Nuovo accordo tra la Francia e Kanaky: indipendenza o truffa coloniale?
Qualche giorno fa è stato siglato un nuovo accordo tra i partiti indipendentisti kanak e lo Stato coloniale francese. L’accordo prevede l’istituzione di un nuovo Stato caledone  che potrà essere riconosciuto dalla comunità internazionale, pur non avendo diritto a un seggio all’Onu, e  la creazione di una nazionalità caledoniana accanto a quella francese. E’ inoltre […]
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Robert Ferro – Dove va l’Europa? Crisi e riarmo nel cuore dell’Unione
Dal welfare al warfare, dall’automotive al carroarmato, dall’«Inno alla gioia» di Beethoven alla «Marcia imperiale» di Dart Fener. Nel cambio di tema che fa da sfondo all’Europa, l’imperialismo colpisce ancora.  da Kamo Modena Non «guerra stellare», in una galassia lontana lontana, ma ben più prosaicamente mondiale, è lo scenario per cui gli Stati europei preparano piani. Guerra terrestre e marittima, sul continente e nei cieli, nelle reti e nei flussi. Guerra di trincee sotto il fuoco dei droni, sabotaggi di gasdotti e infrastrutture civili, di missili sulle metropoli e operazioni terroristiche di intelligence, di eserciti nazionali e legioni di paramilitari, di attacchi cibernetici e finanziari, di sanzioni commerciali e dazi globali. Guerra di materiali, di chip, di intelligenze artificiali, di produzione e ristrutturazione industriale, di innovazione tecnologica, di disarticolazione delle filiere, di estrazione e saccheggio dei territori, delle popolazioni, delle forme di vita. Guerra preparata da massicci piani di riconversione bellica e da strette repressive del fronte interno. Dalla crisi politica nel cuore dell’Europa alla fine della «fine della storia», dalle debolezze delle borghesie nazionali, dalla subalternità al comando di Washington e ai folli progetti di genocidio di Israele.  Guerra che già ci coinvolge da vicino, senza però un’«alleanza ribelle», anzi, rivoluzionaria, di classe in grado di sovvertirla, ad ampio respiro, in processo di rottura e fuoriuscita da questo sistema che continuamente l’ha generata e la riproduce, su scala sempre più distruttiva, catastrofica, genocidiaria. Prepararsi all’inaspettato. Si è già detto che perfino Lenin, nel 1914, a Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase sbalordito: per il tradimento dell’Internazionale, certo, ma anche per il passo decisivo nello scontro militare tra potenze, ipotizzabile, probabile, ma non del tutto prevedibile. Se anche un genio tattico come Volodja fu colto, allora, di sorpresa, chi ne vorrebbe seguire la misteriosa curva, oggi, nella desertificazione di un pensiero strategico materialmente ancorato a una soggettività di classe di là da venire, può dormire sereno.  Eppure. Eppure il corso della storia può prendere pieghe inaspettate, indipendentemente da ogni attore, da ogni azione soggettiva. Fugaci destabilizzazioni, scosse, sospensioni, dell’apparente linearità. Eventi, movimenti, rotture che rimescolano le carte. Finestre temporali che aprono spazi di manovra, di possibilità. Questi momenti non sono né buoni né cattivi; anzi, possono essere cattivi – quasi sempre lo sono – e possono essere buoni: rapporti di forza che vengono messi in discussione, rapporti di forza che possono essere sovvertiti, riconfigurati, costruiti. Sicuramente, questi momenti saranno tragici. Della tragicità che è propria della libertà, autentica e terribile. È come arriveremo, e ci staremo dentro, a questi momenti, che farà la differenza. Se saremo riusciti ad arrivarci preparati, all’inaspettato. Se riusciremo a guardarla negli occhi, questa terribile possibilità.   Per questo, dal punto di vista militante, in tutti i suoi aspetti, pensiamo che il compito minimo che la fase pone oggi sia quello di aguzzare la vista, affinare il fiuto, stimolare la mente e allenare il cuore ad essere pronti. Costruire le condizioni per cui – nella partita che si gioca, nel minuto dell’inaspettato – essere caldi in panchina, per poter entrare in campo. E non farci trovare fuori rosa, sugli spalti, come spettatori. Come, tirando una generosa mediana, siamo oggi. *** Pubblichiamo allora la trascrizione dell’intervento di Robert Ferro, autore del podcast «Il perno originario» e del volume «Le ménage à trois de la lutte des classes», tenuto all’ultimo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», organizzato al Dopolavoro Kanalino78 da ottobre 2024 a maggio 2025 (ciclo suddiviso in due parti: Vol. I – «Modena nel conflitto globale» e Vol. II – «Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema»). Rimandiamo quindi alle introduzioni dei precedenti contributi di Mimmo Porcaro e Raffaele Sciortino, e ancora prima all’approfondimento del primo incontro sull’«industria della formazione», i motivi, gli obiettivi e le prime considerazioni “a caldo” che ci hanno accompagnato lungo questo percorso di inchiesta, analisi e discussione politica, per andare subito alle domande che ci hanno mosso in questo ultimo appuntamento.  Dove va l’Europa, e quali scenari si aprono, quando i sussulti della crisi, dalle periferie esterne, cominciano a disarticolare il cuore dell’impero, la Germania, e la «fabbrica della guerra» si fa continentale? Dove va l’Europa, quindi, nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina? È possibile un’Europa in conflitto con gli Stati Uniti? Cosa significa per il continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una loro “autonomia strategica” imperialistica, in concorrenza con quella americana? Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione?  Buona lettura. Robert Ferro Introduzione. Germania e Versailles, ritorno al futuro In molti oggi avvertono che il periodo storico più recente – sommariamente, quello della globalizzazione e della sua crisi – è entrato in un frangente delicato, in cui si stanno sciogliendo incognite notevoli, con ricadute altrettanto notevoli sull’evoluzione dei rapporti di classe a qualsiasi latitudine. Il sottoscritto condivide questa impressione. In ciò che segue, si tratterà però di andare oltre le impressioni, cercando di collegarle a dinamiche di lunga durata che riguardano il nostro quadrante di riferimento, quello europeo. La domanda «dove va l’Europa?» è legata a doppio filo alla domanda «dove va la Germania?».  Per cominciare ad abbozzare una risposta, procederemo in tre tappe: in un primo momento, evidenzieremo alcune invarianti storiche del capitalismo tedesco; in un secondo momento, ci soffermeremo su alcuni passaggi della storia tedesca dall’inizio del secolo scorso ad oggi; in un terzo momento, alla luce degli sviluppi precedenti, arriveremo alle prospettive future. Ci si potrebbe chiedere quale sia l’utilità di un simile discorso. A mio modo di vedere, è importante per coloro che si definiscono comunisti essere in grado di proiettarsi in un orizzonte temporale di medio-lungo termine con delle ipotesi forti e fondate sui macroprocessi in corso e sul loro punto di caduta.  Ovviamente, nella storia c’è una componente insopprimibile di incertezza e di contingenza, a cui non sfuggono gli attori più lucidi. Ciò non toglie, per noi, l’esigenza di cercare di anticipare gli eventi, invece che essere costantemente in loro balia o al loro rimorchio. Vista la piega che questi stanno prendendo, non si potrà sfuggire eternamente alla questione del che fare. Affrontarla in maniera quanto più ragionata possibile, significa individuare i due o tre scenari più verosimili e pianificare un intervento in vista di essi. Vi ritorneremo in sede di conclusione.  Invarianti Per invarianti, devono qui intendersi invarianti relative, giacché nella storia nulla si ripete mai in maniera identica. Questo detto, chi ha ascoltato il podcast Il perno originario (che va preso per quello che è: un divertissement), avrà forse intuito che accordo una certa importanza alla lunga durata, e più specificamente ai fenomeni di persistenza storica, di inerzia, di tradizione. Questo, per controbilanciare una tendenza molto diffusa nel nostro ambiente, che consiste a concentrarsi unicamente sul divenire, sulle trasformazioni. Non che questa tendenza non abbia la sua legittimità; spinta fino alle sue estreme conseguenze, essa porta però a farsi una rappresentazione errata del processo storico, come fosse un perpetuo stato nascente (in altre parole: come se tutto stesse sempre ricominciando daccapo). Con buona pace dei costruttivismi filosofici divenuti di moda negli ultimi decenni, un materialismo conseguente non può abbandonare il postulato secondo cui nulla si costruisce dal nulla, e il ventaglio di ciò che può essere socialmente «costruito» (o trasformato) è limitato in varie maniere dal materiale a partire da cui si «costruisce».  Per il caso che ci occupa, questo vuol dire che ogni formazione sociale specifica – cioè ogni declinazione particolare del modo di produzione capitalistico nel tempo e nello spazio – non cade dal cielo bell’e pronta, ma si forma a partire da elementi preesistenti, tra cui (fra gli altri) un territorio e una popolazione. Ovviamente territori e popolazioni non sono immutabili, sono essi stessi plasmati da rapporti sociali pregressi e continuano a trasformarsi nel corso del tempo. Ciononostante, come già anticipato, la portata di queste trasformazioni, in particolare su temporalità ridotte, non è assoluta, e alla scala della nostra storia di specie (300 mila anni circa, allo stato attuale delle conoscenze), uno o due secoli non sono molti.  Nella storia delle nazioni europee, si distinguono sovente – a mo’ di idealtipi – il caso francese, in cui lo Stato produce la nazione, e il caso germanico, in cui la nazione produce lo Stato. Questo è il primo punto su cui vorrei attirare l’attenzione: l’esistenza di un insieme germanofono e il sentimento di appartenenza nazionale tedesca precedono di gran lunga la sua effettiva territorializzazione sotto forma statale. Nel cuore della penisola europea, nella grande pianura che si estende fino alla Russia senza incontrare ostacoli naturali significativi, lo spazio germanico costituisce un blocco etnico-linguistico denso e piuttosto compatto. Esso è situato al crocevia fra le nazioni occidentali territorializzate dall’Atlantico e dal Mediterraneo, da fiumi e da catene montuose, e l’Est del continente, un vasto spazio geograficamente aperto ed etnicamente frammentato, dove il districarsi delle nazioni non ha potuto imporsi con l’evidenza del fatto naturale.  La nazione tedesca ha dunque assunto fin dall’inizio una dimensione semicontinentale: in primo luogo ostacolando, in virtù della sua posizione, la proiezione continentale delle nazioni occidentali (Francia, Olanda, Inghilterra, eccetera); in secondo luogo, proiettandosi essa stessa su scala continentale in forma di diaspora, senza con ciò darsi confini territoriali chiaramente definiti. Mi riferisco qui alla storia della Ostsiedlung, cioè alla formazione di colonie di popolamento tedesche al di là del fiume Elba – un processo assai dilatato sia dal punto di vista temporale che spaziale, con prolungamenti che arrivano fin dentro al mondo russo nel XVIII secolo (tedeschi del Volga) e nel XIX secolo (a Bolnissi, in Georgia). Peraltro, questa spinta verso Est comporta anche dei fenomeni di retroazione, che permettono di moderare l’idea abituale secondo cui la concezione tedesca della nazione e della cittadinanza sarebbe strettamente etnicista: in realtà, nello spazio tedesco, il rinnovamento del materiale umano generazione dopo generazione è avvenuto (e continua ad avvenire) in misura non trascurabile attraverso l’assimilazione di popolazioni slave e magiare.  Questi due elementi – la preesistenza della nazione tedesca rispetto alla sua formalizzazione statale, e la sua proiezione verso Est – non sono una scoperta recente, ma si trovano già nella riflessione dei padri fondatori del socialismo scientifico su questo tema. Ad esempio, si possono trovare indicazioni in tal senso in una lettera del vecchio Engels a Franz Mehring del 14 luglio 1893[1]. Assai più giovane di Engels, Mehring ha fatto in tempo a partecipare all’esperienza della Lega di Spartaco e alla fondazione del Partito comunista tedesco. Come autore, è conosciuto principalmente per la sua biografia di Marx e per una storia in più volumi della socialdemocrazia tedesca. Meno noti sono invece i suoi lavori sulla storia sociale e culturale della Germania, tra cui La leggenda di Lessing (1892), che anticipa molti elementi del dibattito storico sul cosiddetto Sonderweg, la «via originale» tedesca. Nella lettera citata, Engels reagisce in maniera entusiastica all’opera di Mehring, offrendogli in conclusione alcuni spunti supplementari: «Nello studiare la storia tedesca […] ho sempre trovato che il solo confronto con le corrispondenti epoche della Francia dà il giusto metro di giudizio, perché là accade l’esatto opposto che da noi. […] Là, il conquistatore inglese nel Medioevo rappresenta, nella sua intromissione a favore della nazionalità provenzale contro quella francese-settentrionale, l’ingerenza estera; le guerre con l’Inghilterra prefigurano, per così dire, la guerra dei Trent’anni, che però finisce con la cacciata dello straniero e la sottomissione del Sud al Nord [della Francia, nda]. Viene poi la lotta del potere centrale con il vassallo di Borgogna, che si appoggia a possedimenti esteri recitando la parte del Brandeburgo-Prussia; lotta che però termina definitivamente con la vittoria del potere centrale e la creazione dello Stato nazionale. Esattamente nello stesso periodo, da noi lo Stato nazionale (nei limiti in cui il “regno tedesco” entro i confini del Sacro romano impero può essere chiamato uno Stato nazionale) crolla totalmente e comincia il saccheggio su vasta scala del territorio germanico […]». E nel paragrafo successivo:  «Particolarmente significativo per lo sviluppo tedesco è inoltre che i due frammenti di Stato che, alla fine, si sono divisi la Germania non siano, né l’uno né l’altro, Stati puramente tedeschi, ma colonie su territorio slavo conquistato: l’Austria una colonia bavarese, il Brandeburgo una colonia sassone; e che si siano creati una potenza in Germania alla sola condizione di appoggiarsi su possedimenti stranieri, non tedeschi: l’Austria sull’Ungheria (per tacere della Boemia), il Brandeburgo sulla Prussia […]». In quale maniera questi due elementi si coniugano nella storia socio-economica della Germania moderna? Per cominciare, si può dire che in assenza di un quadro politico-territoriale stabilizzato, l’integrazione economica della nazione tedesca ha preceduto la sua integrazione politica, in particolare attraverso lo Zollverein (1834), una vasta unione doganale promossa non dagli staterelli dell’area renano-vestfaliana, ma dalla Prussia, una regione orientale che dal 1945 non fa più parte dello spazio tedesco. Tale integrazione economica era strettamente legata allo sviluppo del settore ferroviario che, per essere ammortato, doveva necessariamente proiettarsi su un mercato esteso la cui costruzione ha fatto leva su elementi oggettivi di coerenza etnico-linguistica e su un sentimento di appartenenza nazionale comune. Questo aspetto rimanda a una questione più teorica e generale che mi limiterò solo ad accennare: in un contesto, quello capitalistico, in cui i processi produttivi più efficienti sono generalmente quelli più intensivi in capitale e meno versatili, la redditività del capitale investito è legata alla produzione in serie. Qual è la sua dimensione ottimale? Essa dipende senz’altro dalla natura concreta delle attrezzature in questione, dalla loro indivisibilità tecnica e dal loro grado di specializzazione; ma in generale, si può dire che la dimensione ottimale della produzione in serie nell’ottica di rendere redditizio il capitale investito si ingrandisce nella stessa misura in cui aumentano il progresso tecnico e la divisione del lavoro.  Il rovescio della medaglia sta nel fatto che è la dimensione del mercato potenziale a determinare, dal punto di vista capitalistico, la scelta tra diverse tecniche produttive, le più efficienti delle quali presuppongono generalmente l’accesso a un mercato più vasto rispetto a quelle meno efficienti. In questo senso, l’esistenza o meno di un vasto insieme nazionale o protonazionale su cui appoggiarsi, predetermina in una certa misura la possibilità per i vari poli capitalistici di emergere come agenti di primo piano dell’accumulazione del capitale. L’estensione crescente dei poli capitalistici egemoni, così come teorizzata da Giovanni Arrighi o da altri autori riconducibili alla World System Theory, non è estranea a questa problematica.  Novecento In Germania, lo status di leader legittimo dell’Europa è stato rivendicato esplicitamente solo di recente dai governi in carica (si veda la Zeitenwende proclamata da Olaf Scholz). Le ragioni di questo stato di cose risalgono, a mio modo di vedere, alla prima metà del XX secolo e alla maniera terribilmente violenta e sanguinosa in cui quel periodo si è concluso.  All’inizio del XX secolo, il relativo declino dell’Impero britannico come «potenza che domina il mercato mondiale» (Marx) apre una competizione tra due poli capitalistici ritardatari, quello americano e quello tedesco, la cui rimonta è stata possibile, in entrambi i casi, solo su basi protezionistiche. In questa competizione, il grande capitale tedesco soffre di una serie di debolezze, la principale delle quali è che il suo Stato – al quale Bismarck, per evitare eccessive ritorsioni, ha dato una forma piccolo-tedesca – non domina il proprio spazio di riferimento.  Nell’ultimo decennio del XIX secolo, avviene il passaggio dal protezionismo bismarckiano al libero scambio e alla Weltpolitik (politica mondiale) della Germania guglielmina, che reclama il suo «posto al sole» fra le grandi potenze coloniali dell’epoca. Questo passaggio spinge l’Impero tedesco, preso a tenaglia dall’alleanza franco-russa, in un tentativo di presa di controllo delle vie commerciali marittime che lo pone in conflitto diretto con l’Impero inglese (donde, fra l’altro, la dimensione navale del conflitto militare, la guerra sottomarina degli U-Boot tedeschi). Al termine del conflitto, i debiti di guerra contratti dagli anglo-francesi e ripudiati dalla Russia rivoluzionaria vengono ripercossi sulla Germania, da cui le condizioni draconiane del Trattato di Versailles, che cancella le acquisizioni territoriali degli Imperi centrali ratificate a Brest-Litovsk (1918), amputa il grande capitale tedesco di buona parte dei suoi investimenti esteri, priva la Germania delle sue colonie (principalmente africane: Camerun, Togo, Namibia, e così via) e le impone il pagamento delle riparazioni. L’ordine di Versailles orchestrato dai capitali anglosassoni e francesi ratifica inoltre l’esistenza di tre paesi, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Jugoslavia, con lo scopo di ostacolare la proiezione tedesca verso Est. Come noto, la sconfitta militare provoca la caduta dell’Impero e una serie di lotte di classe con punte insurrezionali dal 1918 al 1923, la cui sconfitta, combinata con gli effetti devastanti della crisi del 1929, conducono all’ascesa del movimento nazionalsocialista. L’arrivo al potere di Adolf Hitler pone definitivamente fine alla politica di conciliazione con le potenze vincitrici incarnata dalla figura del ministro degli esteri socialdemocratico Gustav Stresemann, e lancia la Germania in una contestazione frontale degli assetti territoriali e geoeconomici usciti dalla Prima guerra mondiale. Fra le altre cose, questa contestazione conduce la Germania a far esplodere i tre paesi riconosciuti a Versailles (nell’ordine: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia). Come noto, essa si concluderà in maniera catastrofica, alla fine della Seconda guerra mondiale, con una capitolazione senza condizioni implicante smilitarizzazione, smantellamento dello Stato maggiore e smembramento del Reich stesso. Sia durante la Prima guerra mondiale che durante la Seconda, lo Stato tedesco elabora progetti a lungo termine volti all’integrazione economica, doganale e monetaria del continente europeo. In estrema sintesi, il progetto tedesco di unificazione europea è quello di un grande spazio (si veda il concetto di Großraum nell’opera di Carl Schmitt) retto dall’egemonia regionale della Germania. Nella sua variante nazionalsocialista, esso avrebbe dovuto e potuto contare, se non su un’alleanza con l’Inghilterra, quantomeno sul suo non-intervento sul teatro continentale, in linea con la politica inglese di appeasement degli anni 1930 (che, come noto, viene invece abbandonata dopo la frammentazione della Cecoslovacchia, orchestra dal Reich nel 1938). Per due volte, quindi, il tentativo della Germania di accedere allo statuto di egemone continentale viene sventato. All’indomani della fine della guerra, gli alleati sono determinati a porre fine alla Germania sia come polo capitalistico avanzato che come Stato unitario e indipendente. Separato dall’Austria, che riacquista rapidamente la sua indipendenza, il territorio tedesco viene balcanizzato tra una Germania occidentale, a sua volta divisa in tre zone (britannica, americana e francese), e una Germania orientale, di cui una parte è sotto il controllo diretto di Mosca (la futura Repubblica democratica tedesca, RDT) e altre due – la Prussia orientale da un lato, la Pomerania unita all’Alta Slesia dall’altro – vengono annesse alla futura Polonia «popolare».  Il progetto iniziale americano, secondo le raccomandazioni del piano Morgenthau elaborato prima della fine del conflitto, è quello di ridurre la Germania sotto il controllo alleato a un paese di agricoltura e pastorizia. Una politica di riduzione delle capacità industriali tedesche viene effettivamente perseguita fino al 1947, attraverso le riparazioni di guerra. Gli impianti industriali vengono smantellati e trasferiti nei paesi occupanti. Nelle tre zone occidentali della futura Repubblica federale tedesca (RFT), non c’è libera circolazione di beni e servizi e nessuna delle tre è autosufficiente dal punto di vista alimentare. La produzione industriale è scesa al 38% rispetto ai livelli del 1936, mentre il settore agroindustriale risente fortemente della mancanza di macchinari e fertilizzanti.  Il livello di razionamento alimentare della popolazione è più draconiano di quello in vigore nella futura RDT: 1000 calorie al giorno contro 1500. Le autorità americane sul posto comprendono rapidamente quale sia il rovescio della medaglia. Il generale Clay, responsabile delle forze di occupazione americane, lo esprime in questi termini: «Tra diventare comunisti con 1500 calorie al giorno e credere nella democrazia con 1000, la scelta è presto fatta. La mia sincera opinione è che il razionamento imposto in Germania non solo porterà alla sconfitta dei nostri obiettivi nell’Europa centrale, ma aprirà la strada ad un’Europa comunista». Il passaggio della Cecoslovacchia nel frattempo ricostituita nell’orbita di Mosca nel 1947 e gli scioperi che si moltiplicano nello stesso periodo nei bacini minerari, siderurgici e automobilistici dell’Europa occidentale sembrano confermare questa diagnosi. Inoltre, un mercato così depresso nel cuore dell’Europa non è privo di conseguenze per il capitale americano, che già prima della guerra soffre di un eccesso di capacità produttive domestiche destinato a riproporsi a conflitto terminato, quando i settori economici requisiti e messi al servizio dell’economia di guerra (automobilistico, chimico, eccetera) devono adattarsi alle condizioni postbelliche.  La combinazione di questi due fattori convince le autorità americane a modificare il loro approccio. Inizia così l’epopea dell’Europa europeista, ovvero la resurrezione del grande capitale tedesco in seno all’impero europeo dell’America. La specificità di questo processo può essere riassunta nel seguente paradosso: il riemergere del capitale tedesco non era voluto, ma si è rivelato passo dopo passo il prezzo necessario e inevitabile del dominio imperiale americano sulla metà «libera» del continente. Nella vulgata riguardante la ricostruzione postbellica, si insiste spesso sull’importanza del piano Marshall. Ma questo non sarebbe stato sufficiente per rilanciare l’economia dei paesi interessati senza l’Unione europea dei pagamenti introdotta, anch’essa sotto pressione statunitense, nel 1951. Nell’ambito del nuovo sistema monetario internazionale varato a Bretton Woods nel 1944, gli scambi internazionali tra i paesi europei devono essere effettuati in dollari. Tuttavia, alla fine degli anni Quuaranta i dollari sono scarsi in Europa, poiché la bilancia commerciale di tutti i paesi europei nei confronti degli Stati Uniti è in deficit. Questo li costringe, in sostanza, a scegliere se commerciare fra loro o con gli Stati Uniti. Il meccanismo di clearing istituito con l’Unione europea dei pagamenti risponde a questo problema.  Allo stesso modo, la ripresa economica non può avvenire senza risolvere i problemi di approvvigionamento di materie prime di base come il carbone, la cui produzione è insufficiente a soddisfare il fabbisogno delle industrie, e l’acciaio, settore che invece registra un eccesso di capacità produttiva. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) istituisce un’autorità sovranazionale responsabile della gestione delle capacità produttive in questi due settori. Il piano Monnet-Schuman (rispettivamente commissario al Piano e ministro degli Affari esteri francesi) per la CECA viene elaborato per risolvere in via prioritaria i problemi dell’industria francese, ma «venduto» agli americani come una soluzione che consentirebbe di evitare la ricostituzione del grande cartello europeo dell’acciaio, dominato a partire dal 1926 dal gigantesco conglomerato tedesco Stahlverein.  La CECA agisce tuttavia nel senso della costituzione di grandi gruppi nei settori di sua competenza e, soprattutto, consente di eliminare le ultime misure che impongono un limite massimo alle dimensioni delle imprese tedesche. Il cuore produttivo europeo ricomincia a battere.  Durante tutta la prima metà degli anni Cinquanta, la priorità degli imprenditori tedeschi è il ripristino di un’unione doganale che consenta loro di puntare sulle economie di scala. Essa viene ottenuta puntualmente nel 1957 con la creazione della Comunità economica europea (CEE, ovvero l’Europa dei sei: RFT, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo). Questa, però, si rivela ben presto troppo ristretta per contenere la rapida crescita del grande capitale tedesco, donde gli allargamenti che avranno luogo in seguito[2]. Allo stesso tempo, lo spazio economico integrato così costituito si rivela una formidabile valvola di sfogo per i capitali americani, che trovano in quest’area non solo un mercato di sbocco, ma sempre più (e in particolare dall’inizio degli anni Sessanta in poi) una zona privilegiata di investimento, attraverso l’apertura di filiali europee di multinazionali americane, volta non di rado ad aggirare i dazi doganali della CEE. Queste filiali dispongono di fonti di finanziamento proprie rispetto a quelle dei capitali tedeschi, francesi, olandesi, italiani, eccetera (si veda il mercato dell’eurodollaro). L’Europa europeista è dunque il risultato di due imperativi opposti: quello dei grandi capitali americani, che mirano ad assicurarsi una vasta zona riservata all’esportazione di merci e capitali, e quello dei capitali tedeschi, che mirano a ritrovare la dimensione critica che consenta loro di inserirsi efficacemente in un contesto di competizione oligopolistica vieppiù internazionalizzata.  Questi due imperativi si sono combinati in modo più o meno virtuoso, con alti e bassi, per diversi decenni. Tutto questo è avvenuto nel quadro dell’impero europeo dell’America che, pur ammettendo la crescita e lo sviluppo del capitale tedesco, imponeva forti vincoli alla sovranità della Germania (anche riunificata), secondo il motto della NATO: «Tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto». Il medesimo dualismo si è poi tradotto anche all’interno delle alte istanze dell’UE – Corte di giustizia, Commissione, Consiglio, Banca centrale, Parlamento – che, lungi dall’avere un orientamento univoco, fanno prevalere, a seconda delle loro prerogative e del loro funzionamento, il punto di vista tedesco o quello americano (anche travestendolo da espressione dei paesi europei periferici, se necessario), cosicché l’istituzione nel suo insieme si configura come un organo di mediazione fra l’uno e l’altro, in un quadro generale che escluda il ristabilirsi di una piena sovranità tedesca («i tedeschi sotto»)[3]. Riassumendo: dopo la guerra e la capitolazione senza condizioni del Reich, dopo la sua balcanizzazione tra il 1945 e il 1949, dopo la ricostituzione di due Germanie su una base più limitata all’interno di un’Europa divisa dalla cortina di ferro, la ricostruzione economica della sua parte occidentale finisce per riportare, nel giro di qualche decennio, la Germania federale nel girone dei grandi paesi industrializzati. Restano però numerosi fattori caratteristici del mondo bipolare che rendono ancora prematura la questione dell’egemonia continentale, potenziale o effettiva.  Verso la fine degli anni Sessanta, il polo capitalistico tedesco nuovamente in rimonta (come quello giapponese, del resto) ha ricominciato a farsi esportatore di capitali, ma questa tendenza risulta ancora assai frenata dai meccanismi di controllo sui movimenti di capitale allora vigenti. Inoltre, la divisione dell’Europa dettata dalla cortina di ferro sottrae tutta la parte orientale del continente europeo alla penetrazione tedesco-occidentale di merci e capitali (per quanto evidentemente degli scambi esistano: inaugurazione dell’oleodotto Druzba nel 1963, Ostpolitik 1969-1974, scambi commerciali RFT-RDT, eccetera).  Questo fatto costringe il grande capitale tedesco a limitare per lo più la sua espansione commerciale in direzione dell’Europa atlantica e mediterranea, allargando la CEE prima alla Gran Bretagna, all’Irlanda e alla Danimarca (1973), poi alle ex dittature militari periferiche: Grecia (che aderisce alla CEE nel 1981), Spagna e Portogallo (che vi aderiscono nel 1986). Nei decenni Settanta e Ottanta, la dimensione mercantilistica, cioè legata all’esportazione di merci, prevale ancora fortemente sulla dimensione imperialistica, legata all’esportazione di capitali – fatto confermato in controluce dai tentativi di integrazione monetaria «morbida» del Serpente monetario (1972-1978), e del Sistema monetario europeo (SME, 1979-1993), elaborati in risposta alla fluttuazione monetaria del dopo-Bretton Woods, principalmente nell’ottica di evitare le svalutazioni competitive degli altri paesi membri del Mercato comune.  È alla metà degli anni Ottanta – e in particolare con gli accordi del Plaza (1985) che impongono alla Germania una rivalutazione del marco sul dollaro – che lo scenario inizia a cambiare abbastanza rapidamente, sciogliendo via via i nodi prima elencati. Nel 1986, l’Atto unico europeo, con l’introduzione della libera circolazione dei capitali nella CEE (fortemente voluta dalla Germania) può essere considerato come lo spartiacque che segna l’effettivo ritorno sulla scena storica di un imperialismo tedesco in senso stretto, ovvero come fonte di massicce esportazioni di capitale.  Questo non significa che la Germania sia in assoluto l’unico imperialismo europeo rimasto sulla scena: semplicemente, la sua portata e il suo potenziale sul piano economico sono incomparabilmente più grandi rispetto a quelli di paesi come la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia – come il seguito degli eventi tende a mostrare.  Nel 1990 la Germania occidentale effettua l’Anschluss della RDT, avviando con ciò la brusca ristrutturazione dell’economia tedesco-orientale, anche a prezzo di mandare in frantumi il SME (tre anni più tardi). Nel 1991 l’URSS si dissolve, aprendo la strada alla rapida frammentazione del blocco dell’Est. Allo stesso tempo, ha inizio il lungo decennio delle guerre jugoslave, innescate dal riconoscimento unilaterale dell’indipendenza slovena e croata da parte della Germania. A questi eventi epocali segue, nel 1992, il «divorzio di velluto», cioè la separazione amichevole della Repubblica Ceca e della Slovacchia, divenuti così degli staterelli da 10 e 6 milioni di abitanti rispettivamente, che in seguito saranno interessati da un intenso movimento di investimenti tedeschi. Da allora, un vasto spazio politicamente frammentato, composto da piccoli Stati con poca autonomia sia economica che politica, viene coinvolto dalla dinamica del capitale tedesco, che ne fa un territorio economicamente integrato.  Infine, questa fase segna anche il ritorno a una politica estera interventista, caratterizzata dall’invio della Bundeswehr per la prima volta dal 1945 fuori dai confini nazionali, nell’ambito dell’intervento della NATO in Kosovo (1999). Gli anni Novanta segnano dunque una svolta diplomatica, in quanto la Germania mette in discussione in modo volontaristico l’architettura europea ereditata da Versailles. Ma segna anche una svolta economica, in quanto l’Europa orientale è uno spazio già industrializzato, con una forza lavoro qualificata, e una vocazione industriale che viene messa al servizio degli investimenti tedeschi. In tutti i paesi della zona, i conglomerati tedeschi realizzano tra il 25 e il 40% dei loro investimenti, dando vita a un vasto blocco economico organizzato, sinergico, funzionale e compatto.  La «nuova Europa» si organizza ormai attorno al cuore industriale tedesco e al suo hinterland continentale, uno spazio economicamente vivace che contrasta in maniera crescente con la stagnazione dell’Europa atlantica e mediterranea.  Tuttavia, per ragioni legate sia alle ipoteche che continuano a pesare sulla sovranità politica dello Stato tedesco, sia ai meccanismi interni di legittimazione politica, sia alla volontà di preservare rapporti di buon vicinato con i paesi occupati durante la guerra, nei successivi anni Duemila nessun leader politico tedesco osa ancora alludere all’egemonia continentale tedesca come un obiettivo auspicabile. In questo frangente, l’esistenza di un interesse nazionale tedesco (che come qualsiasi «interesse nazionale» non è un dato, ma un prodotto di mediazioni e arbitraggi) è politicamente inammissibile, e «l’Europa» diviene il nome ufficiale di questi interessi man mano che la CEE, ora divenuta UE, prende forma e slancio[4]. Pur sfruttando a proprio vantaggio le faglie aperte dalla fine del mondo bipolare, la Germania mantiene dunque un profilo basso, preoccupandosi piuttosto di dotare l’UE di un complesso di regole (Maastricht 1992, Amsterdam 1997, e così via) che consentano una sorta di «governo tecnico» sui paesi membri, surrogato di un’autentica egemonia politica. Alla fine degli anni 1990, l’introduzione della moneta unica completa l’edificio, con l’illusione (soprattutto francese) che essa equivalga alla messa in comune del marco tedesco e, di conseguenza, all’impossibilità definitiva di qualsiasi egemonia o autonomia tedesca. La Germania, dal canto suo, lascia fare e trova persino una certa utilità alle velleità di grandezza del galletto francese, che si sogna capofila politico dell’UE. Sonderweg del terzo millennio La prima metà degli anni Duemila è una fase di rallentamento economico, in cui la Germania, come sovente nel corso della sua storia, viene considerata come un paese destinato al declino. Sulla stampa economica internazionale vi si fa riferimento come «il malato d’Europa». È questo il periodo delle dolorose riforme del mercato del lavoro del governo Schröder, che rivedono al ribasso il compromesso sociale (mantenimento dell’occupazione in cambio di maggiori margini di compressione salariale), nell’ottica di rilanciare la competitività industriale in loco. Cosicché, sotto la guida di Angela Merkel (2005-2021), la Germania consolida ampiamente il suo statuto di potenza economica. Diversamente da quanto accade altrove, lo spartiacque della grande crisi del 2008 gioca piuttosto a suo favore. Non ripercorrerò qui nel dettaglio la storia della crisi dei debiti sovrani in Europa e degli anni successivi. A questo proposito, si può dire che in una prima fase (2008-2015) la Germania si è vista costretta a più riprese a uscire allo scoperto per far valere gli interessi specifici dei suoi settori capitalistici dominanti, in condizioni in cui non era più possibile presentarli come interessi generalmente europei (difesa dell’euro forte tra il 2008 e il 2012, disciplinamento della Grecia, accoglienza dei rifugiati siriani nel 2015 e crisi migratoria associata, eccetera). Il binomio franco-tedesco, che fino ad allora aveva contribuito a contenere la dinamica tedesca, si spacca sulla gestione della crisi greca: malgrado l’appoggio degli Stati Uniti, la Francia, sostenitrice di una politica più flessibile atta a preservare gli interessi del proprio capitale bancario, ne esce provvisoriamente sconfitta. La Germania, dal canto suo, afferma il suo controllo sugli affari interni dei membri dell’eurozona (in Italia, ad esempio, spinge alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi), mantiene una politica della moneta forte e avvia un nuova fase di accumulazione che inizia a basarsi maggiormente sulle esportazioni, prima di merci e poi di capitali, verso i paesi BRICS – Cina in primis.  In una seconda fase, grossomodo dal 2015 in avanti, essa si trova però a fare i conti con lo scontento che questa politica suscita sia nel contesto europeo che internazionalmente (soprattutto negli Stati Uniti), e deve nuovamente fare un passo indietro. La Germania accetta così di essere messa in minoranza in seno alla direzione della BCE sulla questione della politica monetaria dell’eurozona (il bazooka di Mario Draghi, annunciato nel 2012 e attivato nel 2015) e ancora nel 2020, durante la crisi del Covid, con la ripresa del quantitative easing da parte della BCE, associato a un massiccio piano di aiuti (Next Generation EU) concesso dall’UE sotto la minaccia più o meno esplicita di un Italexit. Questo approccio riluttante rispetto al ruolo di egemone politico in Europa raggiunge a mio avviso i suoi limiti con la guerra in Ucraina. Presa nel fuoco incrociato del ricatto morale a sostegno dell’Ucraina, della messa sotto accusa delle sue interdipendenze economiche con la Russia, dell’attacco alle sue infrastrutture energetiche (Nord Stream I e II), delle spinte recessive che da allora gravano sul suo tessuto economico interno e su quello del suo hinterland, la Germania deve finalmente decidere a quale gioco vuole giocare. Il momento delle scelte difficili si avvicina. In parallelo, assistiamo nell’ultimo decennio a un tentativo di autonomizzazione da parte delle alte istanze dell’UE, e in particolare della Commissione europea. A partire dalla Brexit, che giunge a compimento nel 2020, questo tentativo diviene una vera e propria fuga in avanti. Esso si è tradotto in un impiego sempre più incostante e discrezionale del famoso principio di sussidiarietà, applicato in modo ascendente o discendente a seconda delle circostanze, dei compromessi o degli intrighi politici: ascendente quando l’UE, i suoi rappresentanti e i suoi portavoce si attribuiscono funzioni che in linea di principio non sono le loro (come nel caso del dossier ucraino, con l’improvvisa apparizione di una «diplomazia europea» condotta dal duo Von der Leyen-Breton); discendente quando l’UE lascia che i paesi membri se la cavino come possono con questioni che sarebbero di sua competenza, ma che vengono nascoste sotto il tappeto finché che non divengono altamente esplosive. In sintesi, tutto ciò genera un quadro di difficile lettura, delegittimato e inefficiente (anche quando sono in gioco somme ingenti: si veda il Next Generation EU e i suoi esiti), tanto più che numerosi paesi, nonostante la profusione di annunci roboanti da parte della Commissione, conoscono una stagnazione economica di cui per ora non si vede la via d’uscita. Inoltre, i nazionalismi prosperano ormai anche all’interno delle istituzioni rappresentative dell’UE (in particolare nel Parlamento europeo), per quanto il loro ruolo sia notoriamente ridotto. Quest’ultimo punto, a mio avviso, è indice di una tendenza a lungo termine che sta modificando l’arena europea in base ad accordi e iniziative intergovernative, nonostante gli sforzi in senso contrario della casta politica «europea» situata in cima alla piramide. Abbiamo dunque a che fare con due tendenze contraddittorie: da un lato, le spinte della Commissione che, attraverso una politica del fatto compiuto, cerca di mantenere per sé l’iniziativa e di serrare i ranghi; dall’altro, la tendenza ad un’Europa delle nazioni, un’Europa a geometria variabile o un’Europa à la carte, destinata a sfuggire in maniera crescente al controllo della Commissione (si veda ad esempio i vertici di «volenterosi» sulla questione ucraina, prima a 15 e più recentemente a quattro, che hanno coinvolto anche la Gran Bretagna post-Brexit).   La guerra in Ucraina ha reso possibile un ultimo tentativo di centralizzazione sovranazionale da parte dell’UE, soluzione alternativa a quella di un grande spazio esplicitamente dominato dalla Germania. Tuttavia, questo tentativo, incarnato dal protagonismo politico e mediatico di Von der Leyen, è fallito. Tutto l’attivismo di Ursula e dei suoi soldatini per fare della Russia il nemico assoluto, silenziare le voci discordanti e promuovere regime change nei paesi membri recalcitranti, spingere a una rapida adesione dell’Ucraina all’UE nonostante la lista già corposa di paesi candidati, e così via, tutto ciò non è bastato a cambiare l’esito dello scontro militare sul territorio ucraino. La nuova amministrazione americana rincara la dose rompendo ufficialmente con la «diplomazia dei valori» che si supponeva condivisa dall’UE e dagli Stati Uniti, e avviando colloqui per la cessazione del conflitto in Ucraina senza includere rappresentanze dell’UE al tavolo dei negoziati. Il centralismo di Von der Leyen appare sostenibile solo nel quadro di una prosecuzione dello scontro transatlantico con la Russia, riacceso e pilotato a distanza dagli Stati Uniti. Solo nel quadro di un’alleanza transatlantica stretta, l’Unione europea può tenere assieme i suoi diversi membri[5]. A meno che l’attuale orientamento americano non subisca ulteriori inversioni, questo scenario non è il più probabile, anche malgrado le attuali iniziative europee volte a rilanciare la spesa militare in Europa in maniera coordinata dall’UE (vi ritornerò in sede di conclusione).  A trent’anni dalla svolta del 1989-1991, dell’ordine mitteleuropeo di Versailles rimane in piedi solo la Polonia. Naturalmente, dal punto di vista economico essa è strettamente annodata al complesso produttivo tedesco: nel 2021, l’interscambio tra Germania e Polonia ha superato quello tra Germania e Italia, la quale resta un importante polo industriale in Europa, forte di una popolazione 60 milioni di abitanti (per quanto in rapido invecchiamento). Tuttavia, la fissazione del confine tedesco sulla linea Oder-Neisse, stabilita a Potsdam nel 1945 e che ha amputato le due Germanie post-belliche della Prussia – confine il cui riconoscimento tardivo è stato imposto dagli Alleati in cambio della riunificazione – lascia in realtà aperta la possibilità di una disputa territoriale tra i due paesi. La Polonia è un paese di quasi 40 milioni di abitanti, uniti da una forte coscienza nazionale. Essa possiede quindi i due elementi necessari per mettere i bastoni fra le ruote ad un’egemonia politica tedesca esplicitamente affermata: la dimensione critica del suo mercato interno, che le consente di rivendicare una certa autonomia economica sostenendo lo sviluppo di un’industria propriamente nazionale, quantomeno in determinati settori, e quel sentimento nazionale che sostiene la sua capacità di affermare la propria indipendenza nei confronti dell’ingombrante vicino. Dalla disgregazione del blocco dell’Est in poi, la Polonia è riuscita a cavalcare lo sviluppo economico tedesco. In Europa, essa appare come l’unico paese in grado di far fallire un nuovo eventuale tentativo tedesco di instaurare il suo Großraum – fatto che non sfugge agli anglo-americani, i quali vedono in essa il principale vettore dell’atlantismo, e ne hanno fatto il loro avamposto geopolitico sul continente. Tutto ciò ha implicazioni importanti allorché si consideri l’imperialismo non solo come il dominio di un determinato paese o gruppo di paesi, ma come un processo dinamico di esportazione di una dinamica di sviluppo economico. Giacché, diversamente dal mercantilismo, basato sull’esportazione di merci, l’imperialismo, esportando capitali, esporta necessariamente una dinamica di sviluppo.  Laddove una simile dinamica giunge a coinvolgere un paese abbastanza grande e coeso, sia dal punto di vista quantitativo (dimensioni del mercato interno) che qualitativo (senso di appartenenza nazionale, necessario a disciplinare la sua classe capitalista), l’imperialismo crea esso stesso gli elementi della propria sovversione. Il rapporto fra Stati Uniti e Cina è un caso esemplare, ma quello tra Germania e Polonia potrebbe costituire un esempio analogo di questo tipo di evoluzione su una scala più ridotta. La contestazione della posizione egemonica, che mette in discussione la supremazia del paese dominante, può quindi portare quest’ultimo a sostituire i mezzi economici con metodi e strumenti politico-militari.  È evidente come per la Germania vi sia ancora un grande divario tra la prestanza economica del suo grande capitale, e la capacità di tradurre quest’ultima in potere politico e militare nell’arena internazionale. Come già accennato, un simile divario non risulta esclusivamente da un’imposizione esterna (americana), nella misura in cui questa è stata interiorizzata per decenni dalle burocrazie di Stato, dal sistema dei partiti e dalla mentalità di ampi strati della popolazione.  Gli esiti della Seconda guerra mondiale hanno prodotto una cultura politica molto consensuale, che la caduta del Muro ha reso ancor più conformista. Il grande padronato tedesco ha imparato a farsi discreto, e i partiti di governo si sono abituati a un linguaggio privo di contenuto. «La fine della storia è stata fino a poco tempo fa una realtà per la Germania»[6]. Per lo stesso motivo, però, gli annunci di cambiamenti radicali da parte del ceto politico moderato non devono essere sottovalutati. I segni di accelerazione storica si stanno moltiplicando ovunque e – dalla Zeitenwende alle prospettive di riarmo, passando per la soppressione del freno all’indebitamento – la Germania non fa eccezione. In definitiva, la visione qui proposta si distanzia dalle analisi del capitalismo tedesco in termini di neomercantilismo – tra le quali la più convincente è senz’altro quella di Joseph Halevi[7]. Ciò non significa che la dimensione mercantilistica (export oriented, direbbero gli economisti) sia necessariamente marginale. Ma bisogna distinguere, da un lato, la natura dei rapporti economici che il grande capitale tedesco ha intrattenuto con i paesi della CEE prima, dell’UE/eurozona poi e, dall’altro, la natura dei rapporti con le aree economiche situate all’esterno di questo perimetro.  La distinzione fra i due piani suggerisce il succedersi di tre diverse fasi: una prima fase, propriamente mercantilista (1949-1985), nel corso della quale la preoccupazione centrale del grande capitale della RFT è stata quella di ricostruire attorno a sé un’area di mercato sufficientemente estesa da poter assorbire le economie di scala che esso intendeva applicare internamente; una seconda fase (1986-2008) nel corso della quale il grande capitale tedesco si è dispiegato al di fuori della RFT, poi della Germania riunificata, allargando ulteriormente la sua area di mercato privilegiata, ma soprattutto trasformando una parte di essa in una zona di investimento in cui approfondire la divisione del lavoro, strutturando catene del valore complesse; una terza fase (2008-2022), nel corso della quale gli incrementi di produttività preparati dalla fase precedente hanno permesso una più forte penetrazione dei mercati extraeuropei, trasformando inoltre alcuni di questi – in particolare quello americano e quello cinese – in zone di investimento diretto all’estero.  È ancora troppo presto per definire in maniera soddisfacente la nuova fase, ma quel che si può dire fin da ora è che la sua evoluzione sarà fortemente segnata dalla grande scommessa americana volta a riequilibrare in maniera ricattatoria ed extraeconomica i grandi squilibri globali (global imbalances) intercorrenti tra gli Stati Uniti e i paesi che detengono i maggiori surplus commerciali nei loro confronti. Nel caso della Germania, questa scommessa implica di attirare più investimenti diretti tedeschi verso gli Stati Uniti, sia provocando un’ondata di delocalizzazioni nel contesto domestico, sia dirottando gli investimenti esteri tedeschi già in essere altrove (Cina).  Dalla fine degli anni Novanta fino in tempi recenti, l’euro ha formalizzato in maniera relativamente adeguata la combinazione di mercantilismo e imperialismo del capitale tedesco sui due piani summenzionati, ovvero in seno alla propria zona monetaria e al di fuori: un’isola di cambi fissi in un oceano di cambi fluttuanti; una valuta allo stesso tempo forte e svalutata quanto basta per accrescere la competitività delle esportazioni tedesche al di fuori dell’eurozona. Quali che siano i lidi verso i quali il capitale tedesco si dirigerà nei prossimi anni, il necessario prevalere dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci renderà probabilmente superflua la svalutazione del Deutsche Mark data dall’euro. Ciò vale anche nell’ipotesi di un ricentramento degli investimenti diretti tedeschi sul continente, corrispettivo economico del grande spazio di schmittiana memoria.  Conclusione: guerre di oggi… e di domani Il piano di riarmo europeo ReArm Europe (già ribattezzato Readiness 2030) va visto e analizzato alla luce delle tendenze e dei processi messi in luce fin qui. Verosimilmente, esso avrà effetti differenziati a seconda dei paesi, dei loro tessuti produttivi e delle loro capacità di riconversione dal civile al militare (ad esempio il settore automotive tedesco e il suo indotto). Inoltre, esso verrà attuato in un contesto di perdita di controllo delle alte istanze dell’UE sulle spinte centrifughe, e reciprocamente conflittuali, agite dagli Stati membri o da gruppi di Stati membri.  Il ruolo della Germania in questo quadro non è ancora definito, e dipende dal suo posizionamento su una scacchiera più grande. Sulla carta, essa ha tre opzioni: a) rafforzare la sua posizione di junior partner di Washington, puntando tutto sull’accesso agli Stati Uniti sia come mercato di sbocco, sia come zona privilegiata di investimento; b) cercare di traghettare l’UE o una parte di essa verso un’intesa «eurasiatista» con la Cina (in attesa di poter riallacciare i rapporti con la Russia); c) decidere di contare sulle proprie forze, tentando ancora una volta la carta dal grande spazio, nell’ottica di svuotare gli altri paesi europei dei loro capitali nazionali.  L’occasione fa l’uomo ladro: a più di una decina d’anni di distanza dalla crisi dei debiti sovrani in Europa, i paesi della facciata atlantica e mediterranea sono ormai sufficientemente indeboliti da non potersi opporre ad una scalata aggressiva del capitale tedesco nei confronti delle loro economie. Resta una sola vera spina nel fianco: la Polonia. Significativo in questo senso che fra i sedici paesi che hanno finora attivato il principale dispositivo del piano di riarmo europeo (la clausola di esclusione delle loro spese militari dalle regole del Patto di stabilità e crescita), manchino all’appello la Francia, l’Italia e la Spagna, mentre i due principali paesi aderenti siano, guarda caso, Germania e Polonia: per farsi la guerra domani?  Per la Germania, il piano di riarmo si inscrive in una svolta più generale che la porterà ad aumentare considerevolmente la sua spesa pubblica. Si tratta di un keynesismo tutto sommato tradizionale, i cui eventuali benefici si faranno apprezzare sul lungo periodo. In quale misura questa politica economica sia una risposta al tentativo americano, già da tempo avviato e in fase di escalation, di suscitare un’ondata di delocalizzazioni e di investimenti diretti tedeschi negli Stati Uniti, è un interrogativo destinato a rimanere per il momento senza risposta. Comunque sia, ne va della sostenibilità del compromesso sociale domestico, nel solo paese europeo «occidentale»[8] che abbia conservato in tali proporzioni distretti industriali e grandi concentrazioni operaie sul suo territorio. Nel frattempo, l’afflusso sul mercato obbligazionario europeo di un volume massiccio di Bund tedeschi, offrendo agli investitori finanziari un titolo di Stato di alta qualità e in quantità ben più grandi che in passato, potrebbe innescare tensioni questa volta focalizzate sulla Francia – tensioni che potrebbero sancire lo scioglimento dell’eurozona. E se fosse questo lo scopo ricercato? Dalla crisi del 2008 in poi, si sono molto rimproverate alla Germania le sue «ossessioni» austeritarie e le ricadute deflazionistiche della sua politica economica sugli altri paesi europei; meno si sono prese in conto le reali conseguenze di una Germania che le abbandona.  Ma a monte di simili passaggi, incombono in maniera più ravvicinata le conseguenze politiche della vittoria russa in Ucraina. Quando bisognerà infine mettere questa vittoria per iscritto, l’onda di discredito sulle istituzioni europee e sui gruppi dirigenti dei paesi che più hanno spinto l’Ucraina allo sbaraglio contro la Russia sarà prevedibilmente considerevole.  I movimenti sociali che potranno emergere da un simile scenario non saranno puramente proletari: saranno interclassisti, sovente nazionalisti, diretti contro il declassamento dei loro paesi dettato dalla leggerezza (vera o presunta, poco importa) di ceti politici sciagurati, e traditori del sacrosanto «interesse nazionale».  Ma è in simili movimenti, e non in altri più conformi ai nostri schemi e ai nostri desiderata, che bisognerà intervenire nell’ottica di far apparire un’opposizione di classe con una visione antisistemica (anticapitalista). È a questo livello che si pone a mio avviso la prospettiva di una ripresa del movimento di classe nei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ed è in primo luogo a questo tipo di scenario che dobbiamo prepararci.  -------------------------------------------------------------------------------- [1] Una traduzione italiana della lettera si può trovare in appendice all’antologia di Karl Marx e Friedrich Engels, La concezione materialistica della storia, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2008. Reperibile anche qui: https://sinistracomunistainternazionale.com/wp-content/uploads/2015/06/lettera-di-engels-a-franz-mehring-14-luglio-1893.pdf. [2] Per il resoconto storico di tutta questa parte, ho attinto a piene mani dal prezioso libro di Jean-Christophe Defraigne, De l’intégration nationale à l’intégration continentale. Analyse de la dynamique d’intégration supranationale européenne des origines à nos jours, L’Harmattan, Parigi, 2004. [3] Per una storia delle alte istanze dell’UE, vedi Perry Anderson, «Ever Closer Union?», London Review of Books, vol. 43, n.1, gennaio 2021.  [4] Wolfgang Streeck, «Overextended: The Europeans DIsunion at a Crossroads», American Affairs, vol. IX, n.1, primavera 2025, pp. 100-125.  [5] Ibid.  [6] Ulrike Franke, «La questione tedesca secondo una millennial», Limes, n.1, 2022, p. 109. [7] Vedi ad es. Joseph Halevi, «Il neomercantilismo tedesco alla prova della guerra», Moneta e credito, vol. 75, n. 298, 2022, pp. 203-211. [8] Le virgolette sono d’obbligo. È solo al prezzo di grandi forzature e amnesie che la Germania può essere considerata come un paese «occidentale». 
BOGOTA’: Vertice dell’Gruppo dell’Aia contro il genocidio in Palestina
Più di trenta paesi si sono riuniti a Bogotà il 15 e il 16 luglio per la Conferenza d’Emergenza convocata dal Gruppo dell’Aia, nato a gennaio 2025, con l’obiettivo di fermare il genocidio in corso a Gaza. la conferenza co-presieduta da Colombia e Subafrica ha avuto inizio in una piazza germita di persone con il […]
L'informazione di Blackout
Colombia
Sudafrica
boicottaggio
GENOCIDIO GAZA
Verso l’assemblea nazionale “Guerra alla guerra” di domenica 27 luglio a Venaus
Ripubblichiamo due contributi radiofonici che hanno il pregio di illustrare le caratteristiche che si propone di avere l’assemblea nazionale “Guerra alla guerra” di domenica 27 luglio alle ore 12.30 a Venaus, durante il Festival Alta Felicità. Insieme a un compagno di Zaum, collettivo universitario della Sapienza, e ad una compagna del CUA di Torino e della rete stop Riarmo parliamo dell’appello Guerra alla guerra per un’assemblea nazionale contro la guerra, il riarmo e il genocidio in Palestina  da Radio Onda Rossa Facciamo appello a tutti e tutte coloro che sentono la necessità di sviluppare un percorso largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e il genocidio in Palestina. A tutt coloro che già si mobilitano in tal senso e vogliono condividere i loro percorsi, a tutt coloro che vogliono mettersi in dialogo e che vogliono convergere per curvare un destino che sembra ineluttabile.” Così inizia l’appello d’indizione all’assemblea nazionale “Guerra alla guerra” indetta per domenica 27 luglio h 12.30 a Venaus, durante il Festival Alta Felicità. Di fronte ad uno scendario di guerra globale attuale con le rivolte che stanno scoppiando in tutto il mondo ci riportano lo sguardo sui nostri territori e alla cosiddetta guerra interna: i proventi straordinari delle industrie belliche italiani, le numerose basi NATO, così come i decreti sicurezza e i dl emergenza sulle periferie, le zone speciali, i siti di interesse nazionale sono alcuni esempi di come la militarizzazione cresca intorno a noi. Ne parliamo con Zeudi, compagna romana che ha partecipato alla costruzione dell’assemblea da Radio Blackout
SIRIA: la questione drusa al centro dell’agenda espansionistica Israeliana
A seguito della dichiarazione di cessate il fuoco tra l’esercito dell’autoproclamata autorità siriana e i gruppi armati locali a maggioranza drusa di giovedì 17 luglio, già dalla stessa sera sono ricominciati gli scontri nella città di Sweida: l’esercito, ci riporta Marco Magnano in diretta da Damasco, si sta schierando nuovamente verso la città. La miccia […]
L'informazione di Blackout
Siria
Stati Uniti
Israele
colonialismo
Dalla giustizia alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).  Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
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Guerra alla guerra: 27/07 assemblea nazionale al Festival Alta Felicità
“Facciamo appello a tutti e tutte coloro che sentono la necessità di sviluppare un percorso largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e il genocidio in Palestina. A tutt coloro che già si mobilitano in tal senso e vogliono condividere i loro percorsi, a tutt coloro che vogliono mettersi in dialogo e […]
L'informazione di Blackout
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Il paradosso della transizione: la funivia che l’Europa ha bocciato e l’Italia ha promosso
Una funivia divide Trieste: per il Comune è un’opera di mobilità sostenibile, strategica per il turismo; per comitati e ambientalisti è un progetto opaco e impattante. Dopo aver perso i fondi Pnrr è stata rilanciata con fondi statali. Il Tar ne deciderà ora il destino L'articolo Il paradosso della transizione: la funivia che l’Europa ha bocciato e l’Italia ha promosso proviene da IrpiMedia.
Ambiente
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Trasporti
Georges Ibrahim Abdallah uscirà di prigione il 25 luglio, dopo 41 anni di reclusione
Ostaggio della ragione di Stato, «morirà libero a Beirut come resistente» Abbiamo tradotto questo testo apparso su ContreAttaque in seguito alla notizia della decisione di fare uscire dal carcere Georges Ibrahim Abdallah dopo 41 anni di reclusione ingiusta, simbolo della persecuzione e dell’attacco da parte di Stati Uniti e Israele in primis e, di conseguenza della totale complicità di uno Stato europeo come la Francia, nei confronti di un militante anti-imperialista, rivoluzionario marxista libanese. Il testo traccia alcuni episodi salienti della storia di Abdallah, ricostruendo responsabilità e accanimento giudiziario, mostrando un esempio di resistenza e coerenza lungo decenni. Non osavamo più crederci, eppure la decisione è stata presa questo giovedì 17 luglio. Georges Abdallah sta per uscire di prigione. Il rivoluzionario marxista libanese è rinchiuso da più di 40 anni nelle carceri dello Stato francese. Oggi, dopo la liberazione di Leonard Peltier negli Stati Uniti, è uno dei più antichi prigionieri politici del mondo, condannato a un purgatorio infinito dalle autorità francesi. Il prossimo 25 luglio, sarà portato all’aeroporto di Tarbes, poi prenderà un volo da Roissy a Beirut. Il Libano ha confermato alla corte d’appello che si sarebbe fatto carico dell’organizzazione del ritorno. Anche se la decisione può essere oggetto di un ricorso in cassazione, non sarà sospensiva, il che significa che potrà rientrare in Libano anche se il ricorso è avviato. Era liberabile dal 1999, ma tutte le sue richieste erano state rifiutate. L’avvocato di Georges Abdallah, Jean-Louis Chalanset, teme che possa essere assassinato da un drone israeliano al suo ritorno in Libano. In ogni caso, «morirà libero a Beirut come resistente» aggiunge. Ritorno su un affare di Stato. Georges Ibrahim Abdallah, ostaggio dell’imperialismo Georges Abdallah è un militante comunista libanese filo-palestinese. Negli anni ’80, partecipa alla creazione della FARL – Frazione dell’Esercito Rivoluzionario Libanese – che praticherà azioni di guerriglia in Medio Oriente e in Europa, in particolare in Francia. La FARL è un’organizzazione marxista e antimperialista impegnata nella liberazione della Palestina. Nel 1982, il gruppo rivoluzionario armato libanese rivendica gli omicidi del tenente colonnello Charles R. Ray a gennaio, un addetto militare americano, e di Yacov Bar Simantov ad aprile, consigliere dell’ambasciata israeliana a Parigi. Queste operazioni armate contro i due diplomatici fanno entrare la FARL nel panorama mediatico francese. Si inseriscono nel quadro della resistenza all’invasione del Sud Libano da parte dell’esercito israeliano. Georges Abdallah è stato arrestato a Lione il 24 ottobre 1984 per possesso di passaporti falsi e porto illegale di armi. Fino a quel momento, niente lo avrebbe dovuto destinare a passare il resto della sua vita in prigione. Il suo primo processo si tiene nel luglio 1986, e Georges Abdallah venne condannato a quattro anni di detenzione per “associazione a delinquere”, “detenzione di armi ed esplosivi” e “uso di documenti falsi”. Ma gli Stati Uniti si impadroniscono del caso e vogliono fare del detenuto un caso simbolo. L’ambasciata americana a Parigi si dice “sorpresa” dalla “leggerezza” della pena. Un secondo processo ha luogo nel 1987, per “complicità di omicidi”, in un clima di estrema tensione. I media e le autorità attribuiscono alla FARL una serie di attentati avvenuti in Francia nel 1986, che uccisero 13 persone. Quindi quando Georges Abdallah già si trovava in prigione. Si è trattato di un’operazione di criminalizzazione e demonizzazione del detenuto, dal momento che le autorità francesi non avevano alcun elemento per costruire un’accusa contro di lui. Si scoprì che in realtà, questi attentati mortali erano stati commessi dall’Iran. Ma all’epoca, la Francia stava negoziando accordi succosi con la dittatura dei Mollah e fu così più pratico scaricare la colpa su un piccolo gruppo marxista. Una campagna di narrazione tossica venne organizzata dalla stampa. Abdallah viene descritto come il nemico pubblico numero uno. Il processo si svolge direttamente sotto la supervisione degli Stati Uniti, che si costituiscono parte civile e inviano un avvocato e fanno pressione per aumentare la pena. Il 28 febbraio 1987, l’attivista libanese è condannato all’ergastolo. Una decisione che va molto oltre le richieste del procuratore, che aveva chiesto un massimo di dieci anni di carcere. E tutto questo mentre il suo faldone è quasi vuoto. Durante il processo poi, Abdallah viene tradito dal suo avvocato Jean-Paul Mazurier che si rivelerà essere un agente della DGSE (Direzione Generale della Sicurezza Esterna). Durante il processo, la linea difensiva di Abdallah è chiara: non è lui che ha commesso gli atti di cui è accusato, ma non se ne dissocia per questo. Spiega con calma che se avesse potuto dare un colpo agli interessi israeliani e statunitensi, l’avrebbe fatto: «Se il popolo non mi ha affidato l’onore di partecipare a queste azioni anti-imperialiste che mi attribuite, almeno ho l’onore di essere accusato dalla vostra corte e di difendere la loro legittimità di fronte alla criminale legittimità dei tribunali». Solo che non si può rinchiudere qualcuno a vita per le sue idee, e senza la minima prova. «È ormai ovvio che Abdallah è stato in parte condannato per quello che non aveva fatto», riconoscerà anni dopo l’ex giudice antiterrorismo Alain Marsaud. Dal 1999, una libertà rifiutata Georges Abdallah diventa ostaggio della ragione di Stato e del sostegno francese agli Stati Uniti. Languisce in una prigione a Lannemezan dagli anni ’80, mentre è liberabile dal 1999. Una libertà che gli viene negata per motivi politici: Georges Abdallah è sempre stato fermo sulle sue posizioni anti-imperialiste e ha rifiutato per tutta la vita di rinnegarle, nonostante la reclusione. Già nel 2013, sarebbe dovuto uscire. A seguito della sua ottava richiesta di rilascio, la giustizia ha ritenuto che fosse finalmente liberabile, mancava solo un piccolo pezzo di carta per tornare a casa, in Libano. La Francia doveva semplicemente firmare un ordine di espulsione, per mano del Ministro dell’Interno dell’epoca: Manuel Valls. Ma Hillary Clinton, allora segretario di Stato dell’amministrazione Obama, telefona a Laurent Fabius, ministro degli Esteri francese per metterlo sotto pressione. “Anche se il governo francese non è legalmente autorizzato ad annullare la decisione della corte d’appello, speriamo che le autorità francesi possano trovare un’altra base per contestare la legalità della decisione” scrive Clinton. Un messaggio rivelato anni dopo da WikiLeaks. Il decreto di espulsione non sarà mai firmato da Manuel Valls, che riconoscerà: «C’è stato indiscutibilmente un intervento americano». I suoi parenti si stavano già preparando ad accoglierlo. Era 12 anni fa. Nel novembre 2024, colpo di scena: «Con decisione in data di oggi, il tribunale di esecuzione delle pene ha ammesso Georges Ibrahim Abdallah al beneficio della liberazione condizionale a partire dal 6 dicembre, subordinata alla condizione di lasciare il territorio nazionale e di non tornarci più». Ma il tribunale antiterrorismo di Parigi fa immediatamente appello, svuotando le speranze dei suoi parenti. Nel febbraio 2025, la Corte si è ritenuta favorevole alla sua liberazione, ma chiedendo uno “sforzo consistente” per il risarcimento delle vittime. Georges Abdallah rifiuta, mantenendo la linea della sua posizione di prigioniero politico. Il 19 giugno, l’avvocato aveva comunque fatto sapere che 16.000 € sarebbero stati disponibili per le parti civili. La procura generale – così come gli Stati Uniti – avevano fatto sapere che non era sufficiente, e chiesto una “forma di pentimento”. Solo che non siamo negli Stati Uniti. Il pentimento non esiste nel diritto francese. Suo fratello si è detto “felice della decisione francese, non avremmo mai immaginato che sarebbe stato finalmente liberato”. Non osavamo nemmeno più sperarlo.⁩
L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo) Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti.  Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima). Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone.  Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città. *     *     *  La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata. La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non. I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare. Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti. Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti. Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”. Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori. Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo. Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”. La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza. Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza. Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa. Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso. La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana. Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.
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[2025-07-31] GIORNATA DI AUTOFINANZIAMENTO AL VASCONE @ Parco della Certosa Irreale
GIORNATA DI AUTOFINANZIAMENTO AL VASCONE Parco della Certosa Irreale - . (giovedì, 31 luglio 17:30) Una giornata di autofinanziamento organizzata dax giovani punx & Mezcal Squat per continuare l'autogestione della sala prove, coltivare responsabilità e avere cura dei posti che si attraversano. Dalle 17:30 ci trovate prontx al vascone di Collegno (parco della certosa IR-reale), con musica, birre e banconi di vestiti usati e lavati. Dalle 19:00 iscrizione e dalle 20:00 torneo di freestyle non sessista con x ragazzx che si vivono la realtà del Regio. Vieni a conoscere e supportare! NO MACHI NO FASCI NO STRONZI DI OGNI ORDINE PROFESSIONALE
Benefit
benefit
Mezcal occupato
lotta
concerto
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo-guerra”
Riceviamo e diffondiamo: È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”, dell’estate 2025. Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires: disfare@autistici.org * 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su) * 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards) * 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de 3 exemplaires) Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan
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