La formula “più carcere più sicurezza” smentita dall’esperienza e dalle statistiche
Mentre assistiamo desolati alla più clamorosa manifestazione della disperazione nella quale è precipitata l’istituzione carceraria nel nostro Paese e della sua incapacità di intercettare il disagio dei più deboli e dei più fragili, si continua a perseguire l’idea del carcere come rigida risposta contenitiva per il timore di apparire deboli. di La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane È necessario ricorrere con urgenza a provvedimenti di clemenza generalizzati per abbattere il sovraffollamento e fare sì che le carceri non siano solo luoghi di contenimento, di sofferenza e di morte, ma i luoghi in cui si costruiscono le condizioni per nuove esistenze nel rispetto dei diritti e della dignità della persona. Mentre il Governo, per far fronte al sovraffollamento carcerario, punta sulla costruzione di “moduli detentivi” prefabbricati, i suicidi conoscono ancora una spaventosa recrudescenza con l’inimmaginabile picco di tre morti in un solo giorno. Mentre assistiamo desolati alla più clamorosa manifestazione della disperazione nella quale è precipitata l’istituzione carceraria nel nostro Paese e della sua incapacità di intercettare il disagio dei più deboli e dei più fragili, si continua a perseguire l’idea del carcere come rigida risposta contenitiva per il timore di apparire deboli. Forte è invece uno Stato capace di modulare la sua risposta alle effettive esigenze del recupero e del reinserimento e in grado di adeguare il numero dei detenuti alle reali e concrete capacità di un trattamento dignitoso, consentendo così di salvaguardare la vita dei ristretti. Debole è quel Governo che sacrifica il più inalienabile dei diritti umani, quello di essere trattati con dignità, solo per il timore di perdere consenso. Privo di lungimiranza è quel Governo che, per dare risposta ad una insicurezza alimentata dalla propaganda, introduce nuovi reati o aggrava le pene di quelli già esistenti, indicando nella risposta repressiva carceraria l’unico orizzonte del diritto. La formula “più carcere più sicurezza” è smentita dall’esperienza e dalle statistiche che dimostrano che solo aprendosi alla società il carcere può avere ancora una funzione, permettendo di abbattere la recidiva. Ma non può essere questo carcere, nel quale il sovraffollamento impedisce ogni forma di trattamento diretto a risocializzare il condannato. Non può essere il carcere dei “moduli detentivi”, la cui sola definizione appare paradigmatica della distanza da quella annunciata volontà di restituire dignità alla detenzione, a rispondere al dettato costituzionale della rieducazione. Non c’è bisogno, infatti, di nuovi contenitori per la disperazione futura dei detenuti, ma di un futuro diverso per la pena. Se da un lato è necessario porre in essere politiche efficaci e lungimiranti, investendo maggiori risorse, si deve con realismo riconoscere che è necessario ricorrere con urgenza a provvedimenti di clemenza generalizzati per abbattere il sovraffollamento e fare sì che le carceri non siano solo luoghi di contenimento, di sofferenza e di morte, ma i luoghi in cui si costruiscono le condizioni per nuove esistenze nel rispetto dei diritti e della dignità della persona. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
carcere
Roghi e lotta per la vita in Macedonia: avete acceso le fiamme, ora preparatevi al fuoco
Il 16 marzo, 59 giovani sono morti tra le fiamme a Kocani, in Macedonia, in un club notturno. Avevano tra i 14 e i 25 anni. Condividiamo questo contributo da Immigrital Le istituzioni hanno dichiarato sette giorni di lutto. Ma non basta. Migliaia di persone sono scese in strada, in più città, oltre ogni divisione etnica e religiosa. Non solo per ricordare, ma per lottare. La rabbia ha travolto auto e locali del gestore del club. Quel club non era a norma, mancavano perfino le più basilari misure di sicurezza, aggirate attraverso corruzione e complicità istituzionale. Il sindaco si è dimesso. Dopo le proteste, il parlamento si è preso due settimane di vacanza: un insulto a chi chiede giustizia, ma anche un segnale di paura. Perché è la stessa corruzione che soffoca e uccide ovunque nei Balcani. Sanità, istruzione, lavoro sfruttato. Le prime generazioni costrette a emigrare, oggi ancora migliaia di giovani costretti a partire. E chi resta viene lasciato morire. Nelle fiamme dell’ospedale modulare covid di Tetov. Nell’incidente di un bus, che ha ucciso 45 persone. Nelle fiamme di questo club, in una notte che doveva essere di svago. Questa rabbia è giustizia popolare. Acqua per respirare. Spesso, in questi anni, la mobilitazione esplode in massa in tutti i Balcani. L’Italia ha un ruolo nei Balcani, visti storicamente come il proprio giardino. E gran parte della diaspora balcanica ed est-europea vive qui, tra sfruttamento, silenziamento, razzismo e classismo. Per questo è necessario sostenere le lotte nei paesi di origine: perché nessuno sia più costretto ad andarsene, ma possa scegliere se farlo. Nei Balcani, come altrove, la trasformazione passa attraverso il rovesciamento di regimi corrotti, la lotta per maggiore democrazia e partecipazione, la redistribuzione di ricchezze e potere. Vostri i profitti, nostre le vite. Il sistema sarà il prossimo. Oggi, insieme a giovani di seconda generazione del gruppo Immigrital di Pisa (dove tra l’altro sono state trasportate e ad oggi sono ricoveratə alcunə persone ferite nell’incendio) e a giovani balcanici student3 internazionali, abbiamo condiviso memoria, rabbia e lotta. Contro la corruzione e i sistemi che costringono a partire o lasciano morire. Tutti i giorni. Anche solo se ci proviamo a svagare una notte. Ne abbiamo abbastanza: il sistema ci uccide. Il sistema sarà il prossimo REAZIONE ALLA TRAGEDIA DI KOČANI (DOLORE, RABBIA E DOMANDE APERTE) Ancora mancano le parole per descrivere lo shock, il dolore e la rabbia causati dalla tragedia di ieri a Kočani, dove un incendio ha tolto la vita a 59 persone, principalmente giovani ragazzi e ragazze. Esprimiamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie e ai cari delle vittime. La loro perdita è irreparabile. Le loro vite sono state distrutte. Distrutte dalla corsa al profitto, dal desiderio di guadagni rapidi, dai privilegi senza responsabilità, senza consapevolezza delle possibili conseguenze… Ogni società di classe nasconde i propri crimini. Durmo Turs, Besa Trans, l’ospedale modulare di Tetovo sono finiti come “eventi dimenticati in tre giorni”. La democrazia capitalista si basa su una propaganda quotidiana che trova costantemente nuovi temi di conflitto sociale per distrarre le menti dei lavoratori. Ma ieri, ancora una volta, un incendio: ancora una volta norme e regolamenti violati, ancora una volta un evidente crimine. Una volta era il cosiddetto trasporto internazionale, poi un ospedale, e infine una discoteca. Tutte le disgrazie hanno un denominatore comune: il profitto. In quasi ogni città, edifici abbandonati si sono trasformati in discoteche, cabaret e club notturni che improvvisamente diventano centri regionali per centinaia di giovani, mentre autorizzazioni per cambi d’uso vengono rilasciate senza i dovuti studi tecnici, si effettuano corsi di sicurezza fittizi, si emettono licenze false, si effettuano ispezioni senza sopralluoghi. Nella corsa al profitto e al guadagno rapido, le regole servono solo per essere aggirate, e le competenze vengono mercificate. Mentre il governo e l’opposizione si accuseranno a vicenda in vista delle elezioni su chi sia responsabile della tragedia, e mentre la procura e il sistema giudiziario cercheranno nei prossimi giorni di recuperare una fiducia che non hanno mai avuto, è tempo di puntare il dito direttamente contro l’élite imprenditoriale locale e i potenti locali che qualcuno ha messo a fare da “sceriffi”. È tempo di puntare il dito contro di loro come classe, non come individui. La cosiddetta discoteca ha operato indisturbata per oltre 10 anni. Durante questo periodo, il potere centrale e locale è cambiato più volte, mentre la burocrazia invecchiava e veniva sostituita. Ma gli schemi criminali sono rimasti e continuano a esistere, perché è impossibile che il capitalismo funzioni senza di essi: sono il suo prodotto. È tempo di puntare il dito contro l’intero sistema capitalistico, senza paura di essere accusati di relativizzare la tragedia. Perché non dobbiamo dimenticare che tragedie simili accadono ovunque nel mondo, poiché il capitalismo governa ovunque. Dai paesi più sviluppati a quelli meno avanzati. Perché anche lì, come qui, la corsa al profitto e ai guadagni rapidi è il motore che muove la macchina sociale così com’è progettata. È un sistema in cui alcuni rispondono alla legge per i più piccoli errori, mentre altri non rispondono nemmeno per i crimini più gravi. Questo sistema non può essere riformato. Il capitalismo svilisce e disumanizza le vite umane ovunque nel mondo. Questo sistema non può essere aggiustato. Continuerà a trattarci come schiavi, servi e risorse. Considerando tutto ciò, è tempo di cambiare il nostro modo di concepire ciò che è normale e accettabile. Dal sollevare le spalle e accettare passivamente le situazioni attuali, all’organizzazione politica completa degli oppressi che porterà i cambiamenti rivoluzionari necessari! Contributo dellə compagnə dell’ organizzazione Alba Socialista e spazio sociale Dunja, Skopje Di seguito i link alle traduzioni in albanese, macedone ed inglese: https://docs.google.com/document/d/1-zrjmayzfC6na5DSPQ_Ai3U2fCL9vJhXQOcjZwUKfn4/edit https://docs.google.com/document/d/12v9FVEetVSNkPnKDMoajOnSMiFQZJjBH6RCTsUgPs1A/edit
Perquisizioni a Pisa e Carrara
Riceviamo e diffondiamo: PERQUISIZIONI A PISA E A CARRARA Qui il testo in pdf: Perquisizioni Pisa Carrara All’alba di mercoledì 26 marzo 2025 hanno avuto luogo, nelle città di Pisa e Carrara, due perquisizioni domiciliari per gli articoli 110, 56, 424 del cod. pen., aggravati dall’articolo 270 bis 1, in merito all’avvenuta collocazione di un ordigno incendiario presso il tribunale di Pisa rinvenuto dalle forze di difesa dello Stato italiano nel febbraio del 2023. Fatto quest’ultimo che si inseriva nella vasta mobilitazione in solidarietà con Alfredo Cospito contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. L’indagine, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di Firenze, vuole, come d’altronde tutte le indagini contro il movimento anarchico, minacciare i rivoluzionari e lo spirito d’iniziativa che li contrassegna. La lotta continua. Gli indagati
Stato di emergenza
Precarietà sveltata: cronaca dalla mobilitazione universitaria a Napoli
(disegno di malov) Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca, studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240, l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico dell’ateneo. Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20 marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come giornata nazionale delle università. Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però, non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240 rischia di diventare irreparabile. L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di logiche di mercato e militari su didattica e ricerca. Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20 marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello, “ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza tutele e prospettive di stabilizzazione. Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto “Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle università telematiche.  Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università – privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna. “Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con stati genocidi. Voi cosa dite?”. Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti dei rettori visibilmente imbarazzati. La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina accademica si fermerebbe. Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva. Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”. Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia. C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere, la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e cancellando l’evento in programma per la giornata.  Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora molettieri)
città
napoli
Il silenzio di Sabina
La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici, da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni di Roberta Cospito da Carmilla Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza. La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene (de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni, formalità e rispetto per i più elementari diritti umani. Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky. Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori. Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore – sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di quel periodo. Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri. Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale, perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo, è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi, con le mani pulite. Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci – le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità. Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si può prospettare a chi ha vissuto “al limite”? Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni. In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati, emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di “carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero. Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”. Il silenzio di Sabina  invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane: “Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue parole”. Barilli riporta un’osservazione di  Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
recensioni
anni '70
Milano: provvedimenti contro attivisti di Ultima Generazione per il blitz al ristorante Cracco
Blitz da Cracco di Ultima generazione, provvedimenti per 12 attivisti Il questore di Milano, Bruno Megale, ha emesso sette avvisi di avvio del Foglio di via obbligatorio dalla città di Milano, due Fogli di via obbligatori e undici Dacur (divieto di accesso nei locali pubblici) nei confronti di 12 persone, che hanno posto delle azioni di protesta nel ristorazione “Cracco”. Il 19, 23 e 26 marzo, al ristorante “Cracco”, in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, appartenenti al movimento ambientalista “Ultima Generazione” – spiega la Questura – dopo aver effettuato una consumazione all’interno del locale, hanno esposto uno striscione recante la scritta “Ultima Generazione – Il Giusto prezzo” per poi sedersi per terra e occupare la sala del ristorante, opponendo resistenza passiva. I provvedimenti dell’avvio del Foglio di via obbligatorio sono per quattro italiani di 71, 52, 42 e 29 anni e per tre italiane di 32, 26 e 21 anni. I due Fogli di via obbligatori, della durata di due anni, sono stati notificati a due italiane di 30 e 29 anni. Invece, i Dacur sono stati emessi nei confronti di 11 italiani.     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
[2025-04-12] Open Mic FREE(K) @ Manituana - Laboratorio Culturale Autogestito
OPEN MIC FREE(K) Manituana - Laboratorio Culturale Autogestito - Largo Maurizio Vitale 113, Torino (sabato, 12 aprile 16:00) Canti sotto la doccia per l'audience dei bagnoschiuma? Hai un talento nascosto da mostrarci? Le tue stand-up comedy recitate al muro stanno migliorando? Riesci a toccarti il naso con la lingua e vuoi che qualcunx ne sia testimone? Vuoi esibirti per la prima volta ma non sai come? Noi freeks abbiamo quello che fa per te! Amx, sali su 'sto palco e facci sognare per 5 minuti! Hai capito bene. Open mic della freek! 5 minuti. Porta la strumentazione che ti serve (nei limiti del possibile ammò, che questo non è il nostro lavoro, ma un microfono e le casse le abbiamo dai...) e sbizzarrisciti per 5 minuti. Poi passa la palla a chi viene dopo. Niente scalette precomposte, niente giudici: arrivi, scrivi il tuo nome su un foglio e via! Uniche persone che non vogliamo sul palco: cishet, molestx e fascx. Cibo vegano bellavita: porta quello che vorresti trovare! Porta il tuo bicchiere! 💜🏳️‍⚧️
Cartellino rosso a Israele, tifoserie in campo per la Palestina
L’idea è partita dalla Green Brigade, tifoseria del Celtic di Glasgow: una campagna internazionale di pressione su Fifa e Uefa e di boicottaggio verso la Federazione Calcistica Israeliana. A oggi sono centinaia le tifoserie che hanno aderito in 32 paesi di tutto il mondo di Gabriele Granato, Andrea Ponticelli da il manifesto Il 17 ottobre 2023 sullo schermo del Wembley Stadium dove si sta giocando la partita Inghilterra-Italia, valida per le qualificazioni a Euro 2024, compare un messaggio con cui la Uefa invita a un minuto di silenzio per ricordare le vittime israeliane dell’attacco del 7 ottobre, ignorando totalmente le vittime civili palestinesi dell’attacco israeliano che, a quella data, erano già centinaia. Questo episodio rende lampante l’importanza del calcio come strumento di propaganda, soprattutto in periodo di conflitti internazionali. Di questa importanza la tifoseria del Celtic di Glasgow ne è ben consapevole e perciò, dall’inizio del genocidio del popolo palestinese a oggi, non ha mai perso occasione per manifestare la solidarietà al popolo palestinese. IL GRUPPO della Green Brigade, da anni attivo sulla questione, a metà febbraio 2025 ha lanciato una campagna internazionale di boicottaggio, «Show Israel the Red Card», nei confronti della Federazione Calcistica Israeliana (Ifa) per denunciarne la complicità con l’occupazione e l’apartheid israeliana: «I tifosi di calcio hanno una piattaforma unica e potente e, con tale influenza, ne deriva una grossa responsabilità. Chiediamo ai tifosi di calcio di tutto il mondo, che valorizzano la vita, l’umanità, la dignità, la libertà, la pace e la giustizia, di essere coraggiosi e di usare la loro voce per opporsi ai crimini di Israele e schierarsi con la Palestina». Nel comunicato del 13 febbraio spiegano la loro proposta: «Si può prendere posizione adottando la campagna ‘Show Israel the Red Card’ e sventolando la bandiera della Palestina». Perché «il calcio è uno strumento incredibilmente potente. Se il mondo del calcio si unisce per isolare Israele, anche altri ambiti seguiranno inevitabilmente questo esempio. È tempo che Uefa e Fifa pratichino i valori che predicano: uguaglianza, rispetto e diritti umani». Una campagna che rilancia la richiesta avanzata – nel marzo del 2024 – dalla Federazione Calcistica Palestinese (Pfa) alla Fifa di escludere l’Ifa da ogni competizione per la violazione degli stessi statuti Fifa che, ancora oggi, non ha dato alcuna risposta. Questo nonostante le violazioni denunciate dalla Pfa non siano assolutamente una novità visto che diverse partite dei campionati di calcio israeliano si giocano da anni nei territori della Cisgiordania che, come sentenziato lo scorso luglio anche dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, appartengono alla Palestina. Tra gli obiettivi della campagna c’è quello di evitare che la questione palestinese – alla luce della tregua siglata – finisca nel dimenticatoio. A vedere la risposta all’appello, la necessità di continuare a mettere in campo manifestazioni di solidarietà deve essere molto sentita tra le tifoserie di calcio: Italia, Scozia, Paesi Baschi, Germania, Stati uniti, Cile, Australia, Indonesia, Malesia, Inghilterra, Irlanda, Belgio, Marocco, Sudafrica, Grecia, Cipro, Tunisia, Francia, arrivando fino al campo profughi di Shatila, centinaia di tifoserie, di 32 paesi sparsi su tutti e sei i continenti, hanno mostrato il cartellino rosso a Israele. IN ITALIA, il lavoro è stato coordinato dal collettivo Calcio e Rivoluzione che ha coinvolto, al momento, oltre 30 tifoserie, di cui una di serie A (Empoli), la Curva Nord del Pisa e una parte della tifoseria della Juve Stabia – non riconducibile a nessun gruppo del tifo organizzato – di Serie B, la Curva Est della Ternana di Serie C e tante altre di categorie inferiori e del mondo del calcio popolare. Tutte tifoserie accomunate dalla stessa irrefrenabile voglia che il calcio resti fedele ai propri valori e non si faccia promotore di quelle pericolose dinamiche che qui in Europa abbiamo cominciato a definire «doppio standard» e che nei fatti si può tradurre con «complicità». Perché non si può spiegare altrimenti la celerità (appena quattro giorni) con cui, nel febbraio del 2022, la Fifa e l’Uefa hanno sentenziato l’esclusione da ogni competizione della Federazione Russa a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina o come ancora la Fifa non abbia perso tempo, qualche settimana fa, ad escludere la Federazione del Pakistan e quella del Congo proprio per alcune violazioni agli statuti della Fifa. È evidente che negli stadi e sui campi non si giocano soltanto partite di calcio ma anche partite di egemonia politica. Se gli schermi e i minuti di silenzio vengono utilizzati da Fifa e Uefa per assecondare la narrazione di parte dello Stato di Israele, le gradinate con le loro coreografie, cori e bandiere vengono utilizzate da chi supporta la causa palestinese. Che anche i campi di calcio di tutto il mondo diventino luoghi dove manifestare solidarietà per la causa palestinese. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
ultras
«Askatasuna a delinquere». I nodi del maxi-processo
Il teorema. La tesi dei pm: nel centro sociale c’è un nucleo che ha il solo fine della violenza. La risposta delle difese: cancellate le ragioni politiche, sotto accusa è il conflitto. Alla sbarra un’intera stagione di movimenti: per Torino si inizia dal G8 dell’Onda del 2009, per la Val Susa dal 2011. La storia scritta a colpi di indagini di Giansandro Merli da il manifesto Due anni di indagini, ventotto rinvii a giudizio, settantadue capi di imputazione, migliaia di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, una sola tesi: dentro il centro sociale Askatasuna è stata costituita un’associazione a delinquere. «Un’associazione a delinquere, con organizzazione verticistica, capillare distribuzione dei ruoli e dei compiti tra i vari partecipanti, basi logistiche ed operative, avente come programma il compimento di azioni violente in occasioni di iniziative di protesta», scrive la procura di Torino nella memoria depositata a conclusione del processo di primo grado di cui è attesa la sentenza lunedì prossimo. Complessivamente sono stati chiesti ottantotto anni di carcere. Secondo i pm i vertici dell’organizzazione, composta da sedici degli imputati, sono Giorgio Rossetto, il leader indiscusso, e Guido Borio, l’ideologo. Si tratta di due figure storiche dell’antagonismo torinese. Insieme agli altri associati poggerebbero su diverse «basi»: i centri sociali Askatasuna e Murazzi, lo Spazio Popolare Neruda, l’info shop Senza Pazienza a Torino; il presidio dei Mulini e quello di San Didero in Val Susa, nei pressi del cantiere Tav. LE INDAGINI VERE E PROPRIE si sono svolte tra il 2019 e il 2021 ma la ricostruzione parte da molto prima. Durante la sua lunga deposizione il testimone chiave dell’accusa, un funzionario della sezione terrorismo della digos torinese, ha spiegato che nell’autunno di sei anni fa gli uffici della questura hanno notato come tra i vari scontri di piazza del biennio precedente si potessero registrare protagonisti e metodologie comuni. Usando quegli elementi come un setaccio gli inquirenti sono andati a ritroso fino a stabilire due eventi a monte dell’associazione a delinquere: per Torino il G8 dell’università di maggio 2009, con le proteste del movimento studentesco dell’Onda; per la Val Susa le mobilitazioni scoppiate nel 2011. Secondo la procura «l’elaborazione e l’attuazione del programma criminoso» si deve far risalire addirittura agli inizi del 2000, periodo in cui comincia «la diffusione del piano da parte degli ideologi» e cresce «il livello dello scontro con le forze dell’ordine». A sostegno di questo impianto è finita nel processo un’intera stagione di movimenti dentro e fuori il capoluogo torinese. Gli eventi in cui si sono verificati disordini sono stati divisi in quattro gruppi: manifestazioni in città, di varia natura; cortei del primo maggio, con le rituali tensioni intorno allo «spezzone sociale»; scontri all’università con le fazioni di estrema destra; soprattutto: marce e attacchi al cantiere Tav. Sono queste, per l’accusa, le «azioni di esecuzione del programma». Un programma che consiste nel «portare avanti la lotta violenta, mantenendo alta la tensione con le Forze dell’Ordine, che sono viste come la “prima linea” dello Stato da combattere». I MILITANTI DEL CENTRO SOCIALE non hanno mai fatto segreto, nemmeno in sede processuale, della loro concezione del conflitto che prevede anche l’uso della forza in determinate dinamiche di massa. Del resto, piaccia o meno, i disordini esplodevano secondo forme e modalità simili a quelle incriminate anche prima dell’occupazione del numero 47 di corso Regina Margherita e così continuano a ripetersi ben oltre il suo raggio d’azione geografico. I pm, però, sostengono che a Torino e in Val Susa dipendano tutti dal nucleo interno ad Askatasuna e non siano un mezzo di azione politica ma il fine stesso di attività di natura esclusivamente criminale. «La riqualificazione dell’iniziale ipotesi di associazione sovversiva in associazione a delinquere aggravata mostra il tentativo di cancellare le finalità ideali e politiche dei militanti del centro sociale, rappresentati come meri delinquenti mossi da una specie di istinto alla violenza», afferma l’avvocato Claudio Novaro, membro del collegio difensivo. Per il legale le indagini si sono basate su categorie interpretative ignare «dei codici, dei linguaggi e della sintassi politica di movimenti sociali e aree antagoniste». Così le interviste rilasciate dai «capi», le riflessioni intercettate e trascritte, i contenuti pubblicati su Facebook o sui canali indipendenti diventano formulazioni di uno specifico programma di reato. Salvo poi dover ammettere, ad esempio, che uno dei vettori di diffusione di tale piano sarebbe una trasmissione su Radio Blackout condotta da una persona nemmeno imputata. Secondo una logica analoga, quelli che normalmente si definiscono quadri di una struttura politica diventano «collaboratori in posizione dominante» dell’associazione e i militanti del centro sociale «esecutori materiali» dei crimini. A DIMOSTRARE IL SODALIZIO ci sarebbe anche l’esistenza di legal team e casse di resistenza. Ma l’analogia con organizzazioni di ben altra caratura, come quelle che garantiscono il reddito ai familiari dei membri arrestati, hanno difficoltà a reggere. Le risorse «derivanti da attività lecite» – tra queste: agnolottate, polentate, aperitivi, serate musicali, il festival Alta Felicità – sono infatti generate grazie alla partecipazione volontaria di decine e decine di persone e restano a disposizione di militanti che non sono inclusi nell’ipotesi associativa. Un funzionamento quanto meno singolare per un’associazione a delinquere. Anche perché gli inquirenti hanno potuto solo ipotizzare che quei soldi siano stati usati per l’acquisto delle strumentazioni utili a creare disordini – fuochi d’artificio, materiale esplodente, bastoni – visto che non hanno trovato prove. Tutto il progetto criminoso, dicono ancora i pm, si baserebbe sulla «sofisticata strategia» di nascondersi dietro iniziative sociali, tra le quali: contrasto alla precarietà abitativa, promozione dello sport popolare, distribuzione di cibo e tamponi durante il lockdown, corsi di italiano per stranieri, aiuto agli sfrattati. Unico scopo di queste variegate attività, cui ancora una volta partecipano molti più soggetti di quelli rinviati a giudizio, sarebbe «procurare [all’associazione, ndr] il sostegno di una parte dell’opinione pubblica» per proteggere le azioni violente. QUESTI ELEMENTI hanno spinto le difese a contestare alla base la tesi della procura: il processo non è contro uno specifico nucleo criminale ma a tutto il centro sociale Askatasuna e al movimento No Tav. A dimostrarlo anche le enormi richieste di risarcimenti avanzate dalle parti civili: una provvisionale di un milione di euro dalla Telt, società italo-francese che sta costruendo l’alta velocità, e 6,7 milioni dall’avvocatura dello Stato, a nome dei ministeri di Interno e Difesa, per la gestione dell’ordine pubblico relativa al 2020-2021. In pratica agli imputati viene chiesto il conto di tutto ciò che è avvenuto nelle piazze torinesi e sulle montagne valsusine. Nella cifra monstre rientra anche l’attività info-investigativa. «Un’assoluta novità, dato che lo stesso danno patrimoniale dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato», ha scritto sulle pagine di questo giornale il giurista Luigi Ferrajoli. Le richieste di risarcimento sono state invece elogiate lo scorso 25 gennaio dal consigliere laico del Csm Enrico Aimi, in quota Forza Italia, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, poco prima che la procuratrice generale Lucia Musti affermasse che gli imputati di Askatasuna hanno «assunto la regia della mobilitazione violenta in Val di Susa» e «realizzato una struttura organizzativa complessa» per cui «è necessaria e opportuna una risposta dello Stato contro chiare finalità eversive, quantomeno di piazza». Due interventi che hanno sollevato la protesta del collegio di difesa: «Parole in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza del giudizio, che entrano nel merito di una concreta vicenda giudiziaria e quasi ne anticipano l’esito», hanno scritto i legali in una lettera. MUSTI HA POI fatto riferimento a Torino come «capitale dell’eversione». Nella stessa città per fatti di un periodo analogo, il 2015 e 2016, era stata ipotizzata l’esistenza di un’altra associazione, qualificata come «sovversiva» anche in sede processuale. Alla sbarra erano finiti 18 militanti anarchici, molti legati all’occupazione Asilo, per invii di pacchi bomba e proteste contro il Cpr di corso Brunelleschi. La sentenza di primo e quella di secondo grado, ormai passata in giudicato, hanno escluso il teorema associativo e assolto anche per i reati specifici tutti gli accusati tranne uno. Vedremo come andrà a finire questo secondo filone processuale. Dal canto loro gli imputati di Askatasuna, con una dichiarazione spontanea resa in aula, hanno affermato di non riconoscersi «minimamente nel quadro caricaturale» dipinto dagli inquirenti e rispedito al mittente «l’equiparazione a disegni delinquenziali delle esperienze politiche e dei percorsi di lotta sociale che ha il fine di alimentare la costruzione giudiziaria, sociale e mediatica di un nemico pubblico». Nella sua memoria conclusiva, invece, l’avvocato Novaro ha avvisato: «Adottando criteri interpretativi quali quello posto a fondamento del presente procedimento si finirebbe per considerare alla stregua di associazioni per delinquere tutti i centri sociali della penisola». ********************* «Torino capitale dell’eversione». La storia scritta a colpi di indagini di Mario di Vito da il manifesto Torino è la capitale dell’eversione di piazza». Lo ha detto, il 25 gennaio scorso, durante la cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario, la procuratrice generale Lucia Musti. Ce l’aveva con «i professionisti della violenza», cioè i militanti del centro sociale Askatasuna, punta di diamante del famigerato «movimento antagonista» che porta alle proteste «soggetti di minore età» ed «entra in condivisione con gruppi sani di cittadini che intendono manifestare pacificamente il proprio pensiero». La scena, a modo suo, ricorda il famoso discorso del «dottore» interpretato da Volonté e tratteggiato da Ugo Pirro per il famoso film di Elio Petri («Il popolo è minorenne, la città è malata…»), ma il presente è diverso dal passato e là dove una volta c’erano cittadini al di sopra di ogni sospetto oggi ci sono mucchi di carte anonime. Sono le inchieste che hanno toccato, con esiti non sempre trionfali, i movimenti sociali. O, per usare le parole di Musso, «l’eversione di piazza». È IN PIAZZA, in effetti, che comincia la storia di Torino capitale italiana delle inchieste sull’eversione. È il 4 aprile del 1998, in città almeno diecimila persone manifestano «contro la repressione» e le grandi vetrate del nuovo Palagiustizia in costruzione lungo corso Vittorio Emanuele vengono prese di mira dal corteo. Volano pietre a margine di una giornata di feroci tafferugli per i quali in otto saranno denunciati e poi processati per «devastazione e saccheggio», reato riesumato dai meandri più oscuri del Codice Rocco e che, nel 2001, tornerà di moda – sempre nelle aule di giustizia – per descrivere gli scontri durante il G8 di Genova. Ma perché quel 4 aprile a Torino si manifestava «contro la repressione»? La risposta riguarda uno degli eventi più tragici della storia torinese recente: il 28 marzo del 1998, l’anarchico Edoardo Massari, Baleno, si era impiccato con le lenzuola della branda della sua cella nel carcere delle Vallette. Si trovava lì in quanto elemento centrale dell’inchiesta del pm Maurizio Laudi su una serie di attentati a sfondo «ecoterroristico». L’11 luglio si suiciderà anche un’altra indagata: Maria Soledad Rosas, Sole. Il terzo, Silvano Pellissero, affronterà il processo e ne uscirà con una lieve condanna per reati minori. Un copione che da qui in avanti verrà messo in scena tante volte nel tribunale di Torino. FANNO FEDE, in questo senso, le numerose iniziative giudiziarie contro i No Tav: da quando, nell’agosto del 2011, una cinquantina di persone blocca un treno alla stazione di Avigliana e si prende una denuncia per interruzione di pubblico servizio fino all’ultimo processo contro Askatasuna, passando per manifestazioni non autorizzate, danneggiamenti vari ai cantieri dell’alta velocità, scontri con le forze dell’ordine. I denunciati si contano nell’ordine delle centinaia, ma poi facilmente dei processi si finisce con il perdere le tracce. Da un rivolo di questa storia prenderà le sue mosse Scripta manent, la madre di tutte le indagini contro la Federazione Anarchica Informale, sigla nata nel 2003 e che per gli investigatori italiani costituisce il nucleo più significativo dell’arcipelago insurrezionalista del terzo millennio. Il procuratore Roberto Sparagna impiega cinque anni per mettere insieme il suo castello accusatorio di 230 faldoni da centinaia di pagine ciascuno. Gli «oneri per le attività info-investigative» dell’impresa, dice il ministero della Giustizia, ammontano a 1.191.000 euro spesi dalla sola digos più altri 712.000 euro per la Direzione centrale della polizia di prevenzione. Il totale fa 1.912.000 euro. Il primo blitz, a inchiesta aperta, è del 6 settembre 2016, con sette arresti e otto indagati a piede libero. I fatti contestati riguardano un certo numero di pacchi bomba recapitati tra il 2003 e il 2007 e altri episodi come il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi del maggio 2012, per il quale già sono detenuti Alfredo Cospito e Nicola Gai. All’apertura del processo gli imputati saranno ventitré in totale. Quando nel 2022 la Cassazione si occupa della vicenda, tra assoluzioni e condanne leggere, l’associazione a delinquere resisterà solo per tre persone, il numero minimo per cui si può configurare questo reato: Anna Beniamino, Cospito e Gai. I primi due, ancora oggi, sono ristretti in regime di 41 bis. GLI OCCHI degli inquirenti, ad ogni modo, guardano anche al passato remoto. Un anno fa, infatti, è stato riaperto il caso della Cascina Spiotta, la sparatoria del 1975 in cui persero la vita la fondatrice delle Brigate Rosse Margherita Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Le nuove indagini si sono concentrate soprattutto sulle impronte digitali di Lauro Azzolini su un documento rinvenuto durante una perquisizione del 1976. Tra antiche testimonianze e saggi sugli anni della lotta armata, alla fine si è arrivati al rinvio a giudizio di Azzolini, Mario Moretti, Renato Curcio e Pierluigi Zuffada (morto nel febbraio scorso). Alla seconda udienza del processo, che va in scena ad Alessandria, Azzolini però ha spiazzato tutti dichiarando che alla Cascina Spiotta era lui il secondo uomo rimasto ignoto per mezzo secolo, scagionando Curcio e Moretti. La sentenza non arriverà prima del prossimo autunno. Sul banco degli imputati siede la storia. Perché l’importante non è appurare i fatti, ma costruire un mito: quello della capitale dell’eversione.   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
Senza dissenso non c’è democrazia
La vicenda giudiziaria che vede coinvolto il centro sociale torinese Askatasuna non è solo cittadina o nazionale, fa parte di una deriva autoritaria globale di Alessandra Algostino da il manifesto Il processo a Torino per associazione per delinquere contro 28 militanti del centro sociale Askatasuna va oltre la valutazione di eventuali responsabilità penali individuali e colpisce in sé la democrazia come conflitto, come libero dibattito anche quando le posizioni urtano o inquietano (Cedu, 2005). È il progetto politico, è l’autorganizzazione dal basso di attività sociali e culturali che sono sotto processo con la stigmatizzazione e criminalizzazione per associazione per delinquere. Agire conflitto sociale è associazione per delinquere, rappresentare e praticare visioni politiche e culturali alternative è associazione per delinquere, ricostruire dal basso legami sociali sul territorio è associazione per delinquere. Ad essere ricondotta alla «delinquenza» e al correlato richiamo alla violenza è l’idea di alternativa radicale rappresentata dal centro sociale, ovvero quel dissenso e pluralismo che della democrazia costituiscono l’anima. Askatasuna, e tutti coloro che sono ad esso riconducibili o accomunati, sono stigmatizzati ed espulsi dallo spazio democratico. È la costruzione della figura del nemico: non a caso allo strumento penale si associa la denigrazione mediatica. Come ha scritto nel 2015 il Tribunale permanente dei popoli a proposito del movimento No Tav, oggetto paradigmatico del modus operandi della repressione, si registrano: la «trasformazione delle questioni politiche inerenti le grandi opere in problemi di ordine pubblico demandati a polizia e magistratura (anche a mezzo di appositi provvedimenti legislativi o amministrativi di carattere generale)»; «interventi di polizia e giudiziari assai pesanti da molti interpretati come metodi diretti a disincentivare e/o bloccare sul nascere opposizione e protesta»; con i mezzi di comunicazione che «si convertono in agenti di disinformazione e spesso di contaminazione». E siamo tutti avvisati: si parte dai margini, da coloro che sono etichettati come «violenti», «indesiderati» ed «eccedenti» (pensiamo al decreto rave e alla criminalizzazione del disagio sociale e dei migranti) e si restringe progressivamente l’orizzonte della democrazia. Per tutti. Si muove dalle condotte più urticanti e quindi si punisce la resistenza passiva (il disegno di legge sicurezza insegna). La sovradeterminazione delle fattispecie penali, l’abuso di misure cautelari e di sicurezza, si accompagnano a richieste di risarcimento milionarie e assurde, come le spese per gli agenti a presidio del cantiere Tav in Val Susa. Il diritto civile e quello amministrativo, dalle ordinanze prefettizie che creano le zone rosse al daspo urbano, sono impiegati e piegati al compito di imporre un ordine pubblico che espelle e reprime la divergenza sociale e politica. Torino come laboratorio di repressione non è un’eccezione, ma una sperimentazione, coerente con la cappa autoritaria che sta avvolgendo le democrazie. Anticipa il ddl sicurezza, in coerenza con i provvedimenti in materia adottati da governi di diverso colore politico nel corso degli anni. È il neoliberismo autoritario che non tollera l’alternativa (There Is No Alternative), si salda con l’omogeneizzazione forzata e la repressione della dissidenza, accompagna la «vertigine della guerra» e l’involuzione di democrazie neutralizzate, svuotate e infine smembrate apertamente. Askatasuna associazione per delinquere non è una vicenda solo torinese e nemmeno nazionale: «associati per delinquere» sono gli universitari della Columbia perquisiti e perseguiti, è il candidato alla presidenza turca Imamoglu arrestato con l’accusa di «aver fondato un’organizzazione criminale finalizzata alla corruzione», è il popolo palestinese oggetto di una – questa sì, criminale – punizione collettiva. «Associazione a resistere», come strumento di resistenza dal basso e progetti come il patto di collaborazione con il comune di Torino nella prospettiva del bene comune sono segnali controcorrente, che testimoniano la vitalità e la necessaria complessità della democrazia conflittuale. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
Editoriale
[2025-04-22] LIBERAZIONI 2025 @ Scuoletta Coppieri
LIBERAZIONI 2025 Scuoletta Coppieri - Via Coppieri 46 Torre Pellice TO (martedì, 22 aprile 18:00) RESISTENZE CONTADINE tra passato, presente e futuro In occasione del cinquecentenario della lotta dei contadini che incendiò il cuore dell’Europa fino al suo apice nel 1525, ripercorriamo alcune tappe storiche e riflettiamo su questioni vive e feconde ancora oggi. In vista di una 3giorni di confronti su storie e resistenze contadine che si terrà in Val Pellice il 20-21-22 Giugno. Dalle 18 aperitivo, a seguire confronto e chiacchere. LIBERAZIONI 2025 Per un 25 aprile popolare e ribelle, lontano dalla retorica istituzionale, vicino a chi lotta oggi.   A 80 anni esatti dall’insurrezione di quel 25 aprile che avrebbe dovuto liberare tutti, definitivamente, dal fascismo, le istituzioni si apprestano a celebrare i loro riti da sempre vuoti di significato e oggi più che mai intrisi di propaganda patriottica. Le destre accelerano con il revisionismo storico e le sinistre arrancano intorno ad un antifascismo opportunista e di maniera, entrambi gli schieramenti bene/dicono l'economia bellicista dimenticando i bisogni reali della gente. Discorsi di circostanza sulla pace e la democrazia si sprecano mentre venti di guerra e di morte agitano bandierine e nastri tricolori sulle lapidi polverose dei partigiani caduti.   Chi aveva vent’anni e combatteva, armi in pugno, il nemico fascista, ormai non c’è più per raccontare e la memoria di quei giorni liberi ed esaltanti non può essere solo un bel mazzo di fiori o una canzone, la solita canzone, ben intonata. La memoria vive nelle lotte del presente, ogni giorno, contro il fascismo che non se ne è mai andato abbastanza, che si aggiorna, che si rifà il trucco, che ammorba la società e la trascina in un vortice di guerra, devastazione, ignoranza, razzismo e sfruttamento.   Oggi più che mai bisogna essere partigiani, scegliere da che parte stare, senza esitazione né paura.
resistenza
lotta
Agricoltura contadina
alpi libere