La Wbo Italcables festeggia dieci anni come cooperativa. L’azienda che produce
cavi d’acciaio era fallita ma l’hanno rimessa in piedi i lavoratori, all’inizio
rinunciando a metà stipendio. In un luogo che è diventato il simbolo delle
politiche securitarie del governo Meloni, una storia di riscatto reso possibile
dalla solidarietà
di Luciana Cimino da il manifesto
Ha appena festeggiato i dieci anni. Il 23 aprile del 2015 la Wbo Italcables di
Caivano si è costituita in cooperativa di lavoratori, rilevando la fabbrica
siderurgica in fallimento. Wbo sta per infatti per workers buyout e cioè
dipendenti che impegnano i propri risparmi per salvare l’azienda in cui
lavorano. Mentre Italcables si legge come è scritto perché «negli anni ‘60 il
fondatore non conosceva la pronuncia corretta in inglese», raccontano oggi gli
operai.
Il decennale non è la sola data che festeggiano con le loro famiglie: c’è
l’anniversario della prima bobina lavorata, «il 19 settembre, a San Gennaro e
non è un caso, abbiamo comprato lo spumante al centro commerciale qui vicino –
racconta Gaetano Esposito – un momento che ancora mi commuove». C’è anche la
data che ricorda «la copertura della cicatrice». Racconta Luigi Posillipo, che
oggi guida il reparto manutenzione, «la macchina principale, al centro dello
stabilimento, era stata venduta e per noi i solchi sul pavimento che aveva
lasciato rappresentavano una cicatrice.
Dovevamo ricomprarla e metterla nello stesso posto: è stato un traguardo
simbolico». E poi il giorno in cui sono tornati a lavorare tutti per l’intera
settimana lavorativa. «Non abbiamo fatto alcuna selezione tra i lavoratori –
spiega Matteo Potenzieri, presidente della cooperativa – anche se i primi tempi
non c’era lavoro per tutti. Una volta partiti con il contratto di solidarietà
abbiamo fatto un accordo interno: lavoriamo meno per lavorare tutti.
Abbiamo cominciato con tre giorni a settimana, tagliandoci lo stipendio, poi
siamo passati a quattro e ci sembrava già una conquista». Il segno che
finalmente potevano tirare un sospiro di sollievo e, guardandosi indietro, dirsi
che ne era valsa la pena. La scommessa era di quelle ad alto rischio, «se il
progetto fosse andato male non si saremmo potuti tornare in mobilità, anzi, se
non fosse rimasto in piedi almeno due anni avremmo dovuto restituire il prestito
– spiega il presidente – ci stavamo giocando tutto, anche l’assegno per vivere».
La crisi della Italcables, che produce cavi d’acciaio per cemento armato e
trefoli per l’Alta velocità, non era di prodotto ma finanziaria. Le commesse
c’erano, l’azienda era stabile e con i conti in ordine, ma non immune alla crisi
del 2008. Lo stabilimento siderurgico era stato realizzato dalla Redaelli Tecna
a Napoli a inizio ‘900, Gianluca Naldi ha cominciato a lavorare lì a fine anni
70 e oggi è la memoria storica dello stabilimento. E non c’è memoria campana che
non si riferisca in qualche modo alla convivenza con il Vesuvio e con i
terremoti. «Dopo quello del 23 novembre 1980 che fece danni importanti alla
fabbrica, l’azienda decise di trasferirsi su questo terreno, che ora fa parte
del distretto industriale di Caivano». A giugno 2008 la Radaelli viene assorbita
dalla Companhia Previdente, società portoghese proprietaria anche l’Italcables
di Brescia. La materia prima che usa, l’acciaio ad alto tenore di carbonio, è
costosissima, per acquistarla servono scorte monetarie adeguate che, quando
arriva la crisi dei crediti, le banche non concedono più, mentre per lo stesso
motivo fallivano i loro fornitori e i loro clienti. «Era la tempesta perfetta»,
spiega Potenzieri. Chiude prima lo stabilimento bresciano, dove resta solo la
sede operativa, poi, nel 2013 anche quello di Caivano va in liquidazione.
«Quell’anno ogni giorno sotto il ministero per l’Industria c’erano
manifestazioni con centinaia e centinaia di lavoratori di grandi fabbriche a
rischio chiusura, noi eravamo solo 60, chi ci avrebbe ascoltati?». Decidono
comunque di presidiare la fabbrica giorno e notte per «evitare che qualcuno
rubasse o danneggiasse le macchine e per non dare l’idea ai possibili acquirenti
di uno stabilimento in abbandono», spiegano i lavoratori della cooperativa.
Tuttavia le aziende interessate all’acquisto non si palesano: «Chi voleva solo
terreno, chi solo i macchinari, si prospettava una vendita a pezzettini e
abbiamo capito che non sarebbe arrivato nessun cavaliere bianco a salvarci»,
racconta ancora il presidente. Potenzieri frequenta la sede dell’Azione
cattolica, lì viene a conoscenza delle cooperative dei lavoratori e della
Legacoop che le aiuta a nascere. Condivide lo spunto solo con pochi colleghi
(«non volevamo illudere tutti per una cosa che neanche sapevamo fosse
possibile»), poi cominciano «a fare assemblee con chi ci stava – ricorda Luigi –
siamo partiti in 67 portando solo una piccola sintesi del progetto, poi man mano
abbiamo cominciato a costruirlo insieme».
Alla fine del percorso erano 51: qualcuno era stato assunto altrove, qualcuno
aveva maturato la pensione, «qualcuno non se l’è sentita, era una decisione
difficile che coinvolgeva le famiglie». «Ci siamo impegnati, abbiamo studiato
tutti a fondo per capire come salvare l’azienda, subendo anche lo stigma di
essere meridionali, ci dicevano che volevamo vivere di assistenzialismo solo
perché avevamo bisogno della proroga della cassa integrazione». Nel 2015, grazie
all’aiuto di Banca Etica e LegaCoop, e alla fine di un lungo percorso con le
istituzioni, accompagnati dai sindacati, riescono a rilevare la fabbrica.
«Quell’anno aspettavo una bambina, è stata una rinascita completa – racconta
Luigi – ma è successo perché eravamo una famiglia e avevamo enorme fiducia nei
compagni che avevano avuto l’idea». Gli uffici li hanno messi nello stabilimento
e non nell’edificio di fronte, «così non c’è separazione, prima davamo il 100
per cento ora il 115 perché abbiamo la responsabilità delle nostre famiglie e di
quelle degli altri». «Quando sono entrata nello stabilimento per la prima volta
ho avuto un colpo di fulmine – dice oggi Anna Ceprano, presidente di Legacoop
Campania- avevano una forte determinazione a riprendersi la dignità del lavoro
che gli era stata tolta e c’era una sinergia straordinaria tra colletti bianchi
e base operaia».
Le palazzine del Parco Verde si scorgono dalla strada per arrivare alla zona
industriale. «È questo il vero modello Caivano – nota Ceprano – quello della
centralità del lavoro, della possibilità di riscatto, non quello della
militarizzazione delle periferie». In questi 10 anni gli operai della Wbo
Italcable non hanno mai smesso di diminuire l’impatto ambientale e migliorare la
qualità del prodotto, «stiamo investendo, l’età avanza e noi speriamo di andare
in pensione, qualcuno dovrà prendere in mano questo stabilimento e andare avanti
per altri 40 anni, speriamo che ci ricordino come persone che qualcosa di buono
per gli altri l’hanno fatta». Nei mesi scorsi Matteo Potenzieri è stato
candidato a Cavaliere del lavoro dai suoi compagni :«Chi più di lui si merita
questo titolo».
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Addestrarli per condizionarne mente, psicologia, affettività e renderli
animali-robot da guerra in mano agli eserciti in guerra. A Sigonella, la grande
base aeronavale alle porte di Catania - in prima linea nei più sanguinosi
conflitti del pianeta - un team specializzato di US Navy si dedica alla
“formazione” militare dei cani, attività tutt’altro che etica ma a cui guardano
con sempre maggiore attenzione e curiosità alcune scuole siciliane.
“Gli studenti dell’Istituto Professionale Alberghiero Giovanni Falcone di Giarre
incontrano e salutano i Military Working Dogs (MWD) alla Naval Air Station di
Sigonella”, titola un servizio pubblicato qualche giorno fa dal Defence Visual
Information Service (DVIS), il network multi-mediatico del Dipartimento della
Difesa degli Stati Uniti d’America. “L’incontro con il K-9 team di US Navy è
avvenuto l’8 aprile 2025 presso il campo in erba di NAS 2. La base strategica di
Sigonella abilita i militari USA, degli alleati e delle nazioni partner a
operare e rispondere quando richiesto, garantendo la sicurezza e la stabilità in
Europa, Africa ed Asia Centrale”. Con l’articolo anche una fotogallery della
visita “educativa” della scuola di Giarre: in copertina insegnati e studenti
gioiosamente in posa accanto ad addestratori, un paio di cani-cavia e perfino
due marines USA con addosso pesanti giubbotti antiproiettile.
E‘ ancora il Defence Visual Information Service del Pentagono a ricostruire
storia e funzioni bellico-sicuritarie dei Military Working Dogs di Sigonella.
“In tempi antichi, i cani erano impiegati per rompere le formazioni nemiche,
caricando i ranghi e abbattendo il maggior numero di soldati possibile”, scrive
il DVIS. “I cani sono stati usati in ogni guerra americana dalla Guerre Civile
ai nostri moderni conflitti odierni. Essi sono serviti come mascotte, corrieri,
sentinelle, esploratori e perfino come cacciatori di topi sulle navi. Oggi i
cani sono utilizzati per cercare esplosivi, scovare narcotici e catturare i
cattivi, sia in patria che all’estero. Essi stanno spesso nella prima linea di
difesa tra le nostre forze armate e il nemico”.
“I Military Working Dogs giocano un ruolo importante tra la flotta e la Naval
Air Station Sigonella”, aggiunge il newwork multi-mediatico delle forze armate
USA. “I cani dell’unità MWD sono vitali nella protezione delle persone della
base e possono intervenire per fermare persone sospette e rilevare esplosivi e
droga. Una parte dell’addestramento è dedicato all’individuazione di narcotici e
materiale esplosivo così come all’addestramento al pattugliamento”.
Il team cinofilo in forza alla grande stazione aeronavale siciliana spiega poi
quanto sia importante la relazione che si instaura tra gli addestratori e gli
animali-soldato. “Devono essere in grado di lavorare insieme in situazioni
stressanti e intense”, spiega uno dei trainer di US Navy. “Ci alleniamo ogni
giorno, tutti i giorni. Ogni luogo in cui andiamo è un’opportunità addestrativa.
Per costruire veramente le abilità e le competenze dei Military Working Dogs è
richiesta attenzione e dedizione costante”.
“Focus dell’addestramento è il servizio di pattugliamento con il lavoro di
morditura”, spiega senza troppi giri di parole un secondo marine di Sigonella.
“I gestori iniziano ogni cane con comandi e movimenti di obbedienza, premiandoli
con i loro giocattoli quando si comportano correttamente, e poi si passa
all’addestramento giornaliero al pattugliamento. Gli addetti approfittano
dell’accensione degli irrigatori per testare le capacità dei cani di ignorare le
distrazioni causate da essi durante l’inseguimento di un ricercato. Utilizziamo
fattori ambientali che normalmente non vedono per testare il loro impegno nel
perseguire un sospettato. Li facciamo correre verso il campo per mordere l’esca
attraverso un flusso di acqua corrente, avvicinandoli progressivamente alla
sorgente dell’acqua per vedere se essa o la sua pressione influenzano il loro
impulso a mordere”.
Il 17 dicembre 2021 il team cinofilo di Sigonella ha festeggiato il
“pensionamento” di Weezy, cane militare in forza al MWD da più di dieci anni. A
lui è stato dedicato l’ennesimo servizio multi-mediale del Dipartimento della
Difesa USA.
“Weezy è nato nell’aprile 2009 e ha iniziato il suo addestramento sugli
esplosivi nella base aerea di Lackland, Texas nel marzo 2011”, riporta il DVIS.
“Successivamente Weezy è stato trasferito ad un reparto del Corpo dei Marine di
stanza a Fort Bragg, in North Carolina. Nel luglio del 2011, il cane ha
raggiunto il Centro di combattimento aereo-terrestre dei Marine di Twentynine
Palms, California, per condurre l’addestramento prima del trasferimento in
Afghanistan. In questo paese Weezy ha preso parte ad operazioni di
individuazione di ordigni esplosivi improvvisati, a supporto e difesa di
innumerevoli membri in servizio”. Dopo un anno nell’inferno di guerra afghano,
il cane ha fatto ritorno a Fort Bragg e successivamente è stato assegnato alla
base navale di Souda Bay (Creta) e infine al dipartimento sicurezza di NAS
Sigonella. “Weezy ha riportato gravi ferite mentre stava completando
un’esercitazione all’interno di un deposito di Souda Bay, con la frattura di
tibia e perone”, aggiunge il Defence Visual Information Service. “Sono volati
così 19 mesi per Weezy, in cui è stato sottoposto a tre interventi chirurgici e
a riabilitazione, e finalmente è potuto tornare a svolgere pienamente il suo
lavoro”.
Chissà se i marines USA hanno rivelato agli studenti dell’Istituto Alberghiero
qualche particolare sull’ignobile trattamento imposto alle unità cinofile votate
a svolgere compiti di guerra. Di certo per la loro giovane età i ragazzi di
Giarre difficilmente hanno avuto modo di conoscere quanto accaduto e immortalato
in tragiche pose nel carcere-lager di Abu Ghraib, Iraq, dove nei primi mesi del
2004 i militari USA hanno torturato e stuprato, anche con l’ausilio di cani, un
enorme numero di prigionieri. Nel giugno 2004 un reportage del Washington Post
rivelò che gli ufficiali dei servizi segreti USA avevano formalmente autorizzato
i team cinofili di US Army ad utilizzare i cani per terrorizzare i detenuti. Il
prestigioso quotidiano pubblicò in particolare le testimonianze di due sergenti
a cui fu richiesto di portare i cani nel “carcere degli orrori” per gli
interrogatori. “In alcuni casi abbiamo fatto avvicinare i cani che abbaiavano
furiosamente fino a 15 centimetri dai prigionieri terrorizzati”, hanno ammesso i
militari. “Alcuni detenuti sono stati morsi dagli animali”. Secondo un’altra
testimonianza citata dal Washington Post, un investigatore dei servizi militari
ha riferito di aver visto una squadra con i cani stringere in un angolo
due prigionieri, uno dei quali strillava e cercava di ripararsi dietro l’altro.
“Quando ho chiesto cosa stessero facendo i due militari mi hanno risposto che
stavano facendo una gara per vedere quanti prigionieri riuscivano a fare urinare
per la paura”.
I marines di Sigonella sono ormai un partner “educativo” di fiducia
dell’Istituto Alberghiero “Giovanni Falcone”. Lo scorso 25 marzo, nell’ambito
del programma Community Relations di “volontariato linguistico, culturale e
civico” promosso da US Navy, si è tenuto nell’aula magna della scuola il
convegno dal titolo Opportunità in Uniforme: Testimonianze a Confronto tra USA e
Italia, con lo scopo di “sottolineare le opportunità lavorative offerte dalle
forze dell’ordine”, come riporta la circolare a firma della dirigente,
professoressa Monica Insanguine. Undici giorni prima erano stati ospiti
dell’Istituto una nutrizionista statunitense e il responsabile Relazioni Esterne
della NAS Sigonella, Alberto Lunetta, per un incontro di formazione sulla “dieta
mediterranea” con gli allievi del corso di istruzione per adulti.
Il 4 aprile 2024, l’Istituto “Giovanni Falcone” aveva ospitato le mogli
di alcuni ufficiali in forza alla Marina degli Stati Uniti d’America (first lady
la signora Kerry Collins, moglie del contrammiraglio Brad
Collins, comandante della Regione Navale Europa, Africa Centrale e delle forze
aeronavali USA) per “apprezzare da vicino l’offerta formativa della
scuola presso il quale i militari statunitensi svolgono da diversi anni attività
di volontariato linguistico”, così come riportato dagli organi di stampa locali.
“L’evento ha rappresentato un momento significativo nella promozione dello
scambio culturale tra gli Stati Uniti d’America e l’Italia, evidenziando il
ruolo fondamentale che istituzioni come l’Istituto Alberghiero Falcone di Giarre
e la base NAS Sigonella svolgono nel rafforzare i legami e la cooperazione tra
le due nazioni”.
Articolo pubblicato in Stampalibera.it il 24 aprile 2025,
https://www.stampalibera.it/2025/04/24/scuola-siciliana-si-forma-con-i-cani-da-guerra-dei-marines-usa-di-sigonella/
Tra febbraio e marzo del 1945, mentre le truppe alleate non sono avanzate
rispetto alle posizioni occupate durante l’inverno,l’offensiva partigiana
nell’Italia settentrionale si sviluppava con nuova forza.
È il 10 aprile quando la direzione per l’Italia settentrionale del partito
comunista fa pervenire a tutte le organizzazioni politiche e formazioni militari
partigiane la direttiva n. 16 dedicata all’insurrezione: “l’offensiva sovietica
sull’ Oder e l’offensiva anglo-americana in Italia saranno gli atti finali della
battaglia vittoriosa. Anche noi dobbiamo scatenare l’attacco definitivo. Non si
tratta più solo di intensificare la guerriglia, ma di predisporre e scatenare
vere e proprie azioni insurrezionali”.
Alcuni giorni dopo il generale Clark (generale americano a dirigere le forze
alleate in Italia) invia un messaggio ai partigiani raccomandando di restare
sulle montagne e di non compiere azioni premature. Appena conosciuto il testo
dei messaggio Togliatti scrive a Longo: “Il nuovo ordine del giorno del generale
Clark è stato emanato senza l’accordo del governo né nostro. Tale ordine del
giorno non corrisponde agli interessi del popolo. E nostro interesse vitale che
l’armata nazionale e il popolo si sollevino in un’unica lotta per la distruzione
dei nazifascisti prima della venuta degli alleati. Questo è indispensabile
specialmente nelle grandi città, come Milano, Torino, Genova ecc., che noi
dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare
integralmente dai fascisti. Prendete tutte le misure necessarie per la rapida
realizzazione di questa linea, scegliete voi stessi il momento dell’insurrezione
sulla base dello sviluppo generale della situazione sui fronti, sul movimento
del nemico e sulla base della situazione delle forze patriottiche.”
Il popolo italiano aderisce con slancio all’appello: il 19 aprile i partigiani,
guidati da Barontini, liberano Bologna e nella mattinata del 24 tutte le
stazioni radio trasmettono questo messaggio “Il Comitato di liberazione
nazionale dell’Alta Italia invita all’insurrezione in tutte le città e le
province, per cacciare gli invasori e i loro alleati fascisti, e per porre le
basi di una nuova democrazia, che sarà l’espressione della volontà popolare”.
È l’insurrezione. Il giorno successivo vengono liberate Torino e Milano, e la
maggior parte del nord Italia.
In questi giorni convivono, nel clima di generale euforia, la fiducia e i dubbi
nei confronti del prossimo futuro, degli Alleati e del governo di Roma: ci si
avvia a vivere un momento in cui l’uscita dall’incubo della morte, per essere
sentita davvero come definitiva, chiede ancora dei morti. In questo senso, le
organizzazioni partigiane aspirano ad una giustizia rapida ed esemplare, che
permetta anche di “evitare l’errore di Roma per cui troppi fascisti girano
ancora indisturbati per le vie dell’Urbe”.
Procedere all’epurazione è un bisogno sentito ed impellente, “l’epurazione
dobbiamo farla adesso, chè dopo la liberazione non si fa più, perché in guerra
si spara, finita la guerra non si spara più”, la giustizia deve venire dal
popolo, che da una parte continua a repellere la denuncia come metodologia di
risoluzione, e che dall’altra parte spesso vede troppo lassismo da parte delle
autorità.
Per molti anni la stampa revisionista ha parlato di 300.000 uccisi nelle
giornate di aprile, mentre nel 1952 il ministro dell’interno Scelba fornisce la
cifra di 1732 epurati. Le stime concrete degli storici fanno invece ammontare il
numero dei morti tra i dodici e i quindicimila in tutto il nord Italia.
Guarda “La liberazione di Torino“:
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In Italia nelle scuole c’è un clima di terrore: il decreto sicurezza è entrato
in vigore, il ministro riscrive i programmi, la guerra divampa, gli studenti
vengono minacciati e sanzionati, le assemblee e i diritti negati. Il caso
Bologna
di Giuseppe Scandurra da Monitor
Negli anni Novanta veniva chiamata “novembrite”, un neologismo tutto interno al
mondo della scuola, che indicava quel periodo in cui si moltiplicavano in tutto
il paese, le proteste e le occupazioni degli istituti. Oggi, dopo anni di
riforme e decreti sempre più restrittivi, si è arrivati alla concessione da
parte dei presidi, della settimana dello studente; un rito stanco che prevede un
paio di giorni in cui la didattica tradizionale viene sostituita da attività
ricreative miste a noiose conferenze.
Non è così in tutta Italia, tantomeno a Bologna, dove gli studenti dello storico
liceo classico Minghetti, promuovendo uno stato di agitazione basato su
contenuti chiari, sono arrivati a occupare la scuola. Lo scorso 18 marzo hanno
convocato un’assemblea nel cortile della sede centrale del liceo e hanno
proclamato l’occupazione della scuola. Forte la volontà di “esprimere il
dissenso al piano per il riarmo europeo, al Ddl sicurezza, alla riforma della
scuola Valditara e alle complicità del nostro governo con la pulizia etnica in
corso contro il popolo palestinese”.
Dopo alcune “positive interlocuzioni”, come aveva dichiarato la stessa
dirigenza, che spingeranno quest’ultima ad accettare i quattro giorni di
occupazione e la sospensione dell’attività didattica, gli studenti vengono a
sapere leggendo i giornali, alla fine dell’occupazione, di denunce penali e
provvedimenti disciplinari. Il collegio docenti ha votato infatti quasi
all’unanimità la mozione della dirigenza con l’indicazione ai consigli di classe
(l’unico organo collegiale deputato a deliberare in questa materia) di
sospendere con 6 in condotta gli studenti denunciati. Sempre da fonti stampa gli
studenti vengono a sapere che il preside ha inoltre sporto denuncia per
interruzioni di pubblico servizio a carico di cinque tra loro che hanno
partecipato alla mobilitazione. Tali denunce non sono “contro ignoti”, come da
prassi consolidata per le occupazioni scolastiche, ma segnalano nomi e cognomi
all’autorità giudiziaria. Seppure non pubblicata, arriva a qualche
rappresentante d’istituto anche una lettera firmata da alcuni docenti del liceo,
in cui si parla di “ennesima azione illegale, violenta e antidemocratica” da
parte di una “minuscola minoranza di studenti”, come a lasciare intendere che il
liceo Minghetti sia teatro ricorrente di comportamenti fuori controllo,
addirittura illegali, da parte di studenti estremisti.
Preoccupati da queste comunicazioni indirette, circa duecento genitori riescono
in poche ore a convocare una riunione on line e decidono di pubblicare una
lettera che in meno di mezza giornata verrà firmata da più di cinquecento
genitori. Nella lettera, indirizzata alle istituzioni scolastiche e politiche
cittadine, esprimono forte preoccupazione per le recenti decisioni della
dirigenza scolastica e del collegio dei docenti, poiché queste “rischiano di
compromettere seriamente il patto educativo su cui si fonda la comunità
scolastica”.
D’altronde, scrivono i genitori, poco chiaro è perché sia stato segnalato alla
magistratura un numero ristretto di studenti per un’azione collettiva che ha
coinvolto centinaia di ragazze e ragazzi – probabilmente i denunciati, i cui
nomi non sono ancora stati resi pubblici, sono proprio gli studenti che hanno
cercato il dialogo con la dirigenza, ovvero coloro che hanno voluto assumersi la
responsabilità di favorire un confronto, il che confermerebbe l’utilizzo delle
sanzioni come una forma di repressione della libertà di parola e di protesta.
In poco tempo, si solleva così in città un dibattito che porta alla richiesta di
un’interrogazione parlamentare al ministro dell’istruzione e del merito e a un
appello degli studenti del liceo Minghetti per chiedere supporto alla loro
richiesta alla scuola di ritirare le sanzioni disciplinari, che trova il
consenso, in poche ore, di più di diecimila firmatari.
Eppure, arriva a pochi giorni dalla fine dell’occupazione la conferma della
presa di posizione: “A occupazione terminata il collegio dei docenti, riunitosi
martedì 25 marzo, a larga maggioranza ha ritenuto opportuno invitare i consigli
di classe interessati a sanzionare studenti e studentesse identificabili come
organizzatori dell’occupazione con tre giorni di sospensione, convertibili in
lavori socialmente utili, e con il voto di 6 in condotta, che nei termini
dell’attuale normativa prevede ‘l’assegnazione di un elaborato critico in
materia di cittadinanza attiva e solidale’ da presentare in sede d’esame per gli
studenti delle classi terminali e all’inizio dell’anno scolastico successivo per
gli altri. […] Una sanzione moderata e dal valore educativo, ben più mite di
quella prevista dal regolamento. L’intento del collegio docenti, non certo
punitivo in senso reazionario, ma fermamente fondato su principi educativi, è
stato quello di valorizzare in chiave di cittadinanza il rapporto tra le proprie
azioni e le conseguenze che ne derivano e di promuovere il senso del limite come
strumento di maturazione e di crescita”.
Il 17 aprile viene convocato presso il liceo Minghetti un consiglio di istituto.
Una settimana prima alcuni consigli di classe avevano scelto di ritirare le
denunce disciplinari; a due studenti, però, in un consiglio di classe che ha
svolto le veci di un vero e proprio tribunale vengono confermate le condanne;
tutto ciò mentre le cinque denunce penali, viene annunciato nel consiglio di
istituto, seguiranno il loro corso. In questo modo, per ragioni in buona parte
sconosciute, sette studenti andranno incontro, nella loro giovane età, a
indagini e processi, pagando il costo per centinaia di studenti che hanno
partecipato all’occupazione.
Il “caso Minghetti” fa subito scuola. Nell’istituto Majorana di San Lazzaro di
Savena, a pochi chilometri dal capoluogo regionale, su invito della dirigente
scolastica viene tenuta una lezione di legalità tenuta da “alcuni rappresentanti
delle forze dell’ordine”. Polizia locale e carabinieri si alternano a spiegare
agli studenti “quali sono, in termini di legalità e normative, i rischi in cui
possono incorrere in caso di occupazione della scuola”. Secondo loro “occupare
abusivamente un istituto scolastico è un reato ed è disciplinato dall’art. 633
del codice penale”. Questo nonostante la Corte di Cassazione, il 30 marzo 2000,
abbia dichiarato come “Non è applicabile l’art. 633 alle occupazioni
studentesche perché tale norma ha lo scopo di punire solo l’arbitraria invasione
di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima […]. L’edificio scolastico,
inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli
studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della
comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro
limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è
prevista l’attività scolastica in senso stretto”.
Le forze dell’ordine schierate al Majorana spiegano ai ragazzi come “chiunque
invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di
occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona
offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro
1032”. In un sol colpo, la scuola pubblica abdica così alla propria funzione
invocando un intervento educante di soggetti che educanti non sono per natura ma
repressivi, e per giunta sottoponendo alle giovani generazioni lezioni
finalizzate unicamente a creare uno stato di paura e assoggettamento. Eppure, la
primaria funzione della scuola è proprio quella di educare al cambiamento, alla
trasformazione, finanche alla trasgressione se utile e necessario, come ci hanno
insegnato i più insigni pedagogisti, e non a una passiva subalternità a norme
che vengono pure stravolte da chi dovrebbe tutelarle.
La comunità scolastica è un insieme di tasselli e di certo quelli
imprescindibili sono gli studenti: senza di loro la scuola non esisterebbe. E
così mentre gli adulti agitano sanzioni e rinnovata sicurezza, sempre di più non
solo i dirigenti, ma anche la maggior parte del corpo docente – ed è questo che
preoccupa di più – non comprendono come di fronte a un modo in fiamme gli
studenti chiedano spazi di ascolto e libertà.
In questi giorni guardiamo con stupore quello che sta accadendo nelle università
americane. Ma anche a casa nostra c’è un clima di terrore: il decreto sicurezza
è entrato in vigore, il ministro riscrive i programmi a partire dalla Bibbia, la
guerra divampa, gli studenti vengono minacciati e sanzionati, le assemblee e i
diritti negati. Per chi ancora crede nella scuola, e nell’università, come
palestre di cittadinanza è arrivato il momento di rivederci oltre i banchi.
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Le parole d’ordine uscite dall’assemblea per la costruzione dello spezzone del
primo maggio torinese parlano chiaro: organizzarsi per stoppare il riarmo
generale, contrastare il partito della guerra che si riassume nelle posizioni
liberal-sovraniste, rappresentare una proposta praticabile per chi non si
riconosce in un futuro di militarizzazione di ogni ambito dell’esistente.
In primo luogo il piano europeo del Rearm Eu va considerato come la bussola da
rompere e riorientare in direzione opposta. Il piano prevede l’aumento delle
spese militari per ogni Stato europeo il che implica flessibilità fiscale per
permettere di aumentare la spesa militare per la difesa; l’offerta di prestiti
per 150 miliardi di euro per progetti di difesa congiunti; la riorganizzazione
del bilancio e quindi dirottare altri fondi come quelli Coesione e Sviluppo –
che dovrebbero essere destinati ai territori – negli investimenti per la difesa;
il sostegno delle aziende nel settore della difesa stimolando anche gli
investimenti privati. Per quanto riguarda l’Italia aumentare la spesa militare
almeno al 2% del pil è un disastro annunciato per quanto riguarda il
disinvestimento conseguente in tutti i settori del welfare, della sanità e della
formazione già al collasso. Il cambiamento del nome in “Readiness” non ne sposta
di una virgola la sostanza, così come la denuncia della commissione europea
sulla votazione avvenuta senza il parere dell’Eurocamera: pallidi palliativi per
edulcorare la pillola. L’autoillusione generale sulla creazione di un piano di
difesa autonomo e condiviso dagli stati membri per contrastare la Russia e per
sostenere l’Ucraina in una guerra che ha già perso porta con sé qualcosa di
macabro oltre che di ridicolo. Un passaggio che svela, se ancora ce ne fosse
stato bisogno, la nullità che rappresentano partiti considerati progressisti,
come il PD nostrano, e annuncia un futuro di lacrime e sangue sulla pelle di
tutti e tutte.
L’atteggiamento del governo italiano, stretto da un lato nella morsa della
comunanza di testimonianza con la nuova amministrazione USA e, dall’altro, dal
vassallaggio e dalla forte dipendenza nei confronti di Stati europei con
maggiori chances di non finire in bancarotta come la Francia e la Germania, la
dice lunga sull’ inconsistenza della classe dirigente e della sua ipocrisia.
Meloni si troverà incastrata nel suo stesso teatrino proprio durante i funerali
di Papa Francesco quando Zelensky arriverà in tenuta militare per chiedere le
briciole a un Donald Trump sempre più spazientito della sua insubordinazione, il
tutto in uno scenario in cui si fa a gara tra chi possa rivendicarsi la figura
di Bergoglio come ultimo vessillo di credibilità riflessa.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito in molteplici occasioni a un approccio che
punta a semplificare e a accelerare le normative a riguardo di diverse materie,
utile a preparare un terreno di disponibilità alla guerra trasversale alla
società. Sul piano del lavoro, in particolare pensando al contesto locale, la
riconversione industriale per mimare una presa in carico della crisi crescente
del settore dell’ automotive e del suo indotto mostra tutta la debolezza di una
proposta inesistente. La riconversione all’elettrico viene utilizzata a targhe
alterne, da un lato per fare l’occhiolino all’industria tedesca e, dall’altro,
per posizionarsi su terreno anticinese. La verità è che non si riesce nemmeno ad
affrontare la questione del contratto nazionale per i metalmeccanici, gli operai
fanno scioperi sempre più partecipati e la risposta recita la favoletta dei
nuovi investimenti che dovranno arrivare.
Nuovi investimenti ci sono ma riguardano il settore della difesa e
dell’aerospazio. Aziende come Leonardo, Avio, Thlaes Alenia, Collins Aerospace,
ALTEC hanno di che gongolarsi in una fase in cui gli unici obiettivi sono il
riarmo e l’innovazione tecnologica.
Non è da meno il Politecnico che, in una fase in cui invece di rescindere gli
accordi con le università israeliane come da un anno a questa parte i suoi
studenti (che pagano le tasse universitarie) richiedono a gran voce, stipula
nuovi contratti con università che si situano in un quadrante geopolitico non di
poco conto, come ad esempio il Qatar. Cosa c’è di meglio di un percorso di
formazione condiviso con gli sceicchi del mondo islamico – allineati con l’asse
atlantico – in una fase in cui il genocidio a Gaza continua senza sosta
nell’indifferenza generale, nonostante le potenti mobilitazioni che hanno
attraversato tutti i Paesi del mondo? Intanto, ettari di suolo vengono
predisposti per costruire nuovi data center e gli investimenti per la
transizione tecnologica e digitale votata all’industria bellica fanno il paio
con i decreti che annunciano l’avvento del nucleare di nuova generazione.
La transizione energetica fa il suo corso cercando di rimanere in sordina a
colpi di progetti pseudogreen in favore della speculazione da grandi rinnovabili
sui territori, con il beneplacito delle industrie del fossile che continuano
indisturbate a fatturare – sostenute dagli accordi neocolonialisti come il Piano
Mattei – dando il benservito a una profonda crisi agricola che sconvolge tutta
Italia senza che nessuno, se non qualche folkloristica uscita di Lollobrigida,
proferisca parola e infischiandosene degli aumenti sulle bollette che strozzano
i consumatori.
I fondi del PNRR si rivelano una scusa per deforestare laddove sarebbero
stanziati per riforestare, per disciplinare laddove sarebbero stanziati per
formare, per ricattare laddove sarebbero stanziati per mettere le pezze a una
sanità al collasso. La crisi sociale si riflette sui piani bassi della classe
esacerbando la violenza patriarcale, ogni due giorni viene uccisa una donna, la
violenza tra giovani e tra proletari, assumendo sempre più i contorni di una
guerra interna. Il loro modello di sicurezza si avvicina ai sogni proibiti di
una società israelianizzata: militare, tecnologica e violenta. Il tutto con una
spolverata di decreti e misure che tentato di intimidire i movimenti di piazza e
a impoverire i quartieri popolari.
Tutte queste cose sono note e sono note ai più. Da nord a sud passando per le
isole l’insofferenza individua nomi e cognomi di chi se ne rende responsabile,
riconosce gli attacchi sui territori e su chi li abita. Abbiamo bisogno di
riconoscerci allora in una proposta valida per puntare alla realizzazione di un
sogno che tentano di rubare. La rapina dell’immaginario in un mondo di
sfruttamento e guerra non è compiuta, il momento di conquistare spazio e forza
si apre e non possiamo rimanere sull’ argine del fiume ad aspettare. Per questo
il primo maggio sarà una prima tappa di un percorso torinese che avrà bisogno di
ambire a diventare sempre più largo e trasversale per contrapporsi
collettivamente al piano che hanno confezionato per noi. Sta a noi disfarlo,
compattare un fronte disfattista in quanto unico motore oggi, ancor più
esplicito che in altre epoche storiche, capace di disarticolare il piano del
complesso militare-industriale che investe il modello produttivo e riproduttivo.
Il processo di rifiuto va alimentato, ben coscienti della sua matrice egoistica
come leva per rivendicare il proprio diritto a un vivere che si è formato e
socializzato all’interno del modo di produzione capitalistico. Fuori dagli
idealismi e dai buoni propositi qua si tratta di solidificare una forza che si
possa riconoscere, molto prima che in qualsiasi finta soluzione propugnata
dall’alto, in una collettività capace di mettere al centro il valore di ciascuno
e ciascuna, il valore e il potere dato dall’esistenza stessa. E allora poi sarà
possibile immaginare l’alternativa reale che si può dare nella pratica di una
contrapposizione concreta a una guerra per una patria e per un’unità ad oggi
inesistenti.
(disegno di otarebill)
Negli anni Novanta veniva chiamata “novembrite”, un neologismo tutto interno al
mondo della scuola, che indicava quel periodo in cui si moltiplicavano in tutto
il paese, le proteste e le occupazioni degli istituti. Oggi, dopo anni di
riforme e decreti sempre più restrittivi, si è arrivati alla concessione da
parte dei presidi, della settimana dello studente; un rito stanco che prevede un
paio di giorni in cui la didattica tradizionale viene sostituita da attività
ricreative miste a noiose conferenze.
Non è così in tutta Italia, tantomeno a Bologna, dove gli studenti dello storico
liceo classico Minghetti, promuovendo uno stato di agitazione basato su
contenuti chiari, sono arrivati a occupare la scuola. Lo scorso 18 marzo hanno
convocato un’assemblea nel cortile della sede centrale del liceo e hanno
proclamato l’occupazione della scuola. Forte la volontà di “esprimere il
dissenso al piano per il riarmo europeo, al Ddl sicurezza, alla riforma della
scuola Valditara e alle complicità del nostro governo con la pulizia etnica in
corso contro il popolo palestinese”.
Dopo alcune “positive interlocuzioni”, come aveva dichiarato la stessa
dirigenza, che spingeranno quest’ultima ad accettare i quattro giorni di
occupazione e la sospensione dell’attività didattica, gli studenti vengono a
sapere leggendo i giornali, alla fine dell’occupazione, di denunce penali e
provvedimenti disciplinari. Il collegio docenti ha votato infatti quasi
all’unanimità la mozione della dirigenza con l’indicazione ai consigli di classe
(l’unico organo collegiale deputato a deliberare in questa materia) di
sospendere con 6 in condotta gli studenti denunciati. Sempre da fonti stampa gli
studenti vengono a sapere che il preside ha inoltre sporto denuncia per
interruzioni di pubblico servizio a carico di cinque tra loro che hanno
partecipato alla mobilitazione. Tali denunce non sono “contro ignoti”, come da
prassi consolidata per le occupazioni scolastiche, ma segnalano nomi e cognomi
all’autorità giudiziaria. Seppure non pubblicata, arriva a qualche
rappresentante d’istituto anche una lettera firmata da alcuni docenti del liceo,
in cui si parla di “ennesima azione illegale, violenta e antidemocratica” da
parte di una “minuscola minoranza di studenti”, come a lasciare intendere che il
liceo Minghetti sia teatro ricorrente di comportamenti fuori controllo,
addirittura illegali, da parte di studenti estremisti.
Preoccupati da queste comunicazioni indirette, circa duecento genitori riescono
in poche ore a convocare una riunione on line e decidono di pubblicare una
lettera che in meno di mezza giornata verrà firmata da più di cinquecento
genitori. Nella lettera, indirizzata alle istituzioni scolastiche e politiche
cittadine, esprimono forte preoccupazione per le recenti decisioni della
dirigenza scolastica e del collegio dei docenti, poiché queste “rischiano di
compromettere seriamente il patto educativo su cui si fonda la comunità
scolastica”.
D’altronde, scrivono i genitori, poco chiaro è perché sia stato segnalato alla
magistratura un numero ristretto di studenti per un’azione collettiva che ha
coinvolto centinaia di ragazze e ragazzi – probabilmente i denunciati, i cui
nomi non sono ancora stati resi pubblici, sono proprio gli studenti che hanno
cercato il dialogo con la dirigenza, ovvero coloro che hanno voluto assumersi la
responsabilità di favorire un confronto, il che confermerebbe l’utilizzo delle
sanzioni come una forma di repressione della libertà di parola e di protesta.
In poco tempo, si solleva così in città un dibattito che porta alla richiesta di
un’interrogazione parlamentare al ministro dell’istruzione e del merito e a un
appello degli studenti del liceo Minghetti per chiedere supporto alla loro
richiesta alla scuola di ritirare le sanzioni disciplinari, che trova il
consenso, in poche ore, di più di diecimila firmatari.
Eppure, arriva a pochi giorni dalla fine dell’occupazione la conferma della
presa di posizione: “A occupazione terminata il collegio dei docenti, riunitosi
martedì 25 marzo, a larga maggioranza ha ritenuto opportuno invitare i consigli
di classe interessati a sanzionare studenti e studentesse identificabili come
organizzatori dell’occupazione con tre giorni di sospensione, convertibili in
lavori socialmente utili, e con il voto di 6 in condotta, che nei termini
dell’attuale normativa prevede ‘l’assegnazione di un elaborato critico in
materia di cittadinanza attiva e solidale’ da presentare in sede d’esame per gli
studenti delle classi terminali e all’inizio dell’anno scolastico successivo per
gli altri. […] Una sanzione moderata e dal valore educativo, ben più mite di
quella prevista dal regolamento. L’intento del collegio docenti, non certo
punitivo in senso reazionario, ma fermamente fondato su principi educativi, è
stato quello di valorizzare in chiave di cittadinanza il rapporto tra le proprie
azioni e le conseguenze che ne derivano e di promuovere il senso del limite come
strumento di maturazione e di crescita”.
Il 17 aprile viene convocato presso il liceo Minghetti un consiglio di istituto.
Una settimana prima alcuni consigli di classe avevano scelto di ritirare le
denunce disciplinari; a due studenti, però, in un consiglio di classe che ha
svolto le veci di un vero e proprio tribunale vengono confermate le condanne;
tutto ciò mentre le cinque denunce penali, viene annunciato nel consiglio di
istituto, seguiranno il loro corso. In questo modo, per ragioni in buona parte
sconosciute, sette studenti andranno incontro, nella loro giovane età, a
indagini e processi, pagando il costo per centinaia di studenti che hanno
partecipato all’occupazione.
Il “caso Minghetti” fa subito scuola. Nell’istituto Majorana di San Lazzaro di
Savena, a pochi chilometri dal capoluogo regionale, su invito della dirigente
scolastica viene tenuta una lezione di legalità tenuta da “alcuni rappresentanti
delle forze dell’ordine”. Polizia locale e carabinieri si alternano a spiegare
agli studenti “quali sono, in termini di legalità e normative, i rischi in cui
possono incorrere in caso di occupazione della scuola”. Secondo loro “occupare
abusivamente un istituto scolastico è un reato ed è disciplinato dall’art. 633
del codice penale”. Questo nonostante la Corte di Cassazione, il 30 marzo 2000,
abbia dichiarato come “Non è applicabile l’art. 633 alle occupazioni
studentesche perché tale norma ha lo scopo di punire solo l’arbitraria invasione
di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima […]. L’edificio scolastico,
inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli
studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della
comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro
limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è
prevista l’attività scolastica in senso stretto”.
Le forze dell’ordine schierate al Majorana spiegano ai ragazzi come “chiunque
invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di
occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona
offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro
1032”. In un sol colpo, la scuola pubblica abdica così alla propria funzione
invocando un intervento educante di soggetti che educanti non sono per natura ma
repressivi, e per giunta sottoponendo alle giovani generazioni lezioni
finalizzate unicamente a creare uno stato di paura e assoggettamento. Eppure, la
primaria funzione della scuola è proprio quella di educare al cambiamento, alla
trasformazione, finanche alla trasgressione se utile e necessario, come ci hanno
insegnato i più insigni pedagogisti, e non a una passiva subalternità a norme
che vengono pure stravolte da chi dovrebbe tutelarle.
La comunità scolastica è un insieme di tasselli e di certo quelli
imprescindibili sono gli studenti: senza di loro la scuola non esisterebbe. E
così mentre gli adulti agitano sanzioni e rinnovata sicurezza, sempre di più non
solo i dirigenti, ma anche la maggior parte del corpo docente – ed è questo che
preoccupa di più – non comprendono come di fronte a un modo in fiamme gli
studenti chiedano spazi di ascolto e libertà.
In questi giorni guardiamo con stupore quello che sta accadendo nelle università
americane. Ma anche a casa nostra c’è un clima di terrore: il decreto sicurezza
è entrato in vigore, il ministro riscrive i programmi a partire dalla Bibbia, la
guerra divampa, gli studenti vengono minacciati e sanzionati, le assemblee e i
diritti negati. Per chi ancora crede nella scuola, e nell’università, come
palestre di cittadinanza è arrivato il momento di rivederci oltre i banchi.
(giuseppe scandurra)
Riceviamo e pubblichiamo…
In queste settimane ci sono stati notificati 5 decreti penali di condanna in
riferimento all’azione di Fridays For Future Pavia del 14 settembre 20231,
quando 4 attivisti si sono incatenati all’ingresso principale della Raffineria
di Sannazzaro de’ Burgondi, uno dei principali hub dell’azienda energetica
italiana, per portare l’attenzione sugli effetti delle politiche energetiche di
ENI e sul suo interesse per Pavia, ulteriormente provato oggi anche dal master
universitario MEDEA2. Durante l’incatenamento, che ha interessato solo uno degli
ingressi, sono state tracciate scritte sull’asfalto all’esterno dei cancelli
anche per rilanciare la giornata mondiale di azione per la giustizia climatica
che si è tenuta anche a Pavia alcune settimane dopo. Sono 3 i reati citati nella
condanna pervenuta anche dopo querela da parte di ENI: imbrattamento, violenza
privata (per 4 persone) e invasione di terreni (per tutti). Si tratta di reati
che il movimento respinge come pretestuosi.
Le condanne, trattandosi di decreto penale di condanna, sono giunte sotto forma
di multe per un totale di quasi 4000€: uno dei decreti riguarda una persona che
era sul posto unicamente per documentare l’azione, senza partecipare attivamente
all’incatenamento.
Considerando il precedente creatosi e l’utilizzo pretestuoso sia dei reati
considerati che della forma del decreto penale, in 4 imputati abbiamo deciso di
fare opposizione chiedendo la giustizia riparativa, richiesta che verrà valutata
alla prima udienza.
Una nota a margine deve avere l’utilizzo sempre più normalizzato della
repressione di ogni forma di protesta. Il caso più eclatante di queste settimane
è sicuramente il Decreto Legge Sicurezza in vigore dal 12 aprile (ex DDL 1660):
un uso pericolosissimo del concetto di emergenza che scavalca il Parlamento su
una materia che ha preoccupato perfino le Nazioni Unite3, oltre che associazioni
e gruppi di giuristi. L’utilizzo del decreto penale di condanna vuole trasferire
sul piano burocratico e tecnico una questione prettamente politica e che come
tale va considerata.
Abbiamo visto come l’azione del settembre 2023 abbia avuto una risposta
repressiva: fogli di via, prescrizioni e zone rosse per mesi per tutto il
movimento, assieme, ora, a una condanna penale senza processo. Non è un caso che
tutto questo avvenga in anni di grande repressione e in cui le istituzioni hanno
tutto l’interesse per cancellare l’interesse per la transizione ecologica e i
suoi benefici sanitari, economici, occupazionali e sociali.
Siamo un movimento climatico non violento: già nel novembre 2019 avevamo
organizzato una manifestazione proprio di fronte ai cancelli della raffineria
con centinaia di persone4. Dopo anni in cui per ogni euro investito in fossili
solo 7 centesimi vanno alle rinnovabili5, pensiamo sia fondamentale riportare al
centro dell’attenzione mediatica un’azienda che nel nuovo piano di investimenti
mostra di non avere la minima intenzione di cambiare rotta. Se però realmente
ENI ha intenzione di modificare le proprie politiche, come afferma continuamente
attraverso pubblicità e comunicati, pensiamo che lo strumento della giustizia
riparativa possa essere utile per presentare le strategie per affrontare la
crisi climatica e gli effetti dei cambiamenti climatici che l’azienda, in studi
degli anni ‘70 e ‘80, affermava di conoscere6.
Proprio mentre scriviamo questo comunicato, in varie aree del nord Italia
vediamo in atto alluvioni (fenomeni resi più frequenti e probabili dai
cambiamenti climatici e dalla gestione del territorio) che hanno già provocato
vittime e danni mentre la recente pubblicazione del report di Copernicus7
afferma nuovamente come il 2024 sia stato un anno catastrofico per il futuro del
clima europeo e mondiale. Eppure sempre in questi giorni giunge la notizia che
ENI ha un nuovo accordo con l’Argentina per sfruttare il gas estratto in
Patagonia8: come può un gas serra che in combustione genera CO2 far parte di una
strategia per la transizione ecologica, oltretutto estratto in aree
ambientalmente fragili?
Come abbiamo sempre affermato, consci dei rischi legali a cui andavamo incontro,
la disobbedienza civile non è un martirio: si tratta invece della
consapevolezza, come cittadine e cittadini, che il tempo è già scaduto e viviamo
già nel collasso climatico, ma proprio per questo è ancora più importante
difendere il diritto a opporsi in modo non violento alle cause della crisi che
stiamo vivendo, specialmente quando le scelte vengono prese qui. Invitando alla
diffusione, seguiranno aggiornamenti su eventuali appuntamenti.
Per altre informazioni, è possibile contattarci via mail o tramite pagine
social.
Fridays For Future Pavia,
Le imputate e gli imputati.
Note:
1. https://www.ansa.it//lombardia/notizie/2023/09/14/blitz-di-fridays-for-future-in-una-raffineria-nel-pavese_b298
d8d4-2d04-4500-bc9b-366a2a27a2c7.html ↩︎
2. https://www.eni.com/it-IT/carriere/percorsi-formativi/master/medea.html ↩︎
3. https://onuitalia.com/2025/04/16/sicurezza-4/ ↩︎
4. https://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2019/11/30/news/fridays-for-future-la-protesta-a-sannazzar
o-davanti-all-eni-1.38333819 ↩︎
5. https://www.ansa.it//ansa2030/notizie/energia_energie/2024/03/14/ong-1-euro-di-eni-in-fossili-7-centesimi-in
rinnovabili_91f292ad-5f1a-4662-97ec-ea2d0e8590a0.html ↩︎
6. https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/18843/eni-sapeva/ ↩︎
7. https://www.copernicus.eu/en/news/news/copernicus-global-climate-report-2024-confirms-last-year-warmest
record-first-ever-above ↩︎
8. https://www.eni.com/it-IT/media/comunicati-stampa/2025/04/eni-ypf-firmano-memorandum-valutazione-argen
tina-lng.html ↩︎
PROIEZIONE SPECIALE 25 APRILE CINEFORUM NERUDA
Spazio Popolare Neruda - Corso Ciriè 7, 10124, Torino
(sabato, 26 aprile 20:30)
Sabato 26 Aprile alle h. 20:30
Presentazione del film a cura di Maïmouna Gueye curatrice di
@africanculturearchive
Yeelen (1987) di Souleymane Cissé
È un film poetico e visionario che unisce mito, spiritualità e resistenza.
Ambientato nell'Africa precoloniale, racconta il viaggio iniziatico di un
giovane alla ricerca di conoscenza, tra magia ancestrale e conflitti
generazionali. Con immagini ipnotiche e un ritmo meditativo, Cissé ci immerge in
un cinema unico, sospeso tra realtà e leggenda. Un'opera essenziale per scoprire
la ricchezza del cinema africano e le sue radici profonde.
25 APRILE 80 VOGLIA DI RESISTENZA!
Spazio Popolare Neruda - Corso Ciriè 7, 10124, Torino
(venerdì, 25 aprile 13:30)
📍Corso Cirié 7
🕜 13:30 Laboratorio di stampa con associazione Vicolo Grosso
🕑 14 Concentramento e passeggiata in quartiere
🕡 18:30 Esposizione manifesti resistenti e aperitivo
Anche quest'anno attraversiamo le strade del nostro quartiere ricordando le
persone che hanno donato la vita per la libertà di tutt3 noi, i momenti della
lotta che hanno avuto luogo nel nostro territorio e i temi su cui ancora oggi ci
impegnamo a lottare.
Anche 80 anni dopo non si è esaurita la nostra voglia di combattere contro le
ingiustizie per un mondo migliore!
In un mondo che si prepara alla guerra bruciando miliardi per comprare armamenti
e dove da un anno e 6 mesi prosegue con sempre più ferocia il genocidio verso il
popolo palestinese, pensiamo sia quantomai attuale celebrare l'esempio che la
lotta partigiana ci ha insegnato.
In questa giornata attraversemo le piazze e le strade del nostro quartiere che
ancora portano i nomi di chi ha guidato le invasioni coloniali, per
risignificarle con le storie di chi ha lottato per resistere alle occupazioni
coloniali portate avanti dall'Italia e dagli altri paesi europei.
È importante ricordare e celebrare queste storie perché ci guidino nelle lotte
all'imperialismo e al razzismo che portiamo avanti qui ed ora.
📢 Ci vediamo davanti al Neruda per celebrare insieme la festa della
liberazione!
Dopo alcune settimane di silenzio dalla riapertura del CPR di Torino, il
telefono ha iniziato a squillare e finalmente si è avuta la possibilità di
entrare in contatto con…
PRESENTAZIONE LIBRO “DI-SCORDARE. RICERCHE ARTISTICHE SULLE EREDITÀ DEL FASCISMO
IN ITALIA” DI VIVIANA GRAVANO.
Circolo “Ost Barriera” - Via Luigi Pietracqua, 9
(martedì, 29 aprile 19:00)
🔥 La biblioteca popolare Nicola Zamboni del Circolo Ost Barriera presenta:
“Di-scordare. Ricerche artistiche sulle eredità del fascismo in Italia” di
Viviana Gravano.
👉 Martedì 29 aprile – H. 19.00
Dialoghiamo con l’autrice.
A seguire pezzi rap di Dante!
Saranno disponibili le copie del libro da acquistare.
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Il fascismo, e Mussolini in persona, hanno saputo utilizzare la cultura come uno
strumento straordinario di consenso per costruire immaginari che potessero
durare nel tempo, persino dopo la caduta del dittatore. In Italia le tracce del
fascismo sono pervasive, e sono più o meno palesemente presenti su tutto il
territorio nazionale. Un processo di defascistizzazione imperfetto, che a
livello culturale è stato particolarmente inefficace, ha fatto sì che molte
delle eredità della dittatura possano continuare a parlare e a esprimere i
propri valori violenti, razzisti e di potere nello spazio della quotidianità del
paese. Il libro affronta prima i processi di rimozione e revisionismo, in
particolare nel contesto delle arti, che hanno permesso questo stato delle cose;
e propone poi una ricerca e una attenta analisi dei lavori di artiste/i che
dagli anni Ottanta in poi si sono prese/i carico di rileggere quelle tracce, di
decodificarne i significati, e di farne una critica aperta, politica e
concettuale. Per comprendere e non dimenticare i segni del fascismo che
disegnano i nostri paesaggi urbani.
Viviana Gravano è curatrice e storica dell'arte, docente presso l'Accademia di
Belle Arti di Firenze. È socia fondatrice di AttitudesSpazio alle arti a Bologna
e di RootsRoutes_Research on visual culture.