STOP ISRAEL
Bussoleno - Salone Polivalente
(domenica, 28 settembre 17:30)
STOP ISRAEL
DOMENICA 28 SETTEMBRE 2025
SALONE POLIVALENTE, VIA WALTER FONTAN 103, BUSSOLENO, VALSUSA (TO)
DALLE ORE 17:30
BDS Italia presenta: Boicottare Israele. Azioni concrete per fermare il
genocidio in Palestina, edizioni L’Indipendente, 2025. Il sistema di apartheid e
genocidio si nutre di radici economiche che sono tutt’intorno a noi.
Boicottaggio, Disinventismento, Sanzioni: una guida concreta per fermare
l’orrore. A cura del nodo BDS di Pinerolo.
Sabotiamo la guerra, blocchiamo le armi. La lotta dei portuali di Genova per
impedire le forniture militari a Israele, per sabotare concretamente l’economia
della guerra, per rompere l’assedio di Gaza, per non essere complici… Con un
lavoratore del porto di Genova.
Dalla resistenza in Cisgiordania alle carceri in Italia. Solidarietà ad Anan,
Alì, Mansour, palestinesi incarcerati dallo Stato italiano con l’accusa di
“terrorismo” per aver lottato contro l’occupazione coloniale. A cura di Complici
e solidali + Testimonianze dalla Cisgiordania
Banchetti con libri e materiali informativi
Mostra fotografica dalla Cisgiordania occupata
ORE 20:00 – BUFFET BENEFIT
DALLE ORE 21:00
Documentario Colpevoli di Palestina, del Comitato Free Anan, 2025. In occasione
delle ultime decisive udienze, un racconto della vicenda giudiziaria di Anan,
Ali e Mansour e della criminalizzazione della resistenza del popolo palestinese
contro l'occupazione militare.
Film Portuali, regia di Perla Sardella, 2025. L’esempio dei portuali di Genova
ci parla: bloccare la filiera della guerra a partire dai luoghi di lavoro. Gli
scioperi contro le navi delle armi, ma anche la sicurezza sul posto di lavoro,
l’antimilitarismo, la solidarietà e il dialogo con gli altri portuali del
Mediterraneo.
QUANDO BOICOTTAGGIO E DISINVESTIMENTO LASCIANO IL SEGNO
La decisione del fondo sovrano norvegese NBIM di disinvestire da Caterpillar
Inc. e da cinque banche israeliane ha una portata storica.
Il Fondo governativo della Norvegia è il più grande fondo d’investimento al
mondo, gestisce circa 2.000 miliardi di dollari. Il suo comitato etico ha
valutato come «rischio inaccettabile che [Caterpillar e le banche israeliane,
NdR] contribuiscano a gravi violazioni dei diritti degli individui in situazioni
di guerra e conflitto».
La decisione, che accomuna Caterpillar e le banche israeliane che finanziano gli
insediamenti illegali in Cisgiordania, indica per la prima volta la
corresponsabilità di un’azienda simbolo dell’industria americana con i crimini
che si stanno commettendo in Palestina.
Caterpillar Inc. è una mega azienda globale, oggi al 65° posto della classifica
di Fortune 500, con 113.000 dipendenti e 64,8 miliardi di dollari di fatturato.
È una public company inserita nel prestigioso Indice Dow Jones alla Borsa di New
York, i cui principali azionisti sono grandi fondi d’investimento come Vanguard,
State Streets e BlackRock, ma anche Melinda & Bill Gates ecc.
L’impiego militare dei grandi bulldozers americani iniziò con la Prima guerra
mondiale, per il traino dei pezzi d’artiglieria mediante trattori cingolati. Il
modello pesante D9, introdotto da Caterpillar nel 1954, ha fatto le sue prove
nella guerra del Vietnam ed è stato poi adottato dall’esercito israeliano nella
guerra di Suez (1956). Dagli anni Ottanta le IDF utilizzano sulla linea del
fronte i Caterpillar D9, modificati mediante un kit di blindatura e armamento
progettato dal Centro di recupero e manutenzione dell’esercito e da IAI Israeli
Aerospace Industries, installato sulle macchine con la collaborazione di ITE, la
società importatrice in esclusiva di Caterpillar in Israele appartenente al
gruppo Zoko.
Come abbiamo scritto in un precedente articolo, una filiale americana di
Leonardo (DRS Sustainment Systems) sta fornendo i triler a due assi che
trasportano i carri armati e i bulldozer utilizzati a Gaza dai militari
israeliani.
Caterpillar non può ignorare l’utilizzazione che ne fa l’esercito israeliano per
demolire illegalmente abitazioni e coltivazioni palestinesi, distruggere strade
e infrastrutture urbane. Nel 1989, questi reati vennero pubblicamente denunciati
da alcune ong, le stesse che nel 2001 spedirono oltre 50.000 lettere di protesta
a Caterpillar. Nel 2004 l’Alto commissario ai Diritti umani dell’ONU inviò una
lettera ufficiale alla società, anche in seguito alla vasta risonanza della
morte della ventitreenne attivista americana Rachel Corrie, schiacciata da un
bulldozer Caterpillar mentre tentava di impedire la demolizione di un’abitazione
palestinese. Quel tragico episodio ebbe anche conseguenze legali, poiché dopo
aver inutilmente intentato una causa in Israele contro l’esercito israeliano –
subito archiviata per «grave responsabilità» della stessa vittima – la famiglia
Corrie ne sollevò un’altra negli Stati Uniti contro il governo americano,
accusato di aver favorito crimini di guerra e la violazione dei diritti umani,
dal momento che i macchinari di Caterpillar erano e sono tuttora forniti a
Israele mediante il programma Foreign Military Sales, sovvenzionato con i soldi
dei contribuenti americani. Da decenni Caterpillar è inserita negli elenchi
delle aziende che traggono profitti dall’occupazione illegale israeliana dei
Territori palestinesi, stilati dalla Coalition of Women for Peace (vedi Who
Profits?) e dall’American Friends Service Committee.
Nel novembre 2024 la stessa amministrazione Biden in scadenza aveva deciso una
temporanea sospensione della consegna di 134 Caterpillar D9 ordinati “con
urgenza” da Israele nel 2023, compresi pezzi di ricambio, manutenzione e
addestramento. Una misura che per quanto assai timida è stata immediatamente
abolita dal presidente Trump appena insediatosi, nel gennaio 2025.
I CAT D9 sono stati consegnati nel porto di Haifa in 9 luglio scorso, con
un’operazione di logistica marittima curata dal Ministero della difesa
israeliano e dalla rappresentanza israeliana per il procurement militare di
stanza a Washington, che includeva anche la consegna di alcuni mezzi militari
leggeri. Il Ministero stesso ha diffuso le immagini dello scaricamento a Haifa,
e i media israeliani hanno ampiamente ripreso l’evento come prova della
ristabilita alleanza di ferro con gli Stati Uniti sotto la presidenza Trump.
A sx: operazioni di sbarco dei Caterpillar D9 dalla nave «SLNC Severn» nel porto
di Haifa, il 9 luglio 2025.
Sopra: la sistemazione dei bulldozer di Caterpillar nella stiva della
portarinfuse «SLNC Severn» [fonte: Ministero della difesa di Israele, ripreso
dal «Jerusalem Post» del 9.7.2025
L’intento propagandistico è stato però temperato da una serie di “oscuramenti”:
le immagini riprendono i mezzi sbarcati ma i militari hanno offuscato il nome
della nave e della compagnia marittima dipinto sulle fiancate, nonché le insegne
commerciali sulle motrici degli autoarticolati che hanno preso in carico i
Caterpillar sulla banchina portuale.
L’osservatorio Weapon Watch è riuscito a ricostruire gran parte della catena
logistica che ha rifornito a Israele i Caterpillar D9, macchinari dual use
intensamente utilizzati dai militari per compiere una vasta e documentatissima
serie di crimini di guerra.
Per il trasporto dagli Stati Uniti, solitamente i grandi bulldozer D9 viaggiano
in parte o del tutto disassemblati, in ogni caso privi degli accessori pesanti
(pale, bracci oleopneumatici, cabine ecc.), e anche nel caso in esame la
consegna è stata effettuata senza accessori, dalla nave al mezzo gommato
mediante gru portuale. Invece la nave utilizzata per l’operazione era di
tipologia inusuale, una portarinfuse con bandiera USA, nome «SLNC Severn», un
tipo di nave solitamente impiegato per trasportare le cosiddette “rinfuse
secche” (come minerali, carbone, cereali, cemento, ecc.). Nelle quattro stive
coperte della «Severn» – al riparo da sguardi indiscreti – sono state ospitate
dozzine di D9. Ciascuna macchina è stata caricata e scaricata mediante le grandi
gru a portale.
La «SLNC Severn» è una delle sette navi della compagnia Schuyler Line Navigation
Company, con sede a Annapolis, Maryland, tutte battenti bandiera americana per
poter operare sotto l’ombrello del Jones Act, la legge fondamentale per la
supremazia marittima degli Stati Uniti.
Da fine maggio la «Severn» è noleggiata per trasportare i D9, il 2 giugno viene
fotografata mentre carica una ventina di bulldozer al terminal Holt Logistics di
Gloucester City, New Jersey, che si trova nel grande comprensorio portuale di
Filadelfia, Pennsylvania. A fine giugno ha intrapreso il viaggio senza scali
intermedi per arrivare ad Ashdod il 7 luglio e il 9 a Haifa.
La «SLNC Severn» al terminal Holt Logistics di Gloucester City, NJ; fotografata
il 2 giugno 2025.
Nell’ovale rosso, una ventina di Caterpillar D9 sulla banchina pronti
all’imbarco. Fonte: Marine Traffic.
È pressochè certo che la «Severn» sia tuttora al servizio della logistica
militare USA a sostegno di Israele, con rotte pendolari tra costa orientale
statunitense e Israele. Secondo «The Ditch», il 7 agosto la nave ha caricato nel
porto di Paulsboro (sempre nell’area di Filadelfia, dove si trova un altro
terminal di Holt) 374 tonnellate di bombe, del tipo da 2000 libbre, anch’esse
bloccate in precedenza dall’amministrazione Biden. Da notare che la «Severn» ha
recentemente fatto scalo a Souda Bay, Creta, una delle maggiori basi aeronavali
americane nel Mediterraneo, dove in passato è stata vista movimentare merci con
le gru di bordo.
La compagnia di navigazione Schuyler è stata acquisita nell’agosto 2024 da JP
Morgan Chase, una delle quattro più importanti banche americane, con l’intento
dichiarato di rafforzare i programmi marittimi governativi e «restore America’s
maritime dominance», secondo le parole del presidente Trump. Nell’ultimo anno
alla flotta di Schuyler si sono aggiunte anche una petroliera da 50.000
tonnellate e una nave per carichi fuori norma, rafforzando ulteriormente la già
notevole presenza di JP Morgan nel settore marittimo.
L’attesa per un aumento dei noli e dei programmi governativi sostenuti dal clima
bellico è infatti molto diffusa tra gli operatori. Non a caso la propaganda
militare israeliana ha enfatizzato la portata dell’operazione logistica in corso
dal 7 ottobre 2023 come la più grande nella storia di Israele, con 100.000
tonnellate di materiale militare movimentato attraverso 870 voli e 144 trasporti
marittimi.
La “complicità logistica” di molti governi ed operatori è decisiva per compiere
i crimini contro l’umanità e le violazioni degli accordi internazionali in
vigore. Per riportare nella legalità gli operatori e spingere i governi verso
una ricostruzione dell’ordine internazionale basato sulla diplomazia e il
disarmo, le vie principali e più incisive si dimostrano il boicottaggio delle
catene logistiche militarizzate e nel disinvestimento finanziario da chi produce
strumenti di guerra e distruzione.
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Due porti italiani sono stati nelle ultime settimane al centro dell’attenzione
di Weapon Watch: i porti di Genova e di Ravenna.
A Genova lo sciopero proclamato per non caricare un cannone navale OTO
Melara-Leonardo su una “nave della morte” saudita ha di fatto avuto successo,
anzi ha fatto capire che sul traffico di armi la concorrenza infra-sindacale si
può stemperare. È anche questo un segno dei tempi sempre più foschi, e della
generale percezione che se ne ha a Genova. Ulteriore prova è lo straordinario
successo della raccolta degli aiuti affidati alla Global Flottilla Sumud, a cui
hanno espresso vicinanza anche la sindaca Silvia Salis e l’arcivescovo mons.
Tasca. A questo diverso clima sembra riferirsi la magistratura genovese, che ha
aperto un fascicolo per accertare la legalità dei transiti di armi sulle navi
saudite: intervento che Weapon Watch aveva richiesto già cinque anni fa, e che
oggi rischia di essere inadeguato rispetto alla dimensione dei movimenti di armi
in porto in violazione alla legge 185.
A Genova, nell’aprile 2022.
A Ravenna sono venuti alla luce alcuni casi di palese violazione di leggi e
trattati internazionali, in gran parte relativi ad armi e affari in complicità
con l’apparato industrial-militare di Israele. Abbiamo riferito, in un recente
articolo intitolato “Ravenna crocevia dei traffici di armi per Israele?”, delle
indagini condotte dalla magistratura ravennate, ma con l’ultimo articolo di
Linda Maggiori, pubblicato da il manifesto il 2 settembre scorso, [lo trovate
anche nella nostra rassegna stampa] il punto interrogativo va tolto. Ravenna è
senza dubbio un porto vitale nella possente corrente di forniture militari che
si convoglia nell’Adriatico da tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e si
dirige verso Israele. E con Ravenna lo sono anche Trieste, Capodistria e
Venezia-Marghera: è qui che si forma la supply chain diretta a Haifa e Ashdod,
una rotta percorsa con regolarità da almeno due navi che hanno attirato
l’attenzione degli attivisti locali, «ZIM New Zealand» e «Contship Era».
I casi emersi a Genova e Ravenna rivelano una grave asimmetria tra ciò che
vedono e denunciano i lavoratori dei porti e degli aeroporti italiani – cioè la
vistosissima crescita del traffico di armi, e la grave carenza dei controlli
preventivi – e il ruolo inerte delle autorità, a partire da quelle di sistema
portuale, di fronte a quelle denunce. Mentre il quadro internazionale sta
assumendo tinte drammatiche, non possono più valere gli escamotages, il rimpallo
sulle competenze che porta al mutismo informativo, ultima spiaggia di chi non
vuole assumersi le proprie responsabilità. Nel caso citato oggi su il manifesto,
l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli locale ha avanzato ragioni di
“riservatezza” per non rivelare la destinazione finale di ciò che non poteva
essere autorizzato al transito ma che è comunque transitato dal porto di
Ravenna: una spedizione di armi autorizzata dalla Repubblica ceca verso un paese
extra-UE (Israele), per giunta coinvolto nel peggior massacro di popolazioni
civili a cui l’umanità assiste via social, doveva essere fermata in ottemperanza
alle stesse disposizioni governative in vigore dal 7 ottobre 2023.
Nella loro lucidità, i portuali genovesi hanno avanzato una proposta intesa a
non far peggiorare il clima nel primo porto italiano, e a ristabilire un nesso
tra il funzionamento del porto stesso come piattaforma del commercio
internazionale e la cornice “aperta” entro cui Genova vuole svolgere questo
ruolo, di pace, fratellanza e solidarietà, e non di guerra, deportazione e
affamamento.
Per rendere almeno accettabile il livello delle informazioni che devono essere
garantite ai lavoratori nel caso del commercio degli armamenti, è indispensabile
la trasparenza sulla natura delle merci e la loro destinazione finale, come del
resto è scritto nella lettera stessa della Legge 185 del 1990. Destinatario di
queste informazioni, che sono certamente nella disponibilità di tutte le
autorità coinvolte in un trasferimento internazionale di armi (AdSP, Guardia
Costiera, Prefetture), potrebbe essere un “osservatorio permanente” a cui far
partecipare i delegati delle autorità insieme a quelli dei lavoratori, da
riunirsi periodicamente e in via preventiva, cioè in vista di un arrivo di navi
con carichi militari e soprattutto di munizioni ed esplosivi.
Crediamo che una ragionevole circolazione di informazioni, anche su un tema così
delicato, possa contribuire a ridurre la tensione sulle banchine, e nello stesso
tempo a togliere ad autorità e governi l’illusione che bastino opacità e
segretezza per evitare di rispondere di una complicità di fatto, quale oggi si
sta prefigurando, tra gli autori di un genocidio e chi ha fornito loro i mezzi
per compierlo.
La militarizzazione dello spazio passa ancora una volta dagli accordi di
collaborazione tra le aziende italiane e quelle israeliane. Martedì 26 agosto
dalla Space Force Base di Vanderberg è stato lanciato a bordo di un missile
SpaceX Falcon 9 il satellite NAOS (National Advanced Optical System) destinato
all’osservazione terrestre della direzione Difesa del governo del Lussemburgo.
Il satellite NAOS è stato progettato e realizzato da OHB Italia S.p.A., società
che opera nel settore aerospaziale con sede centrale a Milano e filiali a Roma e
Benevento. Le telecamere multispettrali “Jupiter” ad alta risoluzione in
dotazione al NAOS sono state prodotte però da Elbit Systems Ltd., gruppo leader
del complesso militare-industriale di Israele (quartier generale ad Haifa).
“Le Jupiter sono tra le telecamere spaziali più avanzate al mondo e
costituiscono un avanzamento significativo nelle capacità di osservazione della
Terra”, ha riportato l’ufficio stampa di Elbit Systems dopo il lancio del
satellite italiano. “Oggi prende il via la missione a supporto di un ampio
raggio di applicazioni, incluse le operazioni militari, il monitoraggio
ambientale e la ricerca scientifica, con un’efficiente copertura di grandi aree
geografiche”.
Oltre alle telecamere multispettrali, il gruppo israeliano ha anche sviluppato
gli algoritmi per il segmento terrestre del NAOS, oltre a potenziarne le
capacità di analisi delle immagini raccolte dal satellite. “Il successo del
lancio di Jupiter riflette la stretta collaborazione tra OHB Italia ed Elbit
Systems, combinando l’ingegneria satellitare all’avanguardia con la tecnologia
di imaging di alto livello per fornire uno dei velivoli spaziali con le migliori
performance nel campo dei sistemi ottici attualmente operativi”, aggiungono i
manager della società israeliana che ha già conseguito nel corso del primo
semestre 2025 commesse per svariati miliardi di dollari nel mercato
internazionale. (1)
Fondata nel 1981 (al tempo CGS - Carlo Gavazzi Space), OHB Italia S.p.A. è una
società parte del Gruppo spaziale OHB SE, con sede a Brema, Germania, uno delle
tre maggiori realtà spaziali in Europa con 3.000 dipendenti e un fatturato
totale di 1.183 milioni di euro nel 2023. Con prevalente attività nella
progettazione e realizzazione di tecnologie spaziali, sorveglianza ed
osservazione terrestre, sistemi satellitari e telematici, la controllata
italiana conta su uno staff di 265 dipendenti e lo scorso anno ha avuto un giro
di affari di 408 milioni di euro con ricavi per 142 milioni.
“Con oltre 60 satelliti, payload e strumenti lanciati o attualmente in orbita,
OHB Italia S.p.A. è attualmente prime contractor per importanti missioni
dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che
sono i suoi principali clienti insieme a Istituti di Ricerca, Università e tutti
i principali attori industriali del mercato spaziale, con particolare attenzione
al settore dell’export”, riporta il sito internet aziendale. Amministratore
delegato è l’ingegnere aeronautico Roberto Aceti, già manager di Aermacchi
(società realizzatrice di caccia militari di Leonardo S.p.A., ex Finmeccanica);
direttori responsabili di OHB Italia, Giovanni Prandini e Paolo Lorenzi.
La partnership dell’azienda spaziale italiana con il complesso
militare-industriale dello Stato di Israele non è legata solo allo sviluppo del
satellite NAOS. OHB Italia è stata responsabile del contratto di lancio del
satellite OPTSAT-3000 e di tutte le attività di ingegneria associate, l’1 agosto
2017, dallo spazioporto di Kourou, in Guyana francese. Il programma OPTSAT-3000
per l’osservazione della Terra è stato promosso dal ministero della Difesa
italiano e ha compreso la realizzazione di un satellite ad alta risoluzione
ottica e di un segmento terrestre per il controllo orbitale, la pianificazione
delle missioni e il processamento delle immagini.
La principale azienda contraente del sistema OPTSAT-3000 è stata Telespazio
(controllata da Leonardo per il 67% e dalla francese Thales per il 33%), mentre
il satellite e i sistemi di controllo terrestre sono stati realizzati dalle
Israel Aerospace Industries (IAI), il maggiore gruppo aerospaziale militare e
missilistico israeliano, nell’ambito di un accordo di cooperazione
internazionale tra Italia e Israele. (2)
Oggi il sistema satellitare è posto sotto il controllo di tre centri operativi
dell’Aeronautica Militare: il Centro Interforze di Telerilevamento Satellitare
(CITS) di Pratica di Mare (Roma), il Centro Interforze di Gestione e Controllo
SICRAL (CIGC SICRAL) di Vigna di Valle (Roma) e il Centro Spaziale del Fucino
(L’Aquila) di Telespazio.
Nell’ottobre 2021 la start-up israeliana Helios con sede a Tzur Yigal, creata
nel 2018 con fondi dell’Agenzia Spaziale e del ministero dell’Energia di
Israele, ha reso noto di aver firmato un accordo con la società madre OHB SE per
promuovere la ricerca sulla produzione di ossigeno “in condizioni di non
gravità” a bordo della stazione lunare europea LSAS (Lunar Surface Access
Service). La nuova stazione è stata realizzata a partire dal design della
navicella lunare “Beresheet”, co-sviluppata dall’organizzazione privata
israeliana SpaceIL di Tel Aviv e dalle Israel Aerospace Industries (IAI). Nel
2019 “Beresheet” era stata inviata sulla luna, ma si era schiantata al suolo a
seguito di un incidente alle apparecchiature di bordo.
Stando all’accordo, il gruppo tedesco-italiano OHB gestirà e coordinerà il
progetto LSAS, selezionando le apparecchiature e la loro integrazione a bordo
della navicella lunare, mentre l’israeliana Helios fornirà le tecnologie di volo
e quelle relative alla produzione dell’ossigeno necessario all’alimentazione
energetica dal suolo lunare. IAI ed OHB si sono pure impegnate a sviluppare il
sistema LSAS a fini commerciali internazionali. (3)
Note
1)
https://www.elbitsystems.com/news/elbit-systems-jupiter-space-camera-successfully-launched-aboard-naos-satellite-collaboration
2) https://www.ohb-italia.it/successful-launch-of-optsat-3000-satellite/
3)
https://www.timesofisrael.com/israels-helios-to-deliver-space-tech-to-moon-aboard-european-lunar-lander/
Articolo pubblicato in Pagine Esteri il 29 agosto 2025,
https://pagineesteri.it/2025/08/29/mondo/partnership-nello-spazio-tra-litalia-e-lindustria-militare-israeliana/
Intorno a ReArm Europe e all’euforia dei mercati finanziari, impegnati a
investire una montagna di soldi nei titoli di borsa delle principali industrie
militari europee, è molto forte il rischio di un “abbaglio” sulle aspettative in
termini di ricadute occupazionali.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso è arrivato a
prospettare per le aziende della filiera dell’automotive incentivi per
riconvertirsi verso il settore aerospaziale e della difesa, mentre il suo
Governo – con la Legge di Bilancio 2025 – trasferiva 4,9 miliardi di euro dal
fondo per la transizione ecologica e sociale dell’automotive all’aumento delle
spese militari.
SPETTRO DELLA GUERRA
Non è semplice per qualsiasi governo far digerire l’aumento delle spese militari
a un’opinione pubblica cosciente dei corrispettivi tagli a sanità, istruzione,
welfare. Evocare lo spettro della guerra con la Russia, evidentemente non basta.
In questo caso è meglio giocarsi la carta delle ricadute industriali e
occupazionali. Non è la prima volta che succede.
Ricordate, ad esempio, i diecimila nuovi posti di lavoro “messi sul piatto” nel
2006 dal Capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare, Leonardo Tricarico e
dal sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri (governo Prodi) se avessimo
acquistato i caccia-bombardieri F-35 della Lockeed Martin? A distanza di 20 anni
possiamo verificare quanto fosse una fakenews, per condizionare il dibattito
pubblico.
L’articolo di Gianni Alioti uscito su «il manifesto» il 31.5.2013.
Ma penso sia sbagliato liquidare con una semplice battuta i risvolti che
l’economia di guerra ha sul sistema industriale europeo e sul lavoro. Meglio
procedere secondo un rigore logico. È vero, come sostengono alcuni, che la corsa
agli armamenti può salvare l’economia europea? E rilanciare l’occupazione
industriale?
ANALISI DELLA REALTÀ
A queste domande cercherò di rispondere non in base alle mie convinzioni etiche
e politiche, ma attraverso l’analisi della realtà e dei dati (a consuntivo)
inerenti sia all’andamento delle spese militari, sia alla dimensione
dell’industria aerospaziale e della difesa in Europa.
I dati ufficiali del Consiglio Europeo1 ci dicono che dal 2014 al 2024 nei paesi
UE le spese militari sono più che raddoppiate a prezzi costanti (+121%). Sono
passate da 147 a 326 miliardi di euro.
All’interno delle spese militari, quelle specifiche per armamenti e
ricerca-sviluppo sono addirittura quadruplicate (+325%). Se consideriamo non i
Paesi UE, ma i Paesi europei della NATO le spese militari nel 2024 sono state di
più: 440 invece di 326 miliardi di euro. La crescita negli ultimi dieci anni
registra una tendenza simile.
TENDENZE DEL SETTORE
Secondo il rapporto pubblicato a novembre 2024 da ASD, European Aerospace,
Security and Defence Industries che riguarda i 27 Paesi UE + Norvegia, Regno
Unito e Turchia, a fine 2023 gli occupati totali diretti nell’industria
aerospaziale e della difesa in Europa risultano, un milione e 27 mila, di cui
518 mila relativi al militare (vedi il Grafico 1).
Il fatturato complessivo nel 2023 è stato di 290,4 miliardi di euro, di cui il
55 per cento nel militare. Partire dai dati forniti da ASD ha il vantaggio
dell’attendibilità e della continuità nel tempo, consentendo analisi e
valutazioni di natura strutturale sulle tendenze del settore.
Possiamo, infatti, analizzare cosa è successo in termini di fatturato e
occupazione nello stesso arco di tempo di dieci anni (2014-2023) nel quale le
spese militari sono cresciute del 90 per cento.
CRESCITA DEL 65 PER CENTO
I ricavi nel militare nell’intera industria del settore in Europa sono cresciuti
del 65 per cento, mentre l’occupazione è aumentata del 26 per cento da 407 mila
e 800 a 518 mila addetti.
La stessa dinamica occupazionale trova riscontro da una mia elaborazione sui
bilanci aziendali di 10 tra le principali big dell’industria aerospaziale e
della difesa europea2 per fatturato militare. Dal 2015 al 2024 il numero dei
loro occupati (nel civile e militare) è cresciuto in media del 23% (vedi il
Grafico 2).
Sulla base dei trend occupazionali registrati a consuntivo negli ultimi dieci
anni, possiamo azzardare alcune stime sull’incremento dei posti di lavoro
diretti e indiretti nell’industria della difesa in Europa nel prossimo periodo
2025-2035, prendendo a riferimento le previsioni di aumento delle spese militari
decise in ambito NATO.
Nel vertice di giugno all’Aia è stato deciso che i Paesi europei dell’Alleanza
Atlantica debbano arrivare, entro il 2035, a spendere un più 1,5 per cento in un
ambito ancora vago di “sicurezza allargata” e a raggiungere entro il 2035 una
spesa specifica in campo militare almeno del 3,5 per cento del loro PIL.
Le spese militari complessive passerebbero, quindi, da 440 a 969 miliardi di
euro l’anno. Un incremento pari al 120 per cento, una percentuale simile a
quella registrata nel periodo 2014-2024.
Pertanto, in base a quanto già successo negli ultimi dieci anni, possiamo
ipotizzare realisticamente un aumento dei posti di lavoro in campo militare
nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa intorno al 25-30 per cento.
VALORE ASSOLUTO
In valore assoluto significa la creazione di 150-180 mila nuovi posti di lavoro
diretti. Calcolando l’impatto del settore nell’intera catena dei sub-fornitori
fino a quelli di terzo livello (circa 2 mila piccole-medie imprese secondo
l’ASD), possiamo stimare altri 120-170 mila nuovi posti di lavoro indiretti.
In tutto, quindi, un aumento previsto dell’occupazione da 270 a 350 mila unità.
Fatte le debite proporzioni, in Italia non si andrebbe oltre i 25-30 mila
occupati in più. Briciole in rapporto, ad esempio, ai posti di lavoro a rischio
nell’automotive.
Anche un recente rapporto di Ernst & Young (EY), uno dei principali network
mondiali di servizi professionali di consulenza, ha analizzato il potenziale
impatto economico dell’aumento della spesa militare europea, concentrandosi sul
settore manifatturiero dell’UE e sulla creazione di posti di lavoro.
SCENARI DIVERSI
Lo studio ha esplorato diversi scenari in cui i membri europei della NATO
aumentano la spesa per la difesa, in particolare per gli equipaggiamenti
militari (mediamente il 33 per cento delle spese militari nel 2024 rispetto al
14 per cento nel 2014), per rafforzare le proprie capacità difensive e ridurre
la dipendenza dagli Stati Uniti.
EY, nel suo rapporto, stima che se i membri europei della NATO aumentassero la
spesa annuale per gli equipaggiamenti militari di 65 miliardi di euro (passando
da 72 a 137 miliardi di euro), il conseguente aumento degli ordinativi per
l’industria della difesa europea, compresa la relativa catena di
approvvigionamento, ammonterebbe a 35,7 miliardi di euro e, secondo EY,
creerebbe forse 500 mila posti di lavoro in più.
Meno di un terzo dei 35,7 miliardi di euro aggiuntivi rientrerebbe
nell’industria militare europea in senso stretto; il resto ricadrebbe nella
catena di approvvigionamento. Ciò si traduce, comunque, nella creazione di circa
150 mila posti di lavoro diretti e aggiuntivi nell’industria militare europea.
Questa cifra coincide con quella contenuta anche in un nuovo rapporto di Bruegel
e Kiel Institute, due think tank (il primo europeo, il secondo tedesco)
specializzati in studi economici. Non solo, coincide anche con le mie previsioni
di 150-180 mila occupati diretti in più.
OCCUPATI INDIRETTI
Lo scarto tra le mie previsioni e quelle del rapporto di Ernst & Young riguarda
l’incremento di occupati indiretti nella catena dei sub-fornitori: 350 mila
contro 120-170 mila.
Il modello utilizzato da EY per calcolare l’aumento dei posti di lavoro in
relazione all’aumento delle spese per equipaggiamenti militari, è bottom-up.3
Al contrario, io ho utilizzato il coefficiente di moltiplicazione (1,02)
impiegato da ASD nel suo rapporto del 2022
https://www.asd-europe.org/news-media/publications/asd-reports-publications/economic-impact-report-2022/
tra occupati diretti e quelli indiretti occupati nell’intera catena dei
sub-fornitori fino a quelli di terzo livello.
MONTE SALARI DEI DIPENDENTI
Nel mio computo è esclusa la cosiddetta “occupazione indotta” dal riutilizzo
come spesa del monte salari dei dipendenti.
In ogni caso, anche se prendiamo per buona la previsione di EY dei 500 mila
posti di lavoro creati, è bene sapere che equivarrebbero a solo l’1,5 per cento
sul totale dei 33 milioni e centomila addetti nell’industria manifatturiera
europea (fonte Eurostat).
Pertanto, qualsiasi serio ragionamento sulle ricadute industriali e
occupazionali della corsa al riarmo non può prescindere dall’effettiva
dimensione economica e sociale del settore della difesa.
In Europa i ricavi nel militare dell’industria aerospaziale e difesa nel 2023
sono di 158,8 miliardi di euro. Solo lo 0,70 per cento del PIL dei 30 Paesi
europei considerati. Includendo anche i circa 80 miliardi di euro di impatto
economico indiretto il fatturato complessivo dell’industria militare non supera
l’1,1 pro cento del PIL, con un milione e 46 mila addetti tra diretti e
indiretti.
Una percentuale lontanissima dall’automotive, 3,7 per cento del PIL e 6 milioni
e 600 mila occupati solo nel manifatturiero. L’idea, quindi, che il gigantesco
piano di riarmo europeo rappresenti un’opportunità di crescita occupazionale e
di riconversione di un settore in crisi come l’automotive è smentita da questi
dati.
SPESA FOLLE
A fronte di una folle spesa di 800 miliardi aggiuntivi in 4 anni, in Italia
30-35 miliardi in più all’anno, l’impatto sul lavoro è alquanto modesto. In
alcuni casi concreti e circoscritti potrà rallentare la deindustrializzazione,
ma non la invertirà.
Senza contare che le spese militari sono soldi pubblici sottratti a sanità,
educazione, ricerca universitaria, transizione energetica e digitale, ambiente e
welfare. Tutti ambiti in cui, a parità di spesa, si creerebbero dal 40 al 120
per cento in più di posti di lavoro.
Per non parlare di un altro studio americano che dimostra l’impatto
occupazionale di un miliardo di dollari investito nel campo delle
telecomunicazioni (banda larga), nel settore della sanità (tecnologia
informatica), nel settore elettrico (smart grid). Si creerebbero rispettivamente
49 mila, 21 mila, 24 mila nuovi posti di lavoro. Da 3 a 7 volte in più rispetto
agli stessi soldi spesi in campo militare.
CONCLUSIONI
L’analisi dei dati dimostra ampiamente che raddoppiare o triplicare la spesa
militare in Europa, oltre a non cambiare gli equilibri strategici e funzionare
come deterrenza, non rappresenta un’inversione di tendenza alla crisi
industriale europea e ai processi di deindustrializzazione che coinvolgono
numerosi settori e territori.
Tale dinamica non alimenta né una forte espansione produttiva, tantomeno
dell’occupazione. Consente, viceversa, una forte crescita sia dei dividendi per
gli azionisti, sia degli ordinativi, dei ricavi e degli utili delle imprese
militari. E, soprattutto, della loro dimensione finanziaria attraverso
l’impennata delle loro quotazioni in Borsa.
Impennata quotazioni in borsa industrie belliche
Due esempi paradigmatici. A inizio gennaio del 2022, prima della invasione russa
in Ucraina, il valore di un’azione dell’italiana Leonardo era di 7,5 euro, al 5
agosto 2025 ha raggiunto 47,9 euro. Un incremento record del 538 per cento.
Nello stesso periodo il valore azionario della tedesca Rheinmetall è passato da
90 euro a 1.763 euro. Un incremento iperbolico del 1.859 per cento.
Tutto ciò grazie alle ingenti risorse dei singoli Stati destinate alle spese
militari e in nuovi armamenti e ai mercati finanziari controllati dai fondi
istituzionali come BlackRock, Vanguard, Capital Group, State Street Global,
Goldman Sachs, Fidelity Investments, Wellington Management, Invesco ecc. che al
contempo sono tra i principali azionisti di azionisti sia delle 5 big al mondo
per fatturato militare (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General
Dynamics), sia della tedesca Rheinmetall, delle britanniche BAE Systems e
Rolls-Royce, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus, della ucraina
JSC e di altre aziende europee che operano in campo militare.
Come ha scritto Maurizio Boni: “La retorica della “guerra di produzione”
utilizzata da Rutte […] trasforma la NATO da alleanza militare in cartello
industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per trasferimenti massicci di
denaro pubblico verso il settore privato della difesa”[7]
1 I dati sono quelli ufficiali del Consiglio Europeo
https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/
2 Airbus, BAE Systems, Dassault, Hensoldt, Leonardo, Rheinmetall, Rolls
Royce, Saab, Safran, Thales.
3 Cioè dal “basso” verso l’“alto”, partendo dai dettagli per costruire una
visione d’insieme.
Mercoledì 20 agosto un grande drone MQ-4C “Triton” della Marina degli Stati
Uniti d'America, dopo il decollo dalla base siciliana di Sigonella ha effettuato
una lunga missione d'intelligence, sorveglianza e riconoscimento nello spazio
aereo del Mediterraneo orientale.
Il "Triton" (reg. 169804, c/s BLACKCAT6) ha sorvolato per diverse ore le coste
di Israele e Libano per poi spostarsi verso l'isola di Cipro e l'Egitto.
L'MQ-4C "Triton" è la variante navale del drone "Global Hawk" (anch'esso
operativo da Sigonella con l'US Air Force), specificatamente progettato per
missioni di sorveglianza marittima di lunga durata. "Con oltre 24 ore di
autonomia e una quota operativa di volo di oltre 54.000 piedi, il Triton può
monitorare vaste aree del Mediterraneo e del Medio Oriente", riportano gli
analisti di ItaMilradar, sito specializzato che documenta le attività aeree
militari in Europa meridionale. "Il drone fornisce dati di intelligence critici
a supporto delle operazioni navali USA e dei paesi alleati".
La missione del drone di Sigonella ha coinciso con l'avvio dell'operazione
militare israeliana nella Striscia di Gaza finalizzata alla "soluzione finale"
contro i palestinesi, con l'occupazione e deportazione da Gaza City di oltre un
milione di residenti.
Gli USA "sorvegliano", gli israeliani massacrano...
Articolo pubblicato in Stampalibera.it il 23 agosto 2025,
https://www.stampalibera.it/2025/08/23/gaza-italia-e-sigonella-complici-del-genocidio-israeliano/
La notte di sabato 26 luglio, in acque internazionali e a meno di 40 miglia
nautiche dalla Striscia di Gaza, ad assaltare l’imbarcazione Handala e
sequestrare i 21 attivisti internazionali della Freedom Flotilla sono stati gli
incursori di “Shayetet 13” (13^ Flottiglia), il corpo d’élite della Marina
militare israeliana impiegato di norma in missioni di “antiterrorismo”.
“La Shayetet 13 è un’unità che opera con una varietà di attività, tra cui
infliggere danni strategici alle infrastrutture marittime nemiche, la raccolta
di informazioni di alta qualità sulle attività nemiche, antiterrorismo e
liberazione di ostaggi in ambiente navale”, riporta la rivista specializzata
Ares Difesa.
Il reparto ha quartier generale in un antico castello templare nella piccola
città costiera di Atlit, a pochi km a sud di Haifa. E proprio dal porto di Haifa
sono salpati nel pomeriggio del 26 luglio i due pattugliatori della Marina
militare israeliana con a bordo gli incursori che hanno poi assaltato l’Handala.
Il personale militare in forza alla 13^ Flottiglia presta servizio per un minimo
di 4 anni e mezzo, cioè 18 mesi in più di quanto previsto per la ferma
obbligatoria dei cittadini israeliani che hanno compiuto la maggiore età. Sempre
secondo Ares Difesa, le armi in dotazioni al reparto comprendono le pistole Sig
Sauer P226/P228 e Glock 17/19, i mitragliatori Uzi 9mm Sub-machine gun e Negev,
i fucili d’assalto M4 Commando e CTAR-21, le lanciagranate M203 e i fucili di
precisione SR-25 e M24. Gli incursori che si sono impossessati dell’unità della
Freedom Flotilla erano tutti armati di fucili mitragliatori, pistole e pugnali
da combattimento.
Fin dalla sua costituzione nel 1948, Shayetet 13 ha partecipato a tutti i
conflitti della storia dello Stato sionista e alle operazioni più sanguinose
contro la popolazione palestinese: dalla Nakba alla Crisi di Suez del 1956 e a
quella del Libano due anni dopo; dalla guerra dei Sei Giorni del 1967 alla
Guerra dello Yom Kippur del 1973 e alle incursioni in Libano nei primi anni ’80
contro le milizie Hezbollah. Nel 1980 gli incursori della forza d’élite si
infiltrarono nella città libanese di Tripoli per dirigere un attacco
missilistico navale contro i centri di comando del DFLP (Democratic Front for
the Liberation of Palestine) e del PFLPGC (Popular Front for the Liberation of
Palestine General Command).
A partire dai primi anni 2000 Shayetet 13 è stato impiegato in tutte le
incursioni anfibie e terrestri israeliane nella Striscia di Gaza e in West Bank.
In particolare gli incursori sono stati tra i protagonisti della sanguinosa
“battaglia di Jenin” (1-11 aprile 2022), quando fu sferrato un attacco contro il
sovraffollato campo di rifugiati della città palestinese che causò la morte di
più di una cinquantina di persone e la distruzione di 340 edifici.
Innumerevoli i blitz a Gaza degli incursori di Shayetet 13 durante l’odierna
campagna genocida nella Striscia di Gaza. La prima missione risale alla notte
dell’8 ottobre 2023 quando venne catturato Muhammad Abu Ghali, tra gli uomini di
vertice di Hamas. L’1 novembre 2024 il reparto d’élite, a bordo di motoscafi,
fece incursione nella costa di Batroun, a sud di Tripoli, per catturare il
dirigente di Hezbollah Imad Amhaz. Agli incursori israeliani è attribuito pure
l’abbordaggio, il 9 giugno scorso, dell’imbarcazione “Madleen” della Freedom
Flotilla a un centinaio di miglia da Gaza e il sequestro dei 12 attivisti a
bordo.
Shayetet 13 vanta una vecchia e consolidata partnership con le forze armate
italiane. Come ricordano gli storici militari, alla sua costituzione, formazione
e addestramento alle “tattiche di combattimento e sabotaggio” hanno concorso tra
il 1944 e il 1948 due ufficiali della Decima Flottiglia Mas della Marina
Militare. L’allora servizio segreto del SIS si incaricò della consegna allo
Stato sionista dei primi mezzi subacquei.
In tempi più recenti si sono svolte alcune esercitazioni congiunte tra i
militari di Shayetet 13 e quelli in forza ai reparti d’assalto della Marina
italiana. A metà dicembre 2022, il Comando della Brigata Marina “San Marco” di
Brindisi ha ospitato i vertici delle forze navali d’assalto di Israele, tra cui
il generale Itai Veruv. “Durante la visita il Generale ha potuto assistere ad
alcune peculiari attività addestrative della Brigata, tra cui la discesa in
barbettone (Fast Rope) e in corda doppia (Rappellig) su parete e su container,
dimostrazioni di combattimento militare corpo a corpo ed attività specialistiche
di contrasto a dispositivi esplosivi improvvisati”, riporta lo Stato Maggiore
della Marina. “Ha potuto, inoltre, osservare alcuni mezzi terrestri e anfibi
impiegati dai Fucilieri, tra cui l’Amphibious Assault Vehicle (AAV-7) – veicolo
cingolato anfibio in grado di navigare e muoversi su terra”.
In occasione della sua missione ufficiale a Brindisi, il comandante in capo dei
Depth Corps israeliani è stato pure ospite del Gruppo Mezzi da Sbarco del “San
Marco”, a bordo di un battello d’assalto anfibio ad alta velocità, per “testarne
le capacità durante una breve navigazione nello specchio di mare portuale”. “Nel
contempo si è potuto assistere ad una attività dimostrativa di abbordaggio
svolta sulla nave d’assalto anfibia “San Marco” da un team del 2° Reggimento
della Brigata”, aggiunge lo Stato Maggiore. “Al termine della visita, il
Generale Veruv, apprezzate le specificità e la versatilità della Forza Anfibia
della Marina Militare, ha precisato l’evidente e reciproco interesse conoscitivo
tra i Paesi e la volontà futura di poter programmare attività congiunte tra le
Marine dei due paesi”.
Articolo pubblicato in Pagine Esteri il 5 agosto 2025,
https://pagineesteri.it/2025/08/05/in-evidenza/assalto-alla-freedom-flottilla-chi-sono-gli-incursori-israeliani/
Il processo di militarizzazione delle scuole italiane è oggi un fenomeno
onnicomprensivo che investe istituti di ogni ordine e grado, riducendo la
libertà di docenti e studenti e trasformando le radici di un sistema che
dovrebbe invece promuovere il futuro. Antonio Mazzeo, insegnante e tra i
fondatori dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università, spiega i passi fatti, il ruolo dei media e l’importanza della
denuncia pubblica
Secondo Antonio Mazzeo, insegnante, giornalista e tra i fondatori
dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università,
“lo spettro delle attività conferma che il processo di militarizzazione delle
scuole italiane è oggi un fenomeno onnicomprensivo”.
Interessa infatti non solo gli istituti di ogni ordine e grado, dalle scuole per
l’infanzia alle università, ma anche di tutta l’Italia e non si limita dunque a
quelli prossimi a infrastrutture militari oppure a industrie belliche.
Se in alcuni casi sono le forze armate che entrano nelle scuole, in altri sono
le caserme a ospitare delegazioni di studenti organizzando attività di gioco,
motorie o sportive che spesso simulano l’addestramento militare. “Poi ci sono
vere e proprie attività di cooptazione”, afferma Mazzeo, facendo riferimento
all’alternanza scuola lavoro, oggi chiamata Percorsi per le competenze
trasversali e per l’orientamento (Pcto), sia all’interno delle industrie
belliche sia delle basi militari. “Anche in quelle della Nato, abbiamo
denunciato ad esempio quanto accade nella base di Sigonella (SR) o di Solbiate
Olona (VA), in cui gli studenti effettuano un grande numero di attività dalla
manutenzione di mezzi militari come elicotteri o apparati navali, operando a
fianco dei militari, alla fornitura di servizi, come nelle mense degli
ufficiali”. Una serie di iniziative viene inoltre promossa direttamente
attraverso convenzioni o accordi tra il ministero dell’Istruzione e quello della
Difesa, come ad esempio l’organizzazione di concorsi, premi, presentazioni di
calendari dell’esercito, mostre che riguardano vicende della Seconda guerra
mondiale in cui vengono invitati gli studenti o questi partecipano
nell’allestimento.
“Purtroppo è diventata una prassi quella dell’invito in caserma delle scuole per
attività come l’alza bandiera -prosegue-. In più aggiungerei che si moltiplicano
le volte in cui i rappresentanti delle forze armate sono presenti all’interno
delle classi sostituendosi di fatto alla figura dei docenti nello svolgimento di
attività prettamente didattiche ad esempio in relazione alle cosiddette materie
Stem (le discipline scientifico-tecnologiche), dove tra l’altro sta assumendo un
ruolo centrale la Fondazione Leonardo che propone pacchetti educativi sia per
gli studenti sia per la formazione dei docenti”.
Mazzeo, quali sono gli obiettivi di queste attività?
AM Gli obiettivi che vengono perseguiti sono molteplici. C’è bisogno di
legittimazione, di ottenere consenso e di utilizzare queste attività per
trasmettere valori come l’autorità, il rispetto e l’obbedienza su cui poi si
strutturano le forze armate. Tra l’altro questo traspare anche da molti
documenti e convenzioni firmati dal ministero dell’Istruzione e da quello della
Difesa dove si parla espressamente dell’affermazione della cultura della difesa
e della sicurezza. Si cerca dunque di far aderire i cittadini a un sistema in
cui viene privilegiato il modello delle forze armate in funzione dei processi di
riarmo e di militarizzazione che sono in atto e che purtroppo promuovono una
concezione bellica di guerra costante, globale e permanente. Si vuole ottenere
compartecipazione e condivisione riguardo alle strategie militari, le missioni,
le operazioni ma anche assicurarsi approvazione tra le nuove generazioni,
soprattutto in vista della trasformazione delle forze armate che hanno sempre
più bisogno di coscritti. L’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato
sicuramente un cambiamento nelle valutazioni, perciò oggi alcuni Paesi
ripropongono il problema della leva obbligatoria o di formule ibride in cui ai
professionisti si affiancano i riservisti per ampliare il numero dei militari.
Credo che il modello bellico, quello che si è affermato attraverso la
militarizzazione dei territori, dell’economia, del sapere, non potesse non
investire il luogo per eccellenza della formazione e della trasmissione di
contenuti e di valori che sono elementi chiave nella strutturazione bellico
militarista di una società.
Com’è la situazione oggi in termini di consapevolezza e che ruolo hanno i media
nazionali e locali?
AM Se penso a due anni fa la situazione è oggettivamente cambiata, si è diffusa
una maggiore consapevolezza. Lo stato di guerra attuale, e le preoccupazioni che
desta, sono servite anche a una maggiore attenzione ai processi in atto e a come
la guerra poi viene narrata nella società, nella scuola, nell’informazione.
Questo ha come conseguenza la moltiplicazione di iniziative, di prese di
posizione anche da parte delle famiglie e di una minoranza del corpo insegnante.
Il fatto che all’Osservatorio ormai arrivino quotidianamente decine di
segnalazioni non significa che sono aumentati i fatti, ma che c’è più
attenzione. Ci sono diversi consigli di istituto o collegi di docenti che hanno
approvato mozioni di opposizione, di rifiuto alle attività militari nelle scuole
o di solidarietà con il popolo palestinese. Ho notato anche una maggiore
attenzione sia a livello di testate nazionali sia locali che, proprio perché
vivono grazie alle relazioni con i lettori di un posto, pubblicano con sempre
maggiore diffusione le lettere di protesta di insegnanti o studenti. Se guardo
indietro, a quando abbiamo cominciato con alcuni docenti a monitorare quello che
stava accadendo, esprimendo preoccupazione per un processo che è iniziato una
decina di anni fa e che soprattutto dopo il 2020 è diventato dilagante in tutto
il Paese, credo che si siano fatti enormi salti in avanti, non soltanto nella
consapevolezza ma anche nell’analisi. Vorrei ricordare infatti che questo non è
un fenomeno estemporaneo e non è neppure legato a una forza politica. È
purtroppo strutturale e riguarda tutta la società italiana che ha fatto una
scelta verso la logica della guerra.
Come si concretizza nella scuola questo processo che lei definisce strutturale?
AM L’obbedienza non è soltanto quella che viene veicolata dal fatto che le forze
armate entrano a scuola proponendo attività didattiche o pedagogiche ma diventa
anche un elemento di riorganizzazione strutturale del sistema scolastico. Sempre
di più si tenta di minare il principio della libertà di insegnamento che è
sacrosanto e sancito nella Costituzione della Repubblica italiana, attraverso
l’uso di forme di controllo. La militarizzazione dell’istituzione scolastica
prevede tutta una serie di interventi in cui il corpo insegnante e gli studenti
subiscono pressioni e si riducono enormemente gli spazi di opposizione e di
agibilità per valorizzare pensieri altri. La scuola perde piano piano la sua
complessità, la sua funzione di luogo di sviluppo della criticità e vengono
imposti modelli dall’alto. Si è inoltre affermato un sistema autoritario. Non a
caso, abbiamo assistito in questi ultimi due anni a punizioni esemplari di
studenti che hanno occupato le scuole in solidarietà con il popolo palestinese.
Può essere anche letto in questo senso il voto in condotta che diventa
preponderante anche in sede di maturità. Sorvegliare e punire sono due verbi che
oggi, anche attraverso forme di controllo del registro elettronico, hanno di
fatto militarizzato anche l’organizzazione stessa del sistema scolastico. La
scuola in questo senso sta abbandonando la sua funzione che dovrebbe essere
proprio il luogo di analisi di questi elementi e non di accettazione, mentre il
registro elettronico è stato accettato ormai da tutti gli istituti senza, tra
l’altro, essere mai stato regolamentato. Vi immettiamo milioni di dati e
monitoriamo tutta la vita scolastica dello studente dai due fino ai 18 anni, ma
non sappiamo assolutamente chi sia il titolare di questi e che cosa ne possa
fare. Ma soprattutto è la modalità con cui viene esercitato il controllo sugli
studenti che li porta a perdere la possibilità di essere autonomi: i genitori
sanno tutto quello che succede in tempo reale. Questo delegittima la scuola come
luogo di risoluzione non violenta dei conflitti.
In questo scenario invece che cosa possono fare gli insegnanti e gli educatori
per introdurre strumenti di pace?
AM Innanzitutto partirei da una questione fondamentale, la scuola ha
storicamente una funzione: promuovere il futuro. Dunque nessun progetto
funzionale alla cultura di guerra dovrebbe entrarci, perché la guerra è morte,
non crea futuro, lo distrugge, è dunque in antitesi con quello che è il luogo
della proiezione e della promozione della vita. Gli insegnanti dovrebbero
ricordarsi del loro ruolo di sviluppo della società e che non possono quindi
diventare strumenti che mettono in discussione la vita stessa, anche perché in
questo momento la guerra sarebbe una guerra totale, globale, nucleare e
porterebbe alla fine dell’umanità. Poi non dimentichiamo che ci sono già
elementi giuridici, sia del diritto internazionale sia interno e costituzionale,
che sanciscono il ruolo della scuola e stigmatizzano qualsiasi tipo di relazione
tra l’educazione e la guerra. Ad esempio, il protocollo aggiuntivo
della Convenzione sui diritti dei minori delegittima qualsiasi rapporto tra i
bambini e le forze armate, perché quell’attività che ci sembra così neutra, come
far giocare i bambini di tre anni con i militari con il fucile è in realtà una
forma di violenza strutturale e psicologica perché parliamo di individui che non
hanno nessun “anticorpo” e che invece vengono avvicinati alla guerra, presentata
loro come normalizzata ed edulcorata. Poi ci sono anche le norme del diritto
scolastico che, come ci capita di verificare, vengono spesso violate. Qualsiasi
attività educativa effettuata a scuola o all’esterno deve essere infatti
discussa e deliberata dagli organi collegiali. Purtroppo succede tutto il
contrario. Ormai il 90% delle attività in presenza di forze armate o di invio in
industrie belliche non viene mai discussa e deliberata. Il ministro
dell’Istruzione manda la circolare al provveditore e questo lo manda ai presidi
e loro decidono autonomamente. I docenti devono intervenire e ribadire che se le
attività non sono state adottate collegialmente non possono essere effettuate. È
inoltre ancora prevista dalla legge l’opzione di minoranza. E dunque anche se in
sede di collegio viene presentata una proposta di questo genere e passa a
maggioranza, l’insegnante può far mettere a verbale che si è opposto. Credo che
vadano promossi questi strumenti che sono del tutto legittimi, legali e
diventano “granelli di sabbia” in questo ingranaggio di guerra. Anche la
denuncia pubblica è un elemento fondamentale. Permette di raccogliere consenso,
di estendere l’attenzione all’esterno della scuola, ma ha anche effetti diretti
all’interno, crea dibattito, spaccatura, conflitto e generalmente poi alla fine
l’abbandono formale di questo tipo di attività per evitare il ritorno negativo
di immagine.
Intervista a cura di Martina Ferlisi, pubblicata in Altraeconomia il 10 luglio
2025,
https://altreconomia.it/nessun-progetto-funzionale-alla-cultura-di-guerra-dovrebbe-entrare-a-scuola/
Gli "aiuti umanitari" paracadutati sulla popolazione di Gaza dall'Aeronautica
Militare italiana? Infinitesimali ma costosissimi.
Il Ministero degli Esteri italiano ha fatto sapere che i lanci di "aiuti
umanitari aviotrasportati" sulla Striscia di Gaza dai velivoli dell'Aeronautica
Militare in collaborazione con l'Esercito proseguiranno fino alla fine di questa
settimana. "Essi permetteranno di paracadutare oltre 100 tonnellate di aiuti",
spiega la Farnesina. Davvero una cifra irrisoria, nonostante il gran sperpero di
denaro pubblico per il trasferimento da Pisa in una base aerea della Giordania
di aerei e reparti militari (46^ brigata Aviotrasportata).
In verità, nonostante il grande sforzo mediatico e narrativo, l'apporto delle
forze armate internazionali (e degli aviolanci) per sfamare la popolazione
palestinese di Gaza a gravissimo rischio di morte per fame e sete è del tutto
ridicolo.
Secondo fonti dell'esercito israeliano (Tel Aviv purtroppo sta coordinando nei
fatti gli interventi), nella giornata di ieri 13 agosto sarebbe stato
autorizzato l'ingresso nella Striscia di Gaza "dai valichi di Kerem Shalom e
Zikim di 380 camion carichi di aiuti umanitari", mentre "altri 119 pallet di
aiuti, pari a circa 4-6 camion, sono stati lanciati ieri a Gaza da Giordania,
Emirati Arabi Uniti, Germania, Belgio, Italia e Francia".
Come dire che gli aviolanci hanno rappresentato meno dell'1,5% degli aiuti
giunti a Gaza, fermo restando che un'alta percentuale dei "doni" paracadutati
non finisce per varie ragioni in mano alla popolazione stremata.
Secondo quanto affermato dall'Onu per sfamare adeguatamente i circa due milioni
di abitanti della Striscia sarebbe necessario distribuire quotidianamente non
meno di 600 camion di aiuti.
“Faremo La NATO ancora più grande. Oggi, tutti noi alleati, abbiamo posto le
fondamenta per rendere la NATO più forte, più equa e più letale”. A conclusione
del vertice dell’Alleanza Atlantica tenutosi all’Aia il 24 e 25 giugno scorso,
il segretario generale Mark Rutte ha enfatizzato i risultati di quello che agli
occhi di tanti analisti (si veda in particolare Gianandrea Gaiani, direttore di
Analisi Difesa) è apparso però come un teatro-pollaio, con un “pavone padrone” -
Donald Trump - e tantissimi “polli adoranti”, i capi di Stato degli altri 31
paesi aderenti.
“Gli Stati Uniti appaiono oggi non più il grande alleato ma il vero padrone, che
oltre a spiare gli europei come un grande fratello pretende anche devozione,
cieca obbedienza e glorificazione delle proprie gesta e di quelle del suo
condottiero”, scrive Gaiani. “Al vertice dell’Aia la NATO è di fatto morta come
alleanza pur sopravvivendo come una sorta di impero feudale in cui il sovrano
cerca e ottiene sudditanza e adulazione dai vassalli sottomessi”.
Al summit, il presidente USA si è presentato come il cavaliere pacificatore
dell’Apocalisse dopo aver imposto la tregua armata tra Israele e Iran a suon di
superbombe. Ai “vassalli” europei ha ricordato che non c’è NATO senza lo
strapotere militar-nucleare di Washington e se gli alleati vogliono ancora le
forze armate a stelle strisce ai confini con Russia e Bielorussia, dovranno
usare l’Unione europea come un bancomat per finanziare la riconversione a fini
militari dell’economia e della produzione industriale, ma soprattutto dovranno
comprare armi e munizioni made in U.S.A. e sostenere la folle corsa al riarmo
spaziale e nucleare e le smisurate ambizioni di potenza di Washington
nell’Indo-Pacifico.
Pur di tenersi stretto l’adulato “pavone”, i partner NATO hanno accettato di
sottoporsi al più grande shock economico-finanziario e sociale della storia post
seconda guerra mondiale: destinare il 5% del PIL alle spese militari entro dieci
anni, puntando in particolare allo sviluppo e produzione di sempre più
sofisticate tecnologie belliche, sistemi aero-spaziali e satellitari, droni,
carri armati e munizioni, convenzionali e nucleari. Un’emorragia di denaro
pubblico a favore del capitale finanziario transnazionale che annichilerà il
welfare, l’istruzione e la sanità pubblica, i servizi sociali nel vecchio
continente. “Nella valutazione della Casa Bianca, l’obiettivo del 5% per la
Difesa ha un valore finanziario e commerciale: gli alleati europei comprino armi
statunitensi per riequilibrare la bilancia commerciale tra le due sponde
dell’Atlantico ed evitare i dazi americani che lo stesso Trump minaccia
quotidianamente a tutti gli alleati”, annota ancora Gianandrea Gaiani.
Per gli alleati più recalcitranti, Mark Rutte ha elaborato un escamotage
contabile che cambia di poco il futuro tragico dei paesi UE-NATO: al 5% del PIL
si arriverà sommando la quota del 3,5% da coprire con i bilanci dello Stato per
armi e truppe, con l’1,5% in “spese per la sicurezza nazionale”: cyber-security,
protezione delle infrastrutture critiche (centrali elettriche e reti di
telecomunicazione), difesa delle frontiere, mezzi e personale delle forze di
polizia militare, presidi medici contro attacchi
nucleari-chimici-batteriologici, riconversione a uso militare delle
infrastrutture della logistica e del sistema dei trasporti (ferrovie,
autostrade, ponti, porti e aeroporti), ricerca e promozione innovativa nel
settore dell’industria bellica, ecc..
“I nostri investimenti garantiranno la disponibilità di forze, capacità,
risorse, infrastrutture, prontezza operativa e resilienza necessarie, in linea
con i nostri tre compiti principali: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione
delle crisi e sicurezza cooperativa”, si legge nella risoluzione finale
approvata al summit NATO. “Riaffermiamo il nostro impegno comune a espandere
rapidamente la cooperazione transatlantica nel settore della difesa e a
sfruttare le tecnologie emergenti e lo spirito di innovazione per promuovere la
nostra sicurezza collettiva. Ci impegneremo per eliminare le barriere
commerciali nel settore della difesa tra gli Alleati e faremo leva sulle nostre
partnership per promuovere la cooperazione”.
Dopo aver dato vita al programma DIANA – Defense Innovation Accelerator per
“accelerare l’innovazione dual use delle nuove tecnologie” (milioni di dollari
per centri di ricerca e sviluppo in tutti i paesi; in Italia a Torino, La Spezia
e Capua), la NATO ha varato un Rapid Adopion Action Plan per “rafforzare e
velocizzare” l’adozione e l’integrazione di nuovi prodotti tecnologici in campo
militare. “Gli Alleati si impegnano ad accelerare le procedure di adozione,
compresi i bandi di appalti accelerati, e ad allocare risorse adeguate a tal
fine”, si legge nella risoluzione finale del vertice 2025. “Gli Alleati
abbracceranno maggiori rischi di acquisizione nelle prime fasi di sviluppo e
miglioreranno la comunicazione dei segnali di richiesta in ambito NATO. Il Piano
di azione per la produzione in ambito militare risponde alla necessità di
produrre di più e in maniera più rapida”.
Tra le novità più rilevanti specie in termini di risorse ed “investimenti” va
segnalata l’approvazione all’Aia della prima Strategia commerciale spaziale al
fine di consentire ai paesi NATO di “integrare soluzioni commerciali più
flessibili e in linea con i tempi, sia in tempo di pace che di conflitto”,
offrendo maggiori “opportunità di affari” alle aziende che operano nel settore
aerospaziale e un sempre più stretto coordinamento con l’Alleanza.
La NATO business pro capitale privato, uscita dal vertice di giugno nei Paesi
Bassi, ha dato vita ad alcuni progetti multinazionali e plurimilionari. Belgio,
Canada, Danimarca, Germania, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Regno
Unito, Svezia, Turchia e Italia hanno commissionato l’acquisizione, lo
stoccaggio, il trasporto e la gestione di “scorte di materie prime essenziali
per la difesa” (in particolare litio, titanio e altri minerali delle terre
rare), particolarmente richieste dalle industrie della filiera di morte. Con
l’High Visibility Project – questo il nome del programma per le scorte dei
minerali strategici - la NATO punta a “ridurre la vulnerabilità della domanda,
nonché la dipendenza dai fornitori”.
Nuovo impulso è stato dato anche al programma di potenziamento della flotta
“multi-ruolo” dei velivoli cisterna NATO per il rifornimento in volo dei
cacciabombardieri (Multi Role Tanker Transport Fleet - MMF). La NATO Support and
Procurement Agency (NSPA) ha sottoscritto un contratto con il colosso tedesco
Airbus Defence and Space per la fornitura di altri due velivoli-tanker A330, che
si sommeranno ai dodici già operativi con la flotta alleata. Lanciato nel 2012,
il programma MMF gode dell’aiuto finanziario dell’Unione Europea. Uno dei suoi
principali hub operativi è in via di realizzazione nella stazione aeronavale di
Sigonella, la maggiore base USA e NATO esistente nel Mediterraneo centrale.
Nell’installazione siciliana sono in corso i lavori di ampliamento delle piste
di volo per consentire l’atterraggio dei grandi velivoli cisterna di US Air
Force e dei partner dell’Alleanza, dopo l’acquisizione di un centinaio di ettari
di terreni destinati ad uso agricolo.
Ulteriori gravi effetti in termini di militarizzazione dei territori saranno
generati da un altro grande progetto del Rapid Adoption Action Plan, il NATO
Innovation Ranges. Nello specifico, Estonia, Finlandia, Lettonia, Paesi Bassi,
Svezia ed Italia creeranno un ampio numero di “campi-poligoni” per la
sperimentazione ed integrazione di nuovi sistemi militari avanzati. “Si tratta
di un intervento chiave finalizzato a velocizzare l’adozione innovativa e il
lancio di nuove tecnologie e ad accrescere le capacità produttive grazie
all’inclusione di fornitori non tradizionali nella base industriale della
difesa”, spiegano i vertici NATO. “Questi poligoni consentiranno ai partner
alleati di testare, perfezionare e convalidare prodotti tecnologici in ambienti
operativamente realistici”.
Nonostante l’”apostolo della pace” Trump si sia presentato all’Aia con il
ramoscello d’ulivo relativamente alle future relazioni di Washington con il
presidente russo Putin, il documento finale del vertice NATO riafferma
l’assoluta ostilità alla Russia e il pieno sostegno militare e politico
all’Ucraina. “Uniti di fronte alle profonde minacce e sfide per la sicurezza, in
particolare alla minaccia a lungo termine rappresentata dalla Russia per la
sicurezza euro-atlantica e alla persistente minaccia del terrorismo (…) gli
Alleati ribadiscono il loro impegno sovrano e duraturo a fornire supporto
all’Ucraina, la cui sicurezza contribuisce alla nostra”, concordano i 32 leader
dei Paesi NATO.
Ancora più bellicose le parole del segretario generale Rutte. “La Russia è una
minaccia a breve e lungo termine per l’Alleanza e la nostra intelligence
suggerisce che potrebbe essere pronta ad attaccare la NATO entro i prossimi
tre-sette anni; la minaccia della Russia è evidente e noi dobbiamo essere in
grado di poterci difendere”, ha ammonito all’inaugurazione del vertice. I paesi
europei della NATO si faranno ancora più carico delle spese di guerra
dell’Ucraina. Nel corso del primo semestre 2025 sono stati inviati “aiuti
militari” al governo di Kiev per un valore di 35 miliardi di euro, ma Mark Rutte
ha ribadito l’intenzione di superare quota 50 entro la fine dell’anno.
Il governo italiano si è presentato più compatto che mai alla corte-pollaio di
mister Trump. Prima di spiccare il volo verso i Paesi Bassi, la premier Giorgia
Meloni ha espresso in Parlamento la totale adesione-devozione al programma
lagrime e sangue del 5% PIL annuo in spese di guerra. Ci ha provato
l’Osservatorio Milex sulle spese militari a quantificare l’ammontare delle
risorse finanziarie che saranno sottratte dal bilancio dello Stato per
alimentare il mercato dei sistemi d’arma. Solo l’obiettivo in cash del 3,5%
comporterà una spesa di non meno di 700 miliardi entro i prossimi dieci anni,
circa 220 miliardi in più rispetto a quello che si spenderebbe nello stesso
periodo con la previsione del 2% del PIL. Nel caso dell’intero obiettivo del
5%, nei prossimi 10 anni si rischierebbe di spendere 964 miliardi, cioè 445
miliardi in più rispetto al livello del 2%, con una media annuale di risorse
aggiuntive pari a 44 miliardi. Alle tante guerre “esterne” che vedono
cobelligerare il bel paese si sommerebbe così una vera e propria “guerra
interna” contro i ceti sociali più svantaggiati.
Articolo pubblicato in Umanità Nova, 10 luglio 2025.
Palestina L’arrembaggio è durato pochi minuti, sono seguite ore di abusi e
umiliazioni: il racconto di Antonio Mazzeo, giornalista a bordo dell'ultima
Freedom Flotilla
Sabato 26 luglio, tardo pomeriggio. Cinquanta miglia. Forse meno. Sembra quasi
respirare l’aria di Gaza. Vento caldo, umido. A sud-est sono visibili le luci in
Sinai, le prime dopo sette giorni di navigazione senza mai scorgere terra. Da
ore abbiamo superato il red point, quello dove un mese prima è stata abbordata
la nave sorella di Handala, la Madleen della Freedom Flotilla. Ingenuamente
speriamo che gli israeliani ci lascino arrivare per mostrare al mondo,
ipocritamente, di essere l’unica democrazia in Medio oriente. Nulla da fare. Da
Haifa partono due pattugliatori con a bordo gli incursori della Marina di
guerra. Quel reparto d’élite era a Brindisi nell’estate di due anni fa per
addestrarsi con la Brigata San Marco.
L’Idf ci aveva inviato il giorno precedente i droni di intelligence. Un grande
Heron ci ha sorvolato a bassa quota, a mo’ di condor, per un paio d’ore qualche
ora prima. Gli aerei senza pilota, in buona parte made in Israel, avevano
stuprato il firmamento durante le splendide notti trascorse incrociando le acque
del Mediterraneo fin dalle coste greche. Non erano per noi. Erano per conto di
Frontex e dei paesi della sponda nord per fare la guerra alle migrazioni e ai
migranti. Anche i droni, come i marines, gli hovercraft e gli arrembaggi contro
le navi umanitarie che trasportano cibo, medicine per la popolazione di Gaza,
sono le prove che il Mare Nostrum non è più nostro, di noi popoli che ci siamo
scambiati culture, lingue, sapori. Il Mediterraneo è il grande mare di Israele,
dove fa impunemente ciò che vuole, quando e come vuole.
L’arrembaggio dura pochi minuti. Un’operazione bellica da manuale. I marines
sono attenti a non creare “effetti collaterali” sull’imbarcazione e a noi
equipaggio. Un solo errore. Hanno distrutto immediatamente due telecamere e
strappato tutte le bandiere palestinesi, ma non si sono accorti di una terza
telecamera che trasmetterà per un paio di minuti al mondo intero l’incursione di
una trentina di robocop super armati, la nostra resistenza passiva, mani aperte
in avanti e le note della Bella Ciao.
Hanno schede per ognuno di noi, ci chiamano con il nome di battesimo, forse
hanno perfino imparato a memoria i nostri profili psicologici. Ci ordinano di
sdraiarci sul ponte. Fingono di essere perfino umani, ci propongono panini e
acqua fresca, ci consentono di utilizzare il bagno. Mi umilia quel loro recitare
gentilezza. Fossimo stati adolescenti palestinesi ci avrebbero schiacciati
braccia e gambe sotto gli scarponi. Hanno tutte e tutti il volto coperto, ma si
distinguono i tratti degli occhi. Sono ventenni, forse un paio di anni in meno.
Sento una fitta al petto. La banalità del male. Adolescenti che mi ricordano
tali e quali i miei studenti, belli come loro, ma che possono trasformarsi in
macchine infernali di distruzione e morte. Che forse hanno già ucciso a Gaza o
nel sud del Libano. E che comunque presto lo faranno.
Avete avuto paura in quei momenti? La domanda è ricorrente. No, non abbiamo
avuto paura. Abbiamo sentito però, come un macigno, nel cuore, il peso della
fine di un sogno: toccare terra e guardare negli occhi delle bambine e dei
bambini di Gaza, vederli sorridere davanti al miracolo di un piccolo guscio di
noce che ha sfidato i marosi e gli squali con la stella di david per portare un
pizzico di umanità dove l’umanità è stata cancellata dalle bombe e dalle
condanne a morte per fame e per sete. L’Handala del fumettista martire Naji
Al-Ali che si mette alle spalle le ingiustizie e gli orrori della guerra e
cammina verso la resistenza e la speranza.
A bordo dell’ex peschereccio c’erano gli orsacchiotti e i peluche consegnatici
dai bambini di Siracusa e Gallipoli per darli in dono ai loro amichetti
dell’altra parte del mare. Un pupazzetto rosso si è staccato da una fiancata
durante l’assalto e si è aggrappato ad una gamba. L’ho stretto al petto per
altre otto ore nella notte. Alle prime luci dell’alba mi sono accorto che tanti
altri compagni si abbracciavano a un peluche. Con le lacrime agli occhi alcuni;
guardando il vuoto gli altri. Poi l’approdo ad Ashdod e la consegna alle forze
di polizia. Brutali, violente, volgari. E razziste. Chi ha la doppia
cittadinanza e un passaporto israeliano viene chiamato per primo. Li abbracciamo
coscienti che non li incroceremo più a terra. Poi uno alla volta veniamo
strattonati e spintonati dento il terminal portuale, fino a un camerone dove ci
sediamo a semicerchio guardati a vista da brutti ceffi che sembrano comparse di
un pessimo serial tv sulla police usa. Manca all’appello Chris, il leader
sindacalista autonomo di Amazon. Da uno scorcio di vetrata vediamo che lo
trascinano a forza. Chiediamo la presenza di un avvocato. Ci deridono, ci
minacciano. Poi ci chiamano uno alla volta per avviare le operazioni di
riconoscimento, perquisizione e sequestro dei borsoni e degli effetti personali.
Mai più ci ritroveremo insieme. Di 15 dei 21 componenti della missione non saprò
più come e dove staranno fino al rientro in Italia. Venti ore di detenzione in
due squallide celle e un altro paio in un cellulare, due metri x due x 70 cm.
con due giornalisti di Al Jazeera e un media attivista di New York.
Perquisizioni e denudamenti infiniti. L’umiliazione del puzzo di urina che ti
esce da uno slip che non ti fanno mai cambiare. Ma l’Handala e l’umanità intera
a bordo resterà umana.
Articolo pubblicato in Il Manifesto, 2 agosto 2025,
https://ilmanifesto.it/mare-armato-i-droni-frontex-contro-i-migranti-quelli-di-israele-contro-la-handala