Ponte, a 20 minuti dalla città, è interessata da interventi infrastrutturali
finanziati anche con il Pnrr. È lì dove ha sede lo stabilimento della La.b.i.t.
srl, di proprietà di un’importante famiglia di industriali locali
L'articolo Benevento, la lotta di un gruppo di cittadini contro un impianto che
produce asfalto proviene da IrpiMedia.
Con l'adozione dell'AI Act, l'Unione europea cerca di regolamentare
l'intelligenza artificiale, ma la sfida è enorme. Come si governa l'AI in un
panorama globale così frammentato? Poi ci spostiamo sul caso Clearview AI,
l’azienda che ha raccolto milioni di volti dal web, creando un enorme database
usato da polizie e governi in tutto il mondo
L'articolo Newsroom – Clearview AI è fuori gioco in Europa. Ma il riconoscimento
facciale è ormai alla portata di tutti proviene da IrpiMedia.
Lo 0,1% della popolazione mondiale possiede il 13% della ricchezza globale,
mentre la metà più povera ne detiene meno del 2%. Ma chi dovrebbe colmare questo
divario e con quali strumenti? Poi, parliamo di Reyl, una piccola banca svizzera
che secondo l’autorità di vigilanza Finma, ha chiuso gli occhi su clienti
sospetti: politici corrotti, narcotrafficanti, riciclator
L'articolo Newsroom – Una tassa globale per i super ricchi- Intesa San Paolo
indagata in Svizzera per i clienti a rischio riciclaggio proviene da IrpiMedia.
Il Gambia è il Paese più piccolo dell’Africa Continentale, ma con una storia
politica e sociale densa di trasformazioni. Dall’eredità coloniale britannica
alla lunga stagione di governi autoritari, fino alle sfide attuali della
democrazia e delle migrazioni
L'articolo Newsroom – Cosa succede in Gambia. Madri che aspettano, figli che
partono proviene da IrpiMedia.
(disegno di pietro cozzi)
La pioggia gelida del primo mattino si placa, le nuvole lasciano passare perfino
un po’ di sole, man mano che le persone affluiscono nella piazza principale dei
Campi d’Annibale, una delle aree più urbanizzate dei Castelli romani, nel
territorio di Rocca di Papa. Nonostante il meteo incerto, il primo corteo contro
il disboscamento dei Colli Albani è un successo. Siamo a metà febbraio e il
Comitato protezione boschi dei Colli Albani ha chiamato a raccolta abitanti,
associazioni e collettivi per marciare tra le strade del borgo di Rocca di Papa
con l’obiettivo di arrivare sotto la sede del Parco regionale dei Castelli
romani. La piattaforma rivendicativa è frutto di diversi mesi di controllo
popolare, studio e mobilitazioni da parte del giovane comitato, costituito poco
più di un anno prima: i tagli boschivi stanno violentando il territorio e i suoi
beni patrimoniali; gli interessi economici dietro il cosiddetto ceduo (metodo di
“governo” del bosco che consente la ricrescita delle piante dopo alcuni anni dal
taglio del fusto) sono soverchianti rispetto all’interesse collettivo di
protezione del bosco che i comuni, l’ente parco e tutte le istituzioni hanno di
fatto smesso di perseguire. Il taglio massiccio va fermato, sostiene il fronte
sempre più ampio di organizzazioni e residenti che si è compattato intorno
all’attività del comitato, altrimenti il disastro ambientale e sociale diventerà
irreversibile.
Per le strade della Rocca il corteo raccoglie la solidarietà di abitanti e
commercianti che si affacciano dalle finestre e dalle botteghe, si uniscono alla
marcia per qualche tratto, raccontano le loro storie sull’importanza del bosco
per questa comunità. I manifestanti chiedono una moratoria al taglio ceduo che
interessa la quasi totalità degli ottomila ettari sotto la gestione dell’ente
parco, tagli che vengono effettuati in modo intensivo, distruggendo gli
ecosistemi naturali e i preziosi sentieri della via Francigena, la via Sacra,
l’Ippovia, cammini millenari sventrati dal continuo passaggio di ruspe e
cingolati. Durante il corteo alcuni anziani boscaioli si fermano a parlare con
attivisti e cittadini; sostengono le ragioni della mobilitazione perché,
raccontano, le tecniche tradizionali avvenivano a passo di mulo, in aree
circoscritte e diffuse, nel più minuzioso rispetto dei cicli vegetativi. Era
un’economia di sussistenza, a beneficio delle famiglie locali, ben diversa
dall’industria su vasta scala che oggi riceve dalle istituzioni il lasciapassare
per massacrare l’ambiente boschivo a beneficio di grandi interessi privati. A
differenza dei boscaioli solidali, infatti, nei giorni precedenti la
manifestazione iniziano a circolare online tentativi di denigrazione da parte di
improvvisati sodalizi di impresari del legname che rivendicano il loro diritto a
disboscare, con il solito mantra sull’occupazione e goffi tentativi di
greenwashing. Tuttavia, sono gli stessi che ci svelano parte della destinazione
del legname tagliato: l’edilizia, soprattutto quella destinata alle classi più
agiate, interessate a impreziosire le proprie abitazioni ecosostenibili con il
castagno locale; ma anche il commercio di scarti della lavorazione del legno,
materiale imprescindibile per il funzionamento di tutta una serie di impianti
industriali, tra cui quelli per la produzione di cemento.
C’è infatti una forte connessione tra il disboscamento dei Colli Albani e
l’implacabile cementificazione di cui il territorio è vittima da decenni. Come
hanno spiegato alcuni interventi alla fine del corteo, il bosco per queste
comunità ha sempre rappresentato l’ultimo margine, la barriera verde contro
l’avanzare della metropoli. Mentre Roma si espandeva a sud-est e la pianura
della provincia ne subiva le conseguenze in termini di impatto urbano (con la
nascita di agglomerati tra i più densamente popolati della penisola), gran parte
dei centri collinari sulle pendici del vulcano laziale venivano risparmiati
dallo tsunami speculativo proprio grazie alla muraglia alberata. Ma il bosco da
solo non sarebbe bastato. Soprattutto la mobilitazione popolare, che negli anni
Ottanta porterà alla nascita del Parco regionale dei Castelli romani, è riuscita
a porre un primo importante freno a cementificazione, crisi idrica e
disboscamenti. Purtroppo lo stesso ente parco, nato dalle lotte delle comunità,
nei decenni successivi e per diverse ragioni non è stato in grado di fermare
quelle che oggi rappresentano le più pesanti nocività nell’area, cui si aggiunge
l’aggressione estrattivista del ciclo dei rifiuti capitolino.
La pressione antropica è implacabile, frutto di una profonda commistione tra
interessi politici ed economico-finanziari sull’utilizzo del suolo nei Castelli
romani. In tutta l’area si contano ormai oltre 350 mila residenti, mentre i
servizi diminuiscono sotto i colpi della scure neoliberista che taglia le
strutture socio-sanitarie e disincentiva la pianificazione pubblica del
territorio. La stessa pressione antropica è tra le principali cause
dell’abbassamento drammatico del livello dei laghi di Albano e di Nemi, un
processo che sembra inarrestabile e che porterà a una crisi idrica dell’intera
falda a fronte dei 172 mila litri d’acqua al giorno che serviranno
all’inceneritore di Santa Palomba, se non verrà fermato prima.
Ma il legame tra motoseghe e betoniere non si ferma qui. Come accennato, gli
scarti della lavorazione del legno servono anche ad alimentare gli impianti per
la produzione industriale della calce e di altri materiali per l’edilizia. Tra
le vertenze presenti al corteo c’erano anche rappresentanti della lotta contro
l’ampliamento dell’impianto Fassa Bortolo di Artena, il quale per funzionare
avrà bisogno di circa 30 mila tonnellate di questi scarti! È verosimile che il
ceduo locale sarà una fonte appetibile.
La mattina del corteo, dentro la sede dell’ente parco non c’è nessuno. Nessuno
che possa ricevere i manifestanti, nessun comunicato nelle ore successive, solo
un silenzio assordante. Si affaccia il sindaco di Rocca di Papa, contestato
della piazza per voler difendere l’idea che si può continuare a tagliare con
ritmi non dissimili da quelli attuali, purché ciò avvenga nella “legalità” delle
concessioni. Nonostante il botta e risposta in piazza, al sindaco viene
riconosciuta dagli organizzatori almeno la decenza di aver aperto un dialogo. Le
realtà presenti sono le stesse che hanno intrapreso in questi mesi un percorso
comune di messa a sistema delle mobilitazioni sulle singole vertenze e di
analisi degli intrecci tra ognuna di esse. La rete ha iniziato a incontrarsi
mensilmente in assemblee pubbliche (l’ultima lo scorso 21 marzo a Genzano),
lanciando una nuova grande mobilitazione congiunta per fine maggio, dove far
emergere in modo chiaro la relazione tra le nocività, tra i nodi del sistema
estrattivo sui Castelli romani, e dunque delle lotte per provare a contrastarlo.
Deforestazione, crisi idrica, consumo di suolo, discariche e combustori,
questione abitativa, diritto a restare per comunità umane e non. Simili processi
intersezionali non sono una novità in questo territorio. C’è una lunga storia ai
Castelli romani che parte dalle lotte contadine per la terra e per la casa, e
arriva ai conflitti ambientali, l’antifascismo militante, i comitati per la
sanità pubblica, i collettivi transfemministi, la solidarietà con la comunità
palestinese, l’implacabile lotta No Inc.
Sempre a proposito di storia, a margine della manifestazione qualcuno si domanda
da quanto tempo non si vedesse un corteo simile per le strade del piccolo e
inerpicato borgo di Rocca di Papa. C’era stata la mobilitazione antifascista e
antirazzista del 2018, quando molte persone solidali accorsero in difesa dei
migranti appena sbarcati dalla nave Diciotti della Guardia costiera e ospiti in
una struttura sulla via dei Laghi, all’esterno della quale si erano raggruppati
i soliti nuclei delle più note sigle neofasciste romane. Ma la memoria storica
corre molto più indietro, prima ancora delle lotte per l’istituzione del Parco,
addirittura prima della nascita delle organizzazioni di massa. A metà del XIX
secolo, i rocchigiani insorsero contro gli abusi dei principi Colonna e per il
rispetto degli usi di legnatico (la raccolta del legno concessa per consuetudine
ai contadini). Da queste parti il processo di smantellamento degli usi
collettivi fu lo strumento della definitiva “recinzione” delle terre. Un caso
emblematico è quello del castagno, principale vittima del disboscamento attuale.
La richiesta di legname già dal XVI secolo spinse il governo pontificio a
sostituire i boschi originari (oggi ridotti a poche aree) con il più proficuo
castagno, ma la scelta fu orientata anche da una legge che liberava i
proprietari dagli usi collettivi qualora la loro terra fosse adibita ad alberi
da frutto. Molti proprietari di boschi trovarono utile allora trasformarli in
castagneti, così da tenere lontana la povera gente dal libero uso del bosco.
Questi processi non furono indolori e le comunità provarono a resistere fino
alla prima metà del secolo scorso. A Rocca di Papa tutto ebbe inizio all’alba
del primo maggio 1855, quando duecento contadini marciarono per invadere i
terreni dei Colonna. Affisso un manifesto contro le autorità, i paesani
proclamarono la Repubblica di Rocca di Papa e innalzarono nella piazza del paese
l’albero della libertà: un berretto rosso giacobino sulla cima di un palo di
legno. Non sappiamo quanto durò l’esperienza di autogoverno (forse un giorno,
forse qualche settimana), né i nomi delle persone coinvolte nella rivolta e nei
successivi arresti. Sappiamo solo che la milizia del papa riuscì in pochissimo
tempo a sedare il tentativo rivoluzionario. Rimane un importante episodio di
insurrezione contadina nella provincia romana, nonché un esempio lampante di
quanto sia radicato il rapporto viscerale di questa comunità con il bosco, con
la sua concezione di “common” da difendere a ogni costo.
La funzione sociale del bosco non nasce nell’ambito della produzione, dunque,
quanto dalla riproduzione sociale delle comunità, proprio perché questo aveva
rappresentato per millenni una risorsa libera e utile ai processi di
sopravvivenza collettiva – benché nell’ambito di rapporti feudali –, come
appunto la raccolta, la caccia, la protezione da incursioni esterne, i rituali
religiosi. Nell’era moderna, la tensione tra produzione e riproduzione è
diventata conflitto: ai giorni nostri il bosco dei Castelli è una risorsa per il
profitto delle aziende del legname, ma è anche epicentro del riposo di migliaia
di famiglie lavoratrici, luogo di svago, percorrenza, fruizione culturale,
economie tradizionali, ambito di accoglienza di viandanti e viaggiatori
(laddove, in parte, riesce a resistere al turismo di massa), protezione non solo
dall’espansione urbana ma anche dai cataclismi climatici, casa inviolabile di
specie vegetali e animali. La produzione di legname, a oggi, non sembra portare
alcun tipo di beneficio alle comunità: ai Castelli si tagliano più alberi di
trent’anni fa ma non si produce neppure un mestolo di legno. È il capitalismo
estrattivo, che toglie al territorio senza restituire niente, neppure
all’interno di un indotto. In questo contesto il bosco dei Castelli rappresenta
di fatto la frontiera tra iper-sfruttamento delle risorse e spazio ri-produttivo
sul territorio. Ennesimo suolo conteso tra interessi divergenti: miniera per gli
speculatori ma anche ultima terra comune, percorribile e collettiva per gli
abitanti ai suoi margini, ben consapevoli dell’importanza della difesa del
bosco. (lorenzo natella)
(disegno di leMar)
Si ferma il piano di sviluppo industriale del centro di sperimentazione
automobilistica Nardò Technical Center nel Salento, di cui abbiamo scritto nei
mesi passati. Lo annuncia Porsche nel pomeriggio di giovedì 27 marzo, in
una nota in cui motiva la rinuncia al progetto con le attuali “prospettive
sociali, ambientali ed economiche” e “le circostanze dell’industria
automotive mondiale”. La buona notizia arriva dopo quasi venti mesi di lotte e
resistenza da parte di associazioni e comitati, a un anno esatto dalla
comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Emiliano
di sospendere l’accordo di programma con NTC, a seguito dei richiami dalla
Commissione europea. Nell’attesa che la Regione metta nero su bianco la revoca
dell’accordo di programma con NTC, è tempo di riavvolgere il nastro e smontare
le narrazioni che accompagnano la decisione di Porsche e stanno monopolizzando
gli spazi di quotidiani e pagine d’informazione.
Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti NTC con nuove piste e impianti su
duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco
mediterraneo e 351 ettari espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il
consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che
riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito
di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa
comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia
della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della
Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri
d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico”
connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza pubblica. Infatti, alla
distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di
elisoccorso attrezzato con eliporto e annesse strutture sanitarie, un centro
visite polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto
riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e
Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi
estivi hanno interessato le campagne nei terreni limitrofi all’anello di Porsche
non hanno visto i soccorsi di NTC.
L’IMBROGLIO ECOLOGICO
Le misure compensative alla distruzione del bosco sarebbero state la
rinaturalizzazione e riforestazione delle aree intorno al perimetro di NTC, ma
era impensabile rimpiazzare una comunità ecosistemica complessa e
autosufficiente con filari di alberelli bisognosi di anni e acqua per crescere,
con sole dodici specie vegetali contro le quattrocentoventi attestate nel bosco
secolare. Per fare spazio alle piste di prova per auto
elettriche, Porsche avrebbe tradito le promesse di sostenibilità del gruppo
Volkswagen, di cui fa parte: “lasciare un mondo migliore per le generazioni
future”, “sostenibilità significa mantenere a lungo termine sistemi ecologici,
sociali ed economici sostenibili a livello globale, regionale e locale”.
Per denunciare il massacro ambientale in un’area protetta e la perdita
irreversibile di biodiversità, per resistere a questa truffa ai danni della
natura e della comunità, si è costituito nell’autunno 2023 il comitato Custodi
del bosco d’Arneo, che ha promosso un ricorso al Tar a gennaio 2024 insieme a
Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, fino a ottenere dal commissario
europeo per l’ambiente Sinkevičius, a nome della Commissione europea, la
richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo il progetto e i presunti motivi di
interesse pubblico. Nei mesi è cresciuta la solidarietà e la mobilitazione
dell’opinione pubblica tedesca, con sit-in e manifestazioni a Stoccarda, patria
di Porsche, una lettera aperta ai Ceo di Porsche e Volkswagen, con
il supporto delle tre maggiori associazioni per la tutela della natura del
Baden-Württemberg, Nabu, Bund e Lnv, di Robin Wood e Fern.
L’alleanza tra associazioni pugliesi e tedesche ha portato la vicenda del bosco
d’Arneo al consiglio di amministrazione Porsche durante l’annual general
meeting di Stoccarda, la riunione annuale degli shareholders. Lì i Custodi del
bosco sono stati riconosciuti come legittimi interlocutori e portatori
d’interesse, si è messa in luce tutta l’illogicità del piano e l’incoerenza con
le politiche aziendali (seppur le risposte siano state vaghe e autoassolutorie
nonostante le domande consegnate con tre giorni di anticipo). A novembre,
durante una pacifica azione di protesta, gli attivisti di Robin Wood hanno
piantato un leccio nella Porsche-Platz a Stoccarda, che è stata simbolicamente
rinominata “Bosco d’Arneo-Platz”. Ancora, a dicembre le associazioni hanno
inviato al presidente Emiliano un documento per chiedere chiarimenti in vista
della scadenza della sospensiva e a gennaio una conferenza stampa con attivisti
dalla Germania e dal Brasile ha continuato ad alimentare quel dibattito pubblico
negato dalle istituzioni.
A ridosso di Ferragosto (con le stesse tempistiche nemiche della partecipazione
con cui un anno prima era stata diffusa la notizia del progetto), la Regione
avvia il procedimento di definizione degli obiettivi di conservazione
sito-specifici della Zona Speciale di Conservazione “Palude del Conte, dune di
Punta Prosciutto”, in cui ricade il circuito NTC. In effetti, sulla Puglia
incombono una procedura d’infrazione comunitaria del 2015 e una messa in mora
del 2019 da parte della Commissione europea, per aver omesso di stabilire nelle
ZSC misure di conservazione necessarie per gli habitat naturali presenti. Ora,
la Puglia conta ottanta siti tra ZSC e SIC, ma la Regione si attiva solo per
quello che interessa Porsche. Dalle osservazioni presentate da alcune
associazioni alla deliberazione regionale si scopre che già nel 2006 i
proprietari delle piste avevano avuto l’autorizzazione all’ampliamento su
un’area di circa trecentocinquanta ettari, con l’unica prescrizione di
realizzare opere di rinaturalizzazione su una superficie pari all’estensione
dell’habitat compromesso.
L’intero quadro della vicenda mostra un pericoloso precedente in cui stretti
vincoli ambientali non bastano più a proteggere un’area, un caso in cui il
potere economico privato cattura la scelta pubblica, celando gli interessi del
singolo operatore di mercato con il velo della pubblica utilità, a discapito dei
diritti della collettività. Come argomenta Giovanni D’Elia, il forte potere
economico di uno dei maggiori gruppi automobilistici a livello mondiale sarebbe
stato in grado di influenzare gli attori istituzionali nella gestione di una
vasta area boschiva tutelata dal diritto europeo.
A marcare questo ricatto, nel bollettino ufficiale la Regione scriveva che la
“mancata realizzazione delle quattro fasi del masterplan potrebbe comportare la
dismissione dell’impianto di prova esistente”, in quanto “il mancato adeguamento
alle nuove esigenze tecnologiche in corso nel settore automotive innescherebbe
il processo di declino tecnologico e commerciale delle attuali piste”. In più
minacciava che “con la dismissione delle attività, oltre a ricadute di natura
socio-economica, verrebbe meno il presidio dell’area attualmente assicurato da
NTC, aumentando di conseguenza il rischio di compromissione degli habitat”. Ora
che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte
nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”,
torna in mente la paura che le opposizioni al piano di ampliamento di NTC
avrebbero indotto il disinteresse di Porsche a investire e a rimanere sul
territorio. La tanto temuta “alternativa zero” che avrebbe comportato anche
“l’esaurimento del positivo indotto socio-economico generato sul territorio,
derivante dalla presenza di clienti e visitatori da tutto il mondo”,
e paventata come “non percorribile” durante la seduta a Bari della V Commissione
in Regione a novembre 2023, ora sta perfettamente in piedi e lo dice Porsche
stessa.
Ritorna il copione, tracciato da Naomi Klein nel saggio Shock economy, per cui
le crisi vengono utilizzate, dietro il pretesto dell’emergenza, come
un’opportunità per introdurre politiche economiche impopolari, quali
deregolamentazioni e privatizzazioni. L’elemento chiave è la velocità con cui
vengono attuate tali politiche, mentre il consenso popolare viene manipolato
attraverso la paura e la propaganda. Approfittando del disorientamento e della
paura causati dalla crisi, i governi agiscono rapidamente, spesso senza un
adeguato dibattito pubblico. Dopo anni di disastri ecologici con ambiente e
salute subordinati al profitto, è evidente come non possa esistere industria
sostenibile sotto il capitalismo, sostenibilità e profitto non sono
conciliabili. Il mese scorso perfino Ursula von der Leyen “si è arresa di fronte
alla narrazione industriale: mantenere alta la competitività rispettando
stringenti regole ambientali non è possibile, i conti non tornano”, scrive Irpi
Media.
IL SUD DEI RICATTI
“Chance perse”, “colpo fatale al futuro”, “clima ostile all’impresa”: sono
alcuni dei titoli allarmistici che occupano le pagine della stampa locale dopo
la rinuncia di Porsche. La generica categoria degli ambientalisti contro cui
stanno puntando il dito la Regione e le associazioni di categoria rimarca la
stigmatizzazione delle esperienza di attivazione sul territorio. Gli
ambientalisti sono solo cittadini attenti (e incensurati) che chiedono di
autodeterminarsi, che hanno utilizzato gli strumenti legislativi ordinari, senza
generare problemi di ordine pubblico durante le manifestazioni, mentre chi
cercava di aggirare i vincoli della giustizia erano altri. Non è una novità che
al sud chi respinge modelli di sviluppo imposti dall’alto sia sempre tacciato di
arretratezza e inciviltà, come fossimo poveri selvaggi da evangelizzare al
progresso, secondo la buona tradizione coloniale.
L’assessore Delli Noci, braccio destro di Emiliano, piange una “perdita enorme
per il territorio”, “gli sforzi della Regione Puglia di attrarre investimenti da
parte di grandi imprese vengono vanificati, con la grave perdita di occasioni di
crescita, di nuovi posti di lavoro e di possibilità di sviluppo”. Lo stesso
presidente Emiliano, interpellato dal Quotidiano di Puglia, dichiara: “Abbiamo
perso una grande occasione di sviluppo, centinaia di posti di lavoro e un
rimboschimento di cinquecento ettari al posto dei centocinquanta da abbattere”.
E poi preme il pulsante delle emozioni di pancia: “C’è chi sarà felice e chi si
rende conto di questi ragazzi e ragazze pugliesi che dovranno andar via a causa
di questo mancato investimento”, senza ammettere che, se migliaia di pugliesi
sono costretti a emigrare, la colpa è di politiche regionali capaci solo
di svendere una terra pur di avere il prestigio di averlo concesso.
Chi sottolinea la perdita di opportunità occupazionali, in questo perenne
ricatto salute-lavoro che attanaglia il meridione, dimentica i fatti recenti che
hanno interessato lavoratori di NTC, oltre alle vicende sindacali dei pochi
salentini che lavorano per Porsche, sottopagati e minacciati di licenziamento:
collaudatori e operai in presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda e
in sciopero della fame nel 2017, costretti per vent’anni a condizioni di lavoro
precarie. Alcuni collaudatori raccontano: “Lavoriamo rischiando la vita ogni
giorno, quaranta ore alla settimana, per una paga misera”, “stare per ore con il
piede fisso sull’acceleratore, lungo una pista che sembra non finire mai, con
gli stessi contratti che si applicano ai commessi” e non metalmeccanici.
I politici non hanno mai avuto scrupoli nell’alimentare il ricatto: la sindaca
di Porto Cesareo accusava ogni tentativo di frenare il progetto di NTC come uno
“schiaffo al territorio e alla comunità”, alle “tante attività che d’inverno
farebbero la fame”. Un anno fa Confcommercio e Federalberghi si
dicevano preoccupate che la sospensione al progetto di NTC potesse “influenzare
negativamente l’economia locale”, essendo l’attività del centro prove “risorsa
per centinaia di piccole e medie imprese e realtà del commercio locali” e “una
risorsa vitale per le strutture ricettive”. Grazie a “clienti internazionali che
visitano l’area tutto l’anno, il Salento viene promosso su scala globale”.
Quando Emiliano dichiara che la rinuncia di Porsche “anche dal punto di vista
ambientale è stato un danno, perché nel tempo avremmo quintuplicato l’area
boschiva”, finge di non sapere che se quello che la Regione auspica è un’opera
di riforestazione, questa è perseguibile senza bisogno di sacrificare gli ettari
di bosco e le specie animali che lo abitano. Poi, la riforestazione resta una
misura compensativa che (lo dice il nome) serve a bilanciare l’incidenza
negativa significativa dell’intervento, quindi per logica non può essere motivo
per attestare la bontà dell’intervento.
L’amaro in bocca dei politici locali e delle associazioni di categoria alimenta
la logica coloniale ed estrattiva in un territorio di conquista già devastato
dal disseccamento degli ulivi, consumo di suolo e desertificazione, incendi
sistematici, crisi idrica e siccità galoppante, land grabbing per impianti di
fotovoltaico, agrivoltaico ed eolico (proprio in questi giorni a Livorno si
tiene Confluenza, il primo incontro nazionale contro la speculazione energetica
ed estrattivista sui territori).
Sebbene la Puglia sia ancora in violazione della direttiva sui criteri
sito-specifici e la vicenda di Porsche abbia mostrato come bastino forti poteri
privati per far decadere i vincoli ambientali, la storia del bosco d’Arneo serve
come monito: ciò che viene presentato come necessario e inevitabile non è che
una contingenza. Gli imperativi del capitalismo non diventino una tara cognitiva
che riduce la politica a spartizione di fette di potere. Il leccio che i Custodi
del bosco e il Wwf hanno piantato lo scorso 24 gennaio a Lecce in viale De
Pietro, nell’aiuola di fronte gli uffici di NTC, sta a ricordare che bisogna
immaginare sempre altri scenari possibili oltre quello imposto. E serve
raccontare i territori e le storie con tutto ciò che preme al loro ribaltamento,
riappropriandosi della categoria dell’utopia, come scrive Alessandro Leogrande.
“Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo
sovvertimento”. (chiara romano)
Donald Trump ha lanciato una guerra commerciale per proteggere l’economia
americana, ma chi ci sta guadagnando davvero? Poi, ci addentriamo negli affari
di Jared Kushner, il genero di Trump che ha costruito una rete di investimenti e
contatti che mescola politica, diplomazia e mercato immobiliare
L'articolo Newsroom – Ritorna il nucleare in Italia. Come la stampa italiana ha
venduto i bond poco sostenibili di Eni proviene da IrpiMedia.
Oltre 300mila persone hanno sottoscritto un’obbligazione Eni pubblicizzata come
“verde” dalla grande stampa italiana. Potrebbero aver contribuito, senza
saperlo, al riscaldamento globale.
L'articolo Come la stampa italiana ha venduto i bond poco sostenibili di Eni
proviene da IrpiMedia.
NESSUN IMPIANTO, NESSUN RIMORSO: ALCUNE CONSIDERAZIONI E UN RACCONTO A PIÙ VOCI
DELLA MOBILITAZIONE DELLO SCORSO FEBBRAIO
Lo scorso 9 febbraio una quindicina di escursioni hanno punteggiato la dorsale
appenninica e l’arco alpino al grido La montagna non si arrende. Dopo
l’esperienza di Reimagine winter (marzo ’23) e Ribelliamoci AlPeggio (ottobre
’23) decine di associazioni, spazi sociali, comitati di abitanti, climattiviste
si convocano in risposta alla chiamata dell’Associazione Proletari
Escursionisti.
Un primo dato interessante sta proprio qui: realtà diverse, associative e
militanti, singoli oppositori o gruppi organizzati riflettono le proprie voci di
dissenso a progetti che disegnano una prospettiva di turismo sempre più
aggressiva basata sulla depredazione dei territori. Troviamo che questa
saldatura descriva due importanti momenti. Tanto per cominciare, sappiamo che in
questa fase le lotte locali fanno paura al potere e sono tra le poche efficaci.
Basti qui ricordare la pesantissima repressione NoTav, le manganellate al parco
Don Bosco di Bologna, le forze dell’ordine sempre più spesso mandate a
monitorare gruppi e iniziative di protesta locale o ancora le lotte contro il
furto d’acqua e le dighe d’Oltralpe. Unire queste lotte a partire dall’urgenza
dello sperpero olimpico e metterle in connessione tra loro non farà che
rafforzarle e migliorarne l’efficacia, rendendo una volta ancora più esplicito
il trait d’union che le accomuna: la necessità di sviluppare comunità disposte a
interagire con i territori e a ragionare di come starci dentro e non sopra,
insieme alll’improrogabilità di opporsi a prospettive che minacciano e
calpestano luoghi ogni anno più fragili. Visioni superate, fuori tempo massimo,
che strizzano ancora dopo aver spremuto. Idee sepolte, energivore, idrovore e
che possono essere tranquillamente descritte come negazioniste del cambiamento
climatico.
In questo solco la proposta di una giornata di mobilitazione sincrona che
riconosce nei Giochi olimpici invernali 2026 l’elemento apicale di una lunga
sequenza di iniziative nocive e imposte, che drenano risorse pubbliche e minano
la vita non solo umana nei territori coinvolti, può fungere da apripista a una
galassia di resistenze contro cave e miniere, grandi opere stradali
sovradimensionate, impianti eolici industriali, estrazione di fonti fossili,
nuovi impianti di risalita. Un cartello capace di interrogare e interrogarsi su
possibili forme di mutuo appoggio, produzione di spazi di confronto e
formazione, impellenza di far emergere le lotte con lo scopo di portare a casa
piccoli e grandi risultati utili a infondere fiducia nel binomio stop nocività /
riprogettazione dal basso. Tutto nasce dall’appello: «Le terre alte bruciano.
Non è una metafora. Lo zero termico a 4200 metri in pieno autunno, i ghiacciai
si sfaldano, il permafrost si scioglie, le alluvioni devastanti sono la realtà
quotidiana delle nostre montagne. Una realtà che stride con l’ostinazione di
chi, dalle Alpi agli Appennini, continua a proporre un modello di sviluppo
anacronistico e predatorio, basato su pratiche estrattive e grandi-eventi come i
giochi olimpici invernali.
La monocoltura turistica sottrae risorse economiche pubbliche a beneficio di
pochi, a scapito di modelli plurali e alternativi di contrasto allo spopolamento
delle terre interne e di convivenza armonica in territori montani fragili e
unici».
I NUMERI, LE OPERE (E I GIORNI) DI UNA CRISI
Il versante sud delle alpi paga per primo il costo della crisi climatica: 260
impianti sciistici dismessi, oltre 170 in funzione “a intermittenza”, i bacini
per l’innevamento artificiale crescono del 10% toccando la cifra record di 158
secondo il Rapporto Neve Diversa di Legambiente. Sempre in tema di dati, le
prime analisi della Rete Open Olympics illustrano l’economia della promessa
olimpica a partire dagli open data pubblicati sul sito di SiMiCo, l’SpA a
controllo pubblico e principale stazione appaltante delle infrastrutture del
ticket Milano-Cortina 2026. Dati che raccontano il modello spompo di una nazione
al collasso che dopo essere implosa nell’industria e nella sua capacità di
produzione non sa far altro che iniettare liquidità per generare reddito
sottraendo spazi di cittadinanza. E così si ruba acqua a comunità che
necessitano di autobotti per bagnare gli orti, si progettano impianti che
abbattono boschi, si trasformano rifugi alpinistici in resort di lusso. La
logica della turistificazione genera souvenir finto-artigianali, attrae gruppi
di investimento, cancella servizi essenziali per le comunità. Il risultato di
questo “favore al turismo” costi quel che costi altro non è che l’annientamento
di economie locali, la crescita dei prezzi e l’impossibilità di vivere e
sviluppare relazioni dove si è nati e cresciuti, quando anche vi ci si volesse
rimanere.
L’esplosione e l’atomizzazione del tessuto sociale.
Scritte contro l’eccessiva invadenza del turismo all’Alpe di Siusi
A un anno dallo start nella gestione del cantiere olimpico 2026, la metà delle
opere risulta ancora in progettazione o in gara, le attese di una VAS nazionale
sono state tradite e sulla Lombardia insiste il carico più alto (50% ca. di 3,38
miliardi) sia per numero di opere che per costo. La conclusione di diverse opere
di “legacy”, che per il 70% sono stradali e per il 30% ferroviarie) è già in
agenda per il 2028, 2030, 2032. Il binomio fretta/ritardo, distrattamente
salutato come pura imperizia, costituisce una leva fondamentale della logica
commissariale e della sua capacità di accelerare i processi di trasformazione
territoriale bypassando i processi democratici di ascolto, interlocuzione,
cessione di potere all’agognata sovranità popolare. A questo scenario si
aggiungono i costi per la realizzazione dei Giochi veri e propri, in carico alla
Fondazione Milano Cortina 2026 per 1,6 miliardi di euro.
Il 70% delle opere collaterali alle Olimpiadi – in una nazione in cui crollano
ponti, si sfaldano guardrail e lo stato di edifici pubblici a cominciare dalle
scuole è pessimo, in cui le case non a norma, abusive, e a forte rischio in caso
di evento sismico o meteorologico è disarmante, in cui la manutenzione è
inesistente e la priorità è spostare masse di turisti nel grand tour
dell’invasione – sono strade. La politica pretende di ridurre gli intasamenti
stradali aumentando il numero delle carreggiate – come nel caso del Passante di
Bologna – e delle carrozzabili – come per la tangenziale di Bormio – senza
ammettere che così facendo fa aumentare il volume del traffico e torna al “via”,
a dover ampliare e costruire ancora e ancora.
Opere per giustificare opere: infrastrutture per raggiungere borghi e città
tronfi di mattone e bonus edilizi, centri urbani tirati a lucido e gentrificati,
in preda alla smania di decoro e respingenti. Un Paese ricco di infrastrutture
turistiche mal progettate che chiamano ciclabili. Opere inutili rispetto
all’idea originaria – agevolare la mobilità interna -, che quando non
contribuiscono a causare disastri, come in Emilia, sottraggono spazio ai
marciapiedi e pedoni.
L’ottica turistica nasconde nocività sotto al tappeto e inventa peculiarità e
tradizioni, economie e bella vita, in una valanga schizofrenica che si
ingigantisce e travolge tutto quel che incontra. Impianti anacronistici e funi
ricollocate nella tradizionale destinazione d’uso, come nel caso dell’ovovia di
Trieste, «una vetrina commerciale per le sue [di Leitner, ndr] cabinovie urbane,
dato che il cambiamento climatico preclude altri impianti in quota». Meleti
pervasivi che occupano il territorio in maniera tossica, fatta di fitofarmaci e
pesticidi, mentre si invita la gente a voltarsi dall’altra parte per ammirare
funivie che trasporteranno la frutta da stoccare. È questo il progetto Melinda
che, vestiti i panni di novella Grimm, racconta una Biancaneve al contrario
fatta di una funivia, riduzione del traffico di camion, buone mele “green” e
biodiversità. Come se non fosse una presa per i fondelli parlare di biodiversità
mentre si impone una monocoltura (o bi-coltura, se includiamo i vigneti) nociva.
Come se la costruzione e il mantenimento di un impianto non fossero energivori,
non impattassero sul territorio non inquinassero; come se, tolte poche centinaia
di metri al trasporto su gomma – l’”ultimo miglio” – i camion non continuassero
a portar merce dai produttori alla stazione di partenza della funivia, e dalla
cella ipogea della cava di stoccaggio ai centri di distribuzione.
In Trentino, la regione “illuminata” in cui l’invasione di animali umani inizia
a produrre più noie che reddito, la Provincia preferisce millantare invasioni di
una fauna anch’essa re-introdotta a uso turistico, salvo non garantirle il
minimo spazio vitale e negarle corridoi di dispersione per poterla poi additare
a emergenza criminale e pretendere di abbatterla.
La negazione della vita per l’aleatorietà del fatturato perché, grattata la
vernice, la menzogna si svela per quello che è: altro che interesse per
l’ambiente, rispetto per le comunità, scelte lungimiranti per la collettività.
INTERESSE PRIVATO E PITTATE DI VERNICE, STOP
Per i Giochi è previsto l’arrivo di 1,8 milioni di presenze, che a mezzo stampa
si usa arrotondare a 2 milioni, ma che in realtà è un modo curioso di parlare di
500.000 persone, per intenderci un settantesimo del giubileo capitolino.
Il Rapporto di sostenibilità, impatto e legacy è una lettura di sicuro svago per
gli amanti della chiarezza circa gli obiettivi dell’impresa: rafforzare la
posizione sia di Milano, come città met dinamica e votata ad ospitare eventi
internazionali, che di Cortina, quale località nel cuore delle Dolomiti e della
regione alpina, attrazione turistica e polo leader a livello mondiale per sport
invernali. Se solo escludiamo i nomi di località e discipline che riportano la
parola alpina o alpino questa è l’unica volta in cui le Alpi sono citate in 164
pagine di documento. A titolo di paragone il lemma Milano (sede di gara della
maggior parte delle discipline) restituisce oltre 250 risultati.
Narrazioni dunque, cumuli di narrazioni che mirano a intruppare e a spostare
l’attenzione dal cuore del problema: il modello di business distruttivo.
Ecco perché è importantissimo questo inizio di “camminata larga”, ecco perché ci
auguriamo che la contestazione fuori e oltre, al tema stretto “Milano-Cortina”,
si allarghi. Partire dalle singole opere, dagli impianti, dai progetti – che
siano in alto come in basso, in città come in piccoli borghi semi-disabitati –;
partire dai sommovimenti e dalle lotte, metterle in “rete”. Perché le narrazioni
attorno all’Olimpiade o a qualsiasi altro soggetto speculativo si adattano di
volta in volta succhiando respiro, ma sono accomunate dalla stessa logica,
perfettamente sovrapponibile a quella che anima l’assalto a tutto lo stivale:
soldi, sfruttamento, impoverimento sociale.
Leggere la dinamica aiuta a allargare lo sguardo, apre riflessioni di respiro, e
sposta il piano. In questa logica non ha senso controbattere alla produzione
immaginifica del monolite olimpico fatto di mille piedi, stare sul pezzo delle
Olimpiadi come evento anacronistico, immaginare un unico motore no-olimpico.
Come bene ha scritto Alberto di Monte, il nostro compagno Abo, su Umanità Nova:
«L’importante non è vincere, oggi è importante non partecipare». Ne siamo
convinti, le montagne meritano una nuova diserzione, le olimpiadi meritano
diserzione, questo mondo merita diserzione.
Disertare le loro battaglie e le loro costruzioni del nemico, spostare l’asse
verso il conflitto giusto: non contro le narrazioni sognanti e distorcenti che
produce il capitale, ma contro esso stesso.
BORMIO – FAKE SNOW, REAL PROFIT!
La comitiva in arrivo in pullman da Milano è accolta a Bormio dalla prima neve
di stagione, che da qualche giorno scende copiosa in alta valle. Le
centocinquanta persone partecipanti inscenano
un’escursione-manifestazione-perlustrazione fino all’imbocco della Valdidentro
prima di ripiegare nel centro storico per un pomeriggio di presidi itineranti.
Sì perché la contestazione olimpica non è ben accetta dall’amministrazione
locale né dalla questura di Sondrio e diverse iniziative sono state precettate
nel tentativo di scorare i dimostranti e di tenere a distanza le sensibilità più
curiose. L’epilogo di fronte all’ecomostro delle tribune al piede delle piste,
lungo la via che dovrebbe intercettare il traffico della nuova tangenzialina, è
la fotografia plastica dei “Giochi della sostenibilità”.
Lo ski stadium di Bormio durante il presidio
Per raggiungere Bormio abbiamo risalito la Valle Camonica e scavallato il passo
dell’Aprica. Lungo il tragitto, sopra le nostre teste nubi dense contrastano con
un paesaggio brullo, fatto per l’ennesimo inverno consecutivo di scarsissime
precipitazioni, sia piovose che nevose.
Attraversando la valle scorgiamo Montecampione, località sciistica fallita, e
per fortuna: per tutta la bassa valle non s’intravede nemmeno una spruzzata di
bianco. È febbraio ma sembra autunno.
Più a Nord la situazione non è migliore, qualche incrostazione dalla Presolana,
dal Pizzo Badile camuno e dalla Concarena in su, macchia appena monti di oltre
2000m di quota.
All’Aprica, poco meno di 1200 mslm, scorgiamo i primi spazzaneve, i primi
fiocchi. Siamo quasi stupiti, siamo in cinque ed è la prima neve dell’anno che
vediamo. La località è triste: poca gente per la via centrale, ancor meno sulle
piste, lingue bianche e artificiali a dividere masse verdi d’abete. Forse anche
la gente si sta stancando di sport invernali senza inverno.
Il passo dell’Aprica la mattina del 9 febbraio
Scendiamo in Valtellina: a Tirano monti e fondovalle sono asciutti quanto quelli
camuni. Man mano che ci inerpichiamo verso Bormio riprendono i fiocchi, “sta a
vedere che portiamo il dono più prezioso al nemico”. Arriviamo a Bormio in
leggero anticipo, la Piana dell’Alute è magnifica, ampia, di un verde che
comincia a imbiancare.
I bormini le sono molto legati, la amano per la sua storia, per il suo valore
paesaggistico, per quello che è. Andrebbe vista, visitata, protetta; la nuova
amministrazione invece la vorrebbe devastare per farci passare la
“tangenzialina”. Altro che tangere, sventrare una piana stupenda per proiettare
il vomito-massa nel cuore di Bormio. Chissà se reggerà a queste sollecitazioni.
Chissà se questo piccolo microcosmo resisterà all’infarto.
Cercando un parcheggio attraversiamo piazza Kuerc dove ancora non c’è nessuno.
Lasciamo l’auto, calziamo gli scarponi e torniamo in centro. Bormio fa la stessa
impressione dell’Aprica: pochi turisti, poco movimento in pista e fuori, i
vecchi fasti delle località sciistiche sono passati, resistono giusto i
comprensori-mastodonte come il Tonale, luogo di un’altra camminata di questo 9
febbraio.
In piazza ci dirigiamo verso un bar per un caffè, due ragazze ci fermano e
chiedono se sia qui il ritrovo. «Sì, e manca poco. Speriamo che il meteo non
rovini la giornata».
Al bar veniamo accolti bene, le ragazze che lo gestiscono ci chiedono se siamo
qui per via della manifestazione, sono curiose. Fuori le stesse scene, qualche
passante ci saluta e chiede, così come gli agricoltori che hanno approntato un
mercatino sotto la copertura della piazza.
La storiella dei valligiani chiusi, dei montanari ostili ai movimenti e felici
di vedere “soldi per lo sviluppo” si scioglie come i fiocchi che cadono sul
selciato di questa piazza.
Il pullman da Milano è in ritardo, cogliamo l’occasione per salutare qualche
conoscenza e per conoscere persone nuove che nel frattempo si stanno radunando.
Il pericolo è scongiurato, gente ce n’è.
A un certo punto avvertiamo una presenza chiassosa, svolto l’angolo e intravedo
uno striscione che recita «Milano-Cortina 2026. Dalle Montagne alle città.
Olimpiadi insostenibili».
È arrivato il pullman, e bene: la questura ha vietato di tutto un po’, cortei
compresi, ma la cosa non preoccupa né impensierisce troppo.
Ci muoviamo quasi subito dietro lo striscione, ci sono anche alcune bandiere e
intoniamo cori. I milanesi hanno studiato un canzoniere simpatico, provocatorio,
scherzoso.
Il corteo si fa, e attraversa tutto il paese. Qualche curioso si sporge dalle
finestre, qualcun’altra chiede. Un signore è incuriosito dalla bandiera
palestinese che sventola. «Cosa c’entra con questa iniziativa?», chiede. «Le
lotte si tengono assieme, così si dà senso alle cose, alle sorellanza».
Capisce. Annuisce. Se ne va sorridendo.
Attraversiamo il fondovalle costeggiando il canale termale e poi pieghiamo a
destra, inerpicandoci nei boschi, la neve attacca e meglio così, sotto di lei
insidiose lastre di ghiaccio fanno pattinare e battere le natiche a terra a più
di uno di noi. Ma fa presa anche negli animi, i cani ci zampettano felici,
qualcuno ci si tuffa, si comincia una divertita battaglia a palle di neve. Nel
frattempo tre digos stanchi, compito ingrato, ci seguono a sempre maggior
distanza.
Disinteressati.
I locali hanno preparato alcuni interventi che danno il senso della giornata: la
tangenziale, il progetto spalti della pista Stelvio che è già costato decine di
milioni di euro e che altrettanti ne mangerà, la gentrificazione, la difficoltà
del vivere ai margini dell’impero.
C’è di tutto, ce n’è per tutti; quello che una volta tanto manca è la
frustrazione, il senso di impotenza, e forse questa è la cosa più importante.
Il senso della giornata, il motivo dell’umore positivo è dato alla perfezione da
uno degli interventi del pomeriggio, di nuovo in Piazza del Kuerc, nel primo dei
presidi mobili a cui i divieti questurini di corteo ci hanno obbligato. Tessere,
unirsi, combattere. Essere consci che non è una battaglia per vincere, che le
olimpiadi si faranno, ma che su qualche opera si può vincere e se su quelle
vittorie si costruisce consapevolezza si segna un punto importante, si aggrega,
si rilancia.
Ci sarebbe di che confrontarsi, ce ne sarà occasione: i problemi bresciani
risuonano in quelli valtellinesi, che fanno eco a quelli milanesi, del tutto
simili a quelli appenninici, «che al mercato mio padre comprò»; se saremo bravi
sarà semplice intersecare le lotte, riportarle a quello che sono: un’unica
grande battaglia contro un unico nemico arrogante.
Durante il rientro attraversiamo boschi di abeti e larici, vallette, passiamo
dietro ai bagni di Bormio (ora irrimediabilmente chic), ci immergiamo in questa
testimonianza silente delle peculiarità di un territorio maestoso e delicato.
Lungo il cammino e prima della foto di rito da un belvedere, a fine camminata, è
previsto un altro breve intervento che – appunto perché la lotta è una – include
anche il racconto di quello che è successo al lago Bianco, dove si è pensato di
posare tubi al fine di sfruttare il bacino per l’innevamento artificiale. In
pieno Parco Nazionale dello Stelvio, prosciugando una torbiera e la sua
complessità ecologica, a dimostrazione che è tutto sott’attacco, anche le aree
più fragili e che pensavamo tutelate.
La camminata è stata intensa, avvolta dall’odore e da quel senso di ovattamento
sempre più raro che regala la neve, che aiuta a riflettere, che fa meglio
percepire le sinapsi. Torniamo in piazza, mangiamo qualcosa e ci prepariamo per
l’ultima parte della giornata, fatta di presidi dinamici che descrivano il senso
dell’iniziativa e i cantieri “insostenibili”, con ultima tappa sotto le colate
di cemento della già citata pista Stelvio.
Si uniscono a noi comitati locali, due arzilli avanti con gli anni volantinano e
raccolgono firme per i trasporti gestiti da regione Lombardia, contro il suo
assessore, contro Trenord. Altro piccolo legame tra le due valli unite nello
scempio: in quella camuna si va sviluppando il primo progetto italiano di treno
a idrogeno su una linea capace di offrire soltanto disservizio, da anni.
A causa di un piccolo acciacco e della conseguente sofferenza di uno di noi ce
ne andiamo poco prima della fine e dei saluti, non partecipando all’ultimo dei
presìdi, del resto “si parte e si torna insieme”. Ce ne andiamo però
soddisfatti, pieni del senso di una giornata proficua, necessaria.
Le connessioni ci sono tutte, le volontà anche. Non resta che cospirare.
CALDAROLA – ANCHE IN APPENNINO: LA MONTAGNA NON SI ARRENDE
(A DUE PASSI DAI SIBILLINI)
Ci ritroviamo a camminare nell’Appennino maceratese a distanza di diversi mesi
dall’escursione che ci portò a osservare dall’alto l’area interessata dal
progetto monster degli impianti di Sassotetto e a diversi anni dalla fantastica
Festa di Alpinismo Molotov del 2018. In questa fascia di montagna, a rispondere
all’appello per la giornata di mobilitazione sono state due associazioni locali:
C.A.S.A. Cosa Accade se Abitiamo e L’Occhio Nascosto dei Sibillini, ma la
partecipazione come vedremo è stata poi molto più ampia, sia da parte di singoli
che di realtà del territorio. Ma partiamo dalle basi, sottolineando un aspetto
che non smetteremo di evidenziare: le dinamiche predatorie e speculative che
interessano quest’area sono le stesse che ritroviamo in tutte le terre alte (e
non solo in quelle), con l’aggravante che vanno a insistere su un territorio che
ancora mostra tutte le ferite del sisma 2016/2017. Ferite visibili, fatte di
case e paesi ancora – quando va bene – in fase di ricostruzione e di un tessuto
sociale sempre più in difficoltà. Quando, nei primi mesi del post-terremoto,
parlavamo di un territorio che rischiava di essere ancor più sotto attacco
perché reso più debole dalle scosse e dalla mala gestione dell’emergenza (prima)
e della ricostruzione (poi), facevamo una previsione fin troppo semplice.
Per questo mobilitarsi in queste aree ha a avrà per lungo tempo una doppia
valenza, una “di base” e una specifica sulle varie tematiche che si intendono
affrontare. Questa volta gli interventi che hanno unito i nostri passi si sono
concentrati su tre temi di base: i progetti turistici sui Sibillini, il Gasdotto
SNAM che attraversa queste zone, il parco eolico che dovrebbe sorgere proprio
dove stiamo camminando. Quest’ultimo tema è quello su cui ci si è soffermati
maggiormente, anche ma non solo per il luogo scelto per l’escursione di questa
giornata.
Riprendiamo dall’appello: “(…) a ridosso del Parco Nazionale dei Monti
Sibillini, tra i comuni di Caldarola, Camerino e Serrapetrona, in provincia di
Macerata, dovrebbe sorgere un parco eolico con aerogeneratori alti 200 m. A
conferma di come l’energia rinnovabile, di cui ovviamente condividiamo la
necessità alla base, non sia buona “di per sé” ma vada comunque sempre inserita
in un contesto di rapporti sociali, politici ed economici e valutata
considerando anche l’impatto sull’ambiente, sulle comunità e sull’intero
territorio. Non è illogico riconoscere che dietro la famigerata transizione
ecologica si nascondano altri interessi (il parco eolico in questione è stato
richiesto appunto da una multinazionale norvegese con sede anche in Italia) che
non hanno nessuna ricaduta positiva sulle comunità – defraudate di qualunque
potere decisionale – perpetuando in chiave “green” lo stesso sistema economico
che ci ha portato fino a questo punto.”
Riportiamo queste considerazioni perché sono tornate più volte nel corso degli
interventi e perché se sostituiamo il parco eolico con gli impianti di risalita
o con il gasdotto il risultato finale non cambia: nessuna ricaduta positiva sui
territori ed estrattivismo da parte del capitale. Su queste basi ci ritroviamo
lungo il sentiero che da poco più avanti l’abitato di Castiglione si muove verso
i Prati delle Raie e Croce di Valcimarra. Ci muoviamo intorno ai mille metri di
quota e una fitta nebbia ci accompagna fin dalla partenza, siamo 100? 120? 90? È
persino difficile contarsi e nel lungo serpentone si riconoscono le sagome solo
dei dieci avanti e dietro ciascuno di noi. Una composizione variegata e di tutte
le età, compagne e compagni che si incontrano sia in piazza che lungo i sentieri
di montagna ma anche appassionati di escursionismo e persone del luogo sensibili
agli argomenti trattati. Chi conosce questi posti racconta di come normalmente
il panorama da quassù sia fantastico, da un lato le vette dei Sibillini che a
tratti spuntano dietro ogni curva, dall’altro la vallata e Camerino in
lontananza. Oggi la nebbia rende tutto surreale e qualcuno aggiunge che “oggi
non avremmo visto neanche le pale se le avessero già piazzate”.
Durante le prime due soste sul gasdotto e – soprattutto – sul parco eolico sono
tante le domande e le considerazioni che si accavallano e chi ne sa di più prova
a rispondere, non tanto sui tecnicismi quanto sull’assurdità del progetto in sé.
Qualcuno ricorda che solo nelle Marche sono più di cento le pale eoliche – alte
250 metri – che dovrebbero essere installate lungo i crinali appenninici, tanto
che sempre oggi sul Monte Strega è in corso un’altra escursione sempre sullo
stesso tema.
Continuiamo a salire e si iniziano a vedere i primi scampoli di cielo blu,
giusto in tempo per la foto di rito con uno striscione realizzato con su scritto
a caratteri cubitali “La montagna non si arrende”. Dopo poche centinaia di metri
accompagnati dal sole l’itinerario ci porta a ripiombare nella nebbia per
l’ultima “pausa narrata” sui progetti da decine di milioni di euro che andranno
a impattare sui Sibillini con la scusa della “transizione turistica”, che
ovviamente non viene chiamata così, ma sembra troppo affine alla transizione
ecologica per non fare un accostamento.
Scendendo ci siamo chiesti cosa avesse significato questa giornata e l’opinione
di tutti è che, nonostante il meteo e un territorio che negli ultimi anni ne ha
passate di tutti i colori, c’è ancora una spinta a mobilitarsi su questi temi.
Spinta che ci auguriamo sia solo il primo passo di una rincorsa verso i prossimi
appuntamenti, perché l’escursione di oggi ci ha dimostrato che nonostante tutto
gli spazi di possibilità ci sono. Sempre.
PONTE DI LEGNO – RI-PENSARE LE TERRE ALTE PER LA LORO SALVAGUARDIA
La camminata a Ponte di Legno – pensata e condotta da APE Brescia, MTO2694,
Unione Sportiva Stella Rossa, Collettivo 5.37 e L’Oco! Orco che orto – ha visto
la partecipazione di un centinaio di persone, nonostante una fitta nevicata
lungo il sentiero e pioggia battente all’imbocco della Val Sozzine, luogo di
ritrovo della manifestazione, ma non è stata che l’apice di un percorso
preparatorio di respiro.
Va infatti fatta una doverosa premessa: in Valle Camonica sono state organizzate
tre serate preparatorie alla camminata del 9 febbraio, con l’intento di
coinvolgere una popolazione che sobbolle disorientata, di mettere a fuoco le
tante questioni camune sul tavolo – Terme di Ponte di Legno, depredamento del
bacino del Lago Bianco per realizzare un nuovo impianto di innevamento
artificiale, ampliamento del comprensorio del Monte Tonale, Montecampione, terra
di progetti di turistificazione varia – tra i quali spicca Imago nei parchi
Nazionali delle Incisioni Rupestri. – e di tentativi di costruire relazioni
stabili tra cittadini sparsi, associazioni, comitati e collettivi locali che si
stanno opponendo o che ragionano criticamente su singoli progetti, per
rinforzare la protesta.
Tre serate molto partecipate e vivaci, organizzate da realtà strutturate che
sono state in grado di aprirsi e accogliere la partecipazione non scontata di
tanti singoli sparsi, sensibili ai temi ambientali e sociali del territorio. Tre
assemblee grazie alle quali si è generato un passaparola propedeutico a
allargare lo sguardo e le presenze del 9 febbraio.
Nel suo complesso, la mobilitazione è infatti stata molto più larga rispetto a
quella che ha frequentato il serpentone colorato del 9; sintomo di una tematica
sentita e della capacità di intercettare molte istanze e soprattutto molti volti
nuovi rispetto a quelli a cui ci la militanza camuna è abituata.
Il percorso scelto si è snodato lungo la ciclabile che da Ponte di Legno sale
verso il Passo del Tonale, una camminata adatta a tutti, con punti panoramici
dai quali osservare direttamente i luoghi delle criticità trattate e
sufficientemente visibile perché i turisti in risalita verso le piste del Tonale
se ne accorgessero. Ad accogliere i partecipanti giunti in auto e con un
pullman, una micro delegazione delle forze dell’ordine che, una volta
rassicurate rispetto all’idea pacifica della mobilitazione e della mancanza di
volontà di bloccare le piste – voce preoccupata e forse messa in circolo con una
certa malizia – si è allontanata salutando. Di altro tenore l’interesse della
stampa locale, presente con rappresentanti di tutte le emittenti, che si è
presentata per produrre servizi e articoli una volta tanto piuttosto potabili.
Il meteo non è stato clemente, ma un percorso ben studiato ha consentito a chi
non fosse attrezzato o si trovasse in difficoltà a camminare sotto la neve di
seguire gli interventi muovendosi da una sosta all’altra, lungo la strada. Gli
interventi hanno rivendicato maggiore vivibilità, sia economica e sociale che
ecologica e ambientale. Hanno messo in luce la scarsità di prospettive e di
servizi per i camuni: spopolamento, mancanza di servizi, redditi inferiori
rispetto a quelli di pianura, impossibilità di non avere un’auto a causa
dell’inefficienza della mobilità pubblica, aggravata dal progetto di Trenord di
realizzare una linea sperimentale a idrogeno e ribadito contrarietà al continuo
sperpero di risorse per ampliare i demani sciabili.
La Valle Camonica infatti, anche se non sarà direttamente impattata dalle
Olimpiadi, fa parte di quei territori che continuano a drenare fondi collettivi
per cercare di rilanciare il turismo con nuovi comprensori, cannoni e
sbancamenti, senza pensare minimamente di diversificare le proposte o gettando
lo sguardo a un turismo più responsabile e meno impattante.
Immaginando le tappe di avvicinamento e la giornata di mobilitazione, si è
scelto un percorso indagante, morbido e inclusivo ben riassunto da questa
dichiarazione del comitato MTO2694: «Progetti come quello sul Monte Tonale
Occidentale, poco chiaro e ancora fumoso, che in alcune ipotesi prevede lo
sbancamento della cima e il disboscamento della Valle del Lares, sono un attacco
all’ambiente e alla biodiversità». Un progetto «anacronistico, fuori tempo
massimo». […] «Le critiche sono tante e addirittura alcune sono condivise da
Regione Lombardia. La stessa Regione Lombardia che ha parzialmente finanziato
questi impianti. Le criticità sono davanti agli occhi di tutti». Siamo contrari
agli ampliamenti dei demani sciabili con nuovi impianti perché ci sembra una
forzatura, non solo nei confronti dell’ambiente ma anche del clima che cambia.
Noi non siamo contro lo sci, siamo contro le forzature».
Per concludere, questa scelta, premiata da una folta partecipazione complessiva,
ha dimostrato che stimolando un dibattito serio ci sono forze per continuare a
sviluppare percorsi di critica, e si riesce anche a attrarre nuove presenze,
fino all’8 febbraio per nulla scontate.
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FONTI ISTITUZIONALI
Cruscotto con lo stato di avanzamento delle opere in carico a Simico
Dossier di candidatura
Rapporto di Sostenibilità, Impatto e Legacy 2023
Proposta Programma per la Realizzazione dei Giochi Olimpici
FONTI OPEN
Primo report OpenOlympics
Secondo report OpenOlympics
Rapporto Neve diversa 2024
FONTI COMPAGNE
LA MONTAGNA NON SI ARRENDE (UTILI IN CALCE ALLA PAGINA “MATERIALI AUDIO” E “COSE
INTERESSANTI”)
Tracce (immagini satellitari impianti sciistici in lombardia dal 2016, Off Topic
Lab)
Umanità nova (articolo di Alberto “Abo” di Monte)
Video integrale convegno Off Topic
Video Duccio Facchini – Altreconomia
L'articolo La montagna non si arrende ai giochi d’azzardo sembra essere il primo
su Alpinismo Molotov.
In Alto Adige il turismo combatte lo spopolamento e garantisce redditi alti. I
prezzi delle case, però, sono fra i più alti d’Italia, e i residenti sono
costretti ad andarsene
L'articolo Sulle Dolomiti il boom di turisti si sta rivoltando contro i
residenti proviene da IrpiMedia.
La neve programmata è diventata cruciale per la sopravvivenza dell’industria
sciistica: oggi, in Italia, il 90% delle piste sono innevate artificialmente. Un
business da centinaia di milioni di euro, dominato da alcune aziende italiane
L'articolo I padroni dell’inverno proviene da IrpiMedia.
La crisi climatica ha cambiato gli sport invernali e il turismo in montagna,
facendo la fortuna di un pugno di aziende leader nella produzione di impianti
per l’innevamento programmato
L'articolo I padroni della neve proviene da IrpiMedia.