Da Marsiglia a Genova, i blocchi al traffico di armi verso i paesi in guerra,
come Israele, ricordano non solo che la guerra orienta sempre di più qualsiasi
scelta dei governi ben oltre la produzione, ma anche che la logistica ha dei
punti deboli, intorno a cui possono emergere esperienze d’intelligenza popolare
di cui abbiamo molto bisogno in questo tempo
di Stefano Rota da Comune-info
Sabato 7 giugno, c’è stata a Genova un’importante manifestazione organizzata dal
CALP (Collettivo Autonomo dei Lavoratori del Porto), con il blocco del varco di
Ponte Etiopia e un breve corteo nell’area portuale, con alcune centinaia di
partecipanti. La motivazione è quella di cui il CALP ha fatto una bandiera e
persegue con convinzione da anni: il blocco al traffico di armi verso i paesi in
guerra, in questo caso Israele. Vale la pena precisarlo, perché nel 2019 la
stessa azione ha avuto come obiettivo un’altra guerra. In quel caso il carico
era destinato all’Arabia Saudita, impegnata a massacrare la popolazione Huti
dello Yemen del Sud.
La collaborazione con i portuali organizzati di altre città è un punto di forza
di questa lotta. La nave della compagnia israeliana ZIM sarebbe dovuta arrivare
a Genova con un carico di quattro containers pieni di materiale bellico da
Marsiglia e destinata a Israele, ma i portuali di quella città si sono rifiutati
di caricarli. La nave è così arrivata a Genova con un giorno di ritardo rispetto
al previsto e senza il famigerato carico di morte. Tutto questo era già a
conoscenza del CALP e l’informazione era stata condivisa il giorno precedente in
una affollata assemblea a Music For Peace. Nonostante questo, si è deciso di
proseguire con la manifestazione in programma per sabato (personalmente, la
considero una scelta sacrosanta).
Provando a vedere le cose al di là del singolo evento, va ribadito un punto
fondamentale che ha a che vedere con la crescente forza strategica della
logistica e della finanza nei processi globali di creazione di valore. La
logistica ha dei punti deboli nella catena di approvvigionamento su scala
mondiale (ne ha anche la finanza, ma sono di altra natura). Sono quelli in cui
una forza organizzata riesce a bloccare temporaneamente o rendere problematico
il fluire di merci. Questo vale per i porti, per Amazon, per gli Steamers
americani. Mettersi con i propri corpi in quegli snodi, con il blocco di un
varco o il picchetto all’entrata di un magazzino, significa mettere in evidenza
la (parziale) vulnerabilità della supply chain, costringere a cambiamenti di
rotta marittima o autostradale le corporations che gestiscono quelle catene.
Viene in mente una domanda che ha fatto Foucault nel corso di due interviste
nella seconda metà degli anni Settanta: “Quando parliamo di lotta di classe, di
che lotta stiamo parlando?” Di queste azioni, non c’è dubbio.
Ciò che è accaduto nel porto di Genova ha una strettissima relazione con tutto
questo, ma con un valore aggiunto, anzi due. Il primo è quello già ricordato
della stretta collaborazione con i lavoratori di altri porti, che crea un
effetto moltiplicatore del danno prodotto dalla lotta. Il secondo è la forza
d’attrazione che il CALP riesce a emanare, producendo una variegata
partecipazione alle proprie iniziative. Rappresenta a Genova un punto di
riferimento importante, funziona come elemento attorno a cui si articolano altri
soggetti. Questo anche perché il CALP sa porsi non solo come collettivo di
lavoratori, ma come collettivo politico, nel senso più preciso del termine. La
lotta che conduce il CALP su questo fronte è una lotta che contribuisce a
definire, nel suo articolarsi con altre forze, l’essere di un soggetto politico
collettivo.
Da anni ormai, come ribadiscono con chiarezza sia Sandro Mezzadra, sia Maurizio
Lazzarato, la guerra è alla base del modello governamentale, quindi ben oltre
quello produttivo, che sta definendo il nuovo assetto globale. Le strategie
continentali, oltre che nazionali (il piano Von Der Layer da 800 mld, e il
processo di riarmo della Germania, ad esempio) stanno disegnando nuovi rapporti
ed equilibri, nuove priorità nella destinazione di risorse e di potere
decisionale. La finanza e la logistica (non dimentichiamoci che quest’ultima ha
una impostazione organizzativa che deriva dal modello bellico) divengono sempre
più strategiche nella costruzione di quel nuovo ordine. I grandi centri
d’investimento che muovono migliaia di trilioni di dollari hanno già scelto su
cosa puntare, come dimostrano le crescite vertiginose del valore delle grandi
multinazionali degli armamenti.
Senza sminuire il valore, che non può essere altro che simbolico, delle
manifestazioni in cui ci sdraia in piazza nei sudari, dell’esibizione di
gigantesche bandiere palestinesi negli stadi (non prendo neanche in
considerazione le ipocrite dichiarazioni di politici che, dopo oltre 50.000
morti, affermano che si sta passando il segno!), l’iniziativa del CALP e dei
lavoratori di altri porti assume una tonalità diversa. È una manifestazione
d’intelligenza operaia, popolare, che dimostra di aver capito bene dove si deve
intervenire se si vuole produrre un sia pur parziale ostacolo. Ma è soprattutto
un progetto politico che si manifesta in uno spazio pubblico (in questo caso del
porto, pubblico-privato), dove al danno materiale si somma la manifestazione
della “alleanza dei corpi” attorno a una lettura del mondo, dove si produce
senso vero di quale sia oggi l’agire politico.
Un caro amico e grande esperto di traffici marittimi-portuali, nonché
sostenitore della prima ora del CALP, con cui eravamo insieme alla
manifestazione (Riccardo degli Innocenti), mi ha detto indicando una nave che
caricava centinaia di container della ZIM: “Chi lo sa cosa può contenere
realmente anche solo il 2% di quei container?” Ha ragione, chiaro. Lui più di me
sa bene come possa essere facile aggirare i controlli.
Oltre a correre il rischio di divenire oggetto d’interesse delle nuove norme del
DDL Sicurezza, chi organizza e chi partecipa a queste forme di lotta sa bene
quali siano i loro limiti. L’estensione del fronte ad altri soggetti, anche di
categorie differenti, può consentire una maggiore efficacia di quelle lotte,
aggiungendo informazioni che consentano di mappare con maggior chiarezza i nodi
della rete logistica che devono essere presidiati. Informazioni, intelligenze,
reti e logistica: del resto, il nemico va affrontato e combattuto sul suo
terreno.
> Vittoria dei portuali di Marsiglia e Genova. Rimaste a terra le
> mitragliatrici, la nave cargo diretta a Israele viaggia vuota
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Questo pomeriggio nel capoluogo lombardo si torna in Piazza in solidarietà alla
Palestina: alle 14:30 da Porta Venezia partirà un corteo per chiedere la fine
degli accordi militari tra Italia e Israele.
La manifestazione si inserisce in un clima di crescente mobilitazione, sia a
livello locale che internazionale, a sostegno del popolo palestinese e contro il
coinvolgimento italiano nella filiera bellica.
La presentazione della manifestazione con Sagia dei Giovani Palestinesi
d’Italia. Ascolta o scarica,
ORE 15.40: La polizia ha circondato i manifestanti al concentramento in porta
Venezia, impedendo alla manifestazione di partire con la scusa di non avere
abbastanza agenti per garantire la “sicurezza” del corteo.
“Noi, però, siamo circondati da uomini e blindati”, denunciano i Giovani
Palestinesi d’Italia, l’Unione Democratica Arabo Palestinese e Udap e la
Comunita Palestinese Lombarda, le realtà promotrici.
Il collegamento di Radio Onda d’Urto dalla piazza con Sagia dei Giovani
Palestinesi d’Italia. Ascolta o scarica.
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Non si è prestata sufficiente attenzione ad una notizia che sta circolando negli
ultimi giorni da diverse fonti: Israele starebbe fornendo armi ad una banda
criminale legata all’Isis all’interno della Striscia di Gaza.
La gang capeggiata da Yasser Abu Shabab avrebbe stabilito una base fortificata
in una zona di Rafah controllata dall’esercito israeliano. Abu Shabab è noto per
i suoi legami con l’ISIS. La sua banda criminale sarebbe coinvolta nel
saccheggio di aiuti sotto la protezione di Israele. L’anno scorso, The New Arab
ha riferito che Abu Shabab, tra gli altri, lavorava insieme a centinaia di
criminali sotto la protezione delle forze di occupazione israeliane vicino al
valico di Kerem Shalom, il principale punto di ingresso per i convogli di aiuti.
Proviene dalla tribù beduina dei Tarabin, che si estende dal Sinai al sud di
Gaza e al deserto del Negev, ed è stato identificato in una nota delle Nazioni
Unite come “la principale figura influente dietro il saccheggio diffuso e
organizzato” dei convogli di aiuti a Gaza. Adesso la sua gang si presenterebbe
come una forza di sicurezza che afferma di proteggere la limitata assistenza
umanitaria che entra nella Striscia con tanto di uniformi e armi da guerra.
L’opposizione israeliana ha denunciato alcuni giorni fa che il governo sionista
sta fornendo armi e finanziamenti alla gang di Abu Shabab con l’obiettivo di
creare una milizia da opporre ad Hamas all’interno della Striscia. Israele non è
nuovo ad operazioni di questo genere: già Hamas a suo tempo aveva goduto di
finanziamenti israeliani transitati attraverso il Qatar. La logica di Israele
era quella di sostenere segretamente il principale competitor dell’OLP e di
Fatah all’interno della politica palestinese per sabotare la leadership del
tempo. Un’evoluzione di quanto gli USA avevano applicato in Afghanistan durante
l’invasione russa, con flussi di denari ed armi verso i talebani, ma con alcuni
elementi di novità. Per Israele non si trattava di finanziare una resistenza
autoctona (qualunque essa fosse) contro un nemico esterno, ma di impedire che il
popolo palestinese fosse rappresentato da un quadro politico unitario e che le
lotte interne alla resistenza indebolissero la sua capacità di opporsi alla
colonizzazione ed al regime di apartheid.
L’operazione ha funzionato per un certo tempo: le lotte intestine alla politica
palestinese, il progressivo allontanamento tra la Cisgiordania amministrata da
Fatah e la Striscia di Gaza controllata da Hamas, le divisioni sugli accordi di
Oslo e la conseguente semplicità con cui Israele ha potuto disattenderli
completamente senza una risposta interna ed internazionale, la progressiva
mutazione dell’ANP in una burocrazia corrotta e complice dell’occupazione; tutti
questi elementi hanno garantito a Israele di portare avanti pressoché nel
silenzio la sua lunga campagna di pulizia etnica e disciplinamento biopolitico
nei confronti del popolo palestinese.
Ma il governo israeliano non aveva considerato due elementi fondamentali: in
primo luogo Hamas non era semplicemente un partito islamista, ma come chiarisce
Paola Caridi nel suo libro a fianco del revival religioso ad essere centrale era
il nazionalismo palestinese, in molti casi più importante della cornice
religiosa in cui era collocato. Inoltre molti militanti di Hamas venivano da
altre formazioni della resistenza palestinese da cui erano rimasti delusi,
portando con sé il proprio bagaglio di esperienze e visioni. In secondo luogo
Israele ha sottovalutato un aspetto fondamentale: a prescindere dalle “forme
esplicite” che prende un movimento come quello generale della resistenza
palestinese, le “forme implicite” si continuano a muovere sotterranee
condizionando quelle “esplicite” esistenti o/e generandone di nuove alle date
condizioni oggettive e soggettive in cui il movimento si trova a muoversi. Non a
caso Hamas si è sempre preoccupata di curare la dialettica tra il ceto politico,
l’organizzazione e la popolazione palestinese più in generale consapevole della
parabola delle formazioni precedenti. Ancora Paola Caridi sottolinea il
cambiamento di lessico nel percorso politico di Hamas, dove da una prevalenza
dei temi religiosi si è passato via via a l’utilizzo più frequente di categorie,
come quella del colonialismo, dell’occupazione e del sionismo tipiche del
nazionalismo palestinese. Hamas è stata in un certo grado un veicolo in cui si è
coagulata in forme esplicite differenti a seconda delle diverse fasi una parte
consistente del programma palestinese contro l’occupazione. Non è possibile ad
oggi capire quale sarà il destino di Hamas, e se ci sarà, ma ciò che pare certo
è che la resistenza palestinese troverà nuove forme, nuovi lessici, nuove
prospettive che si tradurranno in forme storiche nuove o vecchie, ma sicuramente
differenti rispetto alla fase precedente.
Il finanziamento alla gang di Abu Shabab, anche se apparentemente può ricordare
quanto accaduto con Hamas, è qualcosa di radicalmente differente. Questa
formazione appartiene alla tradizione degli accaparratori, quel mefitico
fenomeno che durante i periodi di guerra attraverso la violenza e il controllo
armato estrae profitto dalla rapina e dall’accumulo di risorse che dovrebbero
essere destinate alla popolazione assediata. E’ tra le più vomitevoli forme di
accumulazione che per sua natura è immediatamente “contro” il proprio popolo.
L’obiettivo di Israele nel sostegno a questa gang è quello di rompere la
solidarietà di una popolazione assediata e imporre una rigida gerarchia della
fame che conduca i palestinesi di Gaza ad un individualismo armato e ad una
lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza. L’altra evidenza che emerge
ancora una volta è che l’Isis e le formazioni ad esso associate sono di fatto
una pedina degli USA ed Israele in ogni scenario in cui si trovano. Un “partito
dell’ordine” che si basa sulla sopraffazione, la rapina e la violenza utilizzato
per spargere kaos e divisione nella regione. Che si tratti della Siria,
dell’Iraq o della Palestina la loro funzione è quella di rompere ogni vincolo
solidale ed impedire ogni itinerario di emancipazione imponendo la legge del più
forte con il beneplacito dei propri padrini, che a tempo debito li molleranno
per riprendere il controllo. Le forme esplicite del Califfato, della minaccia
all’Occidente non sono altro che uno specchietto per le allodole, di cui da
tempo sono consapevoli in molti nei territori dove si muovono queste formazioni.
La gang di Abu Shabab così come le altre bande associate all’Isis sono delle
forze controrivoluzionarie. Per questi motivi è fondamentale osservare i
fenomeni non solo nelle loro forme esplicite, ma nei loro contenuti impliciti,
nei rapporti materiali che li sostengono.
Infine, se ce ne fosse bisogno, la complicità di questa gang con Israele si
inserisce nella tradizione dei sistemi coloniali, dove, secondo determinati
interessi di classe, una parte della popolazione viene cooptata dall’occupante
per porsi a garanzia della continuità delle gerarchie coloniali. Abu Shabab o
chi per lui nella visione israeliana si candida ad essere l’interlocutore che
una volta ripulito potrà rappresentare a favore di telecamera il volto
“dialogante” della politica palestinese.
A marzo Trump ha chiesto a tutte le amministrazioni di far confluire i dati in
loro possesso in un unico calderone da affidare all’analisi degli specialisti
informatici di Palantir, la società di Peter Thiel, compagno di strada di Musk.
Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati
biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle
comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.
Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.
a cura di Salvatore Palidda
Mentre cerca limitare i danni degli assalti di Elon Musk, il best buddy
diventato toro scatenato che gli imputa di somministrare agli americani un
bilancio da bancarotta, Donald Trump finisce sotto accusa anche per sospetti da
«grande fratello» orwelliano: l’uso dell’enorme volume di dati sui cittadini in
possesso o reperibili dal governo (fiscali, previdenziali, sanitari, scolastici,
ma anche creditizi) per costruire profili di ogni individuo. A marzo Trump ha
emesso un poco notato ordine esecutivi presidenziale: ha chiesto a tutte le
amministrazioni di far confluire i dati in loro possesso in un unico calderone
da affidare all’analisi degli specialisti informatici di Palantir, la società di
Peter Thiel, compagno di strada di Musk. Questa impresa analizza e classifica
dati segretissimi per conto del Pentagono e dei servizi di intelligence di mezzo
mondo.
La Casa Bianca non ha mai parlato di questo limitandosi a dire che l’ordine
impartito da Trump a ministeri e agenzie punta a migliorare le procedure
amministrative. Gli esperti considerano, invece, pericolosissima questa
concentrazione di informazioni: possibili abusi per creare sistemi di
sorveglianza dei cittadini in stile cinese, magari da utilizzare contro gli
avversari politici. E si rischia anche una diffusa perdita di fiducia: molti,
sospettando il peggio, potrebbero smettere di fornire i loro dati personali (o
fornirli alterati).
Che i pericoli ci siano lo sostengono anche una dozzina di dipendenti che hanno
lasciato Palantir denunciando ordini interni che espongono i risultati del loro
lavoro analitico al rischio di abusi dell’autorità politica. Rischi che hanno
già spinto le organizzazioni per i diritti civili a chiedere ai giudici di
bloccare questa «raccolta a strascico» di dati. Ora cominciano a ribellarsi
anche gruppi MAGA con un credo libertario: hanno seguito Trump condividendo la
sua lotta contro il deep state, ma ora si chiedono cosa ci sia di più deep, di
una schedatura elettronica di massa. Dopo Musk, dunque, anche Thiel lambito
dalla bufera. Fin qui ha solo seguito le direttive di Trump, dopo che è stato
proprio il Doge di Elon ad aprire la strada a Palantir. Ma ora, con Musk fuori
dal governo e il Doge in ritirata, i riflettori si accendono anche su di lui: il
vero architetto dell’adesione al trumpismo del mondo tecnologico orientato a
destra.
Gli Stati Uniti diventano uno stato di tecno-sorveglianza di massa
Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati
biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle
comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.
Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.
“La sorveglianza negli Stati Uniti non è iniziata con Trump, né finirà quando
lascerà la Casa Bianca. Le fondamenta dell’attuale stato di tecno-sorveglianza
sono state gettate nel corso di decenni, con il sostegno bipartisan a politiche
che hanno normalizzato le pratiche invasive nelle forze dell’ordine,
nell’esercito e nel controllo delle frontiere” (lo dice un militante per i
diritti civili del Bahrein Esra’a Al Shafei, che da anni studia questo problema,
in una conversazione con El País).
“Questo sistema è alimentato da grandi budget assegnati alle agenzie di
intelligence e a fornitori privati, con il pretesto della sicurezza nazionale e
della prevenzione del crimine”. Aziende come Palantir, Anduril e GEO Group
stanno fornendo a Washington gli strumenti digitali per costruire questa intera
infrastruttura di sorveglianza.
Trump continua ad aggiungere strati a questo sistema. Il Dipartimento di
Sicurezza Nazionale […] ha confermato ad aprile che sta utilizzando uno
strumento chiamato Babel X per raccogliere informazioni sui social media dei
viaggiatori che potrebbero essere soggetti a una maggiore sorveglianza, secondo
quanto dichiarato dalla stessa agenzia.
L’Immigration and Customs Enforcement (ICE), da parte sua, ha ammesso di
utilizzare un altro programma, SocialNet, che aggrega dati da oltre 200 fonti,
tra cui Facebook, Twitter/X, Instagram, LinkedIn e app di incontri.
Washington riconosce ufficialmente che la semplice ricerca di “attività
antisemite” sui feed, come la protesta per il massacro di Gaza, è sufficiente
alle autorità per negare l’asilo o la cittadinanza.
I social media sono solo la superficie. Per alimentare questa macchina
automatizzata per rintracciare i sospetti, sono necessari dati di qualità sui
cittadini. Alcune di queste informazioni vengono ottenute acquistandole da
grandi broker di dati, come Thomson Reuters o Lexis Nexis, che creano profili
esaustivi di milioni di persone, utilizzando fino a 10.000 tipi di dati su ogni
individuo in base alle sue tracce online.
Si va dal nome, all’indirizzo, al livello di reddito o al luogo in cui si fa la
spesa, alle attività preferite per il tempo libero, all’età in cui gli amici si
sono sposati, alla storia sessuale e al profilo emotivo: tutte queste
informazioni sono disponibili.
Ma l’altra parte di questo vasto archivio di dati viene distillata all’interno
del governo federale stesso. Si tratta di uno dei progetti più importanti di
Trump e, finora, del suo consigliere di punta, Elon Musk: il Department of
Government Efficiency (DOGE), guidato dallo stesso Musk, che per mesi ha
raccolto da altre agenzie federali dati ufficiali sensibili su centinaia di
milioni di cittadini, dalla situazione fiscale alle cartelle cliniche. Alcuni
osservatori avvertono che questi dati potrebbero essere presi da Musk ora che ha
deciso di lasciare la Casa Bianca.
I dati raccolti dal DOGE vengono utilizzati da Palantir, che ha contratti con
l’amministrazione per oltre 2,7 miliardi di dollari, per costruire una nuova
piattaforma di deportazione per l’Immigration and Customs Enforcement,
ImmigrationOS. Secondo la sintesi del contratto, che specifica che il primo
prototipo dovrebbe essere pronto entro settembre, i dati serviranno a
“supportare un’analisi completa delle popolazioni target” e a contribuire al
sistema di tracciamento individuale.
I tentacoli dello Stato di sorveglianza tecnologica sono molto estesi. Elabora
dati, ma ha anche occhi ovunque. “L’infrastruttura comprende strumenti come i
droni di sorveglianza con riconoscimento facciale, la raccolta di dati
biometrici, i lettori di targhe, le torri di guardia dotate di telecamere ad
alta risoluzione e sensori, gli strumenti di polizia predittiva e la
localizzazione, solo per citarne alcuni”, afferma Al Shafei, fondatore di
Surveillance Watch, un archivio di fama internazionale di informazioni sulle
aziende coinvolte nel business e sugli obiettivi noti.
Negli ultimi mesi, il DHS ha acquistato diverse licenze per software utilizzati
per spiare i telefoni cellulari da Cellebrite, Paragon Solutions, Venntel e NSO
Group, gli sviluppatori del software spia Pegasus, secondo i dati raccolti da
Just Futures Law.
Questa tecnologia viene utilizzata per accedere ai dispositivi e vedere tutto
ciò che vi accade, ma esistono anche altri strumenti per tracciare la posizione
dei cellulari. Un’inchiesta della rivista Time ha mostrato che le donne che
attraversano i confini dello Stato e si avvicinano alle cliniche abortive per
interrompere le gravidanze sono state identificate in questo modo senza un
mandato.
Nessuno ignora le implicazioni della macchina che Trump sta lucidando e oliando.
Un rapporto preparato da diverse ONG per le Nazioni Unite parla di “evaporazione
dei diritti umani” in riferimento a quanto sta accadendo alle frontiere
terrestri degli Stati Uniti.
“Un rapporto più stretto tra il governo e le società di sorveglianza, unito a
un’intensificazione della sorveglianza negli Stati Uniti, rappresenta una
minaccia reale per i diritti e le libertà fondamentali”, afferma Michael De
Dora, ricercatore specializzato in politica statunitense presso l’organizzazione
per i diritti digitali Access Now.
“L’amministrazione Trump attribuisce alla sicurezza nazionale un valore
superiore a quello dei diritti umani e della privacy, o addirittura a spese di
questi. I membri della sua amministrazione non solo sorvegliano le persone, ma
hanno persino discusso la sospensione di principi democratici fondamentali, come
l’habeas corpus”.
L’Europa non è immune da quanto sta accadendo negli Stati Uniti: “Agenzie come
Frontex ed Europol stanno investendo in database biometrici, riconoscimento
facciale e strumenti di monitoraggio basati sull’intelligenza artificiale che
ricordano da vicino i sistemi già in vigore negli Stati Uniti” (cf. Aljosa
Ajanovic, analista dell’European Digital Rights Institute -EDRi).
Negli Stati Uniti, molti osservatori ritengono che sia molto difficile limitare
l’applicazione di tutti questi controlli tecnologici sugli stranieri. Nemmeno i
più convinti trumpisti, ritiene De Dora, dovrebbero sostenere il dispiegamento
dello Stato di tecno-sorveglianza. “Una volta che questo macchinario è accettato
e operativo, può essere usato contro chiunque”.
(fonti: Massimo Gaggi | 5 giugno 2025
https://www.corriere.it/opinioni/25_giugno_05/trump-e-il-fantasma-del-grande-fratello-49831f2e-b292-4913-aa84-7f2753176xlk.shtml,
Manuel G. Pascual per elpais.com/ e Aljosa Ajanovic, analista dell’European
Digital Rights Institute -EDRi)
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Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di
Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14
tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori
israeliani su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa.
La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa
sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo
ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la
Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb.
Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb
Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al
varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave.
L’aggiornamento con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di
Genova e di Usb. Ascolta o scarica.
da Radio Onda d’Urto
Mentre generalmente in India le popolazioni originarie (adivasi) subiscono
l’oppressione e le deportazioni governative, in Assam – pare – si vorrebbe
armarle in una prospettiva settaria (divide et impera)
di Gianni Sartori
Ancora nel 2010 la Corte suprema dell’India emetteva un ordine di espulsione nei
confronti di circa 8 milioni di persone. Mentre il governo di Narendra Modi
(Bharatiya Janata Party – Bjp) tentava di far adottare emendamenti e leggi per
consentire ai rangers (in pratica, eufemismi a parte) di aprire il fuoco contro
gli indigeni (adivasi) nelle aree forestali. Svuotando a livello legislativo il
Forest Rights Act. Mentre la creazione di un registro nazionale dei cittadini e
una legislazione discriminatoria (sempre in pratica) in campo religioso,
rischiava di trasformare gli Adivasi in “apolidi” in casa loro.
Qualche anno fa alcune Ong attive in difesa dei popoli indigeni paventavano che
dalla vicinanza politico- economica tra India e Brasile (entrambi esponenti di
spicco dei Brics) e dalla sostanziale affinità ideologica tra Bolsonaro e Modi
(in particolare sulla questione “nativi”) potessero sortire conseguenze
disastrose per i popoli indigeni. Ora, grazie a Dio, Bolsonaro non governa più e
– anche se non priva di ombre e contraddizioni – la politica di Lula in materia
di Indios è perlomeno il “meno peggio” rispetto al suo predecessore. Invece per
l’India, con Modi ancora in sella, non sembra essere cambiato niente. Anzi.
Perfino la sacrosanta difesa delle ultime tigripuò diventare il pretesto per
deportare le popolazione autoctone.
Vedi https://rivistaetnie.com/india-salvare-le-tigri-o-gli-adivasi-139370/
Ma – come per l’indipendentismo (v.
https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/)
anche qui talvolta si applica la “geometria variabile.
Sembrerebbe questo il caso dell’Assam (stato nord-orientale dell’India) dove il
governo locale (e in particolare il ministro dell’interno Himanta Biswa Sarma,
del Bjp) ha ventilato la possibilità di concedere solo ai nativi il porto d’armi
(“licenze per armi da fuoco alle popolazioni indigene in aree vulnerabili”).
Ufficialmente per autodifesa, per ragioni di sicurezza
Per l’opposizione invece si tratterebbe di una misura settaria su base etnicache
porterebbe alla formazione di vere e proprie milizie settarie. Esasperando
ulteriormente le tensioni già esistenti con la popolazione musulmana. Come sta
già avvenendo nello stato confinante di Manipur dove periodicamente esplodono
conflitti armati tratra Kuki e Meitei.
Anche perché (come denunciava The Wire) Sarma non sarebbe nuovo a queste
operazioni. Già quando era un esponente dell’opposizione con il Congress) aveva
tentato di utilizzare i conflitti etnici tra autoctoni assamesie coloro che –
talvolta impropriamente – vengono definiti “migranti bengalesi” (provenienti dal
Bangladesh e in gran parte di religione islamica).
Ma pensando alla propria carriera politica, per ottenere i voti delle comunità
indigene.
Oggi evidentemente ci riprova, utilizzando la medesima retorica, da membro del
Bjp. Non tanto – si presume – per rispetto della cultura e identità tribale, ma
prosaicamente in vista delle elezioni del 2026.
Giustificando tale “concessione selettiva” in quanto “la gente si sente
indifesa, e spesso i centri di polizia più vicini sono troppo lontani”.
Non casualmente i cinque specifici distretti in cui la misura verrà applicata
sono zone a prevalenza musulmana.
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Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in
cui è stato impiegato un taser. Non si tratta di un episodio isolato né di un
mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai
consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel
repertorio coercitivo delle forze dell’ordine.
di Associazione Yairaiha Ets
Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in
cui è stato impiegato un taser. Secondo l’esito dell’autopsia, la causa del
decesso è riconducibile a una “sommersione interna emorragica da trauma toracico
chiuso”, una massiccia emorragia compatibile con una compressione toracica
particolarmente intensa. Le autorità hanno escluso un nesso diretto tra l’uso
del taser e il decesso. Tuttavia, permangono dubbi gravi, legittimi e fondati
riguardo alle modalità dell’intervento, alle responsabilità complessive e alla
concatenazione degli eventi che hanno condotto alla tragica morte di Riccardo.
Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È
l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del
taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze
dell’ordine. Uno strumento che appare tutt’altro che neutro, specie quando
impiegato nei confronti di soggetti fragili, in condizioni di alterazione o
vulnerabilità fisica o psichica.
La morte di Riccardo non si configura solo come una tragedia individuale, ma
come uno specchio che riflette una trasformazione lenta ma inesorabile: la
repressione che soppianta la mediazione, l’abitudine all’eccezione, una gestione
dell’ordine pubblico che scivola sempre più velocemente verso la prevalenza
della forza. Non ci troviamo più davanti a un rischio teorico: lo Stato ha di
fatto rinunciato alla responsabilità di un intervento equilibrato, sostituendola
con l’automatismo della coercizione.
Questa deriva trova ulteriore sostegno nel recente decreto sicurezza, che amplia
i poteri delle forze dell’ordine e legittima un impiego più esteso del taser,
anche in contesti in cui il contatto umano, il discernimento e la competenza
dovrebbero restare imprescindibili. Non è più la forza che interviene in casi
eccezionali, ma la forza che diventa automatica.
L’ambiguità con cui oggi si invocano termini quali “sicurezza”, “legalità”,
“difesa” crea una cortina fumogena. Ma i corpi non mentono. Non mentono le
vittime di decessi avvenuti “per errore”. Non mentono i corpi di coloro che non
rappresentavano una minaccia reale. Non mentono le famiglie a cui, finora, non è
stata data una spiegazione piena e trasparente su quanto accaduto e sulle cause
che vi hanno condotto.
In uno Stato che si definisce democratico, non è sostenibile che pretenda
fiducia mentre moltiplica i propri strumenti di violenza e abdica dalla sua
prerogativa fondamentale: proteggere, non punire. La questione non riguarda
esclusivamente la liceità del taser, bensì il modo in cui è stato
progressivamente sdoganato, automatizzato e normalizzato come una scorciatoia
operativa. L’arroganza di chi si ritiene sempre nel giusto e la sistematica
rimozione delle conseguenze sono elementi che destano profonda preoccupazione.
Non è accettabile che un corpo a terra venga trattato come un mero dettaglio
operativo. In quel corpo si misura la tenuta di uno Stato di diritto. Ed è
proprio lì che, qualora non si presti la dovuta attenzione, rischiamo di perdere
silenziosamente qualcosa di molto più grande di quanto siamo disposti ad
ammettere.
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SUMMER NIGHT
Murazzi - Lungo Po murazzi, lato destro
(martedì, 10 giugno 17:00)
Il ksa presenta la prima Summer night ai murazzi!
Il 10 giugno dal pomeriggio sulle rive del po ci sarà una mostra fotografica
accompagnata da buona musica e sangria...
E dalle 21 iniziano dei magnifici concerti con band emergenti del panorama
torinese.
Vi aspettiamo con @eden.for.all @_.irossa._ @aabsenthee @vvesprii e @oaks.band
dalle 21 per iniziare l'estate nel migliore dei modi!
Non fartelo raccontare!
CORTEO POPOLARE PER LA PALESTINA
Piazza Castello, Torino - Torino, piazza Castello
(sabato, 14 giugno 15:00)
CORTEO POPOLARE PER LA PALESTINA
14 Giugno - Ore 15:00 - Piazza Castello
Da due anni scendiamo nelle piazze in solidarietà alla causa palestinese e alla
resistenza popolare che sta fronteggiando il colonialismo sionista.
In questo momento il genocidio è un fatto indiscutibile e a tutti i livelli
della società viene riconosciuto, per questo bisogna dare vita ad un momento di
partecipazione diffusa che dimostri, ancora una volta, da che parte stiamo.
Adesso in tantɜ stanno cercando di fare la propria parte per contribuire a non
rendersi complici dello sterminio: professori e professoresse, studenti,
dottorandɜ, musicistɜ, magistratɜ e consiglierɜ, lavoratori e lavoratrici.
Queste sono tutte azioni importanti ma adesso è il momento di unirsi per elevare
una voce collettiva davvero forte ed efficace.
Vogliamo confluire in una grande manifestazione popolare che richieda due cose
essenziali:
- Fermare le armi verso Israele per fermare il genocidio
- Stop ai rapporti politici e diplomatici con il governo israeliano (come in
Puglia e a Bologna)
Spintɜ dall'urgenza di fermare la complicità con lo sterminio ci vediamo sabato
14 giugno in Piazza Castello alle 15:00.
CON LA PALESTINA FINO ALLA LIBERAZIONE
14 Giugno - Ore 15:00 - Piazza Castello
#corteo #corteotorino #torinopergaza #palestinalibera
L’orologio segna le 6.53. La coda che conduce all’ingresso di via Doré è tanto
lunga da girare l’angolo e arrivare all’altro ingresso di via Grattoni. Qui,
vengono distribuiti, ogni mattina, circa 8 tagliandini che consentono l’accesso
alla struttura per formalizzare la domanda di asilo, un passo fondamentale senza
cui i propri diritti al lavoro, alla casa, alla salute sono spesso negati.
Fortunatamente, oggi non piove: il gazebo blu montato qualche mese fa non è
infatti sufficiente a coprire nemmeno un quarto delle persone che già da ore
attendono in coda.
A. è arrivato alle 4 e mezza del mattino per essere tra i primi della coda,
trovando però già diverse persone davanti a lui. G. ha sedici anni, è in fila
già da un paio d’ore. Dice che sta avendo problemi a scuola perché da ormai due
settimane è costretto ad entrare alla seconda ora per tentare di presentare
domanda di asilo.
Dopo un po’ il portone della questura si socchiude: la fila si ricompone e si
forma anche un certo silenzio. Dal portone esce un uomo di mezza età, vestito
con un pantalone mimetico, anfibi, un pullover nero e un cappellino verde
militare che gli copre lo sguardo. Si accosta al portone e si accende una
sigaretta. E’ solo osservando il modo in cui si rivolge ad alcune persone in
divisa, uscite dopo di lui, che realizzo che non si tratta di qualcuno che hanno
rilasciato dalla questura ma di un ispettore di polizia.
Per quanto alienante risulti per me, un poliziotto travestito da militare
rispecchia la fusione tra apparato poliziesco e militare che a Torino
caratterizza ormai la gestione dell'”ordine pubblico”. Una realtà familiare per
molte delle persone in fila, esposte alla militarizzazione di interi quartieri e
pratiche di profilazione razziale.
Ad un certo punto, chiedono alla fila di spingersi contro il muro. Iniziano a
camminare lungo la fila, ma l’ispettore non sembra degnare di uno sguardo
nessuno. Cammina in mezzo ai poliziotti, aspirando di tanto in tanto dalla sua
sigaretta. Fanno avanti e indietro un paio di volte, e disinteressandosi
all’ordine della fila selezionano alcune persone. Dopo un po’, vado loro
incontro, per segnalargli che vicino a me c’è una signora con un minore. “Loro
sono sudamericani? Ho già preso una famiglia stamattina… devo dividere un po’ le
etnie. Facciamo lunedì. Tanto io me li ricordo”. Alla mia richiesta di come
avviene la selezione la risposta è che “cerchiamo di valutare un po’ tutto… le
esigenze più grosse… la presenza più costante”.
Gli agenti invitano la fila a disperdersi: per oggi basta, bisogna tornare la
prossima settimana. Qualcuno si allontana scuotendo la testa, esausto: “Lunedì,
sempre lunedì… e poi la stessa storia“
Ovviamente nessun vero screening di vulnerabilità è stato fatto, nessun nome è
stato annotato, nessuna lista è stata creata. L’accesso al diritto di asilo a
Torino è lasciato al caso, alle procedure di profilazione razziale del
funzionario di turno, alla speranza che la prossima volta non ci sia un
ispettore diverso, che si ricordi di te o che non sia già stata fatta entrare
una persona che condivide le tue stesse vulnerabilità o la tua stenza apparenza
“etnica”.
Dietro all’informalità e regole contraddittorie, continuano a nascondersi
discrezionalità e violenza.
Di fronte a una persona che tenta da settimane di entrare, i funzionari non
hanno problemi a riconoscere di vederlo lì tutte le mattine, ma di non averlo
mai fatto entrare perché è “giovane e forte”.
Inoltre, se ad eventuali accompagnatori, spesso avvocati bianchi, è riservato un
trattamento a tratti cordiale, chi attende in fila è frequentemente aggredito. A
una persona che insisteva a chiedere informazioni sulla distribuzione dei numeri
per entrare il questurino dice “abbassa la voce che sono le 7, non ti ho mai
visto, la prossima volta impara a svegliarti prima e arrivare per tempo”.
Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di
Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14
tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori israeliani
su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa, Israele.
La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa
sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo
ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la
Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb.
Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb
Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al
varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave.
L’aggiornamento di Radio Onda d’Urto con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo
Lavoratori Portuali di Genova e di Usb. Ascolta o scarica
> Genova: I portuali pronti a rifiutare di caricare il cargo di armi per Israele
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(foto di enzo morreale)
Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar
a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est.
Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri
di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici.
Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa,
evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container
accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine
del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla
spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno.
Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i
termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora
romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una
macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro
che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta,
costante e fuori dai riflettori.
Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in
città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che
depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga
foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza
un elicottero della polizia.
Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone
di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici
chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San
Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento
dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da
crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più
oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena
Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo
già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel
2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina
lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova
generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare
il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila
movimentati presso il nuovo terminal.
Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti
industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo
un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata
con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito
della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si
legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi,
ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata
eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’
(SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o
sottoutilizzati”.
La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il
Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero
indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e
depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè
il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una
parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per
motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.
Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la
concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il
progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa
217 milioni di euro per l’allestimento operativo.
Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel
progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti
i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni.
Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile
immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al
momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite
i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck
Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi
Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore
maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017:
“Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della
morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi
tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali
cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per
non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare
allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione
pubblica.
In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li
ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o
rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei
container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche
se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il
tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di
container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto
dell’industria.
Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da
privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce
in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di
merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali.
La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo
un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento
dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare
l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori
aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo.
Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a
fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non
trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait
Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie
all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti,
l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale
di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il
comitato si batte ancora oggi.
La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il
tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina
così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli
idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati
che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a
ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena
Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne
parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il
Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo
spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire
allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città,
fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non
balneabile.
San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute
intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta
incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive,
nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina
Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di
salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza
di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono
susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di
ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo
scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di
inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa
non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da
affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di
chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni
batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il
litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose
rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi
ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita
grippiolo)