Ven 31 gen. Crisi climatica e azione diretta
Crisi climatica e azione diretta Strumenti di ricerca, misurazione, analisi e lotta Venerdì 31 gennaio ore 21 alla FAT corso Palermo 46 Torino Interverrà il fisico Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR. Che sia in atto un cambiamento climatico con un’accelerazione senza precedenti, da quando il pianeta è abitato da forme di vita strutturate in comunità è un dato ormai privo di dimostrazioni opposte. Le estese analisi e i risultati cui è pervenuto il lungo lavoro della comunità climatologica portano a una conclusione unica: il clima sta cambiando a una velocità tale per cui le forme di vita vegetali e animali (inclusa quella umana) vengono poste in seria difficoltà di adattamento. Adattamento fisico, chimico, biologico, sociale e migratorio sono a rischio, sottoposti a forzanti indotte dalla produzione industriale, alimentare e trasportistica sempre più energivora. Variazioni di concentrazioni di elementi (CO2 in primis in atmosfera e nei mari) e pochi gradi in più di aumento delle temperature atmosferiche, marine e del suolo portano a collassi repentini e imprevedibili in un sistema regolato da equilibri stabili ma altrettanto caotici. Ricerche e studi sul clima, mai abbastanza supportati e sovvenzionati rispetto ad altre discipline tecnologiche e belliche, basano le loro analisi su una comunità di ricerca competente, distribuita e in continuo contatto e confronto. La stessa comunità che produce le decine di migliaia di analisi e pubblicazioni costantemente analizzate, in modo critico e rigoroso da iniziative mondiali in seno alle Commissioni internazionali di climatologia della World Meteorological Organization (WMO), dal Global Climate Observing System (GCOS) e dall’International Panel on Climate Change (IPCC). Lontano dall’essere in mano a lobby di interesse, come talvolta anche sostenuto all’interno di alcuni movimenti e pensieri che sfociano in un pericoloso negazionismo a priori, scienziati e autori IPCC vengono sovente screditati. Il caso forse più eclatante sono le COP: alla 28 edizione (Dubai 2023) il presidente ha sostenuto che non vi è alcuna evidenza circa la necessità di ridurre al massimo aumento di 1,5 °C l’innalzamento della temperatura media, rispetto ai valori pre-industriali, riducendo sino all’eliminazione l’utilizzo dei combustibili fossili. Del resto, se a presiedere una COP viene nominato il Sultano Al Jaber, CEO della compagnia petrolifera statale degli Emirati Arabi, è il minimo che ci si possa attendere. Replica puntuale un anno dopo, alla COP29, dove l’Arabia Saudita senza portare controprove solide, ha categoricamente negato la validità dei lavori dell’IPCC. Esternazioni ormai sdoganate senza vergogna, di stampo negazionista e reazionario, simili al rifiorire di esternazioni di stampo fascista e nazista cui si assiste quotidianamente su tante altre questioni a livello nazionale e internazionale. È un ulteriore allarme che segnala l’urgenza diiniziative improcrastinabili di risposta culturale e di azione collettiva e individuale. Un problema di origine capitalista non può avere una soluzione capitalista. Il riscaldamento globale e la sua accelerazione sono causati principalmente dalle emissioni collegate alle attività umane: industriali, di trasporto e alimentari. Tre fattori strettamente legati all’impulso-compulsivo verso l’impraticabile crescita infinita. Che in politica ed economia siano ancora presenti indici matematici e numerici che vedono la crescita della produzione, del consumo e del capitale come un fattore indispensabile al benessere collettivo è indice di come il capitalismo, al pari delle religioni, sia riuscito a introdurre dogmi utili a indirizzare le classi dirigenti e guidare comportamenti decisionali e scelte collettive. La necessità di azioni di mitigazione, osteggiata nei primi momenti sia dalla finanza sia dalla cittadinanza, è ormai un fatto che il capitalismo ha imparato a cavalcare con agilità e destrezza. Al pari delle religioni, si “evangelizza” la persona e il “decision making” verso comportamenti virtuosi che incrementano astutamente e con tempismo il giro di affari del “green”. Con due risultati di rilievo: aumentare la produzione e convincere il “consumatore” di avere fatto una cosa giusta e di tenerci all’ambiente. Si vedano le sempre maggiori operazioni di “green washing” sbandierate da quasi tutte le multinazionali. Il capitalismo quindi si sostituisce al non-decisionismo politico, dal quale però trae legittimità normativa, offrendo soluzioni e strategie di mitigazione: i continui cambi di categoria nei mezzi di trasporto che, con l’aiuto di limitazioni nella circolazione di categorie precedenti, portano a sbarazzarsi di veicoli perfettamente funzionanti verso l’acquisto imposto di nuovi modelli; la pur benvenuta elettrificazione sposta solo il problema, con costi accresciuti e a carico dell’utenza, data la cronica assenza di sistemi di produzione elettrica non clima-alteranti; le tassazioni crescenti e capillari che coinvolgono chiunque possieda un sistema di riscaldamento o di piccola produzione artigianale; fittizi miglioramenti delle classi energetiche degli edifici che portano a declassare immobili più vecchi, portando fuori parametro e conseguentemente fuori mercato piccole case e borghi facilmente recuperabili (se non dove il restauro è per pochi e porta a trasformare antiche dimore in beni di lusso); e molto altro. Azioni “green” che se da un lato portano un contributo minimo a ridurre gli impatti diretti clima-alteranti, dall’altro causano effetti “indiretti” ben più gravi: la sostituzione di un veicolo funzionante ma meno “prestante” in termini di inquinamento con uno elettrico è accompagnata da impatti ambientali (consumo di risorse, trasporti, generazione di gas clima alteranti) certamente superiore a quanto emesso portando a reale fine vita il veicolo esistente. Considerazione applicabile alla quasi totalità delle iniziative, ma ovviamente ben celata. Lontana dal porre in atto serie azioni di mitigazione, l’azione capitalistica è così improntata per natura ad accrescere e aggravare il problema, rifiutando sistematicamente qualsiasi inversione nei livelli di produzione e consumo. Il rallentamento della crescita sino a una sua sostenibile inversione è così l’unica soluzione seriamente adottabile, pur insieme a transizioni energetiche condivise, per avviare concrete ed efficaci contromisure immediate. Una consapevolezza che deve permeare l’azione diretta individuale e di gruppo e non essere relegata a pochi movimenti e alcuni “portavoce” politici o ad alta notorietà. Il cambiamento climatico richiede azioni chiare e urgenti piani di mitigazione. Ed è altrettanto urgente aumentare il dissenso verso i governi che voltano le spalle a un problema ora quotidianamente avvertito sia a livello globale che locale, rilanciando l’azione autogestita e diretta. Misurare il clima che cambia Comprendere il clima e i suoi mutamenti, locali e globali, richiede metodi di calcolo e grandi quantità di dati. Sono proprio i dati l’ingrediente principale di ogni studio climatologico: sia che si tratti di serie storiche, attraverso le quali ricostruire un’evoluzione rispetto al passato, sia che si osservino fenomeni recenti e in tempo reale, soprattutto nel caso di eventi estremi. La capacità di valutare e quantificare il mutamento del clima dipende così dalla qualità dei dati che provengono da moltitudini di misure di parametri diversi. Alle tradizionali misure meteorologiche ora si sono aggiunte diverse osservazioni marine, glaciali, nel terreno e in alta atmosfera. Uno sforzo scientifico senza distinzione di nazione o area geografica, che vede centinaia di ricercatori collaborare da discipline diverse: fisica dell’atmosfera, chimica, geologia, agronomia, biologia e metrologia. Con un percorso che parte dai laboratori di Torino, andremo a presentare strumenti e stazioni di misura, da quelle urbane all’alta montagna, dalla base artica all’Everest. Senza entrare in dettagli ingegneristici, accenneremo ai diversi strumenti che quotidianamente forniscono dati, sempre più affidabili, che riportano in modo chiaro come l’accelerazione del mutamento del clima sia un fenomeno perfino sottostimato. Un accenno a cosa può fare ognuno di noi per misurare e osservare fenomeni climaticamente rilevanti sarà anche parte della discussione. Andrea Merlone, fisico, è Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR. Si occupa di misure accurate di temperatura, avendo contribuito alla definizione del Kelvin e alla realizzazione di metodi sperimentali e strumenti scientifici. Da oltre un decennio si promuove studi e progetti sulle misure termiche per la climatologia e il miglioramento dei dati utili a comprendere il riscaldamento globale. Ha partecipato a diverse missioni, dalla piramide al campo base Everest, alle stazioni in Artico, dagli studi in alta montagna alle grotte. E’ autore di oltre 120 articoli su riviste scientifiche e presiede il comitato di esperti sulle misure di temperatura per l’ambiente della World Meteorological Organization (Agenzia delle Nazioni Unite per il clima e l’ambiente), di cui è delegato alla Commissione Climatologica. www.anarresinfo.org
January 16, 2025 / Anarres
C’è un clima di merda. Cronaca di un’azione di Extinction Rebellion a Roma
(archivio disegni napolimonitor) Sono arrivato a Roma il 16 novembre per partecipare a un’assemblea nazionale alla Sapienza, indetta per rispondere all’eventuale approvazione del decreto sicurezza 1660. In un’aula magna stracolma, l’assemblea si è svolta attraverso brevi interventi in cui esponenti di varie realtà politiche, associative, sindacali e di movimento, hanno portato il proprio punto di vista sulla questione del decreto. A essere sottolineata è stata soprattutto la necessità di organizzarsi e scendere in piazza coesi, poiché l’attacco del governo potrebbe cambiare la storia giuridica e sociale del nostro paese. La criminalizzazione del dissenso che viene proposta, ha affermato un professore dell’Università romana, è forse peggiore delle misure repressive degli anni Settanta, quando c’era la lotta armata. Ora a essere puniti e considerati criminali e terroristi sono gli attivisti per il clima, le persone migranti, chi rivendica il diritto alla casa, chi lotta per i diritti sul lavoro, chi si oppone a trattamenti degradanti nelle carceri. E a essere tutelate e difese sono le forze dell’ordine. C’è evidentemente un cortocircuito tra ciò che il governo Meloni intende per sicurezza, e quello che il concetto di sicurezza significa in una democrazia. L’assemblea è stata seguita nel pomeriggio dal Climate Pride, una parata colorata e pacifica che ha percorso il centro di Roma in nome della giustizia climatica, per fare pressione nei confronti di chi nelle stesse ore si trovava a Baku, in Azerbaijan, dove si è svolta la COP29. Qualche giorno dopo, all’interno di questo fermento collettivo, è successo qualcosa di diverso al centro della Capitale. Questo è il mio racconto “dal di dentro” con Extinction Rebellion Italia. *     *    *  La sera del 21 novembre partecipo a un briefing per l’azione del giorno seguente. Durante quattro ore di riunione ci vengono spiegati i possibili scenari, i livelli di rischio, il funzionamento della comunicazione, e ci viene impartito un breve addestramento sulle azioni di disobbedienza civile non violenta. Il numero di informazioni è copioso. La preparazione dettagliata. Il giorno dopo arrivo a Termini leggermente in ritardo e incontro i miei buddies per la giornata. Siamo nel gruppo benessere, che durante le azioni si assicura che tutte stiano bene, e provvede con cibo, coperte e acqua ai bisogni primari. Nell’attesa di un messaggio dalla nostra referente ci mettiamo a fare colazione in un bar lì vicino. Sono le 9:30 circa. Con una mezzora di attesa in più del previsto riceviamo la comunicazione che gli altri gruppi stanno procedendo con il piano A. Dopo il segnale di conferma ci dirigiamo nel luogo dell’azione, che si rivela essere piazza del Viminale. Guidate da una crescente puzza di sterco arriviamo in piazza. Il letame portato dal camioncino delle attiviste – circa sei quintali – è già stato scaricato. Di fronte alle tende aperte per occupare la piazza, si schierano i poliziotti a presidio dell’ingresso del palazzo. Agenti in borghese iniziano a rimuovere le attiviste dalle tende, la situazione diventa tesa e concitata. Mentre trascinano fuori le persone sono ripresi da molte telecamere e anche per questo sembrano agire con cautela, anche se c’è chi ha preso qualche calcio e qualche botta in testa. La presenza della polizia sembra aumentare con il passare dei minuti. Quando mi volto, dalla schiera di poliziotti dietro di me sento le parole: “Da qui non esce nessuno”. Dopo poco, la polizia decide di sgomberare l’intera piazza. Le attiviste intonano cori, suonano tamburi e fanno discorsi ad alta voce, raccontando perché sono lì. Mi viene da chiedermi per chi, visto che non ci sono rappresentati politici e le persone comuni che passano, anche volendo assistere non possono perché la polizia ha “chiuso” la piazza. Nemmeno i giornalisti posso entrare, ma ci sono i social. I due police contact discutono animatamente con gli agenti della Digos per arrivare a un accordo e permettere a chi vuole di lasciare la piazza e non finire in questura. È una trattativa laboriosa, perché la polizia sembra non voler far uscire nessuno, senza offrire ragioni. Ma si arriva a un compromesso. Tutte identificate, fotografate, e poi fuori. Le persone che decidono di rimanere dentro la piazza vengono prese una a una e portate come “sacchi di patate” dentro due autobus della polizia, che ricordano quelli delle gite scolastiche. Un poliziotto ci dice che non andranno in questura, ma all’ufficio immigrazione, perché c’è più spazio, a un’ora dal centro, lontano dai palazzi della politica. Alcune di noi intanto si dirigono al bar mentre fuori inizia a piovere forte. Quando spiove, passeggiamo tra i Fori imperiali e il Colosseo per prendere la metro verso l’ufficio immigrazione. Il contrasto tra la bellezza del centro di Roma e il luogo che ci attende è straniante. Saliamo sulla metro B, scendiamo a Rebibbia. Dopo la metro, altri venti minuti di autobus lungo una strada piena di rifiuti per arrivare in una desolante zona industriale: Tor Sapienza. Fuori dall’uscita ma dentro i cancelli, ci sono delle panchine sulle quali ci sediamo. Vengono posizionate cassette con il pranzo che era stato preparato per la giornata e una cassa di arance. Poco dopo escono due militari di turno. Uno di loro, un giovane, ha un atteggiamento amichevole. Chiede cosa abbiamo combinato, ci dice che capisce ma non è d’accordo con gli eccessi e accetta di mangiare un’arancia che gli viene offerta. Poco dopo esce una donna che lavora in questa sede della questura e ci invita ad allontanarci, dicendo che disturbiamo e che non è mica un luogo pubblico (ah no?). Ci mettiamo all’ingresso della strada, di fianco all’entrata. Alcune persone hanno tamburi e suonano, altre danzano. Io chiacchiero con due attivisti, uno di Venezia l’altro emiliano. Sono colpito nel notare il forte senso di comunità che caratterizza questo gruppo di XR, con persone da parti diverse d’Italia. Percepisco una forte condivisione di valori, linguaggi, pratiche. A questo proposito N. mi dice che lui non capisce chi non va a votare, ma che allo stesso tempo il voto rappresenta una parte minoritaria della vita politica in una democrazia, che è fatta invece di queste cose. M. parla di suoi trascorsi in altri cortei, in cui la polizia ha un atteggiamento più violento rispetto a quello che vediamo con le azioni di XR. È un tema che ritorna in varie conversazioni. La polizia li vede come nemici? Io credo che li vedano più come un fastidio, come un problema da risolvere. Parlando con loro mi rendo sempre più conto di quanto il movimento sia fatto di persone “ordinarie”, di varie generazioni e con diverse identità politiche. Sono persone che, stufe o disorientate dal panorama politico, hanno trovato una famiglia dentro questa realtà; ma sono anche persone che lavorano, che pagano le multe, che magari fanno parte di altre realtà sociali e politiche. È necessario decostruire la retorica mediatica dei “ragazzini” che non sanno cosa vuol dire vivere in società, o quella ancora peggiore dei “terroristi”. Le ore passano, il freddo aumenta, da dentro nessuna notizia. Non si può comunicare con le persone detenute né con chi le detiene. Sono più di cinquanta, il numero esatto non si sa. Chiediamo che gli venga dato il cibo che abbiamo preparato, ma non è possibile far entrare nulla. Ci viene detto di aspettare e che le persone non sono né in stato di arresto né di fermo, che si stanno svolgendo “normali” procedure identificative, che richiedono tempo. Intorno alle dieci di sera, dopo circa nove ore, quando il timore che si dovesse passare la notte lì iniziava a farsi concreto, vengono rilasciate le attiviste in gruppi di quattro o cinque. Alcune hanno fogli di via, tutti con durate diverse e completamente arbitrarie. Saranno trentadue in totale, per molti con l’obbligo di lasciare Roma entro due ore. Altre, tutte le restanti, vengono rilasciate senza nulla in mano, come se fosse normale trattenere le persone in questura. Alcune attiviste rientrano dal cancello pretendendo che gli venga rilasciata almeno una dichiarazione sul perché sono state trattenute e rilasciate. Il momento dell’uscita dalla questura è caratterizzato da emozioni contrastanti. Gli abbracci sono intensi. C’è chi ride, chi piange di gioia per rilasciare lo stress accumulato. C’è chi cerca cibo, che è pronto e caldo anche per la cena. La cucina e la logistica del movimento in queste giornate sono state formidabili. Sono arrivati pasti in qualsiasi situazione e in qualunque luogo. Alla fine il conto dei danni “legali” è impressionante. Centosei persone identificate, settantadue trattenute in questura per otto-nove ore, trentadue fogli di via, alcuni anche per persone che vivono, studiano e lavorano a Roma. Dai tre mesi ai due anni e mezzo. È finalmente il momento di tornare a Roma. Il viaggio in autobus è divertente. Il bus che porta a Rebibbia passa dopo poco, ma è la direzione sbagliata della circolare. Lo prendiamo lo stesso, ci faremo il giro dentro per riscaldarci anziché aspettare il prossimo. Quando ripassa dalla fermata più vicina all’ufficio della questura, si aggiungono quelle che aspettavano il successivo, e così un autobus solitario nella borgata sperduta si riempie improvvisamente di vita. Il giorno dopo a mezzogiorno c’è una conferenza stampa indetta in nottata da XR, dopo quanto accaduto il giorno precedente. La conferenza stampa al parco è un momento importante per XR. Oltre a raccontare cos’è successo il giorno prima, a turno alcune tra chi ha ricevuto un foglio di via si presentano e annunciano di volerlo violare pubblicamente in quanto misura illegittima. Una ragazza che lavora come ricercatrice a Venezia tiene un discorso molto chiaro ed elaborato, spiegando i motivi per cui l’azione è stata fatta e rimarcando la questione della sicurezza, al centro della retorica del governo che si accinge ad approvare il famigerato decreto 1660. Spiega che in questa situazione politica e climatica, con queste misure securitarie e questo atteggiamento della questura e delle forze dell’ordine, ci si sente tutt’altro che sicure. Alla conferenza stampa si vedono pochi giornalisti, ma è comunque un momento significativo. Un gruppo di attiviste sta decidendo di violare pubblicamente delle misure cautelari (i fogli di via) pensate per colpire la libertà di movimento di individui considerati socialmente pericolosi. Lo fanno per l’illegittimità giuridica e morale di queste misure. È un gesto forte di disobbedienza, considerando che rischiano denunce penali. Ci sono vari modi per affrontare queste misure, e una di queste è fregarsene, non rispettandole. Questo non vuol dire che sia facile. Non ci riescono tutte, alcune sono preoccupate per il loro posto di lavoro, altre non se la sentono emotivamente. Sono molteplici le facce della repressione, quella preventiva agisce in maniera subdola, fa sentire le persone insicure e impaurite, e spesso le paralizza. Ma è una giornata a suo modo splendida. Il parco è illuminato dal sole, e poco dopo il gruppo cucina dimostra ancora una volta costanza e dedizione, arrivando con un pranzo pronto per essere consumato, anche camminando. È ora di unirci al corteo nazionale di Non Una di Meno nella giornata contro la violenza sulle donne, di marciare e occupare lo spazio pubblico per un’altra giusta causa, nonostante tutto. (francesco dal cerro)
December 23, 2024 / NapoliMONiTOR
Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata)
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci: quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura. In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi, utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate. PARTE TERZA – LA VERSIONE MOLOTOV – Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando. Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita. Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro. Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero, mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno. Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi, e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la mappa non è il territorio. La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada. C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli altri. Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si fa rischiare a chi è intorno. Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita. Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce, figuriamoci di altre, ben più delicate. OUTRO – UN ESEMPIO – Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella. Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”. L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata Bepi Zac alle creste di Costabella. Il fatto è il seguente: alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate nel secondo tratto, in zona Costabella. Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court. A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un bimbo in braccio ci si è comportati idioti. Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti sprovveduti?» Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…). Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto, che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore se lo carica in collo). Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai? È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere sicuri e al sicuro. Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo. Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli. È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo sulla pelle delle valli e delle cime. In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera proficua. La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di ragionevolezza. In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è ‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico, salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani. Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando con la pelle degli animali umani. Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta giocando con la pelle della società. Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale. In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate. Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione. L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
December 10, 2024 / Alpinismo Molotov
La rotta della carta: dal Portogallo al Mozambico, l’industria della cellulosa in cerca di terra coltivabile
Un progetto portoghese nell’ex colonia del Mozambico sta invadendo le aree rurali del paese, con piantagioni di eucalipto destinate a diventare cellulosa, la materia prima usata per carta e cartoni L'articolo La rotta della carta: dal Portogallo al Mozambico, l’industria della cellulosa in cerca di terra coltivabile proviene da IrpiMedia.
December 4, 2024 / IrpiMedia
Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
INTRO – INQUADRAMENTO- La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone. In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie. Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello spazio e appiattimento dell’immaginario. Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido, sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e riflessione generale crediamo vada fatta.   La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario. Bocchette centrali di Brenta. Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma esplicitamente per cercare la difficoltà. Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto. Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata Castiglioni alla Cima d’Agola. Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di fruizione. 1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in alpi occidentali; 2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica, rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel gruppo dell’Adamello; 3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura: scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi, la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark. A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza. A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta – per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo incivile». Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole. Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente aumento del potere d’acquisto del ceto medio. Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza. Sopra la  ferrata delle Aquile in Paganella. Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel. PARTE PRIMA – L’APPROCCIO SCERIFFO – Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile. Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato a tema   modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti assimilabili al tipo 3. Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’. buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario schizzano dritte nella 3: adrenalina. Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da marketing, come nel caso dell’Epic trail. L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei geometri che progettano siffatti percorsi. Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori. Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco. In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno senso. Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che userà sarà in buono stato, funzionante e certificata. PARTE SECONDA – L’APPROCCIO BIMBOMINKIA – Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro in sé niente, non si sa, non si dice. Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo. Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa). Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero, alla preservazione della ‘carne-lavoro’. Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali. La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere qualcuno che ne ha colpa. In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata ‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa. A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.» Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi. Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’ potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che sentieri tecnicamente più difficili. In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di responsabilità post tragedia in Marmolada. O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione. Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo l’assicurazione, che l’individuo paghi. Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo di comportamenti non corretti per la morale corrente? Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto. Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza. In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata) è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo, se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile, assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e regolarne la corrente, il flusso. L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto. Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo morale. Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura, anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento ‘riservato’». Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro. Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua». Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.   L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
December 2, 2024 / Alpinismo Molotov