Nelle carceri la strage continua
Sei suicidi da inizio anno nelle carceri. Amnistia e indulto, parole bandite. La premier Giorgia Meloni in conferenza stampa conferma la scelta del populismo penale Ad inizio 2025 nelle carceri italiane si contano già 5 detenuti e un operatore suicida. L’ultimo dramma si è registrato a Regina Coeli, a Roma, dove un ragazzo rumeno di 23 anni si è impiccato mercoledì notte, appena pochi giorni dopo l’arresto per rapina e altri reati contro il patrimonio. In questi primi giorni dell’anno, un sesto recluso si è tolto la vita in una Rems (le residenze per i rei affetti da disturbi mentali), e altri due sono morti per altre cause. Per Giorgia Meloni e il suo governo il ricorso all’amnistia o all’indulto per alleviare il sovraffollamento carcerario e l’intasamento delle aule di giustizia in attesa di auspicate riforme strutturali non sono “un modo serio di risolvere il problema”. Rispondendo alla domanda di una giornalista di Radio Popolare durante la conferenza stampa di inizio anno, la presidente Meloni mette il sigillo supremo sulla presa di posizione più volte esplicitata dal ministro di Giustizia. Ma, la prima risposta da dare alla strage di vite e diritti nelle carceri è la riconduzione immediata della popolazione carceraria alla capacità degli istituti. L’hanno riconosciuto il presidente del Senato, il vicepresidente del Csm. Se il 2024 è stato l’annus horribilis delle morti e dei suicidi in carcere, questo è iniziato peggio. “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”, ha detto il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno agli italiani, aggiungendo che il sovraffollamento contrasta con “norme imprescindibili sulla detenzione in carcere” e “rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Inutile ricordarle che di amnistia parla anche Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo perché, fa notare la premier, è un appello urbi et orbi senza alcun peso politico specifico. Contrariamente a Carlo Nordio, però, Meloni non dice che ogni atto di clemenza è un “inutile segno di debolezza dello Stato” ma conferma la strada già delineata dal suo governo. La soluzione, secondo la premier, sarebbe “da una parte ampliare la capienza delle carceri”, dall’altra cercare di “rendere più agevole ad esempio il passaggio dei detenuti tossicodipendenti nelle comunità”. A questo scopo infatti il Decreto carceri ha istituito un albo di comunità dove detenuti tossicodipendenti possano scontare la pena (ma l’elenco è scarno e la norma è rimasta lettera morta). E a settembre Marco Doglio è stato nominato Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria con una dote di 36 milioni di euro e la missione (rimasta al palo) di ricavare nuove celle da vecchi edifici. Molte le reazioni di sconcerto alle parole di Meloni, dal portavoce dei garanti territoriali dei detenuti Ciambriello che ribadisce il concetto della detenzione come extrema ratio, all’associazione Coscioni che ha diffidato 102 Asl per la violazione del diritto alla salute dei detenuti. Mentre il vescovo ausiliario di Roma, mons. Ambarus, che ha accompagnato il Papa nell’apertura della porta santa a Rebibbia, auspica che Meloni si converta ad “approccio più umanitario” quando si parla di detenzione.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 11, 2025 / Osservatorio Repressione
Zone Rosse – UK e Israele nell’infowar – Algoritmi e consenso@0
Dalla puntata del 6 gennaio 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia   ZONE ROSSE Dopo sperimentazioni a Bologna e Firenze, si intende normalizzare una nuova segmentazione securitaria del territorio: la zona rossa interdetta agli indesiderati. Abbiamo già conosciuto questo termine, impiegato per le aree interdette alle contestazioni durante i summit internazionali e per […]
January 10, 2025 / Bello come una prigione che brucia
Il governo Meloni vuole un carcere incostituzionale. E gli altri?
Bisogna entrare in un carcere “normale” per capire il degrado in cui si vive 365 giorni l’anno. La politica lo sa ed è consapevole di quanto sia violata l’idea di pena scritta in Costituzione. Eppure è totalmente indifferente, come si vede dal rifiuto aprioristico di ogni provvedimento di amnistia o indulto. Per il governo Meloni questo è un vanto (del resto la Costituzione non è la loro). Ma per gli altri? di Michele Miravalle da Volere la Luna Chi osserva il carcere con occhio non assuefatto, come prova a fare l’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, sa che le visite in carcere più complicate sono quelle di agosto e di dicembre. Sono questi i due momenti in cui è più evidente – e dunque, inaccettabile – la distanza tra il “dentro” e il “fuori” e soprattutto tra la pena idealizzata dalle norme e quella materiale, vivente, di carne e sbarre. Ad agosto, con il Paese in vacanza, l’ammasso di corpi accaldati e madidi langue senza fare nulla per lunghissime settimane, senza scuola, senza formazione, senza lavoro. A dicembre il non-Natale penitenziario crea rabbia e tensione. La spiacevole sensazione è stata confermata ancora poche settimane fa, durante la visita in una casa di reclusione del basso Piemonte. Alle osservatrici e agli osservatori di Antigone si chiede di visitare sempre le sezioni di “media sicurezza” in cui sono reclusi oltre 50mila delle 62mila persone detenute nelle carceri italiane (le altre 10 mila sono divise invece tra sezioni di Alta Sicurezza e sezioni “a custodia attenuata” per detenute madri o per persone tossicodipendenti, 750 sono al 41bis). Ma è la “media sicurezza” la cartina di tornasole di un sistema complesso e frastagliato. É in quelle sezioni, più che in altre, che il significato di sovraffollamento diventa tangibile. Certo si deve ragionare a mente fredda sulle statistiche, su come e perché cambi il tasso di sovraffollamento, sul fatto che il Ministero della Giustizia si ostini a calcolare nella capienza regolamentare di 51 mila posti delle carceri italiane anche 4 mila posti che in realtà sono indisponibili o non agibili. Dopodiché occorre rendersi conto, senza retorica, quali effetti ha il sovraffollamento sulla quotidianità detentiva. Per farlo, in quelle sezioni sovraffollate, bisogna starci. Insomma bisogna avere visto, come ammoniva il padre costituente Piero Calamandrei. Vedere, ad esempio, come nel caso di quest’ultima visita, un unico agente venticinquenne aggirarsi solo e spaesato con il mazzo di chiavi dorate, travolto da ogni genere di richiesta da parte di un’ottantina di persone nello spazio pensato per quaranta. Quello che è chiamato in infermeria per il metadone che altrimenti la crisi è dietro l’angolo, quello all’ufficio matricola, il gruppo che deve scendere al colloquio, quello che si è tagliato per la disperazione e ora gocciola sangue, i due che litigano per il sopravvitto e vengono alle mani, quello che non si capacita di come il suo pacco con i vestiti non sia mai arrivato dal carcere dove era prima e da dieci giorni è costretto a pietire mutande e maglioni ai suoi compagni di cella. Questo è il sovraffollamento. In una qualsiasi sezione di media sicurezza, in un giorno qualsiasi. In quelle condizioni nasce l’infame record dei 90 suicidi nel 2024, con la conta già ripartita nel 2025, il 3 gennaio, a Sollicciano, dove si è ucciso un ragazzo di 25 anni. Basta insomma rimanere nel luogo più ordinario del carcere, tra le persone detenute “comuni”, per capire come sia impossibile intravedere la finalità rieducativa della pena evocata dalla Costituzione e richiamata da chiunque parli o scriva di carcere. Da parte del decisore politico, lasciare le cose come stanno e anzi vederle peggiorare con l’aumento dei numeri del sovraffollamento, può significare due cose, o non sapere oppure sapere, ma accettare. La prima opzione, il non sapere, è, nei fatti, impossibile viste l’enorme mole di studi, pareri, decisioni giurisprudenziali che sul piano nazionale e internazionale affrontano la questione del sovraffollamento e dei suoi effetti. La seconda opzione, l’accettare e dunque volere, è invece l’ipotesi più probabile. È forse arrivato il tempo di ammettere che sul carcere e le pene si è definitivamente persa la condivisione dei valori costituzionali, che univa tradizioni politico-culturali anche molto distanti e che nell’art. 27 trovava una doppia sintesi: il “divieto di trattamenti inumani” e dunque il rispetto della persona, qualsiasi sia il reato commesso e la già richiamata “finalità rieducativa” che renda la pena “utile” non solo a risarcire un danno commesso (a retribuire). All’interno di questi confini costituzionali, le sfumature, gli accenti, le soluzioni normative e gestionali possono essere molto diverse, ma il confine, fino ad oggi, era considerato invalicabile. Lo è ancora? Insomma, quando il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in un’orazione ufficiale dice di provare gioia nel non lasciare respirare una persona detenuta esagera soltanto con l’enfasi retorica oppure esprime una precisa volontà politica? L’idea di una pena che produca sofferenza, di un cattivismo atavico radicato nell’uomo che prova piacere e accetta il dolore altrui, non è certo un fatto nuovo del nostro tempo, abituato alla banalità del male. La novità oggi è piuttosto sapere che questo sentimento collettivo travalica il senso comune, la “pancia” di un popolo e rischia di diventare pianificata ragione politica. È questo l’ultimo stadio di quel populismo penal-penitenziario che aleggia da alcuni decenni nel modo di regolare, gestire e comunicare il carcere e la penalità. Sarebbe davvero complicato spiegare altrimenti la sistematica introduzione di nuovi reati o l’inasprimento di pene previste per reati già esistenti, come avvenuto con il c.d. decreto Caivano (che è tra le concause del sovraffollamento negli Istituti penali per minorenni, unico luogo dell’arcipelago penitenziario rimastone finora immune) o con il disegno di legge Sicurezza (Ddl AC 1660), che conia nuovi reati quali l’“occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, la “rivolta in istituto penitenziario” o il “blocco stradale”. Impossibile spiegare altrimenti l’inadeguatezza delle misure di contrasto al sovraffollamento, introdotte da ultimo nel decreto carceri dell’agosto scorso, laddove l’idea più innovativa è stata l’ennesimo “piano straordinario per l’edilizia penitenziaria” con il suo seguito di consulenti, commissari ad acta, finanziamenti di cui chissà quando si vedranno i risultati. In questo scenario sembra improbabile che il Parlamento possa approvare con la maggioranza qualificata dei due terzi, un provvedimento di clemenza, cioè un’amnistia o un indulto (seppur nelle sue forme più blande, di indulto condizionato e limitato ad alcune categorie di reati). Le 27 amnistie votate nella storia repubblicana (7 quelle concesse nel Ventennio fascista) e i diversi indulti, l’ultimo in ordine di tempo risalente al 2006, sembrano oggi avvenimenti storici non ripetibili. Eppure la Costituzione, all’art. 79, continua a prevederli, seppur con maggioranza aggravata così come stabilito dal 1992, come strumenti “giustificati da situazioni straordinarie o ragioni eccezionali”. Negli anni gli appelli alla clemenza si sono susseguiti e intensificati, “storico” rimase quando di fronte alle camere riunite Papa Wojtyla, il 14 novembre 2002, chiese un “gesto di clemenza”, appello ripetuto anche da Papa Bergoglio in occasione dell’inaugurazione dell’ultimo Giubileo. Dal 2006 ad oggi è invece prevalsa l’idea che un atto di clemenza collettiva sia una “resa dello Stato”. C’è da domandarsi invece se le condizioni attuali delle carceri italiane siano una vittoria, una medaglia di cui andare orgogliosi. Per coloro i quali credono che i confini costituzionali della pena siano valicabili, probabilmente sì. Ma per tutti gli altri? Davvero oggi la cultura liberale, quella cattolica, i riformisti e le tante sinistre istituzionali e non, si devono rassegnare all’idea che i valori costituzionali – oggi a proposito di carcere, ma domani di scuola, salute, lavoro – siano derogabili? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 8, 2025 / Osservatorio Repressione
Saluto al carcere – 26 dicembre
Il 26 Dicembre siamo andatx a portare un saluto ai detenuti del carcere di Quarto D’Asti, rompendo l’isolamento che lo stato impone alle persone recluse. Quest’anno in Italia 88 persone si sono tolte la vita all’interno di una cella. I casi di tortura, violenze e soprusi da parte delle guardie e dei loro complici sono … Leggi tutto "Saluto al carcere – 26 dicembre"
December 31, 2024 / Laboratorio Autogestito L.A. MICCIA
41bis: nascita, regole ed evoluzione del “carcere duro” in Italia
Introdotto come misura emergenziale dopo le stragi mafiose del ‘92, con l’obiettivo di impedire i rapporti dei boss con l’esterno, il regime carcerario si è trasformato in un sistema “permanente” di privazioni e limitazioni che solleva dubbi di natura costituzionale. di Damiano Aliprandi da il dubbio Cos’è e chi viene sottoposto al regime di 41 bis in Italia? Parliamo di un articolo introdotto nell’ordinamento penitenziario, quindi di natura amministrativa, che nel gergo comune viene chiamato “carcere duro”, anche se sulla carta, duro non è, altrimenti sarebbe incostituzionale. Secondo l’attuale formulazione del comma 2 dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, si tratta di un regime differenziato che può essere disposto, con provvedimento del Ministro della giustizia, nei confronti di singoli detenuti o internati per “per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso”, in relazione ai quali vi siano “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva”. Quindi sono sottoposti al carcere duro i boss mafiosi o capi di organizzazioni considerate terroristiche. Per l’ordinamento penitenziario, il 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Il 41bis deve impedire le relazioni con l’esterno per rescindere i legami criminali. Invece, di fatto, è diventato nel tempo un carcere duro perché si è trasformato in un sistema di privazioni e limitazioni, imposizioni e divieti. Anche se, grazie a diverse sentenze della Cassazione e Corte Costituzionale, sono cadute alcune restrizioni afflittive che non giustificano lo scopo originario del 41 bis. Le radici del 41 bis nell’ordinamento penitenziario – L’articolo 41-bis nasce come risposta a un complesso intreccio di sfide sociali, politiche e criminali che hanno caratterizzato l’Italia dalla fine degli anni ‘70. L’evoluzione di questa norma è strettamente legata al contesto emergenziale del periodo, segnato da una duplice minaccia: il terrorismo e la crescente pervasività delle organizzazioni criminali, in particolare Cosa Nostra. Tuttavia, le radici di questo regime vanno ricercate nell’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario, introdotto con la riforma del 1975, un punto di partenza cruciale per comprendere l’architettura normativa e ideologica che ha condotto alla successiva elaborazione del 41-bis. L’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354, rappresentò un traguardo storico per il sistema penitenziario italiano, segnando l’apice del movimento riformista che si proponeva di conciliare il trattamento dei detenuti con i principi costituzionali di reintegrazione sociale. Tuttavia, il legislatore dell’epoca, pur enfatizzando un approccio umanizzante e riabilitativo, ha introdotto l’articolo 90 nell’ordinamento penitenziario come strumento emergenziale, prevedendo che, in casi di gravi e straordinarie esigenze di ordine e sicurezza, le regole ordinarie del trattamento potessero essere temporaneamente sospese mediante un decreto del Ministro di Grazia e Giustizia. Questo regime, per anni non fu mai applicato, perché considerata una misura altamente eccezionale. Il rapimento Moro e la prima applicazione – Arriviamo al 16 marzo 1978. In via Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e uccide i cinque uomini della scorta. Viene così legittimata per la prima volta l’applicazione dell’articolo 90. Furono istituiti i primi cinque istituti di “massima sicurezza”: Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani. In questi istituti, il regime carcerario divenne particolarmente rigido: ai detenuti venivano imposte limitazioni significative, tra cui la segregazione dalle attività collettive, restrizioni nei colloqui con i familiari (spesso effettuati attraverso barriere divisorie) e una sorveglianza continua. Questi provvedimenti, pur giustificati dalla necessità di contenere i pericoli interni ed esterni al carcere, evidenziarono da subito le contraddizioni di un approccio che derogava alle garanzie ordinarie previste dalla legge penitenziaria. Stabilizzazione e successiva abrogazione dell’articolo – Con il passare degli anni, l’applicazione dell’articolo 90 si stabilizzò, portando alla creazione di un sistema di gestione emergenziale quasi permanente, che rischiava di contraddire il principio stesso della sua temporaneità. Critiche si concentrarono anche sul rischio di incostituzionalità, specie in relazione alla censura della corrispondenza e alla limitazione dell’accesso agli spazi all’aperto. Queste problematiche, unite alla necessità di armonizzare la gestione delle situazioni emergenziali con i diritti fondamentali dei detenuti, portarono alla progressiva revisione dell’articolo 90, fino alla sua abrogazione con l’introduzione della legge 10 ottobre 1986, n. 663, conosciuta come legge Gozzini. Nascita del 41 bis in Italia – Come per l’azione terroristica nei confronti di Aldo Moro, le stragi mafiose del 1992 dettero l’impulso nel rispolverare l’articolo 90 attraverso, appunto, la conversione in legge del 41 bis. Il 23 maggio, a Capaci, esplode una quantità abnorme di tritolo. Una tragedia immane. L’esplosione ha investito l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. I primi soccorritori hanno potuto constatare che i magistrati erano ancora in vita. La dottoressa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, invece Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e dai sanitari dopo, entrambi i giudici sarebbero poi deceduti in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Decreto Martelli-Scotti – La strage di Capaci spinse i ministri Martelli e Scotti a elaborare un decreto che inasprisce diverse misure, tra le quali l’introduzione del 41 bis. In quel momento storico, il Parlamento era attraversato da partiti fortemente garantisti, dai liberali, passando per i Radicali e i Socialisti, fino ad arrivare agli eredi del Partito comunista. I quali avevano espresso forti perplessità per questa misura che va in antitesi con la riforma Gozzini. Il decreto legge tardava ad essere convertito in legge. Arriviamo così al 19 luglio 1992, quando Totò Riina decide di accelerare la strage di Via D’Amelio. Per Cosa Nostra Paolo Borsellino era diventato troppo pericoloso. Tutte le sentenze sulle stragi affermano che l’uccisione ebbe non solo uno scopo vendicativo per l’esito del maxiprocesso, ma soprattutto “preventivo”, visto l’interessamento del giudice all’indagine su mafia appalti. La conversione in legge dopo Via D’Amelio: l’attentato fa crollare il muro garantista – Per Totò Riina l’esigenza maggiore era quella di preservare i suoi affari miliardari e i patti con i potentati economici (in un caso addirittura entrò in società tramite i Buscemi), anziché rischiare che passasse il decreto sul regime del 41 bis. È accaduto anche con i delitti eccellenti. L’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, accelerò l’iter dell’approvazione della legge “Rognoni-La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali. L’attentato di Via D’Amelio fece crollare il “muro” garantista. L’iter per la conversione in legge fu accelerato e l’8 agosto 1992 il Parlamento convertì il decreto Martelli-Scotti e quindi anche il 41 bis. Da emergenziale a ordinario, la trasformazione del 41 bis – Il giudice Giovanni Falcone viene spesso strumentalizzato per difendere l’afflittività del 41 bis. Il giudice ha voluto il regime differenziato, non per torturare o convincere i boss a collaborare. La finalità, così come anche oggi è sulla carta, era necessaria per i capi mafia, coloro che erano al vertice dell’organizzazione, onde evitare ogni possibile collegamento e contatto tra i detenuti all’interno delle carceri e i criminali esterni. Nulla di più. Quando nell’agosto del 1992 c’è stata la conversione in legge, secondo l’intento del legislatore tale misura dove essere emergenziale e soprattutto temporanea. Tuttavia, la sua vigenza è stata assicurata nel corso degli anni, per quasi un decennio, da reiterati provvedimenti legislativi di proroga, fino alla sua definitiva stabilizzazione nel sistema penitenziario a opera della legge del 23 dicembre 2002 con il governo Berlusconi. L’inasprimento del regime differenziato – Attraverso la legge del 15 luglio 2009 n. 94, e sempre con il governo di centrodestra, il 41 bis ha avuto un inasprimento. Una legge che ha inserito gravose misure afflittive eccessive rispetto alla finalità di sicurezza. La ratio è quella di impedire i contatti, che però si realizzano soltanto attraverso due canali: da un lato la corrispondenza epistolare, telegrafica o telefonica, dall’altro, i colloqui. Non ci sono altri mezzi con cui il detenuto può comunicare. Eppure, solo per fare un esempio, è accaduto che ai reclusi al 41 bis venisse interdetta la possibilità di tenere nella propria cella la foto dei propri genitori defunti. Oppure di ascoltare la musica di notte. Il 41 bis e i dubbi di costituzionalità – Il 41 bis continua a sollevare dibattiti sulla sua compatibilità con i principi costituzionali. I dati evidenziano un numero stabile di detenuti sottoposti a questo regime negli ultimi anni, pari a circa 700, con numerosi rinnovi automatici e casi di detenzione che si protraggono per l’intera durata della pena. La gestione del 41 bis si basa su un intreccio di norme, circolari e disposizioni amministrative, che regolano in modo estremamente rigido la vita detentiva. L’ultimo intervento legislativo significativo risale alla Legge 15 luglio 2009 n. 94, che ha definito la configurazione attuale del regime speciale. Le modifiche legislative sono state spesso accompagnate da interventi della Corte Costituzionale, volti a garantire che il 41 bis fosse conforme ai principi costituzionali. Oltre alla legislazione, l’Amministrazione penitenziaria ha emesso numerose circolari, tra cui la circolare n. 3676/6126 del 2017, che rappresenta un esempio di burocratizzazione dei diritti. Questa circolare specifica dettagli come la dimensione delle pentole o le modalità di accesso a libri e giornali. Le criticità del 41 bis e il dibattito sulla “tortura” – Le misure per i detenuti di alto profilo sono ancora più rigide. Questi scontano la pena in aree riservate, dove i contatti sociali sono ulteriormente limitati. Un esempio emblematico è il sistema della modalità “a due”, in cui un detenuto viene assegnato come “compagno” per un altro, limitando ulteriormente le interazioni. Questo rappresenta un 41 bis ancora più severo, che accentua l’isolamento dei reclusi. L’obiettivo principale del 41 bis è recidere i collegamenti tra il detenuto e la criminalità organizzata, garantendo al contempo l’ordine e la sicurezza. Tuttavia, la sua applicazione solleva diverse criticità. Eccessiva burocratizzazione: le norme minuziose imposte dalla circolare del 2017 hanno suscitato perplessità. Come la limitazione dei contatti sociali e sensoriali: l’isolamento prolungato incide sul benessere psichico e fisico dei detenuti. E vi sono dubbi sul rispetto dei principi di umanità e rieducazione sanciti dalla Costituzione. Un “ergastolo bis”? Un aspetto controverso del 41 bis riguarda l’elevato numero di rinnovi automatici e la lunga permanenza in regime speciale di molti detenuti. Questi fattori alimentano il timore che il 41 bis si sia trasformato in una sorta di “ergastolo bis”, svuotandolo della sua natura di misura eccezionale. Ciò potrebbe violare il principio di proporzionalità della pena, trasformando il 41 bis in una sanzione permanente anziché temporanea, come previsto originariamente. Il 41 bis rappresenta un dilemma complesso, in bilico tra le esigenze di sicurezza e il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Per garantire la legittimità del regime, è necessario che la sua applicazione avvenga in modo rigoroso e proporzionato, con una verifica periodica della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’uso. Solo un confronto aperto e onesto potrà bilanciare le esigenze di sicurezza con i principi di umanità e rieducazione sanciti dalla Costituzione italiana. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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December 31, 2024 / Osservatorio Repressione
La concezione autoritaria del diritto
Nordio: “la giustizia si fa con la forza”. Dopo le polemiche per il calendario della Penitenziaria, il ministro ci tiene a diffondere un’idea di punizioni inflessibili e di severità. Tutto questo mentre in celle invivibili si tocca il numero record di suicidi di Niccolò Nisivoccia da il manifesto Sessantaduemila persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di cinquantunomila; un tasso di crescita della popolazione carceraria in continuo aumento, così come il tasso di affollamento medio; in diminuzione invece, in rapporto alle presenze, il personale di polizia penitenziaria; celle prive di spazio vitale; ottantanove suicidi, il numero più alto di sempre. Sono alcuni dei dati contenuti nel Report di fine anno sulle carceri pubblicato in questi giorni da Antigone, e sono dati perfettamente allineati alla concezione del diritto e della giustizia che attraversa i nostri tempi: un diritto fondato sulla forza e sul controllo, una giustizia inflessibile e votata alle punizioni più severe. Lo stesso ministro della giustizia, di recente, ha compiuto affermazioni molto significative a questo riguardo. Lo ha fatto rispondendo all’interrogazione parlamentare presentata da un gruppo di deputati avente ad oggetto il calendario del 2025 della Polizia penitenziaria. Debora Serracchiani, in particolare, aveva sottolineato la violenza veicolata da certe foto (ad esempio un «addestramento commesso a terra e contenimento fisico di una persona con tre poliziotti addosso», nel mese di marzo; «agenti in tenuta antisommossa con manganelli, scudi e caschi in bella vista», nel mese di aprile; un «agente che spara al poligono» nel mese di giugno); e gli aveva chiesto ragione di queste raffigurazioni. Nordio le ha risposto quasi stupito: non è forse vero che la giustizia, da sempre, «reca la bilancia e la spada» nell’immagine che offre di sé? E non è altrettanto vero, d’altronde, che la spada oggi sia stata sostituita dalle «armi da fuoco»? È «l’evoluzione tecnologica»: niente di più e niente di meno. Ma ora il punto non è tanto quello di sindacare nel merito le affermazioni del ministro, né quello di negare che anche il momento secondario, e cioè il momento della forza e della punizione, appartenga in effetti al diritto come il suo momento primario, consistente nel comportamento richiesto. Il punto è che una concezione autoritaria venga presentata come l’unica possibile, a sostegno e giustificazione di politiche anche carcerarie sempre più repressive. Come se, per legittimarsi, il diritto avesse sempre necessariamente bisogno della forza, in ogni dove; come se a connotare il diritto fosse una natura di per sé intimidatoria, se non addirittura persecutoria. È lo spirito del tempo, d’accordo, è l’idea pervasiva. È la medesima idea espressa anche da Ernesto Galli della Loggia in un intervento di qualche settimana fa sul Corriere della Sera al quale ha replicato benissimo, su queste stesse pagine, Roberta De Monticelli. L’intervento di Galli della Loggia era specificamente riferito al diritto penale internazionale, ma i concetti non cambiano: non c’è legge che tenga, la forza e la violenza sono una necessità (all’interno come all’esterno delle carceri), e chi pensa il contrario è solo un’anima candida. Come a dire: è la realtà, bellezza, è inutile sognare. Ma ecco, il punto è precisamente questo: non si tratta di sognare bensì, come ha sottolineato Roberta De Monticelli, di non «ridurre le norme ai fatti». Una concezione autoritaria del diritto non è l’unica possibile. Ne esiste anche una diversa, che interpreti il diritto in un senso mite e pacifico: come relazione e reciprocità, in primo luogo, anziché come esclusione o come conflitto permanente. Anzi: è semmai proprio questa la concezione corrispondente alla funzione più autentica e più nobile del diritto, la quale dovrebbe essere proprio quella di contribuire a costruire relazioni sociali prima ancora che di sanzionare e punire. Occorre solo provare a cambiare lo sguardo, o a spostarlo: anche se qui, certo, a venire in gioco non è solo il diritto ma anche una concezione piuttosto che un’altra del vivere sociale, della convivenza civile. In definitiva, della vita. Vogliamo chiamarla utopia? Perché no? Coltivare utopie non significa in fondo resistere all’idea secondo cui il mondo che abitiamo sia l’unico in cui sia possibile abitare? E non è forse questo ciò che dovrebbe fare la politica, ciò che sarebbe bello che facesse? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 27, 2024 / Osservatorio Repressione