100 ROSE CONTRO ESSELUNGA
Parco Artiglieri da Montagna - Corso Vittorio Emanuele, Torino
(sabato, 24 maggio 09:00)
Torna uno degli appuntamenti più spinosi della stagione.
100 rose contro Esselunga!
Un momento di aggiornamento da parte del comitato, ma anche una giornata per
continuare a prendersi cura del parco che vorrebbero distruggere.
Dalle 9.00 ci troviamo al parco Artiglieri da Montagna per iniziare la
piantumazione delle 100 rose donateci da un vivaio solidale alla causa.
Porta (se c'è l'hai) guanti e paletta, ma soprattutto tanta voglia di dare una
mano!
Dalle ore 13 pranzo condiviso (noi facciamo un cous cous di verdure come base,
per il resto ognun@ porti qualcosa)
A seguire musica, sport (campi da bocce aperti e rete da pallavolo) e riposini
sul prato!
Son stati scritti fiumi di parole sull’esito inatteso del conclave e anche sulla
ripresa di un nome desueto da oltre un secolo Leone, dicendo troppe banalità.
Cerchiamo di decifrare il significato di questa scelta.
Di Marino Ruzzenenti, da Officina Primo Maggio
VEDIAMO I PAPI LEONE PIÙ ILLUSTRI CITATI DALLA STAMPA IN QUESTI GIORNI: DAI
PRIMI SECOLI DELLA CHIESA FINO AL XVI SECOLO.
Leone I, detto Magno, fu eletto nel 441 e nei suoi 21 anni di regno fu un
instancabile combattente per affermare e consolidare il primato del vescovo di
Roma, la rigida ortodossia, sconfiggendo le numerose eresie del tempo in
particolare sulla natura della figura di Cristo e sulla Trinità.
Leone III, Papa dal 795 all’816, incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro
Romano Impero e stabilì il precedente storico dell’assoluta supremazia del papa
sui poteri terreni.
Leone IV, Papa dal 847 al 855, fortificò Roma costruendo le Mura Leonine e
promuovendo diverse spedizioni armate per sconfiggere i saraceni ed impedirne le
scorribande; il giorno di Pasqua dell’850 Leone incoronò imperatore Ludovico,
figlio di Lotario, riaffermando il prestigio e il privilegio pontificio di
compiere un tale atto.
Leone X, Papa dal 1513 al 1521, nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il
Magnifico, fu particolarmente impegnato sul fronte dell’ortodossia, in un
momento di particolari tensioni nel mondo della cristianità, evitando il
pericolo di uno scisma, ribadendo il dogma dell’immortalità dell’anima, contro
le teorie filosofiche degli averroisti e la sottomissione della verità
filosofica a quella teologica. Fu il protagonista intransigente della diatriba
sulle indulgenze, da lui stesso concesse, sollevata da Martin Lutero, con
conclusiva scomunica di quest’ultimo e inizio della Riforma protestante.
In generale sono Papi coerenti con il significato allegorico del leone:
personalità forti, impegnate nel potenziare l’autorità e l’unità della Chiesa,
custodi dell’ortodossia contro le eresie, tendenzialmente teocratici nel
ribadire la supremazia del potere spirituale su quello temporale, ovvero
sull’allora Sacro romano impero d’Occidente.
Il leone era anche il simbolo della Repubblica di Venezia, cattolica, dopo
l’anno mille protagonista di un’espansione imperiale e di un’accresciuta potenza
economica e politica di prim’ordine. Così il leone di San Marco simboleggiò i
caratteri con cui Venezia amava pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza,
sapienza, forza militare e pietà religiosa.
PAPA LEONE XIII FU DAVVERO UN “PAPA SOCIALE”?
Ma in tutti i commenti, anche di intellettuali laici e di “sinistra”, si è
voluto enfatizzare il probabile richiamo da parte del nuovo Leone XIV all’ultimo
Leone, quello comunemente definito con malcelata ammirazione il “papa sociale”,
per confermare la continuità con Papa Francesco.
Ma quello fu davvero un papa “sociale e progressista” come lo si vuole
rappresentare?
Di Leone XIII mi sono occupato a lungo in una delle mie più impegnative ricerche
storiche: «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la
Shoah, DeriveApprodi, Roma 2018 (pp. 8-44).
La favola di Leone XIII “papa sociale” resiste, nonostante Giovanni Miccoli (G.
Miccoli, Antisemitismo e cattolicesimo, Morcelliana, Brescia 2013), il più
importante storico cattolico italiano, negli ultimi anni della sua vita, abbia
approfondito proprio quel periodo cruciale dell’antisemitismo cattolico che si
dispiega a cavallo tra Ottocento e Novecento, il periodo in cui l’antisemitismo
divenne in Europa un tema costitutivo delle ideologie reazionarie, appunto su
impulso proprio del lungo Pontificato di Leone XIII (1878-1903) e
dell’iniziativa insistente, quasi ossessiva, della rivista da lui promossa a
partire dal 1881, «La Civiltà cattolica», impegnata allo stremo nel combattere
l’ebraismo e le ideologie anticristiane dallo stesso derivate, la massoneria, il
liberalismo e il socialismo.
Quello leonino fu un pontificato straordinariamente forte, come poteva lasciar
presagire il nome che scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come
riconoscono tutti gli studiosi di storia della Chiesa. Un pontificato molto
politico, convintamente interventista nelle vicende terrene contemporanee. Fu
questo il vero tratto innovatore rispetto al predecessore Pio IX, il quale di
fronte alla modernità, da un canto ne ribadì l’assoluta e totale condanna con
il Sillabo, dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte, in
una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile. Questo
indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da Leone XIII che
quindi si impegnò per ricollocarla al centro della scena internazionale: dunque
la guerra contro la modernità, perché fosse efficace e vincente per la Chiesa,
doveva essere ingaggiata in campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti
economici e sociali in corso, in una contesa aspra, militante, con le società
liberali. Leone XIII comprese che, dentro la modernità, la civiltà industriale e
tecnologica, che si stava convulsamente sviluppando con la scoperta dei
combustibili fossili, irrompeva come un fiume in piena che era impossibile
sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse mantenuto un atteggiamento
di totale rifiuto del nuovo, espresso icasticamente da Gregorio XVI, quando
bollò come un «satana su rotaia» il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839
ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici.
Leone XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e sociali,
a dispetto della «scomunica» pontificia, si stavano affermando, e che andavano
coinvolgendo sempre più estese masse di popolazione, le quali rischiavano di
essere scristianizzate dalle ideologie che quel processo assecondavano,
liberalismo e socialismo innanzitutto, diffusi dall’ebraismo anticristiano.
Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in campo, accettando la sfida
della modernità proprio sul terreno economico e sociale, con l’obiettivo di
cristianizzare la modernità stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e
laiciste che si erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente
paradossale, era quello di affermare una sorta di «teocrazia della modernità»,
ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa, di impronta medievale, nel
mondo nuovo delle innovazioni tecnologiche, della produzione industriale e delle
conseguenti trasformazioni sociali: la Cristianità che tornava a governare anche
il mondo moderno, reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione
del mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle cose
modellato dal disegno soprannaturale divino. Cosicché, l’anno dopo della sua
elezione, Leone XIII si preoccupò di stabilire, in una delle prime encicliche
del suo lungo papato, Aeterni Patris, una salda base teologica, unica per tutta
la Chiesa e, in qualche modo, indiscutibile e immodificabile, fondata
sulla Somma teologica e l’opera di San Tommaso d’Aquino, un’imperiosa
restaurazione di una rigidità teologica, che peraltro durerà a lungo,
praticamente fino al Concilio Vaticano II.
Si tratta di «una visione teocratica dei rapporti tra la Chiesa e la società
civile» in Leone XIII che così lo stesso sintetizzò: «Siccome il fine al quale
tende la Chiesa è nobilissimo sopra ogni altro, così la potestà di essa va sopra
tutte le altre, e non deve essere, né riputata inferiore ai poteri dello Stato,
né a lui in qualche modo sottoposta».
Dunque, se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici nell’agone
politico e sociale, dall’altro si preoccupò con grande energia di restaurare una
rigida ortodossia teologica, il tomismo, e di ribadire la più ferma condanna
delle ideologie che avevano ispirato la modernità: «Non si trattava di una resa
davanti alla modernità. Né si trattava di contrapporsi semplicemente alla
modernità. Cominciava un confronto, non certo ancora un dialogo, per di più
talvolta ancora molto aspro». Il suo programma che è quello di ricostruire e
restaurare una nuova Civiltà dandole come tessuto principale e come anima i
valori e la filosofia del Vangelo poiché la Società moderna «è caratterizzata da
un universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è
sorretto l’ordine sociale». Come si vede, papa Leone non aveva assolutamente in
mente la riconciliazione con la modernità, ma la sua sconfitta tramite la
confutazione dei falsi principi sui quali essa si fondava per potere restaurare
la Cristianità avversata dalla modernità e dalle sette dirette dal giudaismo
talmudico. A questo proposito, Leone XIII gestì direttamente i tre casi critici
dell’antisemitismo cattolico dell’epoca: la vicenda del partito cristiano
sociale austriaco, la posizione dei cattolici francesi rispetto
all’affaire Dreyfuss e infine la credenza del rito del sangue nella Pasqua
ebraica.
La prima vicenda riguarda il primo esperimento, vincente, di discesa in campo in
Europa di un partito cattolico, il Partito cristiano sociale austriaco, che
partecipò e vinse le elezioni per il comune di Vienna. L’esperimento austriaco
fu in sostanza il primo banco di prova dell’enciclica di Leone XIII Immortale
Dei del 1º novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati, che per
permetteva finalmente ai cattolici di intervenire nell’agone politico (non
ancora a quelli italiani per il trauma della breccia di Porta Pia). Il leader,
Karl Lueger, ispirandosi alla Rerum novarum, elaborò un programma che,
riprendendo la critica pontificia al capitalismo ed al marxismo, rappresentava
questi fenomeni della modernità come prodotti, in certo modo complementari,
della mente ebraica, fondendo questi nuovi temi con il secolare odio per gli
ebrei della tradizione cattolica. Karl Lueger, leader carismatico e autoritario
di un partito che si presentò come antisemita, fu borgomastro ininterrottamente
dal 1895 al 1910, benedetto da Leone XIII e considerato dal giovane Adolf Hitler
il modello su cui costruire il suo progetto politico e la sua figura di Führer.
La seconda è quella dell’altro tentativo del partito cristiano francese di
sfruttare il caso Dreyfuss per conquistare un ruolo di governo nello
schieramento reazionario e antisemita. In questo caso, come sappiamo, il
progetto di Leone XIII incontrò una bruciante sconfitta. Prima però ebbe modo di
lasciare una eredità gravida di calamità per gli ebrei europei, alla luce degli
eventi futuri. Il 25 e 26 novembre 1896, nel periodo infuocato dell’affaire
Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale di questo partito voluto
da Leone XIII, la Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima
antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale. Ebbene questo
congresso, benedetto in apertura con una missiva dal Papa, elaborò la prima
proposta in Europa di una legislazione antisemita, debitamente articolata e
dettagliata, che avrebbe rappresentato il modello per le leggi di Norimberga del
nazismo del 1935.
Il terzo caso è quello della credenza cattolica nell’omicidio rituale da parte
degli ebrei: si riteneva che gli ebrei in occasione della loro Pasqua
uccidessero un bambino cristiano per prelevargli del sangue con cui condire il
pane azimo rituale. Ebbene, verso la fine del 1899, dopo un ventennio di accuse
processi e tumulti in diversi Paesi d’Europa, un gruppo influente di cattolici
inglesi, tra cui Lord Russell e lo stesso cardinale di Westminster, presentarono
a Leone XIII un’istanza perché questa credenza, ritenuta del tutto infondata,
venisse condannata dalla Santa Sede. Il Sant’Uffizio, investito della questione,
il 25 luglio 1900 statuiva che la dichiarazione richiesta non poteva essere
data, cui seguiva l’approvazione il 27 di Leone XIII: nella sostanza il Papa
rigettava l’istanza dei cattolici inglesi con la sottintesa motivazione, «perché
gli omicidi rituali che si vorrebbero negare sono invece realmente accaduti»,
peraltro esplicitata in un manoscritto che accompagnava la risoluzione. Il tema,
anzi, divenne ricorrente nella campagna denigratoria nei confronti degli ebrei
de «La Civiltà cattolica», tema ripreso come è noto dalla campagna dei nazisti e
del fascismo di Salò per sostenere la necessità della Shoah.
Dunque, paradossalmente, l’antisemitismo ridiventava un cardine della politica e
del magistero della Chiesa, proprio quando la stessa in qualche modo «si apriva»
alla modernità, superava il puro e semplice atteggiamento di rifiuto, scendeva
sul terreno della nuova società per combattere una battaglia campale per la
riaffermazione del primato della cristianità sulla modernità stessa, contro le
ideologie scristianizzanti, dal razionalismo al liberalismo, al socialismo. Ed
era su questo terreno che la Chiesa riscopriva negli ebrei uno degli ostacoli
maggiori al compimento della sua missione. Del resto l’antisemitismo era un
pilastro fondamentale del pensiero reazionario di fine Ottocento: il rifiuto del
liberalismo, della laicità dello Stato, dei principi dell’Ottantanove, del
socialismo si associava all’individuazione degli ebrei come principali
ispiratori di questi movimenti ed ideologie, ebrei per di più emancipati dal
ghetto proprio grazie alla Rivoluzione francese, in grado così di dispiegare
finalmente tutta la loro «nefasta» volontà di rivalsa nei confronti della
civiltà cristiana.
Fino a qui la coerenza del pensiero e dell’azione di Leone XIII può apparire
persino scontata. Ciò che può sorprendere è il lato sociale, presente
nella Rerum Novarum. Ma anche questo è un dato in verità ricorrente nel pensiero
politico reazionario tra Ottocento e Novecento. Lo si è visto per i cristiano
sociali austriaci; lo si vedrà con il fascismo italiano, nel programma del 1919
ripreso poi con la Carta di Verona della Repubblica sociale; lo si vedrà nel
movimento politico costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito
nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso, colore
intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e socialista. Almeno
nei programmi, il pensiero reazionario e antimoderno spesso adottò accenti
anticapitalisti, essendo anche il capitalismo in certo modo filiazione del
liberalismo, e si cimentò sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre
le masse operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più pericoloso e
temibile dello stesso liberalismo. Dunque antisemitismo e Rerum Novarum non solo
non confliggevano, ma facevano parte di una visione coerente che Leone XIII
aveva sistematizzato in una strategia di lungo periodo di scardinamento delle
ideologie della modernità.
Del resto, occorre ricordarlo, i pontefici che seguirono nel corso della prima
metà del secolo scorso, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, si mossero
sostanzialmente all’interno del solco teologico, ideologico e politico tracciato
in profondità dal papato leonino. Si dovranno attendere papa Giovanni XXIII ed
il concilio Vaticano II, agli inizi degli anni Sessanta, perché la Chiesa
cattolica uscisse da quel solco profondo ed angusto, riconoscesse «i segni dei
tempi» e aprisse un dialogo vero con le culture laiche della modernità, con le
confessioni non cattoliche e con le religioni non cristiane, quindi anche con
l’ebraismo.
Infine, Se poi qualcuno vuole conoscere più a fondo la figura di Leone XIII
consiglio la piacevolissima lettura del folgorante romanzo-inchiesta di Émile
Zola, Roma, Paris 1896, ed. it. Bordeaux, Roma 2014.
CONCLUSIONI
In conclusione, Robert Francis Prevost tutto quanto detto sopra a proposito di
Leone XIII e degli altri Papi Leone lo conosce bene, essendo un plurilaureato e
un profondo studioso della Chiesa. E la scelta di Leone ha ragioni profonde che
non hanno nulla a che vedere con la presunta “sensibilità sociale” e quindi con
la continuità con Papa Francesco. E la novità va ben oltre il pur simbolico
ripristino dei paramenti e della Croce che rappresentano il potere papale.
Programmaticamente vorrebbe essere un papato forte, autorevole nella Chiesa,
fermo nell’affermare e conservare l’ortodossia, ma anche influente sulle sorti
del mondo ricostruendo il primato della Chiesa cattolica, come furono i Leone
che lo hanno preceduto.
Chissà, forse per la Chiesa si tratta di una scelta lungimirante come fu quella
di Giovanni Paolo II, per l’esito della crisi del bipolarismo (Paolo Mieli è a
questo papa che lo paragona, non a Francesco). In questo caso potrebbe essere un
tentativo della Chiesa di salvare l’Occidente in crisi, in particolare il paese
guida, gli Usa, dilaniato da contrasti interni autodistruttivi. È l’ipotesi di
Cosimo Risi, già diplomatico e Ambasciatore d’Italia in Svizzera, ora insegnante
di Diritto Internazionale all’Università di Salerno.
E il richiamo nei primi discorsi alla potente tecnologia digitale dei nostri
tempi, in particolare all’intelligenza artificiale, che nella versione
transumanista dovrebbe generare una sorta di nuova specie umana liberata dai
limiti della propria condizione, potrebbe far intendere il senso della scelta
del nome, ovvero la volontà di riaffermare i valori eterni del messaggio di
Cristo anche su questo terreno particolarmente insidioso, in cui gli umani
potrebbero immaginarsi onnipotenti e non più bisognosi del conforto della
religione: insomma, si tratterebbe di cristianizzare oggi l’intelligenza
artificiale, come ai tempi di Leone XIII la macchina a vapore.
Staremo a vedere. Una cosa è certa: assisteremo a un cambiamento importante
rispetto a Papa Francesco.
Il processo contro 28 militanti del centro sociale Askatasuna e del movimento No
Tav, conclusosi il 31 marzo scorso, costituisce il tassello principale[1] di
un’articolata strategia volta a contrastare il conflitto sociale a Torino e in
Val di Susa, in sintonia con quella profonda metamorfosi del sistema penale che,
in relazione a specifici fenomeni, ha trasformato il processo da luogo di
accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali a strumento di lotta e
di repressione.
di Claudio Novaro, da Studi sulla questione criminale
Per comprenderne adeguatamente le caratteristiche e la specificità è necessario
allargare l’orizzonte analitico allo scenario complessivo, segnato dalla
presenza di un movimento, come quello valsusino, che si oppone da oltre 30 anni
alla costruzione di una grande opera, la linea ad alta velocità Torino-Lione, e
agli interessi economici che la sostengono.
Più commentatori hanno rilevato[2] come Torino sia stata in questi anni una
città laboratorio di pratiche ed innovazioni di contrasto nei confronti
dell’attività dei militanti e degli attivisti dei movimenti e dei circuiti
antagonisti, a partire dalla decisione, collocabile all’inizio del 2010, di
costituire uno specifico pool di magistrati all’interno della Procura che si
occupasse inizialmente proprio delle vicende legate alla protesta contro il TAV
e che poi, come spesso avviene, ha finito per diffondersi sull’intero fronte dei
procedimenti connessi alle lotte sociali[3].
Questo particolare modulo organizzativo – che ha comportato la costruzione di un
circuito processuale ad alta velocità, nato, con straordinaria capacità
profetica, prima della commissione dei reati per cui è stato creato – ha
consentito che venissero drenate sul fronte della repressione giudiziaria del
conflitto sociale, prima valsusino e poi anche metropolitano, importanti
risorse umane ed economiche, “distogliendo alcuni PM dai loro normali compiti
d’ufficio per destinarli ad una sezione che non aveva però, in allora, materiale
su cui investigare”[4].
Sul piano giudiziario si sono di lì in avanti sperimentate innovative soluzioni
giuridiche, dall’applicazione al conflitto sociale delle categorie giuridiche
introdotte negli anni dell’emergenza[5], all’utilizzo massivo di misure di
prevenzione[6], fino alla recente proposta di contestare la fattispecie di quasi
reato di cui all’art. 115 c.p. per sanzionare con misure di sicurezza condotte
esterne alle ipotesi di concorso nel reato[7].
Il radicamento cittadino di Askatasuna, il suo insediamento sociale e
territoriale nel quartiere Vanchiglia, gli stretti rapporti con i comitati
popolari della Val di Susa richiedevano probabilmente una strategia più
complessa e sofisticata di quella messa in campo per silenziare altre aree
politiche (ad esempio quella anarchica), dove l’utilizzo della risposta
giudiziaria e del processo penale, con la contestazione di un’ipotesi di
associazione sovversiva (poi rivelatasi del tutto infondata all’esito del
processo), era stata contestuale all’immediato sgombero della casa occupata
dell’Asilo, sino ad allora centro propulsore delle lotte contro gli sfratti e il
CPR di corso Brunelleschi.
Nel caso di Askatasuna, la strategia più propriamente giudiziaria è stata
affiancata da una serie di misure, alternative ai tempi lunghi del processo
penale, che miravano, da un lato, ad allontanare dai luoghi del conflitto gli
attivisti, con l’emissione da parte della Questura di centinaia di fogli di via
dalla Val di Susa[8], dall’altro, ad incrinare le basi materiali dell’attività
politica del centro sociale (con sequestri periodici degli impianti di
amplificazione per i concerti, le sanzioni amministrative per il mancato
rispetto della normativa in tema di somministrazione di bevande o generi
alimentari, di emissione di scontrini fiscali, di sicurezza dei concerti e di
regolarità edilizia dell’edificio che ne ospita la sede).
Le indagini e la fase cautelare.
In questo contesto si colloca il procedimento penale da poco terminato, nato da
un’intuizione investigativa della Digos torinese dell’autunno 2019, secondo cui,
come verrà spiegato da uno dei suoi dirigenti a dibattimento, nell’analizzare
una serie di vicende oggetto di separati procedimenti penali
emergevano “dei tratti comuni … Quindi, sostanzialmente ricorrenza di un nucleo
di soggetti, ricorrenza di mezzi, strumenti utilizzati per il compimento
dell’azione delittuosa, essenzialmente ai danni delle Forze dell’ordine,
ricorrenza di dinamiche e metodologie diciamo operative che erano state
riscontrate, ricorrenza di scenario …”. Di qui l’ipotesi che non si trattasse di
fatti isolati, ma della “concretizzazione di un programma delittuoso comune,
condiviso …”[9] e la contestuale richiesta – ovviamente fatta propria dalla
Procura e accolta dai diversi magistrati che si sono alternati nella funzione di
giudice per le indagini preliminari – di intercettare le utenze telefoniche di
una ventina di soggetti, le case e le autovetture di alcuni militanti,
intercettazioni durate poi per circa due anni.
Tale lavoro investigativo – appannaggio, come quasi sempre avviene nei
procedimenti legati alla protesta sociale, della Digos territoriale – partoriva
un impianto accusatorio, riassunto in un’annotazione conclusiva di oltre 1.500
pagine, fondato, anzitutto, sull’ipotesi di sussistenza di un’associazione
sovversiva costituita da 71 persone, tra cui 62 attivisti del centro sociale e 9
soggetti definiti “militanti dell’ala oltranzista No Tav”.
Nel dicembre 2021, la Procura richiedeva l’applicazione di 16 misure della
custodia cautelare in carcere, 4 arresti domiciliari e un divieto di dimora. Gli
indagati per il reato associativo erano ridotti a 32, tutti appartenenti al
centro sociale, a cui si aggiungevano altri 54 soggetti, sottoposti ad indagini,
unitamente ai primi, in relazione ad altri 102 reati, di cui 97 commessi in Val
di Susa, tra il luglio 2020 e il settembre 2021.
Cinque tra tali reati riguardavano, invece, un episodio avvenuto il 22 maggio
2020 presso lo spazio popolare Neruda (un’occupazione abitativa avviata da
alcuni militanti del centro sociale, in cui vivono oltre un centinaio di
persone, in larga parte immigrate), relativo all’allontanamento violento di un
uomo di origine nigeriana dallo stabile, e con lui della moglie e di una figlia,
per cui venivano ipotizzati gravissimi reati, primi fra tutti quelli di rapina,
di sequestro di persona e di estorsione, quest’ultimo per aver richiesto il
pagamento di un affitto per abitare in una stanza dell’immobile occupato, in
mancanza del quale la famiglia sarebbe stata cacciata a forza.
Il G.i.p., con ordinanza del 23 febbraio 2022, depotenziava fortemente
l’impianto accusatorio: riteneva insussistenti i gravi indizi di colpevolezza
per il reato associativo, qualificava diversamente i fatti dello spazio popolare
Neruda, applicava nei confronti degli indagati due misure della custodia in
carcere, due arresti domiciliari e 9 misure non custodiali, per alcune
resistenze a pubblico ufficiale avvenute in Val di Susa e per i fatti del
Neruda.
La vicenda cautelare aveva poi un decorso lungo e complesso, tra richieste di
riesame delle difese, appello dei PM, parzialmente accolto una prima volta dal
tribunale del riesame, successivo annullamento della Cassazione, e poi nuovo
accoglimento da parte del tribunale[10].
Nell’ultima discussione avanti al tribunale del riesame, la Procura
inaspettatamente richiedeva (e puntualmente otteneva) di riqualificare il reato
associativo in associazione per delinquere (inopinatamente aggravata, in modo
tale da inasprire le future eventuali sanzioni, dalla circostanza dello scorrere
in armi le campagne e le pubbliche vie).
Tale scelta probabilmente muoveva dalla consapevolezza della incongruità e
pericolosità di un’ipotesi accusatoria che identificava direttamente il centro
sociale Askatasuna con una vera e propria associazione sovversiva e che
rischiava di confondere accordo criminoso e mera attività politica, in spregio
al diritto costituzionalmente protetto di cui all’art. 18 (diritto di
associazione).
L’individuazione di un sottogruppo criminale nell’ambito del centro sociale,
contenuta nel nuovo capo di imputazione, anche se appariva meno coerente con il
teorema investigativo iniziale, consentiva di sottrarsi a possibili censure e,
soprattutto appariva in sintonia con il tentativo di depotenziare le finalità
ideali e politiche dei militanti del centro sociale, trattati alla stregua di
meri delinquenti, mossi solo, come il P.M. ha affermato in più occasioni nel
corso del processo, da una sorta di istinto alla violenza.
Il dibattimento.
Dopo la formulazione della richiesta di rinvio a giudizio, accolta integralmente
nel decreto che dispone il giudizio, si è così arrivati a dibattimento con
un’accusa, rivolta questa volta solo a 16 militanti del centro sociale, per aver
costituito al suo interno un’associazione per delinquere “finalizzata alla
commissione”: a) di numerosi reati di resistenza a p.u., violenza privata,
incendio e danneggiamento, commessi dal 2011 in poi, “per opporsi alla
realizzazione della TAV, organizzando, dirigendo, partecipando agli scontri
violenti contro le forze dell’ordine, il cantiere ed i dipendenti delle imprese
incaricate dell’esecuzione dei lavori”; b) di analoghi reati, commessi a Torino
dal 2009, consistenti in plurime iniziative “di protesta violenta poste in
essere in occasione di manifestazioni pubbliche contro le politiche del Governo,
contro esponenti politici o militanti di associazioni e/o movimenti portatori di
ideologie contrapposte”; c) di reati di violenza privata, “ … al fine di
esercitare il controllo sul quartiere Vanchiglia ed allontanare da esso i
ripetuti controlli di polizia”; d) di reati di violenza privata, rapina,
estorsione e sequestro di persona “al fine di esercitare il controllo
sull’immobile abusivamente occupato” denominato spazio popolare Neruda[11].
Il processo ha, anzitutto, consentito di acquisire importanti elementi di
conoscenza in ordine alle concrete modalità di militarizzazione di una porzione
del territorio della Val di Susa, al fine di contenere la protesta popolare, e
alle ingenti risorse finanziarie spese nel suo ambito.
Dalle testimonianze del direttore di TELT (la società a partecipazione pubblica
italo-francese incaricata dei lavori per l’alta velocità), nonché dalle
richieste risarcitorie avanzate dall’Avvocatura dello Stato, nell’interesse
della presidenza del consiglio e dei ministeri dell’interno e della difesa, si è
appreso che “per l’anno 2020 il Ministero dell’Interno ha impiegato 205.988
agenti per presidiare i luoghi 24 ore su 24 e poi per contenere gli eventi per
cui è processo”. Tale cifra ammonta a 266.451 agenti per l’anno 2021, con una
spesa per entrambi gli anni, per l’alloggiamento dei reparti, di euro 1.713.016
e di euro 1.149.339 per il vettovagliamento. A tali importi vanno aggiunte
quelli per il carburante impiegato, per le indennità per straordinari e
trasferte, che portano la cifra complessiva “del costo sostenuto
dall’Amministrazione dell’Interno per assicurare il ripristino dell’ordine
pubblico”, a seguito dei fatti contestati agli imputati, ad euro
4.176.185,85[12].
Quanto a TELT – come si evince dalla memoria conclusiva della società,
costituitasi a sua volta parte civile contro gli imputati – ha investito ben 3
milioni di euro per lo studio di nuove varianti progettuali, per approfondimenti
e nuove progettazioni di sviluppo della cantierizzazione, disposti per la
necessità di verificare se trasferire il sito in costruzione in altra e diversa
zona a seguito degli attacchi subiti dai manifestanti, e altri 30 milioni di
euro per la sicurezza del cantiere, vale a dire per gli apprestamenti a tutela
dell’ordine pubblico e dell’incolumità dei lavoratori, per la prevenzione di
atti vandalici e i danneggiamenti[13].
Le memorie e le conclusioni della pubblica accusa.
A conclusione dell’istruttoria dibattimentale, i pubblici ministeri presenti al
processo hanno depositato due memorie finali, poi richiamate oralmente in sede
di discussione, il cui esame consente di illuminare compiutamente il punto di
vista degli inquirenti, sia sul piano delle modalità di valutazione della
piattaforma probatoria, che su quello delle regole epistemologiche usate per
sostenere la responsabilità degli imputati.
La prima evidenza che balza agli occhi dalla lettura di tali memorie riguarda la
evidente difficoltà di padroneggiare la proposta dicotomia tra centro sociale e
associazione criminale.
Di fronte a un’ipotesi accusatoria che prevede la costituzione di un comparto
associato separato, nell’ambito del centro sociale Askatasuna, occorreva evitare
l’errore fondamentale di fare quello che, in via teorica, nei suoi scritti
precedenti, la Procura contestava, vale a dire “un’indebita sovrapposizione” tra
Askatasuna e il sodalizio in questione, utilizzando delle risultanze riferite
alla prima (o addirittura al movimento No Tav) per dimostrare l’esistenza degli
elementi costitutivi del secondo.
Le memorie contengono, invece, platealmente un’operazione di tipo traslativo,
che mescola e confonde disinvoltamente le attività del centro sociale con quelle
riferibili ad una struttura associativa criminosa, nonché il ruolo legittimo
dentro Askatasuna dei singoli militanti con quello di rilievo penale nell’ambito
dell’associazione per delinquere.
Così, le basi operative dell’associazione per delinquere vengono individuate
nella sede del centro sociale di Corso regina Margherita 47, nello Spazio
popolare Neruda, del presidio No Tav cd. dei Mulini in Val di Susa,
nell’Infoshop Senza Pazienza, nell’associazione sportiva Aurora Vanchiglia,
confondendo spazi di movimento con le strutture di un sodalizio criminoso.
Così, quanto ai canali di finanziamento dell’associazione, vengono indicati dati
probatori riferiti al centro sociale (le cene di autofinanziamento la vendita di
libri del Senza Pazienza), addirittura finendo per considerare tali gli introiti
relativi al Festival Alta felicità, che si tiene ogni anno in Val di Susa, con
la partecipazione di importanti artisti e di decine di migliaia di persone.
In seconda battuta, nel tentativo di fare i conti con la pluralità di iniziative
poste in essere dagli imputati, in qualità di attivisti del centro sociale,
assai poco sintomatiche della partecipazione ad un reato associativo e, invece,
del tutto in sintonia con la militanza politica e sociale dei circuiti
antagonisti, ecco spuntare un’ipotesi interpretativa tanto surreale quanto priva
di supporti probatori.
Il programma delittuoso del sodalizio criminoso prevederebbe, secondo gli
inquirenti, “una sofisticata strategia: la sua dissimulazione dietro lo schermo
di iniziative pubbliche aventi una funzione sociale, realizzate attraverso
diramazioni del centro sociale (quali Spazio Popolare Neruda, lo Sportello
Prendo Casa, il Senza Pazienza, la squadra popolare ASD Aurora Vanchiglia, e la
storica succursale dei Murazzi) o semplici azioni a favore della collettività
(spesa solidale, corsi di lingua per stranieri, aiuti per le famiglie
sfrattate…..), al fine di procurarsi il sostegno di una parte dell’opinione
pubblica. In tale prospettiva si inserisce anche la tattica di compiere azioni
violente nel corso di iniziative organizzate da movimenti più moderati (come
quelli dei No Tav o dei Fridays For Future o gli studenti), sempre allo scopo di
avvantaggiarsi dell’appoggio di ampi strati della società civile, alla quale
sono celate le vere intenzioni del sodalizio”[14]. Insomma, una sorta di
nicodemismo applicato al conflitto sociale.
Il richiamo alle attività “sociali” del CSOA (la spesa sociale, gli aiuti agli
sfrattati, il doposcuola per i bambini stranieri ecc..), lette come una sorta di
schermo dietro a cui proteggersi in caso di azioni giudiziarie o per coprire le
proprie nefandezze criminose, contrasta visibilmente con tutto il complesso e
articolato testimoniale raccolto sul punto nel corso dell’istruttoria
dibattimentale. Tanto che la Procura, nelle sue memorie, nemmeno si è sobbarcata
la fatica di spiegare sulla base di quali riscontri e di quali criteri di
inferenza sia giunta ad affermazioni tanto impegnative quanto paradossali.
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[1] In un recente articolo uscito il 16 aprile scorso sul sito Volerelaluna,
Livio Pepino lo ha definito “il processo politico più rilevante degli ultimi
vent’anni, nel quale la Digos e la Procura torinese hanno investito uomini,
tempo, mezzi, tecnologie e hanno messo in gioco la propria
credibilità”(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/04/16/15-giorni-dopo-lassoluzione-di-askatasuna-un-silenzio-istruttivo/
[2] Si vedano, tra gli altri, Alessandra Algostino, “Askatasuna e la città,
doppio laboratorio”, in Il Manifesto del 4.2.2024.
[3] Dal 2015 la sezione Tav è stata accorpata alla vecchia sezione “Reati di
terrorismo ed eversione dell’ordine democratico”, con l’istituzione di un unico
gruppo specializzato denominato “Terrorismo ed eversione dell’ordine
democratico, reati in occasione di manifestazioni pubbliche”.
[4] https://www.notav.info/documenti/no-tav-e-repressione-una-storia-antica-da-caselli-a-spataro in
NoTav.Info del 23.9.2016.
[5] Ad esempio, le aggravanti per terrorismo e i delitti di attentato con
finalità di terrorismo contestati ai militanti del movimento No Tav. Sul punto
si veda, in particolare, Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La
criminalizzazione del movimento No TAV, Meltemi, 2019.
[6] Sono noti i plurimi e non sempre riusciti tentativi di applicare quella
della sorveglianza speciale a numerosi militanti anarchici, poi agli attivisti
che si erano recati nel Nord della Siria a combattere con il popolo curdo,
infine ad alcuni militanti dei centri sociali cittadini. Parallelamente anche
gli avvisi orali emessi in questi anni dalla Questura torinese si contano
nell’ordine delle decine.
[7] Si tratta di un’ipotesi contenuta nel capo di incolpazione provvisorio
emesso nell’ambito dell’avviso di conclusione delle indagini relativo ai fatti
accaduti il 4.3.2023, nel corso del corteo indetto in solidarietà con Alfredo
Cospito. Un considerevole numero di manifestanti è stato fermato prima di
raggiungere la zona del concentramento e 27 persone sono state trovate in
possesso di oggetti vari (maschere antigas, caschi, guanti, scalda-colli,
occhialini da piscina, medicinali per lenire l’effetto dei lacrimogeni, artifizi
pirotecnici … ecc.). La Procura torinese ha ritenuto di poter contestare in
questo caso agli indagati, unitamente a diversi altri delitti e
contravvenzioni, “il quasi reato di cui all’art. 115 c.p., in relazione ai reati
di cui agli artt. 81 cpv, 337, 339 … c.p., 110, 112, 61 n. 7, 419 c.p. perché si
accordavano per porre in essere in concorso condotte di resistenza aggravata e
devastazione … Gli stessi venivano fermati prima dell’inizio della
manifestazione sia nelle vicinanze di posti occupati anarchici sia nei pressi
del luogo del concentramento nel corso dei controlli preventivi effettuati dalla
Digos e accompagnati negli uffici di Polizia in quanto trovati in possesso di
ecc. ecc. …. a dimostrazione del comune intento di partecipare ad una
manifestazione con finalità violente”.
[8] In larga parte poi disattesi e violati, che hanno però innescato e
alimentato una pletora di nuovi procedimenti, tanto più pericolosi e gravidi di
pesanti conseguenze sanzionatorie a partire dall’anno 2023, con la
trasformazione, in forza del D.L. 15 settembre 2023, n. 123, convertito con
modificazioni dalla L. 13 novembre 2023, n. 159, del reato contravvenzionale di
cui all’art. 76 del D.lgs. 159/2011 in un delitto, punito con la pena della
reclusione da 6 a 18 mesi e della multa fino a 1.000 euro.
[9] Trascrizioni udienza 12.1.2023, pagg. 4 e 5.
[10] Particolarmente inconsueta sul piano motivazionale, in quanto fondata su un
curioso meccanismo indiziario di tipo “statistico-presuntivo”, secondo cui la
sussistenza del reato associativo si ricaverebbe dalla presenza continuativa
degli allora indagati a eventi poi sfociati in fatti reato, a prescindere dalla
circostanza che a quegli stessi fatti abbiano partecipato altri militanti del
centro sociale non indagati e, insieme a loro, centinaia di altri soggetti.
[11] Sulla particolarità ed atipicità della contestazione relativa ad una
associazione finalizzata alla commissione di reati di resistenza, si veda Luigi
Ferrajoli, “Lo stato odierno, in Italia, della libertà di dissenso”, in Il
Manifesto del 28.1.2025.
[12] Nella propria richiesta risarcitoria, a tale ragguardevole cifra
l’Avvocatura dello Stato ha aggiunto altri tre milioni i euro, per il danno di
immagine provocato alle pubbliche amministrazioni, pervenendo ad una richiesta
finale di 6.700.000 euro.
[13] Anche se la parte civile TELT si è poi limitata a richiedere, nelle sue
conclusioni finali, una provvisionale immediatamente esecutiva ammontante ad un
milione di euro, nei confronti dei soli imputati del reato associativo. Per una
disamina più dettagliata delle richieste risarcitorie delle parti civili, mi
permetto di rimandare ad un mio recente articolo dell’11 marzo scorso: Conflitto
sociale, repressione, media: ancora il caso Askatasuna
(https://volerelaluna.it/societa/2025/03/11/conflitto-sociale-repressione-media-ancora-il-caso-askatasuna/).
[14] Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag.
92.
Per citare questo post:
C. Novaro, (2025), L’uso dei reati associativi per contrastare il conflitto
sociale: il processo contro il CSOA Askatasuna, in Studi sulla questione
criminale online al
link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/05/15/luso-dei-reati-associativi-per-contrastare-il-conflitto-sociale-il-processo-contro-il-csoa-askatasuna/
E’ la Lega la sponda trovata dai neonazisti europei, (auto)convocati sabato 17
maggio in Lombardia per il cosiddetto “Remigration Summit”, il conclave
della nazisteria continentale per “remigrare” – ossia deportare – tutti i
migranti che vivono in Europa.
SABATO 17 MAGGIO – Al via oggi, al teatro comunale di via Teatro, 5 a Gallarate,
cittadina del Varesotto guidata da un’Amministrazione comunale della Lega, la
kermesse di gruppi nazisti europei sulla cosiddetta remigrazione, ossia la
deportazione di massa di ogni migrante presente in Europa. Il tutto con il
beneplacito di Salvini: “c’è libertà d’espressione, non siamo mica in Unione
Sovietica”. L’incontro nazista è iniziato alle 9. La convocazione è arrivata via
e-mail alle 6, con l’anticipo rispetto alle 14.30, come originariamente
previsto. Il vicesegretario leghista, Roberto Vannacci, ha inviato un video di
saluto ai nazisti dove esprime “sostegno per una battaglia di…libertà e
civiltà”.
In sala a Gallarate tra gli altri Davide Quadri, responsabile Esteri della Lega
Giovani; Alessandro Corbetta, capogruppo della Lega in Consiglio regionale,
l’europarlamentare leghista Isabella Tovaglieri. Proprio a Gallarate,
stamattina, sabato, flash mob antifascista indetto da liste locali
d’opposizione, partiti antifascisti e realtà del territorio in Piazza Libertà,
nel centro della cittadina, totalmente militarizzata. Nel pomeriggio di oggi,
sabato, presidio analogo nella vicina Busto Arsizio, indetto in particolare
dalla RAV, Rete antifascista militante di Varese.
A Milano, invece, due le mobilitazioni (vedi sotto per i dettagli): in piazza
San Babila il presidio di una settantina di partiti, sindacati e associazioni
antifasciste; da largo Cairoli invece il corteo antifascista e di movimento
“Make Europe Antifa Again”.
La diretta su Radio Onda d’Urto di sabato 17 maggio su Radio Onda d’Urto:
ORE 17.00 – Il corteo antifascista, attraversato complessivamente da almeno
2mila persone, termina il proprio percorso all’altezza della metropolitana
Pagano. La corrispondenza conclusiva con Francesco, della Radio Onda d’Urto, e
le prime valutazioni con alcuni compagni milanesi presenti durante la
giornata. Ascolta o scarica
ORE 16.50 – Il corteo antifascista Make Europe Antifa Again prosegue spontaneo
in direzione ovest, verso Pagano.
ORE 16.40 – Corteo antifasista ripartito verso ovest, in direzione piazza
Giovine Italia e piazza Conciliazione.
ORE 16.30 – Fittissimo lancio di lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine
attorno alla stazione di Milano Cadorna, all’altezza di via Caradosso, contro il
corteo che cercava di avvicinarsi ai treni per Busto Arsizio e Gallarate. Dopo i
lacrimogeni, il corteo antifascista si ricompone tra via Boccaccio e piazza
Virgilio. Francesco, della Redazione. Ascolta o scarica
Ore 16.25 – In corso un folto presidio antifascista anche a Busto Arsizio,
Varese, indetto dalla neonata RAV (Rete Antifascista militante di Varese) con
l’adesione di molte diverse realtà del territorio contro la kermesse nazista
della vicina Gallarate. Da Busto Arsizio la corrispondenza con Fabrizio Baggi,
segretario lombardo del Partito della Rifondazione Comunista. Ascolta o scarica
ORE 16.15 – Concluso il presidio antifascista di piazza San Babila, alla
presenza di diverse migliaia di persone. “Siamo in 30.000”, hanno sostenuto la
settantina di realtà organizzatrici tra partiti, sindacati, associazioni, realtà
sociali, che dal palco hanno letto diversi articoli della Costituzione “nata
dalla Resistenza antifascista”. Le valutazioni conclusive con Giovanni,
Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre. Ascolta o scarica
ORE 16.10 – Il corteo antifascista resta nella zona della stazione di Milano
Cadorna, all’altezza di piazza Virgilio. Alcuni manifestanti sono rimasti
contusi dalle manganellate. Ancora Francesco, della Redazione. Ascolta o scarica
ORE 16 – Il corteo antifascista “Make Europe Antifa Again” è arrivato nei pressi
della stazione ferroviaria di Milano Cadorna. Contatto con la celere, schierata
a chiudere via Leopardi. Usati manganelli e anche gli idranti, con avanzamento
dei mezzi. Il corteo resiste, riposizionandosi su via Boccaccio. Francesco,
della redazione di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica
ORE 15.45 – La corrispondenza da piazza San Babila, riempita completamente dal
presidio antifascista “Unite e uniti contro ogni forma di razzismo e
discriminazione”, indetto da una settantina tra partiti, associazioni, sindacati
e realtà antifasciste. Da San Babila, Milano, su Radio Onda d’Urto Saverio
Ferrari, Osservatorio Democratico sulle Nuove. Ascolta o scarica
ORE 15.30 – La corrispondenza da largo Cairoli a Milano, concentramento del
corteo antifascista di movimento “Make Europe Antifa Again” con Francesco,
inviato della redazione di Radio Onda d’Urto, con alcune voci raccolte in
piazza. Il corteo, con circa 2.000 persone, si muove verso la stazione
ferroviaria di Cadorna, per raggiungere Busto Arsizio e Gallarate. Ascolta o
scarica
ORE 12 – Dal presidio del mattino di Gallarate, partecipato da circa 300
persone, la corrispondenza di Mario Macaluso, della RAV, Rete antifascista
militante di Varese. Ascolta o scarica
ORE 11 – Da Milano Radio Onda d’Urto ha raggiunto per un aggiornamento del
mattino Massimiliano, compagno di ZAM e di “Make Europe Antifa Again”, verso la
mobilitazione antifascista internazionale e di movimento che ha come
concentramento le ore 15 in Largo Cairoli, a Milano. Ascolta o scarica
VENERDì 16 MAGGIO – Contro il Remigration Summit diverse le mobilitazioni
antifasciste a Milano e non solo nella giornata di sabato 17 maggio, con una
situazione in aggiornamento, anche di fronte ai possibili annunci ufficiali
sulla sede trovata dalla galassia razzista, suprematista e nazista.
Al momento sono due le iniziative lanciate in maniera pubblica a Milano, nel
pomeriggio di sabato 17 maggio:
Alle ore 15, in largo Cairoli, il concentramento del corteo antifascista
internazionale “Make Europe Antifa Again”, che nel proprio appello ritiene
“necessario nel contesto globale attuale immaginare e costruire un modo di
vivere diverso e dunque un mondo radicalmente differente. Davanti a genocidi,
guerre, riarmo, politiche razziste, deportazioni e attacco costante e quotidiano
a tutte le persone ai margini, non bianche, normate e ricche; noi rispondiamo
tessendo relazioni internazionali, che valicano i confini imposti, dando valore
e praticando solidarietà e cura, costruendo comunità resistenti, transfemministe
e antirazziste”. Su questo corteo abbiamo sentito Miriam, compagna di ZAM
Milano Ascolta o scarica
Alle ore 14.30, in San Babila, il presidio con 70 tra sindacati, associazioni e
partiti; presenti, tra gli altri Pd (con la Schlein), +Europa, Azione, Italia
Viva, Sinistra Italiana, M5S, Alleanza Verdi e Sinistra (con Fratoianni), Cgil
(con il segretario Landini), Acli, Anpi e Arcigay, “per dire no al remigration
summit e ribadire che questa città respinge l’odio e l’esclusione. Uniti e unite
contro ogni forma di razzismo e discriminazione”. Sempre in San Babila, ore 15,
il concentramento lanciato dal cs Cantiere, con parole d’ordine proprie e una
una mobilitazione “Per la libertà di movimento, una cittadinanza universale e
incondizionata, per una vita degna. Saremo partigian3 contro il fascismo e il
razzismo; ribelli ad ogni forma di riarmo e reimmigrazione”. Su questa piazza
sentiamo Nicola del CS Cantiere di Milano Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
La protesta nel Cpr in corso Brunelleschi a Torino è scoppiata venerdì, un
gruppo ha cercato di raggiungere il tetto della struttura. Un uomo è precipitato
rompendosi una gamba. Le due ambulanze giunte sul posto sono state bloccate
dalla polizia prima di poter intervenire
di Mauro Ravarino da il manifesto
Quel reticolo di gabbie in mezzo ai palazzi del quartiere Pozzo Strada non ha
più senso di esistere e mai l’ha avuto. Inaugurato nel 1999 e riaperto a fine
marzo, dopo una chiusura di due anni, il Cpr di Torino ha una storia
accidentata, che parla di sofferenza, proteste e violenze. Due i decessi
accertati: Moussa Balde e Faisal Hossein.
Nella tarda sera di venerdì la tensione è tornata ai massimi livelli dopo una
rivolta esplosa nell’area bianca della struttura, maturata in seguito a una
giornata di proteste iniziate prima nell’area blu dove i trattenuti avevano
rifiutato il pasto per le restrizioni imposte alle comunicazioni telefoniche.
La rivolta nell’area bianca sarebbe invece esplosa, in base a quanto ha
ricostruito la Rete No Cpr, dopo l’orario di consegna della terapia, quando due
migranti hanno tentato la fuga arrampicandosi sulla rete del cortile. Uno
sarebbe stato raggiunto dalle forze dell’ordine e sarebbe caduto da un’altezza
di due metri. Il giovane ha riportato una gamba fratturata. Nell’area hanno
cominciato a divampare le fiamme, ben visibili dall’esterno, e altri migranti
hanno raggiunto il tetto. Un agente sarebbe rimasto intossicato dai fumi.
Alice Ravinale, capogruppo Avs in Regione, si è recata in corso Brunelleschi
nella notte e, augurandosi che «questa volta ci sia maggiore chiarezza sulle
condizioni» del migrante, sottolinea: «Nel nostro sopralluogo di lunedì abbiamo
incontrato tante persone fragili e disperate a causa delle condizioni di
detenzione, non mi stupisce che venerdì sera sia di nuovo esplosa la protesta.
Il Cpr va chiuso, le persone con problemi di salute mentale che oggi sono lì
recluse devono essere immediatamente rilasciate: è un posto che mette a rischio
l’incolumità di tutti. Questa settimana sarà il quarto anniversario della morte
di Moussa Balde: possibile che la sua drammatica vicenda, per cui è in corso un
processo, non abbia insegnato nulla alle istituzioni di questo paese? Possibile
che la propaganda anti-immigrazione del governo conti più del rischio, concreto,
che ci possano essere altre vittime?».
Nel Cpr di Corso Brunelleschi sono rinchiuse una cinquantina di persone a fronte
di una capienza (provvisoria) di 60. La situazione anche con la nuova gestione
della cooperativa Sanitalia, che si è aggiudicata l’ultimo appalto, resta tesa.
Le proteste nella notte tra venerdì e sabato arrivano a meno di un mese dalla
rivolta del 30 aprile. La prima dopo la riapertura, che aveva reso
inutilizzabile l’area viola.
Ieri sera, al di fuori del muro di cinta di corso Brunelleschi, si è radunata
una piccola folla di attivisti richiamati dal tam-tam sui social. Gli attivisti,
avuta la notizia del ferito, hanno chiamato il 118, ma le due ambulanze giunte
sul posto (con i vigili del fuoco) sono state bloccate prima di poter
intervenire. Era già passata la mezzanotte – dicono gli attivisti – quando
l’ambulanza è intervenuta e, durante tutto questo tempo, le persone sul tetto
intonavano cori e canti, denunciando le terribili condizioni di reclusione.
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(disegno di ottoeffe)
Un cittadino bolognese si è visto annullare la scorsa settimana migliaia di euro
di multe relative a infrazioni del codice della strada, sfruttando il sistema
del silenzio-assenso. L’uomo aveva presentato un ricorso al prefetto per ognuna
delle multe ricevute e, non essendogli stata recapitata l’istanza di rigetto,
aveva presentato domanda di annullamento in autotutela. Il Comune aveva comunque
proceduto a emettere cartelle di pagamento contro di lui, ma alla fine a
spuntarla è stato il multato, grazie all’intervento del giudice di pace.
Perplessità dal comando locale della polizia municipale.
(credits in nota1)
Dopo decenni di corteggiamento, e dopo momenti tristemente memorabili – la
sindaca Iervolino che attende i risultati sull’assegnazione della sede in mezzo
ad assessori e giornalisti, stringendo un corniciello rosso fuoco – finalmente
Napoli riesce a ottenere il ruolo di città ospitante della Coppa America di
vela. Esultano i giornali, che tornano a parlare di Bagnoli annunciando la
realizzazione di piattaforme a mare e di un costruzione di un villaggio
organizzativo sulla colmata (l’abbiamo già sentita); colmata che, come
ampiamente prevedibile e previsto, una volta blindata dall’accoppiata
Manfredi-Meloni, si prepara a diventare uno spazio privatizzato per grandi
eventi e sottratto, come da settant’anni a questa parte, ai cittadini.
«Bagnoli è stato un elemento essenziale per convincere gli organizzatori – ha
detto il ministro dello sport Andrea Abodi – e l’America’s Cup sarà un elemento
di accelerazione per un processo che è andato avanti troppo lentamente
sottraendo all’Italia un’area che può essere produttiva e che sarà la vera
eredità di questa sfida».
Ora con tal Ricorso di Cose Umane Civili, che particolarmente in questo libro si
è ragionato, si rifletta su i confronti, che per tutta quest’opera in un gran
numero di materie si sono fatti, circa i tempi primi e gli ultimi delle Nazioni
antiche e moderne: e si avrà tutta spiegata la Storia, non già particolare […];
ma dall’identità in sostanza d’intendere, e diversità de’ modi lor di spiegarsi,
si avrà la Storia Ideale delle Leggi eterne, sopra le quali corron’i fatti di
tutte le Nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze, e fini, se
ben fusse, lo che è certamente falso, che dall’Eternità di tempo in tempo
nascessero Mondi Infiniti. (giambattista vico, la scienza nuova)
Nelle estati del 2012 e del 2013, con il collettivo Ba.Fu.Ca.
(Bagnoli-Fuorigrotta-Cavalleggeri) e con altre realtà di movimento, mettemmo in
piedi, per fare il verso alla ricorrente farsesca candidatura napoletana alla
competizione velistica (all’epoca “LuisVittonCup”), una regata autorganizzata.
La chiamammo Giggin Vuitton Cup, una coppa finalmente dedicata a un povero
Cristo di Bagnoli, senza casa né lavoro, che si arrangiava vendendo prodotti
taroccati.
A proposito tengo ‘nu frat’
che da quindici anni sta disoccupato.
Che s’ha fatto cinquanta concorsi,
novanta domande e duecento ricorsi.
Voi che date conforto e lavoro,
eminenza, vi bacio e v’imploro:
chillo dorme cu’ mamma e cu’ me,
che crema d’Arabia ch’è chistu cafè!
(fabrizio de andrè, don rafè)
La “coppa America dei poveri” portò a Bagnoli centinaia di persone, improvvisati
skipper di imbarcazioni incerte e traballanti, canoe sgangherate, zattere mezze
marce, bidoni dell’immondizia riciclati che girarono la scogliera antistante il
Lido Fortuna provando ad arrivare in testa. Barche affondate, remate in testa,
gavettoni: tutto era concesso data l’assenza di regole, lo stesso spirito con
cui gli amministratori avevano agito nei vent’anni precedenti (oggi ne sono
passati più di trenta e non è cambiato nulla) truccando una finta bonifica,
elaborando progetti urbanistici sconclusionati, sognando una speculazione
edilizia che è ancora dietro l’angolo.
(foto d’archivio)
Se Bagnoli piange, i bagnolesi non ridono. Sono passati più di due mesi dallo
sciame sismico di marzo e dalla più violenta scossa degli ultimi cinquant’anni e
le risposte istituzionali sono assolutamente insufficienti su tutti i fronti (i
più eclatanti: un decreto governativo che sa di elemosina; il mancato pagamento
del sostegno agli affitti; il mancato arrivo dei fondi per la messa in sicurezza
degli edifici; la mancata programmazione di una sistemazione in strutture
pubbliche e private per gli sfollati, che vengono trattati come pacchi vedendosi
prorogato un soggiorno in alberghi dall’altra parte della città ogni dieci
giorni).
Lo scorso mercoledì era programmato un incontro tra l’Assemblea popolare e tutti
gli assessori competenti, che è saltato senza nessun avviso. Rimandato a
venerdì, le risposte sono state a dir poco imbarazzanti. Successivamente, nella
stessa giornata, un corteo ha attraversato il quartiere ribadendo l’urgenza di
interventi reali e non di rappezzi che sanno di presa in giro.
Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l’incessante
bombardamento dell’informazione. […] Il flusso è costante, – riprese Alfonse. –
Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde,
particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra
attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché
capitino da un’altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California.
Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di
massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri
perché nell’intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono
stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a
condannarli. (alfonse spiega a jack la sua teoria sulle catastrofi in: rumore
bianco, di don delillo)
Le impronte digitali e di notte le pattuglie
che inseguono le falene
e le comete come te.
Tra le lettere d’amore scritte a computer
Che poi ci metteremo a tremare come la California, amore,
nelle nostre camere separate
a inchiodare le stelle,
a dichiarare guerre.
(a cura di riccardo rosa)
__________________________
¹ Valerio Mastandrea in: Non pensarci, di Gianni Zanasi e Lucio Pellegrini
(2009)
Bombardamenti incessanti, case distrutte, di nuovo più di cento morti, anche
neonati. Ordini di evacuazione, popolazione affamata. Avanza l’operazione Carri
di Gedeone e la cruenta offensiva finale dell’Idf per occupare la Striscia
di Eliana Riva da il manifesto
«Giuro che li ho vestiti per portarli via di qui. Giuro che ho appena parlato
con lui. Voglio solo che uno dei miei figli sia vivo. Almeno uno». Hussein Odeh
è un campione palestinese di sollevamento pesi. Vive a Jabalia, nel nord di
Gaza, insieme a sua moglie e ai suoi figli di tre, cinque e nove anni. Nei primi
mesi della guerra, un attacco israeliano ha ucciso sua figlia, sua madre e le
sue sorelle. L’esercito ha dato ordine di evacuare, così Hussein ha preparato i
suoi bambini ed è uscito per cercare un passaggio, qualcuno che potesse
accompagnarli a Gaza City. Quando è tornato, la casa non esisteva più. Un
bombardamento israeliano ha distrutto tre abitazioni in pochi secondi. È
iniziata, anche formalmente, l’operazione «Carri di Gedeone». L’occupazione di
Gaza.
«LO GIURO, li stavo portando via, la macchina stava arrivando» continua a
ripetere Hussein in piedi sopra le macerie. Sentiva la voce di uno dei suoi
bambini, ha provato a parlare con lui in attesa che qualcuno arrivasse ad
aiutarli ma suo figlio non gli ha più risposto. La protezione civile non ha
strumenti per spostare i detriti pesanti, Israele non permette l’ingresso di
mezzi e materiali di soccorso. Usano palette di plastica per scavare e spranghe
per fare leva. Nonostante ciò, sono riusciti a recuperare diverse persone ancora
vive sotto le macerie. A ogni flebile segno di vita tra i macigni, la speranza
dei familiari si risolve in urla di gioia e pianto. I soccorritori si infilano
sotto i solai, allungano le braccia più che possono, martellano le pietre per
raggiungere i sopravvissuti. Un lavoro eroico e instancabile, pericoloso e senza
fine.
LE AMBULANZE sono state riempite di decine di corpi ieri a Gaza City, nel centro
della Striscia, quando un attacco nei pressi della Torre Al-Zahra ha ucciso
diversi civili che si trovavano in strada. Tra le vittime, donne e ragazzini. A
Shujaiya i corpi straziati di due giovani sono stati ritrovati accanto ai sacchi
di farina che erano riusciti a rimediare. Sempre nel centro, un neonato di 15
mesi è morto nel raid che ha colpito la sua casa, mentre a Deir el-Balah gli
israeliani hanno ucciso una famiglia di nove persone. Tra loro Siwar di quattro
anni, Muhammad di tre anni, Husaid di una settimana. 150 palestinesi ammazzati
in 24 ore.
Centinaia di vittime in pochi giorni, sofferenze immani, bombe e fame su una
popolazione indifesa e disarmata. Ma a parte qualche dichiarazione, i «potenti»
della terra non fanno nulla. «Non vorremmo più vedere soffrire le popolazione
palestinese», ha confessato tra gli applausi il vicepresidente del Consiglio
italiano Antonio Tajani, «liberiamo gli ostaggi ma lasciamo in pace un popolo
che è stato vittima di Hamas, che ha dato vita a questa guerra. Dobbiamo dire al
governo israeliano basta, la reazione c’è stata, garantite la vostra
indipendenza, la vostra sicurezza ma arriviamo alla pace». Sono parole che
giustificano la vendetta e non annunciano azioni concrete, né mettono in
discussione i rapporti diplomatici ed economici con Israele. Sarà anche per
questo che Tel Aviv si sente libera di poter continuare ad ammazzare e affamare,
sicura della completa impunità. Lo ha detto con chiarezza ieri in un’intervista
televisiva Zvi Sukkot, deputato israeliano del partito Sionismo religioso:
«Tutti si sono abituati al fatto che cento gazawi possano essere uccisi in una
notte, a nessuno al mondo interessa».
DAL VERTICE della Lega araba a Baghdad, il segretario generale delle Nazioni
unite Antonio Guterres è tornato a chiedere di porre immediatamente fine al
blocco di aiuti umanitari. «La situazione dei palestinesi a Gaza è
indescrivibile – ha dichiarato –, oltremodo atroce e oltremodo disumana. Una
politica di assedio e fame è una parodia del diritto internazionale. Questo è il
momento di fare chiarezza morale e agire». L’Unicef ha dichiarato che 45 bambini
sono stati uccisi a Gaza negli ultimi due giorni, tutti vittime di «attacchi
indiscriminati». Più di 950 bambini sono stati ammazzati dal 19 marzo.
SECONDO PIÙ FONTI, Israele e Hamas avrebbero cominciato nuovi colloqui indiretti
in Qatar. Per Reuters si tratterebbe, questa volta, di una discussione «senza
precondizioni» per un cessate il fuoco immediato di due mesi, con trattative per
la tregua permanente. Gli Stati uniti garantirebbero il rispetto del cessate il
fuoco nel caso si giungesse a un accordo. È difficile immaginare che proprio
dopo aver lanciato la sua nuova operazione militare su Gaza, il governo
Netanyahu sia disposto a bloccare gli aerei e l’avanzata dei carri armati. E a
rinunciare ai suoi piani di controllo totale degli aiuti umanitari, giudicati
dall’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) «una distrazione dalle
atrocità compiute e uno spreco di risorse».
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Alla fine il Remigration Summit (Resum2025) è avvenuto; non nel pomeriggio, come
stabilito fino alla sera prima sui canali social dell’evento, ma alle 9 di
mattina del 17 maggio 2025. Dall’ingresso del teatro Condominio Vittorio Gassman
di Gallarate hanno sfilato diverse sigle dell’estrema destra europea. Il tema
della conferenza? Espulsioni di massa per stranieri regolari, irregolari e di
seconda generazione
di Riccardo Sacchi
PreSummt, l’ingresso nero
Lega: ideologia identitaria e modello di espulsione
All’ingresso del teatro, Davide Quadri, esponente della Lega Giovani, si
sofferma con i giornalisti per commentare il tema dell’evento. Secondo Quadri,
si tratta di politiche volte a scoraggiare la migrazione illegale e, più in
generale, a invertire il trend dell’immigrazione irregolare nei Paesi europei.
Quadri continua confermando che la Lega sostiene apertamente queste posizioni:
“Come giovani della Lega abbiamo parlato di remigrazione”, dice, sottolineando
che ci sono “comunicati stampa della Lega che parlano di re-immigrazione a tutti
i livelli”. Sul fronte interno, il tema dei clandestini viene affrontato
ribadendo la posizione del partito: “Sono 350.000 i clandestini in Italia” e
“l’immigrazione clandestina è un reato. Entrare illegalmente in un paese è un
reato”. In merito alle possibili soluzioni, Quadri propone un modello di
espulsione legato all’incentivo degli aiuti europei per obbligare i paesi
d’origine a riprendersi i cittadini entrati illegalmente in Italia: “Legare il
fatto che loro ricevono fondi da parte nostra al dover riprendersi i loro
cittadini che sono illegalmente nel nostro paese”. Cita anche l’approccio
adottato dagli Stati Uniti con El Salvador, dove si stanno realizzando hub o
centri di raccolta in paesi terzi. Quando gli viene chiesto se questi centri
possano essere paragonati a campi di detenzione dove vengono concentrate
persone, Quadri afferma: “No, no… i campi di concentramento sono un’altra cosa”,
precisa. “Io sono stato a Dachau, ho visto cosa vuol dire”, aggiunge. Sul piano
ideologico, Quadri non nasconde l’affinità con certe posizioni: “Come Lega ci
definiamo identitari”, afferma. Non prende le distanze da figure controverse
come Dries Van Langenhove – ex parlamentare belga e volto della destra
identitaria fiamminga -, condannato per razzismo e negazionismo, dicendo: “È
stato condannato per dei meme su una chat Signal… non li ha neanche condivisi
lui”. Quanto a Martin Sellner, figura nota dell’estrema destra europea ed
espulso da più paesi, minimizza la questione: “Mi sembra che Schengen valga per
persone ben peggiori”, commenta, aggiungendo: “Non penso che Martin Sellner oggi
sia persona non grata in America dopo le elezioni”. Un chiaro riferimento di
affinità tra i principi espressi dal tema della remigrazione – quindi dal suo
fondatore – e le politiche di gestione migratoria intrapresa dal governo Trump.
Pubblico: insicurezza e razzismo, “il governo deve fare di più”
“Sono una donna e vado in giro da sola, potete immaginare cosa succede” spiega
una persona, intervistata prima di salire i gradini del teatro. La sua
partecipazione al Remigration Summit proviene da una esperienza quotidiana di
insicurezza non di ordine pubblico: “Con gli italiani non ci sono problemi”
perché civili ed educati – “L’italiano al massimo ti fa un complimento, ti offre
un caffè, si rifiuta, no grazie, finisce lì, ecco” – mentre sono gli stranieri
che provocano insicurezza, spiega alle telecamere. “Loro dicono assimilazione”,
spiega la partecipante al Resum2025 in riferimento alle attuali politiche di
integrazione, aggiungendo che “questa assimilazione purtroppo fino ad oggi non è
avvenuta”. La soluzione? Un’espulsione effettiva degli immigrati irregolari,
paragonando l’ingresso illegale nel paese a un reato come lo spaccio di droga.
Quindi come la polizia va ad arrestare chi spiaccia bisogna rimpatriare, anche
con la forza se necessario, chi non ha diritto di restare:”Bisogna cacciarli
davvero”, insiste. In merito al governo attale e alle sue politiche di gestione
migratoria, la partecipante al summit ritiene che non basti: “La meloni sta
bloccando (gli sbarchi) ma non basta… bisogna fare di più”.
Un “welcome” divisivo
Gli onori di casa sono stati fatti da Andrea Ballarati, ventitreenne, studente
di economia, ex militante di Gioventù Nazionale e fondatore dell’associazione
identitaria “Azione, Cultura, Tradizione” di Como. Ballarati ha accolto i vari
ospiti e spiegato ai giornalisti che “l’evento si svolgerà” anche dopo le
critiche della politica e della società civile. Nei giorni scorsi, infatti, la
Lega ha difeso il convegno dell’estrema destra europea; posizione sostenuta
dall’approvazione dell’evento da parte del Sindaco di Gallarate Andrea Cassani,
che dichiara: “Mi auguro che vada tutto bene perché è giusto che tutti possano
manifestare le proprie idee”. Una decisione politica criticata aspramente da
Angelo Bonelli di Alleanza Verdi che ha definito il summit “un convegno che
inneggia alla xenofobia, alla discriminazione e al razzismo, un’offesa ai valori
della nostra Costituzione”. Posizione condivisa da molte delle persone che scese
in piazza a Milano lo stesso pomeriggio a protestare contro questa follia
chiamata remigrazione.
Il panorama Internazionale: convergenza di pensiero tra estreme destre e FdI
I nomi di spicco che si conoscevano in precedenza all’inizio dell’evento
imbastivano già una trama con conclusione preannunciabile: ridisegnare le
politiche migratorie occidentali. In ordine, seguendo i post Instagram, c’era
Jean Yves Le Gallou, ex parlamentare europeo del Front national degli anni
novanta e cofondatore dell’Istitut Iliade, centro studi che “intende adoperarsi
per la riappropriazione della propria identità da parte degli Europei”, noto per
le posizioni razziste e suprematiste; Elva Vlaardingerbroek, opinionista
olandese, dalle posizioni conservatrici, nota per aver definito “totalitaria”
l’Unione europea, auspicandone “un ritorno ai veri valori”; Martin Sellner,
austriaco di trentasei anni, di fatto l’ideologo dell’evento, nel videomessaggio
su Instagram di presentazione dell’evento spiega che “remigrazione” vorrebbe
dire, secondo quanto riferiscono gli organizzatori, “l’espulsione dei
clandestini, la revisione dei sistemi di asilo e l’introduzione dei rientri
volontari” nonché “l’espulsione dei migranti non inseriti” nella società;
infine, Alfonso Goncalves, fondatore nel 2023 del gruppo filonazista portoghese
Reconquista, simbolo una croce che rimanda alla riconquista cristiana nei
confronti dei Mori della penisola iberica nel 1492. Goncalves aveva espresso
apprezzamenti nei confronti del Resum2025, definendolo “il più grande punto di
svolta nella storia degli europei da secoli”- Oggi il filonazista portoghese
all’ingresso del teatro ha dichiarato che l’Italia è il posto giusto dove
ospitare il summit, buon cibo, buon tempo, bellissimi monumenti e logisticamente
perfetta, ma soprattutto “apprezziamo alcune delle politiche implementate dal
governo Meloni”, aggiungendo che anche se non direttamente associati in tema di
supporto ci sono convergenze di interessi su questi temi.
Summit: la parabola del difensore razzista
Un interesse politico quello di Alfonso Goncalves, ripreso nel videomessaggio,
che ha segnato l’inizio del Remigration Summit, dal Generale Vannacci: “Porterò
la battaglia a Bruxelles”. Dopo aver garantito il suo sostegno, il vice di
Salvini ha aggiungendo che “la remigrazione non è uno slogan ma una proposta
concreta”. “Vuol dire mette al centro gli italiani, gli europei. È una battaglia
di libertà e civiltà, di sicurezza, che è il vero spartiacque fra destra e
sinistra”. Citando l’Europa dei popoli, Vannacci ha innalzato la sicurezza come
protezione per la sua continuazione. “Invece di preoccuparsi di avere più armi,
più cannoni, più sistemi missilistici dovrebbe ricordarsi che il suo primo
dovere è proteggere i propri cittadini dentro i confini europei”. Una guerra
interna quindi, che mette in contrapposizione i popoli europei e una minoranza
non esplicitamente dichiarata ma a cui chiaramente si punta il dito, gli
immigrati.
Il primo intervento in presenza è sato tenuto da Lena Kotré, deputata tedesca di
Alternative für Deutschland (AfD). Il copione ha spaziato dalla la necessità di
rimpatri sistematici per proteggere i valori fondanti delle nazioni fino alla
critica sulla fragilità delle attuali politiche europee sull’immigrazione. Sul
palco è salita poi Eva Vlaar, ospite annunciata dagli organizzatori dell’evento,
che ha puntato il dito contro quella che ha definito “la decadenza morale e
politica dell’Europa liberale”, chiedendo un ritorno ai principi della sovranità
e dell’identità culturale. Un tema condiviso, quello dell’identitario che ha
suscitato applausi tra i presenti. L’intervento successivo ha illustrato
un’analisi comparata tra le dinamiche demografiche europee e nordamericane,
indicando nella pressione migratoria una minaccia sistemica alla stabilità
dell’Occidente. Lo studio eseguito da White Papers Institute, un gruppo di
analisti, ex e attuali professionisti della politica, attivisti e volontari che
forniscono analisi politiche gratuite “grazie al loro impegno per l’indipendenza
e la prosperità del nostro popolo”, era moto tecnico e ideologicamente denso. A
seguire e con decisamente toni differenti è stato Jacky Eubanks, repubblicana
grande sostenitrice di Trump e del verbo Ameria First. Il suo discorso ha
portato il tema della remigazione alla concezione di sfida occidentale comune,
evocando la necessità di un’alleanza transatlantica contro le élite globaliste.
Un concetto di remigazione come progetto che necessita passaggi futuri condiviso
da Dries Van Langenhove, che sostiene l’avvio di un progetto di remigrazione
coordinata a livello europeo. Idee simili sono state riprese da Jhon McLoughlin,
intellettuale irlandese vicino alla destra anglosassone e parte di An Páirtí –
partito nazionalista irlandese-, che ha introdotto il concetto di “erosione
culturale dell’Occidente” per descrivere il declino dei valori tradizionali
sotto la pressione dei cambiamenti globali. La seconda parte del Summit è
iniziata con i videomessaggi di due esponenti della Lega al parlamento europeo;
Isabella Tovaglieri e Silvia Sardone. La prima, eurodeputata varesina, ha
seguito alla lettera il copione leghista degli ultimi giorni sul tema del
Resum2025, difendendo il diritto alla libera espressione politica anche su temi
divisivi come l’immigrazione. Silvia Sardone invece, forte del suo background di
studio sul “l’islamizzazione dell’Italia e dell’Europa”, ha definito l’evento
“un atto di coraggio politico”, lodando chi ha scelto di non piegarsi alla
cultura del pensiero unico. Il primo interveno di persona della seconda parte
della conferenza è stato Kenny Smith, leader del partito nazionalista bianco
Homeland Party del Regno Unito non ché ex dirigente del partito fascista British
National Party (BNP) e del partito neonazista Patriotic Alternative (PA). Il suo
discorso ha dipinto un’Europa come civiltà sotto assedio. A concludere l’evento
è stato Martin Sellner, organizzatore dell’evento. Il suo attesissimo discorso
ha individuato la sostituzione etnica come minaccia esistenziale.
Postsummit, il sorriso della minaccia: si rifarà nel 2026
Sempre Martin Sellner, raggiante in volto, è l’intervistato più atteso
all’uscita del teatro in conclusione del Resum2025. “A Vienna, la mia città, la
maggioranza degli studenti è musulmana. Non ho nulla contro l’Islam, ma l’Europa
non deve diventare il 57° Paese musulmano”, ha dichiarato ai gironalsiti.
L’attivista austriaco ha ringraziato Salvini e Meloni per non averlo ostacolato,
lodando l’Italia come “un Paese che merita di rimanere fedele alla propria
cultura”. Ha notato, però, un clima ancora ostile nelle piazze controchi difende
valori patriottici. “Serve una rivoluzione culturale — ha affermato —, una
rottura con la censura e il pensiero unico. Solo così la destra potrà mantenere
le sue promesse”. Tra le proposte, ha ribadito la necessità di blocchi navali e
di una cooperazione europea contro la crisi migratoria. “Come a Lepanto e a
Vienna, oggi dobbiamo restare uniti”. Sellner ha concluso rivendicando il ruolo
del suo movimento come “lobby patriottica” e sottolineando: “Essere controversi
è un buon segno. Quando tutti la pensano allo stesso modo, spesso c’è una
menzogna sotto”. Salutando prima di andarsene, una persona vicino all’entourage
di Sellner ha confermato che “i sarà un altro Remigration Summit nel 2026,
guardate i nostri social media, lo annunceremo presto”.
Quello che però Martin Sellner non ha capito, è che il clima ostile nelle piazze
ci sarà sempre perché anche solo pensare di remigrazione è intollerabile. Se
Circa 400 fascisti di mezza Europa si presentano a Gallarate, sotto la “tutela”
della Lega, chiudendosi dentro un teatro a confabulare per poi riaprire le
serrande a giochi fatti, l’italia risponde scendendo in quattro piazze diverse a
contestarli. Gallarate non ha piegato la testa, con un flash mob sabato mattina
davanti al Comune alla vicina Busto Arsizio e con il presidio pomeridiano della
Rete Antifascista militante di Varese. Milano invece ha dimostrato cosa
significa resistenza. In San Babila il presidio indetto da almeno 70 tra
partiti, sindacati e associazioni antifasciste, con lettura di diversi articoli
della Costituzione; “30mila persone presenti” a detta degli organizzatori. Da
Cairoli invece il corteo antifascista di movimento “Make Europe Antifa Again” ha
visto 2mila giovani provare ad arrivare alla stazione ferroviaria di Cadorna ma,
accerchiati in mezzo un notevole dispositivo poliziesco, sono stati respinti tra
manganellate, idranti e lacrimogeni concludendo la manifestazione in Pagano.
Perché, se Martin Sellner deve dire “Grazie” a Salvini e Meloni per non essere
stato bloccano “all’esprimersi” per le sue opinioni (neofasciste), ricordiamoci
sempre il fatale destino di colui che le idee fasciste le ha messe in atto.
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Riceviamo e diffondiamo:
L’automobile è stata a lungo la metafora della superiorità dell’Occidente
capitalistico nei confronti del resto del mondo, in cui le popolazioni
viaggiavano a piedi o al più a cavallo e ne ha rappresentato uno dei cuori
pulsante della struttura industriale, diventando una merce di massa che
implicava la crescita tanto dello sfruttamento lavorativo salariato, quanto dei
consumi che, ça va sans dire, del progresso tecnico. E’ stata anche un potente
propulsore di due mitologie capitaliste. Quella della “libertà” intesa come
possibilità resa via via più accessibile alle masse di potersi muovere con più
facilità, che ha contribuito a mistificare la libertà intesa come possibilità di
preservare degli spazi di autonomia esistenziale. E quella del mondo inteso come
“frontiera” sempre più dominabile, la riduzione della distanza, il mondo “a
portata”.
Oggi l’industria dell’automobile europea è in profondo declino. E’ il Green Deal
UE ad aver spinto la strada dell’elettrificazione, ma nel comparto sta accadendo
qualcosa di analogo a ciò che avvenne con la siderurgia. Le aziende cinesi, che
prima del 2000 erano importatrici nette di acciaio e alluminio, in dieci anni
sono diventate il primo produttore al mondo. Nel frattempo, dalle parole di Von
der Leyen, lo scellerato piano di rearmo europeo da 800 miliardi di euro
servirebbe per rilanciare l’economia in crisi ed è stato analizzato proprio come
vettore di riconversione dell’industria automobilistica – in particolare tedesca
– verso il militare. Un piano che, peraltro, ha solo la parvenza semantica di
“sovranismo”, nel momento in cui gli esiti della scellerata guerra per procura
combattuta in Ucraina svelano ancor più il ruolo vassallo degli Stati europei
rispetto agli Stati Uniti: le armi per l’Unione Europea sono affari per il
grande capitale finanziario statunitense.
All’interno dell’attuale guerra mondiale “a pezzi”, particolare rilevanza assume
nell’industria automobilistica il ruolo dell’automazione, con la corsa ai
veicoli a guida autonoma, in cui si svela la compenetrazione tra civile e
militare e la guerra a un’umanità considerata sempre più eccedente.
Di seguito il podcast:
https://radioblackout.org/podcast/lautomobile-cest-la-guerre/
PRESIDIO IN SOLIDARIETÀ ALLA RIVOLTA DI IERI SERA DENTRO IL CPR
Corso Brunelleschi - Corso Brunelleschi
(domenica, 18 maggio 16:00)
18 MAGGIO – ORE 16.00
CORSO BRUNELLESCHI ANGOLO VIA MONGINEVRO
Ieri sera dopo le 22, una potente rivolta è scoppiata nell’area bianca del CPR
di Torino: le fiamme hanno divampato all’interno della struttura fino a
raggiungere il tetto. Ad oggi, a meno di due mesi dalla riapertura del centro,
le rivolte dei reclusi hanno di fatto reso inagibili due terzi della struttura
attualmente in uso. A seguito della prima rivolta del 30 Aprile, che ha reso
inutilizzabile l’area viola, sappiamo che 7 persone sono state denunciate per
danneggiamento aggravato.
La giornata di ieri è stata animata da vari momenti di protesta in un crescendo
di rabbia e insofferenza: a pranzo, i reclusi dell’area blu hanno rifiutato
collettivamente il pasto fornito dalla cooperativa Sanitalia e nel pomeriggio,
un materasso è stato incendiato. Il cibo scarso, di pessima qualità e condito di
psicofarmaci, unitamente all’assenza di un telefono personale, sono state le
ragioni che hanno scaturito questi primi momenti di insubordinazione.
La rivolta nell’area bianca, invece, si è scatenata quando, dopo l’orario di
consegna della terapia, due reclusi hanno tentato la fuga arrampicandosi sulla
rete del cortile. Uno di loro, è stato velocemente raggiunto dalla guardie di
finanza che lo hanno manganellato facendolo cadere per poi colpirlo
violentemente lasciandolo a terra. La persona ferita è rimasta ore in attesa di
soccorsi, mentre nell’area divampavano le fiamme e varie persone recluse
raggiungevano il tetto. Polizia, carabinieri e guardia di finanza sono rimasti
in assetto antisommossa all’esterno dell’area bianca e nel frattempo i vigili
del fuoco intervenivano con l’idrante.
Fuori, un gruppo di persone solidali ha raggiunto il centro. Attraverso il muro
che separa i reclusi dall’esterno, le fiamme erano facilmente visibili, il fumo
era alto e l’odore dei lacrimogeni impregnava l’area. Il coraggio di chi era
salito sul tetto ha reso semplice comunicare direttamente, sentirsi vicini
nonostante il muro alto che ci divide.
La notte di protesta è stata lunga e gli animi non si sono placati. L’ambulanza
è intervenuta sul posto solo molte ore dopo (era già passata la mezzanotte), in
seguito a varie sollecitazioni. Durante tutto questo tempo, le persone sul tetto
intonavano cori e canti, denunciando le condizioni terribili di reclusione
all’interno dei lager di stato e la violenza della repressione.
Attualmente, non si hanno notizie della persona uscita a bordo dell’ambulanza
ieri notte, mentre un altro recluso dell’area bianca è stato trasportato in
pronto soccorso stamattina a seguito di atti di autolesionismo; a loro auguriamo
di ritrovare al più presto la libertà.
I reclusi dell’area bianca hanno passato la notte all’aperto, dormendo nel
cortile sui materassi anneriti dalla fuliggine e attualmente si trovano ancora
lì, visto che le altre aree non sono ancora state completamente ristrutturate, a
seguito delle rivolte del 2023. Sembra che i lavori siano attualmente in corso
nell’area rossa.
Ancora una volta, la forza e la determinazione di chi vive la detenzione
amministrativa han messo a dura prova l’esistenza stessa di una struttura in cui
ogni giorno si materializza tutta la violenza del razzismo di stato. Contro la
tortura quotidiana all’interno di questi lager, le persone recluse non smettono
di lottare e resistere.
Di fronte a questo, da fuori, sentiamo come inevitabile e necessaria la spinta a
tornare sotto quelle mura per trasmettere la nostra solidarietà in maniera
tangibile e decisa: per far sapere a chi lotta che non è mai solo, chiamiamo un
presidio domani, domenica 18 Maggio, alle ore 16, in corso Brunelleschi angolo
via Monginevro.
Perchè il vento della libertà soffi sempre più forte, per far tremare le mura di
ogni prigione.
Contro i mille volti del razzismo di stato!
18 MAGGIO – ORE 16.00 CORSO BRUNELLESCHI ANGOLO VIA MONGINEVRO Ieri sera dopo le
22, una potente rivolta è scoppiata nell’area bianca del CPR di Torino: le
fiamme hanno divampato…
Domenica 8 e lunedì 9 giugno si terranno 5 referendum abrogativi. Quattro
quesiti mirano ad abrogare alcune delle norme introdotte con il “Job Act” di
Renzi tra il 2014 e il 2016, mentre il quinto Si servirebbe a dimezzare il
periodo necessario all’ottenimento della cittadinanza per coloro non nati in
Italia da 10 a 5 anni.
Contesto
I primi quattro quesiti sono stati promossi dalla CGIL mentre il quesito sulla
cittadinanza dai “radicali” e Rifondazione comunista, nonché da numerose
associazioni della società civile.
Il primo quesito propone di abrogare la disciplina vigente che impedisce, nelle
imprese con più di 15 dipendenti, di reintegrare lavoratori o lavoratrici
licenziati in modo illegittimo, se questi sono stati assunti a partire dal 7
marzo 2015, anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta, o infondata,
l’interruzione del rapporto.
Quindi, in caso di vittoria del si, il giudice potrà reintegrare il/la
lavoratore/trice sul posto di lavoro, limitando i licenziamenti arbitrari.
Il secondo quesito propone di abrogare la disciplina vigente che impone un
limite all’indennità per i lavoratori e le lavoratrici licenziati in modo
illegittimo nelle piccole imprese (con meno di 15 dipendenti), dove in tali casi
si può ricevere un risarcimento massimo pari a sei mesi di stipendio, anche nel
caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del
rapporto.
Quindi, il giudice potrò decidere ammontare risarcimento.
Il terzo quesito propone di abrogare alcune delle regole vigenti sull’utilizzo
dei contratti a termine, che li rendono stipulabili fino a 12 mesi senz’alcun
obbligo di causali che giustifichino il lavoro temporaneo da parte del datore di
lavoro, nemmeno in un eventuale giudizio.
Quindi, ogni contratto a termine dovrà sin dal principio specificare una
motivazione valida e verificabile del rapporto a tempo determinato.
Il quarto quesito propone di abrogare la norma vigente che stabilisce la
responsabilità solidale (parziale) di committente, impresa appaltante e
subappaltatori negli infortuni sul lavoro. Nel caso in cui il referendum venisse
approvato, la responsabilità di tali infortuni verrebbe estesa anche al
committente, che dovrebbe quindi risarcire i danni subiti dai lavoratori anche
se derivanti da rischi specifici dell’attività produttiva delle imprese
appaltanti o dei subappaltatori.
Quindi, il committente sarà sempre corresponsabile in caso di infortuni sul
lavoro.
Il quinto quesito propone il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza
legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta
di concessione della cittadinanza italiana. Abrogazione relativa della Legge 91
del 1992.
Riflessioni
Sulla bontà politica di questi quesiti, nonostante la loro parzialità e
remissività, crediamo ci sia poco da dire. Qualsiasi campagna che promuova
maggiori tutele, sicurezza e dignità alla condizione delle lavoratrici e dei
lavoratori, così come un qualche miglioramento per quelle milioni di persone che
vivono il razzismo strutturale ed istituzionale legato alla gerarchizzazione
della popolazione ci ha trovato, ci trova e ci troverà pronti ad aderire.
Inoltre è importante sottolinere lo sforzo di molte realtà politiche
autorganizzate per il raggiungimento del quorum per quanto riguarda il quesito
sull’ottenimento della cittadinanza.
A differenza di chi si accontenta di tornate elettorali e/o referendarie
relegando la piazza ed il conflitto a corredo novecentesco di testimonianza,
crediamo sia miope escludere alcuna freccia dal nostro arco.
Negli ultimi 15 anni, ci sono state alcune tornate referendarie che hanno
coagulato momenti di rigidità popolare che erano espressione delle lotte o per
lo meno un momento per contare contro le restrutturazioni neoliberiste volute
dai vari governi. No al nucleare, no alla svendita dell’acqua pubblica
(ugualmente avvenuta, nonostante la “vittoria”), no alle trivelle, no alla
riforma costituzionale di Renzi.
Ci siamo spesi, a volte più a volte meno in base al contesto, ma più spesso alle
forze disponibili, per contribuire al rispedire al mittente mercificazione,
sfruttamento, politiche ecocide e svolte in favore del potere esecutivo, senza
tuttavia mai crogiolarci in vittorie limpidamente effimere e reattive.
Mettersi qui a fare la lista dei disastri e degli errori strategici della CGIL
dalla crisi del 2008 ad oggi consumerebbe troppi megabyte immagazzinati in
server energivori e sarebbe un esercizio retorico che non ci appartiene.
Tuttavia, nel nostro aderire a votare 5 si, qualcosa è necessario dirla.
Abbiamo davanti, e non a fianco, un sindacato imbelle che nella sua relazione
contorta con uno schizofrenico PD scommette tutto su questa tornata
referendaria. In linea con la tradizione del cosiddetto centro-sinistra, si
scommette tutto su una partita elettorale molto difficile, esponendo il loro
fianco, ma purtroppo quello di tutti ad un rafforzamento contingente
dell’attuale esecutivo.
Un esecutivo abbastanza furbo e nemmeno troppo cripticamente antidemocratico,
che ha posto i referendum durante il secondo turno (ballottaggi) delle elezioni
comunali e regionali e che invita apertamente a non andare a votare per non
raggiungere il quorum.
Mentre Landini, Schlein e Conte fanno i finti tonti gridando allo scandalo sul
boicottaggio del governo, su queste colonne è ridondante sottolineare che a
questo ordine parlamentare della “democrazia”, nemmeno quella formale, non
importa proprio niente.
Il PD che ha emanato il “Job Act”, oggi fa campagna, solo in una sua parzialità,
per abolirlo. Cosa dovremmo dire?
Alla CGIL, forse qualche parola in più. Un breve ripassino perché la coerenza e
la lotta pagano in politica e contrariamente alla vulgata di una certa
intellighèntsia di sinistra, chi lavora, ossia tutti tranne loro, la memoria ce
l’ha.
All’epoca del misfatto, la CGIL della Camusso portò avanti una campagna ridicola
rispetto all’entità dell’ennesimo attacco alle condizioni di vita materiale di
chi lavora in questo paese. Passarono un autunno terrorizzati da tutto ciò che
gli era a “sinistra”.
Le mobilitazioni messe in campo dal sindacato furono tutte volte a depotenziare
il conflitto e la reale messa in discussione del job act, agendo apertamente
contro le lotte, che dal basso spingevano per dare battaglia, non solo nella
retorica e nei salotti televisivi. Le lotte e i cortei autorganizzati e autonomi
che dai posti di lavoro e dal mondo della formazione si muovevano, furono
oggetto degli attacchi della sinistra istituzionale e dei sindacati, spesso
propinandoci la solita vecchia solfa degli infiltrati. Da nord a sud, salvo
poche eccezioni, tutte le piazze in cui si diede del conflitto contro la riforma
del lavoro dovettero affrontare manganelli e aule giudiziarie contando solo
sulle proprie forze.
Infine, peggio del nulla la beffa. Un temibilissimo sciopero generale di 8 h
convocato il 12 dicembre del 2014 lanciato dalla CGIL quando la legge era già
passata, scoraggiò chiaramente la precedente ampia partecipazione dell’autunno
di quell’anno.
Insomma, qualcun* nel sindacato prima o poi si vorrà assumere la responsabilità
di essere stati così “responsabili” e tranquilli?
Le lotte dei migranti e dei giovani e delle giovani di seconda e terza
generazione si sono sviluppate in questi anni in autonomia e troppo spesso con
l’avversione della sinistra istituzionale e dei sindacati confederali. Oggi
agevolare l’otteniamento della cittadinanza sarebbe ossigeno prezioso per le
vite di migliaia di persone che vivono stabilmente in Italia. Va sottolineato
che si tratta di una lieve modifica a uno tra i molti requisiti, come la soglia
minima di reddito o la discrezionalità della decisione da parte delle
commissione sulla base della condotta e delle relazioni personali della persona,
di una legge fondata sul razzismo istituzionale di cui lo stato in cui viviamo è
pregno. Razzismo istituzionale che le lotte combattono quotidianamente,
opponendosi ai cpr, allo sfruttamento del lavoro immigrato e quello abitativo.
La crisi produttiva e demografica del paese verrà ancora caricata sulle spalle
di chi è costretto alla catena di questo lavoro sempre più duro e sfruttato.
Nessuna disillusione quindi, ma la tenace convizione che siano le lotte dal
basso a determinare le conquiste non il contrario.
Oggi, dopo una disastrata decade, si torna a parlare dell’infame riforma del
lavoro di Renzi.
Nel frattempo, le nostre vite sono state costellate dall’approfondimento della
crisi climatica, dall’impotenza davanti ad un genocidio, alla guerra incombente,
dallo smantellamento di qualsiasi forma di welfare e redistribuzione. Dieci anni
dopo, la torsione mortifera del capitalismo contemporaneo riesce addirittura a
rendere apparentemente meno impellente la lotta per la riappropriazione della
ricchezza, per emanciparsi dal lavoro, per renderlo giusto, dignitoso, necessità
e non costrizione.
Ogni formazione partitica e sindacale coltiva il proprio orto, dal disorientato
già citato PD ai 5S ai quali non manca il fegato di non schierarsi a favore del
referendum sulla cittadinanza. Landini e la CGIL puntavano più in alto, sperando
che tra i quesiti vi potesse essere anche quello sull’autonomia differenziata,
questione che avrebbe permesso di portare maggiormente alle urne l’astensionista
sud d’Italia. Tutti a fare calcolini mentre il mondo va a rotoli e a chiamare
ipocritamente le forze sociali alla responsabilità e alla promozione di queste
campagne.
Noi ci siamo, coerenti con quanto fatto in quell’autunno del 2014. Per queste
ragioni invitiamo tutti e tutte a dare il loro contributo per poter raggiungere
il quorum e ad andare a votare per questo referendum. Coscienti che questa è
solo una piccola parte della più generale lotta dal basso che anima
l’opposizione sociale nel nostro paese oggi.