41bis: nascita, regole ed evoluzione del “carcere duro” in ItaliaIntrodotto come misura emergenziale dopo le stragi mafiose del ‘92, con
l’obiettivo di impedire i rapporti dei boss con l’esterno, il regime carcerario
si è trasformato in un sistema “permanente” di privazioni e limitazioni che
solleva dubbi di natura costituzionale.
di Damiano Aliprandi da il dubbio
Cos’è e chi viene sottoposto al regime di 41 bis in Italia? Parliamo di un
articolo introdotto nell’ordinamento penitenziario, quindi di natura
amministrativa, che nel gergo comune viene chiamato “carcere duro”, anche se
sulla carta, duro non è, altrimenti sarebbe incostituzionale.
Secondo l’attuale formulazione del comma 2 dell’articolo 41 bis dell’ordinamento
penitenziario, si tratta di un regime differenziato che può essere disposto, con
provvedimento del Ministro della giustizia, nei confronti di singoli detenuti o
internati per “per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle
condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso”, in relazione
ai quali vi siano “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti
con l’associazione criminale, terroristica o eversiva”.
Quindi sono sottoposti al carcere duro i boss mafiosi o capi di organizzazioni
considerate terroristiche. Per l’ordinamento penitenziario, il 41bis ha un solo
scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale
esterna. Il 41bis deve impedire le relazioni con l’esterno per rescindere i
legami criminali. Invece, di fatto, è diventato nel tempo un carcere duro perché
si è trasformato in un sistema di privazioni e limitazioni, imposizioni e
divieti. Anche se, grazie a diverse sentenze della Cassazione e Corte
Costituzionale, sono cadute alcune restrizioni afflittive che non giustificano
lo scopo originario del 41 bis.
Le radici del 41 bis nell’ordinamento penitenziario – L’articolo 41-bis nasce
come risposta a un complesso intreccio di sfide sociali, politiche e criminali
che hanno caratterizzato l’Italia dalla fine degli anni ‘70. L’evoluzione di
questa norma è strettamente legata al contesto emergenziale del periodo, segnato
da una duplice minaccia: il terrorismo e la crescente pervasività delle
organizzazioni criminali, in particolare Cosa Nostra. Tuttavia, le radici di
questo regime vanno ricercate nell’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario,
introdotto con la riforma del 1975, un punto di partenza cruciale per
comprendere l’architettura normativa e ideologica che ha condotto alla
successiva elaborazione del 41-bis.
L’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354, rappresentò un traguardo
storico per il sistema penitenziario italiano, segnando l’apice del movimento
riformista che si proponeva di conciliare il trattamento dei detenuti con i
principi costituzionali di reintegrazione sociale. Tuttavia, il legislatore
dell’epoca, pur enfatizzando un approccio umanizzante e riabilitativo, ha
introdotto l’articolo 90 nell’ordinamento penitenziario come strumento
emergenziale, prevedendo che, in casi di gravi e straordinarie esigenze di
ordine e sicurezza, le regole ordinarie del trattamento potessero essere
temporaneamente sospese mediante un decreto del Ministro di Grazia e Giustizia.
Questo regime, per anni non fu mai applicato, perché considerata una misura
altamente eccezionale.
Il rapimento Moro e la prima applicazione – Arriviamo al 16 marzo 1978. In via
Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia
Cristiana Aldo Moro e uccide i cinque uomini della scorta. Viene così
legittimata per la prima volta l’applicazione dell’articolo 90. Furono istituiti
i primi cinque istituti di “massima sicurezza”: Favignana, Asinara, Cuneo,
Fossombrone e Trani. In questi istituti, il regime carcerario divenne
particolarmente rigido: ai detenuti venivano imposte limitazioni significative,
tra cui la segregazione dalle attività collettive, restrizioni nei colloqui con
i familiari (spesso effettuati attraverso barriere divisorie) e una sorveglianza
continua. Questi provvedimenti, pur giustificati dalla necessità di contenere i
pericoli interni ed esterni al carcere, evidenziarono da subito le
contraddizioni di un approccio che derogava alle garanzie ordinarie previste
dalla legge penitenziaria.
Stabilizzazione e successiva abrogazione dell’articolo – Con il passare degli
anni, l’applicazione dell’articolo 90 si stabilizzò, portando alla creazione di
un sistema di gestione emergenziale quasi permanente, che rischiava di
contraddire il principio stesso della sua temporaneità. Critiche si
concentrarono anche sul rischio di incostituzionalità, specie in relazione alla
censura della corrispondenza e alla limitazione dell’accesso agli spazi
all’aperto. Queste problematiche, unite alla necessità di armonizzare la
gestione delle situazioni emergenziali con i diritti fondamentali dei detenuti,
portarono alla progressiva revisione dell’articolo 90, fino alla sua abrogazione
con l’introduzione della legge 10 ottobre 1986, n. 663, conosciuta come legge
Gozzini.
Nascita del 41 bis in Italia – Come per l’azione terroristica nei confronti di
Aldo Moro, le stragi mafiose del 1992 dettero l’impulso nel rispolverare
l’articolo 90 attraverso, appunto, la conversione in legge del 41 bis. Il 23
maggio, a Capaci, esplode una quantità abnorme di tritolo. Una tragedia immane.
L’esplosione ha investito l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di
Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che
seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici
Giovanni Falcone e Francesca Morvillo.
I primi soccorritori hanno potuto constatare che i magistrati erano ancora in
vita. La dottoressa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza,
invece Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli
venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e
dai sanitari dopo, entrambi i giudici sarebbero poi deceduti in serata per le
emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata
dall’esplosione.
Decreto Martelli-Scotti – La strage di Capaci spinse i ministri Martelli e
Scotti a elaborare un decreto che inasprisce diverse misure, tra le quali
l’introduzione del 41 bis. In quel momento storico, il Parlamento era
attraversato da partiti fortemente garantisti, dai liberali, passando per i
Radicali e i Socialisti, fino ad arrivare agli eredi del Partito comunista. I
quali avevano espresso forti perplessità per questa misura che va in antitesi
con la riforma Gozzini.
Il decreto legge tardava ad essere convertito in legge. Arriviamo così al 19
luglio 1992, quando Totò Riina decide di accelerare la strage di Via D’Amelio.
Per Cosa Nostra Paolo Borsellino era diventato troppo pericoloso. Tutte le
sentenze sulle stragi affermano che l’uccisione ebbe non solo uno scopo
vendicativo per l’esito del maxiprocesso, ma soprattutto “preventivo”, visto
l’interessamento del giudice all’indagine su mafia appalti.
La conversione in legge dopo Via D’Amelio: l’attentato fa crollare il muro
garantista – Per Totò Riina l’esigenza maggiore era quella di preservare i suoi
affari miliardari e i patti con i potentati economici (in un caso addirittura
entrò in società tramite i Buscemi), anziché rischiare che passasse il decreto
sul regime del 41 bis. È accaduto anche con i delitti eccellenti. L’uccisione
del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, accelerò l’iter dell’approvazione della
legge “Rognoni-La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la
previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la
conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione
illecita di capitali. L’attentato di Via D’Amelio fece crollare il “muro”
garantista. L’iter per la conversione in legge fu accelerato e l’8 agosto 1992
il Parlamento convertì il decreto Martelli-Scotti e quindi anche il 41 bis.
Da emergenziale a ordinario, la trasformazione del 41 bis – Il giudice Giovanni
Falcone viene spesso strumentalizzato per difendere l’afflittività del 41 bis.
Il giudice ha voluto il regime differenziato, non per torturare o convincere i
boss a collaborare. La finalità, così come anche oggi è sulla carta, era
necessaria per i capi mafia, coloro che erano al vertice dell’organizzazione,
onde evitare ogni possibile collegamento e contatto tra i detenuti all’interno
delle carceri e i criminali esterni. Nulla di più.
Quando nell’agosto del 1992 c’è stata la conversione in legge, secondo l’intento
del legislatore tale misura dove essere emergenziale e soprattutto temporanea.
Tuttavia, la sua vigenza è stata assicurata nel corso degli anni, per quasi un
decennio, da reiterati provvedimenti legislativi di proroga, fino alla sua
definitiva stabilizzazione nel sistema penitenziario a opera della legge del 23
dicembre 2002 con il governo Berlusconi.
L’inasprimento del regime differenziato – Attraverso la legge del 15 luglio 2009
n. 94, e sempre con il governo di centrodestra, il 41 bis ha avuto un
inasprimento. Una legge che ha inserito gravose misure afflittive eccessive
rispetto alla finalità di sicurezza. La ratio è quella di impedire i contatti,
che però si realizzano soltanto attraverso due canali: da un lato la
corrispondenza epistolare, telegrafica o telefonica, dall’altro, i colloqui. Non
ci sono altri mezzi con cui il detenuto può comunicare. Eppure, solo per fare un
esempio, è accaduto che ai reclusi al 41 bis venisse interdetta la possibilità
di tenere nella propria cella la foto dei propri genitori defunti. Oppure di
ascoltare la musica di notte.
Il 41 bis e i dubbi di costituzionalità – Il 41 bis continua a sollevare
dibattiti sulla sua compatibilità con i principi costituzionali. I dati
evidenziano un numero stabile di detenuti sottoposti a questo regime negli
ultimi anni, pari a circa 700, con numerosi rinnovi automatici e casi di
detenzione che si protraggono per l’intera durata della pena. La gestione del 41
bis si basa su un intreccio di norme, circolari e disposizioni amministrative,
che regolano in modo estremamente rigido la vita detentiva. L’ultimo intervento
legislativo significativo risale alla Legge 15 luglio 2009 n. 94, che ha
definito la configurazione attuale del regime speciale.
Le modifiche legislative sono state spesso accompagnate da interventi della
Corte Costituzionale, volti a garantire che il 41 bis fosse conforme ai principi
costituzionali. Oltre alla legislazione, l’Amministrazione penitenziaria ha
emesso numerose circolari, tra cui la circolare n. 3676/6126 del 2017, che
rappresenta un esempio di burocratizzazione dei diritti. Questa circolare
specifica dettagli come la dimensione delle pentole o le modalità di accesso a
libri e giornali.
Le criticità del 41 bis e il dibattito sulla “tortura” – Le misure per i
detenuti di alto profilo sono ancora più rigide. Questi scontano la pena in aree
riservate, dove i contatti sociali sono ulteriormente limitati. Un esempio
emblematico è il sistema della modalità “a due”, in cui un detenuto viene
assegnato come “compagno” per un altro, limitando ulteriormente le interazioni.
Questo rappresenta un 41 bis ancora più severo, che accentua l’isolamento dei
reclusi.
L’obiettivo principale del 41 bis è recidere i collegamenti tra il detenuto e la
criminalità organizzata, garantendo al contempo l’ordine e la sicurezza.
Tuttavia, la sua applicazione solleva diverse criticità. Eccessiva
burocratizzazione: le norme minuziose imposte dalla circolare del 2017 hanno
suscitato perplessità. Come la limitazione dei contatti sociali e sensoriali:
l’isolamento prolungato incide sul benessere psichico e fisico dei detenuti. E
vi sono dubbi sul rispetto dei principi di umanità e rieducazione sanciti dalla
Costituzione.
Un “ergastolo bis”? Un aspetto controverso del 41 bis riguarda l’elevato numero
di rinnovi automatici e la lunga permanenza in regime speciale di molti
detenuti. Questi fattori alimentano il timore che il 41 bis si sia trasformato
in una sorta di “ergastolo bis”, svuotandolo della sua natura di misura
eccezionale. Ciò potrebbe violare il principio di proporzionalità della pena,
trasformando il 41 bis in una sanzione permanente anziché temporanea, come
previsto originariamente.
Il 41 bis rappresenta un dilemma complesso, in bilico tra le esigenze di
sicurezza e il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Per garantire la
legittimità del regime, è necessario che la sua applicazione avvenga in modo
rigoroso e proporzionato, con una verifica periodica della sussistenza dei
presupposti che ne giustificano l’uso. Solo un confronto aperto e onesto potrà
bilanciare le esigenze di sicurezza con i principi di umanità e rieducazione
sanciti dalla Costituzione italiana.
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