Il libro “Carcere ai ribell3: il carcere come strumento di repressione del
dissenso” è appena uscito per l’Associazione Editoriale Multimage ed è stato
curato Nicoletta Salvi Ouazzene, attivista del comitato Mamme in piazza per la
libertà del dissenso di Torino. Il libro racconta diverse storie che hanno visto
come protagoniste in particolare donne, militanti e […]
E’ arrivata la sentenza che riguarda il processo, avvenuto con rito abbreviato,
nei confronti di dieci agenti della polizia penitenziaria che agirono violenza
nei confronti di un detenuto nel carcere di Reggio Emilia nell’aprile 2023. La
notizia, uscita ieri, parla di condanne dai 4 ai 2 anni di carcere ma, l’aspetto
più significativo, riguarda la […]
APERITIVO + DIBATTITO SULLA PROFILAZIONE RAZZIALE E GLI ABUSI DELLA POLIZIA
Spazio Popolare Neruda - Corso Ciriè 7, 10124, Torino
(venerdì, 28 febbraio 18:30)
A fine ottobre, Moussa Diarra, un ragazzo originario del Mali, è stato ucciso a
Verona da un agente polfer. Dopo di lui, Ramy El-Gaml un ragazzo di origini
egiziane, è stato ucciso a Milano dalla polizia durante un tentativo di fermo.
Questi non sono casi isolati, è già accaduto in Italia che persone razzializzate
vengano uccise per mano di poliziotti o addirittura da assessori comunali. In
queste storie non arriva mai giustizia, anzi le vittime muoiono due volte: chi
compie questi omicidi non ammette di aver tolto la vita ad una persona ma
dichiara sempre di aver reagito per legittima difesa.
Il 28 febbraio al Neruda ci incontreremo per discutere sul tema della
profilazione razziale. Un dibattito a cui parteciperà un team di avvocat3 che ci
riporterà la situazione attuale in Italia, un contesto in cui i razzisti sono al
governo e i discorsi di odio e la violenza crescono e avvengono sotto gli occhi
di tutti. L3 avvocat3 risponderanno alle nostre domande sui nostri diritti e su
cosa fare se subiamo e/o assistiamo ad un fermo razzista da parte della polizia.
Questa occasione servirà per trovare insieme strategie di difesa collettiva
contro gli abusi delle forze dell’ordine.
Chiedere giustizia, sostenere le famiglie e far emergere gli insabbiamenti che
avvengono nel corso dei processi, solleva un'importante questione: come si
collega la profilazione razziale al sistema razzista più ampio? Considerando
quanto il carcere e altre forme di penalità/disciplinamento colpiscano le
persone e comunità razzializzate, come mettere insieme la necessità di avere
giustizia nell'ambito dei processi per omicidio razzista e una prospettiva
abolizionista? Per rispondere a queste domande, nel corso dell’incontro
interverrà Mackda Ghebremariam Tesfaú, sociologa e attivista antirazzista.
A seguire aperitivo!
Estratti dalla puntata del 17 febbraio 2025 di Bello Come Una Prigione Che
Brucia CELLEBRITE: TELEFONI DI COMPAGNE/I SBLOCCATI E PERQUISITI CON UFED A
distanza di circa un anno dagli eventi, un comunicato rende pubblico l’utilizzo
delle tecnologie di Cellebrite per estrarre dati dai telefoni di alcune/i
compagne/i. Il tentativo di impedire una deportazione […]
Il Gup riqualifica i reati e ammorbidisce le pene per i dieci agenti che avevano
picchiato un detenuto tunisino nel carcere di Reggio Emilia. Condanne dai 4 mesi
ai 2 anni di carcere. «Attonito» il legale di parte civile. Condannati per falso
altri tre poliziotti penitenziari
di Eleonora Martini da il manifesto
La testa chiusa in una federa stretta al collo, trasportato di peso nudo dalla
cintola in giù, i colpi inferti «dall’alto verso il basso», dove il detenuto già
versava dopo lo sgambetto che lo avrebbe fatto crollare. Calpestato, secondo le
immagini registrate dalle telecamere interne di videosorveglianza.
Tutto questonon fu tortura, ma «abuso di autorità in concorso». Non furono
lesioni ma percosse aggravate. Il processo in primo grado, con rito abbreviato,
ai dieci poliziotti penitenziari del carcere di Reggio Emilia che erano stati
accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso in relazione al pestaggio di
un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023, si è chiuso così, ieri, con pene
molto più basse di quelle richieste dalla procura e con la riqualificazione dei
reati a loro ascritti. Dopo quasi quattro ore di camera di consiglio, la Giudice
per le udienze preliminare reggiana, Silvia Guareschi, ha riconosciuto gli
imputati rei di aver usato violenza nei confronti del detenuto ma ha negato che
fosse tortura e ha comminato loro condanne che vanno dai due anni ai quattro
mesi di reclusione, respingendo così le accuse del Pubblico ministero Maria Rita
Pantani che aveva richiesto pene fino a cinque anni e otto mesi di carcere per
un imputato in particolare, e cinque anni per altri sette agenti. Confermato,
invece, il reato di falso per i tre imputati a cui era contestato.
La vittima, un quarantenne di origine tunisina, è ancora rinchiuso nel carcere
di Reggio Emilia per scontare gli ultimi mesi di pena dei tre anni di reclusione
ai quali è stato condannato per reati legati allo spaccio. Quel giorno di quasi
due anni fa, sul detenuto che, secondo gli agenti, stava facendo resistenza al
trasferimento in isolamento si sono scagliati in tanti: secondo la ricostruzione
della procura che ha mostrati i filmati della videosorveglianza annessi agli
atti del processo, l’uomo fu incappucciato e brutalmente malmenato, anche quando
era riverso a terra. Durante il rito abbreviato voluto dagli imputati, tutti gli
agenti hanno chiesto scusa al detenuto che si è costituito parte civile. Otto di
loro hanno anche versato mille euro ciascuno come gesto riparatorio. Ma prima
del processo i poliziotti penitenziari che intervennero il 3 aprile 2023 (tra
loro un vice ispettore, tutti ancora sospesi dal servizio) riferirono che il
detenuto avesse sputato loro addosso e fosse armato di lamette da barba. Secondo
la vittima, invece, le violenze continuarono anche quando venne trasferito in
isolamento e lui dovette ferirsi con dei frammenti di un lavandino per
richiamare l’attenzione del medico. Il quale gli venne in soccorso, trovandolo
in una pozza di sangue.
La sentenza, pronunciata in un’aula riempita dai parenti, dai colleghi e dagli
amici degli imputati, è stata accolta dall’avvocato Luca Sebastiani, legale di
parte civile per il detenuto, con stupore: «Sono perplesso e attonito – ha detto
– leggeremo le motivazioni che hanno portato alla riqualificazione del reato di
tortura che è ciò che più ci interessava. Al di là della pena, che non ci
interessa in alcun modo, e del risarcimento che ci interessa in maniera
incidentale – ha sottolineato l’avvocato – L’incappucciamento e il denudamento
in quelle modalità, il pestaggio che c’è stato, come si vede dalle immagini di
videosorveglianza, erano chiare e non a caso il Gip e il Riesame avevano
confermato quella qualifica, la tortura. Ad oggi il quadro è cambiato,
valuteremo le opportune mosse una volta lette le motivazioni».
Se non altro, il dispositivo emesso ieri, in primo grado, spazzerà via una certa
vulgata cara alle destre secondo la quale la legge sulla tortura interferisce
con il lavoro (sano) delle forze dell’ordine.
L’associazione Yairaiha Onlus che da sempre si batte per il diritto dei detenuti
vede il bicchiere mezzo pieno. Ritiene che la decisione rappresenta un passo
importante nella lotta contro gli abusi e la violenza all’interno delle
strutture detentive, riaffermando il principio che nessuno, neanche in stato di
detenzione, può essere privato della propria dignità e sottoposto a trattamenti
disumani e degradanti.
Il video agli atti dell’inchiesta ha mostrato immagini inaccettabili: un uomo
incappucciato con una federa stretta al collo, denudato, sgambettato e
ripetutamente colpito con calci e pugni, anche quando era già a terra, per poi
essere nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre
un’ora. Un comportamento che non solo viola i diritti fondamentali della
persona, ma getta un’ombra sulle istituzioni che dovrebbero garantire la
legalità e la sicurezza per tutti, detenuti e operatori.
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Protestano, i detenuti del carcere di Pescara, dopo il suicidio in cella di un
giovane. Una tragedia annunciata che ha fatto scattare l’ira degli altri
reclusi. Qualcuno ha appiccato il fuoco a un materasso e un detenuto è salito
sul tetto. La protesta è rientrata nel pomeriggio. Si tratta del 13esimo
detenuto suicida dall’inizio dell’anno.
Un ragazzo di ventiquattro anni si è tolto la vita nella casa circondariale San
Donato di Pescara. È il tredicesimo suicidio avvenuto nelle carceri italiane
dall’inizio del 2025: il doppio dei casi rispetto allo stesso periodo nel 2024.
Nel carcere di Pescara il sovraffollamento è del 162 per cento
Aveva 24 anni. Nella notte tra il 16 e 17 febbraio un giovane di origine
egiziana si è suicidato nel carcere di Pescara. A seguito della sua morte è
scoppiata la rabbia delle persone detenute: una persona è salita sul tetto e
alcuni materassi – che dovrebbero essere ignifughi – sono stati messi a fuoco in
segno di protesta. Ambulanze e vigili del fuoco sono arrivati sul posto. “È una
situazione invivibile. Il carcere esplode, le persone che arrivano vengono messe
a dormire su materassi per terra per mancanza di spazio. Le celle da sei persone
sono diventate da otto, quelle da quattro anche da sette”, dichiara ad
Abruzzosera Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista Voci Di Dentro, che si
occupa di carcere e giustizia. “Il cibo è immangiabile, i prezzi sono alti, i
muri pieni di muffa. Nei giorni scorsi, a seguito delle forti piogge, i piani
bassi della casa circondariale si sono allagati, comprese le celle al piano
terra”, spiega.
Il tasso di sovraffollamento delle carceri, come denunciato dal Garante
nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è in
continuo aumento. Il report più recente – pubblicato il 10 gennaio 2025 –
dimostra che nella casa circondariale di Pescara, a fronte di 272 posti
disponibili, il numero delle persone detenute è di 443: il 162,87 per cento in
più della capienza. In una scheda dell’associazione Antigone, in visita nel
carcere di San Donato nell’aprile scorso, viene segnalata una forte carenza del
personale penitenziario, difficoltà al comparto salute e la scarsa copertura di
attività lavorative e formative dedicate alle persone detenute. “Le attività
sono ridotte a zero, le richieste vengono sempre sospese per difficoltà. Mancano
gli agenti: ce ne sono circa 100 per una popolazione di 440 persone”, aggiunge
Lo Piccolo.
Pochi giorni fa, Irma Conti del collegio nazionale del Garante ha affermato che,
in Italia, “19mila detenuti che hanno pene residue fino a tre anni, sulla base
nella normativa potrebbero uscire dal carcere optando per misure alternative. Ma
la burocrazia e la carenza di risorse creano ostacoli”.
Il 2024 è stato l’anno record per i suicidi: nelle carceri italiane 90 persone
si sono tolte la vita, mai così tante da quando si raccolgono dati. Si tratta
quasi sempre di persone con una condanna non definitiva, ed è scesa l’età media
di chi si toglie la vita in carcere. Il 46% delle persone era in custodia
cautelare, quindi ancora in attesa di una sentenza. La fascia d’età più colpita
è tra i 26 e i 39 anni e una parte consistente – secondo Antigone, circa 40
persone – era di origine straniera. In crescita anche gli atti di autolesionismo
(+483 nel 2024).
Appena trascorso un fine settimana horribilis – con due detenuti che si sono
tolti la vita in Toscana: un giovane marocchino di 32 anni il 14 febbraio a
Prato e il giorno dopo a Sollicciano, Firenze, un uomo romeno di 39 anni – ieri
mattina è successo nella casa circondariale pescarese di San Donato dove a un
ragazzo tossicodipendente di 24 anni si è impiccato.
Il comunicato del Campetto occupato sul carcere di Teramo e sulla Garante dei
detenuti:
Nei giorni scorsi il presidente della commissione sanità e politiche sociali
della Regione Abruzzo, Paolo Gatti, e la garante dei detenuti, Monia Scalera,
sono stati in “visita” al carcere di Teramo, dove si contano 430 detenuti su 275
posti disponibili.
Visita è un termine orribile, ed è quello che viene comunemente usato, ma in
questa situazione forse è confacente, viste le dichiarazioni che costoro hanno
rilasciato: “Nel carcere teramano va tutto bene! Vi solo alcune criticità che
riguardano esclusivamente il corpo di polizia penitenziaria, ma nessun problema
con i detenuti. Non vi è sovraffollamento e non vi sono particolari problemi e
non bisogna creare allarmismo “. Hanno detto.
Queste dichiarazioni, oltre a fare ribrezzo, fanno il paio con altre
esternazioni di esponenti di governo, tipo Delmastro sui detenuti. Ma vanno
anche “inquadrate” politicamente.
Infatti la “visita” dei due esponenti regionali segue quella di altri politici
che hanno sollevato non poche problematiche sul carcere teramano. In poche
parole è una diatriba politica a cui i due hanno risposto, ma che si gioca sulla
pelle di persone recluse.
E recluse in un inferno!
Perché forse i due non sanno che le carceri sono una polveriera in cui viene
ammassata umanità. In cui anche la quotidianità peggiora sempre più e ce lo
dicono le lettere di persone recluse.
In cui il numero di suicidi è in continuo drammatico aumento (lo scorso anno è
stato il peggiore e quest’anno sta confermando la scia di morte).
In cui la deriva autoritaria e repressiva del nostro paese non fa altro che
riempire ancor di più le carceri e soffocare ogni forma di mobilitazione per
migliorare le condizioni (il decreto sicurezza in approvazione, non a caso va
colpire pesantemente anche proteste in carcere).
Nel caso specifico di Teramo, i drammi sono purtroppo tutti confermati:
sovraffollamento, tensioni interne, suicidi e morti, come la morte di Patrick lo
scorso anno, che ancora attendono verità.
Il carcere non è una struttura a sé stante.
Ma corpo del meccanismo di oppressione e riflesso della società. Non è un caso
che smarrito il collante sociale e solidaristico all’interno delle società, ciò
si ripercuote anche dentro le galere.
Al carcere di Teramo, inoltre, hanno cercato da sempre di evitare contatti
solidali. Infatti per i diversi presidi effettuati che parlassero ai detenuti (e
non di fronte al piazzale dove nessun detenuto può vederti), sono piovute
denunce e fogli di via.
Perché i “tutori dell’ordine” non vogliono il contatto solidaristico tra
“dentro” e “fuori”. Cionostante la solidarietà, sebbene troppo poca rispetto a
quella che meriterebbe la situazione, si è sempre cercato di portarla avanti.
Per concludere, tornando ai due squallidi personaggi con cui eravamo partiti…
Fa veramente impressione che un soggetto come Paolo Gatti, che ha arricchito la
sue tasche grazie ad incarichi pubblici (anche inutili, ricordiamolo presidente
della Giulianova Patrimonio, in crisi finanziaria, messo lì per marchetta
politica), parli in quel modo di persone rinchiuse.
Se avesse provato solo un centesimo di quei drammi, rispetto alla sua comoda
vita, saprebbe di cosa si sta parlando.
Ed arriviamo alla garante dei detenuti, tale Monia Scalera. L’Abruzzo ha sempre
avuto problemi con tale incarico, infatti era tra le pochissime regioni che non
aveva un garante. La nomina di tale soggetto risale a qualche mese fa ed è una
nomina prettamente politica, visto che costei è in quota Fratelli D’Italia.
Quindi le sue dichiarazioni parrebbero in linea con le nefandezze del suo
partito.
Però e c’è un però molto grande, costei in questa sede ricopre il ruolo di
Garante dei detenuti e quindi non può fare quelle dichiarazioni!
Perché non sono confacenti con il ruolo di cui è incaricata, ovvero garantire la
dignità delle persone recluse.
Costei con tali dichiarazioni, non solo ha fatto un torto ai detenuti, ma anche
al ruolo che dovrebbe ricoprire.
Quindi, ben cosci che non sia un ruolo a cambiare lo stato delle cose, ma
sapendo anche che le lotte hanno dei passaggi, chiediamo a gran voce che Monia
Scalera non sia più garante dei detenuti in Abruzzo. Che venga sostituita da
qualcun che abbia più a cuore le sorti delle persone recluse. Perché l’attuale
garante non fa gli interessi dei detenuti, ma quelli del suo partito.
A questo appello auspichiamo si uniscano più persone possibili, collettivi e
gente di buon cuore. Perché quelle dichiarazioni sono intollerabili e spetta a
noi tutte/i fare in modo che le cose cambino.
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Riceviamo e condividiamo: Nella notte di giovedì 13 febbraio i prigionieri del
CPR di Macomer hanno dato vita ad una protesta (uno di loro è salito sul tetto)
poiché due…
In questa intervista dialoghiamo con Blanca Mirna Mendoza, rappresentante
dell’organizzazione femminista IMU di San Salvador. L’obiettivo è indagare
l’impatto diretto dello stato d’eccezione, della militarizzazione e
dell’incarceramento di massa sulla vita delle donne e delle comunità
marginalizzate, elementi centrali nella politica del presidente Nayib Bukele.
Dal 2019, e soprattutto dopo la rielezione dello scorso anno, […]
A proposito del mese di Febbraio: qualche riflessione sugli omicidi di Stato di
Ousmane Sylla e Moussa Balde. Nella notte tra il 4 e il 5 Febbraio 2023
iniziavano le…