Italiani, brava gente. Che torturaTorture made in Italy
di Marco Sommariva
Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente
letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al
contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e
proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare
fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare,
frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per
il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston
di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di
Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque
oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola
dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno
tedesco di Stig Dagerman.
Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio
Rosencof.
L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación
Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione
comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto
prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per
undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato
solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985.
La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri
ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella
sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità
di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un
manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti,
chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò
la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?”
chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la
polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone
estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal
manganello ma alla fine ce la fecero”.
La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio
spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima
dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime
deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo
fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono
stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli
occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi
hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia
e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio
con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole.
Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove
immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è
rimasto è andato a finire nella Sala 8”.
Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col
provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti
continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per
provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che
qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà.
In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa
scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi
lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un
sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria
esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono
disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi
mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e
poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e
bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il
presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla
pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla
finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido,
spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere
la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i
morti e per i vivi”.
Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui
inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof.
Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador
Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della
polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare
guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e
dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al
potere sino al marzo del 1990.
Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri
di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali
non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono
state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il
1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e
quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254.
Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a
prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata
costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici
anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta
legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono
messi dei topi vivi “dentro”.
In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire
nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non
ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì,
sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del
MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole
topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel
Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per
via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire
di tristezza”.
Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo
periodo della dittatura di Pinochet.
Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del
sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe
che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che
usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai
seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le
informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa
sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se
qualcuno era morto”.
In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la
televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non
arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era
l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava.
Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna
Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre
2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro
colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja
Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in
Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre
all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere
dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e
colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per
renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa
della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin
puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita
politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla
Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per
cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale.
Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi –
uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà
nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un
pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere,
provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link
https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/
con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio
Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di
un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini
sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza
precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo
che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si
è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto
disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso
di recupero ancora in corso”.
In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in
borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di
dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata
conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni
residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze
del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero,
Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un
coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza
dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le
chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico
del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto
“Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una
volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua
stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi.
“Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come
succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli
conficcarono un manganello nel culo”, ricordate?
Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una
peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati
sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le
telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e
abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro
Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono
stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare
firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.”
Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi
confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto
affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa
commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo
grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante
articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a
firma di Siegmund Ginzberg.
E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui
ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della
superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi.
Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la
crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare
loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti
medici.
Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici
ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti,
senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno
che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani,
ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley.
E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la
femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di
Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi.
Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu
Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di
Auschwitz.
Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in
quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro
arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a
spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio
ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria
spietatezza.
Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna
conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi.
È a questo che si riduce tutto”.
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