Escalation bellica planetaria ed i reparti d’élite della NATO si addestrano in
Lazio alla guerra nucleare, chimica a batteriologica. A fine giugno si è
conclusa l’esercitazione multinazionale “Black Poison 2025”, una complessa
attività addestrativa condotta dalla Combined Joint Chemical, Biological,
Radiological and Nuclear Defence Task Force (CJ-CBRND-TF) della NATO, dal 1°
gennaio di quest’anno sotto la guida del 7° Reggimento difesa CBRN “Cremona” con
sede a Civitavecchia.
I war games si sono tenuti in alcune aree addestrative di Civitavecchia, Rieti e
Santa Severa (Roma) e hanno visto la partecipazione di reparti specializzati
provenienti da tre Paesi dell’Alleanza Atlantica (Francia, Germania e Polonia) e
di numerose unità dell’Esercito e dell’Aeronautica Militare italiani (Scuola
Interforze per la Difesa NBC di Rieti; Comando Artiglieria di Bracciano;
Battaglione Mezzi Mobili Campali della Scuola di Commissariato dell’Esercito di
Maddaloni, Caserta; 11° Reggimento Trasmissioni di Civitavecchia; Reggimento
Genio Ferrovieri di Castel Maggiore, Bologna; Reggimento Addestrativo Genio di
Roma; 3° Reggimento Supporto Targeting “Bondone” di Cassino). A “Black Poison
2025” ha partecipato pure la Brigata Informazioni Tattiche di Anzio, unità
dell’Esercito specializzata nelle attività di intelligence e nella guerra
elettronica.
“I reparti NATO sono stati impegnati in scenari complessi di contrasto a minacce
CBRN, simulando interventi in contesti civili e militari ad alta criticità”,
riporta lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano. “Black Poison 2025 rappresenta
una tappa fondamentale per il mantenimento della prontezza della CJ-CBRND-TF
contro minacce asimmetriche e non convenzionali. Il suo obiettivo è stato quello
di testare l’interoperabilità tra le forze alleate e la gestione integrata delle
emergenze in ambienti contaminati o potenzialmente contaminati da agenti
chimici-biologici-radiologici-nucleari. Durante l’esercitazione sono state
simulate attività di ricognizione, identificazione, campionamento,
decontaminazione e gestione di scenari di crisi conseguenti all’impiego o alla
dispersione di agenti o sostanze CBRN”.
I giochi di guerra in un’ampia area del territorio laziale, sempre secondo i
vertici dell’Esercito, si inseriscono nel “più ampio contesto delle iniziative
NATO volte al rafforzamento delle capacità di deterrenza e difesa contro le
minacce CBRN, confermando ancora una volta il ruolo centrale dell’Italia e del
7° Reggimento difesa di Civitavecchia come punto di riferimento nel panorama
internazionale della difesa specialistica”.
Sempre in diverse aree addestrative e poligoni del Lazio si era tenuta nel marzo
2024 un’altra esercitazione di simulazione di guerra
nucleare-chimica-batteriologica, denominata allora “White Poison”. “Essa è stata
finalizzata a testare la capacità degli assetti specialistici nel contrastare
eventi non convenzionali in contesti operativi diversificati, al fine di
garantire un’adeguata e rapida risposta alla crescente complessità della
minaccia Chimica, Biologica, Radiologica e Nucleare”, ammetteva candidamente lo
Stato Maggiore dell’Esercito.
“White Poison 2024” è stata pure l’occasione di testare la prontezza operativa
dei militari appartenenti al 7° Reggimento difesa CBRN “Cremona” in vista
dell’assunzione del Comando della NATO Combined Joint CBRN Defence Task
Force (CJ-CBRND-TF), assetto multinazionale e interforze ad elevata prontezza,
designato in ambito alleato per “rispondere rapidamente in situazioni di crisi e
alle nuove sfide globali nel settore della difesa CBRN”.
La task force è stata attivata per la prima volta nel marzo 2022 in risposta
dell’invasione russa dell’Ucraina per “affrontare la sua pericolosa retorica
sulle armi nucleari, chimiche e biologiche”, così come riportato dal Comando
generale della NATO. “La Combined Joint CBRN Defence Task Force supporta oggi
gli sforzi dell’Alleanza per prevenire e contrastare gli attacchi con armi di
distruzione di massa o eventi CBRN”. L’unità specializzata conta attualmente su
un battaglione multinazionale addestrato ed equipaggiato specificatamente per
fronteggiare incidenti CBRN o attacchi contro i territori e le forze NATO. “Il
battaglione si addestra non solo per i conflitti armati, ma anche per
intervenire in caso di crisi, a supporto delle autorità civili, così come in
caso di disastri naturali e incidenti a complessi industriali”, spiegano i
vertici dell’Alleanza. La task force opera sotto l’autorità del Comando Supremo
Alleato in Europa (SACEUR) con quartier generale a Mons (Belgio), da sempre
guidato da un generale delle forze armate degli Stati Uniti d’America.
Il 7° Reggimento difesa Nucleare, Biologica e Chimica “Cremona” è stato
costituito il 31 dicembre 1998 a Civitavecchia. Il suo personale è stato
impiegato in alcune missioni internazionali, specialmente in Bosnia Erzegovina,
Kosovo, Albania, Macedonia del Nord, Afghanistan e Iraq.
A Civitavecchia, presso il comprensorio militare di Santa Lucia, è presente un
altro ente dell’Esercito specializzato nel settore delle armi di distruzione di
massa, il Centro Logistico Interforze per la Difesa NBC, anch’esso partecipante
alle esercitazioni “White Poison 2024” e “Black Poison 2025”. Il Centro si
occupa principalmente di sperimentazione e ricerca nel settore nucleare, chimico
e biologico e di sviluppo, produzione, approvvigionamento e collaudo di
materiali destinati alla difesa NBC. “Il CETLI in particolare svolge attività di
studio, verifiche ed applicazioni di carattere militare nel settore CBRN;
fornisce concorso nell’approvvigionamento di materiali e mezzi di rilevazione,
protezione e bonifica CBRN per le esigenze delle Forze Armate ed esegue la
riparazione, il mantenimento, il controllo di efficienza e le indagini tecniche
sui materiali CBRN in uso alla Difesa”, spiega lo Stato Maggiore dell’Esercito.
E che non si dica che il bel paese non si stia preparando alla guerra con
l’impiego delle armi di distruzione di massa…
Articolo pubblicato in Pagine Esteri il 30 giugno 2025,
https://pagineesteri.it/2025/06/30/in-evidenza/in-italia-le-prove-nato-di-guerra-nucleare-chimica-e-batteriologica/
Una lezione di falsa democrazia che la falsa opposizione non ha inteso
contrapporre con una narrazione “altra”, in quanto essa è pienamente condivisa
in nome del realismo militarista tanto in voga nell’Unione europea fortezza di
guerra. “I nostri alleati USA non hanno utilizzato le basi militari in Italia né
ci hanno chiesto di poterlo fare in futuro. Se dovessero richiederlo, sarà il
Parlamento ad autorizzarlo”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni nelle ore
successive ai bombardamenti dei presunti siti nucleari iraniani, la notte del
solstizio d’estate 2025.
Del tutto falso che le forze armate USA non abbiano utilizzato per le loro
scorribande in territorio iraniano le maggiori infrastrutture logistiche e le
installazioni militari ospitate in territorio italiano. Dalla base di Camp Darby
e dal porto di Livorno in Toscana sono stati inviati sistemi d’arma e munizioni
alle truppe USA in Medio Oriente; i cacciabombardieri F-16 di US Air Force sono
stati trasferiti dalla base di Aviano (Pordenone) al Golfo Persico; i grandi
aerei cisterna, dopo essere decollati anch’essi da Aviano, hanno rifornito in
volo i bombardieri strategici B-2 da cui sono state lanciate le superbombe
contro i laboratori sotterranei iraniani; il comando della Marina Militare USA
per l’Europa e l’Africa di stanza a Napoli Capodichino ha diretto e coordinato
tutte le operazioni delle unità navali presenti nel Mediterraneo orientale e nel
Mar Rosso per offrire ad Israele una “copertura” anti-Teheran; lo stesso comando
ha pianificato il lancio di un gran numero di missili da crociera Tomahawak
contro l’Iran dal sottomarino nucleare “USS Georgia” di US Navy; gli aerei con e
senza pilota decollati dalla base siciliana di Sigonella, prima, durante e dopo
la notte del 21 giugno, hanno condotto innumerevoli attività di intelligence e
riconoscimento dei “target” iraniani; sullo spazio aereo della Sicilia – in
rotta tra Trapani e Catania, sono transitati i caccia F-22 “Raptor” che hanno
scortato i B-2 nella loro missione di morte e distruzione. Altro che
“estraneità” italiana alla guerra scatenata da Netanyahu e Trump contro Teheran…
Ma ciò che più dovrebbe indignare le donne e gli uomini di questo Paese è
l’assoluta ignoranza bipartisan dei più elementari principi del diritto
internazionale e della Costituzione italiana. Non ci può essere infatti
Parlamento in Italia, che a maggioranza o perfino all’unanimità, possa
legittimare una violazione così ignobile di norme e valori come quella della
trasformazione di porzioni del territorio in piattaforme avanzate per aggredire
e colpire un paese sovrano e assassinare donne e bambini. Ma nessuno, proprio
nessuno (elettroencefalogramma piatto quello di giuristi, intellettuali, forze
politiche e sociali, senatori e deputati di centrodestra e centrosinistra) ha
avuto l’ardire di scriverlo e ricordarlo.
Peccato davvero. Invece di invocare che le basi “italiane” non siano messe a
disposizione dei fedeli alleati belligeranti (penso in particolare a certi
pacifinti del Pd), avrebbero fatto meglio – loro che al governo ci sono stati
per anni “autorizzando” strike in Iraq, Afghanistan, Balcani, Libia, ecc. ecc. –
a riconoscere che caserme, scali aeroportuali e porti sono stati pensati per
fare la guerra e se pertanto esistono è in guerra che devono andare. L’unico
modo per “renderli innocui” e “pacifici” è quello di smantellarli subito, senza
se e senza ma, indipendentemente che operino con gli stendardi tricolore o a
stelle e strisce.
In quanto poi all’auspicio che sia comunque interdetto l’impiego “bellico” delle
nostre basi da parte dei partner NATO, ci sarebbe proprio da ridere (di rabbia)
se non ci trovassimo di fronte al lago di sangue da esse prodotto in mezzo
pianeta. C’ da chiedersi infatti in che modo il migliore degli esecutivi
innamorati dell’art. 11 della Costituzione, quello dell’Italia che ripudia la
guerra, potrebbe impedire che da Ghedi, Sigonella, Aviano, Capodichino, Gioia
del Colle o Amendola, non decollino i caccia USA zeppi di testate nucleari
tattiche (le B-61-12 che con tanto ardore stocchiamo e difendiamo a casa nostra)
per sganciarle a Mosca, Teheran, Pyongyang o Pechino? Gli scaglierebbero per
caso addosso i militari italiani così come avvenne, una volta sola nella storia
repubblicana, durante la “lunga” notte di Sigonella, quella del 10 ottobre 1986?
Ok, facciamo finta di credere pure noi alle fiabe e che in uno scatto d’orgoglio
(o di follia), un generale italiano imponga ad un collega USA il rispetto pieno
degli accordi di cooperazione bilaterale (pacta sunt servenda…). Ma se assai
ipoteticamente possibile per un velivolo o una nave da guerra, come si potrà mai
impedire che gli ordini d’attacco o certe informazioni strategiche non siano
trasmessi dagli oltre quaranta comandi che le forze armate USA hanno disseminato
in Italia? E come facciamo ad evitare che non sia impiegato il terminale
terrestre del MUOS di Niscemi, il più moderno sistema di telecomunicazioni
satellitari della Marina USA, per dirigere e governare le missioni degli “utenti
mobili” (bombardieri, droni, portaerei, sottomarini missili nucleari e
convenzionali) del Pentagono? C’è davvero solo un unico modo perché non si
ripeta quanto accaduto la notte del solstizio anti-Iran, quando US Navy da
Capodichino ordinò - via terminali e satelliti MUOS - il lancio dei Cruise
contro Teheran: far decollare gli F-35 dell’Aeronautica Militare da Amendola e
bombardare tutte le antenne USA innalzate nella riserva naturale di Niscemi in
barba alla Costituzione e alle leggi che tutelano il territorio, l’ambiente e la
salute umana.
Una nuova stagione di mobilitazione e di lotta deve prendere il via in Sicilia
per chiedere l’immediato smantellamento di tutte le infrastrutture belliche
esistenti (Sigonella e il MUOS di Niscemi in testa), per smilitarizzare e
denuclearizzare l’Isola e trasformarla in un Ponte di pace, dialogo e
cooperazione tra i popoli del Mediterraneo. I Comitati No MUOS e No War si sono
dati un appuntamento che alla luce di quanto accaduto nelle settimane scorse
diventa più che mai importante. Sabato 2 agosto ci sarà un corteo tra i sentieri
che si snodano accanto alle reti con il filo spinato dell’apartheid israeliano
che “difendono” la base nella titolarità ed uso esclusivo delle forze armate
d’oltreoceano. “In contrada Ulmo a Niscemi, contro il MUOS e la guerra, fino
alla liberazione della terra”, scrivono le attiviste e gli attivisti del
Movimento. “L’unico modo che conosciamo per affrontare i tempi duri è questo:
lottare, rilanciare, scendere in piazza, ritornare insieme lì dove stiamo da
anni, davanti a quella base di morte, per ricordare che non vogliamo essere
complici con guerre e genocidi…”.
Articolo pubblicato in Le Siciliane Casablanca, n. 88, maggio-giugno 2025
Mercoledì 9 luglio sono stati monitorati alcuni atterraggi di velivoli militari
nell’aeroporto “civile” di Comiso (Ragusa), intitolato a Pio La Torre, il
segretario del PCI siciliano assassinato per il suo impegno contro la mafia, la
militarizzazione dell’Isola e l’installazione dei missili nucleari Cruise
proprio a Comiso.
Mentre ormai lo scalo civile sembra essere destinato alla chiusura si fanno
sempre più forti le pressioni per una sua conversione a fini bellici.
La scorsa settimana il ministro della difesa Guido Crosetto ha annunciato che la
Sicilia sarà trasformata in piattaforma addestrativa per i top gun USA e NATO
che utilizzano i cacciabombardieri di quinta generazione F-35 (a capacità
nucleare).
In tanti hanno pensato che sarà la stazione aeronavale di Sigonella a fare da
hub addestrativo per l’US Air Force; personalmente ritengo invece che le
autorità militari per tutta una serie di ragioni (anche logistico-operative)
opteranno per un’altra destinazione.
L’aeroporto di Comiso è un'”ottima opzione”, ma non scarterei anche la
possibilità che vengano utilizzati pure gli aeroporti militari di Trapani-Birgi
(già base NATO per le operazioni degli aerei radar AWACS) e Pantelleria (in
questo scalo in più esercitazioni sono atterrati i velivoli F-35 in dotazione
all’Aeronautica Militare italiana).
La lotta contro la militarizzazione della Sicilia – a partire dall’opposizione
alla riconversione a fini militari di Comiso – deve diventare l’obiettivo
prioritario di ogni soggetto sociale e politico che intenda richiamarsi
all’Utopia di Pio La Torre di una Sicilia Ponte di Pace e Cooperazione tra i
popoli del Mediterraneo.
Articolo pubblicato in Stampalibera.it il 10 luglio 2025,
https://www.stampalibera.it/2025/07/10/laeroporto-pio-la-torre-di-comiso-verso-la-riconversione-a-scalo-di-guerra-usa-nato/?fbclid=IwY2xjawLcxtBleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETBmWjlBYUUxUWlFZ2FvSnNuAR5QmkbkUqenAohpOAzI-CXxNXFnsXNWxfViPe8wwNlH0SqYAmoMVL9JZvdwtw_aem_x901abPCyhAJBoKXAP2eOw
Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non
scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti
ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni,
perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è
parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico
disponibile.
Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è
un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa
europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che
il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta
alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi
tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con
cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per
la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia
– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il
terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a
140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia
che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare
e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave
danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica.
L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8
luglio 2025.
Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di
Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha
affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal
commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici
“commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo
sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della
mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e
mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il
broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come
dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/).
Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due
opere faraoniche?
A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi
tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il
dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo
(https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in
particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova
non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con
stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato
i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a
un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei
può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare
due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere
facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative
in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato.
Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al
continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e
degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e
aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così
come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni.
Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far
tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di
euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di
“lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre
opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma
chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque,
prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di
euro.
I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza
nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più
presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata
dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il
progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o
2029.
Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera
entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e
logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal
progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano
quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri
pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il
commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo
registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da
Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il
merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo.
Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate,
con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge.
Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora
presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica,
quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un
incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di
passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge
denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è
arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di
un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti
internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha
origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori
industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto
governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di
autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso
civile.
Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali
a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF.
Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod,
quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più
ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui
probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti
crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali
internazionali –, è altissima.
Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni
container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati
caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è
regolarmente arrivata il 4 luglio.
Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler
interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che
il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo
internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che
controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container
Ravenna) Spa.
L’azionariato di SAPIR è così composto:
* 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di
Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi);
* 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, )
* 11,58% Camera di Commercio di Ferrara
* 10,46% Regione Emilia-Romagna
* tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%,
nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori.
Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il
porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste
entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare –
affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il
porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza.
Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente
citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie
relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello
del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze
internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da
oltre trent’anni.
Il territorio siciliano è particolarmente compromesso dalla presenza diffusa su
tutta l’isola di basi militari, punti da cui droni e aerei che partecipano negli
scenari di guerra attuali partono, transitano e vi stazionano. Non soltanto
Sigonella ma anche il Muos a Niscemi supportano le operazioni militari in Medio
Oriente. Questo sabato è stata dunque lanciata […]
Riprendiamo da @STOPRIARMO il programma della giornata di sabato 5 luglio
prevista dal percorso cittadino che vuole attivare una dimensione larga e
trasversale contro la guerra, il riarmo e il genocidio in Palestina. GIORNATA
STOP RIARMO// SABATO 5 LUGLIO 2025 PARCO DEL VALENTINO // INGRESSO DALL’ARCO DI
PIAZZA VITTORIO // ore 16 Alle 17 inizio […]
Comunicato-Palestina-RSU-Leonardo-siti-Varese
Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga
hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi,
materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di
Liegi-Bierset. Controllata dalla compagnia cargo internazionale Challenge Group,
presente con linee aeree e divisioni nella logistica, gestione e servizi
aeroportuali in Belgio, Israele e Malta, gli aerei della Challenge Airlines BE
facevano spola dagli Stati Uniti a Israele usando l’aeroporto commerciale di
Liegi-Bierset come scalo intermedio.
Società civile, opinione pubblica, sindacati
Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro
le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul
commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese.
Trattato internazionale che vieta formalmente l’autorizzazione di trasferimenti
di armi verso paesi che le stiano utilizzando, come nel caso di Israele, per
«commettere genocidi, crimini contro l’umanità o attacchi contro civili».
La pressione della società civile e dell’opinione pubblica, insieme alla
decisione di alcuni sindacati del trasporto aereo di non far caricare più dai
loro iscritti materiale militare destinato allo Stato israeliano, ha spinto il
Governo federale belga ad agire per vietare tutti i trasferimenti di armi a
Israele. Inoltre, il Governo vallone ha adottato un decreto che applica il
divieto di trasportare armi verso Israele anche alle merci, provenienti da altri
paesi, in transito senza trasbordo nel proprio territorio.
È quanto previsto anche in Italia dalla Legge 185/90, la quale regola il
controllo non solo dell’esportazione e importazione di materiali d’armamento, ma
anche del loro transito sul territorio. Norma di legge solitamente disattesa e
inapplicata dalle autorità italiane, tutte le volte che dai nostri porti
transitano navi cargo e porta–container trasportando armamenti verso paesi in
guerra e/o che non rispettano i diritti umani fondamentali.
La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il
munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due
terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per
via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di
guerra dell’Israel Defense Forces.
Il resto delle forniture di armamenti e di munizionamento (l’altro terzo)
proviene prevalentemente dalla Germania, ma anche (seppure in piccola parte) da
Italia e Gran Bretagna, da India e Australia.
Altri aeroporti civili europei sono, pertanto, utilizzati come scali intermedi
per gli aerei militari americani e di compagnie cargo, o come origine di
spedizioni di armamenti dagli stessi paesi europei. Se si vuole, quindi, attuare
un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del
popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo”
dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei.
E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è
essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i
sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di
Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della
compagnia danese Maersk. La nave, in viaggio da alcune settimane, proveniva dal
porto di Houston in Texas e trasportava componenti e pezzi di ricambio destinati
ai caccia–bombardieri F–35 utilizzati dall’aviazione israeliana contro la
popolazione civile a Gaza.
La nave aveva già incontrato diverse proteste durante gli attracchi nei porti
lungo la costa atlantica americana e, in prossimità del nostro continente, non
avendo avuto l’autorizzazione ad attraccare nei porti atlantici della Spagna,
aveva proseguito verso gli scali del Marocco.
In questo paese a lanciare la mobilitazione è stato il sindacato dei portuali,
affiliato alla principale confederazione sindacale marocchina, la UMT, chiedendo
alle autorità di impedire alla nave di attraccare a Casablanca o a Tangeri Med e
affermando in un comunicato che «chiunque faciliti il passaggio di questa nave è
un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese».
Il boicottaggio della Maersk
Raccogliendo l’appello del sindacato, migliaia di persone si sono mobilitate per
le strade di Rabat, Tangeri e Casablanca, con l’obiettivo di impedire l’attracco
della Nexoe Maersk. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato
raggiunto da oltre 1.500 persone e il 90% dei lavoratori portuali scesi in
sciopero per due giorni ha impedito di avviare le gru e di fornire i servizi
essenziali alla nave.
Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e
del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele,
tra cui i componenti per i caccia–bombardieri F-35. Diversi rapporti provano
infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare
Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è
stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis,
uccidendo 90 palestinesi.
Per tale motivo, oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno
chiesto, con una lettera congiunta ai Governi coinvolti nel programma del
caccia–bombardiere prodotto dall’americana Lockeed Martin, tra cui l’Italia, di
interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, incluso tutto
ciò che concerne gli F-35.
Il Trattato internazionale sul commercio di armi – ATT, prevede l’interruzione
del commercio diretto e indiretto di attrezzature e di tecnologie militari,
comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali
attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare
una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto
internazionale dei diritti umani».
L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è
diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei
soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare
contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al
bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in
ordine al rispetto dei diritti umani.
Gli episodi di protesta e di boicottaggio che hanno coinvolto la Maersk sono,
cronologicamente, solo gli ultimi che hanno visto protagonisti i lavoratori
portuali e i loro sindacati in azioni dirette contro il trasferimento di armi in
Israele (e verso altri paesi in guerra). Sulla base del lavoro di ricerca e di
monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e
mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli
episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5
anni.
La mobilitazione dei sindacati
Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove
i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione
di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele,
effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando
sciopero, allo scopo di ostacolare/impedire le operazioni di scarico e carico.
Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali,
organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo
sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic
Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in
Israele. La determinazione dei portuali ravennati, con questa azione di
boicottaggio, ottiene che l’armatore rinunci al carico e al trasferimento di
armi a Israele.
Ma è, soprattutto, dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023
e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano
nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a
Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le
guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza.
Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del
Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave
porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, battente
bandiera delle Isole Marshall, deve imbarcare un container contenente 21
tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a
Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore
navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a
partire senza il “carico di morte”.
Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano
Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per
droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e
lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu.
Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia
di attivisti pro-Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape
Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove
avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande
base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel
porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che
abitano nella regione.
In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana
(ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle
federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della
confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno
le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a
partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi.
In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di
Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei
sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi
della compagnia marittima israeliana ZIM. Con questa azione diretta si accendono
i riflettori sull’invio di armi australiane a Israele fino a quel momento
occultato.
Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il
trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT,
così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei
trasporti Nakliyat Is affiliato alla confederazione sindacale DISK.
E in Italia?
In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo
palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta,
alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di
associazioni pacifiste, con i blocchi dei varchi portuali a Genova e a Salerno.
Nel capoluogo ligure, oltre i presidi e i picchetti a San Benigno e a Ponte
Etiopia, un corteo di manifestanti raggiunge la sede della compagnia marittima
israeliana SIM dove si inscena un sit-in di protesta.
Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan
“Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE
Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 utilizzati nei
bombardamenti di Gaza.
Nel dicembre 2023 è la volta di Ravenna, dove centinaia di persone partecipano
all’iniziativa contro il traffico di armi davanti all’Autorità portuale,
denunciando il passaggio di una nave della ZIM dallo scalo romagnolo
trasportando materiali d’armamento verso Israele.
Che il porto di Ravenna fosse diventato uno scalo opaco per il trasferimento di
armi trova conferma nei mesi scorsi, quando il Gip del tribunale romagnolo
convalida il sequestro d’urgenza effettuato dall’Agenzia delle Dogane a inizio
febbraio 2025 di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a
Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale
d’armamento, prodotti dalla ditta Valforge di Lecco e diretti all’azienda Israel
Military Industries Ltd (IMI), principale produttore israeliano di armi. La
ditta lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, pur non
avendo l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né l’iscrizione nel
Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della Difesa,
rientrava da tempo nella catena di fornitura della IMI.
Dal febbraio del 2024, anche in India, il sindacato dei lavoratori dei trasporti
marittimi che organizza migliaia di lavoratori portuali decide di rifiutarsi di
caricare o di scaricare carichi di armi provenienti e/o destinati a Israele.
Nel maggio 2024 a Venezia centinaia di attivisti protestano contro la nave
Bokrum, battente bandiera delle Barbados, contenente armamenti e diretta verso
Israele, senza che le autorità italiane abbiano esercitato effettivi controlli
dei carichi e garantito il rispetto delle leggi vigenti e dei trattati
internazionali che regolano il trasferimento di armi.
Non si ferma la solidarietà internazionale
Affinché il diritto internazionale e le decisioni ONU siano rispettati dai
singoli Stati, parte, nell’estate dell’anno scorso, la campagna internazionale
#blocktheboat promossa da Amnesty e da un’ampia coalizione di organizzazioni per
i diritti umani.
A fine agosto la nave MV Kathrin, di proprietà tedesca e battente bandiera
portoghese, parte dal Vietnam con un carico di 8 container di esplosivi
Hexogen/RDX (componente chiave per la costruzione di missili) con destinazione
Israele e altri 60 container di esplosivi TNT con altre destinazioni.
La Namibia rifiuta l’attracco della nave nei suoi porti e la costringe a vagare
in acque internazionali, fino ad arrivare nel Mediterraneo. Qui la nave si
dirige verso il porto di Capodistria in Slovenia per scaricare parte del carico
destinato a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. La Slovenia gli nega
l’attracco, dopo una mobilitazione dell’opinione pubblica.
In Italia l’appello del CALP di Genova è raccolto dalla USB e da altri sindacati
di base che, prontamente, si mobilitano per impedire l’attracco della nave nei
porti adriatici e far rispettare l’ordinanza che vieta la circolazione nei porti
del Golfo di Trieste di materiale bellico.
La MV Kathrin è costretta a cambiar rotta e a dirigersi verso Malta, dove non
riuscirà ad attraccare. Da quel momento sparisce dai radar. Ricompare a fine
ottobre ad Alessandria d’Egitto, dove attracca in zona militare. Lì scarica
tutto il suo carico. Formalmente non si sa nulla degli esplosivi diretti a
Israele. Sappiamo solo che lo stesso giorno, dal porto egiziano è partita
un’altra nave diretta al porto israeliano di Ashdod. È curiosa, anche in questo
caso, la complicità con il governo israeliano dei governi arabi che controllano
le 14 fazioni con cui si dividono i palestinesi.
Viceversa, non si ferma la solidarietà internazionale. E, nel mese di gennaio di
quest’anno, anche il sindacato svedese dei portuali notifica all’associazione
imprenditoriale Swedish Ports il blocco di tutti gli scambi commerciali militari
con Israele durante la guerra in corso a Gaza. La decisione di imporre il blocco
è stata presa dai lavoratori iscritti al sindacato dei portuali con una
votazione prima di Natale.
In conseguenza del blocco, Erik Helgeson, da 20 anni lavoratore portuale a
Göteborg, vicepresidente nazionale e portavoce del sindacato, è stato licenziato
a febbraio per ragioni di “sicurezza nazionale” dalla sua azienda DFDS, la
società danese di spedizioni e logistica internazionale proprietaria della
maggior parte del terminal ro-ro di Göteborg.
Questo caso dimostra che l’azione diretta dei sindacati dei lavoratori e degli
attivisti, al fine di fermare qualsiasi trasferimento di armamenti verso
Israele, ha una straordinaria valenza etica e di testimonianza. Ma al contempo
sappiamo che l’embargo militare verso Israele è anche e, soprattutto, un obbligo
giuridico-legale, che ricade innanzitutto sulle spalle degli Stati, di
organizzazioni regionali come l’UE, l’OIC (Organisation of Islamic Cooperation)
ecc., delle aziende e delle istituzioni accademiche. Se non attuano le misure
necessarie per l’embargo militare, oltre a essere responsabili di violazione del
diritto internazionale, saranno corresponsabili per il loro apporto ai crimini
commessi da Israele.
Post-fazione
Avevo appena finito di scrivere e di inviare questo articolo alla redazione di
SettimanaNews, che arriva la notizia dell’azione di boicottaggio deciso dal
sindacato dei portuali di Marsiglia-Fos, aderente alla CGT francese. Giovedì 5
giugno il cargo israeliano «Contship Era» della compagnia ZIM avrebbe dovuto
caricare nel porto di Fos sur Mer, 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili
mitragliatori e munizioni fabbricate dall’azienda francese Eurolinks e destinate
all’azienda di armamenti Israel Military Industries, controllata da Elbit
Systems, la principale industria israeliana per fatturato militare (27^ al mondo
nel 2023). L’azione diretta dei lavoratori portuali marsigliesi, che prontamente
si erano coordinati con gli amici portuali di Genova, ha avuto successo e il
“carico di morte” non è stato imbarcato.
Ripartita da Marsiglia, in ritardo sui tempi di navigazione previsti, la nave
della ZIM destinata al porto israeliano di Haifa, ha in programma due scali
tecnici nei porti di Genova e Salerno. Sin dal 5 giugno, coordinandosi con i
portuali francesi, i sindacati portuali di USB e SI-Cobas hanno chiamato
lavoratori e cittadinanza a presidiare i moli di questi due porti italiani, nei
giorni di arrivo della nave (il 7 giugno a Genova e il giorno dopo a Salerno).
Il fine di questa mobilitazione, pienamente riuscita, era assicurare che i
container bloccati a Marsiglia non fossero imbarcati a Genova e che la nave non
trasportasse alcun materiale di armamento per l’esercito israeliano.
I portuali francesi della Cgt di Marsiglia hanno scritto un nuovo capitolo
nell’atlante europeo delle resistenze contro il commercio di armamenti. L’azione
dei lavoratori francesi non è stata improvvisata. A Marsiglia come a Genova, ad
Anversa come nel Pireo, a Barcellona come a Tangeri i portuali sono diventati,
come ha scritto Giulio Cavalli sul quotidiano Domani, i custodi materiali delle
norme nazionali e internazionali che i governi disattendono. In Italia la legge
185/90 vieta esplicitamente l’esportazione e il transito di armi verso Paesi
coinvolti in conflitti armati o responsabili di gravi violazioni dei diritti
umani, eppure i flussi di armamenti non si sono mai fermati. E nel vuoto di
legalità si inserisce l’azione dei portuali. È una catena di controllo dal basso
che parte dalle banchine e costringe il potere politico a inseguire.
Una lotta dal respiro europeo e mediterraneo, frutto di un’intelligence operaia.
Una rete d’informazione e attivismo che collega i portuali con media
investigativi e ong, tra cui noi di The Weapon Watch. Una rete che rappresenta
oggi una delle più avanzate forme di controllo democratico dal basso sui
traffici bellici.
Gianni Alioti
Redazione
Redazione
Poche ore dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz ed
Esfahan, un grande drone MQ-4C “Triton” della Marina Militare degli Stati Uniti
d’America ha effettuato una lunga missione di intelligence, sorveglianza e
riconoscimento nello spazio aereo dello Stretto di Hormuz e del Golfo Persico.
Parte della rotta di volo del velivolo da guerra, registrato con il numero
169661 (nome in codice Overlord), è stata tracciata da ItaMilRadar, sito che
documenta il traffico aereo militare nel Mediterraneo e in Medio Oriente.
“L’MQ-4C Triton di Us Navy – spiegano gli analisti di ItaMilRadar - ha sorvolato
lo Stretto di Hormuz, l’Oman e gli Emirati Arabi nel corso della mattinata di
domenica 22 giugno, probabilmente per monitorare le reazioni dell’Iran
all’attacco dei bombardieri B-2 e garantire piena conoscenza di quanto accade
alle forze navali USA presenti nell’area”.
Non è stato possibile identificare lo scalo di partenza e arrivo del velivolo
senza pilota, ma il “Triton” numero 169661 è di norma assegnato dal Pentagono
alla stazione aeronavale siciliana di Sigonella, nell’ambito del programma di
“ampia sorveglianza aereo-marittima” BAMS (Broad Area Maritime Surveillance) nel
Mediterraneo. Nello specifico si tratta di uno dei quattro MQ-4C “Triton”
schierati a Sigonella dal 2024, in forza al locale distaccamento avanzato del
19° Squadrone di pattugliamento con aerei senza pilota di US Navy (VUP-19
squadron), con quartier generale a Jacksonville, Florida.
L’MQ-4C “Triton” è un drone a lungo raggio, basato sulla piattaforma dell’RQ-4
“Global Hawk”, versione “Block 20”, è stato prodotto dall’industria aerospaziale
statunitense Nortrop Grumman. Rispetto alla versione “madre” entrata in funzione
con l’US Air Force (anch’essa operativa dalla base di Sigonella), il nuovo
velivolo monta una struttura alare rinforzata per volare in condizioni
meteorologiche avverse e resistere maggiormente alla grandine, all’impatto con i
volatili, ai fulmini e al ghiaccio.
Lungo 14,5 metri e con un’apertura alare di 39,9, il “Triton” può operare entro
un raggio di 2.000 miglia nautiche dalla base di decollo, a un’altitudine
massima di 18.288 metri e una velocità di crociera di 575 km/h. Il velivolo gode
di un’autonomia di volo tra le 24 e le 30 ore consecutive. Nel corso di una sola
missione i sofisticati sensori di bordo sono in grado di rilevare, classificare
e tracciare obiettivi marittimi operanti in profondità monitorando fino ad una
superficie di quattro milioni di miglia nautiche.
I velivoli schierati a Sigonella sono stabilmente impiegati in attività di
intelligence, sorveglianza e riconoscimento nei cieli del Mediterraneo orientale
e del Golfo Persico, a supporto delle operazioni belliche della flotta USA
contro le milizie Houthi in Yemen e di quelle delle forze armate israeliane
contro la popolazione palestinese a Gaza o in Libano, Siria, Yemen e Iran.
Gli analisti di ItaMilRadar avevano già tracciato due operazioni top secret
dell’MQ-4C “Triton” con numero identificativo 169661M nel Mediterraneo
orientale. La prima è avvenuta il 30 gennaio 2025; dopo il decollo da Sigonella
il drone ha raggiunto le coste della Siria, per sorvolarle nel corso della notte
e rientrare all’alba nella base siciliana. La seconda missione risale al 3
febbraio successivo; anche in questo caso dopo il decollo da Sigonella, il
velivolo ha sorvolato tutta la notte i cieli della Siria.
“Il drone si è pure soffermato per un certo tempo sulle acque del Libano,
operando esclusivamente nello spazio aereo internazionale e fuori dalla zona FIR
di Beirut”, riportava ItaMilRadar. “Né durante il viaggio di andata, né in
quello di ritorno è stato possibile osservare elementi specifici che lasciano
pensare che abbia monitorato la flotta russa attualmente in navigazione nel
Mediterraneo centrale. La presenza del Triton nella regione sottolinea
l’importanza strategica assunta dal Mediterraneo orientale. Dato che le
dinamiche geopolitiche continuano ad evolversi, la sorveglianza militare e la
raccolta di informazioni rimangono fondamentali per le maggiori potenze in
termini di sicurezza e controllo”.
Anche nella mattinata di oggi 23 giugno è stato monitorato il decollo da
Sigonella di un drone RQ-4B “Global Hawk” di US Air Force (identificato con il
numero 09-2049, nome in codice Forte10) che ha poi raggiunto lo spazio aereo tra
l’isola di Cipro e l’Egitto. “Si tratta di una missione inusuale per un Global
Hawk”, scrivono gli analisti di ItaMilRadar. “L’area del Mediterraneo orientale
è la stessa dove sono state osservate numerose missioni dei pattugliatori
P-8A Poseidon di US Navy, anch’essi schierati a Sigonella. Ciò che spicca questa
volta è la relativa distanza della zona di pattugliamento dalle coste del Medio
oriente, attività svolta di norma non dagli assetti aerei di US Air Force ma da
quelli di US Navy. Mentre i droni MQ-4C della Marina USA operano
specificatamente nel Mediterraneo, i Global Hawk dell’Aeronautica vengono
impiegati comunemente sui cieli del Mar Nero e della Regione baltica. Non è
ancora chiaro cosa ha catturato l’attenzione USA, ma la concentrazione delle
recenti missioni in quest’area conferma il sempre maggiore interesse che essa
riveste per Washington”.
Articolo pubblicato in Pagine Esteri il 26 giugno 2025,
https://pagineesteri.it/2025/06/26/medioriente/le-attivita-di-intelligence-anti-iran-con-i-droni-usa-di-sigonella/?fbclid=IwY2xjawLOWkNleHRuA2FlbQIxMABicmlkETBmWjlBYUUxUWlFZ2FvSnNuAR7DOiq2xc1thE4bqFGrnJJ_wSI_GBLR5qAux8oWagUm-K4oo856ZXfOQpqT7w_aem_lCWfLibNDtGTzNKpt5MZqQ