Puntata 72 di Universo Sonoro con Manu DubSide DJ Isaro’
Kumina Beat & special guest Paolino
Ringraziando chi l’ha fatta, riceviamo e pubblichiamo questa importante
traduzione:
Qui l’originale: Take Action: Demand Heba is moved to HMP Bronzefield –
Prisoners For Palestine
https://prisonersforpalestine.org/take-action-demand-heba-is-moved-to-hmp-bronzefield/
Agisci: chiedi che Heba venga trasferita all’HMP Bronzefield
Heba Muraisi è al 56° giorno di sciopero della fame. Chiede di essere trasferita
nuovamente all’HMP Bronzefield [carcere femminile di Bronzfieldt, ndt]
Heba si sente isolata perché è stata trasferita a chilometri di distanza dalla
sua famiglia e dalla sua comunità a Brent, Londra. Il viaggio è troppo lungo per
la sua famiglia. Sua madre non è in grado di percorrere i 286 chilometri che
separano Londra da Wakefield a causa delle sue condizioni di salute e non vede
sua figlia da oltre 4 mesi.
In ogni caso, le visite sono raramente approvate nell’HMP New Hall. Anche i
propri cari che sono in grado di viaggiare non hanno potuto visitare Heba.
Agisci
Contatta oggi stesso l’HMP Bronzefield e chiedi che accettino la richiesta di
trasferimento. Di seguito i recapiti:
01784 425690: Numero principale
01932 232300: Numero di telefono alternativo
charlotte.wilson@sodexogov.co.uk
bf.correspondence@sodexogov.co.uk
bfsafercustody@sodexogov.co.uk
socialvisits.bronzefield@sodexojusticeservices.com
HMPPSPublicEnquiries@justice.gov.u
La seconda di una serie di puntate di Harraga – trasmissione in onda su Radio
Blackout ogni venerdì alle 15 – in cui proviamo a tracciare un fil rouge che
dalla Palestina riporti alle logiche e alle dinamiche coloniali occidentali nei
nostri contesti, che sfruttano e opprimono le persone razzializzate, tanto in
Palestina quanto in Italia.
L’obiettivo non sta tanto nel definire somiglianze e divergenze nelle forme di
repressione ed oppressione, al di qua e al di là del Mediterraneo, ma
individuare piuttosto terreni comuni capaci di tenere insieme le lotte: non solo
nella teoria politica, ma anche e soprattutto nella materialità in cui si
manifestano.
Nel riconoscere la colonia nei nostri contesti, il tema di questa seconda
puntata parte dall’approfondimento della storia e delle forme che assumono i
campi di lavoro dei distretti agroindustriali in Italia, grazie alla diretta con
una compagna della rete Campagne in Lotta. Il sistema-campo qui prende la forma
di un arcipelago di forme abitative formali e informali, create per contenere la
forza lavoro e la sua mobilità in chiave estrattiva. Un modello che si è andato
formando dalla fine degli anni 80, con l’incremento significativo di
immigrazione e di richiesta di manodopera nei distretti agroindustriali, ma la
cui storia e genealogia è molto precedente ed è andata di pari passi passo con
quella coloniale e di formazione di un’economia capitalista ed estrattivista, in
particolare del Sud. I campi sono le struttura che l’istituzione crea a scopo
contenitivo e di controllo, che si possono presentare come un campo
“umanitario”, ad esempio un centro d’accoglienza. Ghetto è la definizione che
chi lo abita gli dà, uno spazio fatto anche di forme di organizzazione,
socialità e solidarietà che vanno molto ad là del controllo istituzionale.
Nell’andare a fondo dell’argomento non si può che affrontare una delle
manifestazioni più evidenti della colonia: i processi di frammentazione o
campizzazione dei territori. Analisi che si collega al concetto di
“arcipelago Palestina”, un processo di frammentazione dei territori palestinesi
iniziato da Israele nel 1948 e che oggi si manifesta in primis nella divisione
territoriale (territori del ’48, Cisgiordania, Gaza, campi profughi e diaspora),
funzionale al controllo della mobilità, al contenimento e alla carcerazione
della popolazione palestinese, così come all’appropriazione di nuovi territori,
ma il cui tentativo (spesso fallito) risiede anche nella frammentazione del
tessuto sociale palestinese, anche attraverso la moltiplicazione di status
giuridici. Una pratica che alle nostre latitudini richiama i vari livelli di
cittadinanza, tra chi ha o meno un permesso di soggiorno, e di quale tipo.
La componente umanitaria, delegata alla gestione/oppressione delle persone in
questi territori, rappresenta un tassello chiave dell’impianto razzista statale:
dal ruolo di vari attori del terzo settore nella pacificazione ai fini della
capitalizzazione sulla pelle delle persone immigrate nei campi di lavoro come
nei lager di stato – alle ONG che operano nei ghetti dell’agroindustria o in
Palestina, che creano una completa dipendenza da “aiuti umanitari”, portando ad
uno svilimento delle istanze di lotta di chi questi territori li abita.
Tracciare la genealogia di alcuni campi di lavoro del Sud Italia ci permette
anche di delineare alcune retoriche fondamentali del colonialismo, attuate sia
qui, nei confronti del Sud Italia, sia in Palestina: la conquista delle terre
giustificata dall’idea di averle rese produttive e fertili, assieme al
trasferimento forzato di ampie masse di popolazione locale, trasformandole in
nomadi, fornendo così un’ulteriore legittimazione all’occupazione dei territori.
Ricostruire una genealogia del sistema campo in Italia ci aiuta a puntualizzare
quanto il concetto di colonia non sia delegabile esclusivamente a territori al
di fuori dei confini nazionali ma si manifesti anche qui, tanto nelle sue forme
oppressive quanto in quelle di lotta e resilienza.
Per ascoltare il primo episodio della serie: “La detenzione amministrativa come
manifestazione della colonia, in Palestina e nei CPR”
La seconda di una serie di puntate di Harraga – trasmissione in onda su Radio
Blackout ogni venerdì alle 15 – in cui proviamo a tracciare un fil rouge che…
Perquisizioni e misure cautelari contro studenti del liceo Einstein a Torino.
Sei minorenni ai domiciliari Questa mattina la Questura di Torino ha effettuato
una serie di perquisizioni domiciliari culminate nell’applicazione …
Questa mattina la questura di Torino ha effettuato perquisizioni a casa di
giovanissimi con la conseguente applicazione di 6 misure cautelari ai
domiciliari. Giovani che hanno preso parte alla mobilitazione di massa con lo
slogan “Blocchiamo tutto” che ha visto manifestazioni oceaniche, blocchi nei
principali snodi della logistica e delle infrastrutture dei trasporti, scioperi
effettivi dalla fabbrica della guerra, estesa a tutto il nostro territorio
nazionale. Il governo Meloni ha tentennato e ha avuto la dimostrazione che la
popolazione non è disponibile a rendersi complice del genocidio in Palestina e
ad arruolarsi nella guerra di domani. Per questo, dopo pochi mesi, la morsa
inizia a stringere laddove si individua che possa fare più male. Creare un
precedente come questo, selezionando scientificamente persone minorenni che
frequentano collettivi studenteschi e hanno partecipato, insieme ad altre
migliaia di giovani, alle manifestazioni dell’autunno è un colpo vile che va
nella direzione di voler recidere alla base una prospettiva futura fatta di
legami di solidarietà per costruire un vivere migliore.
Di seguito pubblichiamo il comunicato dell’Assemblea Studentesca di Torino
Questa mattina ci siamo svegliati con la notizia di 6 nostri compagni di scuola
minorenni sottoposti a perquisizioni e agli arresti domiciliari come misura
cautelare, in risposta alle mobilitazioni del movimento “blocchiamo tutto”,
contro la complicità del governo Meloni nello sterminio dei palestinesi, che ha
preso piede in tutta Italia durante l’autunno.
Al centro dell’indagine, la contestazione alla giovanile del primo partito di
governo, che portava avanti un volantinaggio di propaganda razzista davanti al
liceo Einstein.
Durante le occupazioni di tutte le scuole d’Italia nelle quali i giovani si sono
resi protagonisti del movimento per la Palestina, alla polizia è stato ordinato
di recarsi davanti al Liceo Einstein per difendere il volantinaggio,
manganellando gli studenti che protestavano, ammanettando un minorenne. La
risposta da parte di professori, genitori, studenti di tutte le scuole e della
città intera è stata immediata e di massima solidarietà e sdegno verso le
modalità repressive del governo.
Quello che viene fatto passare come un caso isolato rientra perfettamente
all’interno di un piano di disciplinamento giovanile funzionale alla
preparazione della società e delle scuole ad un clima di guerra.
I messaggi d’odio portati avanti dai volantini che il governo tiene tanto a
difendere sono uno degli strumenti che questo usa per riaprire una divisione tra
popoli che si era superata con il movimento per la Palestina.
Tra i motivi degli arresti i blocchi delle stazioni, avvenuti mentre in tutta
Italia si bloccavano porti, autostrade, e blocchi della logistica di guerra.
Nel giorno in cui si vota la legge finanziaria, che aumenterà la spesa bellica
di 23 miliardi nei prossimi tre anni, e mentre il governo si prepara alla
reintroduzione della leva per i giovani, questi arresti domiciliari nei
confronti di studenti giovanissimi, non sono casuali, ma una chiara
intimidazione ai giovani che si sono mobilitati: non c’è spazio nelle scuole per
organizzarsi contro la guerra!
Il governo si trova in una situazione complicata e per questo attua misure così
aspre, in tutto ciò sappiamo bene che non possiamo fermarci davanti a questo, la
posta in gioco è troppo alta. Continueremo ad andare a scuola e a porci le
stesse domande sul nostro futuro a testa alta, perchè liberare tutti vuol dire
lottare ancora.
Vogliamo la liberazione immediata di tutti i compagni!
INTIFADA FINO ALLA VITTORIA.
CAPODANNO NOTAV
Nuovo presidio San Giuliano - San Giuliano di Susa
(mercoledì, 31 dicembre 20:30)
CAPODANNO NO TAV AL PRESIDIO DI SAN GIULIANO!
Ore 20,30 cena condivisa - porta ciò che vorresti trovare!
Ore 23,00 partenza dal Presidio di San Giuliano per brindare iniseme al nuovo
anno in tutti i presidi No Tav!
A seguire musica al Presidio di San Giuliano
https://www.facebook.com/notav.info
Tra cambiamenti culturali e politici, notizie di costume e di guerra,
ripercorriamo questi primi venticinque anni del secolo e del millennio:
(disegno di cyop&kaf)
GENNAIO
“Vi dovete integrare!”. Critica dei discorsi conservatori dopo la morte di Ramy
Elgaml
La parola integrazione, infatti, è talmente diffusa che il suo uso è scontato e,
di fatto, normalizzato. Anche in contesti progressisti, dove tutt’al più si
fanno distinguo ma non si mette in discussione l’idea che “ci si debba
integrare”. La mia visione radicalmente critica della parola integrazione è
dovuta al fatto che il suo significato è interpretato in termini
prevalentemente, per non dire esclusivamente, culturalisti. Integrarsi, in
sostanza, equivale a mettere da parte la propria cultura – di base concepita
come “nazionale” – per accettare quella del paese di arrivo. Questioni materiali
come le diseguaglianze economiche e giuridiche – banalmente, la dipendenza da un
permesso di soggiorno per poter vivere in modo stabile in un luogo –, le
asimmetrie di potere, la segregazione occupazionale e abitativa non sono prese
in considerazione o, quantomeno, non sono considerate centrali. La partita
dell’integrazione si gioca al tavolo della cultura. Come se le persone fossero
portatrici di una sorta di abito culturale ben definito e identificabile,
trasmesso loro dalla famiglia di appartenenza, la quale, a sua volta, non
sarebbe altro che l’espressione coerente di valori e comportamenti tipici della
comunità nazionale di provenienza. (leggi l’articolo)
FEBBRAIO
La sentenza sulla Terra dei Fuochi e l’archivio delle lotte ambientali
Tra le calunnie mosse agli attivisti e ai comitati campani dai vari carrozzoni
politici e mediatici che hanno presieduto allo svolgersi di uno dei più grandi
disastri ambientali della storia italiana, le più infamanti erano due: “Siete
manovrati dalla camorra” e “Se vi ammalate è colpa dei vostri stili di vita”.
Noi che ci siamo stati sulle discariche, che abbiamo denunciato la camorra e lo
Stato in ogni sede, noi che abbiamo studiato il problema nelle sue articolazioni
criminali, tossicologiche e sanitarie, sapevamo che erano accuse strumentali.
Erano modi attraverso cui governanti e pseudo-intellettuali scaricavano le
proprie responsabilità, sotterrando la verità della loro complicità o
indifferenza nel vociare della propaganda di regime, legittimando la
repressione. Nei presìdi e alle manifestazioni alle volte eravamo in pochi,
altre in tanti, molti di più di quanto i nostri avversari si aspettassero. In
ogni caso, niente di ciò che è stato fatto al suolo, all’aria e all’acqua di
quella che è diventata tristemente famosa come Terra dei Fuochi, fu ignorato o
non combattuto dalla militanza ecologica degli attivisti campani. Noi sapevamo,
e ve l’abbiamo detto in tutti i modi. (leggi l’articolo)
MARZO
La legge SalvaMilano, la fine della città pubblica e l’autocrazia
Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid
(2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è
stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente
classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della
città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del
welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è
trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata
quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che
garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici.
Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui
cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto
sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le
leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati
al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa
vita civile. (leggi l’articolo)
APRILE
Il bosco tra le piste Porsche è salvo, ma non l’ha salvato la Regione Puglia
Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti con nuove piste e impianti su
duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco
mediterraneo ed espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il consenso
della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che riconoscevano in
questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito di interesse
comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa comunitaria,
la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia della
biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della
Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri
d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico”
connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza pubblica. Infatti, alla
distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di
elisoccorso attrezzato con eliporto e strutture sanitarie, un centro
polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto riguardo
la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e Brindisi sono
sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi estivi hanno
interessato i terreni limitrofi all’anello di Porsche non hanno visto i soccorsi
di NTC. (leggi l’articolo)
(disegno di leMar)
MAGGIO
Riflessioni sul referendum per la riforma della legge sulla cittadinanza
L’ottenimento della cittadinanza formale non è sufficiente in sé per essere
considerati italiani. Lo racconta bene Salwa, ventitré anni, d’origine egiziana:
«È vero che ho preso la cittadinanza italiana ma mi guardano da straniera, da
terrorista. È vero che lo Stato mi ha riconosciuta come italiana, ma alla fine è
un pezzo di carta, la gente non mi riconosce; quindi, mi sento come se non
valesse. Dal punto di vista burocratico mi ha facilitato un sacco di cose però
non vengo vista come un’italiana quindi è una presa in giro». A causa del colore
della pelle, del nome o del cognome che si ha, della religione che si professa,
degli abiti che si indossano, molte persone, incluso chi nasce e/o cresce in
questo paese, sovente non sono riconosciute come cittadine e cittadini alla
pari, sebbene loro e spesso anche i loro genitori, se non addirittura i loro
nonni, abbiano un passaporto italiano. Una situazione di discriminazione
sostanziale che non permette a tanti e tante di sentirsi pienamente parte di un
paese di cui sono sempre più linfa vitale. (leggi l’articolo)
GIUGNO
L’incubo della sicurezza. Appunti e visioni a Torino
“Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza:
abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in
quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e
carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio
fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra
le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla
torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le
strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una
giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza
cittadinanza e diritti. (leggi l’articolo)
LUGLIO
Soluzioni semplici: costruire più case per abbassare gli affitti?
Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di più cemento, non di
leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così controintuitiva
ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché? Da una parte si
continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino per la società
e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare l’evidenza, per
esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni sia orientato a
favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a risolvere i problemi
abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste il mito della mano
invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato, spontaneo e in qualche
modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende – anche quando è così
evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi vende o affitta le case
ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di “inventare” e diffondere
una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a comprarle, non ha
strumenti di questo tipo a disposizione. (leggi l’articolo)
AGOSTO
Malinconico agosto
Facce di gente normale che incontri per strada; facce che senza volere
comunicano, parlano, si lamentano o urlano senza aprire bocca; e ti muovono
qualcosa dentro, una sensazione più forte della solita noia o delusione che
questi ritorni mi provocano. Perché colgo un’aura di malinconia che quei volti
emanano – una tristezza profonda, insondabile, eppure evidente, irredimibile.
Naturalmente nessuno evoca esplicitamente questo senso di malinconia, ognuno
tiene coscienziosamente in piedi la rappresentazione della propria vita
agostana, tra spezzoni di vacanze e complicate reunion familiari al capezzale di
vecchi con l’Alzheimer. Ma il messaggio mi arriva dentro, diretto, potente; e mi
sembra inequivocabile – frutto della misteriosa telepatia del quotidiano, quella
per cui basta incrociare uno sguardo per indovinare un dolore o un pezzo di
vita. (leggi l’articolo)
(disegno di federica pagano)
SETTEMBRE
Chiacchiere e detersivo. Manfredi cancella il piano su Bagnoli proprio mentre
dice di applicarlo
Al consiglio comunale è stata presentata una informativa del sindaco sulla
rigenerazione dell’ex area industriale e sull’organizzazione della Coppa
America di vela, che arriverà a Bagnoli nel 2027. Un’iniziativa che pone
innanzitutto una questione di metodo, considerando che da tempo immemore non si
dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più importanti della città. Il
sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non peccano di ipocrisia: su Bagnoli,
infatti, il consiglio comunale è del tutto svuotato dalle sue prerogative, che
sono assegnate al commissario straordinario (lo stesso Manfredi); il quale in
assoluta autonomia, e spalleggiato dal governo, ha fatto scelte dalla portata
storica, che hanno sì “sbloccato” l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni
amministrativo-ambientali, ma a carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste
scelte, vale la pena ricordarne un paio: la prima è la cancellazione di uno dei
punti cardine del piano regolatore, ovvero il ripristino della morfologia della
costa con una grande spiaggia libera da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la
permanenza e l’utilizzo della colmata per i cosiddetti “grandi eventi”, con
l’inaugurazione di una stagione di frizzi e lazzi che finirà per sottrarre buona
parte di quella linea di costa ai cittadini. (leggi l’articolo)
OTTOBRE
L’inizio di una cosa. Cronache e spunti dai giorni del Blocchiamo tutto
Il movimento è partito dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari
e medi. È stato alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa
ben prima del 7 ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto
al mondo più o meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo
hanno tenuto in piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è
salito di livello con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia
rappresentata dai portuali, improvvisamente coperta dai media grazie
alla Flotilla. L’esplosione di quest’ultimo mese si deve, però, anche al fatto
che potentati di ogni genere – dal terzo settore alle gerarchie universitarie,
fino al circo dello star system internazionale – hanno capito che parlare a
favore della Palestina oggi può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica.
Le manifestazioni oceaniche di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale
sulla tenuta di questa “intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La
domanda da porci è: che ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che
ruolo possiamo avere d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare,
facilitare, spingere? Che ognuno declini il “noi” come preferisce. (leggi
l’articolo)
NOVEMBRE
Oltre il banco degli imputati. La resistenza palestinese sotto processo a
L’Aquila
Di fronte a noi non si presenta una linea d’accusa chiara, coerente, dotata di
un impianto che si sostenga su basi fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a
fronte della detenzione di Anan (da oltre diciannove mesi in regime di alta
sicurezza) e di un’imputazione così pesante, quella di terrorismo internazionale
(articolo 270-bis c. p.), che pesa sulla vita dei tre imputati, non ci sia
ancora un impianto probatorio ben definito. Uno dei vulnus più importanti che ha
segnato tutta la linea accusatoria, fin dalle prime udienze, è stata la totale
mancanza di contesto geopolitico degli elementi portati in aula rispetto a ciò
che accade da anni in Palestina, alla sua lunga storia genocidaria, alla realtà
dei Territori Occupati e alla relativa struttura di apartheid e, soprattutto, al
diritto alla resistenza del popolo palestinese. Eppure, nel frattempo, non
possiamo non dire che fuori da quell’aula di tribunale non sia successo nulla.
Anzi! Sul piano politico, più di un passaggio si è intrecciato direttamente con
la storia stessa di questo processo. (leggi l’articolo)
DICEMBRE
La fiera dell’ipocrisia. Intellettuali progressisti e non violenza
Nonostante il tentativo decoloniale questi intellettuali ricadono nella
contraddizione storica che la caratterizza: nel momento stesso in cui si fanno
portavoce di parole d’ordine rivoluzionarie, partendo dalla cosiddetta
solidarietà alla lotta anticoloniale palestinese, lo fanno, di nuovo, imponendo
le categorie analitiche e discorsive dello stesso sistema che, invece, la
visione rivoluzionaria tenta di trasformare. Si fa un gran parlare, in questi
giorni, in Italia, delle pratiche di dissenso individuate da attivisti di
differenti estrazioni. La linea generale è che ogni protesta è giusta e va
sostenuta fino a quando non sfoci nella violenza. Un coro unanime dei nuovi
volti della solidarietà neoliberale si è alzato per ribadire che la non-violenza
è imprescindibile per farsi ascoltare. Condanne di vario genere e prese di
distanze non richieste si sono affrettate a spiegarci ciò che è giusto o
sbagliato, a definire cosa è violento e cosa no. Ma che cosa è la violenza? Chi
la definisce? Come si stabiliscono i parametri secondo cui giudicare? Qual è il
contesto che definisce un’azione violenta? (leggi l’articolo)
Abbiamo tradotto questo interessante articolo sullo sgombero di Askatasuna di
Iñaki Gil de San Vicente pubblicato originariamente su Resumen Latinoamericano.
Buona lettura!
La parola basca askatasuna significa “libertà” in italiano. Per il popolo basco
è un onore e allo stesso tempo una sfida vedere come uno dei centri autogestiti
più importanti d’Italia porti come emblema significativo la nostra askatasuna,
parola carica di significato rivoluzionario per ogni nazione lavoratrice che
lotti per la propria indipendenza operaia. È una sfida perché l’attacco fascista
contro il centro torinese Askatasuna ci pone la necessità di un aiuto
rivoluzionario diretto e immediato a questo centro tanto ammirato, e allo stesso
tempo perché tale aiuto inizia anche dal moltiplicarli nella nostra Euskal
Herria.
Il governo neofascista di Roma ha assaltato il centro sociale autogestito
Askatasuna di Torino, città industriale e operaia di grande importanza nella
storia della lotta di classe in Italia, già prima che i consigli operai torinesi
del 1919-1920 confermassero ancora una volta il ruolo dell’auto-organizzazione
operaia e popolare nello sviluppo del marxismo. Sotto il fascismo, la Torino
operaia si organizzava clandestinamente e nell’aprile del 1945 i partigiani
liberarono la città, così come Milano. L’antifascismo popolare era radicato
nelle classi lavoratrici torinesi e si mantenne forte fino alla fine degli anni
’80, creando reti sociali di autogestione in spazi recuperati. L’indebolimento
delle sinistre alla fine del XX secolo colpì anche queste esperienze di
contropotere popolare, ma non passò molto tempo prima che iniziasse una lenta
ripresa.
Con la nuova ondata di lotta di classe e antimperialista che sembra profilarsi
all’orizzonte, tingendolo di rosso con venti di libertà, l’antifascismo si
riorganizza in risposta alle repressioni crescenti, all’aumento del costo della
vita e all’impoverimento, alla militarizzazione e alla guerra, al disastro
socio-ecologico, ecc. Il centro autogestito Askatasuna era una conquista molto
importante per estendere questa riattivazione; per questo vogliono distruggerlo
alla radice, vogliono impedire che rinasca con maggiore forza in un altro spazio
recuperato e autogestito. Quali pericoli vede oggi il capitale in Askatasuna in
particolare e, più in generale, in questo processo che avanza dalla mera
resistenza alla costruzione di movimenti popolari che vogliono coordinare e
integrare autogestione, cooperativismo socialista, comunalismo, collettivi di
formazione e informazione critica, sindacalismo sociopolitico e organizzazioni
militanti inserite in esso, ecc.?
Ancora di più: quali pericoli vede il capitale quando questo coordinamento si
orienta con una bussola politica rivolta alla presa del potere, alla costruzione
dello Stato comunale e alla socializzazione delle forze produttive? Vediamo
dunque i quattro pericoli per l’ordine borghese che costringono questa classe a
reprimere i centri autogestiti. Essi sono: auto-organizzazione, autogestione,
autodeterminazione e autodifesa. È vero che tutti e quattro sono internamente
connessi dalla stessa lotta quotidiana, formando un’unità, ma è anche vero che
dobbiamo esporli in quest’ordine perché l’esperienza insegna che è così.
Il primo pericolo è l’auto-organizzazione, perché il popolo compie il primo
passo: unirsi, discutere, organizzarsi da sé per liberare uno spazio,
recuperarlo. Il capitale avverte il pericolo che questa auto-organizzazione si
estenda ad altre rivendicazioni quando il popolo lavoratore recupera un centro
sociale privatizzato dalla borghesia, lo riconquista e lo libera rompendo la
dittatura borghese della proprietà privata. Questo primo pericolo consiste
precisamente nel fatto che la classe dominante è consapevole delle minacce che,
per essa e per il suo potere, si aprono grazie all’effetto pedagogico di tale
conquista operaia. La borghesia vede come poco a poco si deteriori un pilastro
centrale del suo potere: la proprietà privata; vede come questo deterioramento
possa accelerarsi se la sinistra rivoluzionaria intensifica, organizza ed
estende la riconquista di proprietà requisite al capitale che passano alla
classe lavoratrice, la quale si auto-organizza per fare di questi spazi liberati
luoghi di contropotere popolare di base e iniziale, sottoposti a ogni sorta di
minacce e pressioni ma nondimeno decisi non solo a sopravvivere, bensì
soprattutto a espandersi creando reti con altri spazi.
La libertà è contagiosa, e la repressione, la paura e l’alienazione, oltre al
riformismo, sono le forme attraverso cui il potere sfruttatore tenta di
stroncare sul nascere questo contagio, di far sì che i popoli accettino
l’oppressione e rinuncino alla propria libertà. Quando un gruppo militante
espelle la borghesia da uno spazio privatizzato, socializzandolo, dimostra di
assumere il principio basilare dell’auto-organizzazione popolare: agisce al di
fuori e contro la legge della proprietà privata che regola la totalità
dell’esistenza sociale. L’auto-organizzazione sociale è presente quando agisce
contro e al di fuori di questa legge dominante che reprime ogni possibilità di
vita libera al di fuori di essa e contro di essa. I centri sociali recuperati
mostrano che tale auto-organizzazione è possibile, che è possibile agire e
pensare in modo contrario alla sottomissione obbediente alla proprietà privata.
Arriviamo qui al secondo pericolo per il capitale: quello dell’autogestione.
L’auto-organizzazione che ha liberato lo spazio recuperato di, per esempio,
Askatasuna, si fonda sulla capacità quotidiana di autogestione dello spazio
sociale riconquistato: il popolo auto-organizzato si gestisce da sé, si
organizza da sé, non dipende dalla legge del gregarismo pecorile del gregge
obbediente al capitale, bensì dalla decisione libera e critica del collettivo
che si autogestisce. L’auto-organizzazione esige infatti inevitabilmente
l’autogestione sociale generalizzata in quell’area concreta emancipata,
qualunque essa sia. Nessuna auto-organizzazione sopravvive a lungo se si
sottomette ai dettami della legge del capitale, della banca, delle istituzioni
borghesi e ancor meno del loro Stato.
La borghesia sa per esperienza che l’auto-organizzazione e l’autogestione
insegnano al proletariato i rudimenti della futura società socialista,
nonostante tutte le loro carenze e limitazioni dovute al fatto di trovarsi
all’interno dell’ordine del capitale. Un collettivo che si autogestisce
contravvenendo alla legge del mercato apprende, bene o male, i rudimenti del
futuro potere operaio; e anche se in seguito le repressioni schiacciano questo o
altri tentativi e anche se il riformismo fa di tutto per cancellarne la memoria
nel popolo, quest’ultimo può conservarne il ricordo, tanto più quando la
sinistra lo mantiene vivo grazie a sforzi quotidiani come quelli dei centri
auto-organizzati e autogestiti, come Askatasuna.
Giungiamo così al terzo pericolo per la borghesia: l’autodeterminazione. Essa
consiste nel fatto che le lotte sociali giunte a questi livelli di sviluppo
generano anche processi permanenti di autodeterminazione, perché devono decidere
da sole su tutto. Sebbene la decisione autonoma sia già presente
nell’auto-organizzazione e nell’autogestione, questo terzo pericolo si estende a
sempre più aspetti della realtà, poiché lo sviluppo del centro sociale incide
sempre di più sulla vita del quartiere, del vicinato popolare, di gruppi e
collettivi che si rivolgono al centro sociale per ricevere aiuto, di sindacati e
organizzazioni non riformiste che si integrano nelle reti sociali che facilitano
i contatti, i dibattiti, le proposte e, ciò che è decisivo, la loro messa in
pratica, la loro realizzazione concreta.
L’autodeterminazione, già presente inizialmente nell’auto-organizzazione e
nell’autogestione, finisce per superare le mura del centro sociale e per
favorire che anche altri collettivi si autodeterminino non solo negli ambiti e
nelle rivendicazioni in cui operano, ma anche in altri problemi che si collegano
ai loro. La classe operaia, con tutte le sue espressioni e forme interne, impara
progressivamente a decidere da sé su queste questioni, ad autodeterminarsi nei
propri problemi perché vede l’esempio del centro sociale autogestito e comprende
che solo il popolo salva il popolo.
Il quarto e definitivo pericolo per la borghesia, in sé il centrale, è quello
dell’autodifesa del centro sociale autogestito. Ancora una volta dobbiamo
insistere sul fatto che, sebbene le quattro dimensioni formino una sola realtà,
che ciascuna di esse si interconnetta con le altre tre creando un’unità concreta
e che la migliore difesa inizi con il buon sviluppo delle altre tre, sebbene
tutto ciò sia vero, l’aspetto decisivo è che il centro autogestito disponga
della forza e del sostegno popolare sufficienti a dissuadere la borghesia dal
tentare di chiuderlo.
L’autodifesa deve ricorrere a tutti i mezzi possibili, oltre a quelli già
menzionati: anche ai mezzi legali consigliati da collettivi di avvocati critici;
anche ai mezzi di pressione pacifica e non violenta dell’azione di masse
mobilitate in difesa del centro sociale; anche a forme non violente di pressione
in mobilitazioni specifiche all’interno della totalità autogestita. Non dobbiamo
sottovalutare l’importanza difensiva dell’informazione e dell’educazione
pubblica veritiera svolta dal centro, che mostra ciò che fa per smascherare le
menzogne e la propaganda controrivoluzionaria. Quanto maggiore sarà la
legittimità acquisita dal centro sociale, tanto maggiore sarà la sua capacità
difensiva e tanto minore sarà la legittimità della borghesia nel giustificare i
propri attacchi. E in questa legittimità operaia deve avere un’importanza
cruciale il diritto/necessità alla resistenza, alla violenza difensiva contro la
violenza ingiusta, oppressiva e sfruttatrice.
Ciononostante, l’autodifesa decisiva è quella che si inscrive in una visione
strategica di lungo periodo, quella che sa che è in corso una guerra sociale tra
la proprietà privata e la proprietà socializzata, e che in questa guerra sociale
permanente ciò che è decisivo è che la classe lavoratrice conquisti più centri
autogestiti di quanti la classe borghese riesca a distruggere. Ciò significa che
ogni centro sociale deve auto-organizzarsi affinché, se lo Stato lo chiude, ne
sorga immediatamente un altro o altri; deve cioè guidarsi secondo il principio
strategico di Che Guevara: creare uno, due…, molti Vietnam. L’autodifesa di un
centro concreto è di per sé un principio indiscutibile, ma, come diciamo, da una
prospettiva strategica rivoluzionaria, l’essenziale è che vi siano sempre più
Vietnam.
Il centro sociale Askatasuna di Torino esprime in modo magistrale il quadruplo
pericolo per il capitale rappresentato dal contropotere operaio nella sua forma
di centro autogestito, perché, in sintesi, è di questo che si tratta. Il
contropotere operaio consiste nelle forme organizzative costruite dal
proletariato che, nel proprio ambito di intervento, riescono per un certo
periodo a contenere il potere borghese e persino a sconfiggerlo in battaglie
puntuali, fino a quando lo Stato capitalista contrattacca. Forme elementari di
contropotere operaio sono, ad esempio, le imprese recuperate, le assemblee
stabili che resistono per un certo tempo, i sindacati sociopolitici e le
organizzazioni d’avanguardia che lottano apertamente contro la proprietà
privata, i mezzi di diffusione critica coordinati in rete, i centri sociali
autogestiti, eccetera.
Sono contropoteri perché, nei loro ambiti specifici, possono arrivare ad avere
la forza sufficiente per sconfiggere la borghesia conquistando le proprie giuste
rivendicazioni o obbligandola a negoziare con il collettivo interessato. Nella
lotta di classe, i contropoteri aumentano nella misura in cui il popolo
lavoratore accresce la propria coscienza e organizzazione, aprendo sempre più
fronti di battaglia nella guerra sociale. Ciò che accade è che il riformismo
nasconde e boicotta decisamente l’esistenza reale dei contropoteri, poiché
accetta solo la negoziazione capitolazionista all’interno del labirinto legale
capitalista. Da parte sua, la borghesia li reprime con tutti i mezzi di cui
dispone. La notevole capacità di mobilitazione del centro Askatasuna ha agito
frequentemente come contropotere popolare, e questa è stata la ragione
definitiva per tentare di distruggerlo: il capitale ammette un solo potere, il
proprio, nessun altro. Bisognava distruggere Askatasuna, i suoi risultati e le
sue lezioni, per impedire che sorgano sempre più Askatasuna.
EUSKAL HERRIA 26 dicembre 2025
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Di seguito alcuni comunicati di solidarietà dal mondo di lingua spagnolo:
Redazione di Insurgente.org:
https://insurgente.org/comunicado-de-solidaridad-ante-el-desalojo-del-centro-social-askatasuna-de-turin-e-info/
Nación Andaluza:
https://nacionandaluza.org/2025/12/23/nacion-andaluza-en-solidaridad-con-el-centro-social-askatasuna-de-turin/
Arborea Andaluza:
https://arborea-andaluza.org/comunicado-de-solidaridad-ante-el-desalojo-del-centro-social-askatasuna-de-turin
Argentina Coordinadora Segunda Independencia:
https://www.convocatoriasegundaindependencia.com/nota/965/SOLIDARIDAD-INTERNACIONALISTA-CON-LOS-CAMARADAS-DEL-CENTRO-SOCIAL-OCUPADO-Y-AUTOGESTIONADO-ASKATASUNA-DE-TUR%C3%8DN,-ITALIA
Cuba Informaciòn TV:
https://www.cubainformacion.tv/la-columna/20251223/119726/119726-askatasuna-de-turin-y-la-caida-del-arbol-de-navidad
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