Riceviamo e diffondiamo:
La repressione ha sempre avuto gambe lunghe e piedi piatti
Chi ha paura dell’Anarchia?
Sul reato di blocco stradale contestato ad un compagno ed una compagna di Padova
La repressione ha sempre avuto gambe lunghe e piedi piatti. Gambe lunghe, che
superano ogni porta, cancello e siepe per cercare di prenderti; piedi piatti,
per schiacciare tutto omogeneamente e sommariamente, senza farsi troppi pensieri
sugli spazi sottostanti. Se di queste conformazioni fisiche della controparte in
divisa avevamo ben coscienza da tempo, non ci aspettavamo certo di vederla
diventare finta invalida e al contempo centometrista. Ma facciamo un passo
indietro: durante il beneamato sciopero del 3 ottobre (amato perché si sa che
non c’è gioia più grande che non lavorare), in tutta Italia, nelle strade, nelle
piazze e anche nelle carceri (come alla Dozza di Bologna) succedevano
accadimenti e vicende a sostegno del popolo palestinese. Così che anche a Padova
in tanti e tante si è saltato lavoro, scuola, università o anche solo tempo
libero per protestare contro l’entità sionista, che occupa territori palestinesi
e porta avanti il suo genocidio di Stato.
Le manifestazioni locali ci portano quindi all’interporto di Padova, dove un
nutrito corteo va a contestare la presenza della Maersk (azienda che trasporta
ben più che beni di prima necessità). Sulle modalità del corteo e sul resto non
diremo molto di più, chi era presente ha ben visto cosa è successo e come è
stata gestita la piazza, e chi vuole può trarre da sé le conclusioni che ritiene
giuste. Quello che di sicuro ci siamo portati a casa è un sentimento di rabbia
contro la società dello spettacolo che si rappresenta uguale sia dentro che
fuori la manifestazione.
Si apprende dai giornali che, durante suddetto girotondo e durante la suddetta
manifestazione, 60 anarchici (magari!) avrebbero bloccato un camion lungo il
percorso. Sempre stando alle dichiarazioni della stampa, pare che quel camion
dovesse trasportare a destinazione un carico importantissimo, ma che la
manifestazione e questi suddetti 60 anarchici (magari! di nuovo) l’avrebbero
bloccato. Possiamo solo immaginare cosa veniva portato dentro il camion:
l’elisir di eterna giovinezza? La pietra filosofale? Purtroppo non lo sapremo
mai e quindi ci limiteremo a raccontarvi dei fatti accaduti.
È un po’ complesso parlare di blocco stradale quando un blocco stradale non c’è
stato, così come è complesso parlare di manifestazione non autorizzata mentre è
in corso nello stesso luogo, nello stesso posto e nello stesso tempo un’altra
manifestazione. Eppure a quanto pare due persone che camminano in mezzo alla
strada (e pure sulle strisce pedonali a dirla tutta), così come il resto della
manifestazione, sarebbero statx promotore e promotrice di un blocco stradale e
di una manifestazione non autorizzata. Sui fatti specifici non c’è molto da
dire, perchè non sussiste nulla: su una strada già bloccata da una
manifestazione, in cui non si può né uscire né passare, è davvero possibile fare
un ulteriore blocco stradale? E, essendo dentro una manifestazione, nello stesso
posto e nello stesso tempo, è davvero possibile fare un’altra manifestazione?
Ma per fortuna a queste domande a cui da qualche riga non troviamo risposta,
abbiamo chi ci può indicare la via. La repressione finta invalida infatti fa
finta di non vedere l’ovvietà dell’assurdità delle accuse mosse, e quindi al
termine della manifestazione segue e insegue un compagno e una compagna per
fargli fare una gioiosa gita in questura, durante la quale viene comunicato ad
entrambi l’apertura di un’indagine per manifestazione non autorizzata, alla
compagna una violazione del foglio di via da Padova (un altro degli scherzetti
della questura per questo interessante 2025) e al compagno un avviso orale
(condito di rassicurazioni sulla possibilità di ottenere in futuro anche una
bella sorveglianza speciale). La domanda che sorge spontanea è perché proprio a
queste due persone venga imputato un reato che non sussiste (ma su questo
torneremo dopo).
Fin qui la riproduzione della repressione non è qualcosa di non visto: processi
inventati, accuse infondate e giustizia sommaria sono questioni trite e ritrite.
Entra quindi in gioco il vero elemento di novità della vicenda: la repressione
centometrista. Come infatti avrete potuto leggere, in questura non viene
contestato subito il reato di blocco stradale. Come fanno quindi il compagno e
la compagna ad esserne a conoscenza? Beh perchè poco più di un mese dopo
dall’apertura dell’indagine, è arrivata anche la chiusura. Le chiusure indagini
di solito impiegano mesi, se non anni per essere notificate: infatti in Italia
l’unica cosa che ci è sempre andata bene è la lentezza della burocrazia e delle
scartoffie, che compagni e compagne dal resto d’Europa ci invidiano
ardentemente.
La domanda che sorge quindi spontanea è: perché arriva una chiusura indagine
dopo un mese per un fatto che non sussiste? Perché sono stati fermati proprio
quel compagno e quella compagna? Torniamo quindi alla domanda di cui sopra a cui
diamo una risposta con un’altra domanda: Chi ha paura dell’Anarchia? Eh sì,
perché le due persone fermate sono così definite dalla giustizia locale:
anarchici.
Non è un caso che da settembre a questa parte diverse indagini di polizia, di
cui siamo a conoscenza sempre leggendo dai giornali, abbiano portato ad indagare
persone, che pare siano afferenti alla cosiddetta area anarchica. A settembre,
infatti tre compagnx si vedevano entrare in casa sgherri in divisa, che
accusavano, udite udite, del gravissimo reato di “striscioni appesi”: dalle foto
sui giornali, apprendiamo fossero in solidarietà ad Alfredo Cospito, Mohamed
Awad Attia ed ad alcune compagnx indagatx nei processi a Torino e Milano per i
cortei contro il 41bis della stagione di lotta a fianco di Alfredo. Istigazione
a delinquere e ricettazione i reati contestati.
Parlando di quei mesi di lotta per e con Alfredo contro il 41bis, si nota un
parallelismo quasi lineare. In coda a quel periodo, due anni e mezzo fa, sempre
a Padova, tra l’altro al compagno accusato di blocco stradale in questa vicenda,
piombavano in casa le guardie. I reati contestati allora? Istigazione a
delinquere e imbrattamento (compagno poi assolto in primo capitolo sempre
durante questo movimentato autunno). Ma cos’altro accomuna questi due momenti?
Beh, viene da pensare che in una città pacificata come è Padova una compagine
anarchica venga vista un po’ come un elemento, che esce dagli oliati sistemi di
pacificazione cittadina.
Qui lo diciamo chiaro: gli ultimi reati contestati e le perquisizioni ‒ di
adesso, come di allora ‒ fanno parte di un unico grande schema repressivo. Ogni
volta che c’è la sensazione che esista una componente rilevante di anarchicx nel
contesto patavino, la risposta immediata è quella dell’intimidazione. In primo
luogo verso lx compagnx che si ritrovano a dover affrontare procedimenti penali
per nulla, in secondo luogo per le persone che potrebbero avvicinarsi a questa
suddetta area, che vengono intimorite indirettamente dal rischio di denunce
indagini e quant’altro. Ed infine, la famosa teoria dell’accumulo, per cui più
accuse senza senso ti do più, se un giorno mi va di darti una misura cautelare,
ho terreno di manovra per richiederla. Pacificazione e Repressione diventano
fenomeni contigui. La repressione come mezzo di pacificazione e la pacificazione
come repressione interna, in uno spettacolo che si ripete sempre uguale dentro e
fuori gli ambienti antagonisti.
Fortuna vuole che il vittimismo (anch’esso figlio non riconosciuto della
pacificazione) non sia qualcosa che ci appartiene, così come non ci appartiene
il qualunquismo sensazionalista di chi dice che finiremo tuttx in galera.
Parlare della repressione e fare considerazioni sulla stessa servono per
osservare in maniera materiale la realtà che ci circonda. Capire come si muove
la repressione nel nostro contesto geografico e capire come affrontarla al
meglio. Per ribadire il concetto che non dobbiamo farci intimidire da accuse
fasulle e inventate. Per dire che se il conflitto (politico o giudiziario che
sia) viene a bussare alla porta saremo prontx ad accoglierlo a braccia aperte.
Per dire ancora una volta, e non ci stancheremo, che finché sussisteranno le
motivazioni delle nostre lotte, ci troverete, vostro malgrado, tra i vostri
piatti e fetidi piedi.
Se questa storia ci insegna qualcosa, e non ne siamo per forza certx, è che
hanno più paura loro di noi, che noi di loro.
Cosa chiediamo a un testo? Non necessariamente che sia condivisibile, ma che
affronti delle questioni importanti e che nel farlo offra una buona base di
discussione. È il caso, ci sembra, di questo contributo che abbiamo tradotto. Al
di là dei foucaultismi e dei “tiqqunismi” che contiene, e malgrado qualche
ambiguità che lo caratterizza, questo testo illustra con una certa precisione la
fase storica in cui siamo entrati e – cosa non molto frequente – cerca di
analizzare le innovazioni organizzative sperimentate dai movimenti di rivolta
degli ultimi tempi. Alla fine del testo troverete un nostro commento.
Qui in pdf: Rivolte senza rivoluzione-Per delle iperboli esatte
Rivolte senza rivoluzione*
di Adrian Wohlleben
tratto dal sito statunitense illwill.com
I. L’èra delle rivolte non è finita
Coloro che cercano una scienza rivoluzionaria del presente devono prepararsi
alla delusione. Non esiste alcuna bussola per navigare nei nostri mari
tumultuosi, alcuna chiave universale o formula magica capace di raddrizzare la
nostra nave e collocarci senza equivoci sulla via della rivoluzione. L’oscurità
del nostro orizzonte è più profonda di tutto ciò che abbiamo conosciuto nelle
nostre vite. Tuttavia – anche se si potrebbe perdonare ai nordamericani di
pensare il contrario – i movimenti non mancano: su scala mondiale, le onde si
alzano e s’infrangono a un ritmo così stordente che diventa impossibile seguirne
tutte le manifestazioni, anche per coloro che vi si dedicano.
Soltanto gli ultimi sei mesi hanno visto disordini massicci in Turchia,
Argentina, Serbia, Kenya, Indonesia, Nepal, Filippine e Perù. Prima di questo:
Bangladesh, Georgia, Nigeria, Bolivia… e la lista è sicuramente incompleta. In
ogni circostanza, delle mobilitazioni che riuniscono decine di migliaia di
persone hanno portato a crescenti scontri con le forze dell’ordine in diverse
città, provocando delle crisi nazionali di sicurezza. Questo mese, il presidente
del Madagascar ha sciolto il governo in risposta a tre giorni di manifestazioni
sanguinose guidate dalla “Generazione Z” contro le interruzioni d’acqua e di
elettricità e contro la corruzione politica, sventolando la stessa bandiera
pirata One Piece agitata in Indonesia o in Nepal [1].
Nel momento in cui scrivo queste righe, scoppia una nuova rivolta in Marocco: le
manifestazioni di massa si trasformano in undici città in sommosse feroci e in
scontri violenti. A questo si aggiungono delle sequenze precedenti ancora in
corso, come la guerra civile in Myanmar, in cui gli insorti continuano ad
avanzare sottraendo città intere alla Giunta.
Insomma, anche se la pandemia mondiale di Covid-19 è sembrata a certi teorici un
complotto destinato a schiacciare l’ondata di rivolte del 2018-2019, questi
timori, come gli Americani hanno scoperto fin dal maggio 2020, erano infondati.
Malgrado un affievolimento tra il 2021 e il 2023, l’ultimo anno e mezzo conferma
che la nuova «èra delle sommosse» [2] (così chiamata nel 2011 dal gruppo
comunista greco Blaumachen) è lungi dall’essersi conclusa.
Il compito di riflessione è doppio: situare queste rivolte nelle rotture
storiche di cui sono testimonianza, e identificare le loro potenzialità ancora
incompiute rintracciando le fessure tra le pratiche che le compongono.
II. L’ordine neoliberale sta finendo, ma nessun nuovo regime l’ha ancora
rimpiazzato. Tutte le forze sono spinte su un piano strategico
Benché sotto il cielo non ci sia altro che caos, non si può dire che la
situazione sia eccellente.
Viviamo in un interregno. Da quasi due decenni, l’ordine neoliberale mondiale
del capitalismo finanziario – installatosi negli anni Ottanta e diffusosi
ovunque negli anni Novanta – è minato da persistenti crisi dei tassi di
profitto. Incapaci di assicurare la crescita attraverso i soli mezzi del
mercato, i partiti politici si trovano di fronte a una scelta: esseri battuti
alle prossime elezioni da oppositori che promettono essi stessi una crescita che
nemmeno loro possono garantire; oppure garantire i profitti attraverso strategie
extra-economiche fondate sulla guerra, sul saccheggio, sulla conquista e sullo
spossessamento. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, il ciclo di
accumulazione non può più funzionare secondo le proprie regole interne, poiché i
suoi «impasse e blocchi (…) esigono l’intervento di un ciclo strategico fondato
sui rapporti di forza e la relazione non-economica amico-nemico» [3].
Per esempio: qual è il piano di Trump per «mettere in sicurezza» l’economia
americana grazie alla reindustrializzazione? Attraverso una combinazione di
minacce economiche e militari (tariffe per alcuni, invasioni per altri),
l’obiettivo è quello di costringere i Paesi alleati a investire nelle fabbriche
situate negli Stati Uniti. Come ha esplicitato il segretario al Tesoro Scott
Bessent in un’intervista a Fox News nel mese di agosto [4], in cambio della
«riduzione di certe tariffe per gli alleati», il Giappone, la Corea del Sud, gli
Emirati Arabi e altri Paesi europei «investiranno nelle imprese e nelle
industrie che indicheremo loro – ad ampia discrezione del presidente». In altri
termini: la stabilità americana sarà acquisita tramite intimidazione economica e
ricatto militare.
III. Le sollevazioni contemporanee, come i neo-autoritarismi, sono i sintomi
del crollo del capitalismo neoliberale
È in questo contesto che bisogna collocare l’ondata di sollevazioni mondiali
cominciata con i movimenti delle piazze e la Primavera araba (2010-2012), ma
anche la reazione neo-autoritaria che hanno generato – da Trump e Bolsonaro a
Duerte, Orbán e Savini [5].
Se le rivolte sono animate maggioritariamente da giovani e lavoratori poveri, in
collera per l’estrattivismo neoliberale e la confisca di opportunità da parte di
élite definite «corrotte», condizioni che spingono molti giovani a concepire
come sola strada per il futuro il lavoro all’estero, i fanfaroni neo-populisti
traggono il sostegno da una piccola borghesia sempre meno mobile, ansiosa per la
crisi di crescita e le sue ricadute sempre meno ampie sui propri privilegi a
lungo acquisiti.
Nella misura in cui la crisi di crescita si aggrava, il ciclo strategico
necessario per sostenere il mercato si separa progressivamente da quest’ultimo:
in alto, i deficit commerciali sono «risolti» con l’intimidazione, la guerra o
il saccheggio; in basso, le tensioni sociali, anche modeste, sfociano
direttamente nelle rivolte. Queste due dinamiche appaiono come indissociabili.
Ogni mese l’estrema destra conquista terreno elettorale; ogni settimana una
nuova ondata di sommosse incendia commissariati, blocca strade, occupa piazze,
saccheggia palazzi e affronta i capi di Stato.
IV. Il ritorno del piano strategico non è una rottura con le istituzioni
liberali ma vi passa attraverso
A questo stadio, bisogna evitare sue confusioni. La prima consiste nel credere
che il momento presente equivalga a un rifiuto totale degli ordini giuridici e
politici liberal-democratici che l’hanno preceduto. Molti liberali hanno cercato
di presentare le politiche interne dell’amministrazione Trump come sovversione
delle norme e procedure democratiche, le quali dovrebbero di conseguenze essere
difese. In realtà, è vero il contrario. Ciò che distingue i «nuovi fascismi» da
quelli del passato non è il loro emergere dentro il quadro della democrazia
liberale – questo era già il caso per i loro predecessori del XX secolo.
Piuttosto (come hanno sostenuto di recente alcuni compagni del Cile) «hanno
saputo perfezionare delle politiche fasciste e permettere il loro sviluppo
all’interno di un quadro democratico, al punto da saper edificare un’industria
fondata sul crimine e sull’insicurezza come giustificazioni alla pianificazione
di queste politiche» [6].
Ogni riconoscimento autentico di questo esigerebbe che le critiche rivolte alle
tendenze fascisteggianti dell’amministrazione Trump siano accompagnate da una
critica approfondita della democrazia stessa; mentre la sinistra progressista
persiste nella sua credenza erronea nell’opposizione totale tra democrazia e
fascismo. Allo stesso tempo, tuttavia, il fatto che i fascismi latenti
s’appoggino su quadri giuridici preesistenti non deve farci credere che oggi un
ritorno alla democrazia liberale sia ancora possibile. I sostenitori di Zohran
Mandami che s’immaginano di aver «rimesso l’auto nella buona direzione» non
fanno che andare fino in fondo nella parodia. In realtà, la dipendenza
transitoria del fascismo rispetto alla democrazia liberale costituisce solo il
prerequisito necessario per riflettere su ciò che deve avvenire dopo.
V. La sola certezza condivisa: la necessità di un salto
Il fatto di vivere in un interregno – tra un ordine morente e un altro che non
si è ancora stabilizzato – significa che la sola certezza condivisa da tutte le
forze in campo è che ci troviamo nel mezzo di una rottura, e che le
contraddizioni del nostro presente non possono essere risolte con l’aiuto degli
strumenti e delle procedure delle istituzioni che ci hanno condotto qui, anche
se queste istituzioni sussistono oggi ancora sotto certe forme.
Ciò che è necessario, è un «salto fuori della situazione» [7].
Il bisogno di questo salto si fa sentire ovunque, talvolta in maniera confusa,
talaltra in maniera cosciente. Questo salto si sta già preparando e abbozzando
intorno a noi; esso spiega l’audacia stupefacente che sorge in tutti gli angoli
della società, dagli attentati «gamer»** al cinismo animale del genocidio
israeliano a Gaza, fino ai giovani nepalesi e alle classi popolari che, in
rappresaglia contro i 21 manifestanti abbattuti dal loro governo l’8 settembre,
in un solo giorno hanno incendiato la Corte suprema, il Parlamento, la residenza
del Primo ministro, quella del presidente, così come decine di commissariati,
supermercati e una sede mediatica, rovesciando un governo «in meno di 35 ore»
[8].
È questo salto – di cui già si sentono ovunque le scosse – che dobbiamo pensare,
organizzare e spingere verso una rottura irreversibile con il dominio
dell’economia.
VI. Le rivolte contemporanee producono nella migliore delle ipotesi una
coscienza del capitale, ma non il suo superamento
In una società in cui le riforme costituzionali possono essere ottenute soltanto
attraverso la rivolta, la questione del loro rapporto con la rivoluzione deve
essere considerata.
Le rivolte sono dappertutto, ma – ad eccezione forse della guerra civile in
Myanmar (il cui esito resta incerto) – la gran parte di esse, stupefatte dalla
vittoria contro le forze dell’ordine, finiscono con il reclamare né più né meno
che un ritorno negoziato allo status quo. Tale schema era già chiaramente
visibile durante la sollevazione del 2022 in Sri Lanka:
«Le lotte sono spesso sconfitte non dallo Stato, ma dallo choc delle proprie
vittorie. Raggiunta una certa ampiezza, i movimenti hanno la tendenza a
conseguire i propri obiettivi più rapidamente di quanto avrebbero potuto
aspettarsi. La caduta del regime Rajapaksa si è prodotta così velocemente che
nessuno ha preso seriamente in considerazione il seguito. La finestra aperta dal
movimento si è richiusa in fretta e l’aria soffocante della normalità ha ripreso
tutto lo spazio nella stanza» [9].
Uno dei limiti fondamentali delle rivolte contemporanee attiene all’ambito
stesso della lotta, che tende a interpretare le penurie della sussistenza come
il semplice riflesso della corruzione, dell’austerità e del clientelismo [10].
Questa cornice, che non mette in discussione il capitalismo stesso ma soltanto
la sua (cattiva) gestione, sfocia inevitabilmente in un semplice rimescolamento
delle carte:
«Le critiche della corruzione forniscono una falsa immagine delle capacità
effettive di azione di cui dispone lo Stato nelle crisi economiche e sociali,
come se potesse evitare, se solo lo volesse, di mettere in campo politiche di
austerità… Dopo la caduta del regime, la gente si trova ad affrontare il fatto
che la logica strutturale della società capitalistica resta in piedi. I governi
usciti dalla rivoluzione si trovano ad applicare misure di austerità del tutto
simili a quelle che inizialmente avevano scatenato le proteste» [11].
Da un lato, ci si potrebbe aspettare che tali fallimenti contribuiscano a far
emergere una critica più sistemica del capitalismo, allo sviluppo della
«coscienza di classe», nella misura in cui «l’unità essenziale degli interessi
della classe dominante» diventa evidente per chiunque vi presti attenzione.
Tuttavia, come osserva Passad:
«… sarebbe forse più corretto pensare allo sviluppo di una coscienza del
capitale. Affinché la sollevazione si spingesse oltre, sarebbe stato necessario
ch’essa affrontasse l’incertezza di sapere come il paese avrebbe potuto nutrirsi
e vivere mentre la sua relazione con il mercato mondiale era interrotta. Dopo
tutto, è soltanto attraverso e dentro la società capitalistica che i proletari
sono in grado di riprodurre la propria forza lavoro».
In altri termini, se una rivolta non arriva ad affrontare il problema di una
rottura rivoluzionaria nel momento in cui l’ordine è sospeso, la lezione
interiorizzata rischia di essere quella della legge di ferro dell’economia: i e
le partecipanti diventano coscienti del capitale come costrizione immediata
sulla vita, ma incapaci d’immaginarne il superamento [12].
VII. Le rivolte hanno prodotto forme alternative di autorganizzazione – senza
comprendere la loro portata
Negli anni Cinquanta, il filosofo tedesco della tecnica Günther Anders
descriveva ciò che chiamava un «dislivello prometeico», apparso nelle società
industriali, che operava un rovesciamento del rapporto classico tra
immaginazione e azione. Laddove l’utopismo si basava sull’idea che la nostra
immaginazione oltrepassi ciò che esiste, proiettandosi al di là dell’attualità,
Anders sostiene che oggi accade l’inverso: con l’invenzione della bomba
nucleare, è emerso uno scarto prometeico nel quale gli atti fattuali eccedono
ormai la facoltà dei loro agenti a immaginarli, a pensarli o a sentirne il peso.
Non siamo capaci di comprendere – ancor meno di assumere – ciò che stiamo già
facendo [13]. Siamo diventati degli «utopisti al contrario», incapaci di
contemplare l’ampiezza o le ripercussioni delle nostre stesse pratiche. Siamo
più piccoli dei nostri atti, i quali dissimulano in se stessi qualcosa
d’insondabile. L’immaginazione non solo non riesce più a superare il presente:
essa fallisce persino nel cogliere l’attualità [14].
Un fenomeno analogo può prodursi nelle lotte politiche. Anche quando perseguono
degli obiettivi riformisti, i partecipanti compiono talvolta delle svolte la cui
radicalità reale resta inavvertita, soprattutto quando tali svolte non possono
essere integrate nei concetti e nelle categorie adottati fino a quel momento
dalla lotta. Gli insorti sono quindi incapaci di trarre tutte le implicazioni da
ciò che stanno già facendo; né riconosceranno necessariamente queste spinte nei
cicli di lotta successivi al fine di spingerli in una nuova direzione. È in
questo scarto tra la pratica e la riflessione, tra i mezzi e i fini, tra le
punte più avanzate di un ciclo e quelle che emergono nel successivo, che la
teoria può giocare un ruolo di appoggio, facendo emergere l’eccedente nascosto
nelle pieghe della storia, la sua Entwicklungsfähigkeit [capacità di sviluppo]
[15].
Il movimento dei Gilet gialli è stato in tal senso esemplare. Tra le sue varie
innovazioni, si possono evidenziare due punte avanzate. Per prima cosa, benché i
suoi elementi catalizzatori siano stati delle pressioni sociali già note –
aumento del costo della vita, abbassamento della mobilità sociale, tagli ai
servizi pubblici ecc. –, l’organizzazione della rivolta ha aggirato le categorie
tradizionali d’identificazione politica e d’identità sociale grazie a un gesto
semplice e riproducibile d’auto-inclusione: per unirsi al movimento era
sufficiente indossare il gilet e fare qualcosa. In tal modo il movimento ha
superato d’un salto il problema trotzkista della «convergenza» tra movimenti
sociali costruiti nella separazione (studenti, lavoratori, immigrati ecc.). Ogni
lotta politica richiede un certo grado di formalizzazione per delimitare
l’appartenenza; ora, l’uso di un oggetto quotidiano come un gilet ben visibile –
o un ombrello – garantiva il fatto che la forza di combattimento fosse definita
dalle iniziative contagiose che diffondeva e non in riferimento a un gruppo
sociale specifico autorizzato a rappresentarla. Ciò ha permesso ai Gilet gialli
di aggirare un meccanismo centrale della governamentalità: la cattura delle
nostre identità sociali per contenere gli antagonismi nei circuiti istituzionali
(politiche universitarie, conflitti di lavoro ecc.). Dai «frontliners» di Hong
Kong ai «terremoti dei giovani» [youthquakes] d’oggi, riuniti sotto il sigillo
impersonale di una bandiera pirata in stile manga [16], le rivolte scoppiano
ormai come dei contagi virali, come dei mème che favoriscono sperimentazioni più
aperte e riducono i rischi di recupero. Tuttavia, incapaci di riconoscere la
potenza delle loro stesse innovazioni, i Gliet gialli sono ricaduti
nell’immaginario della Rivoluzione francese e del suo ondivago significante, «il
popolo», spingendo molti a confondere l’innovazione di quel movimento con un
rinascente populismo di destra. Sull’immanenza inappropriabile del mème hanno
sovrascritto la trascendenza del mito [17].
In secondo luogo, mentre numerose rivolte si fanno magnetizzare dai simboli del
potere borghese – tribunali, parlamenti, commissariati –, i Gilet gialli hanno
stabilito le loro basi di organizzazione, di strategia e di vita collettiva
quanto più in prossimità del loro quotidiano. Come è stato osservato all’epoca:
«Questa prossimità con la vita quotidiana è la chiave del potenziale
rivoluzionario del movimento: più i blocchi sono vicini al domicilio dei
partecipanti, più è probabile che tali luoghi diventino personali e importanti
in mille modi. E il fatto che sia una rotatoria – piuttosto che un bosco o una
valle – a essere occupata toglie ogni contenuto prefigurativo o utopico a questi
movimenti. […] Occupare la rotonda vicino a casa propria assicura che la fiducia
collettiva, l’intelligenza tattica e il senso politico condiviso che i Gilet
gialli coltivano di giorno in giorno attraversino e contaminino le reti, i
legami, le amicizie e gli affetti della vita sociale nelle zone coinvolte» [18].
Sentimenti che resterebbero utopici in una piazza occupata del centro città o in
uno spazio come la ZAD (in cui la maggior parte dei partecipanti non vivono),
una volta spostati in una rotatoria possono a quel punto diffondersi nella vita
quotidiana invece di rimanerne separati. E quando le sue basi sono attaccate
dalle forze repressive, le risorse della vita privata possono rialimentarle e
ricostruirle, come si è visto a Rouen, dove le casette improvvisate sono state
distrutte e poi ricostruite una mezza dozzina di volte [19].
L’innovazione non consisteva soltanto nella prossimità con la vita quotidiana.
Occupare i centri dei paesi sarebbe potuto bastare. Ma collocando la loro base
alla giuntura tra l’economia e la vita quotidiana – là dove i camion merci che
lasciano l’autostrada entrano in città –, le rotonde sono diventate anche dei
blocchi di filtraggio, consegnando agli insorti una leva logistica. Occupando la
circolazione non nel punto vitale per il capitale, ma nel luogo in cui il
capitale entra nell’ambito della vita, hanno politicizzato la membrana tra vita
e denaro alle proprie condizioni, invece di piegarsi al luogo simbolico indicato
dal potere borghese (come aveva fatto Occupy Wall Street). In realtà: «Il vero
orizzonte strategico dei blocchi del retro-paese non è sospendere completamente
i flussi dell’economia, ma produrre delle basi territoriali abitate che la
restituiscono alla dimensione della vita quotidiana, a un livello in cui essa
può essere compresa e decisa» [20].
Una combinazione di intelligenza logistica collocata sulla soglia della vita
quotidiana, ma federata a livello nazionale attraverso assemblee regionali e
nazionali di delegati [21].
Per Jérôme Baschet, invece, la costruzione di questi «spazi liberati» – spinta
fino in fondo – avrebbe potuto rappresentare lo zoccolo di una più vasta
offensiva contro l’economia, approfondendo non solo «i legami tra spazi liberati
esistenti», ma combinando «la moltiplicazione degli spazi liberati con dei
blocchi generalizzati. Nella misura in cui gli spazi liberati possono dispiegare
le proprie risorse materiali e le proprie capacità tecniche, possono servire da
nodi decisivi in grado di amplificare i blocchi nei momenti chiave, in forme
diverse. Più abbiamo spazi liberati, più dovremmo essere in grado di estendere
la nostra capacità di blocco. Inversamente, più i blocchi diventano diffusi, più
questi favoriscono l’emergere di nuovi spazi liberati» [22].
Il rischio, certo, sarebbe credere che si tratti semplicemente di ripetere la
situazione Gilet gialli. Questo errore – visibile nella strana bolla speculativa
che ha circondato quest’estate l’iniziativa «Blocchiamo tutto» del 10 settembre
– proviene da una tendenza a dissociare la questione delle tattiche e delle
pratiche dalla rottura evenemenziale che ha presieduto al loro emergere [23].
Coloro che tentano di forzare la storia a ripetersi garantiscono una cosa sola:
la farsa.
VIII. Nei suoi slanci pratici, la lotta contro l’ICE punta al superamento delle
separazioni della Floyd rebellion
La capacità offensiva della sollevazione George Floyd del 2020 è stata
ostacolata da una separazione tra la sua presa degli spazi e la sua intelligenza
logistica. Le occupazioni che assediavano formalmente i luoghi del potere
(«sommossa politica») non sono mai arrivate a combinare in modo significativo le
proprie forze con le carovane di saccheggi che si scatenavano contro i centri
commerciali e le zone mercantili secondo una strategia del mordi e fuggi
(«sommossa delle vetrine») [24].
Di conseguenza, la coscienza logistico-infrastrutturale è rimasta relativamente
depoliticizzata – semplice assemblaggio di tecniche – mentre la coscienza
politica restava fissata su degli edifici evacuati dal forte valore simbolico
[25].
Con la costruzione di centri di difesa, o centros, combinata con altre pratiche
di auto-sorveglianza, di inseguimento e di perturbazione, la lotta attuale
contro l’ICE ha abbozzato una ripoliticizzazione dell’intelligenza
infrastrutturale, così come un’inversione del suo orientamento «cinegetico» (dal
ruolo di preda a quello di predatore). Questo fatto, unito alla marcata tendenza
a restituire la politica agli spazi della vita quotidiana, indica una
possibilità reale di superare i limiti del 2020 – che gli attori di questa lotta
ne abbiano formalizzato l’idea o meno.
Dopo l’invasione delle città americane – Washington, Chicago, Portland – da
parte delle forze federali, l’attrazione simbolica esercitata da certi luoghi
del potere, come i centri di detenzione dell’ICE a Broadview (Illinois), ha
ceduto lo spazio a un diffuso ethos d’autorganizzazione, oltrepassando persino
barriere di classe e di razza in passato invalicabili. Il centro di gravità si è
spostato lontano dal tritacarne delle guerre d’assedio attorno alle fortezze
nemiche, per ritornare verso gli spazi della vita quotidiana – un’evoluzione,
questa, da salutare.
I e le residenti invadono le proprie strade non appena sentono quel richiamo
dell’usignolo che sono i clacson e i fischietti; carovane di auto private
inseguono e disturbano gli agenti dell’ICE lungo i viali; mentre vicine e vicini
si riuniscono intorno alle scuole, ai luoghi di lavoro e alle bancarelle dei
rivenditori di strada. Dei consigli di difesa sono sorti a Chicago come altrove
nel Paese, militanti hanno installato dei centri di difesa negli assembramenti
di Home Depot e in altri luoghi frequentati dai lavoratori a giornata. Secondo
una recente guida pratica, questi centri servono da spazi di incontro che vanno
al di là delle affinità della sotto-cultura o dell’ambito di lavoro, «offrendo
alle persone colpite delle relazioni radicate localmente che dànno una direzione
alla loro collera» [26].
Nella misura in cui i nessi tra la vita quotidiana e la riproduzione sociale
diventano via via più politicizzati, l’intelligenza logistica di solito
riservata ai saccheggi e all’attacco mordi e fuggi comincia a generalizzarsi, a
de-specializzarsi e a diventare accessibile a chiunque sia pronto a raggiungere
una rete Signal locale e a cominciare a pattugliare. Le pratiche di sorveglianza
collettiva dal basso, associate a un insieme di compiti concreti – impedire gli
arresti, garantire un passaggio sicuro, esasperare ed espellere i nemici –
realizzano lentamente ciò che due decenni di movimenti sociali non sono riusciti
a fare: reintrodurre una partecipazione collettiva nello spazio metropolitano,
su di una base partigiana, non economica.
Le strategie politiche sono coerenti solo in funzione delle verità su cui si
basano. Questo riconoscimento ha spinto i partecipanti alla sollevazione di Hong
Kong nel 2019 ad attribuire un’importanza fondamentale alla verifica delle
informazioni. Queste pratiche trovano oggi una nuova espressione nelle lotte
anti-ICE, che mescolano una condivisione di conoscenze infrastrutturali con un
ethos collettivo di coinvolgimento nella situazione. Nelle città americane, un
nuovo empirismo politico scruta la vita quotidiana per individuare i segni del
nemico. Per attivarsi ed evitare i rapimenti, le reti di intervento rapido
dipendono dalle informazioni raccolte da attivisti che pattugliano in auto o a
piedi, o dalle segnalazioni pubblicate sulle reti social. Queste informazioni
sono in seguito filtrate in ampie reti Signal nelle quali si confrontano
descrizioni di veicoli e targhe, si estraggono i numeri VIN e si scambiano in
tempo reale dettagli di localizzazione. L’uso del protocollo SALUTE [27]
garantisce che l’informazione sia completa e circolabile, ma la posta in gioco
va ben al di là della diffusione di informazioni fattuali: ciò che sta nascendo
è una nuova sensibilità politica. L’esperienza individuale, atomizzata, della
città lascia il posto a un’attenzione collettiva, espressa attraverso il
tracciamento continuo del nemico così come da una sensibilità ai ritmi, ai
flussi e alle relazioni qualitative che strutturano i luoghi abitati. Come nota
la già citata guida pratica, questi centri «riusciranno o falliranno a seconda
che siate attenti o meno ai bisogni della zona circostante» [28]
Tramite questo apprendimento dei segni, la lotta anti-ICE contribuisce a far
nascere un mondo in comune.
La minaccia rappresentata da questa politicizzazione logistica della vita
quotidiana per la legittimità delle forze governanti è considerevole. È
probabilmente il motivo per cui l’amministrazione Trump ha cercato di
disinnescare la resistenza attribuendole un’identità pre-digerita e un racconto.
Invece di riconoscere la lotta per ciò che è – una circolazione di pratiche
diffuse di sovversione accessibili a tutti, indipendentemente dalle ideologie o
identità sociali – il potere proietta il mito di un’organizzazione gerarchica
(«Antifa»), finanziata da élite liberali e organizzata militarmente in «cellule»
che ricevono ordini centralizzati. Lo scopo di questo racconto caricaturale e
palesemente falso non è quello di essere preso alla lettera da chicchessia (dal
momento che non ha alcuna realtà), ma di dissimulare la verità sensibile che si
afferma ogni giorno di più: il binarismo cittadino/non-cittadino è uno strumento
intollerabile di apartheid violento.
Quali potenziali inavvertiti porta in sé questa nuova ondata di contestazione?
Cosa potrebbe realizzare una rete diffusa di Consigli di quartiere, animata da
un’intelligenza logistica collettiva e da una capacità estremamente mobile di
rottura e di intervento, se guadagnasse una maggiore ampiezza? Per evitare
efficacemente gli arresti e proteggere i vicini, potrebbero diventare necessarie
delle forme di blocco logistico più ambiziose. Cosa richiederebbe il
coordinamento delle azioni su scala di intere città, o la messa in pratica di
blocchi di filtraggio in grado di assicurare un controllo comunitario di certe
zone o quartieri? A quali altre ambizioni di potere popolare potrebbero servire
queste tecniche se – o quando – l’ICE si ritirerà dalle città coinvolte?
IX. La fine delle mediazioni potrebbe significare la fine della sinistra – e
l’emergere di un nuovo underground rivoluzionario
Nella misura in cui le forze in campo competono per determinare quale direzione
prenderà il salto al di là della democrazia liberale, le mediazioni
continueranno a dissolversi. In quanto vettore principale del «soft power», il
ruolo della sinistra, che consiste nel contenere l’energia ribelle attraverso la
promessa di riconoscimento statale e di riforme, potrebbe smettere di
funzionare. Mentre la destra prosegue il suo attacco contro la base della
cultura di sinistra – licenziando professori, criminalizzando militanti e
studenti, e sopprimendo i finanziamenti destinati alle ONG LGBTQ e ai diritti
delle e dei migranti – si fa largo un’occasione: quella di reiventare da cima a
fondo il sottosuolo politico. A tal riguardo, l’esempio del Sudan può rivelarsi
istruttivo. Come scrive Prasad:
«Dopo una sollevazione nel 2013, è emerso un proliferare di comitati di
resistenza, il cui scopo era quello di preparare l’ondata successiva di lotte.
Concretamente, questo significava: mantenere dei centri sociali di quartiere;
costruire un’infrastruttura e raccogliere riserve di materiale ritenuto
necessario; sviluppare reti di compagni e simpatizzanti a livello delle città e
del paese; e testare la capacità di queste reti attraverso azioni coordinate.
Quando la rivoluzione è arrivata davvero, alla fine del 2018, questi gruppi
hanno potuto agire come vettori d’intensificazione. I comitati di resistenza
hanno anche potuto sostenere la rivoluzione nella sua fase successiva, quando il
presidente Al-Bashir è stato costretto a dimissionare» [29].
I compiti esatti che un sottosuolo post-sinistra deve intraprendere sono ancora
da chiarire. Se la reazione pubblica all’affare Luigi Mangione ha provato
qualcosa, è che questo sottosuolo non ha alcun bisogno di trarre le proprie
coordinate politiche dal conflitto culturale classico sinistra/destra. È
possibile che un movimento vasto, combattivo e audace – capace di esplorare gli
interstizi della storia recente, di risuscitarne giudiziosamente le intuizioni,
e di perseguirne senza sosta le conclusioni – possa risuonare ben al di là dei
bacini dell’ultrasinistra, e trovare un vasto ascolto in un periodo di profonda
incertezza.
Più di un secolo fa, Kropotkin proponeva il seguente correttivo:
«”Però”, ci avvertono spesso i nostri amici, “attenzione a non spingersi troppo
in là! L’umanità non può essere cambiata in un sol giorno, non siate quindi
troppo affrettati con i vostri progetti di esproprio e di anarchia, col rischio
di non ottenere alcun risultato duraturo”. Ora, ciò che temiamo noi rispetto
all’esproprio è esattamente l’opposto. Abbiamo paura di non andare abbastanza a
fondo, di realizzare degli espropri su scala troppo limitata affinché questi
possano durare. Non vorremmo che lo slancio rivoluzionario si fermi a metà
strada, spegnendosi nelle mezze misure che non soddisferebbe nessuno e che,
facendo sprofondare la società in un’immensa confusione e interrompendo le sue
abituali attività, non avrebbero alcuna potenza vitale, non farebbero che
diffondere un malcontento generale e preparerebbero inevitabilmente il terreno
per il trionfo della reazione» [30].
Se – e quando – la marea vira di nuovo a loro favore, i commissariati
ricominciano a bruciare e i politici si seppelliscono nei bunker o fuggono in
elicottero, gli insorti non devono essere presi alla sprovvista. Essi non devono
permettere che la comune sia rimpiazzata da un parlamento virtuale di server
Discord; devono utilizzare tale occasione per mettere in atto delle
sperimentazioni comuni, incarnate, in presenza, in grado di coinvolgere il
maggior numero di partecipanti.
Benché nulla di ciò che è attualmente immaginabile sia adeguato, la storia
nasconde delle tracce in cui potrebbero ancora alloggiare delle sorprese.
Adrian Wohlleben
Ottobre 2025
*Questo articolo è basato su una conferenza pubblica tenuta il 3 ottobre 2025 a
Montréal, in Quebec, prima puntata di una serie di discussioni dedicate alle
prospettive rivoluzionarie nell’èra attuale.
[1] Nella misura in cui la stessa bandiera One Piece si diffonde, si arricchisce
poco a poco di attributi locali. In Madagascar, per esempio, il cappello di
paglia viene sostituito dal satroka, un berretto tradizionalmente indossato dal
gruppo etnico Betsileo. Resta tuttavia significativo il fatto che sia l’identità
nazionale a cavalcare questo simbolo contagioso, come semplice accessorio, e non
il contrario. Cfr. Monica Mark, «‘Gen Z’ protesters in Madagascar call for
general strike», Financial Times, 9 ottobre 2025. (online).
[2] Blaumachen, «The Transitional Phase of the Crisis : the Era of Riots», 2011
(online).
[3] Maurizio Lazzarato, Gli Stati Uniti e il «capitalismo fascista» (online).
[4] Intervista citata in Vasudha Mukherjee, «Trump turns ally investments into
$10 trillion US ‘sovereign wealth fund’», Business Standard, 14 agosto 2025
(online).
[5] Il fatto che l’èra delle rivolte sia apparsa per prima, e ch’essa sia stata
integrata solo in seguito da uno sforzo fascisteggiante di reimporre un ordine
incentrato sugli Stati Uniti, sia all’interno che all’esterno, non deve indurci
in errore. Il bilancio che tracciava il Comitato invisibile del ciclo 2008-2013
si concludeva con queste parole: «Niente garantisce che l’opzione fascista non
venga preferita alla rivoluzione» (Ai nostri amici).
[6] Nueva Icaria, «New Fascisms and the Reconfiguration of the Global
Counterrevolution», Ill Will, 11 agosto 2025 (online).
[7] Ibidem.
** Il riferimento qui è all’attentatore di Charlie Kirk, che pareva essere
un gamer, appassionato di videogiochi.
[8] Pranaya Rana, «The Week after Revolution», Kalam Weekly (Substack), 19
settembre 2025 (online).
[9] S. Prasad, «Paper Planes», 31 agosto 2022 (online).
[10] Phil Neel distingue tra le lotte in difesa delle «condizioni di
sussistenza» economico-ecologiche e quelle che si scontrano con «l’imposizione
autoritaria di queste condizioni» («Teoria del partito» Ill Will, 6 settembre
2025: in italiano online). La recente tendenza globale fa sì che movimenti
sociali di massa non-violenti che rivendano una riforma delle condizioni di
sussistenza siano proiettati nel combattimento non appena le forze dell’ordine
reagiscono per eccesso e aprono il fuoco, spostando il quadro della lotta dal
primo tipo al secondo: dall’austerità all’autorità. Gli Stati Uniti
costituiscono un’eccezione: benché le misure di austerità rappresentino lo
sfondo, le lotte sulle questioni economiche non producono quasi mai rivolte
combattive di massa: queste sono catalizzate soltanto dai mezzi autoritari di
repressione. Anche se una rivolta ha poche probabilità di scoppiare negli USA
direttamente a causa dei tagli ai buoni alimentari, della precarietà
dell’abitare o della negazione delle cure mediche, le reti militanti forgiate da
queste lotte di sussistenza possono tuttavia contribuire ad approfondire dei
movimenti di massa antiautoritari, come quando l’infrastruttura del sindacato
degli inquilini di Los Anglese è stata mobilitata per allestire dei centri di
difesa anti-ICE in seguito alle sommosse di giugno 2025.
[11] S. Prasad, «Paper Planes», 31 agosto 2022 (online).
[12] In questo caso, la debolezza dell’immaginazione è legata a sperimentazioni
pratiche intentate nel momento in cui avrebbero dovuto essere tentate. La tesi
VII esplora lo scenario inverso, quando tali sperimentazioni hanno avuto
effettivamente luogo ma la loro potenza è passata inosservata.
[13] Günther Anders, «Theses for the Atomic Age», The Massachusetts Review, vol.
III, n. 3 (primavera 1962), p. 496. In italiano, il testo andersiano si può
trovare in appendice al suo Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki,
Einaudi, 1961; Linea d’ombra, 1995. È leggibile anche qui.
[14] Per esempio, chiamare «armi» le bombe nucleari e dibattere del loro uso
tattico equivale ad assimilarle a uno strumento, un mezzo in vista di un fine.
Ora, l’uso di tali bombe minaccia di distruggere il mondo intero all’interno del
quale soltanto dei fini possono essere perseguìti. Il loro uso annulla di
conseguenza ogni rapporto mezzi-fini e rende caduche le considerazioni tattiche.
Eppure, questa attitudine strumentale resta la sola maniera in cui
l’immaginazione riesce a pensarle, malgrado si tratti di un errore di categoria.
Cfr. Günther Anders, «I comandamenti dell’èra atomica», in Burning Conscience,
Monthly Review Press, 1962, pp. 15-17. In italiano, il testo è stato pubblicato
in Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Lo si può leggere anche
qui: I comandamenti dell’Era Atomica | Günther Anders – Granelli di Pace
[15] Gilbert Simondon sosteneva che la «relazione artificiale» che intratteniamo
con gli oggetti tecnici può essere corretta soltanto a condizione di imparare a
concepire la loro evoluzione geneticamente, cioè dissociandola dalle intenzioni
umana proiettate su di loro, per cogliere invece lo sviluppo dei loro elementi,
dei loro insiemi e del loro contesti associati secondo i loro stessi termini. In
maniera analoga, quando studiamo l’evoluzione, la mutazione e la circolazione
degli stimoli pratici e dei gesti attraverso differenti sequenze di lotta, può
essere utile sospendere metodologicamente il riferimento ai fini che i
partecipanti si dànno, per considerare l’evoluzione di queste pratiche, da un
ciclo all’altro, secondo i loro stessi termini.
Qualcuno ha espresso il timore che una simile focalizzazione sulla circolazione
e l’evoluzione delle pratiche ceda a quello che Kiersten Solt ha definito
«nichilismo della tecnica.».
Mi sembra al contrario che i rivoluzionati non pensino ancora abbastanza
tecnicamente. Sono fin troppo numerosi coloro che continuano a reificare un
concetto astratto e a-storico dell’azione politica, nel quale i metodi di lotta
deriverebbero immediatamente dai fini perseguìti o potrebbero essere
volontaristicamente adottati per semplice decreto. In pratica, l’attualità
precede la possibilità: tutte le lotte fondano la loro esperienza del possibile
politico su un serbatoio di impulsi già in circolazione, innovando all’interno
dei limiti fissati da tale serbatoio. È questo menù o repertorio esistente – che
potremmo chiamare il phylum tattico – che delimita il campo dell’immaginabile.
E, lungi dal superare questo repertorio, la nostra immaginazione resta spesso al
di qua.
Di conseguenza, invece di proiettare dei valori etici e politici davanti alla
realtà e di trattare la pratica come semplice mezzo per realizzarli, l’analisi
delle pratiche può servire ad allargare la nostra immaginazione e a rendere
l’attualità di nuovo possibile. Questo presuppone di rintracciare l’evoluzione
delle spinte pratiche attraverso le sequenze di lotta, alla ricerca di brecce,
di faglie e dei momenti in cui i limiti sono stati oltrepassati.
[16] Adottando il «Jolly Roger» come bandiera globale, l’ondata di sollevazioni
del 2025 ha convertito il termine «Gen Z» da una designazione demografica banale
al simbolo di uno spossessamento condiviso. Attraverso la sua circolazione
virale, da Indonesia e Nepal fino al Madagascar, al Marocco e al Perù, la
bandiera pirata «Gen Z» mette in luce una tensione ormai familiare tra lo Stato
e il capitale: dal momento che tutti i buoni impieghi locali sono monopolizzati
dai figli della borghesia (i «nepo babies»), bisogna andare all’estero per
guadagnarsi da vivere; ma nella misura in cui l’ordine neoliberale crolla, gli
Stati chiudono le frontiere. Ne consegue un’esperienza contraddittoria: i
lavoratori sono sradicali pur essendo chiusi nello spazio, con il digitale come
unica apertura sul mondo. La comunità virtuale della libertà pirata è il
riflesso negativo di questa condizione economica confinata. Naturalmente, questa
condizione non si limita per nulla ai giovani. L’accento messo sulla «gioventù»
sembra legato piuttosto a una virtù paradossalmente negativa: non avere le mani
sporche. Essere giovani significa non essere ancora al potere, non essere ancora
in grado di “trafficare”, non essere ancora inseriti in una rete di potere
locale e globale, non essere ancora corrotti. È questa negatività – e non la
proprietà positiva dell’età – che ha permesso a una forza combattente di
cristalizzarsi all’attorno all’evidenziatore «Gen Z».
[17] Per una lettura opposta che afferma l’uso del mito nei Gilet gialli, si
veda «Epistemology of the Heart», in Liaisons Vol. II, Horizons, PM Press, 2022
(online). Tuttavia, come gli stessi autori riconoscono: «Il problema è che,
mentre il compimento del mito contribuisce alla forza della lotta, la tradizione
dei vinti deve rimanere vinta per poter restare una tradizione» (375). Qui come
sempre, l’affermazione del mito si rivela inseparabile da un culto della morte
esemplare, una religio mortis. Il comunismo, a mio avviso, deve essere una
scommessa sulla vita terrena, non sull’eternità.
[18] Adrian Wohlleben e Paul Torino, «Memes with Force. Lessons from the Yellow
Vests», Mute, 26 febbraio 2019 (in italiano qui).
[19] Adrian Wohlleben, «The Counterrevolution is Failing», Commune, 16 febbraio
2019 (online).
[20] Adrian Wohlleben, «Memes without End», Ill Will, 17 maggio 2021 (in
italiano qui). Ripubblicato in The George Floyd Uprising, a cura del Vortex
Collective, PM Press, 2023, 224-47.
[21] Anonymous, «Learning to Build Together: the Yellow Vests», Ill Will, 9
maggio 2019 (online).
Essa costituiva un paradigma originale e potente di autorganizzazione
insurrezionale. Ancora una volta, non è affatto certo che i Gilet gialli
avessero còlto appieno la portata della propria invenzione. Invece di
riconoscere che stavano reimmaginando le forme e le pratiche con cui lo slogan
«tutto il potere alle communi» potrebbe essere attualizzato oggi, uno sguardo
incentrato sulle dimissioni di Macron spingeva molti ad adottare semplicemente
una nuova forma di proceduralità parlamentare: il Referendum d’iniziativa
cittadina (RIC) [finalizzato a permettere la consultazione referendaria per la
proposta o l’abrogazione di leggi, la revoca dei mandati politici e gli
emendamenti costituzionali].
[22] Jérôme Baschet e ACTA, «History Is No Longer on Our Side: An Interview with
Jérôme Baschet», Mute, 23 gennaio 2020 (online).
[23] Temps Critiques, «On the 10th of September», Ill Will, 10 settembre 2025
(online).
[24] Questo argomento è sviluppato più dettagliatamente in Wohlleben, «Memes
without End».
[25] La lezione da trarre da sequenze come il Kazakhstan del 2022, o il Nepal di
quest’estate, non è che bisognerebbe ignorare i luoghi del potere o lasciarli in
pace, ma che non c’è niente da farne, se non raderli al suolo con sangue freddo.
In tale prospettiva, anche la festa in piscina in Sri Lanka è durata forse
troppo tempo, distogliendo le energie dalle festività che avrebbero dovuto
svolgersi nelle strade, nei quartieri e nelle stazioni di benzina dell’intero
paese. Mentre riducevano in cenere i simboli fisici del potere borghese, i
manifestanti nepalesi hanno nondimeno fallito nel costruire le basi di un potere
popolare indipendente in prossimità delle zone abitate, ripiegando piuttosto sui
forum virtuali di Discord, dove complottavano per piazzare i “loro” politici ai
posti di potere. Malgrado la ferocia del loro assalto, il concetto parlamentare
di politica ne è uscito intatto.
[26] Lake Effect Collective, «Defend our Neighbors, Defend Ourselves! Community
Self-Defense from Los Angeles to Chicago», p. 4 (online). Benché il testo
oscilli tra un atteggiamento «proattivo» d’intervento autonomo (p. 4) e la
politica di un alleato che limita il proprio ruolo a «sostenere e facilitare» le
azioni dei cosiddetti «locali» (il che definisce implicitamente i loro
autori/autrici come extraterrestri) (p. 5), esso offre una solida cassetta degli
attrezzi per gli individui e i collettivi desiderosi di partecipare al momento
presente.
[27] SALUTE è un mezzo mnemotecnico che significa: taglia/forza (Size/Strength –
S), azioni/attività (Actions/Activity – A), localizzazione (Location – L),
uniforme/vestiti (Uniform – U), momento dell’osservazione (Time – T),
equipaggiamento/armi (Equipment – E). Tale quadro serve ad assicurare che un
rapporto di osservazione fornisca informazioni sufficientemente dettagliate e
complete.
[28] Lake Effect Collective, «Community Self-Defense», p. 9 (online).
[29] S. Prasad, «Paper Planes», 31 agosto 2022 (online). Con la differenza che,
laddove il movimento neo-consiliare sudanese è stato alla fine vinto per via
della sua incapacità a difendersi, una sollevazione americana dovrà mobilitare
tutta la sua inventiva per impedire la guerra aperta che cova in permanenza,
affinché delle sperimentazioni di autonomia collettiva possano generalizzarsi e
rafforzarsi nel frattempo.
[30] Pëtr Kropotkin, La conquista del pane [1892], Anarchismo, Trieste, 2024
[quarta edizione]. Disponibile anche qui: La conquista del pane | Edizioni
Anarchismo
Per delle iperboli esatte
Due sono a nostro avviso i pregi di questo testo. Il primo è quello di collocare
su un terreno strategico – cioè decisivo – lo scontro tra il moto di sommosse in
corso nel mondo e l’ascesa dei neo-autoritarismi, scontro la cui posta in gioco
è la direzione del salto oltre una democrazia liberale ormai defunta ma non
ancora crollata; cosa ben diversa dalle solite geremiadi sul conflitto tra
fascismo e democrazia, con il correlativo (e fuorviante) invito a difendere la
seconda per scongiurare il primo. L’altro pregio del testo è quello di osservare
con attenzione cosa stanno producendo di innovativo alcuni movimenti di rivolta.
Anche quando non è quello del semplice consumo spettacolare, lo sguardo sulle
rivolte è spesso “mitico”, nel senso che le immagini di blocchi, scontri e
saccheggi sembrano uscire da uno spazio-tempo sempre-uguale (quello estatico
della rottura della normalità). Se quel mitico punto di appoggio della rivolta
(là dove gli incappucciati si scontrano con la polizia e assaltano i luoghi del
potere) è di per sé un antidoto rispetto al mito autoritario dell’ineluttabilità
della storia, rivoluzionario è soltanto lo sguardo che vuole imparare da ciò che
concretamente fanno – nelle opere e nei giorni della lotta – le proprie sorelle
e i propri fratelli di classe al di là di qualche fermo immagine che li
immortala.
Così come la rivolta è sempre l’iperbole di un insieme di fattori storici e
sociali, anche la teoria sulla rivolta si serve di iperboli per evidenziare
alcuni elementi anziché altri. Vale tuttavia per la teoria-pratica
rivoluzionaria ciò che Cristina Campo diceva della poesia: la sua verità «parla
per iperboli esatte».
Ci limitiamo qui a segnalare i disaccordi e le integrazioni che ci sembrano più
importanti. Per poi abbozzare qualche riflessione.
Nell’analisi della fase storica manca nel testo la tendenza fondamentale del
nostro tempo: la guerra. La quale non può essere rubricata dentro un elenco di
misure extra-economiche insieme al «saccheggio», alla «conquista» e allo
«spossessamento». Senza addentraci qui nel rapporto di reciproco incremento tra
i «monopoli radicali» tecno-industriali e la potenza militare per allargarli e
per difenderli, sarà sufficiente dire che più lo scontro inter-statale e
inter-capitalistico passa dal piano economico-finanziario a quello strategico,
più la guerra diventa allo stesso tempo un precipitato e un’ulteriore
radicalizzazione dello scontro. Il passaggio dei moti di rivolta a un piano
rivoluzionario si giocherà innanzitutto contro gli effetti di una mobilitazione
bellica totale. Di tutto ciò non c’è traccia nel testo, tant’è che nell’analisi
degli ultimi cinque anni non si menziona nemmeno la prima guerra simmetrica
dall’epoca di quella di Corea: il conflitto tra Nato e Russia giocato sul
terreno dell’Ucraina.
Considerazione analoga vale per il susseguirsi di sollevazione negli ultimi due
anni. Come si fa a non collegarli a Gaza, vera apocalisse del nostro tempo? Il
solo accenno al genocidio del popolo palestinese è espresso in termini
palesemente assurdi: il salto ormai necessario oltre la democrazia liberale
determina, secondo l’autore, «l’audacia stupefacente che sorge in tutti gli
angoli della società, dagli attentati “gamer” al cinismo animale del genocidio
israeliano a Gaza, fino ai giovani nepalesi e alle classi popolari …». Ma come
si fa a individuare un carattere comune («l’audacia stupefacente») nella
combattività di certe rivolte e nello sterminio perpetrato dallo Stato d’Israele
(per altro un esempio atroce di razionalità scientifico-militare-industriale
applicata a una logica coloniale, altro che «cinismo animale»!).
L’unico riferimento, poi, alla potenza tecnologica come caratteristica
fondamentale della società in cui viviamo consiste in un uso di Anders che più
che «originale» a noi sembra strampalato. Lo «scarto prometeico» andersiano si
riferisce alla producibilità tecnica di catastrofi troppo smisurate
(«sovraliminali») per essere afferrate dalla nostra «fantasia morale». Cosa
c’entra con il fatto che nelle lotte – e ciò da ben prima dell’èra nucleare – la
coscienza pratica è sempre più avanti di quella teorica? Che la rivolta sociale
appaia ai suoi stessi partecipanti una sorta di enigma attiene al fatto che le
sue risultanti mescolano passato e futuro, continuità e rottura, abitudini
ereditate e nuovi inizi; e che le sue «innovazioni» più feconde non sono né
individuali né collettive, bensì impersonali. Ciò non toglie che il ruolo della
teoria è proprio quello di cogliere l’elemento vivo più nelle pratiche che nelle
dichiarazioni d’intenti (questo è il rapporto che si è dato, per esempio, tra
l’invenzione proletaria dei Soviet e la teoria consiliare).
Da questo punto di vista, le parti del testo dedicate ai Gilet gialli e alle
lotte in corso negli USA contro i rapimenti dell’ICE sono estremamente puntuali
e interessanti. Se anche per noi l’intreccio tra autorganizzazione comunitaria e
capacità offensiva è uno degli elementi decisivi, non c’è alcun bisogno di
vedere in tale intreccio delle «basi di un potere politico popolare». La nozione
di «potere» è estremamente ambigua, perché indica sia la capacità di agire di
concerto e di realizzare un determinato rapporto di forza, sia l’usurpazione di
tale capacità da parte di minoranze che si dànno a tal fine una legittimazione
popolare. È solo una questione linguistica?
L’ultimo rilievo attiene a uno scarto (non prometeico…) tra le considerazioni
logistico/infrastrutturali e la citazione di Kropotkin. Né le rotatorie dei
Gilet gialli né i centri di difesa anti-ICE nei quartieri sono esempi di
esproprio (mentre le «carovane dei saccheggi» citate a proposito della Floyd
rebellion ne costituiscono un’espressione parziale). Se i blocchi-luoghi di vita
rappresentano un punto di appoggio che permette alle lotte di tenere nel tempo e
di estendersi nello spazio, il passaggio dalle rivolte alla rivoluzione non può
avvenire senza l’esproprio generalizzato. Ora, se è abbastanza chiaro cosa debba
distruggere un movimento insurrezionale, lo è molto meno, nell’epoca del
tecno-capitalismo e dei «monopoli radicali», di cosa ci si possa davvero
riappropriare per rendere irreversibile un conflitto e gettare così le basi di
una vita altra.
Per cercare di cogliere appieno l’hic Rhodus, hic salta di ogni ipotesi
rivoluzionaria oggi, è necessario formulare con chiarezza l’ordine dei problemi.
Da questo punto di vista – l’ordine dei problemi, non necessariamente le
«soluzioni» – rimangono ancora estremamente preziose le analisi sviluppate negli
anni Ottanta dall’Encyclopédie des Nuisances. Partendo quindi da alcuni loro
brani (riportati in corsivo) possiamo cercare di tracciare qualche spunto
finale.
Le forze produttive e tecnologiche sono adesso mobilitate dalle classi
proprietarie e dai loro Stati per rendere irreversibile l’espropriazione della
vita e devastare il mondo fino a farne qualcosa che nessuno possa più pensare di
contendere loro.
Ecco il fronte di lotta che contiene tutti gli altri. Lo sviluppo tecnologico,
vero motore del dominio e della sua cosmovisione, è un apparato d’incarcerazione
della società. Questo non significa solo che esso tende, grazie alle sue stesse
dinamiche, a mercificare ogni cosa, e quindi a trasformare in valore gli stessi
corpi e i cicli vitali della natura e della specie; significa anche che la sua
presa totalitaria costituisce la principale potenza anti-rivoluzionaria e
anti-utopica in atto. Rendendo irreversibili i suoi processi, punta a rendere
incontendibile il suo mondo, sempre più gestibile unicamente dalle sue macchine
e dai suoi esperti. È da quest’angolo visuale – allo stesso tempo dentro e
contro la storia – che si possono giudicare le singole «innovazioni». Che siano
macchine, dispositivi digitali o farmaci genetici, il punto non è tanto e
soltanto: chi ci guadagna? Oppure: sono davvero efficaci? Bensì: accrescono la
sottomissione delle nostre vite? Rendono ancora più irreversibile lo
spossessamento individuale e sociale?
Per formulare un simile giudizio è necessaria la costituzione di un punto di
vista collettivo a partire dal quale diventa possibile condannare tutta
l’innovazione tecnica autoritaria, senza più lasciarsi impressionare
dall’insulso rimprovero di passatismo.
A impedire la formazione di tale «punto di vista collettivo» non è tanto
l’ideologia del dominio, in quanto apparato di giustificazione istantanea di
tutto ciò che l’economia divenuta totalitaria compie; bensì la difficoltà
pratica di tagliare i rami marci su cui siamo noi stessi seduti.
L’immensità di questo compito di trasformazione, che ognuno avverte
confusamente, è senza dubbio la causa più universale e più vera della
prostrazione di tanti nostri contemporanei, che conferisce alla propaganda
spettacolare la sua relativa efficacia.
Poiché il territorio nella sua integralità è stato ricostruito dal nemico
secondo i suoi bisogni repressivi, ogni volontà sovversiva deve cominciare con
il considerare freddamente a partire da quali realtà vissute può rinascere una
coscienza critica collettiva, quali sono i nuovi punti d’applicazione della
rivolta suscettibili di portare con sé tutti quelli precedenti.
Non crediamo che questo possa davvero avvenire «freddamente». Gli spazi di
libertà si aprano solo quando s’innalza la temperatura morale di una parte della
società. Senza abbandonare le abituali regole di condotta – cioè senza rotture
della trama capitalistica delle nostre vite – non si possano scatenare quei
«baccanali della verità in cui nessuno rimane sobrio».
I sostenitori della critica sociale rivendicavano la negazione della politica,
volevano che si prendessero come punto di partenza quei germi di rivoluzione che
erano le lotte operaie, ma dimenticavano che i veri germi di rivoluzione non si
erano mai sviluppati nell’epoca recente (in Francia nel 1968 come in Polonia nel
1980-1981) se non con la creazione di una prima forma di comunicazione liberata
in cui tutti i problemi della vita reale tendevano a trovare la loro espressione
immediata, e in cui gli individui cominciavano, compiendo gli atti richiesti
loro dalle necessità della loro emancipazione, a costituire quell’ambito
pubblico dove la libertà può dispiegare le proprie seduzioni e divenire una
realtà tangibile. In poche parole: non si può sopprimere la politica senza
realizzarla.
Il concetto di «politica» è quanto meno ambivalente, indicando tanto la cura
comune della polis quanto l’arte di governare, cioè la creazione di una sfera di
gestione separata e specializzata: in breve, l’usurpazione del «potere di agire
di concerto» da parte dello Stato. Forse il punto non è – o non è più, dopo gli
esperimenti totalitari del Novecento – contrapporre alla «politica» una supposta
spontaneità sociale da liberare. Il grande antropologo libertario Pierre
Clastres ha illustrato in modo meticoloso che le società senza e contro lo Stato
non nascono libere perché «selvagge», bensì si autoistituiscono politicamente
come tali, cioè introducono consapevolmente dei contrappesi simbolici e
materiali affinché il potere rimanga circolatorio e non diventi coercitivo
(affinché il «potere di agire di concerto» non si trasformi nel dominio di una
minoranza). Se questo è vero, il comunismo anarchico non è l’insorgenza di un
sociale represso, bensì la sua «invenzione» insurrezionale, cioè la consapevole
riattivazione di «materiali antichi» levigati da nuovi modi d’uso.
Forza e limiti delle sollevazioni in corso sono legati proprio al fatto che «i
nuovi punti di applicazione della rivolta» sono «ambiti pubblici» reiventati
(che tengono nella misura in cui si intrecciano con i luoghi e i tempi delle
esigenze quotidiane). Se questo permette la loro generalizzazione – anche in
termini di pezzi di società che vi si uniscono – più di quanto non facciano le
lotte sui luoghi di lavoro, la «comunicazione liberata» che ne discende non ha
sottomano un aggancio concreto per le prime, necessarie misure rivoluzionarie:
gli espropri per la Comune. Non solo espropri di merci dai supermercati (con cui
non si campa a lungo), bensì dei mezzi con cui farne a meno.
«Grande è la ricchezza di un mondo in agonia», scriveva Ernst Bloch. Per il
momento, con l’iniziativa che è ancora nelle mani di Stati e tecnocrati, questa
«agonia» è ricca soprattutto di disastri, di coercizioni e di guerre, il cui
tessuto di silicio copre letteralmente la vista. Se quella di uscire
progressivamente da questa «infermità sovra-equipaggiata», con l’accumulazione
quantitativa delle lotte e delle forze, è un’illusione fuori tempo massimo,
anche l’idea che gli scossoni delle rivolte riannodino improvvisamente i fili
dell’esperienza umana e del giudizio critico risulta a suo modo consolatoria.
Serve più che mai la lucidità di far proprie delle verità scomode. Ad esempio,
che non c’è alcun progetto rivoluzionario bell’e pronto da ereditare dal
passato; e che non esistono delle capacità umane meta-storiche su cui fare
affidamento. Il dominio ha scavato a fondo. Non solo per estorcere sotto tortura
i segreti della vita biologica, sfruttata fin nelle sue particelle sub-atomiche;
ma anche per condizionare fin nell’intimo degli individui il senso della
libertà. Nondimeno, le forme autoritarie di organizzazione fanno sempre più
fatica a imporsi nei movimenti, e lo spazio-tempo dentro il quale questi si
sviluppano tende ad assomigliarsi sul piano internazionale. Resta probabilmente
vero quello che diceva Gustav Landauer, e cioè che nelle epoche di rottura i
rivoluzionari nascono per germinazione spontanea. Ma questo non è
necessariamente vero per le rivoluzioni.
Saranno le idee, le azioni e le prime misure rivoluzionarie a definire, in un
dialogo a distanza, quei progetti che abbiano la ricchezza delle specificità
locali e l’intensità universale di una chiamata alle armi. Non è di per sé
l’estensione di un moto di protesta a renderlo contagioso, ma la sua profondità,
il suo farsi esempio vivente e quindi iperbole esatta, per quanto limitata sia
la sua dimensione geografica. Forse ciò di cui c’è bisogno è proprio questo
federalismo degli esempi rivoluzionari, in grado di risuonare e creare così le
condizioni del proprio allargamento. Sarà la germinazione degli esempi a
scongelare la storia di cui ogni slancio di libertà ha bisogno.
Faccio la mia passeggiata,
essa mi porta un poco lontano
e a casa; poi, in silenzio e senza
parole, mi ritrovo in disparte.
Epigrafe sulla tomba di Robert Walser, nel cimitero di Herisau
La morte di Robert Walser sembra in tutto e per tutto un racconto walseriano.
Il pomeriggio di Natale del 1956 il corpo dello scrittore viene trovato disteso
nella neve un po’ fuori della cittadina di Herisau, nella Svizzera orientale.
Walser era intento in una delle sue celebri passeggiate, a cui si era dedicato
sempre, nei giorni festivi, anche nel corso degli ultimi ventitré anni trascorsi
nella clinica psichiatrica di Herisau (Haus 1, «padiglione degli uomini
tranquilli»).
Neve e passeggiate sono due protagonisti dei suoi racconti e delle sue poesie.
Ma non è tanto, o soltanto, questo a rendere così walseriana la sua morte.
Secondo W. G. Sebald – che allo scrittore svizzero ha dedicato pagine insieme
profonde e di rara delicatezza – l’ideale di Walser era «sfidare la
gravitazione».
Come è stato notato, l’unica foto rimasta del corpo di Walser adagiato sulla
neve (con il cappello leggermente in disparte) ha davvero un che di magico. Tra
le ultime quattordici impronte dei suoi ultimi sette passi e il cadavere c’è un
inspiegabile spazio di neve intonsa, come se per qualche attimo Walser avesse
volato; come se la gravitazione infine fosse stata vinta dalla leggerezza. Un
balzo quasi impercettibile, un «preferirei di no» rivolto alla clinica
psichiatrica. Cioè al mondo.
Simone Weil ha ipotizzato l’esistenza di una corrispondenza precisa tra i
«miracoli» e un’esatta disposizione dell’animo. Se così fosse, per sfidare la
forza di gravità ci vuole una ben specifica virtù. Forse quella di cui parla uno
dei Microgrammi walseriani: «Questo paesaggio innevato lo vorrei grazioso. E
spero che andrà così. Aveva appena fioccato, e la neve, nonostante una certa
morbidezza, era ancora piuttosto compatta. C’era aria di virtù in me, adesso.
Voglio essere gentile con le persone, ma a patto di poter magnificamente
rinunciare a tutti quanti». L’estrema mossa di Walser assomiglia allora a un
passo d’addio (titolo di una raccolta di poesie di Cristina Campo, nonché
riferimento all’ultimo saggio di danza con cui le ballerine si congedano dalla
scuola e dalle proprie compagne). Un passo che indica anche una dimensione dello
spirito: «Era solito, allora, sognare senza parole né pensieri, non farsi più
alcun rimprovero e abbandonarsi alla deliziosa stanchezza» (I fratelli Tanner).
Walser ha trasformato se stesso in una delle sue umbratili figure: «Ma ho ancora
una cosa nelle mente: sarebbe bello fare il saltimbanco. Un famoso funambolo,
con i fuochi d’artificio sul dorso, le stelle sopra di me, un abisso accanto, e
davanti una via così piccola, così sottile, su cui avanzare». Forse è proprio
così che Walser ha salutato il principio d’individuazione (con le sue impronte)
per ricongiungersi con l’ápeiron (l’indeterminato bianco).
Si legge in un’annotazione del direttore dell’Istituto Waldau, in cui Walser era
stato internato prima della clinica di Herisau: «Uno schizofrenico molto calmo,
socievole, che vive per metà della giornata nei suoi sogni di poeta scrivendo un
po’, e i lavori di giardinaggio nell’altra metà».
Walter Benjamin ha scritto che i racconti di Walser cominciano là dove finiscono
le fiabe. Con le quali hanno in comune soprattutto l’idea che la felicità non
può darsi come compito, ma giunge unicamente per soprammercato. La morale
walseriana è proprio lì, «nel punto che ancora prima ci pareva fondamentale [e
dove] d’un tratto non si trova nulla» (Sebald). L’ideale walseriano, non a caso,
era diventare «uno zero».
Per accompagnarci nel territorio della fiaba, disponiamo di una maestra
assoluta: Cristina Campo. La quale ha descritto «con lievi mani» le virtù da cui
dev’essere toccato l’eroe di fiaba per scoprire il passaggio segreto nel bosco,
quel luogo raggiunto dopo mille peregrinazioni, pur essendo proprio a due passi
dall’inizio del cammino. «Come scegliere di volta in volta fra abbandono ed
astuzia, ingenuità e sapienza, memoria e oblio salutare? Uno vince perché in un
paese di creduloni e integranti fu diffidente e segreto, l’altro perché si
affidò infantilmente al primo venuto, o addirittura a un cerchio di malfattori.
Enigma ogni giorno nuovo, proposto e mai risolto, se non nell’ora decisiva, nel
gesto puro – non dettato da nulla ma alimentato, giorno per giorno, di pazienza
e silenzio». Quella di affidarsi infantilmente al primo venuto, o a un cerchio
di briganti incontrati nelle passeggiate apparentemente più ordinarie, è una
virtù che Walser ha sperimentato in sommo grado. Quanto alla pazienza e al
silenzio, nelle camerate e nel giardino della clinica li ha soppesati grammo per
grammo. Portandoli con sé anche nel «territorio della matita», cioè nei momenti
in cui scriveva con un lapis, su fogli volanti, bigliettini e ricevute, i suoi
testi minuscoli e apparentemente indecifrabili, rimasti per anni in una vecchia
scatola da scarpe. Walser è stato davvero un eroe di fiaba. Se n’è andato «in
disparte» senza aver mai ceduto alla logica della potenza, preferendole sempre
«la mancanza di scopi, il buon umore senza ragione, la gioia immotivata». Come i
suoi eroi di fiaba – dissimulati nei racconti, nelle poesie, nelle micrografie:
un chiodo, una stufa, un fiocco di neve.
«C’erano una volta dei fiocchi di neve che, non avendo niente di meglio da fare,
volarono giù sulla terra. Molti volarono sui campi, e là rimasero, altri caddero
sui tetti e là rimasero, diversi altri caddero sui cappelli e cappucci di
persone che camminavano in fretta e là rimasero finché non vennero scossi via,
alcuni pochi volarono sulla faccia fida e cara di un cavallo, e rimasero sulle
ciglia lunghe degli occhi equini, un fiocco di neve volò dentro una finestra, ma
quello che vi fece non è mai stato raccontato, comunque rimase là».
Leggere Walser mi infonde allo stesso tempo commozione, buon umore e
un’immotivata gratitudine per gli esseri e le cose.
Forse anche la rivoluzione è preceduta da impronte ben visibili e poi,
improvvisamente, da uno spazio intonso che nessuno sa come sia stato saltato.
Un pensierino per l’anno nuovo: come tenere insieme la necessaria rivolta contro
un mondo ignobile e il senso di grata pienezza di fronte ai fiocchi di neve o
alla faccia «fida e cara di un cavallo»?
🎄 VENERDÌ 26 DICEMBRE ORE 20 CENONE DEGLI AVANZI + TOMBOLA E GIOCHI🎄
Nuovo presidio San Giuliano - San Giuliano di Susa
(venerdì, 26 dicembre 19:30)
Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi e Santo Stefano con il movimento No Tav
💕. Continuiamo a scaldare il cuore del presidio, festeggiamo il Natale e diamo
il colpo finale alla nostra linea inviadiabile. Porta avanzi, liquidi e
qualcosina di brutto da mettere in palio per la Tombola…
Quando Washington decide chi può avere un conto bancario in Germania. Le banche
applicano la politica statunitense e chiudono il conto corrente di Rote Hilfe
perchè organizzazione antifascista Martedì 23 …
(disegno di lorenzo la rocca)
La redazione di MONiTOR augura a tutti i suoi lettori buone feste!
WINTER PARTY
Spazio Sociale VisRabbia - Via Galinié, 40 Avigliana TO
(sabato, 27 dicembre 18:30)
SERATA A SGRASSARE AL RITORNO DALLE FESTE
musica dalle 9/9.30 fino a che non ci stanchiamo
Estratti dalla puntata del 22 dicembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che
Brucia
SGOMBERO ASKATASUNA E ECONOMIA DELLA REPRESSIONE
Partiamo con un articolo (suggerito da una persona all’ascolto) che ci consente
di riflettere sul profilo di economia della repressione sovrapposto allo
sgombero di Askatasuna:
PRISONERS FOR PALESTINE
Mentre va in onda la puntata, sei Prisoners for Palestine (Qesser Zuhrah, Amu
Gib, Heba Muraisi, T Hoxha, Kamran Ahmed e Lewie Chiaramello) stanno proseguendo
lo sciopero della fame in condizioni critiche: nell’ultima settimana, oltre 800
sanitari hanno segnalato il “concreto rischio di morte per questi giovani
cittadini britannici in carcere senza una condanna”. Cinque di loro hanno dovuto
ricorrere a ricoveri ospedalieri, come nel caso di Qesser, per la quale sono
state indispensabili mobilitazioni davanti al carcere affinché le fosse
consentito il trasferimento in ambulanza.
/ / /
AGGIORNAMENTO: Nella serata del 23 dicembre 2025 apprendiamo che Amu e Qesser
hanno interrotto lo sciopero della fame. Nel frattempo a Londra al termine di
un’azione contro la compagnia assicurativa Aspen in solidarietà con prigionierx
di Palestine Action, l’attivista Greta Thunberg veniva fermata e incriminata per
“supporto a un gruppo proscritto sotto la legge anti-terrorismo”.
/ / /
Parallelamente proseguono arresti e intimidazioni verso chi si esprime a favore
di Palestine Action o semplicemente contro le politiche di oppressione e
sterminio portate avanti da Israele e dal suo esercito terrorista.
Sul fronte repressivo occidentale, osserviamo come sia all’opera una
compressione della libertà di contestazione delle politiche sioniste molto più
intensa rispetto al contrasto delle cosiddette posizioni “russofile”: nonostante
ci ricordino a reti unificate come l’Europa sia sotto attacco, nonostante si
prosegua in un arruolamento di massa della società e si stiano strutturando
agenzie per il controllo militare dell’infosfera e del consenso (leggesi
“contrasto alla guerra ibrida”), da Londra a Berlino, da L’Aquila a Torino,
vediamo come la repressione operi sopratutto per tutelare gli interessi di una
potenza straniera come Israele.
AI E CONVERSAZIONI DETENUTI
L’azienda statunitense Securus Technologies ha sviluppato un sistema per il
monitoraggio delle comunicazioni delle persone detenute verso l’esterno: un
prodotto addestrato con le loro conversazioni telefoniche (senza consenso) e
pronto a essere venduto a diversi dipartimenti carcerari con lo scopo di
prevenire la pianificazione di attività criminali.
Cerchiamo di osservare come la crescita del fenomeno della detenzione di massa
produca imprescindibilmente un bacino di mercato per prodotti dedicati al
settore, ma al contempo come l’analisi automatizzata delle conversazioni delle
persone detenute sia stata inaugurata durante la pandemia di Covid-19:
ICE E FBI: NOTE DI COSTUME
Piccola parentesi sulle politiche di reclutamento per la costituzione delle
milizie fidelizzate dell’ICE e su Kash Patel, freneticamente impegnato a trovare
una giacca adatta dopo l’omicidio di Charles Kirk:
IL CASO SHAHIN E LE DEPORTAZIONI COME “IGIENE SOCIALE”
In Italia non abbiamo l’ICE, ma la nostra giustizia amministrativa rimuove
individui dal tessuto sociale, anche per questioni politiche: il caso dell’imam
Mohamed Shahin rientra in quel 10% di provvedimenti di espulsione per “motivi di
sicurezza”.
Ne parliamo con Erasmo Sossich, autore di un importante articolo pubblicato su
Monitor, all’interno di quel si analizza il ricorso a questa forma specifica di
repressione in Italia e non solo:
LINK all’articolo su Monitor
L’AI non è sostenibile da un punto di vista energetico, e quindi neanche da un
punto di vista economico. Perché l’energia costa e se si deve comprare l’enorme
quantità di energia che serve a tenere in funzione un data center, i ricavi
delle vendite di prodotti AI non ripagano l’enorme cifra di investimento che
negli ultimi anni ha gonfiato la bolla dell’AI. Questo uno dei problemi (o dei
rischi, come amano definirli loro) che si trovano a fronteggiare le Magnificent
7, ovvero i sette colossi tecnologici statunitensi – Apple, Microsoft, Amazon,
Alphabet (Google), Meta (Facebook), Nvidia e Tesla.
Nella prima parte della puntata, insieme a Ginox, andiamo a leggere i dati che
emergono da una serie di studi e testimonianze sul consumo di suolo, acqua e
energia dei data centers e sui rischi alla salute delle persone che vivono nei
territori in cui queste strutture sorgono.
Nella seconda parte della puntata, andiamo a commentare le dichiarazioni del CEO
di IBM, Arvind Krishna, che ha affermato che “non c’è modo” che gli ingenti
investimenti delle aziende tecnologiche nei data center possano venire ripagati,
visto che i data center richiedono enormi quantità di energia e investimenti.
Con la crescita della domanda di intelligenza artificiale, secondo Goldman
Sachs, il fabbisogno energetico del mercato dei data center potrebbe raggiungere
gli 84 gigawatt entro il 2027. Eppure, costruire un data center che utilizzi
solo un gigawatt costa una fortuna: circa 80 miliardi di dollari attuali,
secondo Krishna. Se una singola azienda si impegnasse a costruire dai 20 ai 30
gigawatt, ciò ammonterebbe a 1,5 trilioni di dollari di spese in conto capitale,
ha affermato Krishna. Si tratta di un investimento pressoché equivalente
all’attuale capitalizzazione di mercato di Tesla. Secondo le sue stime, tutti
gli hyperscaler messi insieme potrebbero potenzialmente aggiungere circa 100
gigawatt, ma ciò richiederebbe comunque 8 trilioni di dollari di investimenti e
il profitto necessario per bilanciare tale investimento sarebbe immenso. “A mio
avviso non c’è modo di ottenere un ritorno, perché 8 trilioni di dollari di
spese in conto capitale significano che servono circa 800 miliardi di dollari di
profitto solo per pagare gli interessi”, ha affermato. Inoltre, grazie al rapido
progresso della tecnologia, i chip che alimentano il tuo data center potrebbero
diventare rapidamente obsoleti. “Bisogna utilizzarlo tutto entro cinque anni,
perché a quel punto bisogna buttarlo via e riempirlo di nuovo”, ha affermato.
Krishna ha aggiunto che parte della motivazione dietro questa ondata di
investimenti è la corsa delle grandi aziende tecnologiche per essere le prime a
decifrare l’AGI, ovvero un’intelligenza artificiale in grado di eguagliare o
superare l’intelligenza umana. Ma la sua conquista sembra, secondo Krishna,
ancora lontana.
Di fronte all’insostenibilità finanziaria, ambientale e di sfruttamento
lavorativo dell’AI, il governo Trump sta cercando in tutti i modi di rendere
l’AI strategica da un punto di vista militare, per renderla “too critical too
fail”. Il Dipartimento dell’Energia ha dichiarato giovedì scorso di aver firmato
accordi con 24 organizzazioni, tra cui giganti tecnologici per far avanzare la
missione Genesis.
La missione è un programma nazionale volto a utilizzare l’intelligenza
artificiale per accelerare la ricerca scientifica e rafforzare le capacità
energetiche e di sicurezza degli Stati
Uniti. Il dipartimento ha detto che il programma è progettato per aumentare la
produttività scientifica e ridurre la dipendenza dalla tecnologia straniera. I
partecipanti includono i principali fornitori di cloud e chip come AWS, Oracle,
Intel, AMD, insieme agli specialisti dell’IA OpenAI, Anthropic e xAI.
Citati nella puntata:
Studio sul consumo energetico dei data centers _ Yale
Studio ul consumo di acqua e suolo legata al boom dell’AI _ Lincoln Institute
Articolo sulla vita di fianco a un data center negli Stati Uniti _ BBC
Puntata de Le dita nella presa “Non è siccità, è saccheggio!” _ Radio Onda Rossa
Articolo sul processo di accaparramento delle risorse nelle Valli alpine _
Nunatak
Libro Il rimosso della miniera. La nuova febbre dell’oro nell’Europa in guerra _
Collettivo Escombrera
Diverse puntate di Happy Hour dedicate ai data centers (1, 2, 3) e con compagna
del Collettivo Escombrera (4) _ Radio Blackout
Genesis Mission – Dipartimento del Governo Stati Uniti
Condividiamo di seguito l’interessante articolo di Sergio Fontegher Bologna
sullo sgombero del centro sociale Askatasuna su Officina Primo Maggio ed una sua
intervista a Radio Onda d’Urto in cui sviluppa gli spunti dell’articolo.
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Una volta chiamavano Torino la città dell’automobile. Se la definizione era
sbrigativa, è pur vero che il settore dell’automotive non solo ha rappresentato
storicamente una componente importante dell’occupazione, ma è stato, come dire,
un tratto del DNA della città quanto a Genova il know how marittimo-portuale.
Dubito però che Genova, se le chiudessero il porto, se ne starebbe zitta e
tranquilla. A Torino il buon Elkann e soci chiudono il settore automotive e
Torino non brucia, anzi si barcamena, s’attacca alle smentite di Stellantis,
sembra non avere il coraggio di accettare la realtà. Non contento, il buon
Elkann vende il quotidiano “La Stampa”, giornalisti inclusi nel pacchetto, come
fossero carne di porco o fazzoletti Tempo. Dimostrando quanta stima avesse il
padrone per i suoi servi ubbidienti che poche settimane prima erano stati
esaltati come custodi della libertà di stampa, colonne della democrazia, dopo
che un gruppo di studenti un po’ vivaci aveva osato buttare all’aria un po’ di
carte posate sulle loro scrivanie. Hanno buttato all’aria delle carte, non hanno
dato fuoco al palazzo.
A rivederla, questa sequenza, ha del grottesco. Elkann chiude il settore
automotive. Non succede nulla. Ragazzi buttano all’aria delle carte nella
redazione di un giornale. Apriti cielo! interviene anche Mattarella. Elkann
pochi giorni dopo vende quel giornale, una testata che fa parte dell’identità di
Torino. Non succede ancora nulla, sì i giornalisti fanno gli offesi (“Come, a
noi colonne della democrazia, questa partaccia, sig. Elkann!”) in sostanza tutti
zitti, perché è vero che si vende, ma a un amico della Meloni. Qualche giorno
dopo dei ragazzi vengono trovati a dormire nel centro sociale Askatasuna.
Dormivano, non stavano confezionando ordigni esplosivi. E succede il finimondo,
il Ministro dell’Interno scatena le sue truppe, il sindaco con fare solenne
indossa la fascia tricolore e dichiara che quei ragazzi non sono più cittadini
rispettabili. E quando mai lo sono stati, quando mai lo hanno voluto essere!
Un ricordo personale. Il tema è la Torino-Lione e il movimento di rivolta nella
Val di Susa. Una tema che fa parte dell’identità di Askatasuna. Siamo al volgere
del secolo, da più di un anno mi hanno inserito in un comitato di esperti che
deve tracciare al Ministero le linee guida del nuovo Piano dei Trasporti e della
Logistica. Tutto il trasporto merci è di mia competenza, autostrade del mare,
trasporto intermodale su rotaia, come si fa a ridurre l’impatto del traffico di
camion sulle strade ecc.. Per questo la Torino-Lione non serve, i colleghi che
sono responsabili dei problemi infrastrutturali, ambientali, regolativi, sono
d’accordo. Diremo diplomaticamente che “non è una priorità”. Il nostro documento
va al CIPE, in Parlamento passa con voto bipartisan, ma poco dopo ci sono le
elezioni, Berlusconi rivince e il nostro bel Piano finisce nel cestino. Passo
dal Ministero alle FS, consulente dell’AD di Trenitalia, e lì ho informazioni di
prima mano su come stanno le cose nel traffico merci su ferrovia. Tra tutti i
diversi (sono cinque) valichi alpini su rotaia il Fréjus sembra il meno
importante rispetto al Gottardo, al Brennero, a Tarvisio e financo Opicina.
Prima di lavorare per Trenitalia però mi capita di andare a Torino, per un
evento di associazioni d’imprenditori. Ricordo che avevo Pininfarina (buonanima)
in prima fila seduto accanto a Virano (buonanima), che è stato per decenni il
principale promotore della Torino-Lione. Io faccio il mio ragionamento, la
Torino-Lione non serve. E spiego perché. In economia dei trasporti – che io non
ho mai studiato ma che mi è stata insegnata dai lavoratori – le caratteristiche
del traffico dipendono dalla composizione merceologica dell’interscambio tra due
paesi. Tra Francia e Italia c’era molta merce di massa (cereali per esempio),
soprattutto in import. Le merci di massa si trasportano su carri particolari ma
fanno parte ancora di un’epoca fordista, il trasporto merci del futuro sarà
sempre più intermodale (container, casse mobili, semirimorchi) per portare
componenti, semilavorati, beni di consumo. Un traffico che ha spedizioni molto
più frequenti, dunque il carico sulla linea aumenta. Sul Gottardo, sul Brennero,
stava già diventando l’unico traffico, dunque era sotto gli occhi di tutti la
tendenza del mercato. È vero che la linea ferroviaria del Fréjus era quasi
satura, ma la sua crescita era gestibile, non era necessario fare una nuova
linea, con lunghe gallerie e tempi lunghissimi di realizzazione. Se il governo
italiano avesse dovuto scegliere quali investimenti erano più urgenti, avrebbe
dovuto investire sul Gottardo, sul Brennero, tanto più che Svizzera ed Austria,
ben consapevoli dell’evoluzione del mercato, ci sollecitavano a farlo. Mentre ai
francesi non importava gran che e nemmeno adesso, dopo vent’anni, hanno fretta
di fare la Torno-Lione. Ero andato anche a Parigi, accompagnato da un alto
funzionario del CNEL, per capire come la pensavano. Ci ricevettero al Senato nel
Jardin du Luxembourg e li trovammo piuttosto freddi.
Dissi queste cose e vidi gli sguardi allibiti di Pininfarina e di Virano, ma ero
pur sempre un consulente del Ministero, inghiottirono in silenzio, anzi,
Pininfarina mi ringraziò per averli informati su come la pensavano a Roma
(magari subito dopo avranno telefonato al Ministro, era Bersani se non sbaglio,
“ma che razza di consulente si è preso”?). Passai poco dopo alle FS e lì mi
convinsi ancor più di avere ragione. Divenni amico addirittura della funzionaria
che aveva la responsabilità della circolazione sulla linea del Fréjus, coi suoi
dati di prima mano sbaragliavo qualunque avversario. Come vicepresidente
dell’Associazione Italiana di Logistica (per pochi mesi) avevo fatto amicizia
coi colleghi tedeschi, erano allora i leader mondiali, mi nominarono socio
onorario della loro Associazione. Potevo parlare con il direttore del traffico
merci della Deutsche Bahn, coi manager dei più potenti spedizionieri europei,
Schenker, Kühne&Nagel, DSV. A quei livelli si decide il mercato, chi li
frequenta non ha bisogno di grandi studi. La forza del consulente vero – poi ci
sono i faccendieri, ma è un altro discorso – sono le informazioni riservate.
Così mi convinsi che la battaglia degli abitanti della Val di Susa era una
battaglia sacrosanta, per impedire un’opera inutile o, nel migliore dei casi,
non prioritaria. Invece le lobby del cemento, gli sventra-montagne, hanno vinto
una volta ancora e il potenziamento del Gottardo e del Brennero lo hanno dovuto
fare gli svizzeri e gli austriaci, con gli italiani assenti o a rimorchio.
In Val di Susa questo nostro paese ha rischiato la guerra civile per imporre
un’opera inutile e oggi minaccia d’infliggere anni e anni di carcere a chi ha
combattuto una battaglia giusta.
Per questo gridiamo “Viva Askatasuna”! Ci sono andato una volta sola a parlare
di lotte nella logistica e mi dispiace. Era il tempo del Covid e ci passò
davanti un corteo di No Vax, uscimmo per vederli passare, ci fischiarono, un
esaltato mi venne quasi addosso, “traditori!”. Tanto per non farmi mancare
nulla.
Quando penso alla storia della Torino-Lione mi coglie una tristezza infinita.
Gli avversari di allora avevano un’altra statura rispetto alle mezze calzette di
oggi. Penso alle merducole di Stellantis, che mettono sul lastrico migliaia di
famiglie e si beccano i bonus. Al loro confronto Pininfarina sembra un gigante.
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“Bisogna portare la discussione su un piano più avanzato di quello che
l’avversario ti propone, questo è l’unico modo dove delle lotte possono avere un
risultato: quando loro ti dicono parliamo dello sgombero, tu dici no, parliamo
di Stellantis e della deindustrializzazione; quando loro ti dicono perchè
continuate a fare opposizione alla linea Tav, parliamo in generale di una
politica dei trasporti, scelte strategiche per un paese”.
Così Sergio Fontegher Bologna, studioso del movimento operaio, ex docente
universitario, esperto di trasporti, attualmente redattore di Officina 1 maggio,
ai microfoni di Radio Onda d’Urto.
Sergio Bologna in un articolo Viva Askasatuna pubblicato su Officina 1 maggio
propone degli elementi di riflessione partendo da questa considerazione: “A
Torino il buon Elkann e soci chiudono il settore automotive e Torino non brucia,
anzi si barcamena, s’attacca alle smentite di Stellantis. Non succede nulla.
Ragazzi buttano all’aria delle carte nella redazione di un giornale. Apriti
cielo!”
Nell’articolo si analizza poi uno dei temi e dei terreni di lotta che fanno
parte dell’identità di Askasatuna, l’opposizione alla linea Tav Torino-Lione.
“In Val di Susa questo nostro paese ha rischiato la guerra civile per imporre
un’opera inutile e oggi minaccia d’infliggere anni e anni di carcere a chi ha
combattuto una battaglia giusta. Per questo gridiamo “Viva Askatasuna”, conclude
l’articolo.
“Il mio tentativo era di porre degli elementi per portare il movimento a
spostare la discussione sempre su un piano più avanzato sul quale è evidente che
abbiamo ragione. Come per i centri sociali che possono aver fatto anche grandi
errori hanno rappresentato in certi momenti vitali della storia italiana un
elemento anche di difesa, quanta gente è stata protetta dalla droga pesante
proprio perchè stava nei centri sociali; i centri sociali sono stati posti dove
l’arte, la musica hanno percorso strade innovative”.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Sergio Bologna. Ascolta o scarica.
di Bolzano antifascista A Bolzano una festa autogestita trasformata in reato
penale: il decreto anti-rave come strumento di criminalizzazione del dissenso e
di consenso politico sulla pelle dei giovani. 41 …
Puntata
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