[it, en] Sciopero della fame dei Prisoners for Palestine: appello per Heba Muraisi
Ringraziando chi l’ha fatta, riceviamo e pubblichiamo questa importante traduzione: Qui l’originale: Take Action: Demand Heba is moved to HMP Bronzefield – Prisoners For Palestine https://prisonersforpalestine.org/take-action-demand-heba-is-moved-to-hmp-bronzefield/   Agisci: chiedi che Heba venga trasferita all’HMP Bronzefield Heba Muraisi è al 56° giorno di sciopero della fame. Chiede di essere trasferita nuovamente all’HMP Bronzefield [carcere femminile di Bronzfieldt, ndt]   Heba si sente isolata perché è stata trasferita a chilometri di distanza dalla sua famiglia e dalla sua comunità a Brent, Londra. Il viaggio è troppo lungo per la sua famiglia. Sua madre non è in grado di percorrere i 286 chilometri che separano Londra da Wakefield a causa delle sue condizioni di salute e non vede sua figlia da oltre 4 mesi.   In ogni caso, le visite sono raramente approvate nell’HMP New Hall. Anche i propri cari che sono in grado di viaggiare non hanno potuto visitare Heba.     Agisci Contatta oggi stesso l’HMP Bronzefield e chiedi che accettino la richiesta di trasferimento. Di seguito i recapiti:   01784 425690: Numero principale   01932 232300: Numero di telefono alternativo   charlotte.wilson@sodexogov.co.uk   bf.correspondence@sodexogov.co.uk   bfsafercustody@sodexogov.co.uk   socialvisits.bronzefield@sodexojusticeservices.com   HMPPSPublicEnquiries@justice.gov.u
Carcere
Stato di emergenza
Babele
Riconoscere il colonialismo@1
La seconda di una serie di puntate di Harraga – trasmissione in onda su Radio Blackout ogni venerdì alle 15 – in cui proviamo a tracciare un fil rouge che dalla Palestina riporti alle logiche e alle dinamiche coloniali occidentali nei nostri contesti, che sfruttano e opprimono le persone razzializzate, tanto in Palestina quanto in Italia. L’obiettivo non sta tanto nel definire somiglianze e divergenze nelle forme di repressione ed oppressione, al di qua e al di là del Mediterraneo, ma individuare piuttosto terreni comuni capaci di tenere insieme le lotte: non solo nella teoria politica, ma anche e soprattutto nella materialità in cui si manifestano. Nel riconoscere la colonia nei nostri contesti, il tema di questa seconda puntata parte dall’approfondimento della storia e delle forme che assumono i campi di lavoro dei distretti agroindustriali in Italia, grazie alla diretta con una compagna della rete Campagne in Lotta. Il sistema-campo qui prende la forma di un arcipelago di forme abitative formali e informali, create per contenere la forza lavoro e la sua mobilità in chiave estrattiva. Un modello che si è andato formando dalla fine degli anni 80, con l’incremento significativo di immigrazione e di richiesta di manodopera nei distretti agroindustriali, ma la cui storia e genealogia è molto precedente ed è andata di pari passi passo con quella coloniale e di formazione di un’economia capitalista ed estrattivista, in particolare del Sud. I campi sono le struttura che l’istituzione crea a scopo contenitivo e di controllo, che si possono presentare come un campo “umanitario”, ad esempio un centro d’accoglienza. Ghetto è la definizione che chi lo abita gli dà, uno spazio fatto anche di forme di organizzazione, socialità e solidarietà che vanno molto ad là del controllo istituzionale. Nell’andare a fondo dell’argomento non si può che affrontare una delle manifestazioni più evidenti della colonia: i processi di frammentazione o campizzazione dei territori. Analisi che si collega al concetto di “arcipelago Palestina”, un processo di frammentazione dei territori palestinesi iniziato da Israele nel 1948 e che oggi si manifesta in primis nella divisione territoriale (territori del ’48, Cisgiordania, Gaza, campi profughi e diaspora), funzionale al controllo della mobilità, al contenimento e alla carcerazione della popolazione palestinese, così come all’appropriazione di nuovi territori, ma il cui tentativo (spesso fallito) risiede anche nella frammentazione del tessuto sociale palestinese, anche attraverso la moltiplicazione di status giuridici. Una pratica che alle nostre latitudini richiama i vari livelli di cittadinanza, tra chi ha o meno un permesso di soggiorno, e di quale tipo. La componente umanitaria, delegata alla gestione/oppressione delle persone in questi territori, rappresenta un tassello chiave dell’impianto razzista statale: dal ruolo di vari attori del terzo settore nella pacificazione ai fini della capitalizzazione sulla pelle delle persone immigrate nei campi di lavoro come nei lager di stato – alle ONG che operano nei ghetti dell’agroindustria o in Palestina, che creano una completa dipendenza da “aiuti umanitari”, portando ad uno svilimento delle istanze di lotta di chi questi territori li abita. Tracciare la genealogia di alcuni campi di lavoro del Sud Italia ci permette anche di delineare alcune retoriche fondamentali del colonialismo, attuate sia qui, nei confronti del Sud Italia, sia in Palestina: la conquista delle terre giustificata dall’idea di averle rese produttive e fertili, assieme al trasferimento forzato di ampie masse di popolazione locale, trasformandole in nomadi, fornendo così un’ulteriore legittimazione all’occupazione dei territori. Ricostruire una genealogia del sistema campo in Italia ci aiuta a puntualizzare quanto il concetto di colonia non sia delegabile esclusivamente a territori al di fuori dei confini nazionali ma si manifesti anche qui, tanto nelle sue forme oppressive quanto in quelle di lotta e resilienza. Per ascoltare il primo episodio della serie: “La detenzione amministrativa come manifestazione della colonia, in Palestina e nei CPR”  
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Torino: “Tutti liberi subito. Il governo usa la repressione contro gli studenti che si mobilitano per la Palestina”
Questa mattina la questura di Torino ha effettuato perquisizioni a casa di giovanissimi con la conseguente applicazione di 6 misure cautelari ai domiciliari. Giovani che hanno preso parte alla mobilitazione di massa con lo slogan “Blocchiamo tutto” che ha visto manifestazioni oceaniche, blocchi nei principali snodi della logistica e delle infrastrutture dei trasporti, scioperi effettivi dalla fabbrica della guerra, estesa a tutto il nostro territorio nazionale. Il governo Meloni ha tentennato e ha avuto la dimostrazione che la popolazione non è disponibile a rendersi complice del genocidio in Palestina e ad arruolarsi nella guerra di domani. Per questo, dopo pochi mesi, la morsa inizia a stringere laddove si individua che possa fare più male. Creare un precedente come questo, selezionando scientificamente persone minorenni che frequentano collettivi studenteschi e hanno partecipato, insieme ad altre migliaia di giovani, alle manifestazioni dell’autunno è un colpo vile che va nella direzione di voler recidere alla base una prospettiva futura fatta di legami di solidarietà per costruire un vivere migliore. Di seguito pubblichiamo il comunicato dell’Assemblea Studentesca di Torino Questa mattina ci siamo svegliati con la notizia di 6 nostri compagni di scuola minorenni sottoposti a perquisizioni e agli arresti domiciliari come misura cautelare, in risposta alle mobilitazioni del movimento “blocchiamo tutto”, contro la complicità del governo Meloni nello sterminio dei palestinesi, che ha preso piede in tutta Italia durante l’autunno. Al centro dell’indagine, la contestazione alla giovanile del primo partito di governo, che portava avanti un volantinaggio di propaganda razzista davanti al liceo Einstein. Durante le occupazioni di tutte le scuole d’Italia nelle quali i giovani si sono resi protagonisti del movimento per la Palestina, alla polizia è stato ordinato di recarsi davanti al Liceo Einstein per difendere il volantinaggio, manganellando gli studenti che protestavano, ammanettando un minorenne. La risposta da parte di professori, genitori, studenti di tutte le scuole e della città intera è stata immediata e di massima solidarietà e sdegno verso le modalità repressive del governo. Quello che viene fatto passare come un caso isolato rientra perfettamente all’interno di un piano di disciplinamento giovanile funzionale alla preparazione della società e delle scuole ad un clima di guerra. I messaggi d’odio portati avanti dai volantini che il governo tiene tanto a difendere sono uno degli strumenti che questo usa per riaprire una divisione tra popoli che si era superata con il movimento per la Palestina. Tra i motivi degli arresti i blocchi delle stazioni, avvenuti mentre in tutta Italia si bloccavano porti, autostrade, e blocchi della logistica di guerra. Nel giorno in cui si vota la legge finanziaria, che aumenterà la spesa bellica di 23 miliardi nei prossimi tre anni, e mentre il governo si prepara alla reintroduzione della leva per i giovani, questi arresti domiciliari nei confronti di studenti giovanissimi, non sono casuali, ma una chiara intimidazione ai giovani che si sono mobilitati: non c’è spazio nelle scuole per organizzarsi contro la guerra! Il governo si trova in una situazione complicata e per questo attua misure così aspre, in tutto ciò sappiamo bene che non possiamo fermarci davanti a questo, la posta in gioco è troppo alta. Continueremo ad andare a scuola e a porci le stesse domande sul nostro futuro a testa alta, perchè liberare tutti vuol dire lottare ancora. Vogliamo la liberazione immediata di tutti i compagni! INTIFADA FINO ALLA VITTORIA.
[2025-12-31] Capodanno NoTav @ Nuovo presidio San Giuliano
CAPODANNO NOTAV Nuovo presidio San Giuliano - San Giuliano di Susa (mercoledì, 31 dicembre 20:30) CAPODANNO NO TAV AL PRESIDIO DI SAN GIULIANO! Ore 20,30 cena condivisa - porta ciò che vorresti trovare! Ore 23,00 partenza dal Presidio di San Giuliano per brindare iniseme al nuovo anno in tutti i presidi No Tav! A seguire musica al Presidio di San Giuliano https://www.facebook.com/notav.info
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Il 2025 in dodici articoli
(disegno di cyop&kaf) GENNAIO “Vi dovete integrare!”. Critica dei discorsi conservatori dopo la morte di Ramy Elgaml La parola integrazione, infatti, è talmente diffusa che il suo uso è scontato e, di fatto, normalizzato. Anche in contesti progressisti, dove tutt’al più si fanno distinguo ma non si mette in discussione l’idea che “ci si debba integrare”. La mia visione radicalmente critica della parola integrazione è dovuta al fatto che il suo significato è interpretato in termini prevalentemente, per non dire esclusivamente, culturalisti. Integrarsi, in sostanza, equivale a mettere da parte la propria cultura – di base concepita come “nazionale” – per accettare quella del paese di arrivo. Questioni materiali come le diseguaglianze economiche e giuridiche – banalmente, la dipendenza da un permesso di soggiorno per poter vivere in modo stabile in un luogo –, le asimmetrie di potere, la segregazione occupazionale e abitativa non sono prese in considerazione o, quantomeno, non sono considerate centrali. La partita dell’integrazione si gioca al tavolo della cultura. Come se le persone fossero portatrici di una sorta di abito culturale ben definito e identificabile, trasmesso loro dalla famiglia di appartenenza, la quale, a sua volta, non sarebbe altro che l’espressione coerente di valori e comportamenti tipici della comunità nazionale di provenienza. (leggi l’articolo) FEBBRAIO La sentenza sulla Terra dei Fuochi e l’archivio delle lotte ambientali Tra le calunnie mosse agli attivisti e ai comitati campani dai vari carrozzoni politici e mediatici che hanno presieduto allo svolgersi di uno dei più grandi disastri ambientali della storia italiana, le più infamanti erano due: “Siete manovrati dalla camorra” e “Se vi ammalate è colpa dei vostri stili di vita”. Noi che ci siamo stati sulle discariche, che abbiamo denunciato la camorra e lo Stato in ogni sede, noi che abbiamo studiato il problema nelle sue articolazioni criminali, tossicologiche e sanitarie, sapevamo che erano accuse strumentali. Erano modi attraverso cui governanti e pseudo-intellettuali scaricavano le proprie responsabilità, sotterrando la verità della loro complicità o indifferenza nel vociare della propaganda di regime, legittimando la repressione. Nei presìdi e alle manifestazioni alle volte eravamo in pochi, altre in tanti, molti di più di quanto i nostri avversari si aspettassero. In ogni caso, niente di ciò che è stato fatto al suolo, all’aria e all’acqua di quella che è diventata tristemente famosa come Terra dei Fuochi, fu ignorato o non combattuto dalla militanza ecologica degli attivisti campani. Noi sapevamo, e ve l’abbiamo detto in tutti i modi. (leggi l’articolo) MARZO La legge SalvaMilano, la fine della città pubblica e l’autocrazia Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid (2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici. Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa vita civile. (leggi l’articolo) APRILE Il bosco tra le piste Porsche è salvo, ma non l’ha salvato la Regione Puglia Il piano prevedeva l’ampliamento dei circuiti con nuove piste e impianti su duecento ettari guadagnati distruggendo l’ultimo pezzo di un antico bosco mediterraneo ed espropriando terreni dei cittadini. Tutto con il consenso della Regione Puglia e dei comuni di Nardò e Porto Cesareo, che riconoscevano in questo progetto la pubblica utilità. L’area rientra in un sito di interesse comunitario e in una riserva regionale, è tutelata dalla normativa comunitaria, la Direttiva Habitat e la rete Natura 2000 per la salvaguardia della biodiversità. Normative che sono state aggirate senza il parere della Commissione europea e senza dibattito pubblico, ignorando numerosi pareri d’impatto ambientale negativi. Tutto grazie al “rilevante interesse pubblico” connesso alla salute dell’uomo e alla sicurezza  pubblica. Infatti, alla distruzione del bosco, il progetto affianca la realizzazione di un centro di elisoccorso attrezzato con eliporto e strutture sanitarie, un centro polifunzionale e un centro di sicurezza antincendi. Molto è stato detto riguardo la reale utilità pubblica di queste opere: gli ospedali di Lecce e Brindisi sono sprovvisti di piste di atterraggio e gli incendi che nei mesi estivi hanno interessato i terreni limitrofi all’anello di Porsche non hanno visto i soccorsi di NTC. (leggi l’articolo) (disegno di leMar) MAGGIO Riflessioni sul referendum per la riforma della legge sulla cittadinanza L’ottenimento della cittadinanza formale non è sufficiente in sé per essere considerati italiani. Lo racconta bene Salwa, ventitré anni, d’origine egiziana: «È vero che ho preso la cittadinanza italiana ma mi guardano da straniera, da terrorista. È vero che lo Stato mi ha riconosciuta come italiana, ma alla fine è un pezzo di carta, la gente non mi riconosce; quindi, mi sento come se non valesse. Dal punto di vista burocratico mi ha facilitato un sacco di cose però non vengo vista come un’italiana quindi è una presa in giro». A causa del colore della pelle, del nome o del cognome che si ha, della religione che si professa, degli abiti che si indossano, molte persone, incluso chi nasce e/o cresce in questo paese, sovente non sono riconosciute come cittadine e cittadini alla pari, sebbene loro e spesso anche i loro genitori, se non addirittura i loro nonni, abbiano un passaporto italiano. Una situazione di discriminazione sostanziale che non permette a tanti e tante di sentirsi pienamente parte di un paese di cui sono sempre più linfa vitale. (leggi l’articolo) GIUGNO L’incubo della sicurezza. Appunti e visioni a Torino “Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza: abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza cittadinanza e diritti. (leggi l’articolo) LUGLIO Soluzioni semplici: costruire più case per abbassare gli affitti? Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di più cemento, non di leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così controintuitiva ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché? Da una parte si continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino per la società e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare l’evidenza, per esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni sia orientato a favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a risolvere i problemi abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste il mito della mano invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato, spontaneo e in qualche modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende – anche quando è così evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi vende o affitta le case ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di “inventare” e diffondere una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a comprarle, non ha strumenti di questo tipo a disposizione. (leggi l’articolo) AGOSTO Malinconico agosto Facce di gente normale che incontri per strada; facce che senza volere comunicano, parlano, si lamentano o urlano senza aprire bocca; e ti muovono qualcosa dentro, una sensazione più forte della solita noia o delusione che questi ritorni mi provocano. Perché colgo un’aura di malinconia che quei volti emanano – una tristezza profonda, insondabile, eppure evidente, irredimibile. Naturalmente nessuno evoca esplicitamente questo senso di malinconia, ognuno tiene coscienziosamente in piedi la rappresentazione della propria vita agostana, tra spezzoni di vacanze e complicate reunion familiari al capezzale di vecchi con l’Alzheimer. Ma il messaggio mi arriva dentro, diretto, potente; e mi sembra inequivocabile – frutto della misteriosa telepatia del quotidiano, quella per cui basta incrociare uno sguardo per indovinare un dolore o un pezzo di vita. (leggi l’articolo) (disegno di federica pagano) SETTEMBRE Chiacchiere e detersivo. Manfredi cancella il piano su Bagnoli proprio mentre dice di applicarlo Al consiglio comunale è stata presentata una informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel 2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario (lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato” l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore, ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai cittadini. (leggi l’articolo) OTTOBRE L’inizio di una cosa. Cronache e spunti dai giorni del Blocchiamo tutto Il movimento è partito dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7 ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione di quest’ultimo mese si deve, però, anche al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa “intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere? Che ognuno declini il “noi” come preferisce. (leggi l’articolo) NOVEMBRE Oltre il banco degli imputati. La resistenza palestinese sotto processo a L’Aquila Di fronte a noi non si presenta una linea d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben definito. Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo processo. (leggi l’articolo) DICEMBRE La fiera dell’ipocrisia. Intellettuali progressisti e non violenza Nonostante il tentativo decoloniale questi intellettuali ricadono nella contraddizione storica che la caratterizza: nel momento stesso in cui si fanno portavoce di parole d’ordine rivoluzionarie, partendo dalla cosiddetta solidarietà alla lotta anticoloniale palestinese, lo fanno, di nuovo, imponendo le categorie analitiche e discorsive dello stesso sistema che, invece, la visione rivoluzionaria tenta di trasformare. Si fa un gran parlare, in questi giorni, in Italia, delle pratiche di dissenso individuate da attivisti di differenti estrazioni. La linea generale è che ogni protesta è giusta e va sostenuta fino a quando non sfoci nella violenza. Un coro unanime dei nuovi volti della solidarietà neoliberale si è alzato per ribadire che la non-violenza è imprescindibile per farsi ascoltare. Condanne di vario genere e prese di distanze non richieste si sono affrettate a spiegarci ciò che è giusto o sbagliato, a definire cosa è violento e cosa no. Ma che cosa è la violenza? Chi la definisce? Come si stabiliscono i parametri secondo cui giudicare? Qual è il contesto che definisce un’azione violenta? (leggi l’articolo)
notizie
Pensiero critico. Il capitale deve distruggere tutte le Askatasuna che esistono
Abbiamo tradotto questo interessante articolo sullo sgombero di Askatasuna di Iñaki Gil de San Vicente pubblicato originariamente su Resumen Latinoamericano. Buona lettura! La parola basca askatasuna significa “libertà” in italiano. Per il popolo basco è un onore e allo stesso tempo una sfida vedere come uno dei centri autogestiti più importanti d’Italia porti come emblema significativo la nostra askatasuna, parola carica di significato rivoluzionario per ogni nazione lavoratrice che lotti per la propria indipendenza operaia. È una sfida perché l’attacco fascista contro il centro torinese Askatasuna ci pone la necessità di un aiuto rivoluzionario diretto e immediato a questo centro tanto ammirato, e allo stesso tempo perché tale aiuto inizia anche dal moltiplicarli nella nostra Euskal Herria. Il governo neofascista di Roma ha assaltato il centro sociale autogestito Askatasuna di Torino, città industriale e operaia di grande importanza nella storia della lotta di classe in Italia, già prima che i consigli operai torinesi del 1919-1920 confermassero ancora una volta il ruolo dell’auto-organizzazione operaia e popolare nello sviluppo del marxismo. Sotto il fascismo, la Torino operaia si organizzava clandestinamente e nell’aprile del 1945 i partigiani liberarono la città, così come Milano. L’antifascismo popolare era radicato nelle classi lavoratrici torinesi e si mantenne forte fino alla fine degli anni ’80, creando reti sociali di autogestione in spazi recuperati. L’indebolimento delle sinistre alla fine del XX secolo colpì anche queste esperienze di contropotere popolare, ma non passò molto tempo prima che iniziasse una lenta ripresa. Con la nuova ondata di lotta di classe e antimperialista che sembra profilarsi all’orizzonte, tingendolo di rosso con venti di libertà, l’antifascismo si riorganizza in risposta alle repressioni crescenti, all’aumento del costo della vita e all’impoverimento, alla militarizzazione e alla guerra, al disastro socio-ecologico, ecc. Il centro autogestito Askatasuna era una conquista molto importante per estendere questa riattivazione; per questo vogliono distruggerlo alla radice, vogliono impedire che rinasca con maggiore forza in un altro spazio recuperato e autogestito. Quali pericoli vede oggi il capitale in Askatasuna in particolare e, più in generale, in questo processo che avanza dalla mera resistenza alla costruzione di movimenti popolari che vogliono coordinare e integrare autogestione, cooperativismo socialista, comunalismo, collettivi di formazione e informazione critica, sindacalismo sociopolitico e organizzazioni militanti inserite in esso, ecc.? Ancora di più: quali pericoli vede il capitale quando questo coordinamento si orienta con una bussola politica rivolta alla presa del potere, alla costruzione dello Stato comunale e alla socializzazione delle forze produttive? Vediamo dunque i quattro pericoli per l’ordine borghese che costringono questa classe a reprimere i centri autogestiti. Essi sono: auto-organizzazione, autogestione, autodeterminazione e autodifesa. È vero che tutti e quattro sono internamente connessi dalla stessa lotta quotidiana, formando un’unità, ma è anche vero che dobbiamo esporli in quest’ordine perché l’esperienza insegna che è così. Il primo pericolo è l’auto-organizzazione, perché il popolo compie il primo passo: unirsi, discutere, organizzarsi da sé per liberare uno spazio, recuperarlo. Il capitale avverte il pericolo che questa auto-organizzazione si estenda ad altre rivendicazioni quando il popolo lavoratore recupera un centro sociale privatizzato dalla borghesia, lo riconquista e lo libera rompendo la dittatura borghese della proprietà privata. Questo primo pericolo consiste precisamente nel fatto che la classe dominante è consapevole delle minacce che, per essa e per il suo potere, si aprono grazie all’effetto pedagogico di tale conquista operaia. La borghesia vede come poco a poco si deteriori un pilastro centrale del suo potere: la proprietà privata; vede come questo deterioramento possa accelerarsi se la sinistra rivoluzionaria intensifica, organizza ed estende la riconquista di proprietà requisite al capitale che passano alla classe lavoratrice, la quale si auto-organizza per fare di questi spazi liberati luoghi di contropotere popolare di base e iniziale, sottoposti a ogni sorta di minacce e pressioni ma nondimeno decisi non solo a sopravvivere, bensì soprattutto a espandersi creando reti con altri spazi. La libertà è contagiosa, e la repressione, la paura e l’alienazione, oltre al riformismo, sono le forme attraverso cui il potere sfruttatore tenta di stroncare sul nascere questo contagio, di far sì che i popoli accettino l’oppressione e rinuncino alla propria libertà. Quando un gruppo militante espelle la borghesia da uno spazio privatizzato, socializzandolo, dimostra di assumere il principio basilare dell’auto-organizzazione popolare: agisce al di fuori e contro la legge della proprietà privata che regola la totalità dell’esistenza sociale. L’auto-organizzazione sociale è presente quando agisce contro e al di fuori di questa legge dominante che reprime ogni possibilità di vita libera al di fuori di essa e contro di essa. I centri sociali recuperati mostrano che tale auto-organizzazione è possibile, che è possibile agire e pensare in modo contrario alla sottomissione obbediente alla proprietà privata. Arriviamo qui al secondo pericolo per il capitale: quello dell’autogestione. L’auto-organizzazione che ha liberato lo spazio recuperato di, per esempio, Askatasuna, si fonda sulla capacità quotidiana di autogestione dello spazio sociale riconquistato: il popolo auto-organizzato si gestisce da sé, si organizza da sé, non dipende dalla legge del gregarismo pecorile del gregge obbediente al capitale, bensì dalla decisione libera e critica del collettivo che si autogestisce. L’auto-organizzazione esige infatti inevitabilmente l’autogestione sociale generalizzata in quell’area concreta emancipata, qualunque essa sia. Nessuna auto-organizzazione sopravvive a lungo se si sottomette ai dettami della legge del capitale, della banca, delle istituzioni borghesi e ancor meno del loro Stato. La borghesia sa per esperienza che l’auto-organizzazione e l’autogestione insegnano al proletariato i rudimenti della futura società socialista, nonostante tutte le loro carenze e limitazioni dovute al fatto di trovarsi all’interno dell’ordine del capitale. Un collettivo che si autogestisce contravvenendo alla legge del mercato apprende, bene o male, i rudimenti del futuro potere operaio; e anche se in seguito le repressioni schiacciano questo o altri tentativi e anche se il riformismo fa di tutto per cancellarne la memoria nel popolo, quest’ultimo può conservarne il ricordo, tanto più quando la sinistra lo mantiene vivo grazie a sforzi quotidiani come quelli dei centri auto-organizzati e autogestiti, come Askatasuna. Giungiamo così al terzo pericolo per la borghesia: l’autodeterminazione. Essa consiste nel fatto che le lotte sociali giunte a questi livelli di sviluppo generano anche processi permanenti di autodeterminazione, perché devono decidere da sole su tutto. Sebbene la decisione autonoma sia già presente nell’auto-organizzazione e nell’autogestione, questo terzo pericolo si estende a sempre più aspetti della realtà, poiché lo sviluppo del centro sociale incide sempre di più sulla vita del quartiere, del vicinato popolare, di gruppi e collettivi che si rivolgono al centro sociale per ricevere aiuto, di sindacati e organizzazioni non riformiste che si integrano nelle reti sociali che facilitano i contatti, i dibattiti, le proposte e, ciò che è decisivo, la loro messa in pratica, la loro realizzazione concreta. L’autodeterminazione, già presente inizialmente nell’auto-organizzazione e nell’autogestione, finisce per superare le mura del centro sociale e per favorire che anche altri collettivi si autodeterminino non solo negli ambiti e nelle rivendicazioni in cui operano, ma anche in altri problemi che si collegano ai loro. La classe operaia, con tutte le sue espressioni e forme interne, impara progressivamente a decidere da sé su queste questioni, ad autodeterminarsi nei propri problemi perché vede l’esempio del centro sociale autogestito e comprende che solo il popolo salva il popolo. Il quarto e definitivo pericolo per la borghesia, in sé il centrale, è quello dell’autodifesa del centro sociale autogestito. Ancora una volta dobbiamo insistere sul fatto che, sebbene le quattro dimensioni formino una sola realtà, che ciascuna di esse si interconnetta con le altre tre creando un’unità concreta e che la migliore difesa inizi con il buon sviluppo delle altre tre, sebbene tutto ciò sia vero, l’aspetto decisivo è che il centro autogestito disponga della forza e del sostegno popolare sufficienti a dissuadere la borghesia dal tentare di chiuderlo. L’autodifesa deve ricorrere a tutti i mezzi possibili, oltre a quelli già menzionati: anche ai mezzi legali consigliati da collettivi di avvocati critici; anche ai mezzi di pressione pacifica e non violenta dell’azione di masse mobilitate in difesa del centro sociale; anche a forme non violente di pressione in mobilitazioni specifiche all’interno della totalità autogestita. Non dobbiamo sottovalutare l’importanza difensiva dell’informazione e dell’educazione pubblica veritiera svolta dal centro, che mostra ciò che fa per smascherare le menzogne e la propaganda controrivoluzionaria. Quanto maggiore sarà la legittimità acquisita dal centro sociale, tanto maggiore sarà la sua capacità difensiva e tanto minore sarà la legittimità della borghesia nel giustificare i propri attacchi. E in questa legittimità operaia deve avere un’importanza cruciale il diritto/necessità alla resistenza, alla violenza difensiva contro la violenza ingiusta, oppressiva e sfruttatrice. Ciononostante, l’autodifesa decisiva è quella che si inscrive in una visione strategica di lungo periodo, quella che sa che è in corso una guerra sociale tra la proprietà privata e la proprietà socializzata, e che in questa guerra sociale permanente ciò che è decisivo è che la classe lavoratrice conquisti più centri autogestiti di quanti la classe borghese riesca a distruggere. Ciò significa che ogni centro sociale deve auto-organizzarsi affinché, se lo Stato lo chiude, ne sorga immediatamente un altro o altri; deve cioè guidarsi secondo il principio strategico di Che Guevara: creare uno, due…, molti Vietnam. L’autodifesa di un centro concreto è di per sé un principio indiscutibile, ma, come diciamo, da una prospettiva strategica rivoluzionaria, l’essenziale è che vi siano sempre più Vietnam. Il centro sociale Askatasuna di Torino esprime in modo magistrale il quadruplo pericolo per il capitale rappresentato dal contropotere operaio nella sua forma di centro autogestito, perché, in sintesi, è di questo che si tratta. Il contropotere operaio consiste nelle forme organizzative costruite dal proletariato che, nel proprio ambito di intervento, riescono per un certo periodo a contenere il potere borghese e persino a sconfiggerlo in battaglie puntuali, fino a quando lo Stato capitalista contrattacca. Forme elementari di contropotere operaio sono, ad esempio, le imprese recuperate, le assemblee stabili che resistono per un certo tempo, i sindacati sociopolitici e le organizzazioni d’avanguardia che lottano apertamente contro la proprietà privata, i mezzi di diffusione critica coordinati in rete, i centri sociali autogestiti, eccetera. Sono contropoteri perché, nei loro ambiti specifici, possono arrivare ad avere la forza sufficiente per sconfiggere la borghesia conquistando le proprie giuste rivendicazioni o obbligandola a negoziare con il collettivo interessato. Nella lotta di classe, i contropoteri aumentano nella misura in cui il popolo lavoratore accresce la propria coscienza e organizzazione, aprendo sempre più fronti di battaglia nella guerra sociale. Ciò che accade è che il riformismo nasconde e boicotta decisamente l’esistenza reale dei contropoteri, poiché accetta solo la negoziazione capitolazionista all’interno del labirinto legale capitalista. Da parte sua, la borghesia li reprime con tutti i mezzi di cui dispone. La notevole capacità di mobilitazione del centro Askatasuna ha agito frequentemente come contropotere popolare, e questa è stata la ragione definitiva per tentare di distruggerlo: il capitale ammette un solo potere, il proprio, nessun altro. Bisognava distruggere Askatasuna, i suoi risultati e le sue lezioni, per impedire che sorgano sempre più Askatasuna. EUSKAL HERRIA 26 dicembre 2025 -------------------------------------------------------------------------------- Di seguito alcuni comunicati di solidarietà dal mondo di lingua spagnolo: Redazione di Insurgente.org: https://insurgente.org/comunicado-de-solidaridad-ante-el-desalojo-del-centro-social-askatasuna-de-turin-e-info/ Nación Andaluza: https://nacionandaluza.org/2025/12/23/nacion-andaluza-en-solidaridad-con-el-centro-social-askatasuna-de-turin/ Arborea Andaluza: https://arborea-andaluza.org/comunicado-de-solidaridad-ante-el-desalojo-del-centro-social-askatasuna-de-turin Argentina Coordinadora Segunda Independencia: https://www.convocatoriasegundaindependencia.com/nota/965/SOLIDARIDAD-INTERNACIONALISTA-CON-LOS-CAMARADAS-DEL-CENTRO-SOCIAL-OCUPADO-Y-AUTOGESTIONADO-ASKATASUNA-DE-TUR%C3%8DN,-ITALIA Cuba Informaciòn TV: https://www.cubainformacion.tv/la-columna/20251223/119726/119726-askatasuna-de-turin-y-la-caida-del-arbol-de-navidad