Chi ha paura dell’Anarchia? Su alcune denunce per blocco stradale a Padova
Riceviamo e diffondiamo: La repressione ha sempre avuto gambe lunghe e piedi piatti Chi ha paura dell’Anarchia? Sul reato di blocco stradale contestato ad un compagno ed una compagna di Padova La repressione ha sempre avuto gambe lunghe e piedi piatti. Gambe lunghe, che superano ogni porta, cancello e siepe per cercare di prenderti; piedi piatti, per schiacciare tutto omogeneamente e sommariamente, senza farsi troppi pensieri sugli spazi sottostanti. Se di queste conformazioni fisiche della controparte in divisa avevamo ben coscienza da tempo, non ci aspettavamo certo di vederla diventare finta invalida e al contempo centometrista. Ma facciamo un passo indietro: durante il beneamato sciopero del 3 ottobre (amato perché si sa che non c’è gioia più grande che non lavorare), in tutta Italia, nelle strade, nelle piazze e anche nelle carceri (come alla Dozza di Bologna) succedevano accadimenti e vicende a sostegno del popolo palestinese. Così che anche a Padova in tanti e tante si è saltato lavoro, scuola, università o anche solo tempo libero per protestare contro l’entità sionista, che occupa territori palestinesi e porta avanti il suo genocidio di Stato. Le manifestazioni locali ci portano quindi all’interporto di Padova, dove un nutrito corteo va a contestare la presenza della Maersk (azienda che trasporta ben più che beni di prima necessità). Sulle modalità del corteo e sul resto non diremo molto di più, chi era presente ha ben visto cosa è successo e come è stata gestita la piazza, e chi vuole può trarre da sé le conclusioni che ritiene giuste. Quello che di sicuro ci siamo portati a casa è un sentimento di rabbia contro la società dello spettacolo che si rappresenta uguale sia dentro che fuori la manifestazione. Si apprende dai giornali che, durante suddetto girotondo e durante la suddetta manifestazione, 60 anarchici (magari!) avrebbero bloccato un camion lungo il percorso. Sempre stando alle dichiarazioni della stampa, pare che quel camion dovesse trasportare a destinazione un carico importantissimo, ma che la manifestazione e questi suddetti 60 anarchici (magari! di nuovo) l’avrebbero bloccato. Possiamo solo immaginare cosa veniva portato dentro il camion: l’elisir di eterna giovinezza? La pietra filosofale? Purtroppo non lo sapremo mai e quindi ci limiteremo a raccontarvi dei fatti accaduti. È un po’ complesso parlare di blocco stradale quando un blocco stradale non c’è stato, così come è complesso parlare di manifestazione non autorizzata mentre è in corso nello stesso luogo, nello stesso posto e nello stesso tempo un’altra manifestazione. Eppure a quanto pare due persone che camminano in mezzo alla strada (e pure sulle strisce pedonali a dirla tutta), così come il resto della manifestazione, sarebbero statx promotore e promotrice di un blocco stradale e di una manifestazione non autorizzata. Sui fatti specifici non c’è molto da dire, perchè non sussiste nulla: su una strada già bloccata da una manifestazione, in cui non si può né uscire né passare, è davvero possibile fare un ulteriore blocco stradale? E, essendo dentro una manifestazione, nello stesso posto e nello stesso tempo, è davvero possibile fare un’altra manifestazione? Ma per fortuna a queste domande a cui da qualche riga non troviamo risposta, abbiamo chi ci può indicare la via. La repressione finta invalida infatti fa finta di non vedere l’ovvietà dell’assurdità delle accuse mosse, e quindi al termine della manifestazione segue e insegue un compagno e una compagna per fargli fare una gioiosa gita in questura, durante la quale viene comunicato ad entrambi l’apertura di un’indagine per manifestazione non autorizzata, alla compagna una violazione del foglio di via da Padova (un altro degli scherzetti della questura per questo interessante 2025) e al compagno un avviso orale (condito di rassicurazioni sulla possibilità di ottenere in futuro anche una bella sorveglianza speciale). La domanda che sorge spontanea è perché proprio a queste due persone venga imputato un reato che non sussiste (ma su questo torneremo dopo). Fin qui la riproduzione della repressione non è qualcosa di non visto: processi inventati, accuse infondate e giustizia sommaria sono questioni trite e ritrite. Entra quindi in gioco il vero elemento di novità della vicenda: la repressione centometrista. Come infatti avrete potuto leggere, in questura non viene contestato subito il reato di blocco stradale. Come fanno quindi il compagno e la compagna ad esserne a conoscenza? Beh perchè poco più di un mese dopo dall’apertura dell’indagine, è arrivata anche la chiusura. Le chiusure indagini di solito impiegano mesi, se non anni per essere notificate: infatti in Italia l’unica cosa che ci è sempre andata bene è la lentezza della burocrazia e delle scartoffie, che compagni e compagne dal resto d’Europa ci invidiano ardentemente. La domanda che sorge quindi spontanea è: perché arriva una chiusura indagine dopo un mese per un fatto che non sussiste? Perché sono stati fermati proprio quel compagno e quella compagna? Torniamo quindi alla domanda di cui sopra a cui diamo una risposta con un’altra domanda: Chi ha paura dell’Anarchia? Eh sì, perché le due persone fermate sono così definite dalla giustizia locale: anarchici. Non è un caso che da settembre a questa parte diverse indagini di polizia, di cui siamo a conoscenza sempre leggendo dai giornali, abbiano portato ad indagare persone, che pare siano afferenti alla cosiddetta area anarchica. A settembre, infatti tre compagnx si vedevano entrare in casa sgherri in divisa, che accusavano, udite udite, del gravissimo reato di “striscioni appesi”: dalle foto sui giornali, apprendiamo fossero in solidarietà ad Alfredo Cospito, Mohamed Awad Attia ed ad alcune compagnx indagatx nei processi a Torino e Milano per i cortei contro il 41bis della stagione di lotta a fianco di Alfredo. Istigazione a delinquere e ricettazione i reati contestati. Parlando di quei mesi di lotta per e con Alfredo contro il 41bis, si nota un parallelismo quasi lineare. In coda a quel periodo, due anni e mezzo fa, sempre a Padova, tra l’altro al compagno accusato di blocco stradale in questa vicenda, piombavano in casa le guardie. I reati contestati allora? Istigazione a delinquere e imbrattamento (compagno poi assolto in primo capitolo sempre durante questo movimentato autunno). Ma cos’altro accomuna questi due momenti? Beh, viene da pensare che in una città pacificata come è Padova una compagine anarchica venga vista un po’ come un elemento, che esce dagli oliati sistemi di pacificazione cittadina. Qui lo diciamo chiaro: gli ultimi reati contestati e le perquisizioni ‒ di adesso, come di allora ‒ fanno parte di un unico grande schema repressivo. Ogni volta che c’è la sensazione che esista una componente rilevante di anarchicx nel contesto patavino, la risposta immediata è quella dell’intimidazione. In primo luogo verso lx compagnx che si ritrovano a dover affrontare procedimenti penali per nulla, in secondo luogo per le persone che potrebbero avvicinarsi a questa suddetta area, che vengono intimorite indirettamente dal rischio di denunce indagini e quant’altro. Ed infine, la famosa teoria dell’accumulo, per cui più accuse senza senso ti do più, se un giorno mi va di darti una misura cautelare, ho terreno di manovra per richiederla. Pacificazione e Repressione diventano fenomeni contigui. La repressione come mezzo di pacificazione e la pacificazione come repressione interna, in uno spettacolo che si ripete sempre uguale dentro e fuori gli ambienti antagonisti. Fortuna vuole che il vittimismo (anch’esso figlio non riconosciuto della pacificazione) non sia qualcosa che ci appartiene, così come non ci appartiene il qualunquismo sensazionalista di chi dice che finiremo tuttx in galera. Parlare della repressione e fare considerazioni sulla stessa servono per osservare in maniera materiale la realtà che ci circonda. Capire come si muove la repressione nel nostro contesto geografico e capire come affrontarla al meglio. Per ribadire il concetto che non dobbiamo farci intimidire da accuse fasulle e inventate. Per dire che se il conflitto (politico o giudiziario che sia) viene a bussare alla porta saremo prontx ad accoglierlo a braccia aperte. Per dire ancora una volta, e non ci stancheremo, che finché sussisteranno le motivazioni delle nostre lotte, ci troverete, vostro malgrado, tra i vostri piatti e fetidi piedi. Se questa storia ci insegna qualcosa, e non ne siamo per forza certx, è che hanno più paura loro di noi, che noi di loro.
Stato di emergenza
Rivolte senza rivoluzione (e un commento)
Cosa chiediamo a un testo? Non necessariamente che sia condivisibile, ma che affronti delle questioni importanti e che nel farlo offra una buona base di discussione. È il caso, ci sembra, di questo contributo che abbiamo tradotto. Al di là dei foucaultismi e dei “tiqqunismi” che contiene, e malgrado qualche ambiguità che lo caratterizza, questo testo illustra con una certa precisione la fase storica in cui siamo entrati e – cosa non molto frequente – cerca di analizzare le innovazioni organizzative sperimentate dai movimenti di rivolta degli ultimi tempi. Alla fine del testo troverete un nostro commento. Qui in pdf: Rivolte senza rivoluzione-Per delle iperboli esatte Rivolte senza rivoluzione* di Adrian Wohlleben tratto dal sito statunitense illwill.com I. L’èra delle rivolte non è finita Coloro che cercano una scienza rivoluzionaria del presente devono prepararsi alla delusione. Non esiste alcuna bussola per navigare nei nostri mari tumultuosi, alcuna chiave universale o formula magica capace di raddrizzare la nostra nave e collocarci senza equivoci sulla via della rivoluzione. L’oscurità del nostro orizzonte è più profonda di tutto ciò che abbiamo conosciuto nelle nostre vite. Tuttavia – anche se si potrebbe perdonare ai nordamericani di pensare il contrario – i movimenti non mancano: su scala mondiale, le onde si alzano e s’infrangono a un ritmo così stordente che diventa impossibile seguirne tutte le manifestazioni, anche per coloro che vi si dedicano. Soltanto gli ultimi sei mesi hanno visto disordini massicci in Turchia, Argentina, Serbia, Kenya, Indonesia, Nepal, Filippine e Perù. Prima di questo: Bangladesh, Georgia, Nigeria, Bolivia… e la lista è sicuramente incompleta. In ogni circostanza, delle mobilitazioni che riuniscono decine di migliaia di persone hanno portato a crescenti scontri con le forze dell’ordine in diverse città, provocando delle crisi nazionali di sicurezza. Questo mese, il presidente del Madagascar ha sciolto il governo in risposta a tre giorni di manifestazioni sanguinose guidate dalla “Generazione Z” contro le interruzioni d’acqua e di elettricità e contro la corruzione politica, sventolando la stessa bandiera pirata One Piece agitata in Indonesia o in Nepal [1]. Nel momento in cui scrivo queste righe, scoppia una nuova rivolta in Marocco: le manifestazioni di massa si trasformano in undici città in sommosse feroci e in scontri violenti. A questo si aggiungono delle sequenze precedenti ancora in corso, come la guerra civile in Myanmar, in cui gli insorti continuano ad avanzare sottraendo città intere alla Giunta. Insomma, anche se la pandemia mondiale di Covid-19 è sembrata a certi teorici un complotto destinato a schiacciare l’ondata di rivolte del 2018-2019, questi timori, come gli Americani hanno scoperto fin dal maggio 2020, erano infondati. Malgrado un affievolimento tra il 2021 e il 2023, l’ultimo anno e mezzo conferma che la nuova «èra delle sommosse» [2] (così chiamata nel 2011 dal gruppo comunista greco Blaumachen) è lungi dall’essersi conclusa. Il compito di riflessione è doppio: situare queste rivolte nelle rotture storiche di cui sono testimonianza, e identificare le loro potenzialità ancora incompiute rintracciando le fessure tra le pratiche che le compongono. II. L’ordine neoliberale sta finendo, ma nessun nuovo regime l’ha ancora rimpiazzato. Tutte le forze sono spinte su un piano strategico Benché sotto il cielo non ci sia altro che caos, non si può dire che la situazione sia eccellente. Viviamo in un interregno. Da quasi due decenni, l’ordine neoliberale mondiale del capitalismo finanziario – installatosi negli anni Ottanta e diffusosi ovunque negli anni Novanta – è minato da persistenti crisi dei tassi di profitto. Incapaci di assicurare la crescita attraverso i soli mezzi del mercato, i partiti politici si trovano di fronte a una scelta: esseri battuti alle prossime elezioni da oppositori che promettono essi stessi una crescita che nemmeno loro possono garantire; oppure garantire i profitti attraverso strategie extra-economiche fondate sulla guerra, sul saccheggio, sulla conquista e sullo spossessamento. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, il ciclo di accumulazione non può più funzionare secondo le proprie regole interne, poiché i suoi «impasse e blocchi (…) esigono l’intervento di un ciclo strategico fondato sui rapporti di forza e la relazione non-economica amico-nemico» [3]. Per esempio: qual è il piano di Trump per «mettere in sicurezza» l’economia americana grazie alla reindustrializzazione? Attraverso una combinazione di minacce economiche e militari (tariffe per alcuni, invasioni per altri), l’obiettivo è quello di costringere i Paesi alleati a investire nelle fabbriche situate negli Stati Uniti. Come ha esplicitato il segretario al Tesoro Scott Bessent in un’intervista a Fox News nel mese di agosto [4], in cambio della «riduzione di certe tariffe per gli alleati», il Giappone, la Corea del Sud, gli Emirati Arabi e altri Paesi europei «investiranno nelle imprese e nelle industrie che indicheremo loro – ad ampia discrezione del presidente». In altri termini: la stabilità americana sarà acquisita tramite intimidazione economica e ricatto militare. III. Le sollevazioni contemporanee, come i neo-autoritarismi, sono i sintomi del crollo del capitalismo neoliberale È in questo contesto che bisogna collocare l’ondata di sollevazioni mondiali cominciata con i movimenti delle piazze e la Primavera araba (2010-2012), ma anche la reazione neo-autoritaria che hanno generato – da Trump e Bolsonaro a Duerte, Orbán e Savini [5]. Se le rivolte sono animate maggioritariamente da giovani e lavoratori poveri, in collera per l’estrattivismo neoliberale e la confisca di opportunità da parte di élite definite «corrotte», condizioni che spingono molti giovani a concepire come sola strada per il futuro il lavoro all’estero, i fanfaroni neo-populisti traggono il sostegno da una piccola borghesia sempre meno mobile, ansiosa per la crisi di crescita e le sue ricadute sempre meno ampie sui propri privilegi a lungo acquisiti. Nella misura in cui la crisi di crescita si aggrava, il ciclo strategico necessario per sostenere il mercato si separa progressivamente da quest’ultimo: in alto, i deficit commerciali sono «risolti» con l’intimidazione, la guerra o il saccheggio; in basso, le tensioni sociali, anche modeste, sfociano direttamente nelle rivolte. Queste due dinamiche appaiono come indissociabili. Ogni mese l’estrema destra conquista terreno elettorale; ogni settimana una nuova ondata di sommosse incendia commissariati, blocca strade, occupa piazze, saccheggia palazzi e affronta i capi di Stato. IV. Il ritorno del piano strategico non è una rottura con le istituzioni liberali ma vi passa attraverso A questo stadio, bisogna evitare sue confusioni. La prima consiste nel credere che il momento presente equivalga a un rifiuto totale degli ordini giuridici e politici liberal-democratici che l’hanno preceduto. Molti liberali hanno cercato di presentare le politiche interne dell’amministrazione Trump come sovversione delle norme e procedure democratiche, le quali dovrebbero di conseguenze essere difese. In realtà, è vero il contrario. Ciò che distingue i «nuovi fascismi» da quelli del passato non è il loro emergere dentro il quadro della democrazia liberale – questo era già il caso per i loro predecessori del XX secolo. Piuttosto (come hanno sostenuto di recente alcuni compagni del Cile) «hanno saputo perfezionare delle politiche fasciste e permettere il loro sviluppo all’interno di un quadro democratico, al punto da saper edificare un’industria fondata sul crimine e sull’insicurezza come giustificazioni alla pianificazione di queste politiche» [6]. Ogni riconoscimento autentico di questo esigerebbe che le critiche rivolte alle tendenze fascisteggianti dell’amministrazione Trump siano accompagnate da una critica approfondita della democrazia stessa; mentre la sinistra progressista persiste nella sua credenza erronea nell’opposizione totale tra democrazia e fascismo. Allo stesso tempo, tuttavia, il fatto che i fascismi latenti s’appoggino su quadri giuridici preesistenti non deve farci credere che oggi un ritorno alla democrazia liberale sia ancora possibile. I sostenitori di Zohran Mandami che s’immaginano di aver «rimesso l’auto nella buona direzione» non fanno che andare fino in fondo nella parodia. In realtà, la dipendenza transitoria del fascismo rispetto alla democrazia liberale costituisce solo il prerequisito necessario per riflettere su ciò che deve avvenire dopo. V. La sola certezza condivisa: la necessità di un salto Il fatto di vivere in un interregno – tra un ordine morente e un altro che non si è ancora stabilizzato – significa che la sola certezza condivisa da tutte le forze in campo è che ci troviamo nel mezzo di una rottura, e che le contraddizioni del nostro presente non possono essere risolte con l’aiuto degli strumenti e delle procedure delle istituzioni che ci hanno condotto qui, anche se queste istituzioni sussistono oggi ancora sotto certe forme. Ciò che è necessario, è un «salto fuori della situazione» [7]. Il bisogno di questo salto si fa sentire ovunque, talvolta in maniera confusa, talaltra in maniera cosciente. Questo salto si sta già preparando e abbozzando intorno a noi; esso spiega l’audacia stupefacente che sorge in tutti gli angoli della società, dagli attentati «gamer»** al cinismo animale del genocidio israeliano a Gaza, fino ai giovani nepalesi e alle classi popolari che, in rappresaglia contro i 21 manifestanti abbattuti dal loro governo l’8 settembre, in un solo giorno hanno incendiato la Corte suprema, il Parlamento, la residenza del Primo ministro, quella del presidente, così come decine di commissariati, supermercati e una sede mediatica, rovesciando un governo «in meno di 35 ore» [8]. È questo salto – di cui già si sentono ovunque le scosse – che dobbiamo pensare, organizzare e spingere verso una rottura irreversibile con il dominio dell’economia. VI. Le rivolte contemporanee producono nella migliore delle ipotesi una coscienza del capitale, ma non il suo superamento In una società in cui le riforme costituzionali possono essere ottenute soltanto attraverso la rivolta, la questione del loro rapporto con la rivoluzione deve essere considerata. Le rivolte sono dappertutto, ma – ad eccezione forse della guerra civile in Myanmar (il cui esito resta incerto) – la gran parte di esse, stupefatte dalla vittoria contro le forze dell’ordine, finiscono con il reclamare né più né meno che un ritorno negoziato allo status quo. Tale schema era già chiaramente visibile durante la sollevazione del 2022 in Sri Lanka: «Le lotte sono spesso sconfitte non dallo Stato, ma dallo choc delle proprie vittorie. Raggiunta una certa ampiezza, i movimenti hanno la tendenza a conseguire i propri obiettivi più rapidamente di quanto avrebbero potuto aspettarsi. La caduta del regime Rajapaksa si è prodotta così velocemente che nessuno ha preso seriamente in considerazione il seguito. La finestra aperta dal movimento si è richiusa in fretta e l’aria soffocante della normalità ha ripreso tutto lo spazio nella stanza» [9]. Uno dei limiti fondamentali delle rivolte contemporanee attiene all’ambito stesso della lotta, che tende a interpretare le penurie della sussistenza come il semplice riflesso della corruzione, dell’austerità e del clientelismo [10]. Questa cornice, che non mette in discussione il capitalismo stesso ma soltanto la sua (cattiva) gestione, sfocia inevitabilmente in un semplice rimescolamento delle carte: «Le critiche della corruzione forniscono una falsa immagine delle capacità effettive di azione di cui dispone lo Stato nelle crisi economiche e sociali, come se potesse evitare, se solo lo volesse, di mettere in campo politiche di austerità… Dopo la caduta del regime, la gente si trova ad affrontare il fatto che la logica strutturale della società capitalistica resta in piedi. I governi usciti dalla rivoluzione si trovano ad applicare misure di austerità del tutto simili a quelle che inizialmente avevano scatenato le proteste» [11]. Da un lato, ci si potrebbe aspettare che tali fallimenti contribuiscano a far emergere una critica più sistemica del capitalismo, allo sviluppo della «coscienza di classe», nella misura in cui «l’unità essenziale degli interessi della classe dominante» diventa evidente per chiunque vi presti attenzione. Tuttavia, come osserva Passad: «… sarebbe forse più corretto pensare allo sviluppo di una coscienza del capitale. Affinché la sollevazione si spingesse oltre, sarebbe stato necessario ch’essa affrontasse l’incertezza di sapere come il paese avrebbe potuto nutrirsi e vivere mentre la sua relazione con il mercato mondiale era interrotta. Dopo tutto, è soltanto attraverso e dentro la società capitalistica che i proletari sono in grado di riprodurre la propria forza lavoro». In altri termini, se una rivolta non arriva ad affrontare il problema di una rottura rivoluzionaria nel momento in cui l’ordine è sospeso, la lezione interiorizzata rischia di essere quella della legge di ferro dell’economia: i e le partecipanti diventano coscienti del capitale come costrizione immediata sulla vita, ma incapaci d’immaginarne il superamento [12]. VII. Le rivolte hanno prodotto forme alternative di autorganizzazione – senza comprendere la loro portata Negli anni Cinquanta, il filosofo tedesco della tecnica Günther Anders descriveva ciò che chiamava un «dislivello prometeico», apparso nelle società industriali, che operava un rovesciamento del rapporto classico tra immaginazione e azione. Laddove l’utopismo si basava sull’idea che la nostra immaginazione oltrepassi ciò che esiste, proiettandosi al di là dell’attualità, Anders sostiene che oggi accade l’inverso: con l’invenzione della bomba nucleare, è emerso uno scarto prometeico nel quale gli atti fattuali eccedono ormai la facoltà dei loro agenti a immaginarli, a pensarli o a sentirne il peso. Non siamo capaci di comprendere – ancor meno di assumere – ciò che stiamo già facendo [13]. Siamo diventati degli «utopisti al contrario», incapaci di contemplare l’ampiezza o le ripercussioni delle nostre stesse pratiche. Siamo più piccoli dei nostri atti, i quali dissimulano in se stessi qualcosa d’insondabile. L’immaginazione non solo non riesce più a superare il presente: essa fallisce persino nel cogliere l’attualità [14]. Un fenomeno analogo può prodursi nelle lotte politiche. Anche quando perseguono degli obiettivi riformisti, i partecipanti compiono talvolta delle svolte la cui radicalità reale resta inavvertita, soprattutto quando tali svolte non possono essere integrate nei concetti e nelle categorie adottati fino a quel momento dalla lotta. Gli insorti sono quindi incapaci di trarre tutte le implicazioni da ciò che stanno già facendo; né riconosceranno necessariamente queste spinte nei cicli di lotta successivi al fine di spingerli in una nuova direzione. È in questo scarto tra la pratica e la riflessione, tra i mezzi e i fini, tra le punte più avanzate di un ciclo e quelle che emergono nel successivo, che la teoria può giocare un ruolo di appoggio, facendo emergere l’eccedente nascosto nelle pieghe della storia, la sua Entwicklungsfähigkeit [capacità di sviluppo] [15]. Il movimento dei Gilet gialli è stato in tal senso esemplare. Tra le sue varie innovazioni, si possono evidenziare due punte avanzate. Per prima cosa, benché i suoi elementi catalizzatori siano stati delle pressioni sociali già note – aumento del costo della vita, abbassamento della mobilità sociale, tagli ai servizi pubblici ecc. –, l’organizzazione della rivolta ha aggirato le categorie tradizionali d’identificazione politica e d’identità sociale grazie a un gesto semplice e riproducibile d’auto-inclusione: per unirsi al movimento era sufficiente indossare il gilet e fare qualcosa. In tal modo il movimento ha superato d’un salto il problema trotzkista della «convergenza» tra movimenti sociali costruiti nella separazione (studenti, lavoratori, immigrati ecc.). Ogni lotta politica richiede un certo grado di formalizzazione per delimitare l’appartenenza; ora, l’uso di un oggetto quotidiano come un gilet ben visibile – o un ombrello – garantiva il fatto che la forza di combattimento fosse definita dalle iniziative contagiose che diffondeva e non in riferimento a un gruppo sociale specifico autorizzato a rappresentarla. Ciò ha permesso ai Gilet gialli di aggirare un meccanismo centrale della governamentalità: la cattura delle nostre identità sociali per contenere gli antagonismi nei circuiti istituzionali (politiche universitarie, conflitti di lavoro ecc.). Dai «frontliners» di Hong Kong ai «terremoti dei giovani» [youthquakes] d’oggi, riuniti sotto il sigillo impersonale di una bandiera pirata in stile manga [16], le rivolte scoppiano ormai come dei contagi virali, come dei mème che favoriscono sperimentazioni più aperte e riducono i rischi di recupero. Tuttavia, incapaci di riconoscere la potenza delle loro stesse innovazioni, i Gliet gialli sono ricaduti nell’immaginario della Rivoluzione francese e del suo ondivago significante, «il popolo», spingendo molti a confondere l’innovazione di quel movimento con un rinascente populismo di destra. Sull’immanenza inappropriabile del mème hanno sovrascritto la trascendenza del mito [17]. In secondo luogo, mentre numerose rivolte si fanno magnetizzare dai simboli del potere borghese – tribunali, parlamenti, commissariati –, i Gilet gialli hanno stabilito le loro basi di organizzazione, di strategia e di vita collettiva quanto più in prossimità del loro quotidiano. Come è stato osservato all’epoca: «Questa prossimità con la vita quotidiana è la chiave del potenziale rivoluzionario del movimento: più i blocchi sono vicini al domicilio dei partecipanti, più è probabile che tali luoghi diventino personali e importanti in mille modi. E il fatto che sia una rotatoria – piuttosto che un bosco o una valle – a essere occupata toglie ogni contenuto prefigurativo o utopico a questi movimenti. […] Occupare la rotonda vicino a casa propria assicura che la fiducia collettiva, l’intelligenza tattica e il senso politico condiviso che i Gilet gialli coltivano di giorno in giorno attraversino e contaminino le reti, i legami, le amicizie e gli affetti della vita sociale nelle zone coinvolte» [18]. Sentimenti che resterebbero utopici in una piazza occupata del centro città o in uno spazio come la ZAD (in cui la maggior parte dei partecipanti non vivono), una volta spostati in una rotatoria possono a quel punto diffondersi nella vita quotidiana invece di rimanerne separati. E quando le sue basi sono attaccate dalle forze repressive, le risorse della vita privata possono rialimentarle e ricostruirle, come si è visto a Rouen, dove le casette improvvisate sono state distrutte e poi ricostruite una mezza dozzina di volte [19]. L’innovazione non consisteva soltanto nella prossimità con la vita quotidiana. Occupare i centri dei paesi sarebbe potuto bastare. Ma collocando la loro base alla giuntura tra l’economia e la vita quotidiana – là dove i camion merci che lasciano l’autostrada entrano in città –, le rotonde sono diventate anche dei blocchi di filtraggio, consegnando agli insorti una leva logistica. Occupando la circolazione non nel punto vitale per il capitale, ma nel luogo in cui il capitale entra nell’ambito della vita, hanno politicizzato la membrana tra vita e denaro alle proprie condizioni, invece di piegarsi al luogo simbolico indicato dal potere borghese (come aveva fatto Occupy Wall Street). In realtà: «Il vero orizzonte strategico dei blocchi del retro-paese non è sospendere completamente i flussi dell’economia, ma produrre delle basi territoriali abitate che la restituiscono alla dimensione della vita quotidiana, a un livello in cui essa può essere compresa e decisa» [20]. Una combinazione di intelligenza logistica collocata sulla soglia della vita quotidiana, ma federata a livello nazionale attraverso assemblee regionali e nazionali di delegati [21]. Per Jérôme Baschet, invece, la costruzione di questi «spazi liberati» – spinta fino in fondo – avrebbe potuto rappresentare lo zoccolo di una più vasta offensiva contro l’economia, approfondendo non solo «i legami tra spazi liberati esistenti», ma combinando «la moltiplicazione degli spazi liberati con dei blocchi generalizzati. Nella misura in cui gli spazi liberati possono dispiegare le proprie risorse materiali e le proprie capacità tecniche, possono servire da nodi decisivi in grado di amplificare i blocchi nei momenti chiave, in forme diverse. Più abbiamo spazi liberati, più dovremmo essere in grado di estendere la nostra capacità di blocco. Inversamente, più i blocchi diventano diffusi, più questi favoriscono l’emergere di nuovi spazi liberati» [22]. Il rischio, certo, sarebbe credere che si tratti semplicemente di ripetere la situazione Gilet gialli. Questo errore – visibile nella strana bolla speculativa che ha circondato quest’estate l’iniziativa «Blocchiamo tutto» del 10 settembre – proviene da una tendenza a dissociare la questione delle tattiche e delle pratiche dalla rottura evenemenziale che ha presieduto al loro emergere [23]. Coloro che tentano di forzare la storia a ripetersi garantiscono una cosa sola: la farsa. VIII. Nei suoi slanci pratici, la lotta contro l’ICE punta al superamento delle separazioni della Floyd rebellion La capacità offensiva della sollevazione George Floyd del 2020 è stata ostacolata da una separazione tra la sua presa degli spazi e la sua intelligenza logistica. Le occupazioni che assediavano formalmente i luoghi del potere («sommossa politica») non sono mai arrivate a combinare in modo significativo le proprie forze con le carovane di saccheggi che si scatenavano contro i centri commerciali e le zone mercantili secondo una strategia del mordi e fuggi («sommossa delle vetrine») [24]. Di conseguenza, la coscienza logistico-infrastrutturale è rimasta relativamente depoliticizzata – semplice assemblaggio di tecniche – mentre la coscienza politica restava fissata su degli edifici evacuati dal forte valore simbolico [25]. Con la costruzione di centri di difesa, o centros, combinata con altre pratiche di auto-sorveglianza, di inseguimento e di perturbazione, la lotta attuale contro l’ICE ha abbozzato una ripoliticizzazione dell’intelligenza infrastrutturale, così come un’inversione del suo orientamento «cinegetico» (dal ruolo di preda a quello di predatore). Questo fatto, unito alla marcata tendenza a restituire la politica agli spazi della vita quotidiana, indica una possibilità reale di superare i limiti del 2020 – che gli attori di questa lotta ne abbiano formalizzato l’idea o meno. Dopo l’invasione delle città americane – Washington, Chicago, Portland – da parte delle forze federali, l’attrazione simbolica esercitata da certi luoghi del potere, come i centri di detenzione dell’ICE a Broadview (Illinois), ha ceduto lo spazio a un diffuso ethos d’autorganizzazione, oltrepassando persino barriere di classe e di razza in passato invalicabili. Il centro di gravità si è spostato lontano dal tritacarne delle guerre d’assedio attorno alle fortezze nemiche, per ritornare verso gli spazi della vita quotidiana – un’evoluzione, questa, da salutare. I e le residenti invadono le proprie strade non appena sentono quel richiamo dell’usignolo che sono i clacson e i fischietti; carovane di auto private inseguono e disturbano gli agenti dell’ICE lungo i viali; mentre vicine e vicini si riuniscono intorno alle scuole, ai luoghi di lavoro e alle bancarelle dei rivenditori di strada. Dei consigli di difesa sono sorti a Chicago come altrove nel Paese, militanti hanno installato dei centri di difesa negli assembramenti di Home Depot e in altri luoghi frequentati dai lavoratori a giornata. Secondo una recente guida pratica, questi centri servono da spazi di incontro che vanno al di là delle affinità della sotto-cultura o dell’ambito di lavoro, «offrendo alle persone colpite delle relazioni radicate localmente che dànno una direzione alla loro collera» [26]. Nella misura in cui i nessi tra la vita quotidiana e la riproduzione sociale diventano via via più politicizzati, l’intelligenza logistica di solito riservata ai saccheggi e all’attacco mordi e fuggi comincia a generalizzarsi, a de-specializzarsi e a diventare accessibile a chiunque sia pronto a raggiungere una rete Signal locale e a cominciare a pattugliare. Le pratiche di sorveglianza collettiva dal basso, associate a un insieme di compiti concreti – impedire gli arresti, garantire un passaggio sicuro, esasperare ed espellere i nemici – realizzano lentamente ciò che due decenni di movimenti sociali non sono riusciti a fare: reintrodurre una partecipazione collettiva nello spazio metropolitano, su di una base partigiana, non economica. Le strategie politiche sono coerenti solo in funzione delle verità su cui si basano. Questo riconoscimento ha spinto i partecipanti alla sollevazione di Hong Kong nel 2019 ad attribuire un’importanza fondamentale alla verifica delle informazioni. Queste pratiche trovano oggi una nuova espressione nelle lotte anti-ICE, che mescolano una condivisione di conoscenze infrastrutturali con un ethos collettivo di coinvolgimento nella situazione. Nelle città americane, un nuovo empirismo politico scruta la vita quotidiana per individuare i segni del nemico. Per attivarsi ed evitare i rapimenti, le reti di intervento rapido dipendono dalle informazioni raccolte da attivisti che pattugliano in auto o a piedi, o dalle segnalazioni pubblicate sulle reti social. Queste informazioni sono in seguito filtrate in ampie reti Signal nelle quali si confrontano descrizioni di veicoli e targhe, si estraggono i numeri VIN e si scambiano in tempo reale dettagli di localizzazione. L’uso del protocollo SALUTE [27] garantisce che l’informazione sia completa e circolabile, ma la posta in gioco va ben al di là della diffusione di informazioni fattuali: ciò che sta nascendo è una nuova sensibilità politica. L’esperienza individuale, atomizzata, della città lascia il posto a un’attenzione collettiva, espressa attraverso il tracciamento continuo del nemico così come da una sensibilità ai ritmi, ai flussi e alle relazioni qualitative che strutturano i luoghi abitati. Come nota la già citata guida pratica, questi centri «riusciranno o falliranno a seconda che siate attenti o meno ai bisogni della zona circostante» [28] Tramite questo apprendimento dei segni, la lotta anti-ICE contribuisce a far nascere un mondo in comune. La minaccia rappresentata da questa politicizzazione logistica della vita quotidiana per la legittimità delle forze governanti è considerevole. È probabilmente il motivo per cui l’amministrazione Trump ha cercato di disinnescare la resistenza attribuendole un’identità pre-digerita e un racconto. Invece di riconoscere la lotta per ciò che è – una circolazione di pratiche diffuse di sovversione accessibili a tutti, indipendentemente dalle ideologie o identità sociali – il potere proietta il mito di un’organizzazione gerarchica («Antifa»), finanziata da élite liberali e organizzata militarmente in «cellule» che ricevono ordini centralizzati. Lo scopo di questo racconto caricaturale e palesemente falso non è quello di essere preso alla lettera da chicchessia (dal momento che non ha alcuna realtà), ma di dissimulare la verità sensibile che si afferma ogni giorno di più: il binarismo cittadino/non-cittadino è uno strumento intollerabile di apartheid violento. Quali potenziali inavvertiti porta in sé questa nuova ondata di contestazione? Cosa potrebbe realizzare una rete diffusa di Consigli di quartiere, animata da un’intelligenza logistica collettiva e da una capacità estremamente mobile di rottura e di intervento, se guadagnasse una maggiore ampiezza? Per evitare efficacemente gli arresti e proteggere i vicini, potrebbero diventare necessarie delle forme di blocco logistico più ambiziose. Cosa richiederebbe il coordinamento delle azioni su scala di intere città, o la messa in pratica di blocchi di filtraggio in grado di assicurare un controllo comunitario di certe zone o quartieri? A quali altre ambizioni di potere popolare potrebbero servire queste tecniche se – o quando – l’ICE si ritirerà dalle città coinvolte? IX. La fine delle mediazioni potrebbe significare la fine della sinistra – e l’emergere di un nuovo underground rivoluzionario Nella misura in cui le forze in campo competono per determinare quale direzione prenderà il salto al di là della democrazia liberale, le mediazioni continueranno a dissolversi. In quanto vettore principale del «soft power», il ruolo della sinistra, che consiste nel contenere l’energia ribelle attraverso la promessa di riconoscimento statale e di riforme, potrebbe smettere di funzionare. Mentre la destra prosegue il suo attacco contro la base della cultura di sinistra – licenziando professori, criminalizzando militanti e studenti, e sopprimendo i finanziamenti destinati alle ONG LGBTQ e ai diritti delle e dei migranti – si fa largo un’occasione: quella di reiventare da cima a fondo il sottosuolo politico. A tal riguardo, l’esempio del Sudan può rivelarsi istruttivo. Come scrive Prasad: «Dopo una sollevazione nel 2013, è emerso un proliferare di comitati di resistenza, il cui scopo era quello di preparare l’ondata successiva di lotte. Concretamente, questo significava: mantenere dei centri sociali di quartiere; costruire un’infrastruttura e raccogliere riserve di materiale ritenuto necessario; sviluppare reti di compagni e simpatizzanti a livello delle città e del paese; e testare la capacità di queste reti attraverso azioni coordinate. Quando la rivoluzione è arrivata davvero, alla fine del 2018, questi gruppi hanno potuto agire come vettori d’intensificazione. I comitati di resistenza hanno anche potuto sostenere la rivoluzione nella sua fase successiva, quando il presidente Al-Bashir è stato costretto a dimissionare» [29]. I compiti esatti che un sottosuolo post-sinistra deve intraprendere sono ancora da chiarire. Se la reazione pubblica all’affare Luigi Mangione ha provato qualcosa, è che questo sottosuolo non ha alcun bisogno di trarre le proprie coordinate politiche dal conflitto culturale classico sinistra/destra. È possibile che un movimento vasto, combattivo e audace – capace di esplorare gli interstizi della storia recente, di risuscitarne giudiziosamente le intuizioni, e di perseguirne senza sosta le conclusioni – possa risuonare ben al di là dei bacini dell’ultrasinistra, e trovare un vasto ascolto in un periodo di profonda incertezza. Più di un secolo fa, Kropotkin proponeva il seguente correttivo: «”Però”, ci avvertono spesso i nostri amici, “attenzione a non spingersi troppo in là! L’umanità non può essere cambiata in un sol giorno, non siate quindi troppo affrettati con i vostri progetti di esproprio e di anarchia, col rischio di non ottenere alcun risultato duraturo”. Ora, ciò che temiamo noi rispetto all’esproprio è esattamente l’opposto. Abbiamo paura di non andare abbastanza a fondo, di realizzare degli espropri su scala troppo limitata affinché questi possano durare. Non vorremmo che lo slancio rivoluzionario si fermi a metà strada, spegnendosi nelle mezze misure che non soddisferebbe nessuno e che, facendo sprofondare la società in un’immensa confusione e interrompendo le sue abituali attività, non avrebbero alcuna potenza vitale, non farebbero che diffondere un malcontento generale e preparerebbero inevitabilmente il terreno per il trionfo della reazione» [30]. Se – e quando – la marea vira di nuovo a loro favore, i commissariati ricominciano a bruciare e i politici si seppelliscono nei bunker o fuggono in elicottero, gli insorti non devono essere presi alla sprovvista. Essi non devono permettere che la comune sia rimpiazzata da un parlamento virtuale di server Discord; devono utilizzare tale occasione per mettere in atto delle sperimentazioni comuni, incarnate, in presenza, in grado di coinvolgere il maggior numero di partecipanti. Benché nulla di ciò che è attualmente immaginabile sia adeguato, la storia nasconde delle tracce in cui potrebbero ancora alloggiare delle sorprese. Adrian Wohlleben Ottobre 2025 *Questo articolo è basato su una conferenza pubblica tenuta il 3 ottobre 2025 a Montréal, in Quebec, prima puntata di una serie di discussioni dedicate alle prospettive rivoluzionarie nell’èra attuale. [1] Nella misura in cui la stessa bandiera One Piece si diffonde, si arricchisce poco a poco di attributi locali. In Madagascar, per esempio, il cappello di paglia viene sostituito dal satroka, un berretto tradizionalmente indossato dal gruppo etnico Betsileo. Resta tuttavia significativo il fatto che sia l’identità nazionale a cavalcare questo simbolo contagioso, come semplice accessorio, e non il contrario. Cfr. Monica Mark, «‘Gen Z’ protesters in Madagascar call for general strike», Financial Times, 9 ottobre 2025. (online). [2] Blaumachen, «The Transitional Phase of the Crisis : the Era of Riots», 2011 (online). [3] Maurizio Lazzarato, Gli Stati Uniti e il «capitalismo fascista» (online). [4] Intervista citata in Vasudha Mukherjee, «Trump turns ally investments into $10 trillion US ‘sovereign wealth fund’», Business Standard, 14 agosto 2025 (online). [5] Il fatto che l’èra delle rivolte sia apparsa per prima, e ch’essa sia stata integrata solo in seguito da uno sforzo fascisteggiante di reimporre un ordine incentrato sugli Stati Uniti, sia all’interno che all’esterno, non deve indurci in errore. Il bilancio che tracciava il Comitato invisibile del ciclo 2008-2013 si concludeva con queste parole: «Niente garantisce che l’opzione fascista non venga preferita alla rivoluzione» (Ai nostri amici). [6] Nueva Icaria, «New Fascisms and the Reconfiguration of the Global Counterrevolution», Ill Will, 11 agosto 2025 (online). [7] Ibidem. ** Il riferimento qui è all’attentatore di Charlie Kirk, che pareva essere un gamer, appassionato di videogiochi. [8] Pranaya Rana, «The Week after Revolution», Kalam Weekly (Substack), 19 settembre 2025 (online). [9] S. Prasad, «Paper Planes», 31 agosto 2022 (online). [10] Phil Neel distingue tra le lotte in difesa delle «condizioni di sussistenza» economico-ecologiche e quelle che si scontrano con «l’imposizione autoritaria di queste condizioni» («Teoria del partito» Ill Will, 6 settembre 2025: in italiano online). La recente tendenza globale fa sì che movimenti sociali di massa non-violenti che rivendano una riforma delle condizioni di sussistenza siano proiettati nel combattimento non appena le forze dell’ordine reagiscono per eccesso e aprono il fuoco, spostando il quadro della lotta dal primo tipo al secondo: dall’austerità all’autorità. Gli Stati Uniti costituiscono un’eccezione: benché le misure di austerità rappresentino lo sfondo, le lotte sulle questioni economiche non producono quasi mai rivolte combattive di massa: queste sono catalizzate soltanto dai mezzi autoritari di repressione. Anche se una rivolta ha poche probabilità di scoppiare negli USA direttamente a causa dei tagli ai buoni alimentari, della precarietà dell’abitare o della negazione delle cure mediche, le reti militanti forgiate da queste lotte di sussistenza possono tuttavia contribuire ad approfondire dei movimenti di massa antiautoritari, come quando l’infrastruttura del sindacato degli inquilini di Los Anglese è stata mobilitata per allestire dei centri di difesa anti-ICE in seguito alle sommosse di giugno 2025. [11] S. Prasad, «Paper Planes», 31 agosto 2022 (online). [12] In questo caso, la debolezza dell’immaginazione è legata a sperimentazioni pratiche intentate nel momento in cui avrebbero dovuto essere tentate. La tesi VII esplora lo scenario inverso, quando tali sperimentazioni hanno avuto effettivamente luogo ma la loro potenza è passata inosservata. [13] Günther Anders, «Theses for the Atomic Age», The Massachusetts Review, vol. III, n. 3 (primavera 1962), p. 496. In italiano, il testo andersiano si può trovare in appendice al suo Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, 1961; Linea d’ombra, 1995. È leggibile anche qui.  [14] Per esempio, chiamare «armi» le bombe nucleari e dibattere del loro uso tattico equivale ad assimilarle a uno strumento, un mezzo in vista di un fine. Ora, l’uso di tali bombe minaccia di distruggere il mondo intero all’interno del quale soltanto dei fini possono essere perseguìti. Il loro uso annulla di conseguenza ogni rapporto mezzi-fini e rende caduche le considerazioni tattiche. Eppure, questa attitudine strumentale resta la sola maniera in cui l’immaginazione riesce a pensarle, malgrado si tratti di un errore di categoria. Cfr. Günther Anders, «I comandamenti dell’èra atomica», in Burning Conscience, Monthly Review Press, 1962, pp. 15-17. In italiano, il testo è stato pubblicato in Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Lo si può leggere anche qui: I comandamenti dell’Era Atomica | Günther Anders – Granelli di Pace [15] Gilbert Simondon sosteneva che la «relazione artificiale» che intratteniamo con gli oggetti tecnici può essere corretta soltanto a condizione di imparare a concepire la loro evoluzione geneticamente, cioè dissociandola dalle intenzioni umana proiettate su di loro, per cogliere invece lo sviluppo dei loro elementi, dei loro insiemi e del loro contesti associati secondo i loro stessi termini. In maniera analoga, quando studiamo l’evoluzione, la mutazione e la circolazione degli stimoli pratici e dei gesti attraverso differenti sequenze di lotta, può essere utile sospendere metodologicamente il riferimento ai fini che i partecipanti si dànno, per considerare l’evoluzione di queste pratiche, da un ciclo all’altro, secondo i loro stessi termini. Qualcuno ha espresso il timore che una simile focalizzazione sulla circolazione e l’evoluzione delle pratiche ceda a quello che Kiersten Solt ha definito «nichilismo della tecnica.». Mi sembra al contrario che i rivoluzionati non pensino ancora abbastanza tecnicamente. Sono fin troppo numerosi coloro che continuano a reificare un concetto astratto e a-storico dell’azione politica, nel quale i metodi di lotta deriverebbero immediatamente dai fini perseguìti o potrebbero essere volontaristicamente adottati per semplice decreto. In pratica, l’attualità precede la possibilità: tutte le lotte fondano la loro esperienza del possibile politico su un serbatoio di impulsi già in circolazione, innovando all’interno dei limiti fissati da tale serbatoio. È questo menù o repertorio esistente – che potremmo chiamare il phylum tattico – che delimita il campo dell’immaginabile. E, lungi dal superare questo repertorio, la nostra immaginazione resta spesso al di qua. Di conseguenza, invece di proiettare dei valori etici e politici davanti alla realtà e di trattare la pratica come semplice mezzo per realizzarli, l’analisi delle pratiche può servire ad allargare la nostra immaginazione e a rendere l’attualità di nuovo possibile. Questo presuppone di rintracciare l’evoluzione delle spinte pratiche attraverso le sequenze di lotta, alla ricerca di brecce, di faglie e dei momenti in cui i limiti sono stati oltrepassati. [16] Adottando il «Jolly Roger» come bandiera globale, l’ondata di sollevazioni del 2025 ha convertito il termine «Gen Z» da una designazione demografica banale al simbolo di uno spossessamento condiviso. Attraverso la sua circolazione virale, da Indonesia e Nepal fino al Madagascar, al Marocco e al Perù, la bandiera pirata «Gen Z» mette in luce una tensione ormai familiare tra lo Stato e il capitale: dal momento che tutti i buoni impieghi locali sono monopolizzati dai figli della borghesia (i «nepo babies»), bisogna andare all’estero per guadagnarsi da vivere; ma nella misura in cui l’ordine neoliberale crolla, gli Stati chiudono le frontiere. Ne consegue un’esperienza contraddittoria: i lavoratori sono sradicali pur essendo chiusi nello spazio, con il digitale come unica apertura sul mondo. La comunità virtuale della libertà pirata è il riflesso negativo di questa condizione economica confinata. Naturalmente, questa condizione non si limita per nulla ai giovani. L’accento messo sulla «gioventù» sembra legato piuttosto a una virtù paradossalmente negativa: non avere le mani sporche. Essere giovani significa non essere ancora al potere, non essere ancora in grado di “trafficare”, non essere ancora inseriti in una rete di potere locale e globale, non essere ancora corrotti. È questa negatività – e non la proprietà positiva dell’età – che ha permesso a una forza combattente di cristalizzarsi all’attorno all’evidenziatore «Gen Z». [17] Per una lettura opposta che afferma l’uso del mito nei Gilet gialli, si veda «Epistemology of the Heart», in Liaisons Vol. II, Horizons, PM Press, 2022 (online). Tuttavia, come gli stessi autori riconoscono: «Il problema è che, mentre il compimento del mito contribuisce alla forza della lotta, la tradizione dei vinti deve rimanere vinta per poter restare una tradizione» (375). Qui come sempre, l’affermazione del mito si rivela inseparabile da un culto della morte esemplare, una religio mortis. Il comunismo, a mio avviso, deve essere una scommessa sulla vita terrena, non sull’eternità. [18] Adrian Wohlleben e Paul Torino, «Memes with Force. Lessons from the Yellow Vests», Mute, 26 febbraio 2019 (in italiano qui). [19] Adrian Wohlleben, «The Counterrevolution is Failing», Commune, 16 febbraio 2019 (online). [20] Adrian Wohlleben, «Memes without End», Ill Will, 17 maggio 2021 (in italiano qui). Ripubblicato in The George Floyd Uprising, a cura del Vortex Collective, PM Press, 2023, 224-47. [21] Anonymous, «Learning to Build Together: the Yellow Vests», Ill Will, 9 maggio 2019 (online). Essa costituiva un paradigma originale e potente di autorganizzazione insurrezionale. Ancora una volta, non è affatto certo che i Gilet gialli avessero còlto appieno la portata della propria invenzione. Invece di riconoscere che stavano reimmaginando le forme e le pratiche con cui lo slogan «tutto il potere alle communi» potrebbe essere attualizzato oggi, uno sguardo incentrato sulle dimissioni di Macron spingeva molti ad adottare semplicemente una nuova forma di proceduralità parlamentare: il Referendum d’iniziativa cittadina (RIC) [finalizzato a permettere la consultazione referendaria per la proposta o l’abrogazione di leggi, la revoca dei mandati politici e gli emendamenti costituzionali]. [22] Jérôme Baschet e ACTA, «History Is No Longer on Our Side: An Interview with Jérôme Baschet», Mute, 23 gennaio 2020 (online). [23] Temps Critiques, «On the 10th of September», Ill Will, 10 settembre 2025 (online). [24] Questo argomento è sviluppato più dettagliatamente in Wohlleben, «Memes without End». [25] La lezione da trarre da sequenze come il Kazakhstan del 2022, o il Nepal di quest’estate, non è che bisognerebbe ignorare i luoghi del potere o lasciarli in pace, ma che non c’è niente da farne, se non raderli al suolo con sangue freddo. In tale prospettiva, anche la festa in piscina in Sri Lanka è durata forse troppo tempo, distogliendo le energie dalle festività che avrebbero dovuto svolgersi nelle strade, nei quartieri e nelle stazioni di benzina dell’intero paese. Mentre riducevano in cenere i simboli fisici del potere borghese, i manifestanti nepalesi hanno nondimeno fallito nel costruire le basi di un potere popolare indipendente in prossimità delle zone abitate, ripiegando piuttosto sui forum virtuali di Discord, dove complottavano per piazzare i “loro” politici ai posti di potere. Malgrado la ferocia del loro assalto, il concetto parlamentare di politica ne è uscito intatto. [26] Lake Effect Collective, «Defend our Neighbors, Defend Ourselves! Community Self-Defense from Los Angeles to Chicago», p. 4 (online). Benché il testo oscilli tra un atteggiamento «proattivo» d’intervento autonomo (p. 4) e la politica di un alleato che limita il proprio ruolo a «sostenere e facilitare» le azioni dei cosiddetti «locali» (il che definisce implicitamente i loro autori/autrici come extraterrestri) (p. 5), esso offre una solida cassetta degli attrezzi per gli individui e i collettivi desiderosi di partecipare al momento presente. [27] SALUTE è un mezzo mnemotecnico che significa: taglia/forza (Size/Strength – S), azioni/attività (Actions/Activity – A), localizzazione (Location – L), uniforme/vestiti (Uniform – U), momento dell’osservazione (Time – T), equipaggiamento/armi (Equipment – E). Tale quadro serve ad assicurare che un rapporto di osservazione fornisca informazioni sufficientemente dettagliate e complete. [28] Lake Effect Collective, «Community Self-Defense», p. 9 (online). [29] S. Prasad, «Paper Planes», 31 agosto 2022 (online). Con la differenza che, laddove il movimento neo-consiliare sudanese è stato alla fine vinto per via della sua incapacità a difendersi, una sollevazione americana dovrà mobilitare tutta la sua inventiva per impedire la guerra aperta che cova in permanenza, affinché delle sperimentazioni di autonomia collettiva possano generalizzarsi e rafforzarsi nel frattempo. [30] Pëtr Kropotkin, La conquista del pane [1892], Anarchismo, Trieste, 2024 [quarta edizione]. Disponibile anche qui: La conquista del pane | Edizioni Anarchismo Per delle iperboli esatte Due sono a nostro avviso i pregi di questo testo. Il primo è quello di collocare su un terreno strategico – cioè decisivo – lo scontro tra il moto di sommosse in corso nel mondo e l’ascesa dei neo-autoritarismi, scontro la cui posta in gioco è la direzione del salto oltre una democrazia liberale ormai defunta ma non ancora crollata; cosa ben diversa dalle solite geremiadi sul conflitto tra fascismo e democrazia, con il correlativo (e fuorviante) invito a difendere la seconda per scongiurare il primo. L’altro pregio del testo è quello di osservare con attenzione cosa stanno producendo di innovativo alcuni movimenti di rivolta. Anche quando non è quello del semplice consumo spettacolare, lo sguardo sulle rivolte è spesso “mitico”, nel senso che le immagini di blocchi, scontri e saccheggi sembrano uscire da uno spazio-tempo sempre-uguale (quello estatico della rottura della normalità). Se quel mitico punto di appoggio della rivolta (là dove gli incappucciati si scontrano con la polizia e assaltano i luoghi del potere) è di per sé un antidoto rispetto al mito autoritario dell’ineluttabilità della storia, rivoluzionario è soltanto lo sguardo che vuole imparare da ciò che concretamente fanno – nelle opere e nei giorni della lotta – le proprie sorelle e i propri fratelli di classe al di là di qualche fermo immagine che li immortala. Così come la rivolta è sempre l’iperbole di un insieme di fattori storici e sociali, anche la teoria sulla rivolta si serve di iperboli per evidenziare alcuni elementi anziché altri. Vale tuttavia per la teoria-pratica rivoluzionaria ciò che Cristina Campo diceva della poesia: la sua verità «parla per iperboli esatte». Ci limitiamo qui a segnalare i disaccordi e le integrazioni che ci sembrano più importanti. Per poi abbozzare qualche riflessione. Nell’analisi della fase storica manca nel testo la tendenza fondamentale del nostro tempo: la guerra. La quale non può essere rubricata dentro un elenco di misure extra-economiche insieme al «saccheggio», alla «conquista» e allo «spossessamento». Senza addentraci qui nel rapporto di reciproco incremento tra i «monopoli radicali» tecno-industriali e la potenza militare per allargarli e per difenderli, sarà sufficiente dire che più lo scontro inter-statale e inter-capitalistico passa dal piano economico-finanziario a quello strategico, più la guerra diventa allo stesso tempo un precipitato e un’ulteriore radicalizzazione dello scontro. Il passaggio dei moti di rivolta a un piano rivoluzionario si giocherà innanzitutto contro gli effetti di una mobilitazione bellica totale. Di tutto ciò non c’è traccia nel testo, tant’è che nell’analisi degli ultimi cinque anni non si menziona nemmeno la prima guerra simmetrica dall’epoca di quella di Corea: il conflitto tra Nato e Russia giocato sul terreno dell’Ucraina. Considerazione analoga vale per il susseguirsi di sollevazione negli ultimi due anni. Come si fa a non collegarli a Gaza, vera apocalisse del nostro tempo? Il solo accenno al genocidio del popolo palestinese è espresso in termini palesemente assurdi: il salto ormai necessario oltre la democrazia liberale determina, secondo l’autore, «l’audacia stupefacente che sorge in tutti gli angoli della società, dagli attentati “gamer” al cinismo animale del genocidio israeliano a Gaza, fino ai giovani nepalesi e alle classi popolari …». Ma come si fa a individuare un carattere comune («l’audacia stupefacente») nella combattività di certe rivolte e nello sterminio perpetrato dallo Stato d’Israele (per altro un esempio atroce di razionalità scientifico-militare-industriale applicata a una logica coloniale, altro che «cinismo animale»!). L’unico riferimento, poi, alla potenza tecnologica come caratteristica fondamentale della società in cui viviamo consiste in un uso di Anders che più che «originale» a noi sembra strampalato. Lo «scarto prometeico» andersiano si riferisce alla producibilità tecnica di catastrofi troppo smisurate («sovraliminali») per essere afferrate dalla nostra «fantasia morale». Cosa c’entra con il fatto che nelle lotte – e ciò da ben prima dell’èra nucleare – la coscienza pratica è sempre più avanti di quella teorica? Che la rivolta sociale appaia ai suoi stessi partecipanti una sorta di enigma attiene al fatto che le sue risultanti mescolano passato e futuro, continuità e rottura, abitudini ereditate e nuovi inizi; e che le sue «innovazioni» più feconde non sono né individuali né collettive, bensì impersonali. Ciò non toglie che il ruolo della teoria è proprio quello di cogliere l’elemento vivo più nelle pratiche che nelle dichiarazioni d’intenti (questo è il rapporto che si è dato, per esempio, tra l’invenzione proletaria dei Soviet e la teoria consiliare). Da questo punto di vista, le parti del testo dedicate ai Gilet gialli e alle lotte in corso negli USA contro i rapimenti dell’ICE sono estremamente puntuali e interessanti. Se anche per noi l’intreccio tra autorganizzazione comunitaria e capacità offensiva è uno degli elementi decisivi, non c’è alcun bisogno di vedere in tale intreccio delle «basi di un potere politico popolare». La nozione di «potere» è estremamente ambigua, perché indica sia la capacità di agire di concerto e di realizzare un determinato rapporto di forza, sia l’usurpazione di tale capacità da parte di minoranze che si dànno a tal fine una legittimazione popolare. È solo una questione linguistica? L’ultimo rilievo attiene a uno scarto (non prometeico…) tra le considerazioni logistico/infrastrutturali e la citazione di Kropotkin. Né le rotatorie dei Gilet gialli né i centri di difesa anti-ICE nei quartieri sono esempi di esproprio (mentre le «carovane dei saccheggi» citate a proposito della Floyd rebellion ne costituiscono un’espressione parziale). Se i blocchi-luoghi di vita rappresentano un punto di appoggio che permette alle lotte di tenere nel tempo e di estendersi nello spazio, il passaggio dalle rivolte alla rivoluzione non può avvenire senza l’esproprio generalizzato. Ora, se è abbastanza chiaro cosa debba distruggere un movimento insurrezionale, lo è molto meno, nell’epoca del tecno-capitalismo e dei «monopoli radicali», di cosa ci si possa davvero riappropriare per rendere irreversibile un conflitto e gettare così le basi di una vita altra. Per cercare di cogliere appieno l’hic Rhodus, hic salta di ogni ipotesi rivoluzionaria oggi, è necessario formulare con chiarezza l’ordine dei problemi. Da questo punto di vista – l’ordine dei problemi, non necessariamente le «soluzioni» – rimangono ancora estremamente preziose le analisi sviluppate negli anni Ottanta dall’Encyclopédie des Nuisances. Partendo quindi da alcuni loro brani (riportati in corsivo) possiamo cercare di tracciare qualche spunto finale. Le forze produttive e tecnologiche sono adesso mobilitate dalle classi proprietarie e dai loro Stati per rendere irreversibile l’espropriazione della vita e devastare il mondo fino a farne qualcosa che nessuno possa più pensare di contendere loro. Ecco il fronte di lotta che contiene tutti gli altri. Lo sviluppo tecnologico, vero motore del dominio e della sua cosmovisione, è un apparato d’incarcerazione della società. Questo non significa solo che esso tende, grazie alle sue stesse dinamiche, a mercificare ogni cosa, e quindi a trasformare in valore gli stessi corpi e i cicli vitali della natura e della specie; significa anche che la sua presa totalitaria costituisce la principale potenza anti-rivoluzionaria e anti-utopica in atto. Rendendo irreversibili i suoi processi, punta a rendere incontendibile il suo mondo, sempre più gestibile unicamente dalle sue macchine e dai suoi esperti. È da quest’angolo visuale – allo stesso tempo dentro e contro la storia – che si possono giudicare le singole «innovazioni». Che siano macchine, dispositivi digitali o farmaci genetici, il punto non è tanto e soltanto: chi ci guadagna? Oppure: sono davvero efficaci? Bensì: accrescono la sottomissione delle nostre vite? Rendono ancora più irreversibile lo spossessamento individuale e sociale? Per formulare un simile giudizio è necessaria la costituzione di un punto di vista collettivo a partire dal quale diventa possibile condannare tutta l’innovazione tecnica autoritaria, senza più lasciarsi impressionare dall’insulso rimprovero di passatismo. A impedire la formazione di tale «punto di vista collettivo» non è tanto l’ideologia del dominio, in quanto apparato di giustificazione istantanea di tutto ciò che l’economia divenuta totalitaria compie; bensì la difficoltà pratica di tagliare i rami marci su cui siamo noi stessi seduti. L’immensità di questo compito di trasformazione, che ognuno avverte confusamente, è senza dubbio la causa più universale e più vera della prostrazione di tanti nostri contemporanei, che conferisce alla propaganda spettacolare la sua relativa efficacia. Poiché il territorio nella sua integralità è stato ricostruito dal nemico secondo i suoi bisogni repressivi, ogni volontà sovversiva deve cominciare con il considerare freddamente a partire da quali realtà vissute può rinascere una coscienza critica collettiva, quali sono i nuovi punti d’applicazione della rivolta suscettibili di portare con sé tutti quelli precedenti. Non crediamo che questo possa davvero avvenire «freddamente». Gli spazi di libertà si aprano solo quando s’innalza la temperatura morale di una parte della società. Senza abbandonare le abituali regole di condotta – cioè senza rotture della trama capitalistica delle nostre vite – non si possano scatenare quei «baccanali della verità in cui nessuno rimane sobrio». I sostenitori della critica sociale rivendicavano la negazione della politica, volevano che si prendessero come punto di partenza quei germi di rivoluzione che erano le lotte operaie, ma dimenticavano che i veri germi di rivoluzione non si erano mai sviluppati nell’epoca recente (in Francia nel 1968 come in Polonia nel 1980-1981) se non con la creazione di una prima forma di comunicazione liberata in cui tutti i problemi della vita reale tendevano a trovare la loro espressione immediata, e in cui gli individui cominciavano, compiendo gli atti richiesti loro dalle necessità della loro emancipazione, a costituire quell’ambito pubblico dove la libertà può dispiegare le proprie seduzioni e divenire una realtà tangibile. In poche parole: non si può sopprimere la politica senza realizzarla. Il concetto di «politica» è quanto meno ambivalente, indicando tanto la cura comune della polis quanto l’arte di governare, cioè la creazione di una sfera di gestione separata e specializzata: in breve, l’usurpazione del «potere di agire di concerto» da parte dello Stato. Forse il punto non è – o non è più, dopo gli esperimenti totalitari del Novecento – contrapporre alla «politica» una supposta spontaneità sociale da liberare. Il grande antropologo libertario Pierre Clastres ha illustrato in modo meticoloso che le società senza e contro lo Stato non nascono libere perché «selvagge», bensì si autoistituiscono politicamente come tali, cioè introducono consapevolmente dei contrappesi simbolici e materiali affinché il potere rimanga circolatorio e non diventi coercitivo (affinché il «potere di agire di concerto» non si trasformi nel dominio di una minoranza). Se questo è vero, il comunismo anarchico non è l’insorgenza di un sociale represso, bensì la sua «invenzione» insurrezionale, cioè la consapevole riattivazione di «materiali antichi» levigati da nuovi modi d’uso. Forza e limiti delle sollevazioni in corso sono legati proprio al fatto che «i nuovi punti di applicazione della rivolta» sono «ambiti pubblici» reiventati (che tengono nella misura in cui si intrecciano con i luoghi e i tempi delle esigenze quotidiane). Se questo permette la loro generalizzazione – anche in termini di pezzi di società che vi si uniscono – più di quanto non facciano le lotte sui luoghi di lavoro, la «comunicazione liberata» che ne discende non ha sottomano un aggancio concreto per le prime, necessarie misure rivoluzionarie: gli espropri per la Comune. Non solo espropri di merci dai supermercati (con cui non si campa a lungo), bensì dei mezzi con cui farne a meno. «Grande è la ricchezza di un mondo in agonia», scriveva Ernst Bloch. Per il momento, con l’iniziativa che è ancora nelle mani di Stati e tecnocrati, questa «agonia» è ricca soprattutto di disastri, di coercizioni e di guerre, il cui tessuto di silicio copre letteralmente la vista. Se quella di uscire progressivamente da questa «infermità sovra-equipaggiata», con l’accumulazione quantitativa delle lotte e delle forze, è un’illusione fuori tempo massimo, anche l’idea che gli scossoni delle rivolte riannodino improvvisamente i fili dell’esperienza umana e del giudizio critico risulta a suo modo consolatoria. Serve più che mai la lucidità di far proprie delle verità scomode. Ad esempio, che non c’è alcun progetto rivoluzionario bell’e pronto da ereditare dal passato; e che non esistono delle capacità umane meta-storiche su cui fare affidamento. Il dominio ha scavato a fondo. Non solo per estorcere sotto tortura i segreti della vita biologica, sfruttata fin nelle sue particelle sub-atomiche; ma anche per condizionare fin nell’intimo degli individui il senso della libertà. Nondimeno, le forme autoritarie di organizzazione fanno sempre più fatica a imporsi nei movimenti, e lo spazio-tempo dentro il quale questi si sviluppano tende ad assomigliarsi sul piano internazionale. Resta probabilmente vero quello che diceva Gustav Landauer, e cioè che nelle epoche di rottura i rivoluzionari nascono per germinazione spontanea. Ma questo non è necessariamente vero per le rivoluzioni. Saranno le idee, le azioni e le prime misure rivoluzionarie a definire, in un dialogo a distanza, quei progetti che abbiano la ricchezza delle specificità locali e l’intensità universale di una chiamata alle armi. Non è di per sé l’estensione di un moto di protesta a renderlo contagioso, ma la sua profondità, il suo farsi esempio vivente e quindi iperbole esatta, per quanto limitata sia la sua dimensione geografica. Forse ciò di cui c’è bisogno è proprio questo federalismo degli esempi rivoluzionari, in grado di risuonare e creare così le condizioni del proprio allargamento. Sarà la germinazione degli esempi a scongelare la storia di cui ogni slancio di libertà ha bisogno.
Approfondimenti
Passeggiata di Natale
Faccio la mia passeggiata, essa mi porta un poco lontano e a casa; poi, in silenzio e senza parole, mi ritrovo in disparte. Epigrafe sulla tomba di Robert Walser, nel cimitero di Herisau La morte di Robert Walser sembra in tutto e per tutto un racconto walseriano. Il pomeriggio di Natale del 1956 il corpo dello scrittore viene trovato disteso nella neve un po’ fuori della cittadina di Herisau, nella Svizzera orientale. Walser era intento in una delle sue celebri passeggiate, a cui si era dedicato sempre, nei giorni festivi, anche nel corso degli ultimi ventitré anni trascorsi nella clinica psichiatrica di Herisau (Haus 1, «padiglione degli uomini tranquilli»). Neve e passeggiate sono due protagonisti dei suoi racconti e delle sue poesie. Ma non è tanto, o soltanto, questo a rendere così walseriana la sua morte. Secondo W. G. Sebald – che allo scrittore svizzero ha dedicato pagine insieme profonde e di rara delicatezza – l’ideale di Walser era «sfidare la gravitazione». Come è stato notato, l’unica foto rimasta del corpo di Walser adagiato sulla neve (con il cappello leggermente in disparte) ha davvero un che di magico. Tra le ultime quattordici impronte dei suoi ultimi sette passi e il cadavere c’è un inspiegabile spazio di neve intonsa, come se per qualche attimo Walser avesse volato; come se la gravitazione infine fosse stata vinta dalla leggerezza. Un balzo quasi impercettibile, un «preferirei di no» rivolto alla clinica psichiatrica. Cioè al mondo. Simone Weil ha ipotizzato l’esistenza di una corrispondenza precisa tra i «miracoli» e un’esatta disposizione dell’animo. Se così fosse, per sfidare la forza di gravità ci vuole una ben specifica virtù. Forse quella di cui parla uno dei Microgrammi walseriani: «Questo paesaggio innevato lo vorrei grazioso. E spero che andrà così. Aveva appena fioccato, e la neve, nonostante una certa morbidezza, era ancora piuttosto compatta. C’era aria di virtù in me, adesso. Voglio essere gentile con le persone, ma a patto di poter magnificamente rinunciare a tutti quanti». L’estrema mossa di Walser assomiglia allora a un passo d’addio (titolo di una raccolta di poesie di Cristina Campo, nonché riferimento all’ultimo saggio di danza con cui le ballerine si congedano dalla scuola e dalle proprie compagne). Un passo che indica anche una dimensione dello spirito: «Era solito, allora, sognare senza parole né pensieri, non farsi più alcun rimprovero e abbandonarsi alla deliziosa stanchezza» (I fratelli Tanner). Walser ha trasformato se stesso in una delle sue umbratili figure: «Ma ho ancora una cosa nelle mente: sarebbe bello fare il saltimbanco. Un famoso funambolo, con i fuochi d’artificio sul dorso, le stelle sopra di me, un abisso accanto, e davanti una via così piccola, così sottile, su cui avanzare». Forse è proprio così che Walser ha salutato il principio d’individuazione (con le sue impronte) per ricongiungersi con l’ápeiron (l’indeterminato bianco). Si legge in un’annotazione del direttore dell’Istituto Waldau, in cui Walser era stato internato prima della clinica di Herisau: «Uno schizofrenico molto calmo, socievole, che vive per metà della giornata nei suoi sogni di poeta scrivendo un po’, e i lavori di giardinaggio nell’altra metà». Walter Benjamin ha scritto che i racconti di Walser cominciano là dove finiscono le fiabe. Con le quali hanno in comune soprattutto l’idea che la felicità non può darsi come compito, ma giunge unicamente per soprammercato. La morale walseriana è proprio lì, «nel punto che ancora prima ci pareva fondamentale [e dove] d’un tratto non si trova nulla» (Sebald). L’ideale walseriano, non a caso, era diventare «uno zero». Per accompagnarci nel territorio della fiaba, disponiamo di una maestra assoluta: Cristina Campo. La quale ha descritto «con lievi mani» le virtù da cui dev’essere toccato l’eroe di fiaba per scoprire il passaggio segreto nel bosco, quel luogo raggiunto dopo mille peregrinazioni, pur essendo proprio a due passi dall’inizio del cammino. «Come scegliere di volta in volta fra abbandono ed astuzia, ingenuità e sapienza, memoria e oblio salutare? Uno vince perché in un paese di creduloni e integranti fu diffidente e segreto, l’altro perché si affidò infantilmente al primo venuto, o addirittura a un cerchio di malfattori. Enigma ogni giorno nuovo, proposto e mai risolto, se non nell’ora decisiva, nel gesto puro – non dettato da nulla ma alimentato, giorno per giorno, di pazienza e silenzio». Quella di affidarsi infantilmente al primo venuto, o a un cerchio di briganti incontrati nelle passeggiate apparentemente più ordinarie, è una virtù che Walser ha sperimentato in sommo grado. Quanto alla pazienza e al silenzio, nelle camerate e nel giardino della clinica li ha soppesati grammo per grammo. Portandoli con sé anche nel «territorio della matita», cioè nei momenti in cui scriveva con un lapis, su fogli volanti, bigliettini e ricevute, i suoi testi minuscoli e apparentemente indecifrabili, rimasti per anni in una vecchia scatola da scarpe. Walser è stato davvero un eroe di fiaba. Se n’è andato «in disparte» senza aver mai ceduto alla logica della potenza, preferendole sempre «la mancanza di scopi, il buon umore senza ragione, la gioia immotivata». Come i suoi eroi di fiaba – dissimulati nei racconti, nelle poesie, nelle micrografie: un chiodo, una stufa, un fiocco di neve. «C’erano una volta dei fiocchi di neve che, non avendo niente di meglio da fare, volarono giù sulla terra. Molti volarono sui campi, e là rimasero, altri caddero sui tetti e là rimasero, diversi altri caddero sui cappelli e cappucci di persone che camminavano in fretta e là rimasero finché non vennero scossi via, alcuni pochi volarono sulla faccia fida e cara di un cavallo, e rimasero sulle ciglia lunghe degli occhi equini, un fiocco di neve volò dentro una finestra, ma quello che vi fece non è mai stato raccontato, comunque rimase là». Leggere Walser mi infonde allo stesso tempo commozione, buon umore e un’immotivata gratitudine per gli esseri e le cose. Forse anche la rivoluzione è preceduta da impronte ben visibili e poi, improvvisamente, da uno spazio intonso che nessuno sa come sia stato saltato. Un pensierino per l’anno nuovo: come tenere insieme la necessaria rivolta contro un mondo ignobile e il senso di grata pienezza di fronte ai fiocchi di neve o alla faccia «fida e cara di un cavallo»?
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[2025-12-26] 🎄 VENERDÌ 26 DICEMBRE ORE 20 CENONE DEGLI AVANZI + TOMBOLA e GIOCHI🎄 @ Nuovo presidio San Giuliano
🎄 VENERDÌ 26 DICEMBRE ORE 20 CENONE DEGLI AVANZI + TOMBOLA E GIOCHI🎄 Nuovo presidio San Giuliano - San Giuliano di Susa (venerdì, 26 dicembre 19:30) Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi e Santo Stefano con il movimento No Tav 💕. Continuiamo a scaldare il cuore del presidio, festeggiamo il Natale e diamo il colpo finale alla nostra linea inviadiabile. Porta avanzi, liquidi e qualcosina di brutto da mettere in palio per la Tombola…
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Fronte repressivo occidentale: da Palestine Action all’imam Shahin – AI e telefonate dal carcere – Neutralizzazione amministrativa@0
Estratti dalla puntata del 22 dicembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia SGOMBERO ASKATASUNA E ECONOMIA DELLA REPRESSIONE Partiamo con un articolo (suggerito da una persona all’ascolto) che ci consente di riflettere sul profilo di economia della repressione sovrapposto allo sgombero di Askatasuna: PRISONERS FOR PALESTINE Mentre va in onda la puntata, sei Prisoners for Palestine (Qesser Zuhrah, Amu Gib, Heba Muraisi, T Hoxha, Kamran Ahmed e Lewie Chiaramello) stanno proseguendo lo sciopero della fame in condizioni critiche: nell’ultima settimana, oltre 800 sanitari hanno segnalato il “concreto rischio di morte per questi giovani cittadini britannici in carcere senza una condanna”. Cinque di loro hanno dovuto ricorrere a ricoveri ospedalieri, come nel caso di Qesser, per la quale sono state indispensabili mobilitazioni davanti al carcere affinché le fosse consentito il trasferimento in ambulanza. / / / AGGIORNAMENTO: Nella serata del 23 dicembre 2025 apprendiamo che Amu e Qesser hanno interrotto lo sciopero della fame. Nel frattempo a Londra al termine di un’azione contro la compagnia assicurativa Aspen in solidarietà con prigionierx di Palestine Action, l’attivista Greta Thunberg veniva fermata e incriminata per “supporto a un gruppo proscritto sotto la legge anti-terrorismo”. / / / Parallelamente proseguono arresti e intimidazioni verso chi si esprime a favore di Palestine Action o semplicemente contro le politiche di oppressione e sterminio portate avanti da Israele e dal suo esercito terrorista. Sul fronte repressivo occidentale, osserviamo come sia all’opera una compressione della libertà di contestazione delle politiche sioniste molto più intensa rispetto al contrasto delle cosiddette posizioni “russofile”: nonostante ci ricordino a reti unificate come l’Europa sia sotto attacco, nonostante si prosegua in un arruolamento di massa della società e si stiano strutturando agenzie per il controllo militare dell’infosfera e del consenso (leggesi “contrasto alla guerra ibrida”), da Londra a Berlino, da L’Aquila a Torino, vediamo come la repressione operi sopratutto per tutelare gli interessi di una potenza straniera come Israele. AI E CONVERSAZIONI DETENUTI L’azienda statunitense Securus Technologies ha sviluppato un sistema per il monitoraggio delle comunicazioni delle persone detenute verso l’esterno: un prodotto addestrato con le loro conversazioni telefoniche (senza consenso) e pronto a essere venduto a diversi dipartimenti carcerari con lo scopo di prevenire la pianificazione di attività criminali. Cerchiamo di osservare come la crescita del fenomeno della detenzione di massa produca imprescindibilmente un bacino di mercato per prodotti dedicati al settore, ma al contempo come l’analisi automatizzata delle conversazioni delle persone detenute sia stata inaugurata durante la pandemia di Covid-19: ICE E FBI: NOTE DI COSTUME Piccola parentesi sulle politiche di reclutamento per la costituzione delle milizie fidelizzate dell’ICE e su Kash Patel, freneticamente impegnato a trovare una giacca adatta dopo l’omicidio di Charles Kirk: IL CASO SHAHIN E LE DEPORTAZIONI COME “IGIENE SOCIALE” In Italia non abbiamo l’ICE, ma la nostra giustizia amministrativa rimuove individui dal tessuto sociale, anche per questioni politiche: il caso dell’imam Mohamed Shahin rientra in quel 10% di provvedimenti di espulsione per “motivi di sicurezza”. Ne parliamo con Erasmo Sossich, autore di un importante articolo pubblicato su Monitor, all’interno di quel si analizza il ricorso a questa forma specifica di repressione in Italia e non solo: LINK all’articolo su Monitor
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L’AI e il consumo di suolo, acqua, energia. E se la bolla scoppia?@1
L’AI non è sostenibile da un punto di vista energetico, e quindi neanche da un punto di vista economico. Perché l’energia costa e se si deve comprare l’enorme quantità di energia che serve a tenere in funzione un data center, i ricavi delle vendite di prodotti AI non ripagano l’enorme cifra di investimento che negli ultimi anni ha gonfiato la bolla dell’AI. Questo uno dei problemi (o dei rischi, come amano definirli loro) che si trovano a fronteggiare le Magnificent 7, ovvero i sette colossi tecnologici statunitensi – Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet (Google), Meta (Facebook), Nvidia e Tesla. Nella prima parte della puntata, insieme a Ginox, andiamo a leggere i dati che emergono da una serie di studi e testimonianze sul consumo di suolo, acqua e energia dei data centers e sui rischi alla salute delle persone che vivono nei territori in cui queste strutture sorgono. Nella seconda parte della puntata, andiamo a commentare le dichiarazioni del CEO di IBM, Arvind Krishna, che ha affermato che “non c’è modo” che gli ingenti investimenti delle aziende tecnologiche nei data center possano venire ripagati, visto che i data center richiedono enormi quantità di energia e investimenti. Con la crescita della domanda di intelligenza artificiale, secondo Goldman Sachs, il fabbisogno energetico del mercato dei data center potrebbe raggiungere gli 84 gigawatt entro il 2027. Eppure, costruire un data center che utilizzi solo un gigawatt costa una fortuna: circa 80 miliardi di dollari attuali, secondo Krishna. Se una singola azienda si impegnasse a costruire dai 20 ai 30 gigawatt, ciò ammonterebbe a 1,5 trilioni di dollari di spese in conto capitale, ha affermato Krishna. Si tratta di un investimento pressoché equivalente all’attuale capitalizzazione di mercato di Tesla. Secondo le sue stime, tutti gli hyperscaler messi insieme potrebbero potenzialmente aggiungere circa 100 gigawatt, ma ciò richiederebbe comunque 8 trilioni di dollari di investimenti e il profitto necessario per bilanciare tale investimento sarebbe immenso. “A mio avviso non c’è modo di ottenere un ritorno, perché 8 trilioni di dollari di spese in conto capitale significano che servono circa 800 miliardi di dollari di profitto solo per pagare gli interessi”, ha affermato. Inoltre, grazie al rapido progresso della tecnologia, i chip che alimentano il tuo data center potrebbero diventare rapidamente obsoleti. “Bisogna utilizzarlo tutto entro cinque anni, perché a quel punto bisogna buttarlo via e riempirlo di nuovo”, ha affermato. Krishna ha aggiunto che parte della motivazione dietro questa ondata di investimenti è la corsa delle grandi aziende tecnologiche per essere le prime a decifrare l’AGI, ovvero un’intelligenza artificiale in grado di eguagliare o superare l’intelligenza umana. Ma la sua conquista sembra, secondo Krishna, ancora lontana. Di fronte all’insostenibilità finanziaria, ambientale e di sfruttamento lavorativo dell’AI, il governo Trump sta cercando in tutti i modi di rendere l’AI strategica da un punto di vista militare, per renderla “too critical too fail”. Il Dipartimento dell’Energia ha dichiarato giovedì scorso di aver firmato accordi con 24 organizzazioni, tra cui giganti tecnologici per far avanzare la missione Genesis. La missione è un programma nazionale volto a utilizzare l’intelligenza artificiale per accelerare la ricerca scientifica e rafforzare le capacità energetiche e di sicurezza degli Stati Uniti. Il dipartimento ha detto che il programma è progettato per aumentare la produttività scientifica e ridurre la dipendenza dalla tecnologia straniera. I partecipanti includono i principali fornitori di cloud e chip come AWS, Oracle, Intel, AMD, insieme agli specialisti dell’IA OpenAI, Anthropic e xAI. Citati nella puntata: Studio sul consumo energetico dei data centers _ Yale Studio ul consumo di acqua e suolo legata al boom dell’AI _ Lincoln Institute Articolo sulla vita di fianco a un data center negli Stati Uniti _ BBC Puntata de Le dita nella presa “Non è siccità, è saccheggio!” _ Radio Onda Rossa Articolo sul processo di accaparramento delle risorse nelle Valli alpine _ Nunatak Libro Il rimosso della miniera. La nuova febbre dell’oro nell’Europa in guerra _ Collettivo Escombrera Diverse puntate di Happy Hour dedicate ai data centers (1, 2, 3) e con compagna del Collettivo Escombrera (4) _ Radio Blackout Genesis Mission – Dipartimento del Governo Stati Uniti
crisi climatica
estrattivismo
USA
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energia nucleare
Viva Askatasuna! Torino e la deindustrializzazione
Condividiamo di seguito l’interessante articolo di Sergio Fontegher Bologna sullo sgombero del centro sociale Askatasuna su Officina Primo Maggio ed una sua intervista a Radio Onda d’Urto in cui sviluppa gli spunti dell’articolo. -------------------------------------------------------------------------------- Una volta chiamavano Torino la città dell’automobile. Se la definizione era sbrigativa, è pur vero che il settore dell’automotive non solo ha rappresentato storicamente una componente importante dell’occupazione, ma è stato, come dire, un tratto del DNA della città quanto a Genova il know how marittimo-portuale. Dubito però che Genova, se le chiudessero il porto, se ne starebbe zitta e tranquilla. A Torino il buon Elkann e soci chiudono il settore automotive e Torino non brucia, anzi si barcamena, s’attacca alle smentite di Stellantis, sembra non avere il coraggio di accettare la realtà. Non contento, il buon Elkann vende il quotidiano “La Stampa”, giornalisti inclusi nel pacchetto, come fossero carne di porco o fazzoletti Tempo. Dimostrando quanta stima avesse il padrone per i suoi servi ubbidienti che poche settimane prima erano stati esaltati come custodi della libertà di stampa, colonne della democrazia, dopo che un gruppo di studenti un po’ vivaci aveva osato buttare all’aria un po’ di carte posate sulle loro scrivanie. Hanno buttato all’aria delle carte, non hanno dato fuoco al palazzo. A rivederla, questa sequenza, ha del grottesco. Elkann chiude il settore automotive. Non succede nulla. Ragazzi buttano all’aria delle carte nella redazione di un giornale. Apriti cielo! interviene anche Mattarella. Elkann pochi giorni dopo vende quel giornale, una testata che fa parte dell’identità di Torino. Non succede ancora nulla, sì i giornalisti fanno gli offesi (“Come, a noi colonne della democrazia, questa partaccia, sig. Elkann!”) in sostanza tutti zitti, perché è vero che si vende, ma a un amico della Meloni. Qualche giorno dopo dei ragazzi vengono trovati a dormire nel centro sociale Askatasuna. Dormivano, non stavano confezionando ordigni esplosivi. E succede il finimondo, il Ministro dell’Interno scatena le sue truppe, il sindaco con fare solenne indossa la fascia tricolore e dichiara che quei ragazzi non sono più cittadini rispettabili. E quando mai lo sono stati, quando mai lo hanno voluto essere! Un ricordo personale. Il tema è la Torino-Lione e il movimento di rivolta nella Val di Susa. Una tema che fa parte dell’identità di Askatasuna. Siamo al volgere del secolo, da più di un anno mi hanno inserito in un comitato di esperti che deve tracciare al Ministero le linee guida del nuovo Piano dei Trasporti e della Logistica. Tutto il trasporto merci è di mia competenza, autostrade del mare, trasporto intermodale su rotaia, come si fa a ridurre l’impatto del traffico di camion sulle strade ecc.. Per questo la Torino-Lione non serve, i colleghi che sono responsabili dei problemi infrastrutturali, ambientali, regolativi, sono d’accordo. Diremo diplomaticamente che “non è una priorità”. Il nostro documento va al CIPE, in Parlamento passa con voto bipartisan, ma poco dopo ci sono le elezioni, Berlusconi rivince e il nostro bel Piano finisce nel cestino. Passo dal Ministero alle FS, consulente dell’AD di Trenitalia, e lì ho informazioni di prima mano su come stanno le cose nel traffico merci su ferrovia. Tra tutti i diversi (sono cinque) valichi alpini su rotaia il Fréjus sembra il meno importante rispetto al Gottardo, al Brennero, a Tarvisio e financo Opicina. Prima di lavorare per Trenitalia però mi capita di andare a Torino, per un evento di associazioni d’imprenditori. Ricordo che avevo Pininfarina (buonanima) in prima fila seduto accanto a Virano (buonanima), che è stato per decenni il principale promotore della Torino-Lione. Io faccio il mio ragionamento, la Torino-Lione non serve. E spiego perché. In economia dei trasporti – che io non ho mai studiato ma che mi è stata insegnata dai lavoratori – le caratteristiche del traffico dipendono dalla composizione merceologica dell’interscambio tra due paesi. Tra Francia e Italia c’era molta merce di massa (cereali per esempio), soprattutto in import. Le merci di massa si trasportano su carri particolari ma fanno parte ancora di un’epoca fordista, il trasporto merci del futuro sarà sempre più intermodale (container, casse mobili, semirimorchi) per portare componenti, semilavorati, beni di consumo. Un traffico che ha spedizioni molto più frequenti, dunque il carico sulla linea aumenta. Sul Gottardo, sul Brennero, stava già diventando l’unico traffico, dunque era sotto gli occhi di tutti la tendenza del mercato. È vero che la linea ferroviaria del Fréjus era quasi satura, ma la sua crescita era gestibile, non era necessario fare una nuova linea, con lunghe gallerie e tempi lunghissimi di realizzazione. Se il governo italiano avesse dovuto scegliere quali investimenti erano più urgenti, avrebbe dovuto investire sul Gottardo, sul Brennero, tanto più che Svizzera ed Austria, ben consapevoli dell’evoluzione del mercato, ci sollecitavano a farlo. Mentre ai francesi non importava gran che e nemmeno adesso, dopo vent’anni, hanno fretta di fare la Torno-Lione. Ero andato anche a Parigi, accompagnato da un alto funzionario del CNEL, per capire come la pensavano. Ci ricevettero al Senato nel Jardin du Luxembourg e li trovammo piuttosto freddi. Dissi queste cose e vidi gli sguardi allibiti di Pininfarina e di Virano, ma ero pur sempre un consulente del Ministero, inghiottirono in silenzio, anzi, Pininfarina mi ringraziò per averli informati su come la pensavano a Roma (magari subito dopo avranno telefonato al Ministro, era Bersani se non sbaglio, “ma che razza di consulente si è preso”?). Passai poco dopo alle FS e lì mi convinsi ancor più di avere ragione. Divenni amico addirittura della funzionaria che aveva la responsabilità della circolazione sulla linea del Fréjus, coi suoi dati di prima mano sbaragliavo qualunque avversario. Come vicepresidente dell’Associazione Italiana di Logistica (per pochi mesi) avevo fatto amicizia coi colleghi tedeschi, erano allora i leader mondiali, mi nominarono socio onorario della loro Associazione. Potevo parlare con il direttore del traffico merci della Deutsche Bahn, coi manager dei più potenti spedizionieri europei, Schenker, Kühne&Nagel, DSV. A quei livelli si decide il mercato, chi li frequenta non ha bisogno di grandi studi. La forza del consulente vero – poi ci sono i faccendieri, ma è un altro discorso – sono le informazioni riservate. Così mi convinsi che la battaglia degli abitanti della Val di Susa era una battaglia sacrosanta, per impedire un’opera inutile o, nel migliore dei casi, non prioritaria. Invece le lobby del cemento, gli sventra-montagne, hanno vinto una volta ancora e il potenziamento del Gottardo e del Brennero lo hanno dovuto fare gli svizzeri e gli austriaci, con gli italiani assenti o a rimorchio. In Val di Susa questo nostro paese ha rischiato la guerra civile per imporre un’opera inutile e oggi minaccia d’infliggere anni e anni di carcere a chi ha combattuto una battaglia giusta. Per questo gridiamo “Viva Askatasuna”! Ci sono andato una volta sola a parlare di lotte nella logistica e mi dispiace. Era il tempo del Covid e ci passò davanti un corteo di No Vax, uscimmo per vederli passare, ci fischiarono, un esaltato mi venne quasi addosso, “traditori!”. Tanto per non farmi mancare nulla. Quando penso alla storia della Torino-Lione mi coglie una tristezza infinita. Gli avversari di allora avevano un’altra statura rispetto alle mezze calzette di oggi. Penso alle merducole di Stellantis, che mettono sul lastrico migliaia di famiglie e si beccano i bonus. Al loro confronto Pininfarina sembra un gigante. -------------------------------------------------------------------------------- “Bisogna portare la discussione su un piano più avanzato di quello che l’avversario ti propone, questo è l’unico modo dove delle lotte possono avere un risultato: quando loro ti dicono parliamo dello sgombero, tu dici no, parliamo di Stellantis e della deindustrializzazione; quando loro ti dicono perchè continuate a fare opposizione alla linea Tav, parliamo in generale di una politica dei trasporti, scelte strategiche per un paese”. Così Sergio Fontegher Bologna, studioso del movimento operaio, ex docente universitario, esperto di trasporti, attualmente redattore di Officina 1 maggio, ai microfoni di Radio Onda d’Urto. Sergio Bologna in un articolo Viva Askasatuna pubblicato su Officina 1 maggio propone degli elementi di riflessione partendo da questa considerazione: “A Torino il buon Elkann e soci chiudono il settore automotive e Torino non brucia, anzi si barcamena, s’attacca alle smentite di Stellantis. Non succede nulla. Ragazzi buttano all’aria delle carte nella redazione di un giornale. Apriti cielo!” Nell’articolo si analizza poi uno dei temi e dei terreni di lotta che fanno parte dell’identità di Askasatuna, l’opposizione alla linea Tav Torino-Lione. “In Val di Susa questo nostro paese ha rischiato la guerra civile per imporre un’opera inutile e oggi minaccia d’infliggere anni e anni di carcere a chi ha combattuto una battaglia giusta. Per questo gridiamo “Viva Askatasuna”, conclude l’articolo. “Il mio tentativo era di porre degli elementi per portare il movimento a spostare la discussione sempre su un piano più avanzato sul quale è evidente che abbiamo ragione. Come per i centri sociali che possono aver fatto anche grandi errori hanno rappresentato in certi momenti vitali della storia italiana un elemento anche di difesa, quanta gente è stata protetta dalla droga pesante proprio perchè stava nei centri sociali; i centri sociali sono stati posti dove l’arte, la musica hanno percorso strade innovative”. L’intervista di Radio Onda d’Urto a Sergio Bologna. Ascolta o scarica.