COMUNICATO STAMPA (7 agosto 2025)
L’osservatorio Weapon Watch esprime piena solidarietà ai lavoratori del porto di
Genova e alle loro organizzazioni sindacali, che hanno organizzato la protesta –
l’ennesima – contro l’arrivo di una nave della compagnia marittima saudita
Bahri, come al solito carica di armi ed esplosivi. In questa occasione, la nave
doveva imbarcare anche cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi,
giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT.
Le ragioni della protesta sono molte e serie.
Per quello che riguarda i sistemi d’arma di produzione italiana destinati agli
Emirati Arabi Uniti, ricordiamo ciò che abbiamo scritto sul nostro sito web e
sulla pagina FB, cioè che la Legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi a
paesi che non rispondono a una serie di criteri stringenti, tra cui quello di
non essere in stato di guerra, e di non utilizzare la guerra per risolvere le
controversie internazionali (gli Emirati hanno partecipato alla guerra contro lo
Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è
conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e
stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan
e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso). Gli Emirati Arabi Uniti
nel 2025 sono al 119° posto (su 167 paesi) del Democracy Index della rivista
«the Economist», inseriti tra i paesi autoritari privi di sistema elettorale e
con scarsissime libertà civili.
Lo stesso vale per il transito di materiale militare non prodotto in Italia e
nell’Unione Europea. La «Bahri Yanbu» toccherà nel suo viaggio porti in Egitto e
Arabia Saudita, paesi ancora più autoritari degli Emirati, per proseguire poi
nell’oceano Indiano e il Far East. Non abbiamo garanzie circa circa il
destinatario finale e l’impiego del materiale militare trasportato.
Mezzi anfibi a bordo della «Yanbu», Genova 7 agosto 2025.
Oltre ai cannoni di Leonardo, la «Yanbu» trasporta un ingente carico di
blindati, carri armati e munizioni di fabbricazione statunitense, in particolare
mezzi anfibi da sbarco del tipo AAV-7 tipicamente usati dai marines, che non ci
risulta siano in dotazione nei paesi arabi. Il carico sembra preludere a
un’operazione militare dal mare di grandi dimensioni.
Motivo di allarme, poi, sono i molti container che trasportano dangerous goods
della classe 1.1, cioè la classe più pericolosa, in sostanza esplosivi con
rischio di esplosione di massa.
I containe con esplosivi (classe 1.1) a bordo della «Yanbu».
La nave saudita accerchiata dalla bettolina «Brezzamare» e dalla chimichiera
«Imera», oggi a Genova, tra POnte Eritrea e Ponte Somalia.
Oggi (7 agosto 2025) a fianco della «Yanbu» carica di esplosivo ha sostato la
bettolina-cisterna «Brezzamare», che ha rifornito di nafta la multipurpose «Coe
Luisa», mentre pochi metri più in là era ormeggiata la chimichiera maltese
«Imera» da 9.000 tonnellate: un ‘ingorgo’ altamente pericoloso a pochi passi dai
container carichi di esplosivi posizionati sul ponte della «Yanbu».
Abbiamo già sollevato in passato il problema della gestione del rischio di
esplosione, in occasione delle visite delle navi Bahri al molo Eritrea
(https://www.weaponwatch.net/2020/02/03/esplosivi-in-porto-siamo-sicuri/ ). Le
navi saudite cariche di munizioni ed esplosivi stazionano a 450 m dalle prime
case di Sampierdarena alle spalle del porto, e nel raggio di mille metri si
trovano consistenti depositi petroliferi e chimici.
Per dare un quadro dei rischi che lavoratori e cittadini hanno corso e corrono
ogni volta che gli esplosivi militari entrano in porto, ricordiamo che
l’esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2023 ha demolito ogni
fabbricato nel raggio di mezzo miglio, pari a 800 metri, e che le vittime si
sono registrate nel raggio di un miglio (1600 m).
Finora non abbiamo mai ricevuto sul tema della resistenza alcuna risposta dalle
autorità interessate. Nel giugno 2023 c’è stato un incontro informativo con il
Consiglio comunale di Genova, poi rimasto lettera morta.
Ci conforta che in occasione dell’odierna protesta le organizzazioni sindacali
abbiano ripreso il tema della sicurezza portuale e che abbiano ottenuto
dall’Autorità di Sistema portuale del mar Ligure occidentale la proposta di
avviare un osservatorio sul traffico delle armi in porto, nello sforzo di
garantire trasparenza e prevenzione dei rischi nel rispetto delle normative e
della Legge 185/1990.
L’iniziativa dei lavoratori di Genova può essere di stimolo per altre città
portuali italiane coinvolte in un traffico di armi sempre più intenso.
Come mostra l’immagine trasmessaci dai portuali genovesi, è in attesa di imbarco
al Ponte Eritrea, terminal GMT del Gruppo Steinweg, noto per essere il molo di
attracco delle famigerate “navi della morte” saudite della compagnia Bahri
(rappresentate in Italia dall’agenzia marittima Delta del gruppo Gastaldi),
coperto dall’imballaggio su un roll trailer (MAFI), un cannone navale 72/62 OTO
super rapido da 76mm prodotto a La Spezia nello stabilimento Leonardo.
Nel frattempo, è entrata in Mediterraneo, proveniente dal porto USA di
Baltimora-Dundalk e diretta in Medio-Oriente, la nave «Bahri Yanbu» che farà
scalo a Genova nel primo mattino di giovedì 7 agosto. Secondo le nostre
informazioni, la Yanbu caricherà due cannoni 72/62 e un container da 20” con gli
accessori per l’assemblaggio, con destinazione Abu Dhabi negli Emirati Arabi
Uniti (EAU).
Ricordiamo che Weapon Watch si è già occupata di questi cannoni in un articolo
del gennaio 2024, perché furono impiegati dalla Marina israeliana il 14 ottobre
2023 – pochi giorni dopo l’attacco di Hamas in territorio israeliano – per
bombardare dal mare i quartieri civili della Striscia di Gaza. Bombardamento che
aveva drammaticamente smentito le voci da ambienti di Leonardo, circa l’uso
esclusivamente “difensivo” degli armamenti fabbricati in Italia e consegnati
alle forze armate di Israele.
Immaginiamo che anche la vendita dei cannoni pronti all’imbarco a Genova sia
stata autorizzata secondo la legge dal governo italiano in quanto ufficialmente
destinati alla difesa degli EAU.
Ricordiamo che il governo Conte II nel 2019 aveva sospeso le vendite di armi
agli EAU, per la loro implicazione nella feroce guerra in Yemen a fianco
dell’Arabia Saudita; e che nel 2023 il governo Meloni ha revocato il divieto sia
per l’apparente disimpegno emiratino dalla guerra yemenita, sia per i segnali
promettenti (ad oggi rimasti tali) di un accordo di pace con i “ribelli houthi”,
che di fatto governano lo Yemen da un decennio nonostante l’isolamento
internazionale e le gravi crisi umanitarie causate dalla guerra.
Tuttavia, in questo strategico quadrante medio-orientale lo scontro militare
potrebbe diventare aperto e cruento, come conseguenza indiretta del recente
attacco israeliano all’Iran – tra i principali sostenitori del composito mosaico
delle milizie yemenite – e per la volontà degli EAU che qui hanno stabilito
solide basi di controllo militare, con l’appoggio delle azioni coperte e degli
omicidi mirati compiuti da anni dalle agenzie di contractors americane e
israeliane.
Il cannone di Leonardo sulla banchina del Genoa Metal Termnal, il 4 agosto 2025.
Oltre a costituire un’oggettiva minaccia nel precario equilibrio militare in
quest’area, le armi di fabbricazione italiana non dovrebbero essere vendute agli
EAU, che stanno al fondo della classifica nel rispetto dei diritti umani.
Secondo Amnesty International, gli Emirati non sono infatti un “paese dei
balocchi”, meta esotica di turismo e di business rampante, ma il major defense
partner degli USA, in possesso di una sempre più aggressiva industria militare e
impegnati nei teatri di conflitto di loro interesse in una intensa attività
bellica anche contro i civili. Lo fanno direttamente come in Yemen, o più spesso
attraverso l’armamento e il sostegno di forze locali come in Libia o Sudan.
Nel 2024 Amnesty ha scoperto nuove prove visive che i veicoli di trasporto di
truppe blindati prodotti negli EAU venivano utilizzati dalle Forze di supporto
rapido in Sudan, che hanno commesso crimini di guerra tra cui attacchi motivati
etnicamente contro i civili.
EAU è inoltre uno stato monarchico assoluto, privo di qualsiasi forma di
democrazia, che criminalizza i diritti alla libertà di espressione e di riunione
pacifica, dove i lavoratori migranti sono sfruttati e discriminati e gli è
negato il diritto a formare sindacati e scioperare, dove recentemente in nome
dell’alleanza con Israele, con cui ha mantenuto relazioni economiche,
l’espressione filo-palestinese viene repressa.
Se dunque gli EAU sono un Paese coinvolto in conflitti armati non difensivi,
quantunque mascherati, se la loro politica in ogni caso contrasta con i principi
dell’articolo 11 della nostra Costituzione, se sono notoriamente responsabili di
gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani,
allora perché non è vietata l’esportazione materiali di armamento verso gli
Emirati ai sensi della legge italiana (L.185/1990)? E perché i portuali
dovrebbero essere obbligati con il loro onesto lavoro a essere complici di
questo illegittimo e infame “carico di morte”?
A LA SPEZIA INCROCIO DI POSSIBILI TRAFFICI DI ARMAMENTI DESTINAZIONE ISRAELE
Sabato 26 luglio – ore 17.50
Il porto spezzino rimane sotto i riflettori per la sua vocazione come scalo di
carico e transito marittimo di armamenti.
Mentre scriviamo, attirano l’attenzione due navi.
La prima, «Cosco Pisces», una grande porta container che avrebbe dovuto far
scalo ieri mattina (25 luglio) alla Spezia, e invece da quasi un giorno è ferma
al largo, a trenta miglia dalla costa ligure. L’attenzione sulla nave è stata
richiamata dai portuali del Pireo. Infatti – secondo i portuali greci – avrebbe
in stiva cinque container carichi di componenti militari in acciaio che stanno
compiendo un lungo viaggio: partiti dal porto di Mumbai (India) a fine giugno
per Singapore, sono stati qui caricati sulla «Cosco Pisces», grande porta
container da 20.000 TEU che Cosco gestisce sulla rotta Asia-Mediterraneo.
Individuati al Pireo perché destinati a IMI Systems, uno dei grandi contractors
dell’industria militare israeliana, i cinque container sono con tutta
probabilità in procinto di essere re-imbarcati su una nave feeder diretta in
Israele in uno dei prossimi porti che la «Pisces» dovrebbe toccare, appunto La
Spezia, poi Genova, Marsiglia-Fos, Valencia, prima di ripartire per il Far East.
I portuali greci e italiani hanno chiamato alla mobilitazione anche i colleghi
francesi e spagnoli.
Una seconda nave è al momento in porto a La Spezia. Si tratta della «Aal
Gunsan», bandiera cipriota, una nave che solitamente opera in charter. Secondo
fonti locali, che non abbiamo potuto verificare, avrebbe imbarcato al molo
Garibaldi due container contenenti due cannoni e munizioni diretti in Indonesia.
Le nostre associazioni si fanno interpreti del pericolo che città e porto
possano divenire il crocevia di traffici destinati ad alimentare guerre, in
particolare quella in corso a Gaza, in cui Israele sta violando i più elementari
diritti umani e compiendo azioni genocidarie che sono sotto indagine da parte di
tribunali internazionali.
In proposito ricordiamo un recente caso a Ravenna che ha visto il coinvolgimento
di rinomate aziende lombarde in un tentativo di esportare in Israele come
“fucinati di acciaio” 14 tonnellate di componenti di cannoni, nonostante il
divieto governativo.
Chiediamo all’AdSP del Mar Ligure orientale di esercitare tutti i controlli
richiesti dalla legge 185/1990 e maggior trasparenza e dati certi circa il
passaggio di armi dai porti della Spezia e di Marina di Carrara, i rispettivi
quantitativi in esportazione, importazione e transito e le relative
destinazioni, dati che sono a conoscenza delle medesime autorità.
Chiediamo inoltre ai rappresentanti eletti nel Comune di La Spezia di prendere
posizione pubblicamente circa eventuali legami del tessuto economico spezzino
con l’economia di guerra di Israele, di cui è prova l’annunciata presenza alla
prossima edizione di SeaFuture di una delegazione ufficiale della Marina
israeliana.
Rete spezzina Pace e Disarmo e The Weapon Watch
28 luglio 2025, ore 10:30. La nave porta container «Cosco Shipping Pisces»,
giunta davanti al porto della Spezia venerdì 25 luglio e tuttora in attesa al
largo, si appresta all’attracco al molo spezzino di Fornelli al terminal LSCT,
ma l’agenzia italiana della compagnia di navigazione cinese assicura che «non
verranno sbarcati i tre container di Evergreen» con armamenti destinati a
Israele. Non solo, sembra intenzionata a «far tornare i tre box incriminati
direttamente in estremo Oriente da dov’erano partiti».
Lo afferma un lancio di Shipping Italy, che riportiamo in forma integrale e che
indirettamente attribuisce la decisione della compagnia alla campagna di
boicottaggio indetta dal sindacato USB. La notizia dei container carichi di
componenti in acciaio per armamenti è stata diffusa dai portuali del Pireo e dal
sindacato greco ENEDEP, sulla base del destinatario finale, IMI Systems, uno dei
grandi contractors dell’industria militare israeliana.
L’articolo di Shipping Italy si può leggere qui.
Il comunicato di USB Genova, che dichiara 24 ore di sciopero contro il trasporto
di armi.
Weapon Watch ha ricostruito il percorso dei container segnalati, che sono cinque
(tre di Evergreen, uno di Triton e uno di una compagnia sino-panamense). Partiti
a fine giugno dal porto di Mumbai, India, per Singapore, sono stati qui caricati
sulla «Cosco Shipping Pisces», grande porta container da 20.000 TEU che opera
sulla rotta Asia-Mediterraneo. Dal Pireo, la «Pisces» doveva toccare secondo
programma i porti di La Spezia, Genova, Marsiglia-Fos e Valencia, prima di
ripartire per il Far East.
La rete di osservazione internazionale, che segue da settimane i movimenti della
nave, vigilerà per verificare che i container effettivamente non vengano
sbarcati e re-imbarcati su navi feeder dirette in Israele.
Il caso della «Pisces» indica che la protesta organizzata nonviolenta e
soprattutto il ruolo dei lavoratori dei trasporti stanno dando un importante
contributo alla trasparenza di un mercato delle armi sempre più intenso e ampio.
Indica anche che l’orrore per ciò che da quasi due anni sta accadendo in
Palestina ha raggiunto una dimensione insopportabile, e che il rifornimento di
armi, tecnologia e capitali a Israele si sta ormai configurando come complicità
nel genocidio dei palestinesi.
Escalation bellica planetaria ed i reparti d’élite della NATO si addestrano in
Lazio alla guerra nucleare, chimica a batteriologica. A fine giugno si è
conclusa l’esercitazione multinazionale “Black Poison 2025”, una complessa
attività addestrativa condotta dalla Combined Joint Chemical, Biological,
Radiological and Nuclear Defence Task Force (CJ-CBRND-TF) della NATO, dal 1°
gennaio di quest’anno sotto la guida del 7° Reggimento difesa CBRN “Cremona” con
sede a Civitavecchia.
I war games si sono tenuti in alcune aree addestrative di Civitavecchia, Rieti e
Santa Severa (Roma) e hanno visto la partecipazione di reparti specializzati
provenienti da tre Paesi dell’Alleanza Atlantica (Francia, Germania e Polonia) e
di numerose unità dell’Esercito e dell’Aeronautica Militare italiani (Scuola
Interforze per la Difesa NBC di Rieti; Comando Artiglieria di Bracciano;
Battaglione Mezzi Mobili Campali della Scuola di Commissariato dell’Esercito di
Maddaloni, Caserta; 11° Reggimento Trasmissioni di Civitavecchia; Reggimento
Genio Ferrovieri di Castel Maggiore, Bologna; Reggimento Addestrativo Genio di
Roma; 3° Reggimento Supporto Targeting “Bondone” di Cassino). A “Black Poison
2025” ha partecipato pure la Brigata Informazioni Tattiche di Anzio, unità
dell’Esercito specializzata nelle attività di intelligence e nella guerra
elettronica.
“I reparti NATO sono stati impegnati in scenari complessi di contrasto a minacce
CBRN, simulando interventi in contesti civili e militari ad alta criticità”,
riporta lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano. “Black Poison 2025 rappresenta
una tappa fondamentale per il mantenimento della prontezza della CJ-CBRND-TF
contro minacce asimmetriche e non convenzionali. Il suo obiettivo è stato quello
di testare l’interoperabilità tra le forze alleate e la gestione integrata delle
emergenze in ambienti contaminati o potenzialmente contaminati da agenti
chimici-biologici-radiologici-nucleari. Durante l’esercitazione sono state
simulate attività di ricognizione, identificazione, campionamento,
decontaminazione e gestione di scenari di crisi conseguenti all’impiego o alla
dispersione di agenti o sostanze CBRN”.
I giochi di guerra in un’ampia area del territorio laziale, sempre secondo i
vertici dell’Esercito, si inseriscono nel “più ampio contesto delle iniziative
NATO volte al rafforzamento delle capacità di deterrenza e difesa contro le
minacce CBRN, confermando ancora una volta il ruolo centrale dell’Italia e del
7° Reggimento difesa di Civitavecchia come punto di riferimento nel panorama
internazionale della difesa specialistica”.
Sempre in diverse aree addestrative e poligoni del Lazio si era tenuta nel marzo
2024 un’altra esercitazione di simulazione di guerra
nucleare-chimica-batteriologica, denominata allora “White Poison”. “Essa è stata
finalizzata a testare la capacità degli assetti specialistici nel contrastare
eventi non convenzionali in contesti operativi diversificati, al fine di
garantire un’adeguata e rapida risposta alla crescente complessità della
minaccia Chimica, Biologica, Radiologica e Nucleare”, ammetteva candidamente lo
Stato Maggiore dell’Esercito.
“White Poison 2024” è stata pure l’occasione di testare la prontezza operativa
dei militari appartenenti al 7° Reggimento difesa CBRN “Cremona” in vista
dell’assunzione del Comando della NATO Combined Joint CBRN Defence Task
Force (CJ-CBRND-TF), assetto multinazionale e interforze ad elevata prontezza,
designato in ambito alleato per “rispondere rapidamente in situazioni di crisi e
alle nuove sfide globali nel settore della difesa CBRN”.
La task force è stata attivata per la prima volta nel marzo 2022 in risposta
dell’invasione russa dell’Ucraina per “affrontare la sua pericolosa retorica
sulle armi nucleari, chimiche e biologiche”, così come riportato dal Comando
generale della NATO. “La Combined Joint CBRN Defence Task Force supporta oggi
gli sforzi dell’Alleanza per prevenire e contrastare gli attacchi con armi di
distruzione di massa o eventi CBRN”. L’unità specializzata conta attualmente su
un battaglione multinazionale addestrato ed equipaggiato specificatamente per
fronteggiare incidenti CBRN o attacchi contro i territori e le forze NATO. “Il
battaglione si addestra non solo per i conflitti armati, ma anche per
intervenire in caso di crisi, a supporto delle autorità civili, così come in
caso di disastri naturali e incidenti a complessi industriali”, spiegano i
vertici dell’Alleanza. La task force opera sotto l’autorità del Comando Supremo
Alleato in Europa (SACEUR) con quartier generale a Mons (Belgio), da sempre
guidato da un generale delle forze armate degli Stati Uniti d’America.
Il 7° Reggimento difesa Nucleare, Biologica e Chimica “Cremona” è stato
costituito il 31 dicembre 1998 a Civitavecchia. Il suo personale è stato
impiegato in alcune missioni internazionali, specialmente in Bosnia Erzegovina,
Kosovo, Albania, Macedonia del Nord, Afghanistan e Iraq.
A Civitavecchia, presso il comprensorio militare di Santa Lucia, è presente un
altro ente dell’Esercito specializzato nel settore delle armi di distruzione di
massa, il Centro Logistico Interforze per la Difesa NBC, anch’esso partecipante
alle esercitazioni “White Poison 2024” e “Black Poison 2025”. Il Centro si
occupa principalmente di sperimentazione e ricerca nel settore nucleare, chimico
e biologico e di sviluppo, produzione, approvvigionamento e collaudo di
materiali destinati alla difesa NBC. “Il CETLI in particolare svolge attività di
studio, verifiche ed applicazioni di carattere militare nel settore CBRN;
fornisce concorso nell’approvvigionamento di materiali e mezzi di rilevazione,
protezione e bonifica CBRN per le esigenze delle Forze Armate ed esegue la
riparazione, il mantenimento, il controllo di efficienza e le indagini tecniche
sui materiali CBRN in uso alla Difesa”, spiega lo Stato Maggiore dell’Esercito.
E che non si dica che il bel paese non si stia preparando alla guerra con
l’impiego delle armi di distruzione di massa…
Articolo pubblicato in Pagine Esteri il 30 giugno 2025,
https://pagineesteri.it/2025/06/30/in-evidenza/in-italia-le-prove-nato-di-guerra-nucleare-chimica-e-batteriologica/
Una lezione di falsa democrazia che la falsa opposizione non ha inteso
contrapporre con una narrazione “altra”, in quanto essa è pienamente condivisa
in nome del realismo militarista tanto in voga nell’Unione europea fortezza di
guerra. “I nostri alleati USA non hanno utilizzato le basi militari in Italia né
ci hanno chiesto di poterlo fare in futuro. Se dovessero richiederlo, sarà il
Parlamento ad autorizzarlo”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni nelle ore
successive ai bombardamenti dei presunti siti nucleari iraniani, la notte del
solstizio d’estate 2025.
Del tutto falso che le forze armate USA non abbiano utilizzato per le loro
scorribande in territorio iraniano le maggiori infrastrutture logistiche e le
installazioni militari ospitate in territorio italiano. Dalla base di Camp Darby
e dal porto di Livorno in Toscana sono stati inviati sistemi d’arma e munizioni
alle truppe USA in Medio Oriente; i cacciabombardieri F-16 di US Air Force sono
stati trasferiti dalla base di Aviano (Pordenone) al Golfo Persico; i grandi
aerei cisterna, dopo essere decollati anch’essi da Aviano, hanno rifornito in
volo i bombardieri strategici B-2 da cui sono state lanciate le superbombe
contro i laboratori sotterranei iraniani; il comando della Marina Militare USA
per l’Europa e l’Africa di stanza a Napoli Capodichino ha diretto e coordinato
tutte le operazioni delle unità navali presenti nel Mediterraneo orientale e nel
Mar Rosso per offrire ad Israele una “copertura” anti-Teheran; lo stesso comando
ha pianificato il lancio di un gran numero di missili da crociera Tomahawak
contro l’Iran dal sottomarino nucleare “USS Georgia” di US Navy; gli aerei con e
senza pilota decollati dalla base siciliana di Sigonella, prima, durante e dopo
la notte del 21 giugno, hanno condotto innumerevoli attività di intelligence e
riconoscimento dei “target” iraniani; sullo spazio aereo della Sicilia – in
rotta tra Trapani e Catania, sono transitati i caccia F-22 “Raptor” che hanno
scortato i B-2 nella loro missione di morte e distruzione. Altro che
“estraneità” italiana alla guerra scatenata da Netanyahu e Trump contro Teheran…
Ma ciò che più dovrebbe indignare le donne e gli uomini di questo Paese è
l’assoluta ignoranza bipartisan dei più elementari principi del diritto
internazionale e della Costituzione italiana. Non ci può essere infatti
Parlamento in Italia, che a maggioranza o perfino all’unanimità, possa
legittimare una violazione così ignobile di norme e valori come quella della
trasformazione di porzioni del territorio in piattaforme avanzate per aggredire
e colpire un paese sovrano e assassinare donne e bambini. Ma nessuno, proprio
nessuno (elettroencefalogramma piatto quello di giuristi, intellettuali, forze
politiche e sociali, senatori e deputati di centrodestra e centrosinistra) ha
avuto l’ardire di scriverlo e ricordarlo.
Peccato davvero. Invece di invocare che le basi “italiane” non siano messe a
disposizione dei fedeli alleati belligeranti (penso in particolare a certi
pacifinti del Pd), avrebbero fatto meglio – loro che al governo ci sono stati
per anni “autorizzando” strike in Iraq, Afghanistan, Balcani, Libia, ecc. ecc. –
a riconoscere che caserme, scali aeroportuali e porti sono stati pensati per
fare la guerra e se pertanto esistono è in guerra che devono andare. L’unico
modo per “renderli innocui” e “pacifici” è quello di smantellarli subito, senza
se e senza ma, indipendentemente che operino con gli stendardi tricolore o a
stelle e strisce.
In quanto poi all’auspicio che sia comunque interdetto l’impiego “bellico” delle
nostre basi da parte dei partner NATO, ci sarebbe proprio da ridere (di rabbia)
se non ci trovassimo di fronte al lago di sangue da esse prodotto in mezzo
pianeta. C’ da chiedersi infatti in che modo il migliore degli esecutivi
innamorati dell’art. 11 della Costituzione, quello dell’Italia che ripudia la
guerra, potrebbe impedire che da Ghedi, Sigonella, Aviano, Capodichino, Gioia
del Colle o Amendola, non decollino i caccia USA zeppi di testate nucleari
tattiche (le B-61-12 che con tanto ardore stocchiamo e difendiamo a casa nostra)
per sganciarle a Mosca, Teheran, Pyongyang o Pechino? Gli scaglierebbero per
caso addosso i militari italiani così come avvenne, una volta sola nella storia
repubblicana, durante la “lunga” notte di Sigonella, quella del 10 ottobre 1986?
Ok, facciamo finta di credere pure noi alle fiabe e che in uno scatto d’orgoglio
(o di follia), un generale italiano imponga ad un collega USA il rispetto pieno
degli accordi di cooperazione bilaterale (pacta sunt servenda…). Ma se assai
ipoteticamente possibile per un velivolo o una nave da guerra, come si potrà mai
impedire che gli ordini d’attacco o certe informazioni strategiche non siano
trasmessi dagli oltre quaranta comandi che le forze armate USA hanno disseminato
in Italia? E come facciamo ad evitare che non sia impiegato il terminale
terrestre del MUOS di Niscemi, il più moderno sistema di telecomunicazioni
satellitari della Marina USA, per dirigere e governare le missioni degli “utenti
mobili” (bombardieri, droni, portaerei, sottomarini missili nucleari e
convenzionali) del Pentagono? C’è davvero solo un unico modo perché non si
ripeta quanto accaduto la notte del solstizio anti-Iran, quando US Navy da
Capodichino ordinò - via terminali e satelliti MUOS - il lancio dei Cruise
contro Teheran: far decollare gli F-35 dell’Aeronautica Militare da Amendola e
bombardare tutte le antenne USA innalzate nella riserva naturale di Niscemi in
barba alla Costituzione e alle leggi che tutelano il territorio, l’ambiente e la
salute umana.
Una nuova stagione di mobilitazione e di lotta deve prendere il via in Sicilia
per chiedere l’immediato smantellamento di tutte le infrastrutture belliche
esistenti (Sigonella e il MUOS di Niscemi in testa), per smilitarizzare e
denuclearizzare l’Isola e trasformarla in un Ponte di pace, dialogo e
cooperazione tra i popoli del Mediterraneo. I Comitati No MUOS e No War si sono
dati un appuntamento che alla luce di quanto accaduto nelle settimane scorse
diventa più che mai importante. Sabato 2 agosto ci sarà un corteo tra i sentieri
che si snodano accanto alle reti con il filo spinato dell’apartheid israeliano
che “difendono” la base nella titolarità ed uso esclusivo delle forze armate
d’oltreoceano. “In contrada Ulmo a Niscemi, contro il MUOS e la guerra, fino
alla liberazione della terra”, scrivono le attiviste e gli attivisti del
Movimento. “L’unico modo che conosciamo per affrontare i tempi duri è questo:
lottare, rilanciare, scendere in piazza, ritornare insieme lì dove stiamo da
anni, davanti a quella base di morte, per ricordare che non vogliamo essere
complici con guerre e genocidi…”.
Articolo pubblicato in Le Siciliane Casablanca, n. 88, maggio-giugno 2025
Mercoledì 9 luglio sono stati monitorati alcuni atterraggi di velivoli militari
nell’aeroporto “civile” di Comiso (Ragusa), intitolato a Pio La Torre, il
segretario del PCI siciliano assassinato per il suo impegno contro la mafia, la
militarizzazione dell’Isola e l’installazione dei missili nucleari Cruise
proprio a Comiso.
Mentre ormai lo scalo civile sembra essere destinato alla chiusura si fanno
sempre più forti le pressioni per una sua conversione a fini bellici.
La scorsa settimana il ministro della difesa Guido Crosetto ha annunciato che la
Sicilia sarà trasformata in piattaforma addestrativa per i top gun USA e NATO
che utilizzano i cacciabombardieri di quinta generazione F-35 (a capacità
nucleare).
In tanti hanno pensato che sarà la stazione aeronavale di Sigonella a fare da
hub addestrativo per l’US Air Force; personalmente ritengo invece che le
autorità militari per tutta una serie di ragioni (anche logistico-operative)
opteranno per un’altra destinazione.
L’aeroporto di Comiso è un'”ottima opzione”, ma non scarterei anche la
possibilità che vengano utilizzati pure gli aeroporti militari di Trapani-Birgi
(già base NATO per le operazioni degli aerei radar AWACS) e Pantelleria (in
questo scalo in più esercitazioni sono atterrati i velivoli F-35 in dotazione
all’Aeronautica Militare italiana).
La lotta contro la militarizzazione della Sicilia – a partire dall’opposizione
alla riconversione a fini militari di Comiso – deve diventare l’obiettivo
prioritario di ogni soggetto sociale e politico che intenda richiamarsi
all’Utopia di Pio La Torre di una Sicilia Ponte di Pace e Cooperazione tra i
popoli del Mediterraneo.
Articolo pubblicato in Stampalibera.it il 10 luglio 2025,
https://www.stampalibera.it/2025/07/10/laeroporto-pio-la-torre-di-comiso-verso-la-riconversione-a-scalo-di-guerra-usa-nato/?fbclid=IwY2xjawLcxtBleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETBmWjlBYUUxUWlFZ2FvSnNuAR5QmkbkUqenAohpOAzI-CXxNXFnsXNWxfViPe8wwNlH0SqYAmoMVL9JZvdwtw_aem_x901abPCyhAJBoKXAP2eOw
Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non
scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti
ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni,
perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è
parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico
disponibile.
Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è
un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa
europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che
il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta
alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi
tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con
cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per
la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia
– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il
terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a
140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia
che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare
e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave
danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica.
L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8
luglio 2025.
Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di
Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha
affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal
commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici
“commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo
sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della
mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e
mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il
broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come
dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/).
Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due
opere faraoniche?
A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi
tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il
dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo
(https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in
particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova
non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con
stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato
i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a
un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei
può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare
due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere
facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative
in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato.
Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al
continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e
degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e
aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così
come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni.
Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far
tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di
euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di
“lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre
opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma
chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque,
prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di
euro.
I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza
nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più
presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata
dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il
progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o
2029.
Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera
entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e
logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal
progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano
quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri
pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il
commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo
registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da
Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il
merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo.
Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate,
con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge.
Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora
presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica,
quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un
incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di
passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge
denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è
arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di
un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti
internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha
origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori
industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto
governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di
autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso
civile.
Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali
a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF.
Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod,
quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più
ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui
probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti
crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali
internazionali –, è altissima.
Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni
container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati
caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è
regolarmente arrivata il 4 luglio.
Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler
interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che
il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo
internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che
controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container
Ravenna) Spa.
L’azionariato di SAPIR è così composto:
* 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di
Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi);
* 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, )
* 11,58% Camera di Commercio di Ferrara
* 10,46% Regione Emilia-Romagna
* tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%,
nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori.
Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il
porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste
entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare –
affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il
porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza.
Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente
citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie
relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello
del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze
internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da
oltre trent’anni.
Il territorio siciliano è particolarmente compromesso dalla presenza diffusa su
tutta l’isola di basi militari, punti da cui droni e aerei che partecipano negli
scenari di guerra attuali partono, transitano e vi stazionano. Non soltanto
Sigonella ma anche il Muos a Niscemi supportano le operazioni militari in Medio
Oriente. Questo sabato è stata dunque lanciata […]