La Procura di Genova ha aperto un fascicolo per atti relativi alla nave Bahri
Yanbu, il cargo saudita su cui sono stati trovati armamenti e mezzi militari
cingolati.
da Radio Onda d’Urto
Il fascicolo è in mano al procuratore aggiunto Federico Manotti. Le indagini
sono partite dopo che l’Usb ha presentato un esposto ieri sera in cui ipotizza
la violazione della legge 185 del 1990 che regola il transito di armi nei porti
italiani.
Proprio questa mattina c’è stata una nuova protesta del sindacato Usb e dei
portuali del Calp contro la presenza e il passaggio di armi nel porto di Genova
con il blocco del varco Etiopia e del varco Ponente di mezzi pesanti diretti
allo scalo genovese. La protesta nasce dalla scoperta, immortalata da alcune
foto scattate dai portuali e diffuse sui social ieri sera , di mezzi militari
americani e diversi container carichi di materiali esplosivi a bordo della Bahri
Yambu attraccata al terminal Gmt.
“Ieri pomeriggio abbiamo presentato immediatamente un esposto – spiega José
Nivoi di Usb – a tutte le autorità competenti affinché verificassero la
regolarità della documentazione e il rispetto della normativa. Ci è stato detto
che le armi non sono destinate a Israele e i documenti sono regolari ma
aspettiamo di vedere la documentazione vista soprattutto la storica alleanza tra
Usa e Israele”.
Il racconto di José Nivoi di Usb
Mentre si cerca di presentare una Valle pacificata, l’apparato
politico-industriale a sostegno dell’opera Tav Torino-Lione si riorganizza
attraverso l’ennesimo incontro in Prefettura, volto a rafforzare il controllo
poliziesco del territorio e a ottenere nuovi finanziamenti pubblici. Lontano da
un reale confronto con le popolazioni locali, lo Stato risponde alla
determinazione della resistenza No Tav con risarcimenti alle imprese, indennizzi
per chi deturpa i territori e un incremento dei presidi armati in Valsusa.
da Notav.info
Il Prefetto, i Ministri Salvini (in videoconferenza) e Urso, la Vicepresidente
della Regione Chiorino e il Presidente degli Industriali Gay hanno messo in
scena un vero e proprio teatrino: gli imprenditori lamentano danni, le
istituzioni promettono fondi e maggiore sicurezza, TELT si presenta come
vittima, e il Governo rilancia con nuovi espropri e aumenti di personale. La
cosiddetta Decisione di Esecuzione dell’UE, che continua a essere presentata
come una svolta epocale, altro non è che un documento tecnico che formalizza
quanto già in atto, confermando che i lavori si protrarranno per anni, forse
decenni. Nessuna opera in via di completamento, dunque. Nessun finanziamento
certo. Solo fumo negli occhi.
Nel corso dell’incontro del 6 agosto, il direttore generale di TELT, Maurizio
Bufalini, ha definito “vili” gli attacchi contro le imprese nei cantieri,
sottolineando la necessità di sostenere gli imprenditori danneggiati. Pur non
potendo ignorare la retorica usata, rimane evidente come questa narrazione punti
a dipingere come vittime chi invece sta portando avanti un’opera imposta e
rigettata da trent’anni, dimenticando che il vero soggetto danneggiato è la
Valsusa, sottoposta a una vera e propria militarizzazione e devastazione
ambientale.
Si prevede inoltre un potenziamento delle forze dell’ordine, a conferma che i
cantieri, lungi dall’essere “normalizzati”, continuano a essere percepiti come
corpi estranei e necessitano di una protezione poliziesca permanente. In un
Paese in cui il Governo si rifiuta di investire in sanità, scuola o servizi
essenziali, è significativo osservare come invece si trovino fondi e risorse per
aumentare la presenza di polizia in Valle, confermando che il Tav non può
avanzare senza blindare il territorio e reprimere chi vi si oppone.
Le associazioni di categoria piemontesi, in particolare Ance Torino, API Torino,
Confapi Piemonte, Ascom Confcommercio, Confindustria Piemonte e Unione
Industriali Torino, presenti all’incontro, hanno espresso pieno sostegno alla
sicurezza dei cantieri, ponendo l’accento non solo sull’ordine pubblico, ma
anche sulla necessità di un contesto operativo stabile e sicuro per garantire
“sviluppo e occupazione”. È curioso come “sviluppo” e “sicurezza” vengano intesi
qui esclusivamente in chiave di tutela economica e istituzionale delle imprese,
ignorando del tutto le comunità locali e l’ambiente devastati dall’opera.
Nel frattempo, continua la sottrazione forzata di case, giardini e terre a danno
degli abitanti della Valle: terreni espropriati da TELT “nel rispetto delle
normative”, ma con una violenza che non lascia dubbi. In questo contesto, si
aggiunge anche il tentativo di simulare, dopo quasi trent’anni di lotta,
uno “sforzo di patto sociale con il territorio” attraverso incontri pubblici
(scarsamente partecipati), organizzati in maniera strategica dai sindaci e da
Telt a Susa e Chiomonte, a ridosso della Decisione di Esecuzione dell’UE. Questi
appuntamenti hanno avuto un unico obiettivo: presentare il progetto e le sue
ricadute come se fossero stati accettati dalle comunità locali, ma in realtà
rappresentano un mero teatrino propagandistico volto a legittimare un’opera
imposta senza consenso.
Nel mentre, si tace sui danni ben più gravi arrecati al territorio, alla salute
e alla libertà. La marcia popolare del 27 luglio ha dimostrato ancora una volta
che la Valle non è affatto pacificata, riempiendo sentieri e circondando i
cantieri. La stessa notte, un attentato incendiario ha colpito il Presidio No
Tav di San Didero, senza alcuna parola ufficiale di condanna o notizia sui
responsabili. Quando ad essere colpito è il Movimento No Tav strategicamente
cala il sipario.
E proprio perché la Valle non è pacificata, si attua un’ulteriore manovra di
controllo e finanziamento. Non è soltanto lo Stato a trarre vantaggio dal Tav.
Alcuni sindaci compiacenti, in particolare quelli di Chiomonte e Susa, hanno
beneficiato di ingenti compensazioni, rese possibili anche grazie alla pressione
esercitata dal movimento No Tav nei decenni, che ha costretto lo Stato a
elargire fondi per evitare un fronte unanime di sindaci contrari.
Tali somme, spesso presentate come investimenti sul territorio, sono in
realtà compensazioni ottenute sotto ricatto: fondi destinati originariamente a
opere di messa in sicurezza, manutenzione ordinaria e servizi di base, vincolati
all’accettazione dell’opera. Senza Tav, niente risorse. È così che questi comuni
hanno ottenuto compensazioni significative, utilizzate per progetti spesso
superflui o ornamentali. Questi finanziamenti consentono oggi a tali
amministrazioni di vantare disponibilità economiche che altrimenti non avrebbero
avuto.
Il modello è chiaro: il Governo concede fondi e protezione politica, TELT agisce
da ente clientelare, e alcuni sindaci si trasformano nel suo megafono. Il
risultato? Un territorio devastato, popolazioni espropriate, dissenso
criminalizzato e comunità impoverite.
Si racconta di un’opera “strategica” per l’Europa, ma il vero progetto
strategico è altro: criminalizzare la protesta, occupare militarmente un
territorio e drenare risorse pubbliche per un’opera inutile, imposta e
insostenibile.
Chiunque sperasse in una Valle silenziosa si è profondamente sbagliato. Il
Festival Alta Felicità partecipato da decine di migliaia di giovani, la marcia
popolare di luglio, i blocchi, i presidi e le numerose iniziative testimoniano
una volontà che si rinnova ad ogni tentativo di cancellarla: il movimento No Tav
è vivo e determinato a non arrendersi.
Riportiamo di seguito gli interventi introduttivi dell’assemblea nazionale
tenutasi domenica 27 luglio durante il Festival Alta Felicità in modo da
sottolineare le caratteristiche del percorso di mobilitazione contro guerra,
riarmo e genocidio in Palestina proposto in tale occasione.
E’ stato aperto un canale telegram GUERRA alla GUERRA sul quale poter ritrovare
il report dell’assemblea e i prossimi appuntamenti.
Abbiamo chiamato l’assemblea “Guerra alla guerra”: non vogliamo che sia soltanto
uno slogan, ci siamo ispirati a ciò che si sta organizzando al di là delle Alpi,
ma anche perché pensiamo che ciò di cui c’è bisogno oggi sia una guerra a un
modello che è quello occidentale, imperialista, coloniale, capitalista,
patriarcale e che rappresenta un modello di pace contro il quale dobbiamo
batterci. Questo momento di assemblea pensiamo sia urgente per stimolare un
dibattito collettivo su alcuni aspetti. La prima questione su cui ragionare oggi
è su cosa possiamo costruire un’unità che è evocata da più parti per un percorso
comune contro il riarmo, contro la guerra e contro il genocidio in Palestina.
Non per un senso di unità di per sè, non per costringerci a trovare una sintesi
di lettura geopolitica rispetto alla fase che stiamo attraversando, ma a partire
da degli obiettivi comuni e ciò che riscontriamo come urgenza è quella di capire
quali sono le condizioni che dobbiamo porre per creare un percorso, un
movimento, che sia reale e incisivo contro il riarmo, contro la guerra e a
sostegno della Palestina. Oggi pensiamo sia interessante chiederci quali siano
queste condizioni, noi ne iniziamo a porre sul piatto alcune.
La prima, è quella di ambire a un movimento che sia di massa, che possa offrire
un immaginario e una proposta nella quale ci si possa riconoscere, che sia
capace di coinvolgere sempre più persone al di là di chi già si mobilita;
dobbiamo porci il problema di come si articola la guerra sui nostri territori e
nelle nostre vite, quindi concretamente agire per opporsi con tutte le forme e
le pratiche possibili; pensiamo anche che il nostro compito oggi, la nostra
responsabilità, sia ricostruire fiducia, rapporti sociali reali, laddove
dilagano delega, sfiducia, di opportunismo e strumentalità per restituire anche
il senso della possibilità e della vittoria; lo abbiamo ripetuto nelle piazze di
quest’anno nelle mobilitazioni per la Palestina, ce lo insegna la Palestina,
dunque è ora di uscire dalla retorica dello slogan e essere conseguenti,
chiarire chi è la nostra controparte, agire collettivamente.
Per fare questo vorremmo tracciare una proposta che condividiamo qui, che
vorremmo costruire insieme e che si compone di diversi aspetti. Innanzitutto,
avviare percorsi sui territori e dai territori che possano costruire contesti
ampi in cui ci sia la possibilità di confronto e attivazione per colpire gli
obiettivi presenti su quei territori: dalle fabbriche di armi, alle basi
militari, ai progetti bellici in ambito accademico, guardando a esempi virtuosi
di chi oggi mette in campo iniziative per bloccare, sabotare la logistica della
guerra; in secondo luogo, vogliamo guardare a un momento di mobilitazione
nazionale a Roma che abbiamo immaginato per l’8 novembre, per fare si che sia
una grande manifestazione nazionale che si ponga il problema di indicare e
praticare degli obiettivi precisi che incarnano i nemici comuni. Il nemico è
comune per noi, per chi abita nei quartieri popolari, per chi lotta contro una
grande opera inutile, per chi resiste qui e altrove nel mondo; tutto questo per
poi tornare sui territori perché pensiamo che un percorso come questo debba
essere pensato sul lungo periodo e quindi continuare e avere altre tappe, altre
possibilità di confronto per costruire effettivamente una forza e allargare e
coinvolgere sempre più persone e darsi ulteriori tappe comuni.
Per concludere, quello che ci teniamo a sottolineare è che pensiamo che questo
momento non sia risolutivo, non pensiamo di avere la pretesa di vedere questo
come l’unico percorso, questa come l’unica data. Sappiamo che ciascuno e
ciascuna sta lavorando da mesi, da anni, sul proprio territorio per costruire
dei percorsi che vadano in questa direzione. Pensiamo sia necessario però
riuscire anche a condividere quelli che sono degli strumenti, delle pratiche,
condividere dei percorsi, mettere a disposizione anche le proprie agende,
supportare tutte le iniziative che vanno in una direzione effettiva, reale, per
andare in un’ottica, in una prospettiva di lungo periodo, per renderci davvero
incompatibili rispetto a quello che è il piano di riarmo, di militarizzazione,
di guerra della nostra società.
Di seguito l’intervento di apertura di Quarticciolo Ribelle
La chiamata che abbiamo provato a fare oggi non è facile ma, come uno degli
slogan che abbiamo utilizzato nelle nostre rotte territoriali a Roma,
Quarticciolo, “non è facile ma è necessario”, dobbiamo riunirci per capire cosa
possiamo fare in più, che pezzettino in più possiamo fare per contrastare la
guerra e soprattutto interrogarci insieme, quale forme darci e come portare
avanti una trasformazione ed essere incisivi.
A dirla tutta penso che avremmo dovuto procedere al contrario. Avremmo dovuto
innescare prima un processo di partecipazione e poi invitare tutti e tutte alle
discussione ma è necessario scendere in piazza, é necessario praticare un
obiettivo chiaro e leggibile dove tutti si possono riconoscere, è necessario
trovare delle pratiche che possano dare la parvenza alle persone che vi
partecipano di poter incidere su qualcosa. In questo senso guerra alla guerra.
Avremmo dovuto procedere al contrario perché il nostro obiettivo non siamo noi
seduti qui ma sono coloro che non riusciamo a mobilitare nonostante ce ne sia la
voglia. In questo senso abbiamo amici dappertutto. A differenza di altre fasi,
secondo noi, la maggioranza delle persone è contraria a quello che succede in
Palestina, é contro la guerra. A differenza di altri momenti non dobbiamo
convincere nessuno e se volete potrebbe essere piu facile. Invece, abbiamo di
fronte una sfida quella di trovare le forme giuste, trovare la modalità perché
le persone abbiano più fiducia nella politica. Il corteo deve essere una tappa,
non solo il corteo che stiamo proponendo qua, ma tutte le proposte che sono
state fatte negli scorsi mesi.Lo sforzo invece che dobbiamo fare è di capire
come da un’indignazione, che può essere di tipo individuale, si possa passare
alla condivisione di pratiche che danno la possibilità a tutti di partecipare
per favorire un processo che possa essere incisivo.
Io credo che parte della frustrazione che condividiamo derivi da quello che
mettiamo in campo che magari non va, ma dobbiamo partire da quelle pratiche e
strumenti che dobbiamo mettere in condivisione, dal boicottaggio, al
sanzionamento, che possano mettere in difficoltà la controparte che è comune a
tutti e tutte. In questo senso c’è una composizione giovanile che in questi mesi
ci ha anche aiutato a capire come essere incisivi. Penso alle pratiche di
boicottaggio che sono state fatte all’università, queste devono continuare, e ci
hanno insegnato come poter incidere, infatti molte facoltà di molte università
hanno deciso di stracciare gli accordi con l’Università di Israele. Penso che
sia fondamentale che ognuno riesca a fare il suo pezzetto bene e che riesca a
parlare ai molti, che si costruisca un processo per cui anche personalità che
oggi non hanno un’appartenenza possano trovare un megafono collettivo tramite il
quale esprimersi. Penso che ognuno debba continuare a portare avanti le proprie
lotte sui territori e trovare delle modalità cittadine per costruire delle
pratiche di boicottaggio e di sanzionamento che ci fanno arrivare al corteo
avendo costruito delle pratiche comuni contro la guerra. Il senso di quello che
facciamo territorialmente ci serve per continuare a stare all’interno di una
compagine sociale che non è sicuramente quella giovanile, che trova in Meloni,
Trump ecc una risposta alla crisi pensando che quella compagine possa difenderli
e rendere le loro vite più sicure, che potranno avere maggiori garanzie
difendendo le industrie nazionali, che potranno difenderli dalla concorrenza
degli stipendi da fame. Sono territori dove il conflitto e la violenza si
dispiega in linea orizzontale e dove i vari dl Caivano servono per dividerci.
Oggi come Quarticciolo stiamo ancora lottando contro un modello di società e
abbiamo vinto una piccola battaglia sul piano delle periferie, ma non è detto
che vinceremo la guerra di questi 3 anni. Pensiamo che ci sia molto da fare e io
credo che le lotte territoriali, come anche la nostra, siano in relazione
all’economia di guerra, nella logica di guerra. Ciò avviene nella misura in cui
c’è una guerra interna che continua ad aumentare le differenze tra chi sta in
basso e chi sta in alto, tra chi decide e chi subisce le decisioni. Per
costruire una forza e un movimento collettivo vanno quindi continuate e
sostenute tutte le esperienze territoriali, dalle università alle scuole, dalle
lotte sui territori, contro il modello di sicurezza, in modo da costruire un
piano diverso, alternativo, di cosa vorremmo ci fosse nel nostro Paese. Non
dobbiamo trascurare l’interrogativo: quale mondo vogliamo? Un primo passo può
essere quello di ricominciare ad immaginarselo e questo vuol dire anche
ripensare come vogliamo i nostri quartieri popolari, come vogliamo una
riconversione industriale non per le armi, e scambiare strumenti in modo da
metterli a disposizione per chi già sta sperimentando delle lotte, per dare voce
a chi non ha voce.
Queste sono le prospettive e lo spirito con cui partecipiamo a questa assemblea
e vogliamo a partire da oggi dare spazio alle lotte territoriali per
rappresentare un metodo di lavoro che ci diamo comunemente e che può essere
parte della costruzione. Lo sforzo da fare non è unirsi per unirsi ma per dare
spazio e energia a quello che ancora deve nascere.
L’assemblea è stata coperta da Radio Blackout, attraverso la trasmissione in
diretta dell’iniziativa e da Radio Onda d’Urto.
Qui il report dell’assemblea
ASSEMBLEA GUERRA ALLA GUERRA domenica 27 luglio FAF 25 -2Download
BLASTIVAL VOL.4
El Paso Occupato - Via Passo Buole, 47, Torino
(sabato, 8 novembre 23:00)
Amicizia&complicità, lotta&punk hardcore.
Concerto versus benefit cassa anti repressione delle alpi occidentali.
Più info tra qualche mese.
(disegno di cyop&kaf)
Un’altra bomboletta. Un altro corpo.
Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza
per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza.
La libertà non è sempre oltre il muro,
a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata.
Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza
stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua
cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il
sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al
pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In
questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da
campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza.
Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco
dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si
trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una
raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un
bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una
lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La
bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni
detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione
di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il
numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e
la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi
a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se
ne prende un’altra. Tutto tracciato.
Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma
mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché
cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema.
L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra
anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la
cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda.
Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo
chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi
l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il
corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio,
ma un “evento imprevedibile”.
Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a
offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione
del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose,
troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre
bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno
questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che
gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure
significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i
prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno
soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui
contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per
evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta
igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come
carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per
cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore.
E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di
Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di
bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per
inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle
statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa
contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione
volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando
nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il
protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa,
analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto
psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la
privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e
sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta
un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il
decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da
accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere
interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non
necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non
attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,
nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in
carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare”
proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti
restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del
fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la
responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo
nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non
adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare
le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere
non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema
che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta
autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione
clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona,
non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione
psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca.
La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il
suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era
nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non
ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il
sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano
in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici
insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano
diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono.
In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo
ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia
tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio
improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da
fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in
Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è
difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo
carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso
l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un
profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore
della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)
Il due agosto giornata di mobilitazione e lotta contro il Muos e le politiche di
guerra. Il racconto di che cosa è successo per rendere noto a tutti/e come in
Contrada Ulmo si vive in uno stato di polizia da No Muos Ci teniamo a raccontare
cosa è successo il giorno della manifestazione per rendere […]
La società di investimento Amundi ha fondi green che però finanziano aziende
fossili. Negli ultimi due anni, ha destinato più di un miliardo di dollari a
produttori di energie non rinnovabili, etichettandoli come ESG/come verdi.
L'articolo Fondi green: più di un miliardo nelle aziende fossili proviene da
IrpiMedia.
Qui il pdf: Angiolillo
Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere
L’8 agosto 1896, nella stazione termale basca di Santa Águeda, il primo ministro
spagnolo Antonio Cánovas del Castillo viene ucciso con un colpo di pistola. A
sparare è Michele Angiolillo, un anarchico foggiano di venticinque anni. Durante
la sua arringa difensiva, il giovane anarchico dichiarerà di aver ucciso Cánovas
in quanto personificazione di «ciò che hanno di più ripugnante la ferocia
religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia
del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la
Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un
giustiziere!». Il suo riferimento al «mondo intero» non è un’iperbole retorica.
Negli stessi anni in cui il primo ministro spagnolo dispiega una feroce
repressione interna, culminata nella proclamazione della legge marziale a
Barcellona e nelle torture inflitte a centinaia di prigionieri nell’infame
fortezza di Montjuïc, i suoi governatori coloniali e i suoi generali rispondono
con la strage e con i campi di concentramento (i primi della storia)
all’insurrezione cubana e alla sollevazione nelle Filippine. Non a caso il libro
che Angiolillo porta con sé, quando parte da Londra con il proposito di
giustiziare Cánovas, è Les Inquisiteurs d’Espagne, de Cuba e des Filippines,
scritto dall’anarchico creolo cubano Fernando Tarrida del Mármol, anch’egli
detenuto a Montjuïc. Nella sua arringa Angiolillo parla esplicitamente, oltre
che di Montjuïc, della violenza coloniale a Cuba e nelle Filippine.
Sotto il tallone di Crispi
Michele Angiolillo era nato a Foggia il 5 giugno 1871 (subito dopo la sanguinosa
repressione della Comune di Parigi). Durante gli anni di studio presso un
istituto tecnico, diventa un militante repubblicano radicale. Esce
dall’esperienza della coscrizione militare con convinzioni anarchiche. In
occasione delle elezioni del 1895, pubblica un manifesto contro le «leggi
scellerate» promulgate dal primo ministro Crispi. Il Cánovas italiano, subito
dopo avare represso nel sangue il moto dei Fasci siciliani e l’insurrezione
scoppiata in Lunigiana in solidarietà con i contadini della Sicilia, si prepara
all’aggressione imperialista in Abissinia – conclusasi con la disastrosa
sconfitta di Adua –, di cui la legislazione d’emergenza è il riflesso sul fronte
interno. Per il suo manifesto Angiolillo viene arrestato con l’accusa di
«incitazione all’odio di classe». Rilasciato in attesa del processo, il giovane
compagno spedisce una lettera al ministro della Giustizia in cui attacca il
pubblico ministero, cosa che gli procura una condanna a diciotto mesi di carcere
e tre anni di confino. A quel punto Angiolillo parte sotto falso nome e
raggiunge Barcellona passando per Marsiglia. Nel capoluogo catalano impara il
mestiere di tipografo e partecipa attivamente alle attività del movimento
anarchico, all’epoca vero e proprio crocevia cosmopolita. Collabora, tra le
altre cose, a «La Ciencia Social» insieme a Tarrida e Ramón Sempau (lo scrittore
e poeta bohémien, nonché simpatizzante anarchico, che cercherà di giustiziare il
luogotenente Portas, responsabile delle torture a Montjuïc). Dopo l’attentato al
Corpus Domini – di cui diremo in seguito –, Angiolillo scampa alla retata
organizzata da Cánovas contro centinaia di sovversivi – tra cui Cayetano Oller,
compagno dell’anarchico foggiano – e ripara a Marsiglia. Qui viene arrestato per
dei documenti falsi e, dopo un mese di carcere, viene espulso in Belgio. Quando
la campagna internazionale lanciata da Tarrida contro Cánovas è al suo apice,
Angiolillo si trasferisce a Londra, dove ritrova Oller – sottoposto a terribili
torture a Montjuïc, rilasciato per mancanza di prove ed espulso dal suo stesso
Paese –, e dove partecipa all’imponente manifestazione organizzata dal Commitee
on Spanish Atrocities, comitato promosso anche da Tarrida, il quale
nell’occasione parla per la delegazione dei rivoluzionari cubani. Durante la
manifestazione prende la parola anche l’anarchico francese Charles Malato, che
nel suo intervento invoca vendetta per le vittime di Cánovas, tra cui cita lo
scrittore filippino José Rizal, assassinato nella colonia spagnola; ma
soprattutto salgono sul palco alcuni dei torturati di Montjuïc, i quali mostrano
in pubblico i loro corpi mutilati. Qualche tempo dopo, l’anarchico foggiano
incontra personalmente Francisco Gana, che portava i segni indelebili delle
sevizie subite dagli aguzzini spagnoli. Così descrive la scena, nella sua
autobiografia (Nella tormenta), l’anarchico tedesco Rudolf Rocker:
Quella notte, quando Gana mostrò le sue membra mutilate e le cicatrici che le
torture avevano lasciato su tutto il suo corpo, capimmo che leggere di tali
questioni è una cosa, ma sentirne parlare dalle labbra di chi le ha subite è
un’altra. […] Eravamo tutti seduti immobili, pietrificati, e trascorsero diversi
minuti prima che fossimo in grado di proferire qualche parola di indignazione.
Solo Angiolillo rimase in silenzio e, poco dopo, si alzò pronunciando un
laconico saluto per poi lasciare l’abitazione. […] Questa fu l’ultima volta che
lo vidi.
L’ultima volta che lo vide il mondo, fu il 20 agosto 1986, il giorno in cui il
giovane anarchico fu garrotato. Non prima di aver urlato al mondo «Germinal!».
Dalle segrete di Montjuïc
Il 7 giugno 1896, a Barcellona, una bomba esplode durante la processione del
Corpus Domini, causando tre morti sul colpo e decine di feriti (nove dei quali
moriranno in seguito). Benché non si possa escludere che sia stata un’azione
indiscriminata – alla Oberdan, per intenderci – contro l’odiatissima Chiesa
spagnola, alleata della monarchia, stampella dei latifondisti e architrave
dell’amministrazione coloniale, i sospetti di una provocazione poliziesca
perdurano tutt’oggi. Come che sia, Cánovas decreta la legge marziale a
Barcellona e fa arrestare più di trecento persone. Meno noto è che la fortezza
di Montjuïc diventa – a dispetto dei nuovi inquisitori – un luogo di incontro
tra anarchici di vari Paesi, rivoluzionari cubani e deportati filippini. Un
esempio emblematico di tale crogiuolo è la condivisione della stessa cella da
parte di Ramón Sempau – incarcerato per aver cercato di giustiziare il
torturatore Portas – e di Isabelo de los Reyes, già autore del pionieristico El
Folk-lore Filipino. Tornato poi a Manila, Isabelo, che aveva conosciuto anche
Malatesta, vi porta le prime pubblicazioni anarchiche apparse nelle Filippine, e
metterà in campo quello che dice di aver imparato dagli anarchici
nell’organizzazione degli scioperi e nella creazione delle prime Unioni Operaie.
Quanto a Sempau – esempio di intreccio tra mondo artistico radicale, ideali
libertari e propaganda del fatto – sfuggirà alla corte marziale e alla condanna
a morte grazie alla campagna internazionale sugli orrori di Montjuïc.
Tornanti
La condanna a morte di Francisco Ferrer nel 1909, così come il movimento
internazionale per impedirla, prolunga questa storia. Non solo perché
l’esecuzione avvenne, il 13 ottobre, proprio nella fortezza di Montjuïc. Ma
soprattutto perché l’accusa contro Ferrer era quella di aver fomentano la
«Settimana tragica», la rivolta proletaria e anarchica per impedire l’invio di
coscritti chiamati a sedare l’insurrezione in Marocco. In molte città europee le
manifestazioni per Ferrer daranno vita a scontri con la polizia. A Torino, dopo
la proclamazione dello sciopero generale, le dimostrazioni assumeranno un
carattere quasi insurrezionale nei quartieri di Barriera di Milano e di Borgo
San Paolo.
Per via del ruolo giocato dai repubblicani e dai democratici nella campagna per
Ferrer, quest’ultimo è ricordato come un martire del libero pensiero, come un
precursore dell’educazione laica contro l’oscurantismo religioso. Ferrer fu
anche questo, certo, ma fu soprattutto un combattente sociale, redattore tra
l’altro de «La Huelga general», i cui proclami erano inequivocabili: Viva la
Revolución, Viva la dinamita!.
In un’epoca in cui soffiano di nuovo i venti di guerra e sull’altra sponda del
Mediterraneo il suprematismo occidentale sta consumando un genocidio; in un
presente nel quale si moltiplicano attraverso i continenti le odierne «leggi
scellerate» contro il dissenso interno, ricordare il gesto di Angiolillo e il
suo «Germinal!» significa riattualizzare quell’internazionalismo che è parte
integrante della nostra storia. Non siamo piume al vento.
(Gli elementi storici alla base di questo testo sono tratti soprattutto dal
prezioso Anarchismo e immaginario coloniale, scritto da Benedict Anderson nel
2005 e pubblicato quest’anno da elèuthera)
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: Quelli che benpensano(1)
QUELLI CHE BENPENSANO.
OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN
Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro
l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso.
Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e
conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre
occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia,
per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto
valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal
tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate.
Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune
sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il
sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici
(anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e
compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in
tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno
brillante che sia.
Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser
dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e
prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo
ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso,
criticabile da diversi punti di vista.
L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere,
non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di
qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante
una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria
padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera.
Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate,
complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più
volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni.
Postmodernismo?
Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione
particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben
noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un
collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del
solito.
Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi
tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento”
anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale
minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le
argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste
sotteso è più o meno lo stesso.
Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi
sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia
postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non
accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è
penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti
condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in
tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o
approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento”
anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un
capro espiatorio un po’ fuori tempo massimo, a dir la verità).
Il sabotatore interno, un po’ come alcuni dicevano appunto del femminismo negli
anni ‘70 e fino all’altroieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi
con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un po’ più in
sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale.
I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di
parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in
modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e
l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni
parte assediati da essi.
Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci
informano.
Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto
quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note
come “teorie del complotto”.
A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il
problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come
vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha
definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le
dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma
legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente
assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione
che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il
problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte.
Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza”
di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può
avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove.
Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per
i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere
facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si
ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come
aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono
le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si
potrebbe definire persino scientista.
Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici
in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre
questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di
ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il
timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi
guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe
mai immaginato dover vedere? Neanche questo… Perché si è tutto sommato
intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la
mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come
passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà
quale motivo?
Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di
ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e
per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì
reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”,
oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non
possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un
rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi
psichedelico”.
Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto
che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci
dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come
pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante.
Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i
compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la
versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri?
Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e
gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero
organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e
quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti.
Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla
fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle
per non correre il rischio di farsi abbindolare.
Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e
valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado
di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre
fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi
versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità
narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo,
s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste,
ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle
banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il
primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo
spesso.
Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e
questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o
quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico?
Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto,
realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente,
inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione
d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio
teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo,
l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più
tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare.
Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di
saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente
irrilevante?
Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si
riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi
a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza,
denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre
persone la cui sola idea ripugna.
Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente
scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio
modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni
occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua
difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti.
Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla
necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi
e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi
sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le
tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il
contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che
sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più
volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e
giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto
assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore
e non piuttosto l’aggredita.
Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può
essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale
non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può
fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus
postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire.
Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza
a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno
ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per
cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso
atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a
quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e
solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro
esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista…
A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a
livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora
esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo
drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non
si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre
qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di
quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona
aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di
conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella
pratica non si sa che farsene.
Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice.
Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più
colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale.
Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo
consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad
esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna
sempre al punto di partenza.
Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi
aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di
sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo
sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti
– svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi,
troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non
siano poi così gravi, questi episodi.
Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne
fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che
ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa
in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che
pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare.
Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa
nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è
relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.
Banalità di base (I)
Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte
del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo,
antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro
il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile
dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato
l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione.
Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate.
Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche
solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione
generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero
insieme, è miserevole.
A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a
esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a
esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della
federazione anarchica italiana.
Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia
dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe,
per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua
storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa
storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a
leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché
sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un
altro discorso.
Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale
quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si
corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è
preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta
parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel
che resta non portare effettivamente da nessuna parte.
Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente
quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno
proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un
repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe
larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi
diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un
piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una
questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci
mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica –
ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per
attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un
poveraccio, sia a livello politico, che umano.
Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di
discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati,
c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra
quotidianità ripetendo concetti molto simili per mezzo di ogni tipo mass media.
Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima
considerazione.
Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli
anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche
che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla
convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano
e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di
discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito,
plenarie sindacali o conclavi?
Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col
quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi
tipo?
Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in
modo netto, è diventato autoritario?
Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi
conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto.
Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non
essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti
del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali
ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere,
indirizzo, controllo..
Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano
avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello
dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come
al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non
autonomia di pensiero e azione.
Quale classe, quale lotta
Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una
superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi
secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge
il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine
(per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di
alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione
di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà
l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento
economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata”
per motivi che proverò a chiarire più avanti.
Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello
sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da
questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su
determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una
cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico.
Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del
sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti
sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle
basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che
tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi
possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di
accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della
violenza.
Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne
forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli
XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta
“accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie
delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di
eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni
che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di
migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali
da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come
“caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova
medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente;
colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva
tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie
europee nel continente americano.
Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione
e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici.
Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il
capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai.
I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino
senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”.
Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino
all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non
lo intravedono ancora.
Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era
di libertà per tutti/e?
Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di
“classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici
forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche
diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio.
L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma.
Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi
temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di
quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori
provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione
per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per
tutti/e.
A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto
di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – sfruttata ci si
riferisce esattamente?
Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che
hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche
sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è
solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta
essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la
propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare
tutti/e parte di una classe sfruttata.
Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può
assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe
sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico,
no.
Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della
propria posizione, in opposizione, a questi.
Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece
di complici del proprio sfruttamento?
Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e
componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento
nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri
nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo.
Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio
sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna
condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e
asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di
indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori,
desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido
immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato
desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente
artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più.
Non sempre e non dappertutto, certamente.
Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare
per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un po’ di mesi in
qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto
lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri
giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non
unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le
tensioni, il quadro esistenziale di riferimento.
Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle
loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le
mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione
sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un
paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta
avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al
sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”.
Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere
maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso?
Forse.
La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente
la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto
potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre,
estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione,
volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, come in molti/e peraltro fanno?
Secondo me sì.
Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da
anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni
teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte
dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella
prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe
sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte
di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non
cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro
eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che
magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di
demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste
scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare
dalla propria condizione di sottomissione.
A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti
guardare?
Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a
che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non
sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa,
rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle
vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente
gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni
sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una
volta all’anno.
I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono
preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o
nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non
piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o
europeo/a e con questi/e quasi mai si organizzano. I “dannati/e” sono quelli che
affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato
agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul
fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera.
Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a
proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide
anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città.
Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la
sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i
presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non
altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e.
Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste
persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale
moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine
di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro
“integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da
schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in
gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o
durante un controllo di polizia.
Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con
gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme
e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie
certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi.
Banalità di base (II)
Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di
questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per
molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente
in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (che talvolta, peraltro,
assumono solo un carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se
l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non
essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e.
Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a
parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni,
spesso non si ravvisa molto altro degno di nota.
Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso
assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà
una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure
no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di
alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se
essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni
dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste
stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le
“battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche.
La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa
parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà,
isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità
e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte
persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata
trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli
alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra.
Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di
ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità
– acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e
siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa
trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai
necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto
che essa sia condivisa.
Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è
forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non
ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di
opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche,
spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili.
Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di
vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo
contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e
digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime
determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente
ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che
rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva
della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e
complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo.
Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di
aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni
tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e
ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua
migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente
mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo
difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile.
È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere la nostra
energia e il nostro impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti
economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane
le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni.
Non mandrie, ma gruppi di affini.
Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si
occupi di quelle.
Un anarchico
COMUNICATO STAMPA (7 agosto 2025)
L’osservatorio Weapon Watch esprime piena solidarietà ai lavoratori del porto di
Genova e alle loro organizzazioni sindacali, che hanno organizzato la protesta –
l’ennesima – contro l’arrivo di una nave della compagnia marittima saudita
Bahri, come al solito carica di armi ed esplosivi. In questa occasione, la nave
doveva imbarcare anche cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi,
giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT.
Le ragioni della protesta sono molte e serie.
Per quello che riguarda i sistemi d’arma di produzione italiana destinati agli
Emirati Arabi Uniti, ricordiamo ciò che abbiamo scritto sul nostro sito web e
sulla pagina FB, cioè che la Legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi a
paesi che non rispondono a una serie di criteri stringenti, tra cui quello di
non essere in stato di guerra, e di non utilizzare la guerra per risolvere le
controversie internazionali (gli Emirati hanno partecipato alla guerra contro lo
Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è
conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e
stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan
e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso). Gli Emirati Arabi Uniti
nel 2025 sono al 119° posto (su 167 paesi) del Democracy Index della rivista
«the Economist», inseriti tra i paesi autoritari privi di sistema elettorale e
con scarsissime libertà civili.
Lo stesso vale per il transito di materiale militare non prodotto in Italia e
nell’Unione Europea. La «Bahri Yanbu» toccherà nel suo viaggio porti in Egitto e
Arabia Saudita, paesi ancora più autoritari degli Emirati, per proseguire poi
nell’oceano Indiano e il Far East. Non abbiamo garanzie circa circa il
destinatario finale e l’impiego del materiale militare trasportato.
Mezzi anfibi a bordo della «Yanbu», Genova 7 agosto 2025.
Oltre ai cannoni di Leonardo, la «Yanbu» trasporta un ingente carico di
blindati, carri armati e munizioni di fabbricazione statunitense, in particolare
mezzi anfibi da sbarco del tipo AAV-7 tipicamente usati dai marines, che non ci
risulta siano in dotazione nei paesi arabi. Il carico sembra preludere a
un’operazione militare dal mare di grandi dimensioni.
Motivo di allarme, poi, sono i molti container che trasportano dangerous goods
della classe 1.1, cioè la classe più pericolosa, in sostanza esplosivi con
rischio di esplosione di massa.
I containe con esplosivi (classe 1.1) a bordo della «Yanbu».
La nave saudita accerchiata dalla bettolina «Brezzamare» e dalla chimichiera
«Imera», oggi a Genova, tra POnte Eritrea e Ponte Somalia.
Oggi (7 agosto 2025) a fianco della «Yanbu» carica di esplosivo ha sostato la
bettolina-cisterna «Brezzamare», che ha rifornito di nafta la multipurpose «Coe
Luisa», mentre pochi metri più in là era ormeggiata la chimichiera maltese
«Imera» da 9.000 tonnellate: un ‘ingorgo’ altamente pericoloso a pochi passi dai
container carichi di esplosivi posizionati sul ponte della «Yanbu».
Abbiamo già sollevato in passato il problema della gestione del rischio di
esplosione, in occasione delle visite delle navi Bahri al molo Eritrea
(https://www.weaponwatch.net/2020/02/03/esplosivi-in-porto-siamo-sicuri/ ). Le
navi saudite cariche di munizioni ed esplosivi stazionano a 450 m dalle prime
case di Sampierdarena alle spalle del porto, e nel raggio di mille metri si
trovano consistenti depositi petroliferi e chimici.
Per dare un quadro dei rischi che lavoratori e cittadini hanno corso e corrono
ogni volta che gli esplosivi militari entrano in porto, ricordiamo che
l’esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2023 ha demolito ogni
fabbricato nel raggio di mezzo miglio, pari a 800 metri, e che le vittime si
sono registrate nel raggio di un miglio (1600 m).
Finora non abbiamo mai ricevuto sul tema della resistenza alcuna risposta dalle
autorità interessate. Nel giugno 2023 c’è stato un incontro informativo con il
Consiglio comunale di Genova, poi rimasto lettera morta.
Ci conforta che in occasione dell’odierna protesta le organizzazioni sindacali
abbiano ripreso il tema della sicurezza portuale e che abbiano ottenuto
dall’Autorità di Sistema portuale del mar Ligure occidentale la proposta di
avviare un osservatorio sul traffico delle armi in porto, nello sforzo di
garantire trasparenza e prevenzione dei rischi nel rispetto delle normative e
della Legge 185/1990.
L’iniziativa dei lavoratori di Genova può essere di stimolo per altre città
portuali italiane coinvolte in un traffico di armi sempre più intenso.
GRIND THE POWER FEST VOL.2
BAROCCHIO SQUAT - - strada del Barocchio 27 - Grugliasco (TO)
(sabato, 1 novembre 22:00)
LOCANDINA A BREVE
ASPETTANDO IL GRIND THE POWER FEST
BAROCCHIO SQUAT - - strada del Barocchio 27 - Grugliasco (TO)
(sabato, 20 settembre 22:30)
LOCANDINA A BREVE