche nel nostro paese, è stato presentato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Pichetto Fratin. Nulla di cui stupirsi. Da quando l’energia nucleare è stata inserita nell’elenco delle rinnovabili l’avvio di un’operazione di green washing atomico era solo questione di tempo. […]
January 30, 2025 / Radio Blackout 105.25FM
Anarres del 24 gennaio. Crisi climatica. Zone rosse e sorveglianza rinforzata. Una corte di miliardari e l’America profonda. Rivolta al CPR di Gradisca…
ll podcast del nostro viaggio del venerdì su Anarres, il pianeta delle utopie concrete. Dalle 11 alle 13 sui 105,250 delle libere frequenze di Blackout. Anche in streaming. Ascolta e diffondi l’audio della puntata: > Anarres del 24 gennaio. Crisi climatica. Zone rosse e sorveglianza rinforzata. > Una corte di miliardari e l’America profonda. Rivolta al CPR di Gradisca… Dirette, approfondimenti, idee, proposte, appuntamenti: Crisi climatica e azione diretta Strumenti di ricerca, misurazione, analisi e lotta Che sia in atto un cambiamento climatico con un’accelerazione senza precedenti, da quando il pianeta è abitato da forme di vita strutturate in comunità è un dato ormai privo di dimostrazioni opposte. Le estese analisi e i risultati cui è pervenuto il lungo lavoro della comunità climatologica portano a una conclusione unica: il clima sta cambiando a una velocità tale per cui le forme di vita vegetali e animali (inclusa quella umana) vengono poste in seria difficoltà di adattamento. Adattamento fisico, chimico, biologico, sociale e migratorio sono a rischio, sottoposti a forzanti indotte dalla produzione industriale, alimentare e trasportistica sempre più energivora. (…) Un problema di origine capitalista non può avere una soluzione capitalista. Il riscaldamento globale e la sua accelerazione sono causati principalmente dalle emissioni collegate alle attività umane: industriali, di trasporto e alimentari. Con Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR, abbiamo anticipato alcuni dei temi di cui parleremo venerdì 31 gennaio alle 21 alla FAT Zone rosse ed aree a sorveglianza rinforzata Il governo sperimenta nuovi meccanismi di esclusione e controllo degli indesiderabili. Muri invisibili ma concreti segmentano le città, separando chi può accedere liberamente nelle aree più pregiate e chi deve esserne tenuto fuori. Con le zone rosse e il daspo urbano il ministro dell’Interno ha arricchito la cassetta degli attrezzi della polizia di nuovi strumenti, che le forze del disordine statale possono utilizzare senza neppure scomodare un magistrato. La stretta securitaria, collaudata inizialmente a Bologna e Firenze, a dicembre si è estesa a Milano e Napoli, e con l’anno nuovo ha investito Roma, dove la morsa poliziesca durante il giubileo è imponente. A Torino il sindaco annuncia un approccio più “morbido”: niente zone rosse ma aree a “sorveglianza rinforzata”, come a Roma. Difficile cogliere le sfumature di fronte alla declinazione sabauda delle direttive governative. Intanto, dal 27 gennaio al 30 aprile, saranno zone rosse Porta Nuova, San Salvario, Torino centro, Aurora e Barriera di Milano. Nei fatti le forze di polizia possono allontanare con la forza chiunque, assuma “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Va da se che gli “atteggiamenti” non sono atti e, quindi gli uomini e le donne in divisa mandano via le persone il cui modo di stare in strada sia considerato, a loro arbitrio, indesiderabile. Stati Uniti. Una corte di miliardari e l’America profonda Donald Trump si è insediato lunedì. I sostenitori che quattro anni fa avevano fatto irruzione a Capitol Hill, in questo 20 gennaio hanno sostato composti all’esterno. L’imperatore li ha arringati firmando immediatamente la grazia per i golpisti condannati, deportazioni di massa dei clandestini che vivono negli States, la fine della guerra e il ritorno dell’età dell’oro. La propaganda elettorale di The Donald non finirà mai: è la sua escape strategy di fronte al possibile fallimento di alcuni obiettivi, dei quali potrà imputare le forze oscure che minacciano l’America. Mantiene subito alcune promesse. Appena insediato Trump ha firmato una serie di misure e di ordini esecutivi. Questi gli i principali ordini esecutivi firmati dal neopresidente: – Uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. – Stop al lavoro da casa per i dipendenti federali. – Revocato l’ordine esecutivo di Joe Biden che fissa il target del 50% delle vendite di nuovi veicoli elettrici entro il 2030 –  Revocato l’ordine esecutivo di Joe Biden sull’intelligenza artificiale, mossa che spiana la strada al business miliardario del settore, eliminando i già scarsi guard-rail previsti. – Dichiarata l’emergenza nazionale al confine sud degli Stati Uniti. –  Fine dello ius soli, il diritto di cittadinanza per nascita stabilito dalla Costituzione americana. – Gli Usa escono dall’Organizzazione mondiale della Sanità –  Revocate le sanzioni sui coloni israeliani in Cisgiordania. Il presidente che si è insediato il 20 gennaio è molto più forte di quello che prese il potere nel 2016: allora era un outsider inviso alla maggioranza del suo partito, oggi è il cavallo vincente, che ha conquistato il Gop riuscendo a mettere insieme le anime sparse della destra statunitense. Trump, si è esibito accanto ad una manciata di suoi pari: i miliardari che affollano la sua corte e hanno in mano il vero potere, quello dei social media, il cui controllo è cruciale nella costruzione del consenso. Sul tappeto numerose domande: quanto reggerà il suo blocco sociale, specie quello della Rust Belt, che tanto contribuì al suo precedente successo? L’unica europea alla sua corte era Giorgia Meloni, che tenta di accreditarsi come ponte tra l’America Trumpiana e un’Europa schiacciata dal ricatto del Friend Shoring imposto in questi anni e cardine delle politiche protezioniste statunitensi. A Davos Trump ha dettato le regole all’Europa, prima tra tutte un investimento del 5% del Pil in spese militari. Il programma di Trump è spaventoso. Se riuscirà o meno a realizzarlo dipenderà dalla forza dei movimenti di opposizione che lunedì hanno riempito le piazze di Washington e di tutti gli Stati Uniti con la People March e di tutti coloro che, con tenacia, si battono contro il nuovo imperatore. Ne abbiamo parlato con Robertino Barbieri Rivolta al CPR di Gradisca Sono giorni di rivolta dentro alle mura del carcere per migranti di Gradisca d’Isonzo, il Cpr in Friuli Venezia-Giulia al confine con la Slovenia, dove sono stipate in vere e proprie gabbie decine di persone. Negli ultimi dieci giorni, ogni notte, ci sono state proteste, incendi e scontri con le forze dell’ordine. Nonostante cariche, manganellate, pestaggi, spray al peperoncino e lacrimogeni i migranti continuano a lottare contro le condizioni inumane a cui sono sottoposti e l’assenza di informazioni sul proprio destino. Rinchiusi in una prigione per senza documenti potrebbero essere deportati in qualsiasi momento o passarvi un anno e mezzo, prima di essere liberati con un foglio di via. Giovedì 16 gennaio un recluso è caduto dal tetto della struttura nel tentativo di allontanarsi dal Cpr e far disperdere le proprie tracce. Nella caduta si è fratturato gravemente gli arti ed è stato trasportato in elisoccorso in ospedale. Il clima si è fatto più incandescente la sera di domenica 19 gennaio, quando anche un migrante di origine maghrebina è scivolato dal tetto. Fortunatamente, le ferite riportate non sono state gravi. É frequente che chi tenta la fuga saltando le mura alte dell’ex caserma Polonio si ferisca anche in modo serio. Una decina di anni fa un migrante, finito in coma in seguito alla caduta, perse la vita dopo mesi di agonia in ospedale. Lunedì 20 gennaio un gruppo di una trentina di persone è salito sul tetto dell’ex caserma Polonio, causando ingenti danni agli impianti idraulici ed elettrici e praticando sette varchi nella struttura. Non ci sono stati, diversamente da altre volte, tentativi di fuga. Il giorno successivo è stata incendiata la zona rossa e sono stati creati dei varchi nel plexiglass che delimita le “vasche” che dividono le camerate. La zona rossa, una delle tre in cui è divisa la prigione di Gradisca, è completamente inagibile, così come alcune aree comuni. Mercoledì 22 sono iniziati arresti e deportazioni punitive. Otto migranti sono stati espulsi in Marocco, altri cinquanta, in parte sono stati arrestati, in parte sono stati trasferiti nel CPR di Trapani. Ne abbiamo parlato con Raffaele, un compagno da sempre in prima fila nelle lotte contro i Cpr Appuntamenti: Venerdì 31 gennaio Crisi climatica e azione diretta Strumenti di ricerca, misurazione, analisi e lotta ore 21 alla FAT corso Palermo 46 Torino Interverrà il fisico Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR. Giovedì 20 febbraio ore 21 alla FAT corso Palermo 46 Enzo Papa, traduttore e curatore dell’edizione italiana, presenta il libro di Volin “La rivoluzione sconosciuta. Il movimento anarchico nelle lotte per l’emancipazione sociale in Russia 1917-1921” Il teorico e rivoluzionario anarchico, Vsevolod Michajlovič Eichenbaum, detto Volin, racconta la storia della Rivoluzione russa dal 1825 al 1939, con i suoi due sommovimenti del 1905 e del 1917, che egli ha vissuto come militante attivamente impegnato negli eventi. Potendo disporre di documenti e testimonianze di prima mano, Volin descrive, dal punto di vista anarchico – con lucidità e con rara finezza d’analisi -, tutto il processo del movimento rivoluzionario russo, dalla nascita dei Soviet all’annientamento del movimento anarchico da parte dello stalinismo passando per l’ascesa al potere dei bolscevichi, la rivolta dei marinai di Kronstadt o ancora l’epopea insurrezionale di Nestor Machno. A-Distro e SeriRiot ogni mercoledì dalle 18 alle 20 in corso Palermo 46 (A)distro – libri, giornali, documenti e… tanto altro SeriRiot – serigrafia autoprodotta benefit lotte Vieni a spulciare tra i libri e le riviste, le magliette e i volantini! Sostieni l’autoproduzione e l’informazione libera dallo stato e dal mercato! Informati su lotte e appuntamenti! Contatti: Federazione Anarchica Torinese corso Palermo 46 Riunioni – aperte agli interessati – ogni martedì dalle 20,30 per info scrivete a fai_torino@autistici.org Contatti: FB @senzafrontiere.to/ Telegram https://t.me/SenzaFrontiere Iscriviti alla nostra newsletter mandando una mail ad: anarres@inventati.org  
January 29, 2025 / Anarres