Riprendiamo l’intervista di Radio onda d’urto a Vincenzo, uno dei compagni
processati:
Crollata la montatura giudiziaria-poliziesca che ha cercato di criminalizzare le
lotte sociali e l’opposizione alla grande opera inutile e dannosa del TAV con
l’accusa di associazione a delinquere, l’associazione a resistere in un
comunicato ribadisce che “Non si può fermare, perché associazione a resistere é
chi mette a rischio se stesso per difendere un pezzo di territorio, é chi
partecipa a un picchetto, chi a uno sciopero, l’associazione a resistere é chi
occupa una scuola, é chi vuole costruire per sé e per tutti un futuro migliore,
associazione a resistere é chi blocca una nave piena di armi, é chi si organizza
per non lasciare nessuna da sola. Non si può circoscrivere, perché ogni giorno
c’è chi resiste al ricatto del lavoro, alla perdita della propria terra, allo
sfruttamento delle menti.”
Con l’udienza del 31 Marzo cade ufficilmente l’accusa di associazione a
Delinquere. In questa data si è tenuto il primo grado del Processo Sovrano ai
danni di 28 militati dello Spazio Popolare Neruda, Centro Sociale Askatasuna e
Movimento No Tav, nel quale i pm Pedrotta e Gatti, coadiuvati dal capo della
DIGOS Ambra, avevano redatto […]
APERICENA CONDIVISO
Presidio NO TAV San Didero - Piazzale SS25
(martedì, 1 aprile 19:30)
Tornano gli appuntamenti del Martedì a San Didero.
il ritrovo è martedì alle 19,30 al presidio di San Didero liberato la sera del
31/10 dove cominceremo con un apericena condiviso quindi: portate qualcosa da
mangiare e bere insieme.
IMPORTANTE: portate soprattutto i vostri piatti, posate e bicchieri in modo da
non fare troppi rifiuti
Dopo la cena passeremo del tempo insieme alla moda nostra
(11) APERICENA CONDIVISO a San Didero e socialità NO TAV | Facebook
> StakkaStakka 5 marzo 2025 – tracciamento tramite pubblicità
Un anno fa, l’UE e l’Egitto hanno annunciato il lancio di un “partenariato
strategico e globale”. Ciò comporta un pacchetto di aiuti e investimenti da 7,4
miliardi di euro dall’UE all’Egitto. Questo articolo analizza questo sviluppo
nel contesto dei cambiamenti regionali, l’inefficacia delle “soluzioni esterne”
alla migrazione e l’impatto della cooperazione UE-egiziana sui diritti umani in
Egitto. Sostiene che il sostegno europeo all’Egitto è alla base delle violazioni
dei diritti umani. Questi abusi vengono poi ignorati in modo che l’UE possa
affermare che l’Egitto è un “partner” sicuro e affidabile per la gestione della
migrazione.
di Statewatch
Riepilogo
* Nel marzo 2024, l’UE e l’Egitto hanno concordato un pacchetto di aiuti di 7,4
miliardi di euro, che include 200 milioni di euro specificamente per la
migrazione.
* Questo finanziamento si avvia su altri progetti del valore di decine di
milioni di euro per sostenere la polizia egiziana, le agenzie di frontiera e
di sicurezza.
* L’UE ha inoltre sostenuto l’elaborazione della legislazione dell’UE in
materia di asilo che è stata criticata per non aver rispettato le norme
fondamentali in materia di diritti umani.
* Le pratiche del governo egiziano violano chiaramente anche i diritti umani:
le persone sfollate con la forza affrontano respingimenti, profittegatori e
difficoltà di accesso ai servizi
* L’UE è complice di queste violazioni dei diritti umani, ma c’è poco segno che
cambierà rotta – una riunione ad alto livello ha recentemente convenuto che
il primo vertice tra i presidenti dell’Egitto, la Commissione europea e il
Consiglio europeo dovrebbe aver luogo quest’anno.
Introduzione
Il 17 marzo 2024, l’UE e l’Egitto hanno concordato un pacchetto di aiuti di 7,4
miliardi di euro. La maggior parte di questi soldi sarà fornita come un prestito
ed è progettata per aumentare il commercio e gli investimenti in Egitto, che ha
messo a punto la legittimità della dittatura. Include anche 200 milioni di euro
dedicati specificamente all’applicazione delle frontiere e dell’immigrazione
egiziane.
Questo articolo esamina il crescente sostegno dell’UE alle autorità e alle
politiche egiziane in materia di migrazione, asilo e frontiere. Quindi, analizza
la pertinente legislazione egiziana, una delle quali è stata redatta con il
sostegno dell’UE. La terza sezione esamina come la posizione dell’Egitto come
paese di origine e di transito, e come paese ospitante, lo rende strategicamente
importante per l’UE.
Una sezione successiva esamina i modi in cui le autorità egiziane e le società
private hanno cercato di generare entrate da persone e migranti sfollati con la
forza. Ciò è seguito da una valutazione del crescente ruolo dell’Egitto nella
politica migratoria, non solo ai suoi confini terrestri, ma nel Mar
Mediterraneo.
Il sostegno dell’UE al governo egiziano, e in particolare alle sue agenzie di
sicurezza e di polizia, ignora le violazioni dei diritti umani da loro commesse.
L’UE è quindi complice di tali violazioni. C’è poco segno che l’UE cambierà
rotta. Questo articolo sostiene che l’UE userà invece una falsa rappresentazione
della situazione in Egitto per aumentare il suo sostegno al regime.
Cresce il sostegno dell’UE agli abusi del governo egiziano
Dalla fine del 2023 al 2024, la Commissione europea ha concluso in fretta una
serie di accordi di partenariato esterno nella regione mediterranea. Il più
grande di questi è stato l’accordo del marzo 2024 firmato con l’Egitto.
È arrivato sulla scia di una serie di altri accordi e accordi di finanziamento
con il governo del Cairo. Nel 2024, l’UE ha fornito all’Egitto 9 milioni di euro
di aiuti umanitari per rifugiati e richiedenti asilo. Altri 20 milioni di euro
sono stati stanziati dall’UE per l’accoglienza delle persone sfollate dalla
guerra per procura in Sudan – una risposta modellata dall’impatto della guerra
sulla migrazione irregolare nella regione e nell’area mediterranea.
Altri progetti hanno cercato di rafforzare le capacità della guardia di
frontiera egiziana, che è accusata di crimini tra cui sparizioni forzate,
torture, detenzioni arbitrarie e deportazione forzata dei rifugiati.
Nel novembre 2024, 20 milioni di euro del cosiddetto Fondo europeo per la pace
sono stati assegnati alle forze armate egiziane. L’obiettivo è quello di
aumentare la capacità dei militari “di migliorare la sicurezza nazionale e la
stabilità della Repubblica araba d’Egitto, nonché di migliorare la protezione
dei civili”.
L’UE fornisce inoltre finanziamenti per progetti di cooperazione in materia di
sicurezza per i paesi dell’Africa settentrionale. Un progetto separato mira a
migliorare “la capacità delle forze dell’ordine in tutto il Nord Africa di
indagare e perseguire efficacemente i gruppi di criminalità organizzata
coinvolti nel traffico di migranti e, se del caso, nella tratta di esseri
umani”.
I documenti dell’UE descrivono in che l’obiettivo generale e l’impatto del
sostegno all’Egitto e ad altri Stati del Nord Africa sono quelli di “contribuire
al miglioramento della sicurezza e dell’integrità delle frontiere attraverso una
cooperazione transfrontaliera reciprocamente vantaggiosa”. La cooperazione
prevista dovrebbe essere “soprattutto contro i gruppi della criminalità
organizzata, compresi quelli coinvolti nel traffico di migranti e nella tratta
di esseri umani”. L’obiettivo principale specifico è quello “stabilire o
rafforzare la cooperazione operativa transfrontaliera tra le autorità di
gestione delle frontiere”.
L’UE intende firmare accordi di “anti-sbù” per i paesi di origine e di transito,
tra cui l’Egitto e la Libia. La Tunisia è già a bordo. Questi accordi hanno lo
scopo di rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza nella regione
attraverso la cooperazione con attori come Frontex ed Europol. L’UE vorrebbe che
ciò includesse la condivisione di dati personali sensibili, sebbene i documenti
indichino che le autorità egiziane non sono state finora disposte a concordare
tale livello di cooperazione.
Sono stati dati fondi europei all’Egitto per ospitare i feriti e i feriti della
Palestina. L’UE ha fornito quasi 5,5 milioni di euro per le cure mediche. Allo
stesso tempo, le autorità egiziane hanno tratto profitto dal passaggio dei
palestinesi in Egitto e negato loro i permessi di soggiorno e l’accesso ai
servizi.
Non è tutto: le autorità egiziane hanno abusato di migliaia di richiedenti asilo
sudanesi, trattenendoli in strutture di detenzione segrete, negando loro il
diritto di chiedere asilo e, infine, espellendoli illegalmente in Sudan. Ciò non
ha influito sul sostegno europeo alle autorità. Né le sistematiche campagne di
incitamento all’odio trasmesse sui social media contro rifugiati, richiedenti
asilo, migranti e persone che li difendono.
La cooperazione bilaterale è in corso anche tra l’Egitto e gli Stati europei. Il
29 aprile 2024, il ministero dell’Interno egiziano ha annunciato l’avvio di
workshop e sessioni di formazione per la seconda fase di un progetto di
cooperazione alla sicurezza italo-egiziana per rafforzare l’azione di polizia
contro il traffico di migranti. A seguito di ciò, le agenzie di sicurezza in
Egitto hanno intensificato il targeting di rifugiati, migranti e richiedenti
asilo.
I precedenti accordi per il “contrabbandovi” o la “governo migratoria e il
controllo delle frontiere” non sono riusciti a frenare la migrazione irregolare.
In effetti, questi accordi perpetuano le cause della migrazione irregolare,
aumentano i rischi e sostengono i regimi autoritari nella regione.
Le violazioni commesse dall’Egitto attraverso il suo apparato militare e di
sicurezza contro i cittadini e gli sfollati forzati non possono essere separate
dal sostegno, dalla formazione, dalla costruzione di capacità, dalle
attrezzature e dall’intelligence fornite dall’UE o dai suoi Stati membri.
Un decennio di leggi per violare i diritti degli sfollati forzati
La nuova legge sull’asilo
Il 7 giugno 2023, il Consiglio dei Ministri egiziano ha emesso il decreto
243/2023, una proposta di legge sull’asilo. È arrivato insieme a una decisione
[1] su ciò che le autorità egiziane hanno definito “legalizzare la presenza di
stranieri in Egitto”.
Attraverso la decisione di “legalizzazione”, le autorità hanno costretto le
persone senza permesso di soggiorno in Egitto a legalizzare il loro status per
un periodo specifico. Per fare ciò, hanno dovuto pagare 1.000 dollari alle
autorità di immigrazione affiliate al ministero degli Interni. I gruppi per i
diritti umani hanno bollato la misura illegale e non rispettando lo scopo
dichiarato del disegno di legge.
I dettagli del disegno di legge sull’asilo sono stati tenuti segreti. Le
richieste delle organizzazioni per i diritti umani di rivedere il disegno di
legge, partecipare al processo di redazione legislativa e presentare proposte
per il progetto di sono state ignorate.
Sembra che questa legge sia stata, almeno in parte, il risultato di una “tabella
di marcia” concordata tra l’Agenzia europea per l’asilo e le autorità egiziane.
La tabella di marcia includeva tra le altre cose “attività a sostegno
dell’elaborazione della legislazione nazionale in materia di asilo”. Wael
Badawi, un alto funzionario dell’immigrazione nel ministero degli Esteri
egiziano, ha detto in una conferenza a Vienna nell’ottobre 2024 che l’Agenzia
dell’Asilo dell’UE aveva sostenuto la stesura della legge.
Il 22 ottobre 2024, il Comitato per la difesa e la sicurezza nazionale del
parlamento egiziano ha rilasciato una dichiarazione di approvazione del disegno
di legge sull’asilo. Un membro del comitato ha detto alla stampa che avevano
approvato il disegno di legge il giorno in cui è arrivato. Ciò è avvenuto
nonostante le obiezioni basate sui diritti umani . È stato rapidamente passato
attraverso il parlamento ed è stato adottato senza un dibattito sostanziale,
nonostante gli avvertimenti di aver violato gli obblighi internazionali.
Le organizzazioni locali e internazionali hanno chiesto che la legge venga
rispedito in parlamento. Tuttavia, il presidente lo ha approvato il 17 dicembre
2024. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno avvertito di una serie di problemi:
criminalizzazione e privazione della libertà; violazione del principio di non
respingimento; protezione delle donne; e accesso alla giustizia, tra gli altri.
I media statali, nel frattempo, hanno accolto con favore la legge come prima
legge sull’asilo dell’Egitto. Tuttavia, c’era un meccanismo giuridico
preesistente basato su un memorandum d’intesa tra il governo egiziano e l’UNHCR.
Sebbene avesse molti difetti, il meccanismo condivideva la responsabilità per la
registrazione e il riconoscimento dello status di rifugiato tra l’UNHCR e
l’Egitto.
Le aree di confine come zone militari
Il sistema di asilo in Egitto non può essere ridotto alla nuova legge sull’asilo
o al vecchio sistema di asilo. Altre leggi sviluppate nell’ultimo decennio
riguardano gli sfollati forzati che risiedono e transitano attraverso l’Egitto.
Prima di tutto, nel 2014, il presidente ha emesso un decreto che designa le aree
di confine come zone militari. La presenza non autorizzata in queste zone è
stata resa reato.
I dati della guardia di frontiera egiziana mostrano che, tra il 2016 e il 2021,
questa decisione ha portato a fermare oltre 100.000 persone di diverse
nazionalità nelle aree di confine (le autorità militari hanno cessato di rendere
le informazioni disponibili dopo il 2021). Un documento dell’UE del 2022 indica
che le autorità egiziane hanno riferito di aver fermato oltre 27.000 migranti
che hanno cercato di uscire dall’Egitto al confine con la Libia nel 2021. Non ha
dichiarato quale valutazione del rischio è stata effettuata per quanto riguarda
le operazioni elencate.
Sebbene le autorità egiziane forniscano dettagli sulla cooperazione europea per
le guardie di frontiera e le guardie di frontiera egiziane, non riferiscono sui
procedimenti giudiziari dei detenuti. I rapporti delle organizzazioni per i
diritti umani mostrano che le persone sono state sottoposte a detenzione
illegale e processi militari. Molti sono stati deportati con la forza. L’UNHCR
ha riferito che le autorità egiziane non hanno concesso l’accesso alle strutture
di detenzione o consentono ai rifugiati di registrarsi presso di loro.
Legge sulla “migrazione illegale”
Una legge del 2016 per combattere la migrazione illegale [2] ha completamente
ignorato i diritti fondamentali e le garanzie per i migranti, i rifugiati e i
richiedenti asilo nei processi di migrazione e registrazione. Invece, la legge
ha affrontato la migrazione irregolare da un punto di vista della sicurezza,
introducendo sanzioni più severe.
La legge ha portato a migliaia di arresti in tutto il paese. Le persone sono
state arrestate con l’accusa di contrabbando, senza prove. Alcuni sono stati
rilasciati dai pubblici ministeri. Da gennaio 2019 a marzo 2023, le autorità di
sicurezza egiziane hanno arrestato 1.250 persone per contrastare l’immigrazione
“illegale”. Le spese sono state deposte in 1.030 casi. Queste cifre provengono
dal rapporto del governo .
Il ministero degli Interni usa anche le accuse passate per detenere le persone e
farle passare di nuovo attraverso il sistema giudiziario. Gli attivisti si
riferiscono a questo come “riciclaggio”. Ciò può essere fatto per gonfiare il
numero di azioni penali o per dimostrare prestazioni “buone” nella lotta alla
migrazione – nei confronti del pubblico, dell’UE o di altri “partner”.
L’Egitto come partner “strategico” per l’Europa
Nonostante questi abusi e violazioni, l’UE ritiene che l’Egitto abbia un ruolo
“strategico” per la “prosperità, sicurezza e stabilità della regione del
Mediterraneo centrale”. Ciò è in parte dovuto al suo ruolo in relazione al
movimento delle persone. L’Egitto è un paese di origine e di transito, così come
un paese che ospita un gran numero di migranti e rifugiati.
Le misure che si basano sulla militarizzazione e la criminalizzazione mentre i
due principali approcci alla gestione delle frontiere e della migrazione sono
stati costosi per i diritti degli egiziani e dei non egiziani. Ignorando le
cause profonde dell’immigrazione irregolare, l’approccio dell’UE basato su
“soluzioni esterne” è controproducente.
Un paese di origine
L’interesse dell’UE per l’Egitto come paese di origine è recentemente aumentato,
nonostante la mancanza di partenze dalle sue coste dal 2017. I documenti dell’UE
mostrano un aumento delle traversate nel Mediterraneo per il terzo anno
consecutivo: nel 2021, ci sono stati 77.724 arrivi registrati nel Mediterraneo,
105.561 nel 2022 e 158.020 nel 2023. In ciascuno di questi anni, gli egiziani
sono stati tra le prime tre nazionalità registrate per le traversate del
Mediterraneo dopo il Bangladesh, nonostante il numero di egiziani che hanno
fatto un viaggio in calo del 45,1% nel 2023.
Le analisi dell’UE ignorano le cause profonde del movimento dei cittadini e
degli espatriati. L’approccio preferito è il divieto alla fonte. Questo sostegno
consente di esercitare un maggiore controllo da un regime dittatoriale che
reprime sia gli egiziani che i non egiziani, attuando abusi e violazioni
diffuse, che a loro volta contribuiscono a persone che vogliono lasciare il
paese.
Allo stesso tempo, l’Egitto sta sopportando una crisi economica che costringe i
giovani a scegliere tra opzioni mortali: entrare in Libia per partire per
l’Europa via mare, o usando la rotta balcanica, piuttosto che rimanere in un
paese in cui un regime repressivo ha soffocato il progresso e le opportunità per
le nuove generazioni. Come Timoteo E. has put it“L’ultimo decennio di governo
repressivo, estrattivo e disorganizzato ha imposto un enorme pedaggio agli
egiziani, al loro stato e al loro paese”.
Un paese di transito
L’Egitto è diventato un importante paese di transito, poiché anche gli egiziani
che desiderano emigrare devono trasferirsi nei punti di partenza all’estero. Nel
frattempo, i rischi per gli sfollati forzati in Egitto, compresi rifugiati,
migranti e richiedenti asilo, sono aumentati a causa di procedimenti giudiziari,
deportazioni, questioni di registrazione e cambiamenti legali.
Un’escalation in vie di transito e di trasporto legali o semi-legali utilizzate
dai migranti per raggiungere l’Egitto è stata segnalata da Frontex. Si tratta in
particolare di cittadini del Bangladesh, siriani e pakistani e degli espatriati.
Dall’Egitto, queste persone si recano in Libia, e talvolta in Tunisia e Algeria,
per raggiungere i punti di partenza costieri e per dirigersi verso l’Europa.
Gli egiziani sono presumibilmente tra i principali cittadini extracomunitari
sospettati di traffico di esseri umani, secondo un documento dell’UE (PDF). I
gruppi per i diritti umani riferiscono che centinaia di egiziani sono stati
sottoposti a indagini, accuse e detenzioni (soprattutto in Italia e in Grecia),
ma i procedimenti giudiziari sono stati spesso dannosi o infondati. Nel caso
“Pylos 9”, nove egiziani sono stati incarcerati in Grecia nonostante le autorità
greche sapessero di essere innocenti.
Un paese ospitante
L’Egitto ospita oltre nove milioni di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. I
dati dell’OIM, basati sui dati forniti dalle autorità egiziane, mostrano che
queste comunità rappresentano quasi il 9% della popolazione egiziana.
All’interno di questo gruppo, l’80% sono sudanesi, siriani, yemeniti e libici.
1,4 milioni di persone sono attualmente registrate presso l’UNHCR e sopportano
circostanze difficili a causa di una serie di regolamenti governativi. Questi
rendono lo status giuridico delle persone ancora più insicura.
Detto questo, l’OIM ha riferito nel 2022 che “il 60% di quei migranti
internazionali che vivono in Egitto sono ben integrati da oltre 10 anni (5,5
milioni di persone), con il 6% integrato per 15 anni o più (seconde generazioni
incluse)”. Le autorità egiziane sono, tuttavia, desiderose di ritrarre l’Egitto
come oppresso dalla fornitura di servizi ai non cittadini – contrariamente alla
verità – per dimostrare che l’Egitto ha bisogno di ulteriore sostegno.
Rifugiati: costretti nel limbo legale e trasformati in bancomat
Per l’UE, quindi, l’Egitto ha un ruolo chiave nel contenere il movimento di
persone che potrebbero cercare di viaggiare in Europa. La mano negoziale del
paese è ulteriormente rafforzata dagli sviluppi in tutta la regione
afro-asiatica: una guerra per procura in Nord Sudan, la campagna di genocidio di
Israele contro i palestinesi a Gaza e oltre e la continua migrazione da parte
dei richiedenti asilo siriani provenienti da altri paesi africani. Le autorità
egiziane hanno usato questi sviluppi per ottenere più denaro dalle istituzioni
internazionali, dai “partner” del governo e dagli sfollati forzati.
Poco dopo l’inizio della guerra per procura in Sudan, le autorità egiziane hanno
cambiato le regole per le persone che viaggiano in Egitto. Il Quadro di Libera
Libertà tra Egitto e Sudan include la libertà di migrare. Tuttavia, le autorità
hanno gradualmente annullato il diritto dei cittadini sudanesi di trasferirsi in
Egitto a meno che non fosse richiesto un visto in anticipo.
Le aziende hanno offerto di completare queste nuove procedure di visto per
prezzi compresi tra 2.000 e 3.500 dollari a persona. Le autorità hanno quindi
annullato alcune delle regole che consentono ai cittadini siriani di entrare in
possesso del visto. Questo è stato fatto in modo che anche loro sarebbero stati
predati da società legate ai servizi di sicurezza egiziani che traggono profitto
da queste situazioni.
I rapporti mostrano anche che, negli ultimi due anni, i palestinesi sono stati
costretti a pagare ingenti somme di denaro a una società chiamata Hala Travel,
di proprietà di Ibrahim al-Argani. Il leader di una milizia armata nel Sinai del
Nord, il nome di Ibrahim al-Argani è recentemente diventato prominente a causa
della sua azienda che trae profitto dalla crisi umanitaria causata dalla
campagna militare genocida di Israele nella Striscia di Gaza. Gli adulti
palestinesi sono stati accusati tra 5.000 e 10.000 dollari per i viaggi in
Egitto. Al-Argani ha anche interessi commerciali nella ricostruzione della
Libia.
Un’altra forma di profitto può essere vista nelle procedure di permesso di
soggiorno. Le autorità egiziane danno date di appuntamento molto remote a
persone che cercano un permesso di soggiorno dal dipartimento per l’immigrazione
del ministero dell’Interno. I tempi di attesa possono superare i due anni:
alcuni rifugiati hanno date previste per il 2027. Le autorità quindi arrestano
le persone che non hanno i documenti giusti e li costringono a pagare $ 1.000 e
altre multe da rilasciare, per l’opportunità di ottenere un permesso di
soggiorno temporaneo e di essere protette dalla deportazione.[3]
Da respingimenti alle frontiere terrestri agli atti pericolosi nel Mediterraneo
I finanziamenti e i consigli dell’UE per la sicurezza egiziana, la polizia e le
autorità di frontiera sostengono più della politica di respingimenti verso il
Sudan o la Libia. È anche legato al ruolo dell’Egitto nella polizia delle
migrazioni attraverso il Mar Mediterraneo. Questo sostegno è in definitiva
destinato a dimostrare che l’Egitto è un “paese sicuro” per migranti e
rifugiati.
I documenti dell’UE mostrano che le partenze dalla costa egiziana sono cessate
nel 2017, con le rotte migratorie cross-mediterranee che si spostano verso la
Libia. Tuttavia, nel giugno 2022, l’UE ha stanziato 80 milioni di euro di
finanziamenti alla Guardia costiera egiziana per “rafforzamento della capacità”.
Ciò includeva l’acquisto di tre imbarcazioni di soccorso e l’implementazione di
addestramento attraverso CIVIPOL e IOM.
La scorsa estate, la Marina egiziana ha iniziato a mostrare le sue capacità nel
Mediterraneo per la prima volta in un decennio. Il 23 luglio 2024 alle 5:42 ora
del Cairo, le forze armate egiziane hanno rilasciato una dichiarazione: “Le
forze navali sono riuscite a salvare una barca per l’immigrazione clandestina
con (31) persone a bordo dopo aver subito un guasto tecnico”. Refugees Platform
in Egitto ha riferito che gli egiziani sopravvissuti sono stati accusati, ma le
autorità non hanno rivelato il risultato per i sopravvissuti non egiziani.
Ci sono stati incidenti simili nel corso dell’anno. Una dichiarazione di
dicembre ha detto che la marina “risucciò nel contrastare il tentativo di
immigrazione illegale” di una barca con 63 persone a bordo (60 egiziani e tre
cittadini sudanesi). Sono stati poi consegnati alle “autorità specializzate per
intraprendere azioni legali contro di loro”. All’inizio di questo mese, Alarm
Phone ha riferito che una nave mercantile ha sbarcato 42 persone salvate da una
nave in difficoltà a Port Said.
Frontex ha anche cercato di aumentare la sua cooperazione con l’Egitto. A
seguito di un incontro su “sicurezza e forze dell’ordine” al Cairo nel giugno
2023, i funzionari del ministero degli Interni egiziano hanno visitato la sede
di Frontex a Varsavia nel dicembre 2023.
“La visita intende familiarizzare i rappresentanti della Repubblica araba
d’Egitto con i metodi di lavoro e il mandato di Frontex”, ha detto una lettera
del direttore di Frontex, Hans Leitjens. “fornirebbe anche un’eccellente
opportunità per identificare aree di interesse condiviso e scambi su strade per
una futura cooperazione”, ha scritto Leitjens.
La visita è stata finanziata tramite il progetto EU4BorderSecurity, che prevede
la cooperazione tra Frontex e vari stati del Nord Africa. “Attraverso questo
progetto, Frontex può offrire all’Egitto una serie di attività di capacity
building in base alle vostre esigenze nel campo della migrazione e della
gestione delle frontiere”, ha detto un documento rilasciato da Frontex ai sensi
delle regole dell’UE per l’accesso ai documenti.
Questa cooperazione continua nonostante l’impunità per centinaia di morti in
mare. Le autorità egiziane non hanno ancora indagato sulla responsabilità dello
stato nell’affondamento della barca Rashid nel 2016, che si ritiene abbia
causato la morte di almeno 300 persone. Come altrove nella regione, le politiche
europee in materia di migrazione e sicurezza hanno la precedenza sui diritti
delle persone.
Gli ultimi sviluppi
Durante una riunione parlamentare egiziana del 2 dicembre 2024, un dossier
urgente è venuto dall’ufficio del presidente per la discussione e
l’approvazione. Si trattava di 1 miliardo di euro ricevuti come prestiti a breve
termine dall’UE, parte di un pacchetto maggiore di 5 miliardi di euro, a sua
volta parte dei 7,4 miliardi di euro concordati nel marzo 2024. L’accordo è
stato rapidamente approvato, anche se sono in corso negoziati sui restanti 4
miliardi di euro di questo pacchetto.
I restanti 4 miliardi di euro saranno destinati all’Egitto in tre rate. La
condizionalità politica dovrebbe essere attribuita a questo finanziamento, come
richiesto da alcuni politici europei. Tuttavia, i funzionari egiziani hanno
respinto tale condizionalità nei recenti incontri, una fonte vicina al processo
negoziale.
Le loro richieste potrebbero essere state prese in onorate dai funzionari
dell’UE. Il progetto di risoluzione del Parlamento europeo sulla proposta non ha
menzionato i diritti umani. La motivazione del relatore per il fascicolo, Celine
Imar, eurodeputata per il Partito popolare europeo di destra, afferma:
“Questa MFA [assistenza macro-finanziaria] si basa su rigide condizioni
preliminari che richiedono all’Egitto di continuare a compiere passi concreti e
credibili verso il meccanismo democratico, lo stato di diritto e i diritti
umani. Il relatore ritiene che le condizioni preliminari integrate nella
cooperazione a lungo termine con l’Egitto porteranno a riforme e miglioramenti a
lungo termine nel paese.
–
Alcuni potrebbero sentire che le cose non si muovono abbastanza velocemente, ma
è difficile negare che il paese sia sulla strada giusta”.
Tre giorni dopo il voto del Parlamento europeo, si è tenuta al Cairo una
riunione ad alto livello tra il ministro degli Esteri egiziano e l’Alto
rappresentante dell’UE per gli affari esteri. La dichiarazione rilasciata dal
ministro degli Esteri egiziano alla conferenza di chiusura ha dichiarato che
c’era un accordo tra:
* Attivare l’asse politico del partenariato e, di conseguenza, tenere il primo
vertice egiziano-europeo nel 2025 a livello del presidente della Repubblica,
del Presidente della Commissione europea e del presidente del Consiglio
europeo.
* Attivare l’asse economico, degli investimenti e del commercio, facilitando
l’accesso dei beni e dei prodotti egiziani all’UE e agli investimenti europei
in Egitto
* Rafforzare le rotte migratorie regolari tra l’Egitto e l’UE e rafforzare il
“partenariato del totale” destinato a consentire la migrazione del lavoro
dall’Egitto verso l’UE
Il ministro degli Esteri egiziano ha osservato che l’Egitto attende con
interesse un ulteriore sostegno da parte dell’UE a causa del “tremenso fardello”
imposto dal numero di stranieri presenti nel paese.
La conclusione
Il sostegno dell’UE alle autorità egiziane solleva seri interrogativi. L’Egitto
è riconosciuto dall’UE come un attore regionale fondamentale. Questo
riconoscimento, e l’interesse dell’UE per il controllo della migrazione,
sostiene il sostegno per espandere gli sforzi di controllo delle frontiere
dell’Egitto, il sostegno alla legislazione sui rifugiati, e potrebbe
preannunciare un aumento delle operazioni di “spingimento” in Egitto. Un modo in
cui questo potrebbe essere fatto è sostenere che l’Egitto è un “paese sicuro”.
L’UE sta attualmente preparando la legislazione con un elenco comune di paesi
terzi “sicuri”, anche se resta da vedere quali Stati saranno messi nell’elenco.
La cooperazione con i “partner” esterni è una chiara priorità per l’UE. Magnus
Brunner, Commissario per gli Affari interni e la migrazione, ha affermato che
l’UE deve essere “aperta” ed esplorare “nuove idee” per frenare la migrazione
illegale. Ha sostenuto che i cosiddetti “centri di ritorno” al di fuori dell’UE
(cioè i campi di deportazione negli Stati non UE) possono essere gestiti “in
modo umano e legalmente sano”. L’Egitto potrebbe essere un luogo potenziale per
una tale iniziativa?
L’accordo italiano di Giorgia Meloni con l’Albania esemplifica questa strategia.
Tuttavia, ha subito un continuo rifiuto da parte dei tribunali italiani ed è
sotto esame da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Il rapporto tra le diffuse violazioni dei diritti umani contro i cittadini e i
non cittadini in Egitto e il sostegno continuo per rafforzare la polizia, le
forze di frontiera e militari del paese richiede un’urgente riconsiderazione.
Qualunque siano le valutazioni dei rischi intrapresi nell’ambito di questi
progetti, è difficile vedere come tengano conto in modo significativo delle
questioni relative ai diritti umani.
Le violazioni dei diritti continuano alle frontiere e nelle città, così come il
targeting della società civile. Il controllo sociale sugli spazi pubblici e
digitali viene esteso in nome della “sicurezza”. La gestione e la corruzione
portano a un continuo peggioramento delle condizioni economiche. Queste sono
cause profonde per la migrazione, che danno anche origine a sentimenti ribelli
tra il popolo. Il sostegno dell’UE alle agenzie di sicurezza e di polizia
coinvolte nelle violazioni dei diritti umani chiude un occhio su tali
violazioni, rendendo l’UE complice in esse.
Nour Khalil, ricercatore e giornalista specializzato in politiche migratorie e
di asilo e violenza di frontiera, e direttore esecutivo della piattaforma per i
rifugiati in Egitto (RPE).
Le note
[1] Decisione n. 3326/2023 del Consiglio dei ministri egiziano.
[2] Legge 82/2016.
[3] Decisione n. 3326/2023 relativo alla legalizzazione dello status degli
stranieri è una base giuridica per tali azioni.
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Con la ripresa dei bombardamenti a Gaza sono stati uccisi almeno altri 322
bambini e feriti 609. Con una media di più di dieci bambini al giorno negli
ultimi dieci giorni.
di Gianni Sartori
Mentre con la fine della tregua riprende la conta dei morti palestinesi nella
striscia di Gaza (sia per i bombardamenti sull’enclave che per le operazioni
terrestri) si ha quasi l’impressione che i 50mila precedenti (cifra
presumibilmente per difetto) vengano “rimossi”, dimenticati.
Chi si è preso la briga di controllare i grafici ha potuto constatare come nei
primi mesi la conta dei morti ammazzati fosse di centinaia al giorno. In seguito
si osservava una flessione con impennate improvvise in coincidenza con attacchi
particolarmente letali. In ogni caso non c’è stato giorno che non abbia
registato vittime (anche durante le due tregue del novembre 2023 e di
quest’anno). Farebbe eccezione soltanto il 12 febbraio 2025. Giornata in cui
nessuno, stando almeno ai dati ufficiali, avrebbe perso la vita sotto le bombe.
Con la ripresa delle operazioni militari sono stati colpiti anche altri centri
sanitari (v. il reparto di chirurgia dell’ospedale Nasser di Khan Yunis, attacco
in cui hanno perso la vita diversi bambini) e il numero delle vittime è
aumentato di un migliaio. Così come hanno perso la vita altri giornalisti (due
il 24 marzo) per un totale di oltre 200 secondo fonti palestinesi.
Sulla questione delle vittime civili (e dei bambini in particolare) è
intervenuta recentemente l’UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia)
denunciando che con la rottura dell’alto-al-fuoco (dal 19 gennaio al 18 marzo)
“sono stati uccisi almeno 322 bambini e feriti 609. Con una media di più di
dieci bambini al giorno negli ultimi dieci giorni”.
Gran parte di questi bambini erano sfollati e vivevano in condizioni precarie
nelle tende improvvisate o in case pesantemente danneggiate.
Stando a quanto dichiarato dal Ministero della Sanità palestinese sarebbero
oltre mille le persone decedute dalla ripresa delle ostilità.
Vittime che – come si diceva – vanno ad aggiungersi alle 50.357 (quelle
accertate) precedenti. Tra loro – sempre secondo l’UNICEF – oltre 15mila sono
bambini.
Complessivamente si calcola che dall’ottobre 2023 la popolazione della Striscia
si sia ridotta almeno del 6% (circa 16mila persone).
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Uno spaccato sulla lotta politica del C.A.L.P., Collettivo Autonomo Lavoratori
Portuali di Genova, tra il 2019 e il 2023. Gli scioperi contro la “nave delle
armi” e la ricerca di un sindacato più attento alle istanze del presente. La
sicurezza sul posto di lavoro, l’antimilitarismo, il dialogo con gli altri
portuali del Mediterraneo. Il sogno di dare forma a un mondo diverso, e il
prezzo che comporta. Nelle burrascose settimane in cui la parola “” viene
pronunciata con inquietante sconsideratezza, “Portuali” ci invita a non
sottrarci alle nostre responsabilità, riproponendo un modello di resistenza dal
basso di cui abbiamo tremendamente bisogno.
di Ossydiana Speri da OndaCinema.
“La chiamata”: così, con enfasi quasi biblica, era ribattezzata la convocazione
degli aspiranti camalli che ogni mattina affollavano il porto di Genova. Una
massa sgomitante a cui, caso più unico che raro, veniva comunque corrisposto un
obolo qualora non avessero ottenuto il lavoro. Lavoro che non era certo un bagno
di salute (basti pensare alle vittime da bollettino di guerra mietute dalla
silicosi), ma che quantomeno vedeva in campo un sindacato battagliero e un
padronato meno spietato che altrove. Quest’ultimo lato della barricata ha da
tempo cambiato faccia: “Il porto è una macchina inesorabile, una miniera
infernale. È l’immagine stessa del capitalismo globale nel ventunesimo secolo”,
apprendiamo dal libro-inchiesta “Le frontiere del mondo” di Andrea Bottalico,
dedicato all’oscuro universo geometrico dei container. Ancora intatta è invece
la pelle dura dei nuovi lavoratori del porto, mirabilmente ritratti nel primo
lungometraggio della marchigiana Perla Sardella, autrice anche della fotografia
e del montaggio.
Ad aprirlo e chiuderlo, sulle note strozzate del sax di Alabaster DePlume, sono
materiali d’archivio che documentano quel mondo di fatica e orgoglio. Tirare in
ballo la pellicola qui non è certo un vezzo hipsteroide, semmai la prova del
filo diretto tra le lotte di ieri e di oggi. Ulteriore nota di merito, il
proemio e il congedo sono le uniche occasioni in cui si ricorre sia al found
footage sia al commento musicale, senza negarsi qualche straniante manipolazione
(i movimenti in reverse dei primi cinque minuti).
Lo stesso rigore formale permea tutte le scelte della regista, pienamente
consapevole dei suoi obiettivi e dei suoi strumenti: niente interviste, niente
voice over, niente didascalie se non concentrate nei tableux che di tanto in
tanto intervallano il montato, peraltro di pregevole confezione (i testi si
materializzano dal basso verso l’alto con un incisivo font rosso, unica
concessione al background arty dell’autrice). A contenuti coerenti, forme
coerenti, sembra chiosare Sardella.
Mosca sul muro di ammirevole discrezione, la camera plana tra assemblee fluviali
e impavide manifestazioni che chiariscono la natura sui generis dei soggetti in
esame: i portuali genovesi non si limitano a perorare la loro causa, ma portano
avanti una crociata senza quartiere contro il traffico di armi di cui la Superba
è ben noto scalo, per nulla intimoriti dalle innumerevoli denunce e minacce di
cui son fatti bersaglio. Ben consci che non c’è rivoluzione senza condivisione,
nelle loro arringhe auspicano una saldatura tra tutti i dissidenti del
Mediterraneo, in un afflato internazionalista che sempre più di rado attraversa
gli slogan di categoria.
Se nei documentari d’osservazione fa spesso gioco pedinare un protagonista, la
regista ne trova uno maiuscolo in Josè Nivoi, sindacalista USB e portavoce del
CALP, il portentoso Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali autore
dell’imperdibile “Fino all’ultimo di noi”, edito l’anno scorso da Red Star
Press. Un personaggio d’altri tempi e fuori dal comune, tabagista incallito e
impetuoso oratore, a suo agio (più o meno) sulle banchine del molo quanto al
Parlamento Europeo. Cicerone affabile e grintoso, è lui a farci strada tra
un’umanità dai modi spicci ma dal cuore grande, in cui le vecchie generazioni
vegliano sulle nuove senza pretese indottrinanti. Ed è così che conosciamo anche
Bruno Rossi, tenero vegliardo che negli anni si è fatto simbolo vivente della
causa portuale.
Rivendicazioni sindacali, ma non solo: c’è spazio anche per la straziante
vicenda della figlia di Bruno, Martina, precipitata nel 2011 da un hotel di
Palma di Maiorca per sottrarsi a uno stupro. È stata la tenacia investigativa
del padre a incastrare i due autori, non predatori dei bassifondi ma “bravi
ragazzi” di buona famiglia, rivoltante categoria umana messa alla berlina,
proprio nella Genova degli scorsi mesi, dall’impietoso j’accuse dalla
consigliera comunale Francesca Ghio, rimbalzato sulle cronache nazionali tra gli
sfottò maschilisti.
Alla barbara vigliaccheria di chi confida nell’impunità risponde per le rime la
solidarietà dei compagni di Bruno, compatti e sul pezzo anche all’asciutto,
sempre e comunque dalla parte delle vittime. Una sberla a mano piena contro chi
vorrebbe le battaglie compartimentate come la stiva di una nave.
Nelle burrascose settimane in cui la parola “riarmo” viene pronunciata con
inquietante sconsideratezza, “Portuali” ci invita a non sottrarci ai nostri
doveri civici, riproponendo un modello di resistenza dal basso di cui abbiamo
tremendamente bisogno.
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(disegno di leMar)
Si ferma il piano di sviluppo industriale del centro di sperimentazione
automobilistica Nardò Technical Center nel Salento, di cui abbiamo scritto nei
mesi passati. Lo annuncia Porsche nel pomeriggio di giovedì 27 marzo, in
una nota in cui motiva la rinuncia al progetto con le attuali “prospettive
sociali, ambientali ed economiche” e “le circostanze dell’industria
automotive mondiale”. La buona notizia arriva dopo quasi venti mesi di lotte e
resistenza da parte di associazioni e comitati, a un anno esatto dalla
comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Emiliano
di sospendere l’accordo di programma con NTC, a seguito dei richiami dalla
Commissione europea. Nell’attesa che la Regione metta nero su bianco la revoca
dell’accordo di programma con NTC, è tempo di riavvolgere il nastro e smontare
le narrazioni che accompagnano la decisione di Porsche e stanno monopolizzando
gli spazi di quotidiani e pagine d’informazione.
Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti NTC con nuove piste e impianti su
duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco
mediterraneo e 351 ettari espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il
consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che
riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito
di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa
comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia
della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della
Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri
d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico”
connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza pubblica. Infatti, alla
distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di
elisoccorso attrezzato con eliporto e annesse strutture sanitarie, un centro
visite polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto
riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e
Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi
estivi hanno interessato le campagne nei terreni limitrofi all’anello di Porsche
non hanno visto i soccorsi di NTC.
L’IMBROGLIO ECOLOGICO
Le misure compensative alla distruzione del bosco sarebbero state la
rinaturalizzazione e riforestazione delle aree intorno al perimetro di NTC, ma
era impensabile rimpiazzare una comunità ecosistemica complessa e
autosufficiente con filari di alberelli bisognosi di anni e acqua per crescere,
con sole dodici specie vegetali contro le quattrocentoventi attestate nel bosco
secolare. Per fare spazio alle piste di prova per auto
elettriche, Porsche avrebbe tradito le promesse di sostenibilità del gruppo
Volkswagen, di cui fa parte: “lasciare un mondo migliore per le generazioni
future”, “sostenibilità significa mantenere a lungo termine sistemi ecologici,
sociali ed economici sostenibili a livello globale, regionale e locale”.
Per denunciare il massacro ambientale in un’area protetta e la perdita
irreversibile di biodiversità, per resistere a questa truffa ai danni della
natura e della comunità, si è costituito nell’autunno 2023 il comitato Custodi
del bosco d’Arneo, che ha promosso un ricorso al Tar a gennaio 2024 insieme a
Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, fino a ottenere dal commissario
europeo per l’ambiente Sinkevičius, a nome della Commissione europea, la
richiesta di ulteriori chiarimenti riguardo il progetto e i presunti motivi di
interesse pubblico. Nei mesi è cresciuta la solidarietà e la mobilitazione
dell’opinione pubblica tedesca, con sit-in e manifestazioni a Stoccarda, patria
di Porsche, una lettera aperta ai Ceo di Porsche e Volkswagen, con
il supporto delle tre maggiori associazioni per la tutela della natura del
Baden-Württemberg, Nabu, Bund e Lnv, di Robin Wood e Fern.
L’alleanza tra associazioni pugliesi e tedesche ha portato la vicenda del bosco
d’Arneo al consiglio di amministrazione Porsche durante l’annual general
meeting di Stoccarda, la riunione annuale degli shareholders. Lì i Custodi del
bosco sono stati riconosciuti come legittimi interlocutori e portatori
d’interesse, si è messa in luce tutta l’illogicità del piano e l’incoerenza con
le politiche aziendali (seppur le risposte siano state vaghe e autoassolutorie
nonostante le domande consegnate con tre giorni di anticipo). A novembre,
durante una pacifica azione di protesta, gli attivisti di Robin Wood hanno
piantato un leccio nella Porsche-Platz a Stoccarda, che è stata simbolicamente
rinominata “Bosco d’Arneo-Platz”. Ancora, a dicembre le associazioni hanno
inviato al presidente Emiliano un documento per chiedere chiarimenti in vista
della scadenza della sospensiva e a gennaio una conferenza stampa con attivisti
dalla Germania e dal Brasile ha continuato ad alimentare quel dibattito pubblico
negato dalle istituzioni.
A ridosso di Ferragosto (con le stesse tempistiche nemiche della partecipazione
con cui un anno prima era stata diffusa la notizia del progetto), la Regione
avvia il procedimento di definizione degli obiettivi di conservazione
sito-specifici della Zona Speciale di Conservazione “Palude del Conte, dune di
Punta Prosciutto”, in cui ricade il circuito NTC. In effetti, sulla Puglia
incombono una procedura d’infrazione comunitaria del 2015 e una messa in mora
del 2019 da parte della Commissione europea, per aver omesso di stabilire nelle
ZSC misure di conservazione necessarie per gli habitat naturali presenti. Ora,
la Puglia conta ottanta siti tra ZSC e SIC, ma la Regione si attiva solo per
quello che interessa Porsche. Dalle osservazioni presentate da alcune
associazioni alla deliberazione regionale si scopre che già nel 2006 i
proprietari delle piste avevano avuto l’autorizzazione all’ampliamento su
un’area di circa trecentocinquanta ettari, con l’unica prescrizione di
realizzare opere di rinaturalizzazione su una superficie pari all’estensione
dell’habitat compromesso.
L’intero quadro della vicenda mostra un pericoloso precedente in cui stretti
vincoli ambientali non bastano più a proteggere un’area, un caso in cui il
potere economico privato cattura la scelta pubblica, celando gli interessi del
singolo operatore di mercato con il velo della pubblica utilità, a discapito dei
diritti della collettività. Come argomenta Giovanni D’Elia, il forte potere
economico di uno dei maggiori gruppi automobilistici a livello mondiale sarebbe
stato in grado di influenzare gli attori istituzionali nella gestione di una
vasta area boschiva tutelata dal diritto europeo.
A marcare questo ricatto, nel bollettino ufficiale la Regione scriveva che la
“mancata realizzazione delle quattro fasi del masterplan potrebbe comportare la
dismissione dell’impianto di prova esistente”, in quanto “il mancato adeguamento
alle nuove esigenze tecnologiche in corso nel settore automotive innescherebbe
il processo di declino tecnologico e commerciale delle attuali piste”. In più
minacciava che “con la dismissione delle attività, oltre a ricadute di natura
socio-economica, verrebbe meno il presidio dell’area attualmente assicurato da
NTC, aumentando di conseguenza il rischio di compromissione degli habitat”. Ora
che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte
nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”,
torna in mente la paura che le opposizioni al piano di ampliamento di NTC
avrebbero indotto il disinteresse di Porsche a investire e a rimanere sul
territorio. La tanto temuta “alternativa zero” che avrebbe comportato anche
“l’esaurimento del positivo indotto socio-economico generato sul territorio,
derivante dalla presenza di clienti e visitatori da tutto il mondo”,
e paventata come “non percorribile” durante la seduta a Bari della V Commissione
in Regione a novembre 2023, ora sta perfettamente in piedi e lo dice Porsche
stessa.
Ritorna il copione, tracciato da Naomi Klein nel saggio Shock economy, per cui
le crisi vengono utilizzate, dietro il pretesto dell’emergenza, come
un’opportunità per introdurre politiche economiche impopolari, quali
deregolamentazioni e privatizzazioni. L’elemento chiave è la velocità con cui
vengono attuate tali politiche, mentre il consenso popolare viene manipolato
attraverso la paura e la propaganda. Approfittando del disorientamento e della
paura causati dalla crisi, i governi agiscono rapidamente, spesso senza un
adeguato dibattito pubblico. Dopo anni di disastri ecologici con ambiente e
salute subordinati al profitto, è evidente come non possa esistere industria
sostenibile sotto il capitalismo, sostenibilità e profitto non sono
conciliabili. Il mese scorso perfino Ursula von der Leyen “si è arresa di fronte
alla narrazione industriale: mantenere alta la competitività rispettando
stringenti regole ambientali non è possibile, i conti non tornano”, scrive Irpi
Media.
IL SUD DEI RICATTI
“Chance perse”, “colpo fatale al futuro”, “clima ostile all’impresa”: sono
alcuni dei titoli allarmistici che occupano le pagine della stampa locale dopo
la rinuncia di Porsche. La generica categoria degli ambientalisti contro cui
stanno puntando il dito la Regione e le associazioni di categoria rimarca la
stigmatizzazione delle esperienza di attivazione sul territorio. Gli
ambientalisti sono solo cittadini attenti (e incensurati) che chiedono di
autodeterminarsi, che hanno utilizzato gli strumenti legislativi ordinari, senza
generare problemi di ordine pubblico durante le manifestazioni, mentre chi
cercava di aggirare i vincoli della giustizia erano altri. Non è una novità che
al sud chi respinge modelli di sviluppo imposti dall’alto sia sempre tacciato di
arretratezza e inciviltà, come fossimo poveri selvaggi da evangelizzare al
progresso, secondo la buona tradizione coloniale.
L’assessore Delli Noci, braccio destro di Emiliano, piange una “perdita enorme
per il territorio”, “gli sforzi della Regione Puglia di attrarre investimenti da
parte di grandi imprese vengono vanificati, con la grave perdita di occasioni di
crescita, di nuovi posti di lavoro e di possibilità di sviluppo”. Lo stesso
presidente Emiliano, interpellato dal Quotidiano di Puglia, dichiara: “Abbiamo
perso una grande occasione di sviluppo, centinaia di posti di lavoro e un
rimboschimento di cinquecento ettari al posto dei centocinquanta da abbattere”.
E poi preme il pulsante delle emozioni di pancia: “C’è chi sarà felice e chi si
rende conto di questi ragazzi e ragazze pugliesi che dovranno andar via a causa
di questo mancato investimento”, senza ammettere che, se migliaia di pugliesi
sono costretti a emigrare, la colpa è di politiche regionali capaci solo
di svendere una terra pur di avere il prestigio di averlo concesso.
Chi sottolinea la perdita di opportunità occupazionali, in questo perenne
ricatto salute-lavoro che attanaglia il meridione, dimentica i fatti recenti che
hanno interessato lavoratori di NTC, oltre alle vicende sindacali dei pochi
salentini che lavorano per Porsche, sottopagati e minacciati di licenziamento:
collaudatori e operai in presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda e
in sciopero della fame nel 2017, costretti per vent’anni a condizioni di lavoro
precarie. Alcuni collaudatori raccontano: “Lavoriamo rischiando la vita ogni
giorno, quaranta ore alla settimana, per una paga misera”, “stare per ore con il
piede fisso sull’acceleratore, lungo una pista che sembra non finire mai, con
gli stessi contratti che si applicano ai commessi” e non metalmeccanici.
I politici non hanno mai avuto scrupoli nell’alimentare il ricatto: la sindaca
di Porto Cesareo accusava ogni tentativo di frenare il progetto di NTC come uno
“schiaffo al territorio e alla comunità”, alle “tante attività che d’inverno
farebbero la fame”. Un anno fa Confcommercio e Federalberghi si
dicevano preoccupate che la sospensione al progetto di NTC potesse “influenzare
negativamente l’economia locale”, essendo l’attività del centro prove “risorsa
per centinaia di piccole e medie imprese e realtà del commercio locali” e “una
risorsa vitale per le strutture ricettive”. Grazie a “clienti internazionali che
visitano l’area tutto l’anno, il Salento viene promosso su scala globale”.
Quando Emiliano dichiara che la rinuncia di Porsche “anche dal punto di vista
ambientale è stato un danno, perché nel tempo avremmo quintuplicato l’area
boschiva”, finge di non sapere che se quello che la Regione auspica è un’opera
di riforestazione, questa è perseguibile senza bisogno di sacrificare gli ettari
di bosco e le specie animali che lo abitano. Poi, la riforestazione resta una
misura compensativa che (lo dice il nome) serve a bilanciare l’incidenza
negativa significativa dell’intervento, quindi per logica non può essere motivo
per attestare la bontà dell’intervento.
L’amaro in bocca dei politici locali e delle associazioni di categoria alimenta
la logica coloniale ed estrattiva in un territorio di conquista già devastato
dal disseccamento degli ulivi, consumo di suolo e desertificazione, incendi
sistematici, crisi idrica e siccità galoppante, land grabbing per impianti di
fotovoltaico, agrivoltaico ed eolico (proprio in questi giorni a Livorno si
tiene Confluenza, il primo incontro nazionale contro la speculazione energetica
ed estrattivista sui territori).
Sebbene la Puglia sia ancora in violazione della direttiva sui criteri
sito-specifici e la vicenda di Porsche abbia mostrato come bastino forti poteri
privati per far decadere i vincoli ambientali, la storia del bosco d’Arneo serve
come monito: ciò che viene presentato come necessario e inevitabile non è che
una contingenza. Gli imperativi del capitalismo non diventino una tara cognitiva
che riduce la politica a spartizione di fette di potere. Il leccio che i Custodi
del bosco e il Wwf hanno piantato lo scorso 24 gennaio a Lecce in viale De
Pietro, nell’aiuola di fronte gli uffici di NTC, sta a ricordare che bisogna
immaginare sempre altri scenari possibili oltre quello imposto. E serve
raccontare i territori e le storie con tutto ciò che preme al loro ribaltamento,
riappropriandosi della categoria dell’utopia, come scrive Alessandro Leogrande.
“Non è possibile raccontare il presente senza presagire un suo
sovvertimento”. (chiara romano)
Ancora una scuola siciliana meta della sempre più invasiva campagna di
orientamento all’arruolamento nelle forze armate ma stavolta alcuni genitori
dicono Signornò!
E’ accaduto nella città di Capo d’Orlando (Messina) dopo che la dirigente del
Polo Liceale Statale “Lucio Piccolo” ha indirizzato una circolare alle famiglie,
ai docenti e agli studenti delle classi del biennio e del V anno di tutti gli
indirizzi con oggetto l’organizzazione di un incontro di orientamento scolastico
con gli ufficiali del 24° Reggimento “Peloritani” di Messina, reparto della
Brigata meccanizzata “Aosta” dell’Esercito italiano.
“Mercoledì 26 marzo 2025 il 24° Reggimento “Peloritani” incontrerà gli studenti
del Liceo, in presenza e da remoto”, riporta la circolare della dirigente, la
professoressa Maria Larissa Bollaci. “Gli alunni del biennio parteciperanno alla
conferenza con le Forze Armate, durante la quale verranno presentate le scuole
di alta formazione culturale e militare, la Nunziatella di Napoli e la Teulié di
Milano”. A seguire l’incontro con gli alunni delle classi V, “durante il quale
saranno fornite informazioni riguardanti la storia e le attività delle Forze
Armate, i possibili sbocchi occupazionali nonché tutte le indicazioni relative
al concorso per l’accesso all’Accademia Militare di Modena”.
Alla vigilia della visita del 24° “Peloritani” al liceo orlandino, alcuni
genitori degli alunni partecipanti hanno inviato una bellissima lettera alla
dirigente “nella speranza di stimolare, anche tra i docenti, una seria
riflessione sull’urgenza della pace e sulla necessità di lasciare la guerra
fuori dalla scuola”.
“Pensiamo che sia inopportuno che la scuola, che è il luogo in cui si formano le
coscienze, si coltivano i valori e si costruisce il futuro, venga trasformata in
terreno fertile per la diffusione di ideologie militariste e per l’orientamento
dei giovani alla guerra”, scrivono i genitori. “Nell’attuale scenario sociale e
politico stiamo assistendo alla normalizzazione dell’educazione alla guerra in
un clima sempre più preoccupante. Il generale Masiello ha recentemente affermato
che l’esercito è fatto per prepararsi alla guerra. Parole che risuonano come un
monito inquietante. Se questa è la prospettiva delle istituzioni militari, quale
messaggio viene trasmesso ai giovani attraverso progetti di orientamento
scolastico a cura delle forze armate?”.
“Ogni guerra è una sconfitta per l’umanità”, si legge ancora nella lettera
inviata alla dirigente del liceo “Piccolo”. “La guerra è morte, distruzione,
sofferenza indicibile e non può mai essere presentata come una soluzione ai
conflitti. La scuola ha il compito di insegnare ai giovani l’arte del confronto,
del dialogo e della comprensione reciproca. Dovrebbe essere un ambiente in cui
si promuove la cultura della pace, della diplomazia e del rispetto delle
differenze. Ogni tentativo di introdurre attività dal sapore militarista rischia
di minare questi obiettivi fondamentali”.
“Non si può permettere che scuole e studenti diventino un bacino di reclutamento
o un veicolo di consenso per attività militari. La Costituzione italiana
all’art. 11 afferma chiaramente che l’Italia ripudia la guerra come strumento di
offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali. Questa non è una frase vuota ma un principio
fondamentale che deve guidare ogni scelta educativa. Ogni studente ha diritto ad
un’educazione che lo formi come cittadino consapevole, critico e capace di
contribuire ad un mondo migliore. Non come futuro soldato di conflitti che
arricchiscono pochi e distruggono le vite di molti. La scuola è il cuore
pulsante della società e deve restare uno spazio di pace”.
Il liceo “Piccolo” di Capo d’Orlando aveva ospitato una conferenza degli
ufficiali del 24° Reggimento “Peloritani” di Messina pure il 22 febbraio 2024.
Anche in quell’occasione erano state presentate agli studenti le scuole militari
“Nunziatella” e “Teulié” ed erano state fornite “informazioni” sulla storia dei
reparti e sulle possibilità occupazionali nell’Esercito italiano.
Il passato del 24° Reggimento “Peloritani” di Messina è tutt’altro che glorioso.
Dopo la sua costituzione, nel 1935 fu inviato dal governo fascista di Benito
Mussolini in Africa Orientale per combattere sul fronte somalo a Neghelli e
Ogaden e sferrare poi l’attacco da sud contro l’Etiopia. Durante la Seconda
guerra mondiale, i reparti del 24° furono trasferiti sul fronte greco-albanese
per poi “presidiare” la sanguinosa occupazione nazifascista della Grecia. Dopo
l’8 settembre 1943 il Reggimento fu sciolto nel Peloponneso. Ricostituito
nell’Italia Repubblicana, il 24° è stato impegnato nelle controverse missioni
delle forze armate italiane in Libano e Kosovo e, negli ultimi due anni, in due
campagne militari in Ungheria. Queste ultime sono state effettuate nell’ambito
dell’Operazione Forward Land Forces promossa dalla NATO in funzione anti-russa:
i militari del Reggimento peloritano hanno operato - e operano attualmente - in
territorio ungherese in uno dei quattro nuovi Gruppi di Battaglia multinazionali
che l’Alleanza Atlantica ha costituito in Europa orientale dopo lo scoppio del
conflitto russo-ucraino, insieme alle forze armate di Croazia, Ungheria e Stati
Uniti d’America.
Le preoccupazioni espresse dai genitori degli studenti del Liceo “Piccolo”
appaiono più che legittime e giustificate anche alla luce delle dichiarazioni
espresse dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano, il generale Carmine
Masiello, nelle stesse ore in cui gli ufficiali del 24° Reggimento promuovevano
la carriera militare tra i giovani di Capo d’Orlando.
Intervenendo alla conferenza “Uno sguardo verso l’alto. Nel campo di battaglia
del Futuro”, promossa dall’Esercito a Roma con lo scopo di “approfondire le
esigenze trasformative del settore militare-industriale, alla luce delle lezioni
apprese dai conflitti russo-ucraino e mediorientale”, il generale Masiello ha
lanciato un “accorato appello” sottolineando “l’urgente necessità di un
programma di riarmo consistente per colmare le lacune delle forze armate
italiane”.
Il Capo di Stato Maggiore ha lanciato un monito sulla gravità dell’odierna
situazione internazionale: “Non possono rischiare solo soldati, piloti e
marinai. Perché semmai si andasse in guerra, non solo le forze armate vanno in
guerra, ma l’Italia intera (…) Dobbiamo modernizzare le forze armate, dotandole
di tecnologie all’avanguardia per affrontare le sfide del futuro. In
quest’ottica invito l’industria e il mondo accademico a collaborare strettamente
con l’Esercito, promuovendo una rivoluzione culturale che favorisca
l’innovazione e l’efficienza”.
L’Italia va alla guerra, dunque, e servono urgentemente armi, mezzi e carne da
cannone. Scuole e università vanno convertite – rapidamente - in centri di
formazione e consenso della “cultura della guerra” tra le nuove generazioni…
Articolo pubblicato su Stampalibera.it il 27 marzo 2025,
https://www.stampalibera.it/2025/03/27/orientamento-alla-guerra-in-un-liceo-di-capo-dorlando-messina-ma-i-genitori-dicono-no/?fbclid=IwY2xjawJYcOZleHRuA2FlbQIxMQABHVzjIM_L2hkho0UWSXdi2ipRIb-vevVTjrWP14v94sFaY3gtdcf-PmaFmQ_aem_BBsvGUXIK6IIBap8JoqDVg
Durante il corteo del 28 Marzo abbiamo raccolto i contributi di alcuni giovani
lavoratori di Dumarey, ex General motors, un’ azienda specializzata nella
progettazione di sistemi di propulsione, che conta circa 700 dipendenti nello
stabilimento torinese.
Riportiamo le testimonianze di due ingegneri e di un operaio che lavorano nel
sito all’interno della “Cittadella Politecnica”.
Ciao chi siete e perché siete qui oggi? Qual è la situazione all’interno della
vostra azienda?
F: Sono un operaio del settore Automotive, dipendente di Dumarey, sono qui oggi
naturalmente per richiedere il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici e a sostenere
le proposte avanzate dalla piattaforma unitaria che Federmeccanica si sta
rifiutando assertivamente di accettare. Dentro la mia azienda c’è una bella
novità, ovvero che la parte di ingegneria inizia finalmente a scioperare, si
rendono conto che la nuova carne da macello, per quanto laureati, sono loro. Per
quanto riguarda gli operai mi rendo conto che non tutti come me hanno la
possibilità di scioperare perché chi deve mandare avanti una famiglia purtroppo
non si può permettere nemmeno di perdere una giornata di lavoro, quindi sono qua
anche per loro. Comunque l’adesione alle assemblee di preparazione, è stata
discreta mentre per quanto riguarda lo sciopero è decisamente ben riuscito.
M: Siamo dei dipendenti di Dumarey Automotive, una multinazionale che produce
software e motori. Siamo qui perché vogliamo far sentire la nostra voce anche
alla nostra azienda riguardo il rinnovo del CCNL e all’esigenza di una riduzione
dell’orario lavorativo. Il discorso dell’orario si connette all’ingresso dell’IA
in un lavoro come il nostro, ci parlano sempre di più di bisogno di efficienza
da parte dei lavoratori ma questo si traduce per noi in un carico di lavoro
maggiore da portare a termine nello stesso tempo, ovvero 40 ore settimanali,
arricchendo alla fine l’azionista dell’ azienda e portando il lavoratore a
doversi occupare di 10 cose contemporaneamente, questo logora il lavoro del
“nuovo operaio”, noi infatti siamo entrambi ingegneri.
A: La nostra azienda è un po’ particolare perché la maggior parte dei dipendenti
sono ingegneri, quindi impiegati, per cui persone che in alcuni casi possono
intendere la lotta con senso di colpa, come se uno sciopero fosse un problema.
La cosa positiva è che l’asticella dell’arroganza del padrone si è spostata
sempre più in alto e quindi anche i nostri colleghi si sono svegliati. Di solito
a partecipare agli scioperi eravamo solo noi delegati, magari nemmeno tutti, e
una buona parte di operai. Oggi siamo un bel po’, qui facendo una stima saremo
una cinquantina, ed è un successo perché di solito non arrivavamo a 10.
M: Questo è significativo perché conferma che il rinnovo del CCNL è una cosa
sentita, non solo da noi che magari siamo più interni alle dinamiche del
sindacato come RSU, ma in generale dalle persone, l’inflazione che ha mangiato
gli stipendi, i servizi che scendono sempre di più, a fronte di ciò è importante
che ci sia un risveglio collettivo per i nostri diritti, che sono stati
conquistati dai nostri nonni e genitori negli anni 60/70 e che adesso nel tempo
vengono deteriorati dalla visione di profitto delle aziende che ricercano un
profitto sempre più alto e abbassano sempre di più quelli che sono i diritti dei
singoli lavoratori.
A: Secondo me la cosa che più è riuscita da parte degli imprenditori italiani,
oltre a farsi finanziare dallo stato da trent’anni e piangere comunque miseria,
e ci va coraggio, è quello di aver detto da un lato la lotta di classe non
esiste, siamo tutti sulla stessa barca, dall’altro però loro la lotta contro la
classe l’hanno fatta, infatti negli ultimi 30 anni i lavoratori hanno perso
potere d’acquisto vedendo detassarsi anche i loro dividendi.
M: Infine un altro motivo per cui siamo qui oggi è la precarietà, anche le
aziende come le nostre, sfruttando sempre di più quello che la tecnologia offre,
ad esempio lo smart working, va alla ricerca di consulenza estera a basso costo,
principalmente nei paesi del Maghreb, per pagare poco i dipendenti, non
assumerli direttamente ma attraverso contratti di consulenza così “quando non mi
servi più stacco la spina”, andando a sminuire magari un ingegnere che ha
impiegato molto tempo ed energie nel prendere una laurea e un certo tipo di
“know how” per poi venire sfruttato, siamo diventati gli “operai del nuovo
millennio” e questa direzione non ci piace.
Come vivete questo vento di guerra e corsa al riarmo? E cosa pensate
dell’ipotesi di riconversione dell’Automotive a settore bellico?
F: Da parte mia la corsa al riarmo è percepita male, riconvertire un settore che
è stato storicamente votato al trasporto e alla mobilità alla guerra ovviamente
è un gioco sporco.
M: Ci sono pro e contro, le migliori tecnologie sono state sviluppate nei
periodi di guerra e non ci si può nascondere, perché lì vengono investiti i
soldi. Ad esempio in campo farmaceutico durante la guerra contro il covid le
aziende hanno investito nella ricerca per vaccini che prima non esistevano.
La guerra non è mai una cosa bella, sono per la difesa dell’Europa ma non so se
è il metodo giusto andare a spendere sul riarmo togliendo così investimenti su
quello che ci tocca tutti i giorni, ad esempio l’istruzione, negli asili nido
non ci sono i soldi per comprare la carta e i materiali e sono costi che
ricadono sui genitori, le strutture sono fatiscenti e anche di quello si devono
occupare i genitor perché non ci sono i soldi per metterli a posto, le rette
vengono 600/700 euro al mese, ci parlano di incentivazione alle nascite ma come
si fa, in famiglie in cui ci sono giovani (non più tanto giovani perché ormai
per arrivare ad avere una situazione stabile si parla di arrivare ai
quarant’anni) a far fronte a tutte queste spese?
L’istruzione è andata in malora, la sanità sta andando in malora, per fare una
visita ci impieghi mesi e alla fine ti costringono ad andare nel privato.
Se la guerra significa, togliamo soldi alla società perché dobbiamo investire
nelle armi no. Se si dice dobbiamo difendere il nostro territorio va bene ma
sempre valutando tutte le possibili soluzioni a una guerra, quindi non solo il
riarmo ma attraverso molte altre misure.
A: Io non sono d’accordo con la riconversione, in generale la politica
industriale la fanno gli stati, quindi se da parte degli stati UE c’è una corsa
al riarmo le imprese li seguono, sembra quasi che fino a ieri non investissero
nel bellico ma in realtà lo facevano anche prima, ora stanno incrementando la
produzione, in un momento tra l’altro in cui lo stato sociale è devastato e
stanno continuando a distruggerlo e poi ricordiamoci che in guerra, da che mondo
è mondo, ci vanno i poveri a morire per i ricchi.
Se vuoi raccontarci la tua storia scrivici a:
inchiesta.lavoro@gmail.com
Scopri gli altri articoli del percorso d’inchiesta sul lavoro a questo link.
Lo stato della propaganda e la propaganda di stato. Isernia: un caso emblematico
di Alessandro Ugo Imbriglia
Lo scorso 25 marzo, il sindacato autonomo di polizia ha ricevuto, nella città di
Isernia, gli studenti dei tre istituti di scuola superiore della città, per
celebrare – nei modi in cui si conviene – il suo decimo congresso provinciale.
Il quotidiano Primo Piano Molise ha estratto alcune fra le considerazioni più
significative dei promotori e degli invitati. Commentiamone alcune. La
segretaria provinciale del sindacato autonomo di polizia, Sonia Iacovone, ha
affermato:
«Questo incontro è stato fortemente voluto dal Sap. Abbiamo coinvolto i ragazzi
per dare una prospettiva diversa a questa giornata. Vogliamo partire dalle loro
curiosità, dai loro dubbi, dai loro punti di vista, per capire meglio il
concetto di sicurezza, per capire come loro vedano la legalità, ma anche il
ruolo delle forze dell’ordine. Insomma, vogliamo riflettere su questi valori,
che sono fondamentali per la nostra società».
Dall’estratto emerge un’evidente puntualizzazione, che è probabilmente la più
significativa: «vogliamo riflettere su questi valori, che sono fondamentali per
la nostra società». Sicurezza e legalità sono dunque annessi al rango di valore,
di concetti–valore. Ciò cosa significa? Quando un significante assurge a valore
esprime, su un piano semantico, il massimo grado di generalità: poste in questo
ordine, legalità e sicurezza devono apparire, in seno alla propaganda, come idee
“increate”. Esse sono collocate, all’interno del discorso di stato, per essere
recepite come tali, dunque inamovibili, in una posizione che dovrà essere intesa
e assimilata come elemento permanente rispetto alle sue modalità di applicazione
e agli effetti che ad esse conseguiranno. Un concetto-valore, espresso nei
termini succitati, attribuisce a sé stesso una grande forza generativa, poiché
compare, anzitutto, come elemento inderivato: prima di esso non v’è nulla, nulla
da cui possa dipendere o da cui possa conseguire. Per tal motivo si appone al
sostantivo “valore” un attributo ovvio, ad esso implicito, qual è il termine
“fondamentale”. La legalità deve essere concepita come fondamento primo, come
basamento. È essa stessa a costituire, sia sul piano concettuale, sia sul piano
fattuale, la fonte unica e originaria di potenziali effetti, conseguenze e
derivazioni. Poste in questi termini, sembra che alla legalità e alla sicurezza
non preesista una forza, una fonte che, sul piano anzitutto dell’idea, sia in
grado di stabilirne e contenerne la dimensione semantica, la posizione
sintattica e la funzione operativa. Ecco che allora “il ruolo delle forze di
polizia” assume, nell’ordine del discorso, una configurazione autolegittimante,
poiché si manifesta come immediata espressione dei concetti-valore, quali
sembrano essere la legalità e la sicurezza. In quest’ottica l’eurodeputato Aldo
Patriciello ha espresso le seguenti considerazioni:
«Gli agenti di polizia sono il baluardo della democrazia e soprattutto sono per
noi un punto di riferimento per rappresentare la presenza dello stato. Questa
iniziativa mira dunque a riconoscere alle forze di polizia e al sindacato di
polizia quel lavoro silenzioso, costante che fanno quotidianamente a difesa
della democrazia e soprattutto a difesa dei cittadini».
Questa costruzione di significati presenta quantomeno delle aporie: in
un’entità statuale, la funzione strategica delle forze polizia consiste – sia
sul piano operativo, sia sul piano simbolico – nell’imposizione e nel
consolidamento di un principio weberiano: l’utilizzo della forza fisica –
l’utilizzo della violenza – è monopolio incondizionato dello stato. Lo stato
detiene l’indiscutibile monopolio della forza fisica. Questa è la priorità
strategica di un corpo di polizia, in quanto derivazione di uno o più apparati
di potere. Essa è tenuta a ribadire e conservare – nella propria funzione
simbolica e operativa – tale principio. L’obiettivo delle forze di polizia non
consiste certamente nella “difesa della democrazia”, bensì nella tutela di un
sistema di apparati – istituzionali, politici ed economici – annessi e connessi
allo stato. A riguardo, ciò che è possibile osservare come “difesa dei
cittadini” è solo uno dei molteplici effetti – delle funzioni derivate,
secondarie – prodotti dal perseguimento dell’obiettivo strategico di cui sopra.
In realtà, la “difesa della democrazia” può essere detenuta, e legittimamente
ambita, dai cittadini. E sono i cittadini ricompresi in specifiche classi,
quelle subalterne, a costituire un elemento nevralgico nella difesa di ciò che
intendiamo con il termine democrazia.
Dunque a cosa assistiamo? Il potere, che in tal caso corrisponde immediatamente
allo Stato, eleva degli indicatori – dei fattori circoscrivibili e misurabili
quali sono la legalità e la sicurezza – al grado di valore-concetto. È
un’operazione di astrazione, con la quale si idealizza uno specifico stato delle
cose e/o un obiettivo strategico. Tale operazione mira anzitutto a produrre un
immaginario o a colonizzarne uno già esistente; il suo fine ultimo, invece, può
essere individuato nella costruzione del consenso, o – in maniera più sottile –
nella produzione delle condizioni meno favorevoli all’emersione del dissenso. La
mistificazione consiste per l’appunto in una sorta di rovesciamento, che è prima
sintattico e poi sociologico: in una condizione di effettiva democraticità,
legalità e sicurezza sarebbero concepiti e adoperati come due semplici
variabili, due categorie descrittive che misurano, in termini qualitativi e
quantitativi, un oggetto dell’indagine, uno fra i numerosi oggetti empirici di
cui può disporre un campo di ricerca, come la qualità e la quantità di
specifiche condotte criminose, o, più precisamente, la corrispondenza fra
precise condotte e le tipologie di reato codificate dal diritto. Detto ciò,
l’oggetto empirico – l’adozione di una condotta legale o illegale, ad esempio –
si conferma, il più delle volte, come un effetto, una conseguenza. Esso ha poco
o nulla a che vedere con la valenza “pedagogica” del binomio legalità/sicurezza
o con l’adesione a tali concetti-valore. Al contrario, l’adozione di una
condotta “illegale” può scaturire dalla convergenza di molteplici fattori,
quindi dell’azione, più o meno congiunta, di molteplici fenomeni. Sulla base
dell’impatto o dell’andamento che tali fenomeni registrano in un dato contesto
sociale potrà derivare, invero, una specifica condizione di legalità/illegalità
o sicurezza/insicurezza, né più né meno.
Riflettiamo. In un dato luogo, a partire da specifiche condizioni
socio-economiche – tasso di occupazione; livello di produttività; qualità delle
condizioni contrattuali etc. – si potrebbe registrare un determinato “grado” di
legalità e sicurezza, non certo il contrario. La penuria materiale, il
logoramento progressivo e costante delle condizioni di vita possono spingere, o
costringere, coloro che versano in tali condizioni ad adottare condotte che
violino il principio di legalità. Si tratterebbe, in molti casi, di stratagemmi
o espedienti per poter vivere, o sopravvivere, appena al di sopra di quella
soglia che separa la dignità dall’indecenza.
Al contempo, nel medesimo luogo, precise condizioni socio-politiche – corruzione
della classe politica e dei colletti bianchi; scambio voto/lavoro; privilegi di
ceto connessi a specifici esiti elettorali e rapporti economici etc. –
potrebbero generare o esacerbare un forte rancore sociale. Tale risentimento,
connaturato a una specifica condizione di esclusione sociale, potrebbe
registrare, a sua volta, una significativa incidenza sull’emersione di
molteplici condotte “devianti”, e dunque sul “grado” di illegalità e insicurezza
che caratterizzano il contesto sociale considerato.
In ultimo, specifiche scelte di economia pubblica e welfare – disinvestimento
nell’edilizia popolare; espansione della sanità privata a discapito della sanità
pubblica; gestione iniqua delle principali fonti di vita (risorse idriche ad
esempio) – potrebbero generare o accrescere una concorrenza cinica, spietata,
fra coloro che non hanno accesso a un reddito minimo, a una dimora stabile e a
prestazioni sanitarie di base o specialistiche. Le penuria e la scarsità delle
risorse alimenterebbe conflitti laceranti fra le classi subalterne, fra
proletari e sottoproletari. Va da sé che in questa lotta “fratricida” –
combattuta, attualmente, in molte periferie delle città italiane – possano
emergere condotte criminose.
In definitiva, tutte le variabili e le dinamiche passate in rassegna possono
co-determinare specifici livelli di legalità e sicurezza. Legalità e sicurezza
sono i risultati, gli effetti, di queste complesse combinazioni. Ridimensionare
o escludere dal discorso fondamentali variabili di carattere
economico-produttivo, sociopolitico, amministrativo-partitico e imprenditoriale,
a favore di un indottrinamento alla legalità e alla sicurezza – intese come a
priori, come concetti-valore che, di per sé, possono e devono essere imposti in
termini pedagogici e propagandistici – non fa che certificare uno scivolamento
autoritario, dalla chiara impronta mistificatoria. Lungo questo crinale si
assiste dunque alla imponente e assillante generazione di un feticcio: legalità
e sicurezza avrebbero, in sé, un valore intrinseco e inalienabile, in grado di
garantire condotte sociali “accettabili”, ergo compatibili con quanto il diritto
penale e l’esecuzione penale approvano o, per converso, deplorano. Si tratta, in
tal caso, di una mistificazione ideologica, poiché il discorso rovescia, o
meglio occulta, l’effettivo nesso tra cause ed effetti, elevando gli effetti –
legalità e sicurezza – ad assiomi, a concetti-valore da inculcare. Tale lavorio
ideologico misconosce le serie di cause e concause da cui dipendono, nei fatti,
specifiche determinazioni storiche e sociali, come la forma e il grado di
legalità o sicurezza in un dato luogo e in un dato momento, ad esempio. Il
carattere elusivo di questa manipolazione lascia innominati una serie di
significanti che uno stato realmente democratico potrebbe, e dovrebbe, elevare a
concetti-valore. È il caso dell’equità, ad esempio. L’equità potrebbe essere
“idealizzata” e collocata in questa posizione apicale. Un valido corollario
dell’equità potrebbe essere composto dalle seguenti categorie concettuali:
soddisfazione dei bisogni primari, giustizia sociale e parità dei diritti.
Nel verso opposto, quando al rango di concetti-valore sono collocati la legalità
e la sicurezza, giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza alla
forza-lavoro, riconoscimento dei diritti alle minoranze, accesso alle risorse
vitali (acqua, cibo, casa) subiscono, il più delle volte, effetti regressivi.
Retrocedendo, divengono fattori opzionali, e in quanto tali sono facilmente
eliminabili, giacché l’operazione ideologica dello stato sovrastima,
indefinitamente, l’incidenza positiva che i valori-concetto di legalità e
sicurezza avranno sulle condotte individuali e collettive. Tale pedagogia è
imposta sulla base di una subdola e malcelata consapevolezza: sono specifiche
logiche di mercato, condizioni economiche, sociali e politiche che, in verità,
producono, in misura differente ma combinata, determinate condotte legali o
illegali. In spregio a tali evidenze, legalità e sicurezza sono altresì
ricostituite come un valore-concetto dal segno esclusivamente positivo. Ad oggi
è altamente improbabile che tale segno possa essere messo in discussione, a meno
che non siano le classi subalterne a riqualificare la collocazione, l’incidenza
e la funzione dei termini “legalità” e “sicurezza”.
In conclusione, cosa suggerisce tutto ciò? La legalità e la sicurezza dei
cittadini vengono prima di ogni altra cosa. È da manuale lo slogan adottato dal
sindacato autonomo di polizia e dalla dirigente scolastica dell’Isis
Fermi-Mattei di Isernia. È un messaggio che arriva immediatamente alla pancia,
che sollecita un primitivo bisogno di autoconservazione. Nel binomio
legalità/sicurezza, il primo termine è assorbito dal secondo, in una voragine di
pulsione sicuritaria.
Slogan di questo genere sono il peggior veleno per la democrazia, poiché parlano
al nostro istinto e dunque trovano una prima, istantanea, accoglienza: tutti
siamo spaventati dalla mancanza di sicurezza, e una promessa sicuritaria,
istintivamente, ci rassicura. Ma in questo modo il corpo della democrazia
assimila gradualmente uno spirito che gli è contrario, e questo spirito,
lentamente, la corrompe, la svuota dall’interno, come il più letale dei mali.
Non è vero che la legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni
altra cosa. Non è questa la democrazia. Non è questo lo stato di diritto. Se per
legalità si intende il rispetto della legge, in un’effettiva democrazia esso non
è l’elemento, il valore-concetto, che precede ogni altra cosa: una legge è
sempre e solo la volontà espressa dalla maggioranza; la democrazia non dovrebbe
essere il regime in cui comanda la maggioranza, ma quello in cui sono tutelate
le minoranze. Nel gioco delle parti, la legge è sì espressione della volontà
della maggioranza, ma essa non può negare i princìpi della dignità della persona
e i suoi corollari, così come fissati nell’assiologia costituzionale. Dunque non
è il rispetto della legge – la legalità – a precedere ogni altra cosa, ma il
rispetto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fissati in Costituzione.
Quanto all’altro polo dello slogan – la sicurezza –, sì, certo, la sicurezza
costituisce una priorità, ma occorre essere cauti: la sicurezza non può essere
ridotta alla mera tutela dell’integrità fisica delle persone; quest’ultima
dimensione ne costituisce certamente una misura minima, ma non esclusiva. Del
resto, tale sicurezza potrebbe essere garantita anche in un regime autoritario,
in un regime oppressivo. Si può essere “sicurissimi”, sotto questo punto di
vista, anche in un regime di privazione assoluta della libertà. La sicurezza cui
mira la nostra democrazia è invece un’altra cosa; essa è la sicurezza sociale a
cui si riferisce l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
paese».
E di questa sicurezza chi ne parla più? È forse il caso di sottoporre tale
quesito al sindaco di Isernia, Piero Castrataro, così che possa riflettere
sull’assennatezza e sulla validità delle proprie riflessioni. Secondo il primo
cittadino di Isernia è stata «una scelta vincente quella di coinvolgere gli
studenti dei tre istituti superiori della città» nella celebrazione del decimo
congresso provinciale del sindacato autonomo di polizia.
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Mentre non è ancora morto il Poteve Opevaio, schiere di sfruttati continuano a
prendere il bus al volo
di Marco Sommariva da Carmilla
Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il
giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle
sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a
festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una
versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico
L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di
color correction.
Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio scrive per “L’Europeo”, un settimanale
d’attualità edito da Rizzoli pubblicato sino al 2013; diventerà un libro nel
1971, quando lo stesso editore del settimanale gli proporrà di raccogliere
queste storie in volume.
Nella premessa del libro datata luglio 1971, l’attore genovese scrive: “Con
Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione
della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o
sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con
onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per
sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi. Nel suo mondo il
padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società,
il mondo. E di questa struttura lui ha paura sempre e comunque perché sa che è
una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai
abbastanza. Questo per lo meno qui da noi. Ma questo rischia di diventare un
discorso politico troppo serio per uno «scherzo» quale deve essere tutta questa
faccenda del «libro» e mi fermo qui”.
Era ed è sì un discorso politico: lo era allora, quando sul viso di Fantozzi
ritrovavamo tutte le sconfitte dell’impiegato medio italiano, non una
caricatura, ma una discarica pubblica dove ci si alleggeriva tutti, in cui si
evacuavano le risate amare che le nostre facce da culo producevano guardando le
genuflessioni del Ragionier Ugo davanti allo stesso Megadirettore Galattico che
ci aspettava l’indomani in ufficio, al quale rispondevamo “faccio subito”
intanto che speravamo che qualcuno gli sparasse nelle gambe; lo è al giorno
d’oggi, mentre una struttura-società che non ha bisogno di noi e non ci
difenderà mai abbastanza, ci sta sfruttando con quella viscida delicatezza che
cinquant’anni fa ancora non esisteva, che prevede di non prenderci a
manganellate perché, con gli anni, è stata capace di convincerci che dobbiamo
essere noi a manganellare i nostri pari che non seguono le direttive dei potenti
– non a caso, nella stessa premessa l’autore ci consiglia coi potenti “di essere
vischiosi, servili e sempre d’accordo anche su posizioni «fasciste»”, un po’
come certi conduttori televisivi che da decenni non riusciamo a scollarceli di
dosso, regnanti indiscussi di squallidi studi televisivi consacrati alle
celebrazioni del regime.
Sul manganellare i nostri pari, Villaggio aveva capito che era un processo già
iniziato: “[…] la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena
nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un
bicchiere di vino ristoratore. Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma
si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce
all’uomo degli ultimi centovent’anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto
e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c’erano moltissimi impiegati
ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la
direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica
caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi
abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti”.
A differenza dei tanti comici che proliferano nei numerosi spettacoli d’oggi
creati apposta per far ridere il pubblico e che sempre più raramente raggiungono
l’obiettivo, Villaggio non ci parla di una zona dell’Italia – siciliani o
calabresi “contro” milanesi, nordisti “contro” sudisti, apologie del romanesco,
napoletano, toscano, eccetera – non ci parla di uomini “contro” donne e
viceversa – i primi che sporcano di pipì la seduta del water, le seconde che
sono intrattabili in “quei giorni” – no, Villaggio non ha alcuna intenzione di
anestetizzarci con queste fesserie che fingiamo di credere esistere ancora
ridendo fintamente a crepapelle perché intorno a noi altri fanno la stessa cosa,
no, Villaggio ci parla dell’autobus preso al volo perché cinquant’anni fa si
provava a dormire sino all’ultimo minuto dopo giornate snervanti già allora per
la mancanza di senso, che mi ricordano molto da vicino la vita che fanno certe
dipendenti della cooperativa che ha in appalto la pulizia degli uffici dove
lavoro che, stremate dalla giornata lavorativa precedente, alle cinque del
mattino prendono al volo il primo di tre autobus che, dopo un’ora e mezza di
viaggio, le porterà a svuotarmi nuovamente il cestino chiedendomi scusa per il
disturbo, e il tutto per un pugno di euro all’ora, lo stesso che a volte mi
capita di dare in elemosina a Yassir, il ragazzo bengalese che mi riporta a
posto il carrello vuoto, dopo che ho riempito l’auto coi sacchetti della spesa,
situazione che a volte mi fa sentire come il Megadirettore Galattico Duca Conte
Maria Rita Vittorio Balabam, il Direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani o
un altro qualsiasi feroce padrone o amministratore delegato: è un attimo saltare
dall’altra parte della barricata senza neppure accorgersene.
Se è vero che 1984 di Orwell fu un romanzo premonitore, vedete se vi dice
qualcosa dei nostri giorni questo estratto del libro Fantozzi: “Cominciò […] una
discussione tra giovani sulla contestazione studentesca e l’intervento americano
in Vietnam. Fantozzi credeva di essere nel covo della reazione: ma con suo
grande stupore s’accorse che più quei gran signori erano bardati con orologi
Cartier e brillanti (con uno solo dei quali lui avrebbe vissuto senza patemi il
resto dei suoi giorni) più erano su posizioni maoiste. La maggior parte, giudicò
Fantozzi, era a sinistra del partito comunista cinese. […] L’indomani mattina
lui “timbrava” alle 8: pensando a quei giovani sovversivi che si sarebbero
svegliati a mezzogiorno, gli si confondevano le idee”.
Questo è Fantozzi; Villaggio, invece, nella biografia in quarta di copertina
della seconda edizione del libro, datata 1981, si definisce “figlio di padre
ricchissimo” e per questo “a sinistra del partito comunista cinese”, non solo,
sostiene che “a Roma ha fondato con un gruppo di nobili una frangia politica di
estrema sinistra molto “in” che si chiama «POTEVE OPEVAIO»”.
Il libro Fantozzi era anche confortante; alla rabbia di mio padre che
bestemmiava nel leggere dell’ennesima apparizione mariana a una contadina
quattordicenne, piuttosto che a dei bambini impegnati a sorvegliare un gregge o
a una bambina belga, il concittadino e quasi coetaneo Paolo Villaggio rispondeva
così: “Un giorno c’era un tale caldo che a Fantozzi alle undici del mattino,
mentre era in cucina che faceva correre un po’ d’acqua per bere, comparve
improvvisamente la Madonna. Era in piedi sull’acquaio e gli sorrideva, poi
scomparve. “Sarà questo maledetto caldo” si disse: e decise di raggiungere la
moglie in campagna. Mentre si preparava per il viaggio si domandava perché mai
la Madonna per il passato si sia limitata a comparire a pastorelli
semianalfabeti e in zone montuose, e mai per esempio a Von Braun, al Centro
Spaziale di Houston durante una riunione della NASA. Non ricordava infatti di
aver mai letto sui giornali notizie di questo tipo: “Ieri alle 16,30 la Santa
Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di
studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di “meccanica
applicata alle macchine”. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è
svenuto di fronte a duecento studenti”.
Il libro Fantozzi è ancora confortante; alla mia rabbia condita di bestemmie che
fa seguito all’ascolto di boiate pazzesche tipo quella espressa da due signore
bionde col fisico scolpito che, d’estate, alla spiaggia, lamentano il “sold out”
– a giugno! – nelle “location” più “in” di New York che le costringerà a
trascorrere il Capodanno da un’altra parte, mentre una donna africana larga
quanto le due messe assieme passa loro accanto stracarica di mercanzia che
nessuno vuole, le pagine del libro mi consolano così: “A un’ora da Roma,
Fantozzi andò in corridoio a fumare. C’erano due bambini molto belli biondi,
figli di ricchi: tutti i figli dei ricchi sono biondi e uguali, i figli dei
braccianti calabresi sono scuri, disuguali e sembrano scimmie. Erano dei bambini
molto educati e non facevano rumore. Una baby-sitter americana bionda li
custodiva. Uscirono dallo scompartimento le madri. Erano molto giovani, molto
belle, molto ricche, molto profumate, molto eleganti e molto abbronzate:
venivano da due mesi sulla neve a Gstaad in Svizzera e parlavano della gente che
c’era lassù. Fantozzi le guardava con la bocca semiaperta. Le due donne
cominciarono a parlare delle loro prossime vacanze al mare ed erano un po’ in
pensiero perché non sapevano più dove andare: dovunque ormai andassero, dalla
Corsica alle isole Vergini, trovavano della gente orribile. Fantozzi si commosse
quasi per il dramma di quelle poverette. Il treno entrò alla stazione Termini.
Sulla banchina c’era una tragica lunga fila di terremotati siciliani del Belice.
Erano seduti sulle loro valigie di cartone […] e guardavano muti il vuoto. Una
delle due signore disse: “E’ stato un anno davvero disgraziato!”. “Meno male”
pensò Fantozzi “che si occupano di questi poveracci!”. “Perché?” domandò
l’amica. E l’altra: “Perché non abbiamo mai avuto a Gstaad una neve così poco
farinosa!”
Perché mi consolano queste pagine? Perché avere testimonianza scritta che figure
così mostruosamente stronze già esistevano più di mezzo secolo fa e che, quindi,
certi orrori non sono solo frutto degli sfaceli della mia generazione, solleva
un poco il morale: lo so, non sono messo bene.
Perché la mia generazione, e pure quella dopo, di errori ne ha fatti veramente
tanti, nonostante gli ammonimenti ricevuti da cinema e letteratura; avvertimenti
che, ancor oggi, continuano a esser lanciati vista la produzione di Scissione,
una serie televisiva statunitense del 2022 dove gli impiegati di una ditta non
conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, sono
solo schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro
precluso. Allo sceneggiatore televisivo e produttore statunitense Dan Erickson,
l’idea gli è stata ispirata da certe sue deprimenti esperienze lavorative
giovanili maturate in ambito impiegatizio, un po’ come Paolo Villaggio quando,
da giovane, lavorava all’Italsider di Genova come impiegato e iniziava a mettere
in cantiere certe idee, ma per saperne di più su Scissione v’invito a leggere
questo pezzo di Walter Catalano: Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli
incubi di Fantozzi.
Conforto, consolazione, riconoscenza, ecco quello che raccolgo dal genio di
Paolo Villaggio, e non sono il solo; scriveva Oreste Del Buono nell’introduzione
al libro: “L’ultima apparizione di Paolo Villaggio a cui ho assistito in
televisione quasi mi ha fatto piangere per la riconoscenza. La riconoscenza per
chi si sobbarca il peso di tutti i diseredati dell’aspetto e del gesto, di tutti
gli umiliati e offesi dalla propria bruttezza e goffaggine, di tutti i mutilati
del pensiero e della prassi, dell’affabilità e della sintassi. Si era sotto le
feste di Natale, magari alla viglia stessa. Avevano chiamato Paolo Villaggio in
televisione per commentare insieme natività e austerità, un miscuglio di moda
nel nostro disgraziato paese”.
Chi aveva invitato l’attore genovese s’aspettava da lui un po’ d’umorismo, ma
sbagliò i suoi conti: Villaggio si presentò trasandato, malmostoso e, parlando
con piglio truce, disse “controvoglia una sgradevolezza dopo l’altra” e prese a
parlar male di se stesso, perché quello aveva da dire – Paolo Villaggio non
fingeva mai.
A proposito di Natale, leggete quest’altro estratto del libro Fantozzi: “A casa
la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno
sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse:
“Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con
violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra
rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi,
nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande
dignità”.
Quella dignità che perdiamo quando siamo preda della sindrome da consumo; ossia,
quasi sempre.
Villaggio fa cenno al boom consumistico in un’intervista rilasciata alla
Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è
vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla
televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo
preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo
determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!,
che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave
consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e
contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma,
tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è
incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale
chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale
entrasse in crisi”.
Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in
seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui
l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi
energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per
uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza
prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che
terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari.
Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo
determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a
rallentare.
E se pensate che anche andare a vedere la versione di Fantozzi rimessa a nuovo
faccia parte di questo circolo vizioso, quello del consumare e del vivere
secondo determinati schemi, vi rispondo che andrò ugualmente a vederlo
lasciandovi alla vostra erre moscia e a quella cagata pazzesca de La corazzata
Potëmkin.
E mentre mi si azzera la salivazione per l’emozione dovuta a questa mia
intransigente presa di posizione, già sento iniziare lo scroscio dei novantadue
minuti di applausi che mi renderanno immortale.
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