Genova: armamenti e mezzi cingolati al porto. Procura apre inchiesta, presidio dei portuali
La Procura di Genova ha aperto un fascicolo per atti relativi alla nave Bahri Yanbu, il cargo saudita su cui sono stati trovati armamenti e mezzi militari cingolati. da Radio Onda d’Urto Il fascicolo è in mano al procuratore aggiunto Federico Manotti. Le indagini sono partite dopo che l’Usb ha presentato un esposto ieri sera in cui ipotizza la violazione della legge 185 del 1990 che regola il transito di armi nei porti italiani. Proprio questa mattina c’è stata una nuova protesta del sindacato Usb e dei portuali del Calp contro la presenza e il passaggio di armi nel porto di Genova con il blocco del varco Etiopia e del varco Ponente di mezzi pesanti diretti allo scalo genovese. La protesta nasce dalla scoperta, immortalata da alcune foto scattate dai portuali e diffuse sui social ieri sera , di mezzi militari americani e diversi container carichi di materiali esplosivi a bordo della Bahri Yambu attraccata al terminal Gmt. “Ieri pomeriggio abbiamo presentato immediatamente un esposto – spiega José Nivoi di Usb – a tutte le autorità competenti affinché verificassero la regolarità della documentazione e il rispetto della normativa. Ci è stato detto che le armi non sono destinate a Israele e i documenti sono regolari ma aspettiamo di vedere la documentazione vista soprattutto la storica alleanza tra Usa e Israele”. Il racconto di José Nivoi di Usb
TAV tra milioni, polizia e teatrini: la farsa continua in Prefettura
Mentre si cerca di presentare una Valle pacificata, l’apparato politico-industriale a sostegno dell’opera Tav Torino-Lione si riorganizza attraverso l’ennesimo incontro in Prefettura, volto a rafforzare il controllo poliziesco del territorio e a ottenere nuovi finanziamenti pubblici. Lontano da un reale confronto con le popolazioni locali, lo Stato risponde alla determinazione della resistenza No Tav con risarcimenti alle imprese, indennizzi per chi deturpa i territori e un incremento dei presidi armati in Valsusa. da Notav.info Il Prefetto, i Ministri Salvini (in videoconferenza) e Urso, la Vicepresidente della Regione Chiorino e il Presidente degli Industriali Gay hanno messo in scena un vero e proprio teatrino: gli imprenditori lamentano danni, le istituzioni promettono fondi e maggiore sicurezza, TELT si presenta come vittima, e il Governo rilancia con nuovi espropri e aumenti di personale. La cosiddetta Decisione di Esecuzione dell’UE, che continua a essere presentata come una svolta epocale, altro non è che un documento tecnico che formalizza quanto già in atto, confermando che i lavori si protrarranno per anni, forse decenni. Nessuna opera in via di completamento, dunque. Nessun finanziamento certo. Solo fumo negli occhi. Nel corso dell’incontro del 6 agosto, il direttore generale di TELT, Maurizio Bufalini, ha definito “vili” gli attacchi contro le imprese nei cantieri, sottolineando la necessità di sostenere gli imprenditori danneggiati. Pur non potendo ignorare la retorica usata, rimane evidente come questa narrazione punti a dipingere come vittime chi invece sta portando avanti un’opera imposta e rigettata da trent’anni, dimenticando che il vero soggetto danneggiato è la Valsusa, sottoposta a una vera e propria militarizzazione e devastazione ambientale. Si prevede inoltre un potenziamento delle forze dell’ordine, a conferma che i cantieri, lungi dall’essere “normalizzati”, continuano a essere percepiti come corpi estranei e necessitano di una protezione poliziesca permanente. In un Paese in cui il Governo si rifiuta di investire in sanità, scuola o servizi essenziali, è significativo osservare come invece si trovino fondi e risorse per aumentare la presenza di polizia in Valle, confermando che il Tav non può avanzare senza blindare il territorio e reprimere chi vi si oppone. Le associazioni di categoria piemontesi, in particolare Ance Torino, API Torino, Confapi Piemonte, Ascom Confcommercio, Confindustria Piemonte e Unione Industriali Torino, presenti all’incontro, hanno espresso pieno sostegno alla sicurezza dei cantieri, ponendo l’accento non solo sull’ordine pubblico, ma anche sulla necessità di un contesto operativo stabile e sicuro per garantire “sviluppo e occupazione”. È curioso come “sviluppo” e “sicurezza” vengano intesi qui esclusivamente in chiave di tutela economica e istituzionale delle imprese, ignorando del tutto le comunità locali e l’ambiente devastati dall’opera. Nel frattempo, continua la sottrazione forzata di case, giardini e terre a danno degli abitanti della Valle: terreni espropriati da TELT “nel rispetto delle normative”, ma con una violenza che non lascia dubbi. In questo contesto, si aggiunge anche il tentativo di simulare, dopo quasi trent’anni di lotta, uno “sforzo di patto sociale con il territorio” attraverso incontri pubblici (scarsamente partecipati), organizzati in maniera strategica dai sindaci e da Telt a Susa e Chiomonte, a ridosso della Decisione di Esecuzione dell’UE. Questi appuntamenti hanno avuto un unico obiettivo: presentare il progetto e le sue ricadute come se fossero stati accettati dalle comunità locali, ma in realtà rappresentano un mero teatrino propagandistico volto a legittimare un’opera imposta senza consenso. Nel mentre, si tace sui danni ben più gravi arrecati al territorio, alla salute e alla libertà. La marcia popolare del 27 luglio ha dimostrato ancora una volta che la Valle non è affatto pacificata, riempiendo sentieri e circondando i cantieri. La stessa notte, un attentato incendiario ha colpito il Presidio No Tav di San Didero, senza alcuna parola ufficiale di condanna o notizia sui responsabili. Quando ad essere colpito è il Movimento No Tav strategicamente cala il sipario. E proprio perché la Valle non è pacificata, si attua un’ulteriore manovra di controllo e finanziamento. Non è soltanto lo Stato a trarre vantaggio dal Tav. Alcuni sindaci compiacenti, in particolare quelli di Chiomonte e Susa, hanno beneficiato di ingenti compensazioni, rese possibili anche grazie alla pressione esercitata dal movimento No Tav nei decenni, che ha costretto lo Stato a elargire fondi per evitare un fronte unanime di sindaci contrari. Tali somme, spesso presentate come investimenti sul territorio, sono in realtà compensazioni ottenute sotto ricatto: fondi destinati originariamente a opere di messa in sicurezza, manutenzione ordinaria e servizi di base, vincolati all’accettazione dell’opera. Senza Tav, niente risorse. È così che questi comuni hanno ottenuto compensazioni significative, utilizzate per progetti spesso superflui o ornamentali. Questi finanziamenti consentono oggi a tali amministrazioni di vantare disponibilità economiche che altrimenti non avrebbero avuto. Il modello è chiaro: il Governo concede fondi e protezione politica, TELT agisce da ente clientelare, e alcuni sindaci si trasformano nel suo megafono. Il risultato? Un territorio devastato, popolazioni espropriate, dissenso criminalizzato e comunità impoverite. Si racconta di un’opera “strategica” per l’Europa, ma il vero progetto strategico è altro: criminalizzare la protesta, occupare militarmente un territorio e drenare risorse pubbliche per un’opera inutile, imposta e insostenibile. Chiunque sperasse in una Valle silenziosa si è profondamente sbagliato. Il Festival Alta Felicità partecipato da decine di migliaia di giovani, la marcia popolare di luglio, i blocchi, i presidi e le numerose iniziative testimoniano una volontà che si rinnova ad ogni tentativo di cancellarla: il movimento No Tav è vivo e determinato a non arrendersi.
“Guerra alla guerra”: dopo l’assemblea nazionale in Val di Susa inizia un percorso di mobilitazione sui territori verso e oltre l’8 novembre a Roma
Riportiamo di seguito gli interventi introduttivi dell’assemblea nazionale tenutasi domenica 27 luglio durante il Festival Alta Felicità in modo da sottolineare le caratteristiche del percorso di mobilitazione contro guerra, riarmo e genocidio in Palestina proposto in tale occasione. E’ stato aperto un canale telegram GUERRA alla GUERRA sul quale poter ritrovare il report dell’assemblea e i prossimi appuntamenti. Abbiamo chiamato l’assemblea “Guerra alla guerra”: non vogliamo che sia soltanto uno slogan, ci siamo ispirati a ciò che si sta organizzando al di là delle Alpi, ma anche perché pensiamo che ciò di cui c’è bisogno oggi sia una guerra a un modello che è quello occidentale, imperialista, coloniale, capitalista, patriarcale e che rappresenta un modello di pace contro il quale dobbiamo batterci. Questo momento di assemblea pensiamo sia urgente per stimolare un dibattito collettivo su alcuni aspetti. La prima questione su cui ragionare oggi è su cosa possiamo costruire un’unità che è evocata da più parti per un percorso comune contro il riarmo, contro la guerra e contro il genocidio in Palestina. Non per un senso di unità di per sè, non per costringerci a trovare una sintesi di lettura geopolitica rispetto alla fase che stiamo attraversando, ma a partire da degli obiettivi comuni e ciò che riscontriamo come urgenza è quella di capire quali sono le condizioni che dobbiamo porre per creare un percorso, un movimento, che sia reale e incisivo contro il riarmo, contro la guerra e a sostegno della Palestina. Oggi pensiamo sia interessante chiederci quali siano queste condizioni, noi ne iniziamo a porre sul piatto alcune.  La prima, è quella di ambire a un movimento che sia di massa, che possa offrire un immaginario e una proposta nella quale ci si possa riconoscere, che sia capace di coinvolgere sempre più persone al di là di chi già si mobilita; dobbiamo porci il problema di come si articola la guerra sui nostri territori e nelle nostre vite, quindi concretamente agire per opporsi con tutte le forme e le pratiche possibili; pensiamo anche che il nostro compito oggi, la nostra responsabilità, sia ricostruire fiducia, rapporti sociali reali, laddove dilagano delega, sfiducia, di opportunismo e strumentalità per restituire anche il senso della possibilità e della vittoria; lo abbiamo ripetuto nelle piazze di quest’anno nelle mobilitazioni per la Palestina, ce lo insegna la Palestina, dunque è ora di uscire dalla retorica dello slogan e essere conseguenti, chiarire chi è la nostra controparte, agire collettivamente.  Per fare questo vorremmo tracciare una proposta che condividiamo qui, che vorremmo costruire insieme e che si compone di diversi aspetti. Innanzitutto, avviare percorsi sui territori e dai territori che possano costruire contesti ampi in cui ci sia la possibilità di confronto e attivazione per colpire gli obiettivi presenti su quei territori: dalle fabbriche di armi, alle basi militari, ai progetti bellici in ambito accademico, guardando a esempi virtuosi di chi oggi mette in campo iniziative per bloccare, sabotare la logistica della guerra; in secondo luogo, vogliamo guardare a un momento di mobilitazione nazionale a Roma che abbiamo immaginato per l’8 novembre, per fare si che sia una grande manifestazione nazionale che si ponga il problema di indicare e praticare degli obiettivi precisi che incarnano i nemici comuni. Il nemico è comune per noi, per chi abita nei quartieri popolari, per chi lotta contro una grande opera inutile, per chi resiste qui e altrove nel mondo; tutto questo per poi tornare sui territori perché pensiamo che un percorso come questo debba essere pensato sul lungo periodo e quindi continuare e avere altre tappe, altre possibilità di confronto per costruire effettivamente una forza e allargare e coinvolgere sempre più persone e darsi ulteriori tappe comuni.  Per concludere, quello che ci teniamo a sottolineare è che pensiamo che questo momento non sia risolutivo, non pensiamo di avere la pretesa di vedere questo come l’unico percorso, questa come l’unica data. Sappiamo che ciascuno e ciascuna sta lavorando da mesi, da anni, sul proprio territorio per costruire dei percorsi che vadano in questa direzione. Pensiamo sia necessario però riuscire anche a condividere quelli che sono degli strumenti, delle pratiche, condividere dei percorsi, mettere a disposizione anche le proprie agende, supportare tutte le iniziative che vanno in una direzione effettiva, reale, per andare in un’ottica, in una prospettiva di lungo periodo, per renderci davvero incompatibili rispetto a quello che è il piano di riarmo, di militarizzazione, di guerra della nostra società.  Di seguito l’intervento di apertura di Quarticciolo Ribelle La chiamata che abbiamo provato a fare oggi non è facile ma, come uno degli slogan che abbiamo utilizzato  nelle nostre rotte territoriali a Roma, Quarticciolo, “non è facile ma è necessario”, dobbiamo riunirci per capire cosa possiamo fare in più, che pezzettino in più possiamo fare per contrastare la guerra e soprattutto interrogarci insieme, quale forme darci e come portare avanti una trasformazione ed essere incisivi.  A dirla tutta penso che avremmo dovuto procedere al contrario. Avremmo dovuto innescare prima un processo di partecipazione e poi invitare tutti e tutte alle discussione ma è necessario scendere in piazza, é necessario praticare un obiettivo chiaro e leggibile dove tutti si possono riconoscere, è necessario trovare delle pratiche che possano dare la parvenza alle persone che vi partecipano di poter incidere su qualcosa. In questo senso guerra alla guerra. Avremmo dovuto procedere al contrario perché il nostro obiettivo non siamo noi seduti qui ma sono coloro che non riusciamo a mobilitare nonostante ce ne sia la voglia. In questo senso abbiamo amici dappertutto. A differenza di altre fasi, secondo noi, la maggioranza delle persone è contraria a quello che succede in Palestina, é contro la guerra. A differenza di altri momenti non dobbiamo convincere nessuno e se volete potrebbe essere piu facile. Invece, abbiamo di fronte una sfida quella di trovare le forme giuste, trovare la modalità perché le persone abbiano più fiducia nella politica. Il corteo deve essere una tappa, non solo il corteo che stiamo proponendo qua, ma tutte le proposte che sono state fatte negli scorsi mesi.Lo sforzo invece che dobbiamo fare è di capire come da un’indignazione, che può essere di tipo individuale, si possa passare alla condivisione di pratiche che danno la possibilità a tutti di partecipare per favorire un processo che possa essere incisivo. Io credo che parte della frustrazione che condividiamo derivi da quello che mettiamo in campo che magari non va, ma dobbiamo partire da quelle pratiche e strumenti che dobbiamo mettere in condivisione, dal boicottaggio, al sanzionamento, che possano mettere in difficoltà la controparte che è comune a tutti e tutte. In questo senso c’è una composizione giovanile che in questi mesi ci ha anche aiutato a capire come essere incisivi. Penso alle pratiche di boicottaggio che sono state fatte all’università, queste devono continuare, e ci hanno insegnato come poter incidere, infatti molte facoltà di molte università hanno deciso di stracciare gli accordi con l’Università di Israele. Penso che sia fondamentale che ognuno riesca a fare il suo pezzetto bene e che riesca a parlare ai molti, che si costruisca un processo per cui anche personalità che oggi non hanno un’appartenenza possano trovare un megafono collettivo tramite il quale esprimersi. Penso che ognuno debba continuare a portare avanti le proprie lotte sui territori e trovare delle modalità cittadine per costruire delle pratiche di boicottaggio e di sanzionamento che ci fanno arrivare al corteo avendo costruito delle pratiche comuni contro la guerra. Il senso di quello che facciamo territorialmente ci serve per continuare a stare all’interno di una compagine sociale che non è sicuramente quella giovanile, che trova in Meloni, Trump ecc una risposta alla crisi pensando che quella compagine possa difenderli e rendere le loro vite più sicure, che potranno avere maggiori garanzie difendendo le industrie nazionali, che potranno difenderli dalla concorrenza degli stipendi da fame. Sono territori dove il conflitto e la violenza si dispiega in linea orizzontale e dove i vari dl Caivano servono per dividerci. Oggi come Quarticciolo stiamo ancora lottando contro un modello di società e abbiamo vinto una piccola battaglia sul piano delle periferie, ma non è detto che vinceremo la guerra di questi 3 anni. Pensiamo che ci sia molto da fare e io credo che le lotte territoriali, come anche la nostra, siano in relazione all’economia di guerra, nella logica di guerra. Ciò avviene nella misura in cui c’è una guerra interna che continua ad aumentare le differenze tra chi sta in basso e chi sta in alto, tra chi decide e chi subisce le decisioni. Per costruire una forza e un movimento collettivo vanno quindi continuate e sostenute tutte le esperienze territoriali, dalle università alle scuole, dalle lotte sui territori, contro il modello di sicurezza, in modo da costruire un piano diverso, alternativo, di cosa vorremmo ci fosse nel nostro Paese. Non dobbiamo trascurare l’interrogativo: quale mondo vogliamo? Un primo passo può essere quello di ricominciare ad immaginarselo e questo vuol dire anche ripensare come vogliamo i nostri quartieri popolari, come vogliamo una riconversione industriale non per le armi, e scambiare strumenti in modo da metterli a disposizione per chi già sta sperimentando delle lotte, per dare voce a chi non ha voce.  Queste sono le prospettive e lo spirito con cui partecipiamo a questa assemblea e vogliamo a partire da oggi dare spazio alle lotte territoriali per rappresentare un metodo di lavoro che ci diamo comunemente e che può essere parte della costruzione. Lo sforzo da fare non è unirsi per unirsi ma per dare spazio e energia a quello che ancora deve nascere.  L’assemblea è stata coperta da Radio Blackout, attraverso la trasmissione in diretta dell’iniziativa e da Radio Onda d’Urto. Qui il report dell’assemblea ASSEMBLEA GUERRA ALLA GUERRA domenica 27 luglio FAF 25 -2Download
[2025-11-08] BLASTIVAL VOL.4 @ El Paso Occupato
BLASTIVAL VOL.4 El Paso Occupato - Via Passo Buole, 47, Torino (sabato, 8 novembre 23:00) Amicizia&complicità, lotta&punk hardcore. Concerto versus benefit cassa anti repressione delle alpi occidentali. Più info tra qualche mese.
Evasione impossibile. Le morti silenziose per inalazione di gas in carcere
(disegno di cyop&kaf) Un’altra bomboletta. Un altro corpo. Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza. La libertà non è sempre oltre il muro, a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata. Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza. Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se ne prende un’altra. Tutto tracciato. Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema. L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda. Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio, ma un “evento imprevedibile”. Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose, troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore. E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa, analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare” proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona, non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca. La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono.  In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)
detenzioni
Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere
Qui il pdf: Angiolillo Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere L’8 agosto 1896, nella stazione termale basca di Santa Águeda, il primo ministro spagnolo Antonio Cánovas del Castillo viene ucciso con un colpo di pistola. A sparare è Michele Angiolillo, un anarchico foggiano di venticinque anni. Durante la sua arringa difensiva, il giovane anarchico dichiarerà di aver ucciso Cánovas in quanto personificazione di «ciò che hanno di più ripugnante la ferocia religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un giustiziere!». Il suo riferimento al «mondo intero» non è un’iperbole retorica. Negli stessi anni in cui il primo ministro spagnolo dispiega una feroce repressione interna, culminata nella proclamazione della legge marziale a Barcellona e nelle torture inflitte a centinaia di prigionieri nell’infame fortezza di Montjuïc, i suoi governatori coloniali e i suoi generali rispondono con la strage e con i campi di concentramento (i primi della storia) all’insurrezione cubana e alla sollevazione nelle Filippine. Non a caso il libro che Angiolillo porta con sé, quando parte da Londra con il proposito di giustiziare Cánovas, è Les Inquisiteurs d’Espagne, de Cuba e des Filippines, scritto dall’anarchico creolo cubano Fernando Tarrida del Mármol, anch’egli detenuto a Montjuïc. Nella sua arringa Angiolillo parla esplicitamente, oltre che di Montjuïc, della violenza coloniale a Cuba e nelle Filippine. Sotto il tallone di Crispi Michele Angiolillo era nato a Foggia il 5 giugno 1871 (subito dopo la sanguinosa repressione della Comune di Parigi). Durante gli anni di studio presso un istituto tecnico, diventa un militante repubblicano radicale. Esce dall’esperienza della coscrizione militare con convinzioni anarchiche. In occasione delle elezioni del 1895, pubblica un manifesto contro le «leggi scellerate» promulgate dal primo ministro Crispi. Il Cánovas italiano, subito dopo avare represso nel sangue il moto dei Fasci siciliani e l’insurrezione scoppiata in Lunigiana in solidarietà con i contadini della Sicilia, si prepara all’aggressione imperialista in Abissinia – conclusasi con la disastrosa sconfitta di Adua –, di cui la legislazione d’emergenza è il riflesso sul fronte interno. Per il suo manifesto Angiolillo viene arrestato con l’accusa di «incitazione all’odio di classe». Rilasciato in attesa del processo, il giovane compagno spedisce una lettera al ministro della Giustizia in cui attacca il pubblico ministero, cosa che gli procura una condanna a diciotto mesi di carcere e tre anni di confino. A quel punto Angiolillo parte sotto falso nome e raggiunge Barcellona passando per Marsiglia. Nel capoluogo catalano impara il mestiere di tipografo e partecipa attivamente alle attività del movimento anarchico, all’epoca vero e proprio crocevia cosmopolita. Collabora, tra le altre cose, a «La Ciencia Social» insieme a Tarrida e Ramón Sempau (lo scrittore e poeta bohémien, nonché simpatizzante anarchico, che cercherà di giustiziare il luogotenente Portas, responsabile delle torture a Montjuïc). Dopo l’attentato al Corpus Domini – di cui diremo in seguito –, Angiolillo scampa alla retata organizzata da Cánovas contro centinaia di sovversivi – tra cui Cayetano Oller, compagno dell’anarchico foggiano – e ripara a Marsiglia. Qui viene arrestato per dei documenti falsi e, dopo un mese di carcere, viene espulso in Belgio. Quando la campagna internazionale lanciata da Tarrida contro Cánovas è al suo apice, Angiolillo si trasferisce a Londra, dove ritrova Oller – sottoposto a terribili torture a Montjuïc, rilasciato per mancanza di prove ed espulso dal suo stesso Paese –, e dove partecipa all’imponente manifestazione organizzata dal Commitee on Spanish Atrocities, comitato promosso anche da Tarrida, il quale nell’occasione parla per la delegazione dei rivoluzionari cubani. Durante la manifestazione prende la parola anche l’anarchico francese Charles Malato, che nel suo intervento invoca vendetta per le vittime di Cánovas, tra cui cita lo scrittore filippino José Rizal, assassinato nella colonia spagnola; ma soprattutto salgono sul palco alcuni dei torturati di Montjuïc, i quali mostrano in pubblico i loro corpi mutilati. Qualche tempo dopo, l’anarchico foggiano incontra personalmente Francisco Gana, che portava i segni indelebili delle sevizie subite dagli aguzzini spagnoli. Così descrive la scena, nella sua autobiografia (Nella tormenta), l’anarchico tedesco Rudolf Rocker: Quella notte, quando Gana mostrò le sue membra mutilate e le cicatrici che le torture avevano lasciato su tutto il suo corpo, capimmo che leggere di tali questioni è una cosa, ma sentirne parlare dalle labbra di chi le ha subite è un’altra. […] Eravamo tutti seduti immobili, pietrificati, e trascorsero diversi minuti prima che fossimo in grado di proferire qualche parola di indignazione. Solo Angiolillo rimase in silenzio e, poco dopo, si alzò pronunciando un laconico saluto per poi lasciare l’abitazione. […] Questa fu l’ultima volta che lo vidi. L’ultima volta che lo vide il mondo, fu il 20 agosto 1986, il giorno in cui il giovane anarchico fu garrotato. Non prima di aver urlato al mondo «Germinal!». Dalle segrete di Montjuïc Il 7 giugno 1896, a Barcellona, una bomba esplode durante la processione del Corpus Domini, causando tre morti sul colpo e decine di feriti (nove dei quali moriranno in seguito). Benché non si possa escludere che sia stata un’azione indiscriminata – alla Oberdan, per intenderci – contro l’odiatissima Chiesa spagnola, alleata della monarchia, stampella dei latifondisti e architrave dell’amministrazione coloniale, i sospetti di una provocazione poliziesca perdurano tutt’oggi. Come che sia, Cánovas decreta la legge marziale a Barcellona e fa arrestare più di trecento persone. Meno noto è che la fortezza di Montjuïc diventa – a dispetto dei nuovi inquisitori – un luogo di incontro tra anarchici di vari Paesi, rivoluzionari cubani e deportati filippini. Un esempio emblematico di tale crogiuolo è la condivisione della stessa cella da parte di Ramón Sempau – incarcerato per aver cercato di giustiziare il torturatore Portas – e di Isabelo de los Reyes, già autore del pionieristico El Folk-lore Filipino. Tornato poi a Manila, Isabelo, che aveva conosciuto anche Malatesta, vi porta le prime pubblicazioni anarchiche apparse nelle Filippine, e metterà in campo quello che dice di aver imparato dagli anarchici nell’organizzazione degli scioperi e nella creazione delle prime Unioni Operaie. Quanto a Sempau – esempio di intreccio tra mondo artistico radicale, ideali libertari e propaganda del fatto – sfuggirà alla corte marziale e alla condanna a morte grazie alla campagna internazionale sugli orrori di Montjuïc. Tornanti La condanna a morte di Francisco Ferrer nel 1909, così come il movimento internazionale per impedirla, prolunga questa storia. Non solo perché l’esecuzione avvenne, il 13 ottobre, proprio nella fortezza di Montjuïc. Ma soprattutto perché l’accusa contro Ferrer era quella di aver fomentano la «Settimana tragica», la rivolta proletaria e anarchica per impedire l’invio di coscritti chiamati a sedare l’insurrezione in Marocco. In molte città europee le manifestazioni per Ferrer daranno vita a scontri con la polizia. A Torino, dopo la proclamazione dello sciopero generale, le dimostrazioni assumeranno un carattere quasi insurrezionale nei quartieri di Barriera di Milano e di Borgo San Paolo. Per via del ruolo giocato dai repubblicani e dai democratici nella campagna per Ferrer, quest’ultimo è ricordato come un martire del libero pensiero, come un precursore dell’educazione laica contro l’oscurantismo religioso. Ferrer fu anche questo, certo, ma fu soprattutto un combattente sociale, redattore tra l’altro de «La Huelga general», i cui proclami erano inequivocabili: Viva la Revolución, Viva la dinamita!. In un’epoca in cui soffiano di nuovo i venti di guerra e sull’altra sponda del Mediterraneo il suprematismo occidentale sta consumando un genocidio; in un presente nel quale si moltiplicano attraverso i continenti le odierne «leggi scellerate» contro il dissenso interno, ricordare il gesto di Angiolillo e il suo «Germinal!» significa riattualizzare quell’internazionalismo che è parte integrante della nostra storia. Non siamo piume al vento. (Gli elementi storici alla base di questo testo sono tratti soprattutto dal prezioso Anarchismo e immaginario coloniale, scritto da Benedict Anderson nel 2005 e pubblicato quest’anno da elèuthera)
Approfondimenti
Stato di emergenza
Quelli che benpensano, ovvero della difesa del clan
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: Quelli che benpensano(1) QUELLI CHE BENPENSANO. OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso. Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia, per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate. Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici (anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno brillante che sia. Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso, criticabile da diversi punti di vista. L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere, non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera. Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate, complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni. Postmodernismo? Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del solito. Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento” anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste sotteso è più o meno lo stesso. Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento” anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un capro espiatorio un po’ fuori tempo massimo, a dir la verità). Il sabotatore interno, un po’ come alcuni dicevano appunto del femminismo negli anni ‘70 e fino all’altroieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un po’ più in sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale. I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni parte assediati da essi. Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci informano. Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note come “teorie del complotto”. A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte. Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza” di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove. Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si potrebbe definire persino scientista. Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe mai immaginato dover vedere? Neanche questo… Perché si è tutto sommato intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà quale motivo? Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”, oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”. Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante. Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri? Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti. Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle per non correre il rischio di farsi abbindolare. Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo, s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste, ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo spesso. Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico? Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto, realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente, inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo, l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare. Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente irrilevante? Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza, denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre persone la cui sola idea ripugna. Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti. Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore e non piuttosto l’aggredita. Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire. Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista… A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella pratica non si sa che farsene. Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice. Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale. Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna sempre al punto di partenza. Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti – svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi, troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non siano poi così gravi, questi episodi. Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare. Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”. Banalità di base (I) Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo, antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione. Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate. Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero insieme, è miserevole. A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della federazione anarchica italiana. Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe, per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un altro discorso. Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel che resta non portare effettivamente da nessuna parte. Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica – ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un poveraccio, sia a livello politico, che umano. Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati, c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra quotidianità ripetendo concetti molto simili per mezzo di ogni tipo mass media. Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima considerazione. Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito, plenarie sindacali o conclavi? Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi tipo? Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in modo netto, è diventato autoritario? Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto. Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere, indirizzo, controllo.. Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non autonomia di pensiero e azione. Quale classe, quale lotta Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine (per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata” per motivi che proverò a chiarire più avanti. Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico. Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della violenza. Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta “accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come “caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente; colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie europee nel continente americano. Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici. Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai. I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”. Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non lo intravedono ancora. Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era di libertà per tutti/e? Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di “classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio. L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma. Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per tutti/e. A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – sfruttata ci si riferisce esattamente? Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare tutti/e parte di una classe sfruttata. Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico, no. Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della propria posizione, in opposizione, a questi. Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece di complici del proprio sfruttamento? Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo. Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori, desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più. Non sempre e non dappertutto, certamente. Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un po’ di mesi in qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le tensioni, il quadro esistenziale di riferimento. Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”. Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso? Forse. La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre, estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione, volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, come in molti/e peraltro fanno? Secondo me sì. Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare dalla propria condizione di sottomissione. A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti guardare? Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa, rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una volta all’anno. I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o europeo/a e con questi/e quasi mai si organizzano. I “dannati/e” sono quelli che affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera. Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città. Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e. Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro “integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o durante un controllo di polizia. Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi. Banalità di base (II) Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (che talvolta, peraltro, assumono solo un carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e. Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni, spesso non si ravvisa molto altro degno di nota. Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le “battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche. La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà, isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra. Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità – acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto che essa sia condivisa. Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche, spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili. Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo. Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile. È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere la nostra energia e il nostro impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni. Non mandrie, ma gruppi di affini. Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si occupi di quelle. Un anarchico
Approfondimenti
La «Bahri Yanbu» è nel porto di Genova con il suo carico di morte
COMUNICATO STAMPA (7 agosto 2025) L’osservatorio Weapon Watch esprime piena solidarietà ai lavoratori del porto di Genova e alle loro organizzazioni sindacali, che hanno organizzato la protesta – l’ennesima – contro l’arrivo di una nave della compagnia marittima saudita Bahri, come al solito carica di armi ed esplosivi. In questa occasione, la nave doveva imbarcare anche cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi, giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT. Le ragioni della protesta sono molte e serie. Per quello che riguarda i sistemi d’arma di produzione italiana destinati agli Emirati Arabi Uniti, ricordiamo ciò che abbiamo scritto sul nostro sito web e sulla pagina FB, cioè che la Legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi a paesi che non rispondono a una serie di criteri stringenti, tra cui quello di non essere in stato di guerra, e di non utilizzare la guerra per risolvere le controversie internazionali (gli Emirati hanno partecipato alla guerra contro lo Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso). Gli Emirati Arabi Uniti nel 2025 sono al 119° posto (su 167 paesi) del Democracy Index della rivista «the Economist», inseriti tra i paesi autoritari privi di sistema elettorale e con scarsissime libertà civili. Lo stesso vale per il transito di materiale militare non prodotto in Italia e nell’Unione Europea. La «Bahri Yanbu» toccherà nel suo viaggio porti in Egitto e Arabia Saudita, paesi ancora più autoritari degli Emirati, per proseguire poi nell’oceano Indiano e il Far East. Non abbiamo garanzie circa circa il destinatario finale e l’impiego del materiale militare trasportato. Mezzi anfibi a bordo della «Yanbu», Genova 7 agosto 2025. Oltre ai cannoni di Leonardo, la «Yanbu» trasporta un ingente carico di blindati, carri armati e munizioni di fabbricazione statunitense, in particolare mezzi anfibi da sbarco del tipo AAV-7 tipicamente usati dai marines, che non ci risulta siano in dotazione nei paesi arabi. Il carico sembra preludere a un’operazione militare dal mare di grandi dimensioni. Motivo di allarme, poi, sono i molti container che trasportano dangerous goods della classe 1.1, cioè la classe più pericolosa, in sostanza esplosivi con rischio di esplosione di massa. I containe con esplosivi (classe 1.1) a bordo della «Yanbu». La nave saudita accerchiata dalla bettolina «Brezzamare» e dalla chimichiera «Imera», oggi a Genova, tra POnte Eritrea e Ponte Somalia. Oggi (7 agosto 2025) a fianco della «Yanbu» carica di esplosivo ha sostato la bettolina-cisterna «Brezzamare», che ha rifornito di nafta la multipurpose «Coe Luisa», mentre pochi metri più in là era ormeggiata la chimichiera maltese «Imera» da 9.000 tonnellate: un ‘ingorgo’ altamente pericoloso a pochi passi dai container carichi di esplosivi posizionati sul ponte della «Yanbu». Abbiamo già sollevato in passato il problema della gestione del rischio di esplosione, in occasione delle visite delle navi Bahri al molo Eritrea (https://www.weaponwatch.net/2020/02/03/esplosivi-in-porto-siamo-sicuri/ ). Le navi saudite cariche di munizioni ed esplosivi stazionano a 450 m dalle prime case di Sampierdarena alle spalle del porto, e nel raggio di mille metri si trovano consistenti depositi petroliferi e chimici. Per dare un quadro dei rischi che lavoratori e cittadini hanno corso e corrono ogni volta che gli esplosivi militari entrano in porto, ricordiamo che l’esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2023 ha demolito ogni fabbricato nel raggio di mezzo miglio, pari a 800 metri, e che le vittime si sono registrate nel raggio di un miglio (1600 m). Finora non abbiamo mai ricevuto sul tema della resistenza alcuna risposta dalle autorità interessate. Nel giugno 2023 c’è stato un incontro informativo con il Consiglio comunale di Genova, poi rimasto lettera morta. Ci conforta che in occasione dell’odierna protesta le organizzazioni sindacali abbiano ripreso il tema della sicurezza portuale e che abbiano ottenuto dall’Autorità di Sistema portuale del mar Ligure occidentale la proposta di avviare un osservatorio sul traffico delle armi in porto, nello sforzo di garantire trasparenza e prevenzione dei rischi nel rispetto delle normative e della Legge 185/1990. L’iniziativa dei lavoratori di Genova può essere di stimolo per altre città portuali italiane coinvolte in un traffico di armi sempre più intenso.
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