Torture sui detenuti di Trapani, arrestati undici poliziotti penitenziari
11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci. L’indagine sono scattate dopo alcune denunce effettuate dai detenuti del penitenziario trapanese che avrebbero subito maltrattamenti in luoghi privi di telecamere, che una volta installate avrebbero registrato violenze reiterate da parte di agenti i nei confronti di detenuti. L’indagine condotta dal nucleo investigativo regionale di Palermo, coordinato dal nucleo investigativo centrale, sono scattate dopo alcune denunce effettuate dai detenuti del penitenziario trapanese che avrebbero subito maltrattamenti in luoghi privi di telecamere, che una volta installate avrebbero registrato violenze reiterate da parte di agenti nei confronti di detenuti.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Call for European Mobilization Against Migrant Expulsion Centers in Albania
Versione italiana al fondo If Europe is building new detention camps, anyone who wishes to live in a free Europe has the responsibility to dismantle them.  Administrative detention of migrants is once again becoming the preferred strategy to handle illegalized mobility in Italy. In addition to its commitment to build a Center for Repatriation (CPR) in every single region in Italy, on November 6 last year the Meloni government signed an agreement with the Albanian government to build an Italian hotspot and detention facility for migrants on Albanian soil. This measure attempts to externalize the sovereignty of a European member state over a third country’s territory concerning immigration and border control. Although Rama and Meloni paint a positive picture of this cooperation, peppered with a language of brotherhood, the Italy-Albania agreement constitutes a clear violation of the principle of Albanian sovereignty and is yet another expression of neocolonial logic, evident in the way Italy dictates control over Albania’s territories.Although such a model has been tested elsewhere, such as Australia’s Pacific Solution, it represents an unprecedented deal in border infrastructure in Europe. This agreement has been welcomed by various EU representatives as well as other member states, well representing a trend across Europe, and beyond, with regards to the control of irregular mobility: dismantling the right to asylum, externalizing, and militarizing borders. From Italy to Albania, from Hungary to the Netherlands, from Germany to Poland, an extreme right-wing wind is blowing, whose primary objective is the criminalisation of racialized people on the move. On the ground of this agreement, however, a rift has opened up between the executive and judicial powers both at Italian and European levels concerning the definition of “safe countries”, on which the legitimisation of the system of accelerated border and deportation practices is based. The Italian government thus defines countries such as Tunisia, Egypt, or Bangladesh as “safe”, to name just a few, ignoring the evident conditions of oppression that various segments of the population endure in these places. The current clash between institutions shows the political space that has opened up, which we must be able to occupy in order to propose, defend, and shape more democratic mechanisms for managing migration within and towards Europe. If the Rama-Meloni pact represents a dangerous experiment that goes beyond the political interests of Italy and Albania, then now more than ever, we need a trans-European mobilization—stretching even beyond the EU’s geopolitical borders—to reconnect and strengthen the many solidarity networks built over the years in support of freedom of movement. For this reason, we call on groups from across Europe and neighboring countries—no-border activists, people on the move, BIPOC, grass-roots collectives, associations, NGOs—who have been active for years along the borders and in opposition to forced confinement. Together, let us build a shared space of dissent, starting with the mobilizations against the centers in Albania, where we will take a leading role in the coming weeks. With the Network Against Migrant Detention (NAMD), which brings together many groups and organizations from both Italy and Albania, we will gather on December 1 and 2 in Tirana and at the camps in Shëngjin and Gjadër to oppose the neo-colonial model of outsourcing border control through the Meloni-Rama pact. We invite everyone to join us and mobilize together for the abolition of migrant detention and borders, the establishment of safe and accessible entry routes and the issuance of a European document, and freedom of movement for all. See you in Tirana! ————————————— INVITO ALLA MOBILITAZIONE EUROPEA CONTRO I CENTRI DI ESPULSIONE PER MIGRANTI IN ALBANIA Se l’Europa costruisce nuovi lager, chiunque desideri di vivere in un’Europa libera ha la responsabilità di abbatterli. In Italia la detenzione amministrativa per persone migranti sta tornando ad essere la strategia privilegiata per gestire la mobilità illegalizzata. Oltre ad impegnarsi a costruire un Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) in ogni regione, il 6 novembre 2023 il governo Meloni ha siglato l’accordo con il governo albanese per la costruzione di un hotspot e una struttura detentiva per migranti italiana su suolo albanese. Di fatto questa misura è il tentativo per esternalizzare la sovranità di uno stato membro europeo sul suolo di uno stato terzo in materia di immigrazione e controllo delle frontiere. Sebbene Rama e Meloni dipingono un quadro positivo di cooperazione, abbellito da un linguaggio di fratellanza, l’accordo Italia-Albania costituisce una chiara violazione del principio di sovranità albanese ed è l’ennesima espressione di una logica neocoloniale, evidente nel modo in cui l’Italia impone il controllo sui territori dell’Albania. Se questo modello è già stato sperimentato in altri luoghi, come per la Pacific Solution in Australia, esso rappresenta un’inedita novità nella infrastruttura di confine in Europa. Questo patto è stato accolto positivamente da diversi esponenti dell’Unione Europea come di altri paesi membri, ben rappresentando la tendenza che attraversa l’Europa, e non solo, per quanto riguarda il controllo della mobilità umana: smantellare il diritto d’asilo, esternalizzando e militarizzando il confine. Dall’Italia all’Austria, dall’Ungheria all’Olanda, dalla Germania alla Polonia, spira un vento di estrema destra che ha come primo obiettivo la criminalizzazione delle persone razzializzate e in movimento. Sul terreno di questo accordo, tuttavia, si è aperta una frattura tra potere esecutivo e giudiziario a livello italiano ed europeo per quanto riguarda la definizione di “paesi sicuri”, su cui si basa la legittimazione del sistema delle pratiche di frontiera accelerate e di deportazione. Il governo Italiano definisce quindi “sicuri” paesi come la Tunisia, l’Egitto o il Bangladesh, per citarne solo alcuni, ignorando le evidenti condizioni di oppressione che diverse porzioni di popolazioni vivono in questi luoghi. Lo scontro tra istituzioni che si sta consumando oggi denota lo spazio politico che si è aperto e che dobbiamo essere in grado di occupare per proporre, difendere e determinare meccanismi più democratici della gestione delle migrazioni in e verso l’Europa. Se il patto Rama-Meloni rappresenta una pericolosa sperimentazione che eccede l’interesse politico di Italia e Albania, allora mai come oggi abbiamo bisogno di una mobilitazione transeuropea, ben oltre i confini geopolitici UE, che riallacci e rafforzi le numerose reti di solidarietà sviluppatesi negli anni in supporto alla libertà di movimento. Per questo invitiamo le realtà europee e dei paesi vicini, da anni mobilitate sui confini e contro il confinamento coatto, ONG, attivist@ no border, persone in movimento e di origine non europea, a costruire insieme uno spazio di dissenso partendo dalle mobilitazioni contro i centri in Albania che ci vedranno protagonist@ nelle prossime settimane. Con la rete Network Against Migrant Detention (NAMD), che raccoglie tanti soggetti e realtà sia italiane che albanesi, ci troveremo l’1 e il 2 dicembre a Tirana e presso i campi di Shëngjin e Gjadër per opporci al modello neocoloniale di delocalizzazione del controllo delle frontiere attraverso il patto Meloni-Rama. L’invito è ad esserci e a mobilitarsi insieme per l’abolizione della detenzione di migranti e dei confini; per l’apertura di canali d’ingresso sicuri e accessibili il rilascio di un documento europeo; per la libertà di movimento per tutt@ Ci vediamo a Tirana!
November 19, 2024 / C.S.O.A. GABRIO
Delmastro e la “gioia” di “non lasciare respiro ai detenuti”: una indecenza scuola Pinochet
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha detto queste parole nel corso della presentazione della nuova auto della polizia penitenziaria: “L’idea di far sapere ai cittadini come noi trattiamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia”. E’ molto difficile pensare che parole di questo genere siano state pronunciate da un membro del governo italiano. Sono frasi prese a prestito dal gergo dei ministri di Pinochet, nel Cile anni 70.   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 16, 2024 / Osservatorio Repressione
Mobilitazione in Albania (N.A.M.D.)
🔴 𝐃𝐮𝐞 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐦𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚 𝐓𝐢𝐫𝐚𝐧𝐚 𝐞 𝐚𝐢 𝐜𝐞𝐧𝐭𝐫𝐢 𝐝𝐢 𝐒𝐡𝐞𝐧𝐣𝐢𝐧 𝐞 𝐆𝐣𝐚𝐝𝐞̈𝐫 𝐢𝐧 𝐀𝐥𝐛𝐚𝐧𝐢𝐚! 🔴 English below Con la conferenza stampa del 6 novembre come 𝑁𝑒𝑡𝑤𝑜𝑟𝑘 𝐴𝑔𝑎𝑖𝑛𝑠𝑡 𝑀𝑖𝑔𝑟𝑎𝑛𝑡 𝐷𝑒𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖𝑜𝑛, una nuova rete transnazionale di attivistə italiani e albanesi, abbiamo lanciato una 𝒅𝒖𝒆 𝒈𝒊𝒐𝒓𝒏𝒊 𝒅𝒊 𝒎𝒐𝒃𝒊𝒍𝒊𝒕𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒐𝒑𝒑𝒐𝒓𝒄𝒊 𝒂𝒍 𝒑𝒂𝒕𝒕𝒐 𝑹𝒂𝒎𝒂-𝑴𝒆𝒍𝒐𝒏𝒊 e per la 𝒄𝒉𝒊𝒖𝒔𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒆𝒊 𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒊 𝒅𝒊 𝑺𝒉𝒆𝒏𝒋𝒊𝒏 𝒆 𝑮𝒋𝒂𝒅𝒆̈𝒓 𝒊𝒏 𝑨𝒍𝒃𝒂𝒏𝒊𝒂. Il patto rappresenta 𝒍’𝒆𝒏𝒏𝒆𝒔𝒊𝒎𝒐 𝒎𝒆𝒄𝒄𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎𝒐 𝒅𝒊 𝒆𝒔𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒍𝒊𝒛𝒛𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒇𝒓𝒐𝒏𝒕𝒊𝒆𝒓𝒆 e sperimenta la creazione di vere e proprie strutture di detenzione amministrativa per le persone migranti, trasformandosi quindi in un pericoloso precedente all’interno dell’infrastruttura europea di contrasto alla libertà di movimento e al diritto di asilo, un 𝒎𝒆𝒄𝒄𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎𝒐 𝒔𝒆𝒄𝒖𝒓𝒊𝒕𝒂𝒓𝒊𝒐 𝒅𝒊 𝒓𝒆𝒑𝒓𝒆𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆 𝒄𝒐𝒏𝒇𝒊𝒏𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒂 𝒄𝒖𝒊 𝒗𝒐𝒈𝒍𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒐𝒑𝒑𝒐𝒓𝒄𝒊. 🔥È quindi per noi fondamentale come 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐚̀ 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥𝐞 𝐨𝐫𝐠𝐚𝐧𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐚𝐥 𝐛𝐚𝐬𝐬𝐨 𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚𝐫𝐜𝐢 𝐢𝐧 𝐀𝐥𝐛𝐚𝐧𝐢𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐦𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚𝐫𝐜𝐢, sia con un presidio all’hotspot di Shenjin e al Cpr di Gjadër domenica 1 dicembre, che con una manifestazione a Tirana lunedì 2 dicembre davanti alle istituzioni responsabili dell’accordo. Vogliamo opporci a questo modello neocoloniale creando un 𝐦𝐨𝐯𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐚𝐦𝐩𝐢𝐨 𝐞 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐯𝐞𝐫𝐬𝐚𝐥𝐞, 𝐩𝐞𝐫 𝐥’𝐚𝐛𝐨𝐥𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐦𝐚 𝐂𝐏𝐑 𝐪𝐮𝐢 𝐞 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐨𝐯𝐞, 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧’𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐢 𝐞 𝐝𝐢 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐢𝐳𝐢𝐚 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐞𝐫𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐦𝐨𝐯𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐭𝐮𝐭𝐭ə. ✈️𝑃𝑒𝑟 𝑢𝑙𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑖 𝑖𝑛𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑙𝑜𝑔𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑢 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑢𝑒 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 𝑖𝑛 𝐴𝑙𝑏𝑎𝑛𝑖𝑎 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑣𝑒𝑡𝑒𝑐𝑖!   🅢🅣🅞🅟 🅛🅐🅖🅔🅡     ENG:   🔴 𝐓𝐰𝐨 𝐃𝐚𝐲𝐬 𝐨𝐟 𝐌𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐳𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧 𝐢𝐧 𝐓𝐢𝐫𝐚𝐧𝐚 𝐚𝐧𝐝 𝐚𝐭 𝐭𝐡𝐞 𝐒𝐡𝐞𝐧𝐣𝐢𝐧 𝐚𝐧𝐝 𝐆𝐣𝐚𝐝𝐞̈𝐫 𝐂𝐞𝐧𝐭𝐞𝐫𝐬 𝐢𝐧 𝐀𝐥𝐛𝐚𝐧𝐢𝐚! 🔴   With the press conference on November 6th, as the 𝑁𝑒𝑡𝑤𝑜𝑟𝑘 𝐴𝑔𝑎𝑖𝑛𝑠𝑡 𝑀𝑖𝑔𝑟𝑎𝑛𝑡 𝐷𝑒𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖𝑜𝑛, a new transnational network of Italian and Albanian activists, we launched a 𝒕𝒘𝒐-𝒅𝒂𝒚 𝒎𝒐𝒃𝒊𝒍𝒊𝒛𝒂𝒕𝒊𝒐𝒏 𝒕𝒐 𝒐𝒑𝒑𝒐𝒔𝒆 𝒕𝒉𝒆 𝑹𝒂𝒎𝒂-𝑴𝒆𝒍𝒐𝒏𝒊 𝒑𝒂𝒄𝒕 and demand 𝒕𝒉𝒆 𝒄𝒍𝒐𝒔𝒖𝒓𝒆 𝒐𝒇 𝒕𝒉𝒆 𝒄𝒆𝒏𝒕𝒆𝒓𝒔 𝒊𝒏 𝑺𝒉𝒆𝒏𝒋𝒊𝒏 𝒂𝒏𝒅 𝑮𝒋𝒂𝒅𝒆̈𝒓, 𝑨𝒍𝒃𝒂𝒏𝒊𝒂. The pact represents yet 𝒂𝒏𝒐𝒕𝒉𝒆𝒓 𝒎𝒆𝒄𝒉𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎 𝒐𝒇 𝒃𝒐𝒓𝒅𝒆𝒓 𝒆𝒙𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒍𝒊𝒛𝒂𝒕𝒊𝒐𝒏 and experiments with the creation of actual administrative detention facilities for migrants, thus setting a dangerous precedent within the European infrastructure aimed at restricting freedom of movement and the right to asylum — 𝒂 𝒔𝒆𝒄𝒖𝒓𝒊𝒕𝒚-𝒃𝒂𝒔𝒆𝒅 𝒎𝒆𝒄𝒉𝒂𝒏𝒊𝒔𝒎 𝒐𝒇 𝒓𝒆𝒑𝒓𝒆𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏 𝒂𝒏𝒅 𝒄𝒐𝒏𝒇𝒊𝒏𝒆𝒎𝒆𝒏𝒕 𝒕𝒉𝒂𝒕 𝒘𝒆 𝒘𝒂𝒏𝒕 𝒕𝒐 𝒐𝒑𝒑𝒐𝒔𝒆.   𝐀𝐬 𝐚𝐧 𝐨𝐫𝐠𝐚𝐧𝐢𝐳𝐞𝐝 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐲 𝐦𝐨𝐯𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭, 𝐢𝐭 𝐢𝐬 𝐜𝐫𝐮𝐜𝐢𝐚𝐥 𝐟𝐨𝐫 𝐮𝐬 𝐭𝐨 𝐠𝐚𝐭𝐡𝐞𝐫 𝐢𝐧 𝐀𝐥𝐛𝐚𝐧𝐢𝐚 𝐭𝐨 𝐦𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐳𝐞, both with a protest at the Shenjin hotspot and the Gjadër CPR on Sunday, December 1st, and with a demonstration in Tirana on Monday, December 2nd, in front of the institutions responsible for the agreement. We want to resist this neo-colonial model by 𝐜𝐫𝐞𝐚𝐭𝐢𝐧𝐠 𝐚 𝐛𝐫𝐨𝐚𝐝, 𝐜𝐫𝐨𝐬𝐬-𝐜𝐮𝐭𝐭𝐢𝐧𝐠 𝐦𝐨𝐯𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭 𝐭𝐨 𝐚𝐛𝐨𝐥𝐢𝐬𝐡 𝐭𝐡𝐞 𝐂𝐏𝐑 𝐬𝐲𝐬𝐭𝐞𝐦 𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐧𝐝 𝐞𝐥𝐬𝐞𝐰𝐡𝐞𝐫𝐞, 𝐭𝐨 𝐛𝐮𝐢𝐥𝐝 𝐚 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞 𝐨𝐟 𝐫𝐢𝐠𝐡𝐭𝐬 𝐚𝐧𝐝 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥 𝐣𝐮𝐬𝐭𝐢𝐜𝐞, 𝐚𝐧𝐝 𝐭𝐨 𝐟𝐢𝐠𝐡𝐭 𝐟𝐨𝐫 𝐟𝐫𝐞𝐞𝐝𝐨𝐦 𝐨𝐟 𝐦𝐨𝐯𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭 𝐟𝐨𝐫 𝐚𝐥𝐥.   𝐹𝑜𝑟 𝑓𝑢𝑟𝑡ℎ𝑒𝑟 𝑙𝑜𝑔𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑖𝑛𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑛 ℎ𝑜𝑤 𝑡𝑜 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑐𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑡𝑤𝑜 𝑑𝑎𝑦𝑠 𝑖𝑛 𝐴𝑙𝑏𝑎𝑛𝑖𝑎, 𝑔𝑒𝑡 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑢𝑐ℎ 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑢𝑠!   🅢🅣🅞🅟 🅛🅐🅖🅔🅡
November 15, 2024 / C.S.O.A. GABRIO
Governo e giudici calpestano la Costituzione: niente diritti ai detenuti
Nel gennaio di quest’anno, la Consulta ha chiarito che i detenuti possono avere incontri intimi con i partner, ma per alcuni giudici di sorveglianza è un optional, come la doccia… di Salvatore Curreri da l’Unità Devo ringraziare pubblicamente il giudice di sorveglianza di Torino per aver offerto ai miei studenti un ottimo esempio di cosa sia un diritto fondamentale; di come esso si differenzi da una mera aspettativa; infine di quale sia – meglio: dovrebbe essere – il ruolo di garanzia della nostra Corte costituzionale. La questione riguarda la condizione dei detenuti. Com’è arcinoto, oggi le nostre carceri, anche a causa del loro strutturale sovraffollamento, sono fatiscenti, insalubri e insufficienti. Per questo sono quasi sempre luoghi di sofferenza, alienazione e tempo perso; tutto il contrario rispetto a quella finalità rieducativa cui secondo l’art. 27.3 della Costituzione il trattamento penitenziario deve tendere. È come se il detenuto scontasse una “doppia pena”: l’una per la condanna inflitta, l’altra per le modalità con cui viene eseguita. In direzione ostinata e contraria rispetto a chi, anche al governo, considera il carcere una “discarica sociale”, un “cimitero dei vivi” popolato da soggetti per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera”, la nostra Corte costituzionale rammenta sempre che in carcere entra la persona, non il reato. Per questo la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona ma non la sua soppressione, specie per quel residuo di libertà che rimane al detenuto, “tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte costituzionale, 349/1993, 4.2). In questo contesto, nel gennaio di quest’anno la Corte costituzionale, rompendo ogni indugio, ha stabilito che il detenuto, come già accade altrove (Francia, Spagna, Germania), può essere ammesso ad avere colloqui affettivi intimi, anche di natura sessuale, con il proprio partner, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina o ragioni giudiziarie. La stessa Corte, consapevole delle difficoltà pratiche nel dare esecuzione alla propria sentenza, aveva sollecitato l’amministrazione della giustizia, inclusi i diritti degli istituti penitenziari, a creare al loro interno gli spazi necessari, tenendo conto delle condizioni materiali della singola struttura e con la gradualità eventualmente necessaria. E così concludeva: “In questa prospettiva, l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. Ebbene sembra proprio che, secondo quanto riportato da Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, la giudice di sorveglianza di Torino non solo si sia sottratta a tale compito ma abbia finito financo per giustificare, anziché criticare, l’inottemperanza sul punto dell’amministrazione penitenziaria, nonostante sia trascorso un anno da quella sentenza. Sulla base della visione ottocentesca per cui i diritti fondamentali sono tali soltanto se graziosamente concessi dallo Stato, per la giudice quello all’affettività del detenuto non è un diritto soggettivo fondamentale ma soltanto una mera “aspettativa legittima” che “può trovare concreta realizzazione solo all’esito dell’avverarsi di più condizioni”. E siccome, nel caso specifico, il carcere di Asti “allo stato ha riferito la mancanza di idonei locali”, per la giudice ciò “determina il mancato avveramento di una delle condizioni e non consente all’aspettativa di trasformarsi in vero e proprio diritto”. Senza neppure la benché minima critica o sollecito all’amministrazione penitenziaria affinché invece si attivi per garantire il diritto sancito dalla Corte costituzionale. Evidentemente, per la giudice torinese, sono i diritti fondamentali del detenuto che si devono adeguare alle condizioni carcerarie ed essere esercitati compatibilmente con esse, e non viceversa, essere queste ultime invece che devono corrispondere ai diritti incomprimibili della persona. Se a ciò aggiungiamo che pochi mesi fa il giudice di sorveglianza di Firenze, con un’ordinanza per fortuna poi rivista in appello, aveva stabilito che avere l’acqua calda in cella “non è un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”, mi pare evidente come alcuni giudici manchino di cultura costituzionale. Finora a fare orecchie da mercante alle sentenze e ai moniti della Corte costituzionale era la classe politica. Non vorremmo che questa insana abitudine si estendesse ora ai giudici. Ma se così fosse, stiano pure tranquilli: certamente almeno per questo non saranno criticati dal governo.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 15, 2024 / Osservatorio Repressione
Ragazzi dentro
In 22 mesi di governo della destra i minori in carcere sono aumentati del 48%, pur in assenza di una crescita della devianza giovanile. E aumentano i suicidi, l’uso di psicofarmaci, i trattamenti sanitari obbligatori, la promiscuità. Eppure tutti gli esperti segnalano che questa situazione si riflette anche sulla recidiva mentre sarebbe assai più utile introdurre forme di detenzione socializzanti e a sicurezza attenuata. di Alberto Gaino da Volere la Luna L’ultimo rapporto di Antigone è univoco: «In 22 mesi di governo di destra i minori in carcere sono aumentati del 48%. Eppure non c’è un allarme sociale rispetto alla devianza giovanile: nel 2023 i ragazzi denunciati e/o arrestati sono stati persino di meno (4,15%) rispetto all’anno precedente. La metà dei reati a carico di minorenni in istituti penali minorili (IPM) è contro il patrimonio. Però, nel frattempo, è entrato in vigore il decreto Caivano e i numeri di ragazzi in detenzione cautelare è esploso: sono il 67,7% per cento del totale dei detenuti minorenni». La stessa incompatibilità dei giovani con il carcere degli adulti – sancita per legge nel 1988 – che consente ai minori diventati maggiorenni di restare in un IPM sino al compimento dei 25 anni, è stata negata, grazie al “decreto Caivano”, dal Ministero della Giustizia: nel 2023 ha disposto il trasferimento in carceri per adulti di 59 ragazzi fra i 18 e i 24 anni. Nel corso del 2024 l’ha rifatto: sono 123 gli ex minori trasferiti in mezzo agli adulti. L’ha rifatto specialmente dopo le rivolte a Casal di Marmo di Roma, al Beccaria di Milano e soprattutto al Ferrante Aporti di Torino. La motivazione poteva essere il sovraffollamento. Ma non è stato per questo. Dopo la contestazione nell’IPM torinese l’Osapp, sindacato di destra della polizia penitenziaria, ha indicato la “pericolosità” dei giovani adulti nel carcere minorile. Il ministero è andato nella stessa direzione, ma fornendo una ricostruzione tortuosa dei motivi della rivolta, dalla trama persino gialla. Il guardasigilli Nordio intende procedere in spregio del processo minorile, il cui codice è stato approvato nel 1988 e che ha stabilito, appunto, l’incompatibilità dei giovani adulti detenuti con il carcere tout court. Vi ha provveduto con la solita legislazione di emergenza. Con il cosiddetto “decreto Caivano”, diventato legge il 15 settembre di un anno fa, aveva provocato, nel solo periodo settembre/ottobre 2023, + 123 arresti di minorenni, che continuano a salire. A metà settembre scorso erano 569 i giovanissimi in carcere, per due terzi in regime di custodia cautelare. Da questa contabilità mancano gli arresti dei giovani fra i 18-24 anni, da sempre inviati direttamente nelle carceri ordinarie. Per comprendere l’impatto del “decreto Caivano”, a fine 2022 erano 352 i ragazzi detenuti negli istituti di pena minorili, saliti a 30 di più nove mesi dopo e prima del “raid” del governo che ha criminalizzato anche i quattordicenni e le loro famiglie con un provvedimento intestato al disagio giovanile. Nello stesso stile del “decreto Cutro”, dedicato a una tragedia del mare e ai mancati soccorsi, ma che in realtà ha azzerato la protezione umanitaria. Il “decreto Caivano” ha previsto il “daspo urbano”, la cui inadempienza comporta un reato punibile sino a tre anni di carcere, anche per i quattordicenni che devono allontanarsi da dove vivono e dalle zone che frequentano, inclusi locali pubblici. Inasprisce le pene per il piccolo spaccio e anche per il possesso di armi “improprie”, soprattutto prevede la custodia cautelare in carcere per previsioni di condanne al massimo di sei anni, mentre prima la soglia era di nove anni. Quatto quatto, il Guardasigilli del governo di destra sta ribaltando una legge di civiltà. Dice Perla Allegri, ricercatrice universitaria e attivista di Antigone: «Dei 569 detenuti a settembre scorso 262 erano gli stranieri, tanti gli adolescenti soli. Come Antigone abbiamo avuto colloqui in carcere con alcuni di loro e appreso che avevano attraversato a piedi per mesi e mesi i monti della rotta balcanica. In Italia sono nuovamente finiti in strada e arrestati per piccoli reati, adesso sono trattati come pacchi spediti negli istituti minorili del Sud meno affollati, con la giustificazione che al Nord non hanno nessuno». Esemplare la situazione torinese, evidenziata dall’inchiesta della clinica legale universitaria, commissionata dal garante delle persone private della libertà, Monica Gallo, relativa ai detenuti nati fra il 1997 e il 2004, in regime di custodia cautelare nella casa circondariale per adulti “Lorusso e Cutugno” fra gennaio e aprile 2022. La fascia d’età 18-24 anni sul totale della popolazione carceraria, in Italia del 5,8%, in Piemonte era del 6,55% e a Torino del 10% (135 su 1372 detenuti). Da 149 interviste è emersa una radiografia significativa: il 74,50% dei detenuti era di origine straniera, per lo più provenienti da Marocco, Tunisia, Senegal e Nigeria. Non aveva permesso di soggiorno l’88,30%. Ancora: il 30,20% viveva in famiglia prima dell’arresto, il 20,81% in un’abitazione privata (evidentemente condivisa con altri), mentre i migranti ex minorenni giunti soli in Italia erano più della metà: il 54,05%. Il 51,68% era in possesso di licenza media o di un titolo di studio analogo conseguito nei paesi di origine, il 14,44% si era diplomato al termine di corsi triennali. Il 34,09% era stato preso in carico dai servizi sociali torinesi. Quasi la metà, il 47,73%, era seguito prima dell’arresto dai SerD (i servizi contro le dipendenze) e il 6,82% dai centri di salute mentale. Per tanti ragazzi l’accesso ai servizi sanitari è stato reso possibile con l’ingresso in carcere. Ma l’abbandono e l’isolamento è proseguito dietro le sbarre: il 53,69% non ha avuto un solo colloquio in carcere con persone esterne, familiari e no. E il 44,97% non ha incontrato nemmeno “figure di supporto” (nel carcere torinese vi è 1 educatore per 110 detenuti). I compagni di cella erano, nel 42,24% dei casi, di nazionalità diversa e, nel 40% di età fra i 30 e i 50 anni. Perla Allegri fa notare che, rispetto al 2022, con l’aumento del sovraffollamento in carcere, l’attenzione delle direzioni delle carceri a tenere separati il più possibile i giovani adulti dai più vecchi (quelli che “comandano” nei bracci) è venuta meno e la promiscuità dei detenuti è decisamente salita. Con la conseguenza, tra l’altro, dell’aumento delle violenze sessuali, come in ogni altra istituzione totale. I Tso in carcere si aggirano sui 200 l’anno e – come ha rivelato Monica Gallo in un recente incontro sull’incompatibilità dei giovani con il carcere degli adulti – il 30% è ormai effettuato su minori. Con un aumento esponenziale del 1425% negli ultimi anni. Nel medesimo incontro Sergio Durando, referente della Pastorale migranti dell’Arcidiocesi torinese, ha tratteggiato il cerchio chiuso che identifica la vita di tanti adolescenti stranieri non accompagnati (MSNA): «Abbiamo esteso il nostro ufficio alle strade. Incontriamo, incontro quotidianamente ragazzi senza documenti e accoglienza, che hanno nella strada l’unica risorsa. Dormono anche in strada. E assumono farmaci antiepilettici, come Rivotril e Lyrica, ci bevono su alcolici, si sballano per contrastare il malessere, quando non entrano nel giro della droga come spacciatori e spesso ne diventano essi stessi dipendenti. Senza risorse per una accoglienza dignitosa dei minori soli e più fragili, l’approdo al carcere di tanti sembra inevitabile, ed è gravissimo. Costa pure molto di più alla collettività». Gli ha fatto da contraltare Franco Prina, professore universitario e fra gli esperti sul tema più stimati: «Questi ragazzi arrivano da noi pieni di rabbia. Perché in tutto il percorso migratorio, durato anche anni e anni, hanno incontrato solo rappresentanti di istituzioni che li hanno massacrati. Non c’è più fiducia da parte loro, non c’è nemmeno comunicazione. Un primo obiettivo, dentro il carcere, è di riservare un trattamento diverso ai giovani adulti fra i 18 e i 24 anni dedicando loro una struttura detentiva che li separi pure dai minori ma soprattutto dagli over 25». Prina ha citato l’ex sindaco torinese Diego Novelli al tempo dell’avvio del progetto pilota del Ferrante Aporti: «Se il carcere minorile è chiuso dentro la città, dovremo portare la città dentro il carcere». Ciò, oggi, vale anche per i giovani adulti detenuti. Perché non coinvolgerli, per il tempo minimo, per tanti, di una detenzione residuale in un progetto di “casa circondariale a sicurezza attenuata”? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 14, 2024 / Osservatorio Repressione
Carcere di Cuneo: Picchiare i detenuti era la prassi
Dall’inchiesta sul carcere emerge una realtà infernale: “Picchiare i detenuti a Cuneo era la prassi”. Per i giudici del tribunale del Riesame non ci sono dubbi delle violenze sistematiche della Penitenziaria. I verbali dei detenuti nell’inchiesta che già conta 33 indagati. Gli agenti intercettati: «Quella notte li hanno portati tutti giù e bum bum bum» di Elisa Sola  da La Stampa Per i giudici del tribunale del Riesame non ci sono dubbi delle violenze sistematiche della Polizia penitenziaria. Condotte “crudeli, brutali e degradanti per le vittime”. E, soprattutto, “frutto non già di una situazione eccezionale ed episodica, ma conseguenza di una prassi fuorviante improntata alla violenza”. Non esistono dubbi, secondo i giudici del tribunale del Riesame di Torino. Nel carcere di Cuneo picchiare i detenuti, perlomeno in un determinato periodo, sarebbe stata un’abitudine per alcuni agenti della penitenziaria. Accogliendo la tesi della procura – guidata da Onelio Dodero – e respingendo i ricorsi delle difese, i giudici del Tribunale della libertà (presidente Cristiano Trevisan) hanno confermato la misura dell’interdizione dal servizio, per 10 e 12 mesi, nei confronti di due poliziotti. Rappresentati dagli avvocati Antonio Mencobello e Leonardo Roberi, l’ispettore Giovanni Viviani e l’assistente capo Rosario Rossi, si erano difesi anche sostenendo che non vi fosse pericolo di reiterazione del reato. Per i giudici non è così. L’indagine sui pestaggi subiti da un gruppo di detenuti, di cui molti pakistani, in particolar modo durante la notte tra il 20 e il 21 giugno 2023, avrebbe fatto emergere violenze dettate dalla volontà di “impartire ai detenuti una lezione su come ci si doveva comportare nel carcere di Cuneo”. Violenze che potrebbero essere replicate. Quella notte le vittime furono almeno cinque. Picchiate nude, scalze, trascinate dalla cella all’infermeria. E da qui, dopo la prima parte del pestaggio, fino alle stanze destinate all’isolamento. Dove, secondo l’accusa, sarebbero rimaste fino al giorno dopo “senza cibo né acqua, senza vestiti né coperte”. Ma, al di là di quella notte, l’inchiesta svolta dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, avrebbe fatto emergere, un quadro più preoccupante. Sarebbe stata “una prassi” picchiare i detenuti. Ecco perché il reato contestato dalla procura, la tortura, secondo il Riesame sarebbe sussistente, oltre alle lesioni. “Gravi indizi di colpevolezza” peserebbero “nei confronti degli indagati”. Indizi confermati non solo dalle testimonianze, ma anche dalle consulenze medico legali, dai filmati delle telecamere e dalle intercettazioni. In totale gli indagati sono 33. Le vittime di quella notte di giugno, schernite anche per la loro origine – “pakistani di merda” – sono quasi tutte incensurate. La notte della “mattanza” era iniziata con una perquisizione non autorizzata nella cella 417. Fra i presunti picchiatori, anche agenti liberi dal servizio con i guanti neri. Per il Riesame i fatti denotano una “estrema gravità delle condotte, tenute in spregio ai principi costituzionali e che devono informare l’operato degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, funzione altamente delicata, in cui le funzioni di custodia devono accompagnarsi a doti di umanità e rispetto per chi è privato della libertà personale”. Nei confronti dei poliziotti per i quali la procura aveva chiesto e ottenuto dal gip la misura della sospensione dal servizio, per i giudici “sussiste un concreto e attuale pericolo di reiterazione, trattandosi di soggetti attualmente in servizio presso lo stesso carcere e stabilmente a contatto con i detenuti”. “Non consta, peraltro, che gli stessi siano stati sospesi disciplinarmente dal servizio – concludono – né che siano incorsi in altre sanzioni disciplinari per i fatti per cui si procede. Anzi, per quanto emerso in udienza, rispetto all’allegazione del pm non smentita dall’indagato presente né dalla sua difesa, parrebbe che Viviani sia stato addirittura promosso, dopo i fatti, al grado di vice comandante della polizia penitenziaria”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 13, 2024 / Osservatorio Repressione