STANZE FREDDE FEST 2
El Paso Occupato - Via Passo Buole, 47, Torino
(sabato, 15 novembre 17:00)
Stanze Fredde Fest 2
15 novembre 2025
El Paso Occupato (Torino)
live:
Abe Schwartz
experimental minimal synth
Italy
https://soundcloud.com/user-659987872
Uphor!a
minimal synth punk
Italy
https://uuuphoria.bandcamp.com/
Oberst Panizza
synthwave - electronics
Berlin
https://oberstpanizza.bandcamp.com/
Schwierige Franz
minimal - fuzz - wave
Amsterdam
https://outofsyncrecords.bandcamp.com/album/ein-computer-ein-auto-ein-mann
Hollow Reflection
EBM - synthpunk
Amsterdam
https://hollowreflection.bandcamp.com/
Raderkraft
minimal synth - EBM
Amsterdam
https://raderkraft.bandcamp.com/
DJ set (minimal wave - synth - coldwave - darkwave - EBM) di
Mara Mortem - Graftak - Radioklub - Stanze Fredde
Screening: Return of the Creeps
Un film di Nikos Chantzis sulla scena underground ateniese
-
Ingresso: 5€
Benefit Radio Blackout + Stanze Fredde
-
Stanze Fredde è un'etichetta indipendente basata sullo spirito fai da te.
Nata a Torino in un periodo storico in cui viene data troppa attenzione
all'apparenza e non ai contenuti, anche in ambito musicale, il nostro obiettivo
è quello di far circolare la musica di artisti emergenti o sconosciuti per far
avvicinare le persone a una scena che non viene valorizzata come dovrebbe.
Siamo alla ricerca di suoni freddi, oscuri, minimali e sintetici che rispecchino
a pieno il mondo interiore che ci caratterizza.
Questo progetto nasce con la speranza di riuscire a promuovere il libero scambio
della musica, intesa come strumento di comunicazione e non come un prodotto
raffinato, il valore del fai da te e la diffusione di idee che si differenzino
dagli standard e dalla commercializzazione dell’arte.
Spinti da una forte esigenza di voler connettere le persone alla musica, stiamo
organizzando la seconda edizione del nostro festival che si terrà al Paso
Occupato (Via Passo Buole 47, Torino) il 15 novembre 2025.
Il filo conduttore sarà il sintetizzatore.
Si esibiranno band della nuova scena minimal synth e synthpunk, proietteremo un
documentario, ci saranno dj set a tema fino all'alba e potrete trovare distro e
banchetti di autoproduzioni.
(disegno di adriana marineo)
Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone
e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari
inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza
ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la
Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom
– spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada
riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma
inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse
che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la
Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura
Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti
del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco.
* * *
L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di
promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in
concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San
Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova
sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di
queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui
avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo
Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti
universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una
stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello –
Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui
muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato
sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando
legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti
finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della
Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei
fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011
Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in
Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la
candidatura a sindaco di Piero Fassino.
Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del
progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e
legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle
casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a
cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente
ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie
e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra
loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si
trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per
accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti,
complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile
attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato,
mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano
“clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano
l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che
osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano,
attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in
grado di garantire un ritorno economico.
All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie
attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di
Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si
specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale
rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo.
A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania
che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa
capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo
Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e
famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale
che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di
persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste
senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza”
gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie
rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social
housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è
cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz.
Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite
dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo
farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di
“autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone
loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei
minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare
l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte.
L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice”
dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più
autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì.
Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di
corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre
duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche
in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento
redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o
intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative
sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo
della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione
dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta.
Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico
gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse
istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei
campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle
cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione
Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010
inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via
Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e
associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla
fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni.
Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande
baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della
città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della
Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti
gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una
“bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in
una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il
patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui
viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione
di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai
“cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre
spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni
abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione,
dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi
integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno
della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la
presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale.
Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente
finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero
dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un
mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al
raggruppamento temporaneo d’impresa formato dalle stesse organizzazioni del
progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il
progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta
“realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa
1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli,
via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina
dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a
dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila
persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di
emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo
la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie
vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e
cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano
41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il
rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un
anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei
fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri
sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della
città.
Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi
giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non
portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei
fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste
si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata
agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si
costituisce parte civile.
A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città
possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel
frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative,
decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di
circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è
già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che,
mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la
struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel
corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di
accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase
il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi
e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché
la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le
famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le
istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune
sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi
quelli di TDF.
Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e
amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione
un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico.
Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della
produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano
una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati.
La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle
palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari
enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a
disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo
(2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa
mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che
finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”.
Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno
complessivo. (voce a cura di manuela cencetti)
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QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
RULLO RIBELLE
BAROCCHIO SQUAT - - strada del Barocchio 27 - Grugliasco (TO)
(martedì, 22 luglio 21:00)
RULLO RIBELLE🎥💥
🎬 Apriamo il Rullo Ribelle con "La danza della realtà", opera autobiografica
visionaria ambientata nel Cile degli anni '30, dominato da rigurgiti fascisti e
autoritarismi. In questa pellicola Jodorowsky demolisce il culto del capo e
l'identità nazionale, lasciandoci in dono una visione poetica di totale libertà.
Questa rassegna è dedicata:
a chi diserta ogni esercito,
a chi ride contro i padroni,
a chi non ha bandiera ma solo fame di libertà,
a chi crede che il cinema non debba educare ma incendiare.
Benvenute e benvenuti nel Rullo Ribelle.
Non chiediamo il permesso, ci prendiamo lo schermo
Con amore, rabbia e visioni incandescenti.
L’attacco a Manituana è un ulteriore atto nella guerra a bassa intensità che
l’amministrazione comunale ha dichiarato contro gli spazi liberati e
l’auto-organizzazione dal basso.
La Torino che sognano di costruire è una città “smart” e ricca, dove chi ha
potere economico può avere tutto, mentre chi è pover* semplicemente scompare.
Una città di rentiers che spremono valore dalla speculazione edilizia, dagli
affitti sempre più inaccessibili e dai grandi eventi.
Naturalmente in tutto questo non c’è spazio per le persone in carne ed ossa che
questa città la abitano davvero: persone con necessità e bisogni (casa, reddito,
salute), con desideri e sogni (di relazioni sociali soddisfacenti, di una vita
degna e interessante), con rabbia e aspirazioni ad un mondo altro.
È in questo humus fertile, fatto di relazioni e politica, di auto-organizzazione
e lotta, che gli spazi sociali come Manituana nascono e proliferano: perchè,
come ci ricordano lu compas, una collettività politica non si può sradicare.
Ed è difficile convincere chi ha sperimentato la possibilità di decidere sulla
propria vita e sulle scelte della propria comunità a rientrare nei ranghi
dell’obbedienza al comando della ragion (economica) di Stato.
Manituana non ha genere, non ha specie e non ha padroni. È l’insradicabile
necessità di costruire, immaginare futuri diversi, coltivare speranze e lotte in
un presente in cui il cemento prova a soffocare ogni seme di resistenza.
Di fronte al furto di spazio che GTT e Amiat-Iren progettano, Manituana promette
di resistere. Non solo noi lo crediamo, ma assicuriamo fin d’ora che siamo e
saremo al loro fianco.
(collage di stefania spinelli)
In un crepuscolo di metà maggio un elicottero dei carabinieri gira in circolo
sopra Barriera di Milano, il quartiere di Torino fra la Dora e la Stura.
Volteggia l’elicottero come un insetto assordante e gli abitanti escono in
strada intimoriti: migliaia di occhi s’alzano in cielo. Lungo corso Giulio
Cesare sfrecciano moto blu scuro e cinque, sei auto in fila dei carabinieri.
L’elicottero è sospeso sopra un palazzo e poco dopo escono dal portone
carabinieri con il passamontagna e un ariete per sfondare. Un’altra pattuglia
controlla i documenti accanto a un bar. Poco più a sud, sempre su corso Giulio
Cesare, un drappello di agenti di polizia e guardia di finanza circonda uomini
seduti al tavolini di un caffè. Le guardie hanno le gambe larghe, le mani sui
fianchi o dietro la schiena e fissano chi era in strada per bere una birra, un
caffè. Poliziotti in borghese dirigono il controllo dei permessi di soggiorno.
Nella luce incerta della sera si vede ancora il verde dei tendoni che coprono i
balconi, in strada cuoce il kebab nel fast-food turco e s’abbassano le serrande
del negozio che vende schede telefoniche e offre servizi di assistenza fiscale e
invio di denaro. L’elicottero non smette di ronzare assordante in cielo e il
rumore grava sull’animo di chi vive qui da dannato, e braccato.
“Cento identificati, un’intera palazzina perquisita e due arresti. È il bilancio
dei controlli effettuati dai carabinieri in Barriera di Milano, quartiere nella
zona nord scosso dagli ultimi episodi di violenza. Dopo l’omicidio di Mamoud
Diane, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 maggio in via Monte Rosa, e gli
accoltellamenti che si sono susseguiti, il prefetto Donato Cafagna aveva
ordinato un giro di vite. Il blitz di mercoledì sera è solo l’inizio”. Caterina
Stamin, La Stampa, pagine torinesi, 16 maggio 2025.
“Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza:
abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in
quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e
carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio
fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra
le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla
torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le
strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una
giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza
cittadinanza e diritti.
“Una coltellata alla schiena ha trafitto il cuore di Mamoud Diane, 19 anni, di
origini ivoriane. Lo hanno ucciso in strada nel quartiere Barriera di Milano, a
Torino. Il ragazzo era davanti a un bar all’angolo tra via Monte Rosa e corso
Novara quando è scoppiata una rissa fra due gruppi di persone di origine
africana, nata per debiti di droga secondo i primi riscontri. Erano almeno in
venti. ‘Una decina contro altri sette – racconta un testimone – due gang si sono
fronteggiate con calci, pugni, sputi, bottigliate. Due ragazzi sono caduti a
terra. Uno si è alzato, l’altro si è trascinato per un centinaio di metri. A un
certo punto non si è mosso più. Io credevo si rialzasse, non avevo visto il
coltello’. Sono arrivate le volanti della polizia, l’esercito. ‘Invece
l’ambulanza ci ha messo circa un’ora – prosegue il testimone – quel ragazzo era
già morto’”. Giada Lo Porto, La Repubblica, pagine torinesi, 4 maggio 2025.
La mediocrità del giornalismo torinese deve essere vagliata nonostante la nausea
che induce. Fra le idiozie, le frasi automatiche e i dati dettati dalla questura
emerge a volte un elemento inconscio, una rottura nell’ordine del discorso. Se
un ragazzo riceve una coltellata in Barriera di Milano, arrivano subito i
soldati e le volanti blu; l’ambulanza invece ci mette un’ora.
SOLDATI NELLE STRADE
Venerdì 19 gennaio 2024 i giornali annunciano che i militari dell’operazione
Strade Sicure s’apprestano a presidiare le vie di Barriera di Milano.
Un’operazione volta a contrastare “spaccio, risse, furti, scippi e degrado” –
scrive La Stampa. Sono annunciati quarantadue soldati in più soltanto nel
quartiere. Era inverno in Barriera e i militari hanno iniziato a piantonare lo
slargo di corso Palermo che dà sul mercato di piazza Foroni. L’invio
dell’esercito era una mossa del governo a supporto di una circoscrizione
amministrata da Fratelli d’Italia. Così il sindaco Lo Russo, afferente al
Partito Democratico, ricordava in un’intervista a La Stampa: “Più controlli
interforze e militari, bene, ma la stessa attenzione che oggi si rivolge a
Barriera non va circoscritta”. Il sindaco non contestava il paradigma della
sicurezza, chiedeva soltanto che venisse applicato anche ai quartieri governati
dal suo partito.
Frammento da un taccuino di appunti, 25 gennaio 2024. “Angolo fra via Malone e
via Lombardore. Vedo un ragazzo appoggiato con la schiena alla parete, si
schiarisce la voce. Poco dopo, da lontano, vedo che il ragazzo è circondato da
tre militari e due poliziotti. Il presidio fisso di corso Palermo può diventare
mobile e pattugliare le vie interne. I militari non possono agire in alcun modo,
per questo sono affiancati dalla polizia di stato. Gli uomini armati in divisa
mimetica sono un corteggio spettacolare. Mi avvicino al gruppo. Il ragazzo ha
sempre le spalle al muro, ma questa volta ha un militare a destra e due a
sinistra, di fronte i due poliziotti. Un poliziotto basso mi osserva e mi fa
cenno di circolare, circolare, un poliziotto alto si occupa del ragazzo. Lo
hanno costretto a togliersi le scarpe: ne controllano la suola. Il ragazzo si
lamenta perché gli hanno fatto male al braccio. Il poliziotto alto: «Ti abbiamo
fatto male? Vuoi un massaggino? Vuoi un massaggino lì? Ascolta, my friends
[sic]. My friends [sic]. You are a good boy, ma non ti voglio più vedere qui.
Capito? Te ne devi andare da qui». Per spiegare il concetto fischia due volte e
muove il polso su e giù con la mano tesa: «Vedi di andartene». Si avvicina il
poliziotto basso e mi guarda: «Per favore, vada via, stiamo facendo un
controllo». Ora si concentrano su di me – al nero dai del tu, al bianco dia del
lei. Il poliziotto alto mi chiede il documento e, intanto, i tre militari mi
circondano e mi fissano”.
L’esercito è inutile, un’operazione di propaganda visibile in una società dello
spettacolo – scrivevo. Eppure lo spettacolo è materiale e il suo arbitrio agisce
sui dannati fermati. Gli esclusi sono disturbati, spesso puniti, a volte
reclusi: lo spettacolo non è rifrazione eterea, ma azione concreta che s’incide
sui corpi.
In che senso posso definire un presidio di soldati “inutile”? Esso è inutile
perché le regole d’ingaggio e le modalità di impiego non servono a contrastare
lo spaccio o i fenomeni di devianza. Mi rendo conto che l’inutilità
dell’esercito è un argomento valido solo se accolgo come veri gli scopi
dichiarati dal governo, se adeguo la mia mente ai proclami del potere.
L’esercito non presidia le strade di Barriera per contrastare lo spaccio,
l’esercito è qui per realizzare un’occupazione militare del quartiere. La lotta
al piccolo crimine è solo una giustificazione: bisogna invertire le cause e gli
effetti. Ricorda Gerusalemme.
(collage di stefania spinelli)
ZONE ROSSE
Il 17 dicembre 2024 il ministero dell’Interno emana una direttiva che dichiara
“l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare
la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi
disporre l’allontanamento”. Si tratta di aree urbane dove funzionano leggi
speciali. Insegno a scuola e un giorno ho spiegato la legge Pica, ovvero le
misure speciali contro il brigantaggio varate nel 1863. L’articolo 1 afferma:
“Fino al 31 dicembre corrente anno, nelle Province infestate dal brigantaggio, e
che tali saranno chiamate con Decreto Reale, i componenti comitiva, o banda
armata, composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie
o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno
giudicati dai Tribunali militari, di cui nel libro II , parte II del Codice
penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro”.
Esistevano zone speciali, ovvero specifiche aree appenniniche dove valevano
leggi diverse, eccezionali. Il fine era l’occupazione militare, e coloniale, del
territorio.
Per rispondere alla direttiva ministeriale, la Città di Torino istituisce
all’inizio del 2025 le “zone a vigilanza rafforzata”. Sono quattro aree speciali
– l’area attorno alla stazione di Porta Nuova, il lungofiume della Dora, il
cuore di Barriera di Milano, piazza Vittorio – dove sono intensificati i
controlli di polizia. In queste zone è legittimo imporre “il divieto di
stazionamento e l’allontanamento di soggetti con specifici precedenti per reati
predatori, contro la persona ed inerenti agli stupefacenti, che assumano
comportamenti aggressivi, minacciosi e insistentemente molesti”.
Ricostruisco la logica delle “zone a vigilanza rafforzata”. Nelle aree speciali
avvengono frequenti pattugliamenti con collaborazione fra soldati e forze
dell’ordine. Compito dei controlli è individuare i soggetti molesti, gli
indisciplinati e i fastidiosi ed esaminare i loro documenti. Se la persona
controllata ha precedenti per piccoli reati, l’autorità pubblica dispone
l’allontanamento dalla zona in questione per le successive 48 ore. La violazione
di questa disposizione è un’infrazione della legge e di conseguenza può scattare
un provvedimento penale. L’autorità pubblica ha creato un nuovo reato: sostare
in aree definite speciali dopo un’ingiunzione di allontanamento. Si tratta di
uno strumento in più da applicare a discrezione contro chi è ritenuto fonte di
turbamento dell’ordine pubblico. Accade lo stesso nelle scuole: si definiscono
nuove regole disciplinari in modo da avere più strumenti discrezionali da
impiegare contro gli studenti mal sopportati. «Non dovete controllare chi si
comporta bene», diceva un graduato dei carabinieri ai soldati in presidio in
Borgo Dora – era l’inizio di questa primavera.
La mente rimugina sui dati, scrutina le visioni per tentare un’astrazione. Se la
sicurezza è un pretesto, qual è la causa materiale dei controlli di polizia? Il
governo deve disciplinare e reprimere gli scarti, ovvero la forza lavoro –
precaria, spesso senza documenti, dunque facilmente sfruttabile – che non
s’adatta silente e quieta al meccanismo della riproduzione sociale. Gli atti (i
controlli, le retate) e le infrastrutture (la cella in questura, il carcere, il
Cpr) costruiscono un paradigma di contenimento di sfaccendati refrattari alla
schiavitù.
Mentre volteggia l’elicottero sopra Barriera di Milano assisto al controllo dei
documenti richiesti agli avventori del bar. Sferraglia il tram mentre siamo
circondati dagli agenti, in particolare sono tenuti d’occhio tre ragazzi mentre
un poliziotto in borghese dirige le operazioni di accertamento sui loro
passaporti. Poco fa sedevano senza pensieri al tavolino, sorseggiavano il caffè
dopo, chissà, una giornata di lavoro. I controlli paiono lunghi e meticolosi.
Forse qualcosa non va? S’è fatta sera. Repentini dieci agenti si stringono in un
muro blu e s’avvicina una camionetta. Oltre le schiene dei poliziotti i tre
ragazzi sono caricati nella camionetta, scorre il portello e si allontanano le
luci lampeggianti. Due di loro saranno gli unici arrestati di questa
spettacolare esibizione dello stato. Così, per un irragionevole movimento degli
eventi, due uomini finiscono forse in una struttura detentiva per il rimpatrio.
I tre fermati non mi sembrano diseredati, emarginati o soggetti che lo sguardo
della polizia può definire “pericolosi”; paiono piuttosto tre lavoratori
impigliati per caso nella rete della sicurezza. Le esperienze concrete allentano
la tenuta della teoria e alla mente non resta che tornare ai dati, alle visioni.
REPRESSIONE AL PONTE CARPANINI
In Borgo Dora, lungo la riva destra del fiume, le istituzioni si impegnano da
anni a contrastare e reprimere il mercato di straccivendoli, robivecchi e
raccoglitori di rifiuti che esiste da più di un secolo. Nel 2019 è stata
impiegata la Celere per sgomberare centinaia di mercanti, nelle stagioni
successive la polizia municipale s’è impegnata a contrastare e cacciare chi ha
tentato il ritorno. In questi mesi, accanto al ponte Carpanini, squadre di
vigili organizzano presidi all’alba del sabato per impedire che gli
straccivendoli dispongano le loro stuoie. È notevole il dispendio di energie
pubbliche per una repressione che non riesce a soffocare del tutto il fenomeno,
e nonostante i duri colpi inferti. Vedo le nuove insorgenze del mercato come
fioriture d’una vita spontanea, espressione di un’esigenza incontenibile;
l’operato della polizia e delle istituzioni m’appare come un’induzione di morte:
morte artificiale, o seconda morte.
Ascolto spesso gli straccivendoli chiedere ai vigili: «Che cosa dobbiamo fare?
Andare a rubare? Spacciare? Andiamo a spacciare allora!». È il meccanismo
circolare del potere: più reprime, più crea condizioni di vita che giustificano
la repressione.
Mi sono chiesto quale sia la catena di comando che induce i vigili, all’alba del
sabato, a piantonare il marciapiede accanto alla struttura in acciaio del ponte
Carpanini. Chi emana l’ordine, e perché, e secondo quali modalità? Diverse forze
chiedono l’allontanamento dei lavoratori informali: l’associazione che gestisce
il vicino mercato dell’antiquariato, l’ente filantropico e cattolico disturbato
dalle attività autonome dei poveri. Poi immagino che sia il comando dei vigili
di zona, su pressione del comune e della circoscrizione, a mandare gli agenti.
Per ricostruire i passaggi formali e le ragioni peculiari di una tattica di
controllo urbano ho deciso di consultare i verbali del Tavolo di osservazione
per la sicurezza della circoscrizione pertinente. A questo tavolo siedono il
presidente di circoscrizione, un rappresentante della prefettura, uno del comune
e i referenti delle forze di polizia che agiscono sul campo.
Ho richiesto i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della
Circoscrizione 7 tramite accesso civico generalizzato. La risposta è stata
emanata direttamente dalla prefettura: “Al riguardo, si rileva che la
documentazione richiesta è riconducibile alle previsioni di cui all’art. 5 lett.
a) D.Lgs 33/2013: ‘L’accesso civico […] è rifiutato se il diniego è necessario
per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici
inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico’”. La sicurezza è un
allucinante spettacolo visibile e mediatico, eppure oscure e invisibili sono le
origini delle sue procedure.
La sicurezza. La sicurezza è il pretesto ideologico per legittimare il controllo
militare e poliziesco di aree urbane peculiari. La sicurezza è un motore
pragmatico che produce atti politici territoriali e modifica il volto dei
quartieri e la vita degli abitanti, ma il meccanismo di questo motore emanante,
o principio primo, è invisibile, inafferrabile. La sicurezza è un incubo che
abita le nostre menti e ci impedisce di immaginare la possibilità che essa possa
essere smantellata, cancellata dall’orizzonte d’ogni pensiero e discorso.
(collage di stefania spinelli)
SICUREZZA INTEGRATA
I tavoli di osservazione per la sicurezza delle circoscrizioni sono stati
istituiti dall’articolo 4 di un protocollo del dicembre 2019: “Accordo per la
sicurezza integrata e lo sviluppo della Città di Torino”. Era il tempo della
giunta guidata da Appendino, il protocollo porta la firma, fra gli altri, dei
rappresentanti della Città, della Regione Piemonte, dell’Ufficio Scolastico
Regionale, dell’Unione Industriali, della Compagnia di San Paolo e di CGIL, CISL
e UIL.
La sicurezza è “integrata” – leggo nel protocollo – perché prevede una
“collaborazione tra amministrazioni centrali, istituzioni locali […] società
civile” e forze dell’ordine. Le premesse sono in questo senso illuminanti: in
nome del principio di “sussidiarietà” si ritiene necessario delineare una
“strategia di intervento complessiva che mette la città e i cittadini al centro
delle politiche di sicurezza”. La “sicurezza” infatti è un “bene primario dei
cittadini […] per la cui efficace realizzazione si rende necessario il concorso
di diversi soggetti, tutti funzionali, in una governance multilivello”. Il
documento propone d’incentivare “un processo di partecipazione alla gestione
della sicurezza […] nel quadro di una sicurezza sempre più integrata e
partecipata”. In sostanza non può essere soltanto l’operato della polizia a
“rimuovere le cause profonde di devianza e di degrado”, ma deve esistere “il
coinvolgimento” della cittadinanza attiva attraverso i patti di collaborazione
e, in modo più generale, la partecipazione intrisa di valori civici. Il
“contenimento dei fattori criminogeni” è il punto di confluenza dove possono
incontrarsi poliziotti, amministratori, sindacati confederali, fondazioni
bancarie, scuole e, immancabilmente, gli “enti del terzo settore di comprovata
esperienza ed [sic] attivi sul territorio”.
Il protocollo stipulava l’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza per il
controllo “pubblico e privato” del territorio, un più intenso scambio
informativo tra polizia locale e polizia di stato, la detrazione fiscale per gli
esercizi commerciali e condominî dotati di telecamere in strada, il
rafforzamento dell’illuminazione pubblica, una rinnovata sinergia fra enti
amministrativi e realtà territoriali per la prevenzione delle occupazioni. Il
patto aveva durata di due anni, molte soluzioni erano soltanto proclami,
tuttavia permangono ancora i tavoli di sicurezza delle circoscrizioni e i
presupposti ideologici di quell’approccio. In un’intervista del 30 maggio 2025
per le pagine torinesi del Corriere della Sera, il prefetto Cafagna annuncia la
nascita di un osservatorio sulle periferie: “L’obiettivo, su indicazione
ministeriale, è ideare e organizzare nuove iniziative concrete e coordinate fra
i diversi enti coinvolti, per affrontare tutte le problematiche. L’11 giugno
saranno presenti Regione, Città, associazioni sindacali e di volontariato,
fondazioni bancarie e rappresentanti della scuola e dell’autorità giudiziaria”.
Il giornalista chiede da dove si debba partire. E il prefetto: lotta al degrado,
implementazione di illuminazione pubblica e videosorveglianza.
So che nell’area metropolitana di Torino ci sono enti del terzo settore
coinvolti attivamente in pratiche di repressione e controllo del territorio:
esistono associazioni direttamente responsabili degli sgomberi dei campi
informali, un centro d’accoglienza cattolico ha collaborato all’esilio di
centinaia di straccivendoli, una cooperativa sociale è disposta a montare
telecamere di videosorveglianza attorno al perimetro del proprio locale,
numerosi soggetti hanno accettato finanziamenti europei in nome del
miglioramento della sicurezza percepita, una fondazione di comunità impedisce
alle persone senza casa di dormire nel parco pubblico che controlla. La
sicurezza non si risolve soltanto nell’operato violento e razzista delle forze
dell’ordine, ma è un dispositivo che coinvolge anche le iniziative dolci, e
democratiche, delle aggregazioni progressiste diffuse a diversi livelli
operativi nella società civile. Se il governo del territorio mostra una
capillare attitudine a escludere e discriminare, questo è l’esito di un
esercizio integrato che coinvolge tanto i soggetti apertamente razzisti quanto
le forze benevolenti e paternalistiche.
In un regime di sicurezza integrata la critica deve analizzare e smontare tutti
gli elementi che lo compongono. Per questo l’antifascismo declinato come
denuncia dei partiti di destra non è più sufficiente. Chiedo a chi incontro in
strada, ai compagni di viaggio, quanto sia allucinante il delirio spettacolare
cui assistiamo, e se ci sono delle formule per sfatarlo. Domando a chi legge se
è possibile risvegliarsi da questo incubo della sicurezza; e se esiste una forza
frenante, e collettiva. La disperazione ha in dono un residuo di energie?
(francesco migliaccio)
Sabato 28 giugno
ore 10
antimilitaristi
in corso Palermo angolo via Sesia
Vivere in periferia non è mai stato facile. Oggi va ancora peggio: ovunque si
allungano le file dei senza casa, senza reddito, senza prospettive. Per mettere
insieme il pranzo con la cena in tanti si adattano ad una miriade di lavori
precari, sottopagati, in nero, senza tutele.
Ovunque si allunga la lista dei morti e dei mutilati sul lavoro: non sono
incidenti ma la feroce logica del profitto che si mangia la vita e la salute di
tanta gente.
In questi ultimi anni i ricchi sono diventati ancora più ricchi, mentre chi era
povero è diventato ancora più povero. Il prezzo di gas e luce è raddoppiato,
tanta gente è sotto sfratto o con la casa messa all’asta. Se non ci sono i soldi
per il fitto e le bollette, la tutela della salute diventa una merce di lusso
che possono permettersi in pochi. Così dal 2015, ben prima della pandemia, per
la prima volta dal 1945, l’aspettativa di vita nel nostro paese si è ridotta.
Barriera di Milano, ormai da anni, è divenuta un laboratorio dove sperimentare
tecniche di controllo sociale prima impensabili, pur di non spendere un soldo
per la casa, la sanità, i trasporti, le scuole. In questi anni la spesa militare
è costantemente aumentata, le missioni all’estero delle forze armate italiane si
sono moltiplicate.
I militari fanno sei mesi in missioni militari all’estero, sei mesi per le
strade delle nostre città.
Tante missioni sono in Africa, dove le bandiere tricolori sventolano accanto a
quelle gialle con il cane a sei zampe dell’ENI, la punta di diamante del
colonialismo italiano.
La guerra per il controllo delle risorse energetiche va di pari passo con
l’offensiva contro le persone in viaggio, per ricacciarle nelle galere libiche,
dove torture, stupri e omicidi sono fatti normali.
In Barriera tanti sono immigrati o figli di immigrati arrivati dal sud come i
cerignolesi della piazza del mercato. Poi sono arrivate altre persone, nate in
Africa, in Cina, in Sudamerica: i loro figli e nipoti vanno nelle stesse scuole
e negli stessi giardinetti dei figli e dei nipoti degli immigrati degli anni
Sessanta. Tanti degli attuali abitanti delle Barriera sono arrivati su un
barcone e sono passati dalle prigioni in Libia e dagli hotspot in Italia.
Il governo e i fascisti soffiano sul fuoco della guerra tra poveri italiani e
poveri immigrati, per avere mano libera a fare la guerra a noi tutti.
Nei quartieri poveri il controllo militare è diventato normale. Anzi! Ogni
giorno è peggio.
Intere aree del quartiere vengono messe sotto assedio, con continue retate di
persone senza documenti o che vivono grazie ad un’economia informale.
Torino da città dell’auto si sta trasformando in città dei bombardieri e vetrina
per turisti. Una vetrina che i poveri che passano ore ai giardinetti non devono
sporcare. L’aspirazione ad una socialità non mercificata va repressa.
Il governo a tutti i livelli punta il dito sulle persone più povere,
razzializzate, con il continuo ricatto dei permessi, per nascondere la guerra
sociale che ha scatenato contro tutti i poveri, italiani e nati altrove,
schierandosi a fianco dei padroni grandi e piccoli.
Il controllo etnicamente mirato del territorio mira a reprimere sul nascere ogni
possibile insorgenza sociale.
Da quando i militari dell’operazione “Strade Sicure”, sono stati inviati i
Barriera di Milano, l’area di corso Palermo limitrofa al mercato di piazza
Foroni è stata costantemente militarizzata: in corso Palermo angolo via Sesia
stazionano stabilmente mezzi dell’esercito e un’auto pattuglia della polizia o
dei carabinieri. Da aprile i militari sono anche in largo Giulio Cesare.
Per cosa? Per spostare di qualche centinaio di metri i pusher? Per alimentare la
favola che se si cacciano gli spacciatori, poi, per magia, Barriera diventa come
la Crocetta?
Eppure. Basterebbe farla finita con il proibizionismo, consentendo la vendita
delle sostanze, con tanto di etichetta e foglio informativo in appositi negozi,
per farla finita con le mafie e la disperazione dei tossici. E diminuirebbero
drasticamente le morti causate da sostanze tagliate male, velenose, pericolose.
Con la lotta, la solidarietà il mutuo appoggio, possiamo far si che le nostre
vite diventino migliori.
Riprendiamoci gli spazi del quartiere militarizzati e resi deserti dalla polizia
e dai militari. Proviamo ad immaginare di farla finita, sin da ora, con stato,
padroni, militari, polizia.
Ci raccontano la favola che una società complessa è ingovernabile dal basso
mentre ci annegano nel caos della gestione centralizzata e burocratica delle
scuole, degli ospedali, dei trasporti.
Costruiamo insieme assemblee territoriali, spazi, scuole, trasporti, ambulatori
autogestiti! Non è un’utopia ma l’unico orizzonte possibile per liberarci dallo
stato e dal capitalismo.
La sicurezza è casa, reddito, sanità per tutte e tutti, non soldati per per le
strade!
✨ PARTY DI APERTURA NON UNA DI MENO FEST. ZONE FUCSIA OVUNQUE ✨
Giardino askatasuna - C.so Regina 47
(venerdì, 20 giugno 19:00)
Rullo di tamburi, squilli di tromba per la marea fucsia che invaderà la città
per il 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗳𝗲𝘀𝘁𝗶𝘃𝗮𝗹 𝘁𝗿𝗮𝗻𝘀𝗳𝗲𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗡𝗼𝗻
𝘂𝗻𝗮 𝗱𝗶 𝗠𝗲𝗻𝗼 𝗧𝗼𝗿𝗶𝗻𝗼.
Incontri, dibattiti, musica e festa, banchette e socialità.
✨ venerdì 20 giugno Party di apertura Non Una di Meno Fest. Zone fucsia ovunque
✨
📌Alle 19 apertura porte e cena veg
🎤Alle 21 inizio concerti con Chadia Rodriguez, Ellie Cottino, Sista Sofy,
B3tta, Kiki.
Il festival è completamente autogestito e autofinanziato: seguici sui social per
capire come supportare, diffondi le iniziative, partecipa... Juntes somos más
fuertes! 💜🔥
NON UNA DI MENO TORINO FEST - FESTIVAL TRANSFEMMINISTA. INCONTRO: ESPERIENZE DI
SCUOLA TRA REPRESSIONE E RIBELLIONE
giardini reali - cso san maurizio angolo via rossini
(giovedì, 19 giugno 18:00)
Rullo di tamburi, squilli di tromba per la marea fucsia che invaderà la città
per il 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗳𝗲𝘀𝘁𝗶𝘃𝗮𝗹 𝘁𝗿𝗮𝗻𝘀𝗳𝗲𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗡𝗼𝗻
𝘂𝗻𝗮 𝗱𝗶 𝗠𝗲𝗻𝗼 𝗧𝗼𝗿𝗶𝗻𝗼.
Incontri, dibattiti, musica e festa, banchette e socialità.
Giovedì 19 giugno - Giardini reali angolo Via Rossini
📌H. 18 Incontro: Esperienze di scuola tra repressione e ribellione
🎶A seguire aperitivo e musichette al parco
SUMMER NIGHT
Murazzi - Lungo Po murazzi, lato destro
(martedì, 10 giugno 17:00)
Il ksa presenta la prima Summer night ai murazzi!
Il 10 giugno dal pomeriggio sulle rive del po ci sarà una mostra fotografica
accompagnata da buona musica e sangria...
E dalle 21 iniziano dei magnifici concerti con band emergenti del panorama
torinese.
Vi aspettiamo con @eden.for.all @_.irossa._ @aabsenthee @vvesprii e @oaks.band
dalle 21 per iniziare l'estate nel migliore dei modi!
Non fartelo raccontare!
(disegno di Adriana Marineo)
Queste cartografie aggregano voci enciclopediche per un archivio del terzo
settore e dell’innovazione sociale. Nei contributi prevale un tono espositivo a
cui si alternano spunti critici. L’ordine e i tempi delle uscite dipendono dalle
energie a disposizione, dal tenore delle nostre ricerche, da eventi puntuali che
notiamo in quartiere. Da tempo riflettiamo sul Sermig e sulla sua storia, ma non
a caso proponiamo ora una voce specifica. Qualche giorno fa una straccivendola
lungo la Dora è finita in questura a causa di una segnalazione alla polizia
effettuata da un membro del Sermig. La donna aveva disposto i suoi oggetti in
vendita accanto all’ingresso della struttura e questo, evidentemente, dava
fastidio. È importante chiedersi perché un ente umanitario e filantropico non
esiti a rivolgersi alla polizia e denunciare persone che potrebbero pagare un
caro prezzo nel terribile sistema delle espulsioni di questo stato. Bene, non
v’è nulla di cui stupirsi. Il Sermig è coinvolto da anni nel governo d’un
quartiere da cui reietti e indisciplinati sono espulsi.
* * *
Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) fu fondato a Torino nel 1964 su
iniziativa del bancario Ernesto Olivero insieme ad alcuni giovani cattolici:
intendeva operare come gruppo missionario nel mondo. Presto il Sermig iniziò a
occuparsi anche della povertà presente a Torino e dal gruppo originario nacque
la Fraternità della Speranza, “una comunità di persone libere, unite dal
Vangelo, che sceglie consapevolmente di mantenersi laica”. Dal 1983 la sede
principale del Sermig è l’ex arsenale militare della città, in piazza Borgo
Dora, ribattezzato Arsenale della Pace. La struttura è stata assegnata al Sermig
in comodato dal Comune e trasformata in “casa di accoglienza per i poveri”.
L’Arsenale di Borgo Dora offre oggi, fra gli altri servizi, un dormitorio
maschile e una casa di accoglienza femminile, distribuzione di cibo e vestiti,
visite mediche gratuite. L’orientamento imprenditoriale e il contributo dei
volontari hanno permesso la ristrutturazione complessiva di un’area di 45.000
metri quadri: una cittadella della benevolenza nel quartiere della Dora.
Successivamente, la Fraternità ha aperto a São Paulo in Brasile (1996) e in
Giordania (2003) ulteriori strutture: i “progetti di sviluppo nel mondo” sono
descritti come l’anima del Sermig, che vanta anche “missioni di pace” in molti
paesi.
Il principio cardine del Sermig, si legge nei loro documenti, è la
“restituzione”: “trasformare beni, competenze, tempo, professionalità in
opportunità per gli ultimi, per chi vive ai margini, per chi ha perso tutto”.
Questo accade grazie al “contributo gratuito” dei volontari, che tengono in
piedi l’impero di attività, progetti e servizi. Essi offrono la loro
collaborazione senza chiedere rimborsi e pagandosi le spese. Accanto a questo
“capitale umano”, la capacità finanziaria del Sermig si fonda principalmente
sulle donazioni di persone fisiche, enti o aziende, ma anche sulla
partecipazione a bandi o sulle richieste di contributi a enti pubblici o
privati, come le fondazioni bancarie. Inoltre, il Sermig attua una politica che
definisce “di autofinanziamento” fornendo servizi o vendendo prodotti. Per poter
agire nel mondo la Fraternità della Speranza ha scelto di costituirsi in
“emanazioni” che possono prendere la forma di ONLUS, associazioni del terzo
settore, scuole ed enti di formazione, associazioni sportive e dilettantistiche,
fondazioni. Tra queste figura l’Associazione Centro Come Noi S. Pertini che ha
ricevuto, tra gli altri, finanziamenti dal bando Tonite.
Le visite al Sermig di Mattarella, in veste di presidente della Repubblica, sono
state numerose. Il presidente è venuto qui nel dicembre del 2019, poco dopo la
cacciata dal quartiere di centinaia di straccivendoli, poi nel novembre del 2021
e nel luglio del 2024. L’ultima visita è avvenuta il 16 maggio di quest’anno:
per un giorno intero la strada è stata chiusa al traffico, decine di agenti
hanno presidiato l’ingresso e un graffito sulla facciata (“Palestina liberaci”)
è stato rimosso con una mano di bianco. Nell’aprile del 2022 il presidente del
Consiglio Mario Draghi ha visitato Torino e ha negoziato l’entità degli aiuti
finanziari dello stato per contenere il debito della città. Dopo gli impegni
istituzionali Draghi ha visitato due luoghi soltanto: il Sermig di Olivero e il
centro direzionale Lavazza. Il Sermig appare come una struttura assistenziale
dotata di notevole potere, apprezzata da istituzioni governative di vertice.
Per descrivere il ruolo del Sermig nel quartiere è opportuno ricostruire il suo
rapporto con straccivendoli e venditori poveri che, da decenni, si ritrovano il
sabato nelle strade di Borgo Dora. Sin da inizio secolo gli straccivendoli
disponevano le loro stuoie nel canale Molassi, una stretta via che separa la
struttura principale dell’Arsenale da un complesso di laboratori artigianali
gestito dal Sermig. Nell’aprile del 2018 il Sermig ha firmato una lettera
assieme a un comitato di quartiere e altre associazioni di commercianti per
affermare “la necessità e l’urgenza dello spostamento” del mercato dei poveri,
definito come un “fenomeno esplosivo incontrollato e incontrollabile che da
sempre funziona da catalizzatore di criticità devastanti”. Nel novembre
dell’anno successivo, il mercato degli straccivendoli viene sgomberato con la
violenza dalle forze dell’ordine.
Nonostante la repressione e l’esilio dei cenciaioli – relegati in un’area
lontana, vicina al cimitero monumentale – nel quartiere è nato negli ultimi anni
un nuovo, piccolo mercato informale dove alcuni venditori espongono oggetti
raccattati nei bidoni, recuperati da solai e cantine. Gli straccivendoli si
riuniscono la mattina vicino al ponte Carpanini, proprio davanti all’Arsenale
del Sermig. Durante questa primavera la polizia municipale ha organizzato ronde
e presidi sin dall’alba per impedire ai venditori di esporre la loro merce.
Soltanto quando i vigili smettono di piantonare il marciapiede s’organizza un
mercato di vestiti e oggetti ritrovati. Gli agenti spesso hanno un’aria
arrogante, in altri casi appaiono a disagio per il compito assegnato. Alcuni di
loro affermano di dover eseguire gli ordini: è il comando, dicono, che li manda
su richiesta del Sermig e dell’associazione che gestisce il mercato degli
antiquari in via Borgo Dora.
Il Sermig si è rivelato negli anni un soggetto attivo nella repressione e
nell’allontanamento dei cenciaioli più poveri. Persone senza casa, marginali,
soggetti fragili sono graditi solo se possono essere parte del meccanismo di
accoglienza della struttura: essi sono il carburante di un’industria della
benevolenza caritatevole. Se i dannati della terra, tuttavia, sopravvivono ai
confini del Sermig in autonomia, attraverso la vendita informale degli oggetti
ritrovati, e senza adeguarsi ai progetti predisposti per loro, allora diventano
un problema di ordine pubblico. I vertici dell’ente non hanno scrupoli a
chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sebbene siano consapevoli delle
conseguenze tragiche che possono sortire da un controllo dei documenti. La
storia del Sermig suggerisce così una riflessione sul ruolo del privato sociale
nel governo della città: il terzo settore in questo caso non è soltanto
complementare alle istituzioni repressive, ma può collaborare direttamente con
esse per portare ordine e disciplina nel quartiere. (voce a cura di francesco
migliaccio e stefania spinelli)
NESSUNO SPAZIO AI FASCISTI - PER UNA BARRIERA UNITA E SOLIDALE
Torino -
(giovedì, 5 giugno 20:30)
LA NOSTRA SICUREZZA È SICUREZZA SOCIALE
Contro razzismo, abbandono e propaganda: comunità attiva e organizzata!
PRESIDIO ANTIFASCISTA E CORTEO PER IL QUARTIERE
Contro chi specula sul degrado per incitare alla xenofobia e al razzismo.
Fermiamo l'ennesima passerella dei gruppi fascisti.
📅 Giovedì 5 giugno – ore 20.30
📍Via Bologna / angolo corso Novara
Stiamo costruendo un’assemblea popolare di quartiere, aperta a tutti:
lavoratori, studenti, famiglie, pensionati. Uniti, dal basso, per costruire
insieme una vera alternativa sociale. Barriera è di chi la vive. Non di chi la
sfrutta.
🗓️ Prossima assemblea: 12 giugno – ore 18
📍Giardini di via Montanaro
ASSEMBLEA DI QUARTIERE BARRIERA
Nel giorno in cui la Repubblica Italiana celebra se stessa con parate e
manifestazioni militari gli antimilitaristi hanno riempito piazza Palazzo di
Città con tanti interventi e il canzoniere antimilitarista del Cor’Okkio. Il
presidio si è presto trasformato in corteo ed ha raggiunto la piazza della
cerimonia dell’ammaina bandiera gonfia di retorica nazionalista ed esaltazione
[…]