Qualche giorno fa è stato siglato un nuovo accordo tra i partiti indipendentisti
kanak e lo Stato coloniale francese. L’accordo prevede l’istituzione di un nuovo
Stato caledone che potrà essere riconosciuto dalla comunità internazionale, pur
non avendo diritto a un seggio all’Onu, e la creazione di una nazionalità
caledoniana accanto a quella francese. E’ inoltre […]
Dal welfare al warfare, dall’automotive al carroarmato, dall’«Inno alla gioia»
di Beethoven alla «Marcia imperiale» di Dart Fener. Nel cambio di tema che fa da
sfondo all’Europa, l’imperialismo colpisce ancora.
da Kamo Modena
Non «guerra stellare», in una galassia lontana lontana, ma ben più prosaicamente
mondiale, è lo scenario per cui gli Stati europei preparano piani.
Guerra terrestre e marittima, sul continente e nei cieli, nelle reti e nei
flussi. Guerra di trincee sotto il fuoco dei droni, sabotaggi di gasdotti e
infrastrutture civili, di missili sulle metropoli e operazioni terroristiche di
intelligence, di eserciti nazionali e legioni di paramilitari, di attacchi
cibernetici e finanziari, di sanzioni commerciali e dazi globali. Guerra di
materiali, di chip, di intelligenze artificiali, di produzione e
ristrutturazione industriale, di innovazione tecnologica, di disarticolazione
delle filiere, di estrazione e saccheggio dei territori, delle popolazioni,
delle forme di vita.
Guerra preparata da massicci piani di riconversione bellica e da strette
repressive del fronte interno. Dalla crisi politica nel cuore dell’Europa alla
fine della «fine della storia», dalle debolezze delle borghesie nazionali, dalla
subalternità al comando di Washington e ai folli progetti di genocidio di
Israele.
Guerra che già ci coinvolge da vicino, senza però un’«alleanza ribelle», anzi,
rivoluzionaria, di classe in grado di sovvertirla, ad ampio respiro, in processo
di rottura e fuoriuscita da questo sistema che continuamente l’ha generata e la
riproduce, su scala sempre più distruttiva, catastrofica, genocidiaria.
Prepararsi all’inaspettato. Si è già detto che perfino Lenin, nel 1914, a
Cracovia, quando arrivò la notizia dello scoppio della guerra, rimase
sbalordito: per il tradimento dell’Internazionale, certo, ma anche per il passo
decisivo nello scontro militare tra potenze, ipotizzabile, probabile, ma non del
tutto prevedibile. Se anche un genio tattico come Volodja fu colto, allora, di
sorpresa, chi ne vorrebbe seguire la misteriosa curva, oggi, nella
desertificazione di un pensiero strategico materialmente ancorato a una
soggettività di classe di là da venire, può dormire sereno.
Eppure. Eppure il corso della storia può prendere pieghe inaspettate,
indipendentemente da ogni attore, da ogni azione soggettiva. Fugaci
destabilizzazioni, scosse, sospensioni, dell’apparente linearità. Eventi,
movimenti, rotture che rimescolano le carte. Finestre temporali che aprono spazi
di manovra, di possibilità. Questi momenti non sono né buoni né cattivi; anzi,
possono essere cattivi – quasi sempre lo sono – e possono essere buoni: rapporti
di forza che vengono messi in discussione, rapporti di forza che possono essere
sovvertiti, riconfigurati, costruiti. Sicuramente, questi momenti saranno
tragici. Della tragicità che è propria della libertà, autentica e terribile.
È come arriveremo, e ci staremo dentro, a questi momenti, che farà la
differenza. Se saremo riusciti ad arrivarci preparati, all’inaspettato. Se
riusciremo a guardarla negli occhi, questa terribile possibilità.
Per questo, dal punto di vista militante, in tutti i suoi aspetti, pensiamo che
il compito minimo che la fase pone oggi sia quello di aguzzare la vista,
affinare il fiuto, stimolare la mente e allenare il cuore ad essere pronti.
Costruire le condizioni per cui – nella partita che si gioca, nel minuto
dell’inaspettato – essere caldi in panchina, per poter entrare in campo. E non
farci trovare fuori rosa, sugli spalti, come spettatori. Come, tirando una
generosa mediana, siamo oggi.
***
Pubblichiamo allora la trascrizione dell’intervento di Robert Ferro, autore del
podcast «Il perno originario» e del volume «Le ménage à trois de la lutte des
classes», tenuto all’ultimo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra»,
organizzato al Dopolavoro Kanalino78 da ottobre 2024 a maggio 2025 (ciclo
suddiviso in due parti: Vol. I – «Modena nel conflitto globale» e Vol. II –
«Geopolitica e lotta di classe nella crisi di sistema»). Rimandiamo quindi alle
introduzioni dei precedenti contributi di Mimmo Porcaro e Raffaele Sciortino, e
ancora prima all’approfondimento del primo incontro sull’«industria della
formazione», i motivi, gli obiettivi e le prime considerazioni “a caldo” che ci
hanno accompagnato lungo questo percorso di inchiesta, analisi e discussione
politica, per andare subito alle domande che ci hanno mosso in questo ultimo
appuntamento.
Dove va l’Europa, e quali scenari si aprono, quando i sussulti della crisi,
dalle periferie esterne, cominciano a disarticolare il cuore dell’impero, la
Germania, e la «fabbrica della guerra» si fa continentale? Dove va l’Europa,
quindi, nella ripolarizzazione conflittuale del mondo tra Stati Uniti e Cina? È
possibile un’Europa in conflitto con gli Stati Uniti? Cosa significa per il
continente, e soprattutto per l’Italia inserita nelle sue catene del valore, la
destabilizzazione politica e sociale del modello tedesco? Unione Europea e
moneta unica possono essere messe in discussione da Berlino o conquistare una
loro “autonomia strategica” imperialistica, in concorrenza con quella americana?
Che posizione occupano la Germania e l’Unione Europea nella catena
imperialistica globale? Si staglia davanti a noi un processo di radicalizzazione
politica del contesto europeo, insieme alla sua rinazionalizzazione?
Buona lettura.
Robert Ferro
Introduzione. Germania e Versailles, ritorno al futuro
In molti oggi avvertono che il periodo storico più recente – sommariamente,
quello della globalizzazione e della sua crisi – è entrato in un frangente
delicato, in cui si stanno sciogliendo incognite notevoli, con ricadute
altrettanto notevoli sull’evoluzione dei rapporti di classe a qualsiasi
latitudine. Il sottoscritto condivide questa impressione. In ciò che segue, si
tratterà però di andare oltre le impressioni, cercando di collegarle a dinamiche
di lunga durata che riguardano il nostro quadrante di riferimento, quello
europeo. La domanda «dove va l’Europa?» è legata a doppio filo alla domanda
«dove va la Germania?».
Per cominciare ad abbozzare una risposta, procederemo in tre tappe: in un primo
momento, evidenzieremo alcune invarianti storiche del capitalismo tedesco; in un
secondo momento, ci soffermeremo su alcuni passaggi della storia tedesca
dall’inizio del secolo scorso ad oggi; in un terzo momento, alla luce degli
sviluppi precedenti, arriveremo alle prospettive future.
Ci si potrebbe chiedere quale sia l’utilità di un simile discorso. A mio modo di
vedere, è importante per coloro che si definiscono comunisti essere in grado di
proiettarsi in un orizzonte temporale di medio-lungo termine con delle ipotesi
forti e fondate sui macroprocessi in corso e sul loro punto di caduta.
Ovviamente, nella storia c’è una componente insopprimibile di incertezza e di
contingenza, a cui non sfuggono gli attori più lucidi. Ciò non toglie, per noi,
l’esigenza di cercare di anticipare gli eventi, invece che essere costantemente
in loro balia o al loro rimorchio. Vista la piega che questi stanno prendendo,
non si potrà sfuggire eternamente alla questione del che fare. Affrontarla in
maniera quanto più ragionata possibile, significa individuare i due o tre
scenari più verosimili e pianificare un intervento in vista di essi. Vi
ritorneremo in sede di conclusione.
Invarianti
Per invarianti, devono qui intendersi invarianti relative, giacché nella storia
nulla si ripete mai in maniera identica. Questo detto, chi ha ascoltato il
podcast Il perno originario (che va preso per quello che è: un divertissement),
avrà forse intuito che accordo una certa importanza alla lunga durata, e più
specificamente ai fenomeni di persistenza storica, di inerzia, di tradizione.
Questo, per controbilanciare una tendenza molto diffusa nel nostro ambiente, che
consiste a concentrarsi unicamente sul divenire, sulle trasformazioni. Non che
questa tendenza non abbia la sua legittimità; spinta fino alle sue estreme
conseguenze, essa porta però a farsi una rappresentazione errata del processo
storico, come fosse un perpetuo stato nascente (in altre parole: come se tutto
stesse sempre ricominciando daccapo). Con buona pace dei costruttivismi
filosofici divenuti di moda negli ultimi decenni, un materialismo conseguente
non può abbandonare il postulato secondo cui nulla si costruisce dal nulla, e il
ventaglio di ciò che può essere socialmente «costruito» (o trasformato) è
limitato in varie maniere dal materiale a partire da cui si «costruisce».
Per il caso che ci occupa, questo vuol dire che ogni formazione sociale
specifica – cioè ogni declinazione particolare del modo di produzione
capitalistico nel tempo e nello spazio – non cade dal cielo bell’e pronta, ma si
forma a partire da elementi preesistenti, tra cui (fra gli altri) un territorio
e una popolazione. Ovviamente territori e popolazioni non sono immutabili, sono
essi stessi plasmati da rapporti sociali pregressi e continuano a trasformarsi
nel corso del tempo. Ciononostante, come già anticipato, la portata di queste
trasformazioni, in particolare su temporalità ridotte, non è assoluta, e alla
scala della nostra storia di specie (300 mila anni circa, allo stato attuale
delle conoscenze), uno o due secoli non sono molti.
Nella storia delle nazioni europee, si distinguono sovente – a mo’ di idealtipi
– il caso francese, in cui lo Stato produce la nazione, e il caso germanico, in
cui la nazione produce lo Stato. Questo è il primo punto su cui vorrei attirare
l’attenzione: l’esistenza di un insieme germanofono e il sentimento di
appartenenza nazionale tedesca precedono di gran lunga la sua effettiva
territorializzazione sotto forma statale. Nel cuore della penisola europea,
nella grande pianura che si estende fino alla Russia senza incontrare ostacoli
naturali significativi, lo spazio germanico costituisce un blocco
etnico-linguistico denso e piuttosto compatto. Esso è situato al crocevia fra le
nazioni occidentali territorializzate dall’Atlantico e dal Mediterraneo, da
fiumi e da catene montuose, e l’Est del continente, un vasto spazio
geograficamente aperto ed etnicamente frammentato, dove il districarsi delle
nazioni non ha potuto imporsi con l’evidenza del fatto naturale.
La nazione tedesca ha dunque assunto fin dall’inizio una dimensione
semicontinentale: in primo luogo ostacolando, in virtù della sua posizione, la
proiezione continentale delle nazioni occidentali (Francia, Olanda, Inghilterra,
eccetera); in secondo luogo, proiettandosi essa stessa su scala continentale in
forma di diaspora, senza con ciò darsi confini territoriali chiaramente
definiti. Mi riferisco qui alla storia della Ostsiedlung, cioè alla formazione
di colonie di popolamento tedesche al di là del fiume Elba – un processo assai
dilatato sia dal punto di vista temporale che spaziale, con prolungamenti che
arrivano fin dentro al mondo russo nel XVIII secolo (tedeschi del Volga) e nel
XIX secolo (a Bolnissi, in Georgia). Peraltro, questa spinta verso Est comporta
anche dei fenomeni di retroazione, che permettono di moderare l’idea abituale
secondo cui la concezione tedesca della nazione e della cittadinanza sarebbe
strettamente etnicista: in realtà, nello spazio tedesco, il rinnovamento del
materiale umano generazione dopo generazione è avvenuto (e continua ad avvenire)
in misura non trascurabile attraverso l’assimilazione di popolazioni slave e
magiare.
Questi due elementi – la preesistenza della nazione tedesca rispetto alla sua
formalizzazione statale, e la sua proiezione verso Est – non sono una scoperta
recente, ma si trovano già nella riflessione dei padri fondatori del socialismo
scientifico su questo tema. Ad esempio, si possono trovare indicazioni in tal
senso in una lettera del vecchio Engels a Franz Mehring del 14 luglio 1893[1].
Assai più giovane di Engels, Mehring ha fatto in tempo a partecipare
all’esperienza della Lega di Spartaco e alla fondazione del Partito comunista
tedesco. Come autore, è conosciuto principalmente per la sua biografia di Marx e
per una storia in più volumi della socialdemocrazia tedesca. Meno noti sono
invece i suoi lavori sulla storia sociale e culturale della Germania, tra cui La
leggenda di Lessing (1892), che anticipa molti elementi del dibattito storico
sul cosiddetto Sonderweg, la «via originale» tedesca. Nella lettera citata,
Engels reagisce in maniera entusiastica all’opera di Mehring, offrendogli in
conclusione alcuni spunti supplementari:
«Nello studiare la storia tedesca […] ho sempre trovato che il solo confronto
con le corrispondenti epoche della Francia dà il giusto metro di giudizio,
perché là accade l’esatto opposto che da noi. […] Là, il conquistatore inglese
nel Medioevo rappresenta, nella sua intromissione a favore della nazionalità
provenzale contro quella francese-settentrionale, l’ingerenza estera; le guerre
con l’Inghilterra prefigurano, per così dire, la guerra dei Trent’anni, che però
finisce con la cacciata dello straniero e la sottomissione del Sud al Nord
[della Francia, nda]. Viene poi la lotta del potere centrale con il vassallo di
Borgogna, che si appoggia a possedimenti esteri recitando la parte del
Brandeburgo-Prussia; lotta che però termina definitivamente con la vittoria del
potere centrale e la creazione dello Stato nazionale. Esattamente nello stesso
periodo, da noi lo Stato nazionale (nei limiti in cui il “regno tedesco” entro i
confini del Sacro romano impero può essere chiamato uno Stato nazionale) crolla
totalmente e comincia il saccheggio su vasta scala del territorio germanico
[…]».
E nel paragrafo successivo:
«Particolarmente significativo per lo sviluppo tedesco è inoltre che i due
frammenti di Stato che, alla fine, si sono divisi la Germania non siano, né
l’uno né l’altro, Stati puramente tedeschi, ma colonie su territorio slavo
conquistato: l’Austria una colonia bavarese, il Brandeburgo una colonia sassone;
e che si siano creati una potenza in Germania alla sola condizione di
appoggiarsi su possedimenti stranieri, non tedeschi: l’Austria sull’Ungheria
(per tacere della Boemia), il Brandeburgo sulla Prussia […]».
In quale maniera questi due elementi si coniugano nella storia socio-economica
della Germania moderna? Per cominciare, si può dire che in assenza di un quadro
politico-territoriale stabilizzato, l’integrazione economica della nazione
tedesca ha preceduto la sua integrazione politica, in particolare attraverso
lo Zollverein (1834), una vasta unione doganale promossa non dagli staterelli
dell’area renano-vestfaliana, ma dalla Prussia, una regione orientale che dal
1945 non fa più parte dello spazio tedesco. Tale integrazione economica era
strettamente legata allo sviluppo del settore ferroviario che, per essere
ammortato, doveva necessariamente proiettarsi su un mercato esteso la cui
costruzione ha fatto leva su elementi oggettivi di coerenza etnico-linguistica e
su un sentimento di appartenenza nazionale comune.
Questo aspetto rimanda a una questione più teorica e generale che mi limiterò
solo ad accennare: in un contesto, quello capitalistico, in cui i processi
produttivi più efficienti sono generalmente quelli più intensivi in capitale e
meno versatili, la redditività del capitale investito è legata alla produzione
in serie. Qual è la sua dimensione ottimale? Essa dipende senz’altro dalla
natura concreta delle attrezzature in questione, dalla loro indivisibilità
tecnica e dal loro grado di specializzazione; ma in generale, si può dire che la
dimensione ottimale della produzione in serie nell’ottica di rendere redditizio
il capitale investito si ingrandisce nella stessa misura in cui aumentano il
progresso tecnico e la divisione del lavoro.
Il rovescio della medaglia sta nel fatto che è la dimensione del mercato
potenziale a determinare, dal punto di vista capitalistico, la scelta tra
diverse tecniche produttive, le più efficienti delle quali presuppongono
generalmente l’accesso a un mercato più vasto rispetto a quelle meno efficienti.
In questo senso, l’esistenza o meno di un vasto insieme nazionale o
protonazionale su cui appoggiarsi, predetermina in una certa misura la
possibilità per i vari poli capitalistici di emergere come agenti di primo piano
dell’accumulazione del capitale. L’estensione crescente dei poli capitalistici
egemoni, così come teorizzata da Giovanni Arrighi o da altri autori
riconducibili alla World System Theory, non è estranea a questa problematica.
Novecento
In Germania, lo status di leader legittimo dell’Europa è stato rivendicato
esplicitamente solo di recente dai governi in carica (si veda
la Zeitenwende proclamata da Olaf Scholz). Le ragioni di questo stato di cose
risalgono, a mio modo di vedere, alla prima metà del XX secolo e alla maniera
terribilmente violenta e sanguinosa in cui quel periodo si è concluso.
All’inizio del XX secolo, il relativo declino dell’Impero britannico come
«potenza che domina il mercato mondiale» (Marx) apre una competizione tra due
poli capitalistici ritardatari, quello americano e quello tedesco, la cui
rimonta è stata possibile, in entrambi i casi, solo su basi protezionistiche. In
questa competizione, il grande capitale tedesco soffre di una serie di
debolezze, la principale delle quali è che il suo Stato – al quale Bismarck, per
evitare eccessive ritorsioni, ha dato una forma piccolo-tedesca – non domina il
proprio spazio di riferimento.
Nell’ultimo decennio del XIX secolo, avviene il passaggio dal protezionismo
bismarckiano al libero scambio e alla Weltpolitik (politica mondiale) della
Germania guglielmina, che reclama il suo «posto al sole» fra le grandi potenze
coloniali dell’epoca. Questo passaggio spinge l’Impero tedesco, preso a tenaglia
dall’alleanza franco-russa, in un tentativo di presa di controllo delle vie
commerciali marittime che lo pone in conflitto diretto con l’Impero inglese
(donde, fra l’altro, la dimensione navale del conflitto militare, la guerra
sottomarina degli U-Boot tedeschi).
Al termine del conflitto, i debiti di guerra contratti dagli anglo-francesi e
ripudiati dalla Russia rivoluzionaria vengono ripercossi sulla Germania, da cui
le condizioni draconiane del Trattato di Versailles, che cancella le
acquisizioni territoriali degli Imperi centrali ratificate a Brest-Litovsk
(1918), amputa il grande capitale tedesco di buona parte dei suoi investimenti
esteri, priva la Germania delle sue colonie (principalmente africane: Camerun,
Togo, Namibia, e così via) e le impone il pagamento delle riparazioni. L’ordine
di Versailles orchestrato dai capitali anglosassoni e francesi ratifica inoltre
l’esistenza di tre paesi, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Jugoslavia, con lo
scopo di ostacolare la proiezione tedesca verso Est.
Come noto, la sconfitta militare provoca la caduta dell’Impero e una serie di
lotte di classe con punte insurrezionali dal 1918 al 1923, la cui sconfitta,
combinata con gli effetti devastanti della crisi del 1929, conducono all’ascesa
del movimento nazionalsocialista. L’arrivo al potere di Adolf Hitler pone
definitivamente fine alla politica di conciliazione con le potenze vincitrici
incarnata dalla figura del ministro degli esteri socialdemocratico Gustav
Stresemann, e lancia la Germania in una contestazione frontale degli assetti
territoriali e geoeconomici usciti dalla Prima guerra mondiale. Fra le altre
cose, questa contestazione conduce la Germania a far esplodere i tre paesi
riconosciuti a Versailles (nell’ordine: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia).
Come noto, essa si concluderà in maniera catastrofica, alla fine della Seconda
guerra mondiale, con una capitolazione senza condizioni implicante
smilitarizzazione, smantellamento dello Stato maggiore e smembramento del Reich
stesso.
Sia durante la Prima guerra mondiale che durante la Seconda, lo Stato tedesco
elabora progetti a lungo termine volti all’integrazione economica, doganale e
monetaria del continente europeo. In estrema sintesi, il progetto tedesco di
unificazione europea è quello di un grande spazio (si veda il concetto
di Großraum nell’opera di Carl Schmitt) retto dall’egemonia regionale della
Germania. Nella sua variante nazionalsocialista, esso avrebbe dovuto e potuto
contare, se non su un’alleanza con l’Inghilterra, quantomeno sul suo
non-intervento sul teatro continentale, in linea con la politica inglese
di appeasement degli anni 1930 (che, come noto, viene invece abbandonata dopo la
frammentazione della Cecoslovacchia, orchestra dal Reich nel 1938). Per due
volte, quindi, il tentativo della Germania di accedere allo statuto di egemone
continentale viene sventato.
All’indomani della fine della guerra, gli alleati sono determinati a porre fine
alla Germania sia come polo capitalistico avanzato che come Stato unitario e
indipendente. Separato dall’Austria, che riacquista rapidamente la sua
indipendenza, il territorio tedesco viene balcanizzato tra una Germania
occidentale, a sua volta divisa in tre zone (britannica, americana e francese),
e una Germania orientale, di cui una parte è sotto il controllo diretto di Mosca
(la futura Repubblica democratica tedesca, RDT) e altre due – la Prussia
orientale da un lato, la Pomerania unita all’Alta Slesia dall’altro – vengono
annesse alla futura Polonia «popolare».
Il progetto iniziale americano, secondo le raccomandazioni del piano Morgenthau
elaborato prima della fine del conflitto, è quello di ridurre la Germania sotto
il controllo alleato a un paese di agricoltura e pastorizia. Una politica di
riduzione delle capacità industriali tedesche viene effettivamente perseguita
fino al 1947, attraverso le riparazioni di guerra. Gli impianti industriali
vengono smantellati e trasferiti nei paesi occupanti. Nelle tre zone occidentali
della futura Repubblica federale tedesca (RFT), non c’è libera circolazione di
beni e servizi e nessuna delle tre è autosufficiente dal punto di vista
alimentare. La produzione industriale è scesa al 38% rispetto ai livelli del
1936, mentre il settore agroindustriale risente fortemente della mancanza di
macchinari e fertilizzanti.
Il livello di razionamento alimentare della popolazione è più draconiano di
quello in vigore nella futura RDT: 1000 calorie al giorno contro 1500. Le
autorità americane sul posto comprendono rapidamente quale sia il rovescio della
medaglia. Il generale Clay, responsabile delle forze di occupazione americane,
lo esprime in questi termini: «Tra diventare comunisti con 1500 calorie al
giorno e credere nella democrazia con 1000, la scelta è presto fatta. La mia
sincera opinione è che il razionamento imposto in Germania non solo porterà alla
sconfitta dei nostri obiettivi nell’Europa centrale, ma aprirà la strada ad
un’Europa comunista». Il passaggio della Cecoslovacchia nel frattempo
ricostituita nell’orbita di Mosca nel 1947 e gli scioperi che si moltiplicano
nello stesso periodo nei bacini minerari, siderurgici e automobilistici
dell’Europa occidentale sembrano confermare questa diagnosi. Inoltre, un mercato
così depresso nel cuore dell’Europa non è privo di conseguenze per il capitale
americano, che già prima della guerra soffre di un eccesso di capacità
produttive domestiche destinato a riproporsi a conflitto terminato, quando i
settori economici requisiti e messi al servizio dell’economia di guerra
(automobilistico, chimico, eccetera) devono adattarsi alle condizioni
postbelliche.
La combinazione di questi due fattori convince le autorità americane a
modificare il loro approccio. Inizia così l’epopea dell’Europa europeista,
ovvero la resurrezione del grande capitale tedesco in seno all’impero europeo
dell’America. La specificità di questo processo può essere riassunta nel
seguente paradosso: il riemergere del capitale tedesco non era voluto, ma si è
rivelato passo dopo passo il prezzo necessario e inevitabile del dominio
imperiale americano sulla metà «libera» del continente.
Nella vulgata riguardante la ricostruzione postbellica, si insiste spesso
sull’importanza del piano Marshall. Ma questo non sarebbe stato sufficiente per
rilanciare l’economia dei paesi interessati senza l’Unione europea dei pagamenti
introdotta, anch’essa sotto pressione statunitense, nel 1951. Nell’ambito del
nuovo sistema monetario internazionale varato a Bretton Woods nel 1944, gli
scambi internazionali tra i paesi europei devono essere effettuati in dollari.
Tuttavia, alla fine degli anni Quuaranta i dollari sono scarsi in Europa, poiché
la bilancia commerciale di tutti i paesi europei nei confronti degli Stati Uniti
è in deficit. Questo li costringe, in sostanza, a scegliere se commerciare fra
loro o con gli Stati Uniti. Il meccanismo di clearing istituito con l’Unione
europea dei pagamenti risponde a questo problema.
Allo stesso modo, la ripresa economica non può avvenire senza risolvere i
problemi di approvvigionamento di materie prime di base come il carbone, la cui
produzione è insufficiente a soddisfare il fabbisogno delle industrie, e
l’acciaio, settore che invece registra un eccesso di capacità produttiva. La
Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) istituisce un’autorità
sovranazionale responsabile della gestione delle capacità produttive in questi
due settori. Il piano Monnet-Schuman (rispettivamente commissario al Piano e
ministro degli Affari esteri francesi) per la CECA viene elaborato per risolvere
in via prioritaria i problemi dell’industria francese, ma «venduto» agli
americani come una soluzione che consentirebbe di evitare la ricostituzione del
grande cartello europeo dell’acciaio, dominato a partire dal 1926 dal gigantesco
conglomerato tedesco Stahlverein.
La CECA agisce tuttavia nel senso della costituzione di grandi gruppi nei
settori di sua competenza e, soprattutto, consente di eliminare le ultime misure
che impongono un limite massimo alle dimensioni delle imprese tedesche. Il cuore
produttivo europeo ricomincia a battere.
Durante tutta la prima metà degli anni Cinquanta, la priorità degli imprenditori
tedeschi è il ripristino di un’unione doganale che consenta loro di puntare
sulle economie di scala. Essa viene ottenuta puntualmente nel 1957 con la
creazione della Comunità economica europea (CEE, ovvero l’Europa dei sei: RFT,
Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo). Questa, però, si rivela ben
presto troppo ristretta per contenere la rapida crescita del grande capitale
tedesco, donde gli allargamenti che avranno luogo in seguito[2]. Allo stesso
tempo, lo spazio economico integrato così costituito si rivela una formidabile
valvola di sfogo per i capitali americani, che trovano in quest’area non solo un
mercato di sbocco, ma sempre più (e in particolare dall’inizio degli anni
Sessanta in poi) una zona privilegiata di investimento, attraverso l’apertura di
filiali europee di multinazionali americane, volta non di rado ad aggirare i
dazi doganali della CEE. Queste filiali dispongono di fonti di finanziamento
proprie rispetto a quelle dei capitali tedeschi, francesi, olandesi, italiani,
eccetera (si veda il mercato dell’eurodollaro).
L’Europa europeista è dunque il risultato di due imperativi opposti: quello dei
grandi capitali americani, che mirano ad assicurarsi una vasta zona riservata
all’esportazione di merci e capitali, e quello dei capitali tedeschi, che mirano
a ritrovare la dimensione critica che consenta loro di inserirsi efficacemente
in un contesto di competizione oligopolistica vieppiù internazionalizzata.
Questi due imperativi si sono combinati in modo più o meno virtuoso, con alti e
bassi, per diversi decenni. Tutto questo è avvenuto nel quadro dell’impero
europeo dell’America che, pur ammettendo la crescita e lo sviluppo del capitale
tedesco, imponeva forti vincoli alla sovranità della Germania (anche
riunificata), secondo il motto della NATO: «Tenere gli americani dentro, i russi
fuori e i tedeschi sotto». Il medesimo dualismo si è poi tradotto anche
all’interno delle alte istanze dell’UE – Corte di giustizia, Commissione,
Consiglio, Banca centrale, Parlamento – che, lungi dall’avere un orientamento
univoco, fanno prevalere, a seconda delle loro prerogative e del loro
funzionamento, il punto di vista tedesco o quello americano (anche travestendolo
da espressione dei paesi europei periferici, se necessario), cosicché
l’istituzione nel suo insieme si configura come un organo di mediazione fra
l’uno e l’altro, in un quadro generale che escluda il ristabilirsi di una piena
sovranità tedesca («i tedeschi sotto»)[3].
Riassumendo: dopo la guerra e la capitolazione senza condizioni del Reich, dopo
la sua balcanizzazione tra il 1945 e il 1949, dopo la ricostituzione di due
Germanie su una base più limitata all’interno di un’Europa divisa dalla cortina
di ferro, la ricostruzione economica della sua parte occidentale finisce per
riportare, nel giro di qualche decennio, la Germania federale nel girone dei
grandi paesi industrializzati. Restano però numerosi fattori caratteristici del
mondo bipolare che rendono ancora prematura la questione dell’egemonia
continentale, potenziale o effettiva.
Verso la fine degli anni Sessanta, il polo capitalistico tedesco nuovamente in
rimonta (come quello giapponese, del resto) ha ricominciato a farsi esportatore
di capitali, ma questa tendenza risulta ancora assai frenata dai meccanismi di
controllo sui movimenti di capitale allora vigenti. Inoltre, la divisione
dell’Europa dettata dalla cortina di ferro sottrae tutta la parte orientale del
continente europeo alla penetrazione tedesco-occidentale di merci e capitali
(per quanto evidentemente degli scambi esistano: inaugurazione dell’oleodotto
Druzba nel 1963, Ostpolitik 1969-1974, scambi commerciali RFT-RDT, eccetera).
Questo fatto costringe il grande capitale tedesco a limitare per lo più la sua
espansione commerciale in direzione dell’Europa atlantica e mediterranea,
allargando la CEE prima alla Gran Bretagna, all’Irlanda e alla Danimarca (1973),
poi alle ex dittature militari periferiche: Grecia (che aderisce alla CEE nel
1981), Spagna e Portogallo (che vi aderiscono nel 1986). Nei decenni Settanta e
Ottanta, la dimensione mercantilistica, cioè legata all’esportazione di merci,
prevale ancora fortemente sulla dimensione imperialistica, legata
all’esportazione di capitali – fatto confermato in controluce dai tentativi di
integrazione monetaria «morbida» del Serpente monetario (1972-1978), e del
Sistema monetario europeo (SME, 1979-1993), elaborati in risposta alla
fluttuazione monetaria del dopo-Bretton Woods, principalmente nell’ottica di
evitare le svalutazioni competitive degli altri paesi membri del Mercato
comune.
È alla metà degli anni Ottanta – e in particolare con gli accordi del Plaza
(1985) che impongono alla Germania una rivalutazione del marco sul dollaro – che
lo scenario inizia a cambiare abbastanza rapidamente, sciogliendo via via i nodi
prima elencati. Nel 1986, l’Atto unico europeo, con l’introduzione della libera
circolazione dei capitali nella CEE (fortemente voluta dalla Germania) può
essere considerato come lo spartiacque che segna l’effettivo ritorno sulla scena
storica di un imperialismo tedesco in senso stretto, ovvero come fonte di
massicce esportazioni di capitale.
Questo non significa che la Germania sia in assoluto l’unico imperialismo
europeo rimasto sulla scena: semplicemente, la sua portata e il suo potenziale
sul piano economico sono incomparabilmente più grandi rispetto a quelli di paesi
come la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia – come il seguito degli eventi
tende a mostrare.
Nel 1990 la Germania occidentale effettua l’Anschluss della RDT, avviando con
ciò la brusca ristrutturazione dell’economia tedesco-orientale, anche a prezzo
di mandare in frantumi il SME (tre anni più tardi). Nel 1991 l’URSS si dissolve,
aprendo la strada alla rapida frammentazione del blocco dell’Est. Allo stesso
tempo, ha inizio il lungo decennio delle guerre jugoslave, innescate dal
riconoscimento unilaterale dell’indipendenza slovena e croata da parte della
Germania. A questi eventi epocali segue, nel 1992, il «divorzio di velluto»,
cioè la separazione amichevole della Repubblica Ceca e della Slovacchia,
divenuti così degli staterelli da 10 e 6 milioni di abitanti rispettivamente,
che in seguito saranno interessati da un intenso movimento di investimenti
tedeschi. Da allora, un vasto spazio politicamente frammentato, composto da
piccoli Stati con poca autonomia sia economica che politica, viene coinvolto
dalla dinamica del capitale tedesco, che ne fa un territorio economicamente
integrato.
Infine, questa fase segna anche il ritorno a una politica estera interventista,
caratterizzata dall’invio della Bundeswehr per la prima volta dal 1945 fuori dai
confini nazionali, nell’ambito dell’intervento della NATO in Kosovo (1999). Gli
anni Novanta segnano dunque una svolta diplomatica, in quanto la Germania mette
in discussione in modo volontaristico l’architettura europea ereditata da
Versailles. Ma segna anche una svolta economica, in quanto l’Europa orientale è
uno spazio già industrializzato, con una forza lavoro qualificata, e una
vocazione industriale che viene messa al servizio degli investimenti tedeschi.
In tutti i paesi della zona, i conglomerati tedeschi realizzano tra il 25 e il
40% dei loro investimenti, dando vita a un vasto blocco economico organizzato,
sinergico, funzionale e compatto.
La «nuova Europa» si organizza ormai attorno al cuore industriale tedesco e al
suo hinterland continentale, uno spazio economicamente vivace che contrasta in
maniera crescente con la stagnazione dell’Europa atlantica e mediterranea.
Tuttavia, per ragioni legate sia alle ipoteche che continuano a pesare sulla
sovranità politica dello Stato tedesco, sia ai meccanismi interni di
legittimazione politica, sia alla volontà di preservare rapporti di buon
vicinato con i paesi occupati durante la guerra, nei successivi anni Duemila
nessun leader politico tedesco osa ancora alludere all’egemonia continentale
tedesca come un obiettivo auspicabile. In questo frangente, l’esistenza di un
interesse nazionale tedesco (che come qualsiasi «interesse nazionale» non è un
dato, ma un prodotto di mediazioni e arbitraggi) è politicamente inammissibile,
e «l’Europa» diviene il nome ufficiale di questi interessi man mano che la CEE,
ora divenuta UE, prende forma e slancio[4].
Pur sfruttando a proprio vantaggio le faglie aperte dalla fine del mondo
bipolare, la Germania mantiene dunque un profilo basso, preoccupandosi piuttosto
di dotare l’UE di un complesso di regole (Maastricht 1992, Amsterdam 1997, e
così via) che consentano una sorta di «governo tecnico» sui paesi membri,
surrogato di un’autentica egemonia politica. Alla fine degli anni 1990,
l’introduzione della moneta unica completa l’edificio, con l’illusione
(soprattutto francese) che essa equivalga alla messa in comune del marco tedesco
e, di conseguenza, all’impossibilità definitiva di qualsiasi egemonia o
autonomia tedesca. La Germania, dal canto suo, lascia fare e trova persino una
certa utilità alle velleità di grandezza del galletto francese, che si sogna
capofila politico dell’UE.
Sonderweg del terzo millennio
La prima metà degli anni Duemila è una fase di rallentamento economico, in cui
la Germania, come sovente nel corso della sua storia, viene considerata come un
paese destinato al declino. Sulla stampa economica internazionale vi si fa
riferimento come «il malato d’Europa». È questo il periodo delle dolorose
riforme del mercato del lavoro del governo Schröder, che rivedono al ribasso il
compromesso sociale (mantenimento dell’occupazione in cambio di maggiori margini
di compressione salariale), nell’ottica di rilanciare la competitività
industriale in loco. Cosicché, sotto la guida di Angela Merkel (2005-2021), la
Germania consolida ampiamente il suo statuto di potenza economica. Diversamente
da quanto accade altrove, lo spartiacque della grande crisi del 2008 gioca
piuttosto a suo favore.
Non ripercorrerò qui nel dettaglio la storia della crisi dei debiti sovrani in
Europa e degli anni successivi. A questo proposito, si può dire che in una prima
fase (2008-2015) la Germania si è vista costretta a più riprese a uscire allo
scoperto per far valere gli interessi specifici dei suoi settori capitalistici
dominanti, in condizioni in cui non era più possibile presentarli come interessi
generalmente europei (difesa dell’euro forte tra il 2008 e il 2012,
disciplinamento della Grecia, accoglienza dei rifugiati siriani nel 2015 e crisi
migratoria associata, eccetera).
Il binomio franco-tedesco, che fino ad allora aveva contribuito a contenere la
dinamica tedesca, si spacca sulla gestione della crisi greca: malgrado
l’appoggio degli Stati Uniti, la Francia, sostenitrice di una politica più
flessibile atta a preservare gli interessi del proprio capitale bancario, ne
esce provvisoriamente sconfitta. La Germania, dal canto suo, afferma il suo
controllo sugli affari interni dei membri dell’eurozona (in Italia, ad esempio,
spinge alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi), mantiene una politica della
moneta forte e avvia un nuova fase di accumulazione che inizia a basarsi
maggiormente sulle esportazioni, prima di merci e poi di capitali, verso i paesi
BRICS – Cina in primis.
In una seconda fase, grossomodo dal 2015 in avanti, essa si trova però a fare i
conti con lo scontento che questa politica suscita sia nel contesto europeo che
internazionalmente (soprattutto negli Stati Uniti), e deve nuovamente fare un
passo indietro. La Germania accetta così di essere messa in minoranza in seno
alla direzione della BCE sulla questione della politica monetaria dell’eurozona
(il bazooka di Mario Draghi, annunciato nel 2012 e attivato nel 2015) e ancora
nel 2020, durante la crisi del Covid, con la ripresa del quantitative easing da
parte della BCE, associato a un massiccio piano di aiuti (Next Generation EU)
concesso dall’UE sotto la minaccia più o meno esplicita di un Italexit.
Questo approccio riluttante rispetto al ruolo di egemone politico in Europa
raggiunge a mio avviso i suoi limiti con la guerra in Ucraina. Presa nel fuoco
incrociato del ricatto morale a sostegno dell’Ucraina, della messa sotto accusa
delle sue interdipendenze economiche con la Russia, dell’attacco alle sue
infrastrutture energetiche (Nord Stream I e II), delle spinte recessive che da
allora gravano sul suo tessuto economico interno e su quello del suo hinterland,
la Germania deve finalmente decidere a quale gioco vuole giocare. Il momento
delle scelte difficili si avvicina.
In parallelo, assistiamo nell’ultimo decennio a un tentativo di autonomizzazione
da parte delle alte istanze dell’UE, e in particolare della Commissione europea.
A partire dalla Brexit, che giunge a compimento nel 2020, questo tentativo
diviene una vera e propria fuga in avanti. Esso si è tradotto in un impiego
sempre più incostante e discrezionale del famoso principio di sussidiarietà,
applicato in modo ascendente o discendente a seconda delle circostanze, dei
compromessi o degli intrighi politici: ascendente quando l’UE, i suoi
rappresentanti e i suoi portavoce si attribuiscono funzioni che in linea di
principio non sono le loro (come nel caso del dossier ucraino, con l’improvvisa
apparizione di una «diplomazia europea» condotta dal duo Von der Leyen-Breton);
discendente quando l’UE lascia che i paesi membri se la cavino come possono con
questioni che sarebbero di sua competenza, ma che vengono nascoste sotto il
tappeto finché che non divengono altamente esplosive.
In sintesi, tutto ciò genera un quadro di difficile lettura, delegittimato e
inefficiente (anche quando sono in gioco somme ingenti: si veda il Next
Generation EU e i suoi esiti), tanto più che numerosi paesi, nonostante la
profusione di annunci roboanti da parte della Commissione, conoscono una
stagnazione economica di cui per ora non si vede la via d’uscita. Inoltre, i
nazionalismi prosperano ormai anche all’interno delle istituzioni
rappresentative dell’UE (in particolare nel Parlamento europeo), per quanto il
loro ruolo sia notoriamente ridotto. Quest’ultimo punto, a mio avviso, è indice
di una tendenza a lungo termine che sta modificando l’arena europea in base ad
accordi e iniziative intergovernative, nonostante gli sforzi in senso contrario
della casta politica «europea» situata in cima alla piramide.
Abbiamo dunque a che fare con due tendenze contraddittorie: da un lato, le
spinte della Commissione che, attraverso una politica del fatto compiuto, cerca
di mantenere per sé l’iniziativa e di serrare i ranghi; dall’altro, la tendenza
ad un’Europa delle nazioni, un’Europa a geometria variabile o un’Europa à la
carte, destinata a sfuggire in maniera crescente al controllo della Commissione
(si veda ad esempio i vertici di «volenterosi» sulla questione ucraina, prima a
15 e più recentemente a quattro, che hanno coinvolto anche la Gran Bretagna
post-Brexit).
La guerra in Ucraina ha reso possibile un ultimo tentativo di centralizzazione
sovranazionale da parte dell’UE, soluzione alternativa a quella di un grande
spazio esplicitamente dominato dalla Germania. Tuttavia, questo tentativo,
incarnato dal protagonismo politico e mediatico di Von der Leyen, è fallito.
Tutto l’attivismo di Ursula e dei suoi soldatini per fare della Russia il nemico
assoluto, silenziare le voci discordanti e promuovere regime change nei paesi
membri recalcitranti, spingere a una rapida adesione dell’Ucraina all’UE
nonostante la lista già corposa di paesi candidati, e così via, tutto ciò non è
bastato a cambiare l’esito dello scontro militare sul territorio ucraino. La
nuova amministrazione americana rincara la dose rompendo ufficialmente con la
«diplomazia dei valori» che si supponeva condivisa dall’UE e dagli Stati Uniti,
e avviando colloqui per la cessazione del conflitto in Ucraina senza includere
rappresentanze dell’UE al tavolo dei negoziati.
Il centralismo di Von der Leyen appare sostenibile solo nel quadro di una
prosecuzione dello scontro transatlantico con la Russia, riacceso e pilotato a
distanza dagli Stati Uniti. Solo nel quadro di un’alleanza transatlantica
stretta, l’Unione europea può tenere assieme i suoi diversi membri[5]. A meno
che l’attuale orientamento americano non subisca ulteriori inversioni, questo
scenario non è il più probabile, anche malgrado le attuali iniziative europee
volte a rilanciare la spesa militare in Europa in maniera coordinata dall’UE (vi
ritornerò in sede di conclusione).
A trent’anni dalla svolta del 1989-1991, dell’ordine mitteleuropeo di Versailles
rimane in piedi solo la Polonia. Naturalmente, dal punto di vista economico essa
è strettamente annodata al complesso produttivo tedesco: nel 2021,
l’interscambio tra Germania e Polonia ha superato quello tra Germania e Italia,
la quale resta un importante polo industriale in Europa, forte di una
popolazione 60 milioni di abitanti (per quanto in rapido invecchiamento).
Tuttavia, la fissazione del confine tedesco sulla linea Oder-Neisse, stabilita a
Potsdam nel 1945 e che ha amputato le due Germanie post-belliche della Prussia –
confine il cui riconoscimento tardivo è stato imposto dagli Alleati in cambio
della riunificazione – lascia in realtà aperta la possibilità di una disputa
territoriale tra i due paesi.
La Polonia è un paese di quasi 40 milioni di abitanti, uniti da una forte
coscienza nazionale. Essa possiede quindi i due elementi necessari per mettere i
bastoni fra le ruote ad un’egemonia politica tedesca esplicitamente affermata:
la dimensione critica del suo mercato interno, che le consente di rivendicare
una certa autonomia economica sostenendo lo sviluppo di un’industria
propriamente nazionale, quantomeno in determinati settori, e quel sentimento
nazionale che sostiene la sua capacità di affermare la propria indipendenza nei
confronti dell’ingombrante vicino. Dalla disgregazione del blocco dell’Est in
poi, la Polonia è riuscita a cavalcare lo sviluppo economico tedesco. In Europa,
essa appare come l’unico paese in grado di far fallire un nuovo eventuale
tentativo tedesco di instaurare il suo Großraum – fatto che non sfugge agli
anglo-americani, i quali vedono in essa il principale vettore dell’atlantismo, e
ne hanno fatto il loro avamposto geopolitico sul continente.
Tutto ciò ha implicazioni importanti allorché si consideri l’imperialismo non
solo come il dominio di un determinato paese o gruppo di paesi, ma come un
processo dinamico di esportazione di una dinamica di sviluppo economico.
Giacché, diversamente dal mercantilismo, basato sull’esportazione di merci,
l’imperialismo, esportando capitali, esporta necessariamente una dinamica di
sviluppo.
Laddove una simile dinamica giunge a coinvolgere un paese abbastanza grande e
coeso, sia dal punto di vista quantitativo (dimensioni del mercato interno) che
qualitativo (senso di appartenenza nazionale, necessario a disciplinare la sua
classe capitalista), l’imperialismo crea esso stesso gli elementi della propria
sovversione. Il rapporto fra Stati Uniti e Cina è un caso esemplare, ma quello
tra Germania e Polonia potrebbe costituire un esempio analogo di questo tipo di
evoluzione su una scala più ridotta. La contestazione della posizione egemonica,
che mette in discussione la supremazia del paese dominante, può quindi portare
quest’ultimo a sostituire i mezzi economici con metodi e strumenti
politico-militari.
È evidente come per la Germania vi sia ancora un grande divario tra la prestanza
economica del suo grande capitale, e la capacità di tradurre quest’ultima in
potere politico e militare nell’arena internazionale. Come già accennato, un
simile divario non risulta esclusivamente da un’imposizione esterna (americana),
nella misura in cui questa è stata interiorizzata per decenni dalle burocrazie
di Stato, dal sistema dei partiti e dalla mentalità di ampi strati della
popolazione.
Gli esiti della Seconda guerra mondiale hanno prodotto una cultura politica
molto consensuale, che la caduta del Muro ha reso ancor più conformista. Il
grande padronato tedesco ha imparato a farsi discreto, e i partiti di governo si
sono abituati a un linguaggio privo di contenuto. «La fine della storia è stata
fino a poco tempo fa una realtà per la Germania»[6]. Per lo stesso motivo, però,
gli annunci di cambiamenti radicali da parte del ceto politico moderato non
devono essere sottovalutati. I segni di accelerazione storica si stanno
moltiplicando ovunque e – dalla Zeitenwende alle prospettive di riarmo, passando
per la soppressione del freno all’indebitamento – la Germania non fa eccezione.
In definitiva, la visione qui proposta si distanzia dalle analisi del
capitalismo tedesco in termini di neomercantilismo – tra le quali la più
convincente è senz’altro quella di Joseph Halevi[7]. Ciò non significa che la
dimensione mercantilistica (export oriented, direbbero gli economisti) sia
necessariamente marginale. Ma bisogna distinguere, da un lato, la natura dei
rapporti economici che il grande capitale tedesco ha intrattenuto con i paesi
della CEE prima, dell’UE/eurozona poi e, dall’altro, la natura dei rapporti con
le aree economiche situate all’esterno di questo perimetro.
La distinzione fra i due piani suggerisce il succedersi di tre diverse fasi: una
prima fase, propriamente mercantilista (1949-1985), nel corso della quale la
preoccupazione centrale del grande capitale della RFT è stata quella di
ricostruire attorno a sé un’area di mercato sufficientemente estesa da poter
assorbire le economie di scala che esso intendeva applicare internamente; una
seconda fase (1986-2008) nel corso della quale il grande capitale tedesco si è
dispiegato al di fuori della RFT, poi della Germania riunificata, allargando
ulteriormente la sua area di mercato privilegiata, ma soprattutto trasformando
una parte di essa in una zona di investimento in cui approfondire la divisione
del lavoro, strutturando catene del valore complesse; una terza fase
(2008-2022), nel corso della quale gli incrementi di produttività preparati
dalla fase precedente hanno permesso una più forte penetrazione dei mercati
extraeuropei, trasformando inoltre alcuni di questi – in particolare quello
americano e quello cinese – in zone di investimento diretto all’estero.
È ancora troppo presto per definire in maniera soddisfacente la nuova fase, ma
quel che si può dire fin da ora è che la sua evoluzione sarà fortemente segnata
dalla grande scommessa americana volta a riequilibrare in maniera ricattatoria
ed extraeconomica i grandi squilibri globali (global imbalances) intercorrenti
tra gli Stati Uniti e i paesi che detengono i maggiori surplus commerciali nei
loro confronti. Nel caso della Germania, questa scommessa implica di attirare
più investimenti diretti tedeschi verso gli Stati Uniti, sia provocando
un’ondata di delocalizzazioni nel contesto domestico, sia dirottando gli
investimenti esteri tedeschi già in essere altrove (Cina).
Dalla fine degli anni Novanta fino in tempi recenti, l’euro ha formalizzato in
maniera relativamente adeguata la combinazione di mercantilismo e imperialismo
del capitale tedesco sui due piani summenzionati, ovvero in seno alla propria
zona monetaria e al di fuori: un’isola di cambi fissi in un oceano di cambi
fluttuanti; una valuta allo stesso tempo forte e svalutata quanto basta per
accrescere la competitività delle esportazioni tedesche al di fuori
dell’eurozona. Quali che siano i lidi verso i quali il capitale tedesco si
dirigerà nei prossimi anni, il necessario prevalere dell’esportazione di
capitali sull’esportazione di merci renderà probabilmente superflua la
svalutazione del Deutsche Mark data dall’euro. Ciò vale anche nell’ipotesi di un
ricentramento degli investimenti diretti tedeschi sul continente, corrispettivo
economico del grande spazio di schmittiana memoria.
Conclusione: guerre di oggi… e di domani
Il piano di riarmo europeo ReArm Europe (già ribattezzato Readiness 2030) va
visto e analizzato alla luce delle tendenze e dei processi messi in luce fin
qui. Verosimilmente, esso avrà effetti differenziati a seconda dei paesi, dei
loro tessuti produttivi e delle loro capacità di riconversione dal civile al
militare (ad esempio il settore automotive tedesco e il suo indotto). Inoltre,
esso verrà attuato in un contesto di perdita di controllo delle alte istanze
dell’UE sulle spinte centrifughe, e reciprocamente conflittuali, agite dagli
Stati membri o da gruppi di Stati membri.
Il ruolo della Germania in questo quadro non è ancora definito, e dipende dal
suo posizionamento su una scacchiera più grande. Sulla carta, essa ha tre
opzioni: a) rafforzare la sua posizione di junior partner di Washington,
puntando tutto sull’accesso agli Stati Uniti sia come mercato di sbocco, sia
come zona privilegiata di investimento; b) cercare di traghettare l’UE o una
parte di essa verso un’intesa «eurasiatista» con la Cina (in attesa di poter
riallacciare i rapporti con la Russia); c) decidere di contare sulle proprie
forze, tentando ancora una volta la carta dal grande spazio, nell’ottica di
svuotare gli altri paesi europei dei loro capitali nazionali.
L’occasione fa l’uomo ladro: a più di una decina d’anni di distanza dalla crisi
dei debiti sovrani in Europa, i paesi della facciata atlantica e mediterranea
sono ormai sufficientemente indeboliti da non potersi opporre ad una scalata
aggressiva del capitale tedesco nei confronti delle loro economie. Resta una
sola vera spina nel fianco: la Polonia. Significativo in questo senso che fra i
sedici paesi che hanno finora attivato il principale dispositivo del piano di
riarmo europeo (la clausola di esclusione delle loro spese militari dalle regole
del Patto di stabilità e crescita), manchino all’appello la Francia, l’Italia e
la Spagna, mentre i due principali paesi aderenti siano, guarda caso, Germania e
Polonia: per farsi la guerra domani?
Per la Germania, il piano di riarmo si inscrive in una svolta più generale che
la porterà ad aumentare considerevolmente la sua spesa pubblica. Si tratta di un
keynesismo tutto sommato tradizionale, i cui eventuali benefici si faranno
apprezzare sul lungo periodo. In quale misura questa politica economica sia una
risposta al tentativo americano, già da tempo avviato e in fase di escalation,
di suscitare un’ondata di delocalizzazioni e di investimenti diretti tedeschi
negli Stati Uniti, è un interrogativo destinato a rimanere per il momento senza
risposta. Comunque sia, ne va della sostenibilità del compromesso sociale
domestico, nel solo paese europeo «occidentale»[8] che abbia conservato in tali
proporzioni distretti industriali e grandi concentrazioni operaie sul suo
territorio.
Nel frattempo, l’afflusso sul mercato obbligazionario europeo di un volume
massiccio di Bund tedeschi, offrendo agli investitori finanziari un titolo di
Stato di alta qualità e in quantità ben più grandi che in passato, potrebbe
innescare tensioni questa volta focalizzate sulla Francia – tensioni che
potrebbero sancire lo scioglimento dell’eurozona. E se fosse questo lo scopo
ricercato? Dalla crisi del 2008 in poi, si sono molto rimproverate alla Germania
le sue «ossessioni» austeritarie e le ricadute deflazionistiche della sua
politica economica sugli altri paesi europei; meno si sono prese in conto le
reali conseguenze di una Germania che le abbandona.
Ma a monte di simili passaggi, incombono in maniera più ravvicinata le
conseguenze politiche della vittoria russa in Ucraina. Quando bisognerà infine
mettere questa vittoria per iscritto, l’onda di discredito sulle istituzioni
europee e sui gruppi dirigenti dei paesi che più hanno spinto l’Ucraina allo
sbaraglio contro la Russia sarà prevedibilmente considerevole.
I movimenti sociali che potranno emergere da un simile scenario non saranno
puramente proletari: saranno interclassisti, sovente nazionalisti, diretti
contro il declassamento dei loro paesi dettato dalla leggerezza (vera o
presunta, poco importa) di ceti politici sciagurati, e traditori del sacrosanto
«interesse nazionale».
Ma è in simili movimenti, e non in altri più conformi ai nostri schemi e ai
nostri desiderata, che bisognerà intervenire nell’ottica di far apparire
un’opposizione di classe con una visione antisistemica (anticapitalista). È a
questo livello che si pone a mio avviso la prospettiva di una ripresa del
movimento di classe nei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ed è in primo
luogo a questo tipo di scenario che dobbiamo prepararci.
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[1] Una traduzione italiana della lettera si può trovare in appendice
all’antologia di Karl Marx e Friedrich Engels, La concezione materialistica
della storia, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2008. Reperibile
anche
qui: https://sinistracomunistainternazionale.com/wp-content/uploads/2015/06/lettera-di-engels-a-franz-mehring-14-luglio-1893.pdf.
[2] Per il resoconto storico di tutta questa parte, ho attinto a piene mani dal
prezioso libro di Jean-Christophe Defraigne, De l’intégration nationale à
l’intégration continentale. Analyse de la dynamique d’intégration supranationale
européenne des origines à nos jours, L’Harmattan, Parigi, 2004.
[3] Per una storia delle alte istanze dell’UE, vedi Perry Anderson, «Ever Closer
Union?», London Review of Books, vol. 43, n.1, gennaio 2021.
[4] Wolfgang Streeck, «Overextended: The Europeans DIsunion at a
Crossroads», American Affairs, vol. IX, n.1, primavera 2025, pp. 100-125.
[5] Ibid.
[6] Ulrike Franke, «La questione tedesca secondo una millennial», Limes, n.1,
2022, p. 109.
[7] Vedi ad es. Joseph Halevi, «Il neomercantilismo tedesco alla prova della
guerra», Moneta e credito, vol. 75, n. 298, 2022, pp. 203-211.
[8] Le virgolette sono d’obbligo. È solo al prezzo di grandi forzature e amnesie
che la Germania può essere considerata come un paese «occidentale».
Più di trenta paesi si sono riuniti a Bogotà il 15 e il 16 luglio per la
Conferenza d’Emergenza convocata dal Gruppo dell’Aia, nato a gennaio 2025, con
l’obiettivo di fermare il genocidio in corso a Gaza. la conferenza co-presieduta
da Colombia e Subafrica ha avuto inizio in una piazza germita di persone con il
[…]
Ripubblichiamo due contributi radiofonici che hanno il pregio di illustrare le
caratteristiche che si propone di avere l’assemblea nazionale “Guerra alla
guerra” di domenica 27 luglio alle ore 12.30 a Venaus, durante il Festival Alta
Felicità.
Insieme a un compagno di Zaum, collettivo universitario della Sapienza, e ad una
compagna del CUA di Torino e della rete stop Riarmo parliamo dell’appello Guerra
alla guerra per un’assemblea nazionale contro la guerra, il riarmo e il
genocidio in Palestina
da Radio Onda Rossa
Facciamo appello a tutti e tutte coloro che sentono la necessità di sviluppare
un percorso largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e
il genocidio in Palestina. A tutt coloro che già si mobilitano in tal senso e
vogliono condividere i loro percorsi, a tutt coloro che vogliono mettersi in
dialogo e che vogliono convergere per curvare un destino che sembra
ineluttabile.”
Così inizia l’appello d’indizione all’assemblea nazionale “Guerra alla guerra”
indetta per domenica 27 luglio h 12.30 a Venaus, durante il Festival Alta
Felicità.
Di fronte ad uno scendario di guerra globale attuale con le rivolte che stanno
scoppiando in tutto il mondo ci riportano lo sguardo sui nostri territori e alla
cosiddetta guerra interna: i proventi straordinari delle industrie belliche
italiani, le numerose basi NATO, così come i decreti sicurezza e i dl
emergenza sulle periferie, le zone speciali, i siti di interesse nazionale sono
alcuni esempi di come la militarizzazione cresca intorno a noi.
Ne parliamo con Zeudi, compagna romana che ha partecipato alla costruzione
dell’assemblea
da Radio Blackout
A seguito della dichiarazione di cessate il fuoco tra l’esercito
dell’autoproclamata autorità siriana e i gruppi armati locali a maggioranza
drusa di giovedì 17 luglio, già dalla stessa sera sono ricominciati gli scontri
nella città di Sweida: l’esercito, ci riporta Marco Magnano in diretta da
Damasco, si sta schierando nuovamente verso la città. La miccia […]
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per
rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce.
Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per
cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia
il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono
registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record
assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove
i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica.
Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi
di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle
persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani
nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e
dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera
soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è
stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera
del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la
relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale
collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro
Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato
segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai
detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta.
A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria
Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto,
hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di
fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto.
Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non
entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa
sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il
garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come,
dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei
centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di
rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure
di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per
motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata
effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che
lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di
monitoraggio in luoghi tanto delicati.
Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza
(Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un
fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle
forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso
può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale,
comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli
imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di
“rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura
delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la
reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le
manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”,
una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo”
punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e
restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di
Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche
durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e
urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità,
l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di
“ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non
violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più
che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio
di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto
alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025,
Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di
proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il
reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia
da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in
particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per
permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza
rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari
sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo.
Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che
“il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia
accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto
un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di
proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con
certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo
la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie
presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora
depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile
è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo
difensore non era stato probabilmente nominato”.
Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto
riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti
penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati,
insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e
portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica
si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano
e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave
patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne,
ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la
Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità
ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento.
Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale
di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra
cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia
aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era
stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza
sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La
Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne,
sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si
potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha
condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto
tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il
reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità,
lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante
ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale
reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).
Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della
custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio
2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi
o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore,
antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica
formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove
il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per
cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida,
rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state
documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione
forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e
le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt),
tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti
come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di
monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune
nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di
trasparenza e tutela.
L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche
all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha
avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti
a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023.
Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono
collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò
le escluderebbe dalla giurisdizione italiana. La Corte di Cassazione, con
l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono
“formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali
italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due
questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando
che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione
extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal
diritto europeo”.
Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre
centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e
Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania.
Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma,
Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di
alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per
l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte
Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione
dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione
della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una
norma, l’articolo 14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce
con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti
secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di
legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che
l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e
continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa
arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni,
durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento
fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo
delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se
dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e
111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto
alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le
difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La
Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione
dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di
trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va
sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un
preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che
regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata,
condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta
costituzionalmente inammissibile.
È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere
sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un
garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che
finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato
di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali:
tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le
garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla
giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una
precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e
sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali:
è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando
il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di
essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
“Facciamo appello a tutti e tutte coloro che sentono la necessità di sviluppare
un percorso largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e
il genocidio in Palestina. A tutt coloro che già si mobilitano in tal senso e
vogliono condividere i loro percorsi, a tutt coloro che vogliono mettersi in
dialogo e […]
Una funivia divide Trieste: per il Comune è un’opera di mobilità sostenibile,
strategica per il turismo; per comitati e ambientalisti è un progetto opaco e
impattante. Dopo aver perso i fondi Pnrr è stata rilanciata con fondi statali.
Il Tar ne deciderà ora il destino
L'articolo Il paradosso della transizione: la funivia che l’Europa ha bocciato e
l’Italia ha promosso proviene da IrpiMedia.
Ostaggio della ragione di Stato, «morirà libero a Beirut come resistente»
Abbiamo tradotto questo testo apparso su ContreAttaque in seguito alla notizia
della decisione di fare uscire dal carcere Georges Ibrahim Abdallah dopo 41 anni
di reclusione ingiusta, simbolo della persecuzione e dell’attacco da parte di
Stati Uniti e Israele in primis e, di conseguenza della totale complicità di uno
Stato europeo come la Francia, nei confronti di un militante anti-imperialista,
rivoluzionario marxista libanese. Il testo traccia alcuni episodi salienti della
storia di Abdallah, ricostruendo responsabilità e accanimento giudiziario,
mostrando un esempio di resistenza e coerenza lungo decenni.
Non osavamo più crederci, eppure la decisione è stata presa questo giovedì 17
luglio. Georges Abdallah sta per uscire di prigione. Il rivoluzionario marxista
libanese è rinchiuso da più di 40 anni nelle carceri dello Stato francese. Oggi,
dopo la liberazione di Leonard Peltier negli Stati Uniti, è uno dei più antichi
prigionieri politici del mondo, condannato a un purgatorio infinito dalle
autorità francesi.
Il prossimo 25 luglio, sarà portato all’aeroporto di Tarbes, poi prenderà un
volo da Roissy a Beirut. Il Libano ha confermato alla corte d’appello che si
sarebbe fatto carico dell’organizzazione del ritorno. Anche se la decisione può
essere oggetto di un ricorso in cassazione, non sarà sospensiva, il che
significa che potrà rientrare in Libano anche se il ricorso è avviato. Era
liberabile dal 1999, ma tutte le sue richieste erano state rifiutate. L’avvocato
di Georges Abdallah, Jean-Louis Chalanset, teme che possa essere assassinato da
un drone israeliano al suo ritorno in Libano. In ogni caso, «morirà libero a
Beirut come resistente» aggiunge. Ritorno su un affare di Stato.
Georges Ibrahim Abdallah, ostaggio dell’imperialismo
Georges Abdallah è un militante comunista libanese filo-palestinese. Negli anni
’80, partecipa alla creazione della FARL – Frazione dell’Esercito Rivoluzionario
Libanese – che praticherà azioni di guerriglia in Medio Oriente e in Europa, in
particolare in Francia. La FARL è un’organizzazione marxista e antimperialista
impegnata nella liberazione della Palestina.
Nel 1982, il gruppo rivoluzionario armato libanese rivendica gli omicidi del
tenente colonnello Charles R. Ray a gennaio, un addetto militare americano, e di
Yacov Bar Simantov ad aprile, consigliere dell’ambasciata israeliana a Parigi.
Queste operazioni armate contro i due diplomatici fanno entrare la FARL nel
panorama mediatico francese. Si inseriscono nel quadro della resistenza
all’invasione del Sud Libano da parte dell’esercito israeliano.
Georges Abdallah è stato arrestato a Lione il 24 ottobre 1984 per possesso di
passaporti falsi e porto illegale di armi. Fino a quel momento, niente lo
avrebbe dovuto destinare a passare il resto della sua vita in prigione. Il suo
primo processo si tiene nel luglio 1986, e Georges Abdallah venne condannato a
quattro anni di detenzione per “associazione a delinquere”, “detenzione di armi
ed esplosivi” e “uso di documenti falsi”.
Ma gli Stati Uniti si impadroniscono del caso e vogliono fare del detenuto un
caso simbolo. L’ambasciata americana a Parigi si dice “sorpresa” dalla
“leggerezza” della pena. Un secondo processo ha luogo nel 1987, per “complicità
di omicidi”, in un clima di estrema tensione. I media e le autorità
attribuiscono alla FARL una serie di attentati avvenuti in Francia nel 1986, che
uccisero 13 persone. Quindi quando Georges Abdallah già si trovava in prigione.
Si è trattato di un’operazione di criminalizzazione e demonizzazione del
detenuto, dal momento che le autorità francesi non avevano alcun elemento per
costruire un’accusa contro di lui. Si scoprì che in realtà, questi attentati
mortali erano stati commessi dall’Iran. Ma all’epoca, la Francia stava
negoziando accordi succosi con la dittatura dei Mollah e fu così più pratico
scaricare la colpa su un piccolo gruppo marxista. Una campagna di narrazione
tossica venne organizzata dalla stampa. Abdallah viene descritto come il nemico
pubblico numero uno.
Il processo si svolge direttamente sotto la supervisione degli Stati Uniti, che
si costituiscono parte civile e inviano un avvocato e fanno pressione per
aumentare la pena. Il 28 febbraio 1987, l’attivista libanese è condannato
all’ergastolo. Una decisione che va molto oltre le richieste del procuratore,
che aveva chiesto un massimo di dieci anni di carcere. E tutto questo mentre il
suo faldone è quasi vuoto. Durante il processo poi, Abdallah viene tradito dal
suo avvocato Jean-Paul Mazurier che si rivelerà essere un agente della DGSE
(Direzione Generale della Sicurezza Esterna).
Durante il processo, la linea difensiva di Abdallah è chiara: non è lui che ha
commesso gli atti di cui è accusato, ma non se ne dissocia per questo. Spiega
con calma che se avesse potuto dare un colpo agli interessi israeliani e
statunitensi, l’avrebbe fatto: «Se il popolo non mi ha affidato l’onore di
partecipare a queste azioni anti-imperialiste che mi attribuite, almeno ho
l’onore di essere accusato dalla vostra corte e di difendere la loro legittimità
di fronte alla criminale legittimità dei tribunali». Solo che non si può
rinchiudere qualcuno a vita per le sue idee, e senza la minima prova.
«È ormai ovvio che Abdallah è stato in parte condannato per quello che non aveva
fatto», riconoscerà anni dopo l’ex giudice antiterrorismo Alain Marsaud.
Dal 1999, una libertà rifiutata
Georges Abdallah diventa ostaggio della ragione di Stato e del sostegno francese
agli Stati Uniti. Languisce in una prigione a Lannemezan dagli anni ’80, mentre
è liberabile dal 1999. Una libertà che gli viene negata per motivi politici:
Georges Abdallah è sempre stato fermo sulle sue posizioni anti-imperialiste e ha
rifiutato per tutta la vita di rinnegarle, nonostante la reclusione.
Già nel 2013, sarebbe dovuto uscire. A seguito della sua ottava richiesta di
rilascio, la giustizia ha ritenuto che fosse finalmente liberabile, mancava solo
un piccolo pezzo di carta per tornare a casa, in Libano. La Francia doveva
semplicemente firmare un ordine di espulsione, per mano del Ministro
dell’Interno dell’epoca: Manuel Valls.
Ma Hillary Clinton, allora segretario di Stato dell’amministrazione Obama,
telefona a Laurent Fabius, ministro degli Esteri francese per metterlo sotto
pressione. “Anche se il governo francese non è legalmente autorizzato ad
annullare la decisione della corte d’appello, speriamo che le autorità francesi
possano trovare un’altra base per contestare la legalità della decisione” scrive
Clinton. Un messaggio rivelato anni dopo da WikiLeaks. Il decreto di espulsione
non sarà mai firmato da Manuel Valls, che riconoscerà: «C’è stato
indiscutibilmente un intervento americano». I suoi parenti si stavano già
preparando ad accoglierlo. Era 12 anni fa.
Nel novembre 2024, colpo di scena: «Con decisione in data di oggi, il tribunale
di esecuzione delle pene ha ammesso Georges Ibrahim Abdallah al beneficio della
liberazione condizionale a partire dal 6 dicembre, subordinata alla condizione
di lasciare il territorio nazionale e di non tornarci più». Ma il tribunale
antiterrorismo di Parigi fa immediatamente appello, svuotando le speranze dei
suoi parenti.
Nel febbraio 2025, la Corte si è ritenuta favorevole alla sua liberazione, ma
chiedendo uno “sforzo consistente” per il risarcimento delle vittime. Georges
Abdallah rifiuta, mantenendo la linea della sua posizione di prigioniero
politico. Il 19 giugno, l’avvocato aveva comunque fatto sapere che 16.000 €
sarebbero stati disponibili per le parti civili. La procura generale – così come
gli Stati Uniti – avevano fatto sapere che non era sufficiente, e chiesto una
“forma di pentimento”.
Solo che non siamo negli Stati Uniti. Il pentimento non esiste nel diritto
francese. Suo fratello si è detto “felice della decisione francese, non avremmo
mai immaginato che sarebbe stato finalmente liberato”. Non osavamo nemmeno più
sperarlo.
(disegno di adriana marineo)
Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti
della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con
quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi
inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti
sono stati richiesti.
Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false
dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina
del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni)
e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del
cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi
Catella, presidente del gruppo Coima).
Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del
nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato
chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del
comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione
paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro
Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea
Bezziccheri, della società Bluestone.
Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente
abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da
Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.
* * *
La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare
modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto,
le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le
inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è,
a gran torto, molto sottovalutata.
La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le
eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello,
professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le
politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una
spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a
leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e
illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima:
sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una
percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente
malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del
cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli
attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove
materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto
dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un
sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che
impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso,
ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici
vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e
funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più
ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza
immobiliare e non.
I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo
dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto
ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo
in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di
generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito
senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi
per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo
altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di
tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e
invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo
democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non
abbastanza) a rispettare.
Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe
ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una
pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni
analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo
che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati
pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità
burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle
a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi
palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi
sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici
esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione
di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e
sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di
ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche
completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.
Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato
d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a
Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che
hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.
Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è
fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di
corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le
conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è
incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.
Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva
già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive
tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe
dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un
processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo
la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla
città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo
diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.
Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano
previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città
Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi,
strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una
reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per
poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con
ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita
al consumo.
Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole
urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente
redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al
benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo
modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle
mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della
rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli
altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione
con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist:
“Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma
neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi
alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a
definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come
dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.
La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di
un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che
ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla
trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini.
Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato
una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri,
degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno
elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la
famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva
come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie
in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per
portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto
estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa
forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.
Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente,
l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici
anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge
Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti
rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge
sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una
larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci
e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante
Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla
Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.
Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che
ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte
neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la
dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più
inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo
dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.
Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così
tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione
nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non
è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e
forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi
cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di
mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli
che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata
all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate
sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della
dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le
condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.
La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della
crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due
società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto
del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di
comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di
famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso
bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge
Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del
potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e
quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che
lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica,
ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.
Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura
dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda
lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come
giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le
città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che
ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle
leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore
delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che
non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per
offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si
solleva. Non lasciamoglielo fare.
GIORNATA DI AUTOFINANZIAMENTO AL VASCONE
Parco della Certosa Irreale - .
(giovedì, 31 luglio 17:30)
Una giornata di autofinanziamento organizzata dax giovani punx & Mezcal Squat
per continuare l'autogestione della sala prove, coltivare responsabilità e avere
cura dei posti che si attraversano.
Dalle 17:30 ci trovate prontx al vascone di Collegno (parco della certosa
IR-reale), con musica, birre e banconi di vestiti usati e lavati.
Dalle 19:00 iscrizione e dalle 20:00 torneo di freestyle non sessista con x
ragazzx che si vivono la realtà del Regio.
Vieni a conoscere e supportare!
NO MACHI
NO FASCI
NO STRONZI DI OGNI ORDINE PROFESSIONALE
Riceviamo e diffondiamo:
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”,
dell’estate 2025.
Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires:
disfare@autistici.org
* 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su)
* 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards)
* 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de
3 exemplaires)
Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale
Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del
Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan