Enel Green Power è diventata una delle più grandi aziende di rinnovabili in
Brasile. Tuttavia, ha raggiunto questa posizione in parte appoggiandosi a
società locali, accusate in diversi casi di land grabbing contro alcune delle
comunità più povere e vulnerabili del Paese
L'articolo La corsa alle terre per le rinnovabili. La lotta fra Enel Brasile e
le comunità indigene di Bahía proviene da IrpiMedia.
(disegno di india santella)
Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini.
La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di
un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio
il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui
nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu
salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio,
raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile
associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco
Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la
battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi
respinti dalla popolazione della vicina Massafra.
A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante
le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del
Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché
le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare
che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici.
Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante
contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte
integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale
costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone
fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua
dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche
la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume
rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente
caratterizzata dalle attività antropiche.
Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano
essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma
negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato
da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società
partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le
dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia,
quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e
Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026.
Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di
euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione
temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International,
Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa,
società molto attiva nel settore dei rifiuti.
Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il
via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la
modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri.
Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità,
salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi
“no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa
Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la
maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione
d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che
consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul
peso della componente politica rispetto a quella tecnica.
Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma
la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe
realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e
che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche
Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza
naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del
fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia. Arpa fa
notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento
ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento
alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto
Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove,
e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove
aree ed eventualmente ad avere frutti.
Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo
delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel
fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata
media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti
negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A
oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese
pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di
Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il
progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei
prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico
(quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso.
Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non
si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se
strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante
la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti
gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate.
In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di
associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche
tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e
impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha
prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È
prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri,
condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici
chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in
prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La
somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi
all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da
calcio.
Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la
comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno
di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in
corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici
chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si
dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti
e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta
cittadini.
Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per
desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto,
costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente
sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per
produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più
salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero
in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti
a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat
marino.
Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di
dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno
dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo
rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato
che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo
aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei
documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione
pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre
parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento
strutturale del piano iniziale.
Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il
quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico,
mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità
che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero
rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da
porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante
soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda.
Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la
costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione
ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la
Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è
giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte
della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso
problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso
di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo
territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini
continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica
pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il
caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi?
(domenico colucci)
I dati del Fondo europeo per la Pesca (FEAMP) rivelano che gran parte delle
risorse è concentrata nelle mani di pochi, favorendo interessi industriali a
discapito dei pescatori su piccola scala, i più colpiti dalla crisi climatica
L'articolo Dove annegano i fondi europei per la pesca? proviene da IrpiMedia.
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile.
Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle
terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare
indifferenti.
Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi,
annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento
apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità,
decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono.
Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e
dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per
nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono
mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience
fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi
sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a
passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli
stessi cibi di lusso.
Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca
all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a
respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche
dello shopping e apericena.
Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri
però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che
portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via
via più performanti (si legga: idrovori).
Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa
all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene
diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto
all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia
repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere
infilato.
Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per
qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non
spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza
si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del
“recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire.
Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella
nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non
soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di
chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione
nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si
stia bene in montagna.
Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o
posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere.
Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso.
Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai
monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti,
capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi.
È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni
speranza e voglia di rimettersi in gioco.
Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita
sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano
grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi
di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly.
È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente
succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati
di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto
ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la
costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro
indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni
legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro
Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo
Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere
messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti.
Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro
e non abbandonarsi al fato.
Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e
importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché
ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e
viverle.
Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo
deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero
paesaggio.
Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze
pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi
qualcosa e stringete rapporti.
Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione
singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia
di iniziative che si vanno a creare.
Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora.
L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra
essere il primo su Alpinismo Molotov.
(disegno di naum)
Tra le calunnie mosse agli attivisti e ai comitati campani dai vari carrozzoni
politici e mediatici che negli anni hanno presieduto allo svolgersi di uno dei
più grandi disastri ambientali della storia italiana, le più infamanti erano
due: “siete manovrati dalla camorra” e “se vi ammalate è colpa dei vostri stili
di vita”. Noi che ci siamo stati sulle discariche, noi che abbiamo denunciato la
camorra e lo Stato in ogni sede, noi che abbiamo studiato il problema nelle sue
articolazioni criminali, tossicologiche e sanitarie, noi sapevamo che erano
accuse strumentali. Erano modi attraverso cui governanti e pseudo-intellettuali
scaricavano le proprie responsabilità, sotterrando la verità della loro
complicità o indifferenza nel vociare della propaganda di regime, legittimando
la repressione. Nei presìdi e alle manifestazioni alle volte eravamo in pochi,
altre in tanti, molti di più di quanto i nostri avversari si aspettassero. In
ogni caso, niente di ciò che è stato fatto al suolo, all’aria e all’acqua di
quella che è diventata tristemente famosa come Terra dei Fuochi, fu ignorato o
non combattuto dalla militanza ecologica degli attivisti campani. Noi sapevamo,
e ve l’abbiamo detto in tutti i modi.
E ora, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ci ha dato ragione,
condannando lo Stato italiano perché se n’è sempre lavato le mani. Il 30 gennaio
2025, la Corte ha infatti emesso una sentenza che riscrive la storia ufficiale
della Terra dei Fuochi, conferendo i crismi della verità giudiziaria alle
analisi e alle accuse che i comitati campani contro l’inquinamento da rifiuti –
che abbiamo chiamato Biocidio – avevano già portato nelle strade, nei media,
nelle prefetture e negli uffici ministeriali. Una sentenza che inchioda le
istituzioni dello Stato alle proprie menzogne e inettitudini.
Il procedimento, iniziato nel 2015, ha preso le mosse dalla denuncia di
quarantuno cittadini campani e cinque associazioni locali contro lo stato
italiano per aver messo a repentaglio il loro diritto alla vita. Secondo i
querelanti, le istituzioni del nostro paese hanno tollerato che i rischi da
contaminazione ambientale da rifiuti persistessero, e addirittura aumentassero,
ben oltre l’emergere delle evidenze che ne imponevano la presa in carico e la
risoluzione. Il processo ha affrontato la questione Terra dei Fuochi in tutta la
sua estensione temporale: dal finire degli anni Ottanta fin quasi al presente.
La sentenza chiarisce le omissioni continue delle autorità statali
nell’intervenire in maniera efficace sulla prevenzione, deterrenza, messa in
sicurezza e informazione di un disastro ambientale certamente complesso e
diffuso, ma eclatante e documentato fin dalle origini.
In particolare, la Corte ha rilevato che “non vi fossero prove sufficienti di
una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità
nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi”. I progressi nella
valutazione degli impatti dell’inquinamento su salute e ambiente sono stati
“glaciali”, di una lentezza inammissibile per i doveri di uno Stato. Rispetto
poi alle bonifiche, la Corte stigmatizza un “problema generalizzato di
coordinamento e attribuzione di responsabilità”, tale da rendere “impossibile
farsi un’idea generale di dove si debba ancora decontaminare”.
Lo stato italiano ha inoltre fallito nel combattere lo smaltimento illegale di
rifiuti a causa di un ordinamento normativo sui crimini ambientali prima assente
e poi, quando lentamente approvato, parziale e inefficace. Constatata l’entità e
la gravità della situazione, la Corte ha anche deplorato lo stato italiano per
l’incapacità di approntare “una strategia di comunicazione completa e
accessibile per informare il pubblico sui rischi per la salute e sulle azioni
intraprese per gestire tali rischi”.
Per queste ragioni, la Corte certifica che il problema della Terra dei Fuochi
non è stato affrontato “con la diligenza giustificata dalla gravità della
situazione”. E conclude, lapidaria: “Lo stato italiano non ha fatto tutto ciò
che gli era richiesto per proteggere la vita dei ricorrenti”. Esattamente la
ragione per cui protestavano i comitati campani.
Alla luce del giudizio, la Corte fornisce indicazioni dettagliate sulle misure
che le autorità italiane devono adottare. In primo luogo, occorre approntare una
strategia complessiva che riunisca tutte le misure esistenti o previste per
affrontare il fenomeno dell’inquinamento, includendo la cittadinanza e le
associazioni locali nella pianificazione. Ciò implica identificare le aree di
smaltimento illegale, valutarne la contaminazione ambientale e indagare gli
impatti sulla salute. I tempi devono essere chiari, le risorse dedicate corpose,
e la loro allocazione trasparente. In secondo luogo, queste attività devono
essere supervisionate da un meccanismo indipendente che ne monitori
l’attuazione, l’impatto e l’aderenza alle tabelle di marcia. I membri di tale
organo di controllo devono essere liberi da influenze del governo; le loro
deliberazioni rese pubbliche. Infine, in terzo luogo, la cittadinanza va
informata puntualmente sui problemi e sulle misure per affrontarli, attraverso
un’unica piattaforma pubblica. In sostanza, la Corte impone all’Italia
di programmare, controllare e informare: tutto quello che è stata incapace di
fare correttamente per tre decadi.
L’Italia ha ora due anni per attuare queste misure. Ad attenderla al varco, nel
caso fallisca (ancora) nell’onorare gli obblighi, ci sono più di quattromila
ulteriori denuncianti dalla medesima terra e con la medesima accusa che la Corte
si impegna a valutare. Essendo questo un ricorso-pilota, si offre all’Italia
abbastanza tempo per dimostrare un radicale cambio di passo nell’affrontare le
condizioni strutturali alla base della violazione del diritto alla vita,
condizioni rilevanti per le altre cause pendenti mosse dai cittadini campani.
RIAPRIRE L’ARCHIVIO
Il collegio di avvocati per l’Italia si è difeso dinanzi alla corte con lo
stesso vecchio arnese che rappresentanti dello Stato hanno già utilizzato in
passato per delegittimare le ragioni dei cittadini in agitazione: l’assenza di
un nesso di causalità certo tra uno specifico inquinante da una determinata
discarica e un preciso danno biologico in ogni singolo querelante. Volevano
convincere i giudici che non può essere dimostrato che quelle che si definiscono
“vittime” dell’incompentenza e corruzione delle istituzioni italiane siano tali.
D’accordo, stanno morendo, ma siamo sicuri che sia per la diossina e i PCB che
respirano quotidianamente? L’Italia ha provato di nuovo ad affrancarsi da ogni
responsabilità.
Ma la Corte ha determinato che il chiarimento scientifico del nesso di causalità
tra le discariche illegali e i roghi di rifiuti che hanno contaminato le matrici
ambientali, da un lato, e l’insorgenza di patologie nei residenti, dall’altro,
non è mai stato dirimente per la presa in carico da parte dello Stato
dell’obbligo di proteggere la cittadinanza dall’inquinamento.
La conoscenza che vi era una dispersione incontrollata di inquinanti che hanno
impatti devastanti sulla salute sarebbe sempre dovuta essere, ed è tuttora,
condizione sufficiente e necessaria per agire. La Corte ha accettato l’esistenza
nella Terra dei Fuochi di un rischio per la vita “sufficientemente grave, reale
e accertabile” e “imminente”. E in base al principio di precauzione ciò impone
il dovere di protezione da parte dello Stato. Prendano nota gli oppositori
istituzionali alle richieste dei cittadini in altre zone inquinate d’Italia.
La corte non poteva essere più chiara. E così mette un’altra pietra sopra le
narrazioni tossiche – già stroncate nei processi penali e dalla scienza – che
proliferavano durante gli anni delle mobilitazioni. Riaprendo l’archivio delle
lotte ci troviamo i ministri e gli “esperti” che a più riprese hanno
stigmatizzato le popolazioni campane in rivolta come ignoranti e irrazionali.
Il ministro Lorenzin, il ministro Balduzzi, gli epidemiologi di stato, i medici
senza deontologia, costoro blandivano e accusavano i campani preoccupati dei
tumori e della mortalità inusitate nella loro terra, additando come causa la
povertà relativa e i supposti stili di vita individuali dei meridionali. Ma
quelle illazioni, come sapevamo e come deduciamo dalla sentenza della Corte,
servivano solo a sviare l’attenzione dalle condizioni concrete del territorio e
dalle omissioni dello Stato.
La Corte riconosce che solo dopo il 2013, con il decreto 136/2013, poi
convertito nella legge 6/2014, lo sdetato italiano inizia, con estremo ritardo,
a interessarsi alla questione in maniera sistematica. Risalgono alle
disposizioni di quel decreto la mappatura dei terreni agricoli contaminati,
l’elargizione di risorse per il monitoraggio ambientale e gli screening
sanitari, e l’aumento dei controlli sul territorio. Un anno prima, nel dicembre
2012, l’allora ministro degli interni Cancellieri nominava Donato Cafagna
“commissario antiroghi” e lo metteva a capo della cabina di regia presso la
prefettura di Napoli con il compito di contrasto e prevenzione degli
smaltimenti abusivi. E un anno dopo, nel 2014, i cittadini campani formati come
“osservatori civici” vengono per la prima volta inclusi e ascoltati. E ancora,
nel 2015, sono finalmente codificati nel codice penale, con la legge 68/2015, i
delitti ambientali.
Ma cos’era successo per arrivare a quelle leggi e a quegli interventi? Apriamo
l’archivio e scopriamo una stagione di mobilitazioni ambientali senza precedenti
in Campania per persistenza e numeri, che costruiva sull’eredità dei comitati
campani dei primi dieci anni del duemila, i quali combattevano contro il piano
disastroso per i rifiuti urbani e denunciavano gli sversamenti
illegali. Nell’estate del 2012 fu organizzato il Coordinamento Comitati Fuochi,
una rete di oltre cinquanta comitati campani contro l’inquinamento, che si
adoperò con campagne di denuncia e bussò a tutte le porte, sedendosi a tutti i
tavoli di concertazione che poteva. Alimentò una campagna mediatica martellante
e ubiqua, che con il supporto del quotidiano Avvenire a poco a poco veicolò il
dolore e la rabbia di vivere tra fumi tossici e discariche illegali sempre più
lontano, sempre più in alto. Si dedicò inoltre al lavoro di raccordo e
comunicazione tra comitati, attori economici, parrocchie e centri sociali.
Giungendo, grazie all’alleanza con i Cittadini Campani per un Piano Alternativo
dei Rifiuti, con la Rete Commons e con altri gruppi storicamente impegnati
sull’ambiente, a costituire la Coalizione Stop Biocidio. Decine di marce per la
vita attraversarono i territori tra il 2012 e il 2013, fino all’apice del Fiume
in Piena, la manifestazione dei centomila da tutta la regione che il 16 novembre
2013 inondò Napoli per imporre il problema della Terra dei Fuochi. Fu solo la
pressione delle mobilitazioni sociali a costringere i governi regionale e
nazionale a intervenire, pur se ancora in maniera insufficiente.
La pubblicazione della sentenza ha innescato il si salvi chi può. Come ha
provato a fare l’assessore regionale all’ambiente Fulvio Bonavitacola, lesto a
diramare una dichiarazione in cui tenta di smarcare la Regione dalle
responsabilità dettagliate dalla Corte, e prova a incensare il suo operato. Ma
con il governo regionale di cui Bonavitacola è assessore non è aumentata né la
sicurezza né la chiarezza per i cittadini campani. La sentenza della Corte
rileva che nel periodo 2018-2021 “il fenomeno dell’inquinamento non sembrava
essersi esaurito, in quanto continuavano a essere scoperte discariche abusive di
rifiuti e segnalazioni di incendi abusivi”, mentre le informazioni ai cittadini
erano scarne e imprecise. Inoltre, continua, nello stesso periodo “i progressi
complessivi negli sforzi di decontaminazione sono stati lenti e molte delle
azioni hanno riguardato solo fasi preliminari intraprese di recente”, nonostante
la responsabilità per le bonifiche fosse passata alla Regione. Attenti ad
attribuirvi meriti che non avete, noi ricordiamo tutto. Anche lo “spot
pubblicitario” della rimozione delle ecoballe, o il fatto che la Regione
Campania nel 2020 non riconfermò la Commissione Speciale Terra dei Fuochi.
UNA FINE CHE È UN INIZIO
La sentenza della Corte Europea ha mandato scariche elettriche sulle sedie di
non pochi rappresentanti dello stato. Costringendoli ad attivarsi. Già il giorno
dopo, sabato primo febbraio, è stato convocato un incontro alla prefettura di
Napoli per fare il punto sugli interventi, invitando anche gli esperti dei
comitati. Gli stessi comitati che stanno analizzando la sentenza, con l’impegno
di riportarla sui territori in incontri e dibattiti pubblici.
A partire da ora, ci sembra siano almeno tre le priorità emergenti dalla
discontinuità che la Corte ha segnato sulla questione Terra dei Fuochi. Come
affermato con forza dai giudici, la popolazione non deve solo essere informata
puntualmente, ma le espressioni di cittadinanza attiva che la Campania ha
prodotto in numero considerevole vanno incluse nella pianificazione, nel
monitoraggio e nella valutazione delle soluzioni approntate. Per assicurarsi che
ciò accada, non basterà avere la forza di una sentenza dietro, pur se basata sui
diritti umani ed emessa dalla più alta autorità giudiziaria a livello europeo.
La pressione popolare è imprescindibile, occorre riannodare i fili della
cooperazione tra gruppi di base, storici e recenti. Una larga Coalizione –
determinante in passato per i destini regionali e nazionali – va riorganizzata e
potenziata. Infine, l’agenda da imporre dal basso deve includere tutte le
direttive della sentenza, ma anche andare oltre. Le parole d’ordine sono
riparazione e rigenerazione del territorio. Per fare questo ingenti risorse
economiche devono essere messe a disposizione, e qualunque sia il governo di
turno bisogna fargli sentire il fiato sul collo. Le mistificazioni che abbiamo
dovuto sopportare finora vanno spazzate via, non accetteremo mezze misure.
Sappiamo la verità e ci assicureremo che venga onorata.
Ci assumiamo la responsabilità di tenere alta l’attenzione, ma qualunque figura
istituzionale che è o sarà incaricata di agire materialmente sulle consegne
della Corte, deve assumersi la piena responsabilità del proprio ruolo e delle
azioni che metterà in moto. È finito lo scaricabarile, è finita la confusione.
Vi abbiamo trascinato in tribunale e fatto condannare, non metteteci ancora alla
prova. Ci siamo mobilitati e continueremo a farlo. Finché non riusciremo a
riappropriarci di questa amata terra nostra. (salvatore de rosa)
Si è concluso oggi il dibattimento del processo “Sovrano” che vede 28 imputati
tra attivisti del Movimento No Tav e del Centro Sociale Askatasuna di cui 16
accusati del reato […]
The post Processo Sovrano ultima udienza, pressioni non legittime. Dichiarazione
spontanea di Dana. first appeared on notav.info.
Il ddl che, se approvato, potrebbe riaprire le porte al ritorno delle centrali
atomiche nel nostro paese, è stato presentato dal ministro dell’Ambiente e della
Sicurezza Energetica, Pichetto Fratin. Nulla di cui stupirsi. Da quando
l’energia nucleare è stata inserita nell’elenco delle rinnovabili l’avvio di
un’operazione di green washing atomico era solo questione di tempo. […]
ll podcast del nostro viaggio del venerdì su Anarres, il pianeta delle utopie
concrete. Dalle 11 alle 13 sui 105,250 delle libere frequenze di Blackout. Anche
in streaming.
Ascolta e diffondi l’audio della puntata:
> Anarres del 24 gennaio. Crisi climatica. Zone rosse e sorveglianza rinforzata.
> Una corte di miliardari e l’America profonda. Rivolta al CPR di Gradisca…
Dirette, approfondimenti, idee, proposte, appuntamenti:
Crisi climatica e azione diretta
Strumenti di ricerca, misurazione, analisi e lotta
Che sia in atto un cambiamento climatico con un’accelerazione senza precedenti,
da quando il pianeta è abitato da forme di vita strutturate in comunità è un
dato ormai privo di dimostrazioni opposte. Le estese analisi e i risultati cui è
pervenuto il lungo lavoro della comunità climatologica portano a una conclusione
unica: il clima sta cambiando a una velocità tale per cui le forme di vita
vegetali e animali (inclusa quella umana) vengono poste in seria difficoltà di
adattamento. Adattamento fisico, chimico, biologico, sociale e migratorio sono a
rischio, sottoposti a forzanti indotte dalla produzione industriale, alimentare
e trasportistica sempre più energivora. (…)
Un problema di origine capitalista non può avere una soluzione capitalista.
Il riscaldamento globale e la sua accelerazione sono causati principalmente
dalle emissioni collegate alle attività umane: industriali, di trasporto e
alimentari.
Con Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca
Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del
CNR, abbiamo anticipato alcuni dei temi di cui parleremo venerdì 31 gennaio alle
21 alla FAT
Zone rosse ed aree a sorveglianza rinforzata
Il governo sperimenta nuovi meccanismi di esclusione e controllo degli
indesiderabili. Muri invisibili ma concreti segmentano le città, separando chi
può accedere liberamente nelle aree più pregiate e chi deve esserne tenuto
fuori.
Con le zone rosse e il daspo urbano il ministro dell’Interno ha arricchito la
cassetta degli attrezzi della polizia di nuovi strumenti, che le forze del
disordine statale possono utilizzare senza neppure scomodare un magistrato.
La stretta securitaria, collaudata inizialmente a Bologna e Firenze, a dicembre
si è estesa a Milano e Napoli, e con l’anno nuovo ha investito Roma, dove la
morsa poliziesca durante il giubileo è imponente. A Torino il sindaco annuncia
un approccio più “morbido”: niente zone rosse ma aree a “sorveglianza
rinforzata”, come a Roma. Difficile cogliere le sfumature di fronte alla
declinazione sabauda delle direttive governative. Intanto, dal 27 gennaio al 30
aprile, saranno zone rosse Porta Nuova, San Salvario, Torino centro, Aurora e
Barriera di Milano.
Nei fatti le forze di polizia possono allontanare con la forza chiunque, assuma
“atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Va da se che
gli “atteggiamenti” non sono atti e, quindi gli uomini e le donne in divisa
mandano via le persone il cui modo di stare in strada sia considerato, a loro
arbitrio, indesiderabile.
Stati Uniti. Una corte di miliardari e l’America profonda
Donald Trump si è insediato lunedì. I sostenitori che quattro anni fa avevano
fatto irruzione a Capitol Hill, in questo 20 gennaio hanno sostato composti
all’esterno. L’imperatore li ha arringati firmando immediatamente la grazia per
i golpisti condannati, deportazioni di massa dei clandestini che vivono negli
States, la fine della guerra e il ritorno dell’età dell’oro. La propaganda
elettorale di The Donald non finirà mai: è la sua escape strategy di fronte al
possibile fallimento di alcuni obiettivi, dei quali potrà imputare le forze
oscure che minacciano l’America.
Mantiene subito alcune promesse. Appena insediato Trump ha firmato una serie di
misure e di ordini esecutivi.
Questi gli i principali ordini esecutivi firmati dal neopresidente:
– Uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima.
– Stop al lavoro da casa per i dipendenti federali.
– Revocato l’ordine esecutivo di Joe Biden che fissa il target del 50% delle
vendite di nuovi veicoli elettrici entro il 2030
– Revocato l’ordine esecutivo di Joe Biden sull’intelligenza artificiale, mossa
che spiana la strada al business miliardario del settore, eliminando i già
scarsi guard-rail previsti.
– Dichiarata l’emergenza nazionale al confine sud degli Stati Uniti.
– Fine dello ius soli, il diritto di cittadinanza per nascita stabilito dalla
Costituzione americana.
– Gli Usa escono dall’Organizzazione mondiale della Sanità
– Revocate le sanzioni sui coloni israeliani in Cisgiordania.
Il presidente che si è insediato il 20 gennaio è molto più forte di quello che
prese il potere nel 2016: allora era un outsider inviso alla maggioranza del suo
partito, oggi è il cavallo vincente, che ha conquistato il Gop riuscendo a
mettere insieme le anime sparse della destra statunitense.
Trump, si è esibito accanto ad una manciata di suoi pari: i miliardari che
affollano la sua corte e hanno in mano il vero potere, quello dei social media,
il cui controllo è cruciale nella costruzione del consenso.
Sul tappeto numerose domande: quanto reggerà il suo blocco sociale, specie
quello della Rust Belt, che tanto contribuì al suo precedente successo?
L’unica europea alla sua corte era Giorgia Meloni, che tenta di accreditarsi
come ponte tra l’America Trumpiana e un’Europa schiacciata dal ricatto del
Friend Shoring imposto in questi anni e cardine delle politiche protezioniste
statunitensi.
A Davos Trump ha dettato le regole all’Europa, prima tra tutte un investimento
del 5% del Pil in spese militari.
Il programma di Trump è spaventoso. Se riuscirà o meno a realizzarlo dipenderà
dalla forza dei movimenti di opposizione che lunedì hanno riempito le piazze di
Washington e di tutti gli Stati Uniti con la People March e di tutti coloro che,
con tenacia, si battono contro il nuovo imperatore.
Ne abbiamo parlato con Robertino Barbieri
Rivolta al CPR di Gradisca
Sono giorni di rivolta dentro alle mura del carcere per migranti di Gradisca
d’Isonzo, il Cpr in Friuli Venezia-Giulia al confine con la Slovenia, dove sono
stipate in vere e proprie gabbie decine di persone.
Negli ultimi dieci giorni, ogni notte, ci sono state proteste, incendi e scontri
con le forze dell’ordine. Nonostante cariche, manganellate, pestaggi, spray al
peperoncino e lacrimogeni i migranti continuano a lottare contro le condizioni
inumane a cui sono sottoposti e l’assenza di informazioni sul proprio destino.
Rinchiusi in una prigione per senza documenti potrebbero essere deportati in
qualsiasi momento o passarvi un anno e mezzo, prima di essere liberati con un
foglio di via.
Giovedì 16 gennaio un recluso è caduto dal tetto della struttura nel tentativo
di allontanarsi dal Cpr e far disperdere le proprie tracce. Nella caduta si è
fratturato gravemente gli arti ed è stato trasportato in elisoccorso in
ospedale. Il clima si è fatto più incandescente la sera di domenica 19 gennaio,
quando anche un migrante di origine maghrebina è scivolato dal tetto.
Fortunatamente, le ferite riportate non sono state gravi. É frequente che chi
tenta la fuga saltando le mura alte dell’ex caserma Polonio si ferisca anche in
modo serio. Una decina di anni fa un migrante, finito in coma in seguito alla
caduta, perse la vita dopo mesi di agonia in ospedale.
Lunedì 20 gennaio un gruppo di una trentina di persone è salito sul tetto
dell’ex caserma Polonio, causando ingenti danni agli impianti idraulici ed
elettrici e praticando sette varchi nella struttura. Non ci sono stati,
diversamente da altre volte, tentativi di fuga. Il giorno successivo è stata
incendiata la zona rossa e sono stati creati dei varchi nel plexiglass che
delimita le “vasche” che dividono le camerate. La zona rossa, una delle tre in
cui è divisa la prigione di Gradisca, è completamente inagibile, così come
alcune aree comuni.
Mercoledì 22 sono iniziati arresti e deportazioni punitive. Otto migranti sono
stati espulsi in Marocco, altri cinquanta, in parte sono stati arrestati, in
parte sono stati trasferiti nel CPR di Trapani.
Ne abbiamo parlato con Raffaele, un compagno da sempre in prima fila nelle lotte
contro i Cpr
Appuntamenti:
Venerdì 31 gennaio
Crisi climatica e azione diretta
Strumenti di ricerca, misurazione, analisi e lotta
ore 21 alla FAT
corso Palermo 46 Torino
Interverrà il fisico Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale
di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze
Polari del CNR.
Giovedì 20 febbraio
ore 21 alla FAT
corso Palermo 46
Enzo Papa, traduttore e curatore dell’edizione italiana, presenta il libro di
Volin
“La rivoluzione sconosciuta. Il movimento anarchico nelle lotte per
l’emancipazione sociale in Russia 1917-1921”
Il teorico e rivoluzionario anarchico, Vsevolod Michajlovič Eichenbaum, detto
Volin, racconta la storia della Rivoluzione russa dal 1825 al 1939, con i suoi
due sommovimenti del 1905 e del 1917, che egli ha vissuto come militante
attivamente impegnato negli eventi. Potendo disporre di documenti e
testimonianze di prima mano, Volin descrive, dal punto di vista anarchico – con
lucidità e con rara finezza d’analisi -, tutto il processo del movimento
rivoluzionario russo, dalla nascita dei Soviet all’annientamento del movimento
anarchico da parte dello stalinismo passando per l’ascesa al potere dei
bolscevichi, la rivolta dei marinai di Kronstadt o ancora l’epopea
insurrezionale di Nestor Machno.
A-Distro e SeriRiot
ogni mercoledì
dalle 18 alle 20
in corso Palermo 46
(A)distro – libri, giornali, documenti e… tanto altro
SeriRiot – serigrafia autoprodotta benefit lotte
Vieni a spulciare tra i libri e le riviste, le magliette e i volantini!
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Contatti:
Federazione Anarchica Torinese
corso Palermo 46
Riunioni – aperte agli interessati – ogni martedì dalle 20,30
per info scrivete a fai_torino@autistici.org
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