Che cos’è l’imperialismo oggi, nell’era di Trump?
da Kamo Modena
Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario,
siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il
mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove
si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci
all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale
e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È
la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo,
crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare
i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non
dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è
tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato
concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della
stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.
Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la
trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con
Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di
presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo
discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina
allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la
peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano
separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche
internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di
classe, un livello “basso” solo in senso figurato. La capacità di tenere insieme
questi due piani è appunto una peculiarità che non si riscontra facilmente nei
nostri ambiti e va quindi coltivata.
Con lui ci chiediamo come leggere la configurazione concreta che l’imperialismo
assume nella fase storica che stiamo vivendo. È una fase di ristrutturazione del
capitalismo globale? O piuttosto è una fase di disarticolazione della
globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta? Stiamo transitando verso un mondo
multipolare? Sopravviveranno i vecchi centri egemonici o si moltiplicheranno le
tensioni verso una diversa collocazione di potere? Sono tutte domande aperte che
occorre mettere all’ordine del giorno e affrontare con realismo. Lo strumento
migliore rimane l’analisi qualitativa dello spettro dell’accumulazione, dei
rapporti di classe dei rapporti di classe – nazionali e globali – e della
geopolitica – intesa soprattutto come osservazione dello scontro tra Stati Uniti
e Cina e dal rapporto tra Stati Uniti e Europa.
L’imperialismo ha una sua storia: non è più il quadro capitalistico descritto da
Lenin, né quello contro cui i movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno
combattuto, e nemmeno quello che hanno provato a mettere a critica i movimenti
no Global nei primi Duemila. Eppure, mantiene proprie continuità e invarianti.
Partiamo dunque dal leggerlo alla luce del presente: Trump è il precipitato di
una nuova configurazione dell’imperialismo, o è un fattore di discontinuità?
Come si intreccia oggi la catena imperialistica alla dinamica di classe? Quali
implicazioni, soprattutto politiche comporta per noi tale configurazione? Quali
sono gli elementi principali che hanno condotto a questa nuova fase
dell’imperialismo statunitense? Quali ricadute ha sull’Europa e sull’Unione
Europea? Cosa contiene la spinta di classe, o delle classi, che stanno
sostenendo il trumpismo? Vedremo in Europa un consenso a tale ristrutturazione
capitalistica, o si potranno aprire delle fatture?
Piste di ricerca da seguire e approfondire con metodo, per poter pensare, e non
solo osservare, la realtà concreta, e direzionare sul filo del tempo una prassi
politica che, dentro i laboratori capitalistici della «fabbrica della guerra»,
punti a sabotarla e sovvertirla in fabbrica del conflitto di classe.
Buona lettura.
Raffaele Sciortino
Come premessa volevo solo dire che il mio intervento si colloca come ponte tra
l’intervento di Mimmo Porcaro e quello del 17 maggio con Robert Ferro. Questi
tre interventi sono collegati dal fatto che stiamo ragionando insieme a livello
seminariale sulle tematiche che oggi cerchiamo di porre sul tavolo, ossia come
si è trasformato l’imperialismo, a partire dalla convinzione comune della sua
persistenza, pure nella discontinuità. A me oggi spetta il compito di
ritematizzare i nodi concettuali che sono emersi nel dibattito marxista, nella
maniera meno didascalica possibile e alla luce di quello che sta succedendo.
Infatti quando avevamo preventivato questi incontri ragionavamo sì su Trump e
sullo scontro tra Stati Uniti e Cina, però obiettivamente c’è stata
un’accelerazione inattesa dei processi che non è indifferente dalla dinamica e
dagli esiti che si intravedono della guerra in Ucraina. È un dato importante,
perché quando nel ’71-‘72 scattò la cosiddetta “svolta Nixon” – una svolta
insieme economica per la fine dell’assetto di Bretton Woods, e geopolitica, con
il reapproachment a Mao – anche allora gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della
guerra del Vietnam, e affrontavano il problema di riassorbire la sconfitta e
trovare una “exit strategy”. Una delle vie d’uscita elaborate dagli Stati Uniti
fu quello di scaricare una parte consistente della crisi sull’Europa, il che già
ci fa comprendere l’attualità di queste riflessioni. In altri termini, non
dobbiamo dimenticare che l’acuirsi dello scontro, per ora, attraverso i dazi tra
Stati Uniti e Europa è comunque da inquadrare dentro lo scontro più generale e
prioritario tra Stati Uniti e Cina. Non voglio dire che ne è la prima
conseguenza, ma comunque è un sottoprodotto “qualificato” di quello scontro.
Capite bene perché sia una necessità vitale tornare a tematizzare il sistema
capitalistico mondiale nel suo intreccio e nel suo sviluppo diseguale, ossia
nella sua articolazione gerarchica. Vorrei provare a farlo attraverso una chiave
di lettura, che penso sia sempre più attuale, che è la polarità, cioè unità e
rivalità, tra potenze imperialiste (o più in generale potenze capitaliste) nel
loro nesso strettissimo col movimento di classe (inteso in senso lato e
ovviamente non solo in Occidente) all’interno dei quadri nazionali.
Vorrei quindi delineare a grandi linee dei cicli storici: da quando si è dato il
fenomeno imperialista, grossomodo tra fine Ottocento e inizio Novecento; poi due
importanti fasi di transizione; e arrivare quindi all’oggi e provare a vedere
come si colloca quello che sta succedendo con Trump e il trumpismo. Il tutto
interpretandolo in questa chiave di lettura, ovvero tenendo insieme i tre piani
della configurazione economica, delle vicende – in senso non ristretto –
geopolitiche e il movimento di classe.
Iniziamo dal primo grande ciclo, suppergiù tra la Prima e la Seconda guerra
mondiale. Una configurazione che si pone all’intersezione tra tre tendenze. La
prima è la classica rivalità interimperialistica investigata dai marxisti
dell’epoca, esplosa nella Prima guerra mondiale in maniera plastica, con tratti
meno evidenti nella Seconda. La seconda è una geopolitica che definirei
“mackinderiana”. Mi riferisco al fatto che le potenze egemoni (dapprima la Gran
Bretagna, che dopo la Grande guerra passa il testimone agli Stati Uniti) restano
guidate da un imperativo geopolitico che, rischiando di banalizzare The
Geographical Pivot of History di Mackinder, vede la storia come uno scontro tra
potenze marittime e potenze continentali terrestre. E l’imperativo fondamentale
per le potenze marittime – e qui c’è una certa continuità a cui vi chiederei di
prestare attenzione – è quella impedire l’unificazione eurasiatica, cioè che una
potenza unifichi quell’arco che va dall’Europa al Mar cinese, ed evitare ad ogni
costo che questa potenza arrivi a uno sbocco sugli oceani. Ciò viene teorizzato
già nel 1904 alla luce del “Great Game”, la lotta per l’Asia centrale concluso
con il compromesso tra l’Impero britannico e la Russia zarista. Il terzo è
l’ascesa del movimento operaio, allora ristretto sostanzialmente all’Europa
occidentale e agli Stati Uniti (in cui, tra l’altro, si licenziano poderose
politiche protezioniste), e della Seconda Internazionale; un’ascesa che, prima
della frattura su crediti di guerra, sembrava irrefrenabile e che condusse poi
all’esperienza bolscevica.
In quegli anni, il dibattito marxista (che pure era aperto all’intellettualità
borghese degna di questo nome, si pensi all’importanza di Hobson per Lenin),
tanto per coloro che andranno con l’ala rivoluzionaria, sia per chi rimarrà
nella socialdemocrazia e nella sinistra riformista, verteva sull’individuare il
salto qualitativo tra la fase che allora stava iniziando – la fase appunto
imperialista – e la fase precedente di formazione dei mercati nazionali, di
ascesa della borghesia e di prima formazione del movimento del movimento
operaio.
Il punto di partenza è che quando un’economia nazionale giunge a livello
imperialista si assiste a qualcosa che non può essere riducibile semplicemente
all’esportazione di merci e alla diffusione del mercato nazionale. Il problema è
proprio che c’è qualcosa di nuovo, che non si può ridurre a questo fattore che
pure rimane importante. Di pari passo, dal punto di vista politico diciamo,
quando si passa a quello che Lenin chiamerà lo «stadio imperialista» si vede un
salto qualitativo politico della democrazia. Se prendiamo la democrazia (intesa
come formato politico standard dei capitalismi più avanzati), ciò che si
rilevava era il passaggio da una democrazia nazionale con compiti di ascesa
borghese, ancora quantomeno progressisti, a una democrazia reazionaria.
Questo era il cuore del problema, e viene affrontato attraverso categorie che
Marx aveva potuto sviluppare solo fino a un certo punto, in particolar modo
quelle di «centralizzazione di capitali» (che diventa altrettanto, se non più
importante, dell’accumulazione capitalistica), della «concentrazione di
capitali» e dello «sviluppo ineguale», sia a livello di mercato mondiale sia
all’interno di ogni economia nazionale. Il mercato mondiale, grazie a questo
sviluppo di centralizzazione dei capitali (in termini più scolastici, la seconda
rivoluzione industriale, la formazione di trust e così via) da essere il
presupposto dello sviluppo industriale imperialista diventa un risultato,
diventa esso stesso il prodotto dell’industrializzazione nella fase
imperialista.
L’illustrazione classica – che ha tutta una serie di implicazioni politiche
anche rispetto a che cos’è una guerra, se una guerra nazionale sia ancora
possibile, eccetera – è quella di Lenin. Di questa formulazione qui ci
interessano principalmente tre punti.
Primo. L’imperialismo non è semplicemente una politica. Ossia non è una
decisione che può essere assunta o abbandonata dall’economia nazionale e dagli
Stati che arrivano a questo livello, ma è, appunto, uno stadio irreversibile, un
punto di non ritorno in cui si intrecciano economia, politica interna, politica
internazionale, e di una specifica parabola del movimento di classe. Secondo.
L’imperialismo è caratterizzato da un trasferimento di valore strutturale, o
comunque relativamente persistente, tra imprese, tra settori e anche tra
economie nazionali. E ciò inizia ad avvenire allora in particolare attraverso il
vettore delle esportazione di capitali, a cui l’esportazione di merci rimane
subordinata. Terzo. Determinanti diventano i monopoli e gli oligopoli, che
uniscono la dimensione produttiva con la dimensione finanziaria.
La distinzione, che ovviamente non è la muraglia cinese, tra esportazione di
capitali ed esportazioni di merci rimane rilevante anche oggi, e avrebbe quindi
interesse riprendere il dibattito tra Lenin e Luxemburg a riguardo. Non c’è oggi
il tempo per approfondire, diciamo solo che nel privilegiare l’esportazione di
capitali, Lenin ha alle spalle una lettura di Marx e una peculiare teoria dei
mercati in cui la spinta espansionista all’esterno dei capitali, una volta che
si sono consolidati e centralizzati all’interno di un’economia nazionale, è
dovuta a una caratteristica strutturale del modo di produzione capitalistico,
che è quella di una discrasia, di uno squilibrio permanente tra produzione dei
mezzi di produzione e produzione dei beni di consumo, e quindi di una
compulsione allo sviluppo illimitato. A ciò, dopo la crisi del ‘29, alcuni
marxisti tra cui Grossman, pur rifacendosi a Lenin, aggiungeranno il problema
della crisi di redditività (su cui adesso non possiamo fermarci) che spinge
appunto l’esportazione dei capitali. La spinta dunque non dipende primariamente
da ciò che pensava allora Luxemburg, e cioè da un problema di realizzo, di merci
che non si riescono a vendere all’interno.
Guardiamo poi alla concorrenza intesa in senso marxista (e non in senso banale,
economicista, di domanda e offerta). Come riporta una formuletta relativamente
nota, la concorrenza, via via che la centralizzazione dei capitali procede e il
numero di monopoli e di economie nazionali si riduce (il classico “pugno di
potenze imperialiste” di cui parla Lenin), si disloca come “una concorrenza per
bloccare la concorrenza”: una competizione per ampliare il divario tra chi ce
l’ha fatta e chi no. La concorrenza a un certo punto può declinarsi come
concorrenza tra Stati che può diventare guerra, guerra guerreggiata; ma la
concorrenza è già una forma di guerra. Quindi le fasi “pacifiche”, di tregua, e
le fasi propriamente belliche di scontro tra potenze imperialiste (che, va
sottolineato, coinvolgono anche formazioni capitalistiche di altro genere) sono
appunto da leggere non come se la pace fosse la negazione dell’imperialismo,
bensì entrambe come fasi di un ciclo, come tappe di uno stadio. La questione è
cruciale poiché è precisamente su questo punto che si connette, in maniera molto
complessa, la parabola della rivoluzione.
Oltre a questo nesso tra protezionismo, industrializzazione e formazione del
movimento operaio, vediamo che poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale
si accelera il processo che porta alla Rivoluzione d’Ottobre. Perché? Torno al
problema del salto rappresentato dall’imperialismo e della difficoltà di
coglierlo in tutte le sue caratteristiche. Se noi leggiamo Marx e Engels,
diciamo, dal ‘48 alla Comune di Parigi, vediamo che la rivoluzione ha una
dinamica che va da Ovest a Est, dall’Europa occidentale, con la formazione di
Stati nazionali borghesi e questioni nazionali da risolvere o dal basso o
dall’alto. Ma quantomeno fino alla Comune di Parigi questa ondata rivoluzionaria
dai contenuti ancora nazionali e borghesi trovava una barriera nella Russia
zarista, nell’Est arretrato.
Ora, quando si passa allo Stato imperialista, ossia quando ormai le questioni
nazionali in Europa occidentale sono risolte, la barriera reazionaria alla
rivoluzione è passata a Ovest, mentre invece il testimone della rivoluzione
passa a Est. Ripeto, una rivoluzione che intreccia in maniera peculiare, se
vogliamo anche imprevista e confusa, dei contenuti nazionali rivoluzionari ma
economicamente borghesi con la possibilità, la potenzialità di trascrescere in
una rivoluzione proletaria se si internazionalizza, e ritorna come un boomerang
a Occidente. Da qui l’interesse di Lenin per la Cina e l’Oriente. La cosa
diventava ancora più interessante per la Russia bolscevica, che aveva questa
posizione peculiare tra Est e Ovest, tra Oriente e Occidente, tra la rivoluzione
nazionale democratica, però portata avanti non dalle classi borghesi, quanto
dalle classi contadine o semiproletarie, e la rivoluzione in Occidente, in stasi
a partire dagli anni Venti.
Si può dire quindi che nel dibattito dell’epoca c’è una geopolitica della lotta
di classe e una geopolitica della rivoluzione. Ne deriva anche un importante
corollario, che per approfondire a dovere bisognerebbe riprendere diffusamente
il dibattito tra Lenin e Luxemburg: la questione nazionale, che prima era la
questione di formazione degli Stati nazionali come mercato interno, che fungeva
da presupposto per la formazione del proletariato nel mondo occidentale, diventa
questione nazionale anticoloniale e antimperialista nel mondo extraoccidentale.
Questo è molto importante se legato appunto a quella geopolitica mackinderiana a
cui mi richiamavo prima.
Passiamo avanti. Rivoluzione d’Ottobre, si blocca la rivoluzione in Unione
Sovietica, sconfitta in Cina, affermazione dei fascismi, seconda conflitto
imperialista (dalla dinamica molto differente dalla prima, se non altro perché
non c’è una forza politica degna di questo nome nel movimento operaio che pone
il problema della lotta a tutti gli imperialismi, quindi il disfattismo
rivoluzionario di Lenin non si dà nella Seconda guerra mondiale). Arriviamo al
post ‘45 con gli Stati Uniti che emergono come potenza egemone e dominante a
livello mondiale contro un blocco socialista o presunto tale (che, tra l’altro,
si dividerà già a fine anni Cinquanta tra Unione Sovietica e Cina maoista), dopo
aver subordinato il vecchio colonialismo anglofrancese (pensate al caso di Suez)
e soprattutto dopo aver sconfitto definitivamente (o almeno a oggi) l’altro
grande rivale, la Germania. La Germania viene divisa ed è ancora un paese
soltanto semisovrano dal punto di vista politico, militare, territoriale e così
via. La dottrina geopolitica resta mackinderiana, ma viene riformulata già
durante la guerra da teorici come Spykman e il più noto Kennan, che teorizzerà
la teoria del contenimento.
Gli Stati Uniti aggiungeranno alla teoria mackinderiana dell’Eurasia (che lui
chiamava Heartland,la terra centrale) il concetto di Rimland, terra ai margini.
Lì c’è già l’idea, che reggerà le politiche di contenimento nella Guerra fredda,
per cui gli Stati Uniti e le potenze marittime anglosassoni non sono in grado di
conquistare i territori delle potenze eurasiatiche (in quel frangente, l’Unione
Sovietica occupava tutto l’Heartland); ne consegue che devono insistere
continuamente in azioni di disturbo, creare caos per evitare l’unificazione
eurasiatica, impedirgli lo sbocco all’oceano e tenerli sotto da un punto di
vista economico. E quindi se voi ci pensate, qui rientra tutto. Pensate al ruolo
di Israele nel Medio Oriente, oppure Taiwan e la Corea del Sud rispetto alla
Cina.
Per quanto concerne il livello più “nostro”, il piano del movimento di classe,
ebbene abbiamo una divaricazione. Nella Prima guerra mondiale la scissione era
stata interna al movimento operaio occidentale, tra riformismo e rivoluzione, e
il riformismo era diventato appoggio alla guerra, socialsciovinismo, eccetera.
Qui siamo in una fase diversa, e se vogliamo anche più grave. Più grave poiché
senza potenzialità rivoluzionarie nell’immediato. Non nel senso che non ci sia
più una rivoluzione, ma nel senso che si disloca su un unico teatro, quello
anticoloniale e antimperialista extraoccidentale, dalla rivoluzione cinese fino
a Cuba e il Medio Oriente. Al contrario, in Occidente si apre un ciclo
chiaramente controrivoluzionario: ancora una volta, non nel senso che non si dia
più lotta di classe, ma nel senso che questa non ha possibilità, in quel quadro,
di diventare una lotta rivoluzionaria. Tuttavia in Occidente, a differenza
d’oggi, resisteva ancora un riformismo del movimento operaio organizzato
(pensiamo al PCI in Emilia).
Di nuovo, attenzione al nesso, abbiamo un mondo diviso in due, l’egemonia è
comunque degli Stati Uniti, un soggetto decisamente più forte dell’antagonista
sovietico sotto tutti i punti di vista; di modo che si assiste una tendenza
all’unità piuttosto che alla rivalità interimperialista, sebbene anche i paesi
europei politicamente siano distrutti una volta sotto gli Stati Uniti. All’unità
del mondo imperialista corrisponde la debolezza della classe operaia, perlomeno
in Occidente (ripeto, non il blocco della rivoluzione anticoloniale).
Date queste premesse, il dibattito marxista non può che risentirne. C’è una
dispersione del marxismo rivoluzionario, quantomeno quello che non è
direttamente interno al movimento stalinista. Tuttavia troviamo una cosa
interessante, perché andando a scartabellare tra le sinistre estreme e
antistaliniste di allora emerge una domanda ricorrente nel dibattito: ma
l’imperialismo condanna il capitalismo a un declino e/o comunque a una
stagnazione?
Era la lettura trotzkista, così come di tutta la componente terzomondista ante
litteram della «Monthly Review» di Baran e Sweezy, che sostituiscono il concetto
di surplus a quello di plusvalore e che pensano a un capitalismo occidentale in
declino che può rispondere solo con riarmo keynesiano rileggendo a loro modo
alcuni temi luxemburghiani quali i problemi di realizzo. Dall’altro lato,
invece, altri teorici marxisti, allora assolutamente isolati e marginali, vedono
l’imperialismo come un’escrescenza del capitalismo, però è anche una sua
possibilità di ringiovanimento; anzi, a un certo punto diviene una sua
necessità. E in effetti quel ciclo di sviluppo postbellico incredibile, che non
s’è mai più visto nella storia del capitalismo, viene portato avanti da una
potenza imperialista, gli Stati Uniti, che sfrutta una guerra già iniziata (gli
Stati Uniti entrano sempre in guerra dopo, fanno prima dissanguare gli europei e
solo poi entrano in campo per raccogliere i frutti) a spese dell’Europa, e in
primo luogo della Germania.
La novità importante in questa fase (chiamiamola peculiarmente
controrivoluzionaria, ma senza per questo essere eurocentrici) è che i monopoli
di cui parlavano Hilferding, Bucharin, Luxemburg, Lenin e compagnia cantante
sono oramai le multinazionali. Non compaiono con il ‘45, erano comparse già
prima. Ciò va sottolineato perché le multinazionali diventano il vettore
peculiare delle esportazioni di capitali di cui aveva parlato il dibattito
marxista precedente, che se ricordate è la peculiarità dell’imperialismo
rispetto alle esportazione di merci e a logiche più mercantiliste.
Le multinazionali americane iniziano a emergere già dopo la crisi del ‘29,
quando si frammenta l’economia occidentale e fallisce quel tentativo di
rilanciare l’economia europea sulla scorta di quella statunitense (l’Urss era
completamente isolata). Scatta il protezionismo, scattano le svalutazioni
competitive. E cosa fa una multinazionale con gli investimenti diretti
all’estero? Scavalca le barriere dei dazi, va sul posto, investe e trae profitti
che riporta in patria ad altre condizioni. Osserviamo dunque un nesso tra
protezionismo e rilancio di questa nuova forma peculiare di esportazione di
capitali, che trovo rilevante.
L’altra grossa novità è Bretton Woods, cioè l’importanza sempre maggiore del
sistema monetario internazionale. Quest’ultimo è da intendere non soltanto come
la somma dei sistemi valutari nazionali, ma come un tutto che sovradetermina le
parti ma – badate bene – in parallelo col sistema degli Stati. È un elemento che
era emerso nel dibattito marxista già da inizio Novecento: non si può valutare
la posizione, il peso, insomma la peculiarità di uno Stato (oltre che di
un’economia nazionale) prendendolo a sé, ma sempre concependolo dentro un
sistema di Stati. Del resto Stato e capitale stanno insieme, e uno dei vettori
che li unisce è proprio la moneta.
Ora la specificità del mondo post ‘45 è la sostituzione del dollaro alla
sterlina nel sistema di Bretton Woods, dove il dollaro diventa dominante, però,
attenzione, quantomeno dopo il piano Marshall dentro un sistema in cui le
singole economie nazionali, quando iniziano a riprendersi, hanno comunque un
controllo relativamente forte sui capitali interni. Il che significa, per loro,
la possibilità di dirigere la politica monetaria, la politica dei tassi di
investimento, e quindi i tassi di accumulazione. Il dollaro già dominava come
moneta di riserva fondamentale, però non siamo ancora nel mondo postfordista o
post ‘71.
Passiamo ora alla prima grande fase di transizione. Verso la seconda metà degli
anni Sessanta, abbiamo dei segnali di ripresa significativi e di passaggio
dall’unità del mondo imperialista sotto gli Stati Uniti a nuove forme di
rivalità. In particolare tra Stati Uniti, Germania e Giappone, che dimostrano
una ripresa industriale, ritmi di produttività e un livelli di competitività
superiori a quelli statunitensi. L’esportazione di capitali, però, è ancora in
mano agli Stati Uniti. Le multinazionali sono quasi esclusivamente statunitensi.
Gli anni del miracolo economico tedesco e giapponese – e in subordine, italiano
– sono da leggere come una ripresa di rivalità coniugata alla cosiddetta
accumulazione fordista, all’applicazione della razionalizzazione tayloristica,
ma anche a un rilancio di conflittualità di classe.
Sono le lotte dell’operaio massa: ovviamente il ‘68 è stato qualcosa di più
ampio, ma nel nostro ragionamento ci interessa la convergenza di rivalità
interimperialistica e di una ripresa di lotta di classe anche in Occidente,
mentre prosegue fuori dal mondo con il Vietnam e le ultime grandi lotte
anticoloniali degli anni Settanta, dal Corno d’Africa ai tentativi in America
Latina, violentemente repressi come nel caso del Brasile e soprattutto del
dramma argentino e cileno.
A livello geopolitico, proprio in reazione alla lotta antimperialista, gli Stati
Uniti stanno perdendo prestigio non solo in Vietnam ma a livello mondiale. È in
questa congiuntura che si forma il cosiddetto triangolo strategico tra Stati
Uniti, Unione Sovietica e Cina. Lo spostamento di alleanze della Cina,
dall’Unione Sovietica all’isolamento, poi all’autonomia e infine alla tacita
alleanza con gli Stati Uniti di Nixon (repubblicano e fortissimo anticomunista)
trascina uno spostamento del bilancio di potenza geopolitico mondiale. Venti
anni dopo vedremo che ciò fu uno dei fattori che contribuirono al crollo del
cosiddetto socialismo reale e all’implosione dell’Unione Sovietica.
Ora in questo quadro di ripresa di lotta di classe, di ridefinizione della
configurazione mondiale delle rivalità, rinasce, per così dire, “il marxismo”,
soprattutto nelle due forme di terzomondismo e operaismo, ora intrecciate, ora
differenziate o addirittura opposte. E che cosa viene messo a tema nel dibattito
marxista, anche al di là della stretta appartenenza a una delle due correnti o
riprendendo paradigmi precedenti? Una questione di rilievo anche per noi oggi,
ossia il problema dell’unità e della rivalità.
In altri termini: la Germania e il Giappone possono mettere in discussione il
dominio statunitense? Si riconosceva infatti che la Germania e il Giappone hanno
sì acquisito maggiore produttività e competitività, ma sostanzialmente a livello
di esportazione di merci e con monete se non deboli, nemmeno forti. Al contempo,
oltre alla perdita di competitività della sua economia, la bilancia dei
pagamenti statunitensi va in deficit, perchè il dollaro, divenuto mezzo di
pagamento internazionale e valuta di riserva, viene accumulato e detenuto da chi
esporta merci.
Nascono però delle tensioni serissime, come quando, sulla scorta della
convertibilità del dollaro in oro determinata da Bretton Woods, la Banca
centrale francese invia De Gaulle negli Usa con delle navi cariche di dollari
pretendendo di scambiarle in oro. Quindi la rivalità è reale. Il problema e il
vettore fondamentale rimangono gli investimenti diretti all’estero, e non si
tratta semplicemente un’esportazione di capitali di portafoglio, cioè
d’investimento in titoli del Tesoro di un altro Stato o in azioni, bensì di
andare produrre nell’altro paese per vendere lì o per vendere altrove e ritirare
i profitti. E da quel punto di vista, gli Stati Uniti sono ancora imbattuti.
Ciò si lega strettamente all’altro grande tema del dibattito, il «privilegio
esorbitante» del dollaro, come lo chiamo Giscard d’Estaing. Da qui il grande
salto nel ’71: Nixon decide di sganciare il dollaro dall’oro. Si crea un caos
che ha non poche analogie con quello che stiamo vedendo in questi giorni; non a
caso la domanda che circola oggi in numerose analisi è “siamo davanti a un nuovo
‘71?” per indicare le trasformazioni del sistema monetario internazionale.
Allora il passaggio fu da un sistema valido per l’Occidente, con cambi fissi e
relativi controlli nazionali sui capitali (e quindi sulla politica monetaria) a
uno a cambi fluttuanti, nel quale diventa fondamentale il vincolo estero sul
bilancio interno.
In parole povere: tu Stato devi attirare capitali, ma per attirare capitali devi
fare una politica tra virgolette “sana”, ossia non che dà troppo ai proletari,
con austerity o comunque con politiche di bilancio possibilmente in avanzo. E
devi stare attento con i tassi di interesse, perché devi essere tu ad attirare i
capitali, e non li puoi più formare semplicemente dal risparmio interno che hai
accumulato. La liberalizzazione dei capitali che scatta tutta a favore, come poi
si vedrà, del capitale finanziario statunitense ovviamente ti pone dei vincoli
molto forti. Noi siamo abituati a sentir parlare del vincolo esterno all’Unione
Europea; ma è un vincolo dipendente soprattutto dai mercati finanziari mondiali,
che a sua volta sono legati al dollaro. È lì che inizia questa storia, che oggi
vediamo entrare forse non verso la sua fine, ma comunque in una decisa parabola
discendente.
I temi di cui potremmo discutere sarebbero molti altri, ma vorrei concentrarmi
su uno in particolare. Un marxista francese di origine greca, Poulantzas, conia
l’espressione «borghesia interna» nel quadro della discussione sulla possibilità
per l’Europa di diventare un soggetto autonomo. Si parlava già allora di
un’unione monetaria europea, a cui gli Stati Uniti taglieranno subito le gambe
anche sfruttando guerra del Kippur del ’73 e lo shock petrolifero che andrà a
vantaggio delle multinazionali energetiche statunitense. Le economie europee,
che pure si trovavano per un breve momento in surplus, devono rifornirsi di
dollari perché nel frattempo gli accordi tra gli Usa e l’Arabia Saudita avevano
stabilito che il petrolio andasse venduto in dollari. La nascita del
petrodollaro mostra ancora una volta il gioco dell’imperialismo che preme per
una continua esportazione di capitali, in forme sempre innovate. È davanti a
tale contesto che Poulantzas elabora la categoria di «borghesia interna»
riferendola ai paesi europei, in particolare quelli che in qualche modo potevano
fronteggiare l’egemonia statunitense (Germania, Francia, ma anche Giappone,
eccetera).
Con «borghesia interna» – ed è una categoria che conviene riattualizzare – si
intende una borghesia nazionale che non è pienamente autonoma, che quindi non
può mettersi in concorrenza interimperialistica, nei termini classici
dell’imperialismo del tempo di Lenin, con gli Stati Uniti. Perché? Perché 1) dal
punto di vista strettamente geopolitico e politico sono borghesie sconfitte
nella Seconda guerra mondiale e 2) gli apparati statali intesi in senso lato
degli Stati europei sono infiltrati, controllati dagli apparati statali
statunitensi (pensate all’ingerenza militare, o ai servizi segreti). In altre
parole, hai una classe dirigente che invece di fare gli interessi delle economie
nazionali europee riproducono il dominio statunitense al loro interno.
Lo stesso avviene a livello economico. Quando hai una grande esportazione di
capitali per opera di forti multinazionali americane, soprattutto nelle alte
tecnologie, cosa succede? Che c’è una paradossale estroversione delle economie
nazionali europee che sono più legate agli Stati Uniti che tra di loro. Da qui
l’estrema difficoltà del progetto di unificazione europea, di cui si parlava già
cinquantacinque e passa anni fa, senza aspettare Draghi e compagnia.
Al tempo stesso però le borghesie europee chiaramente non sono borghesie
dipendenti coloniali, perché mantengono una base di accumulazione interna e a
loro volta iniziano ad esportare capitali all’estero (in America Latina con la
Germania, e poi addirittura negli Stati Uniti). Un ibrido di subalternità e
attivismo. Con questa categoria si cercava di catturare concettualmente la nuova
situazione, nella quale nonostante la parabola accumulativa non si poteva
configurare una successione di egemonia, come l’avrebbe definita la scuola della
World System Theory e in particolare Arrighi.
Vedete quindi come l’imperialismo si ricentralizza, si rifocalizza sulle
esportazioni di capitali, ma diventa sempre più importante il sistema monetario
internazionale, il nesso moneta-credito. Chi diventa la banca di tutte le
banche? La Federal Reserve. Qual è l’unico paese, grazie al meccanismo di
sganciamento del dollaro dall’oro, a non essere legato al vincolo estero della
bilancia dei pagamenti? Appunto gli Stati Uniti, perché possono ripagare le
merci che acquistano con assegni, perché il dollaro diventa un assegno quasi in
bianco, nel senso che non ha un corrispettivo reale di produzione o ce l’ha in
futuro. Quindi è come far credito in continuazione alla Federal Reserve e agli
Stati Uniti. Al tempo stesso, essendo il dollaro valuta di riserva
internazionale e moneta di pagamento internazionale (in particolare i
petrodollari, ma poi gli eurodollari e via discorrendo, e tanto più quando si
aprirà l’economia cinese), gli Stati Uniti possono attirare investimenti di
portafoglio (la vendita da parte loro dei treasury bill e dei treasury bond);
con quei capitali a breve possono investire a lungo nel sistema produttivo
interno; quindi finanziare a bassi tassi di interesse il riarmo (il reaganismo,
e da allora la grande risalita delle spese militari); ristrutturare i vecchi
settori fordisti verso l’high tech e il digitale; e infine andare a esportare
capitali conquistando mercati esteri e così via. Insomma, ciò che negli anni
Settanta sembrava alludere al declino statunitense, crea una morsa incredibile,
di tipo insieme produttivo, finanziario e monetario.
Si apre così una grande ristrutturazione capitalistica globale: una
ristrutturazione antioperaia, in cui viene sconfitto l’operaio massa (con i
battiti d’ala dei siderurgici francesi nel ’79 e l’ultima grande lotta a
Mirafiori nell’80); anti-blocco dell’Est, che dopo dieci anni implode; e contro
il Sud del mondo, che disgrega la compattezza che ha dimostrato durante la fase
della lotta anticolonialista. Assistiamo quindi, dagli anni Ottanta fino alla
crisi del 2008, a un nuovo ciclo chiamato ora «globalizzazione» ora
«neoliberismo».
Un ciclo contrassegnato dall’unità piuttosto che dalla rivalità, sempre
relativamente parlando; basata su quel meccanismo del dollaro che abbiamo
descritto prima (e che si usa nominare con “Bretton Woods 2”); e in cui – punto
importantissimo – l’esportazione di capitali non è solo più incentrata tra Stati
Uniti e Europa, cioè sulle economie avanzate, ma scatta l’industrializzazione
periferica. Si dipinge così una scomposizione internazionale del processo
produttivo che darà luogo alle cosiddette «catene globali del valore», in cui il
Sud del mondo copre la fase di assemblaggio finale o comunque quelle fasi
tecnologicamente meno evolute, e via via a risalire verso i centri egemonici. A
quanto accade a livello produttivo equivale la dinamica a livello di
finanziamento di crediti, circolazione di capitale e di distribuzione delle
merci, dove le aziende leader sono tutte occidentali, in gran parte
statunitensi. A questo punto agli Stati Uniti conviene sempre meno investire
produttivamente sui settori e le tecnologie medio-basse, ma piuttosto tenere la
leadership sulle tecnologie alte e far circuitare la finanza e le merci intorno
a questa nuova configurazione; una configurazione che è alla base della crisi
attuale.
Sul piano geopolitico, dopo la fine dell’Unione Sovietica si inaugura la fase
dell’«unipolarismo», condito di “guerre umanitarie” per “l’esportazione della
democrazia”. Unipolarismo che altro non è se non la politica del contenimento
riformulata in termini preventivi: per esempio, se Saddam o Gheddafi vogliono
vendere il petrolio in euro, facciamoli fuori, tanto sono dittatori, no? Lo
stesso vale poi per la Jugoslavia, l’Afghanistan, la guerra al terrore,
eccetera.
Per quanto concerne invece il livello delle lotte sociali, va osservato che
l’unità, sempre relativa, delle forze imperialiste si associa alla scomposizione
del movimento operaio. Oltre alla sconfitta, come dicevamo, dell’operaio massa,
vediamo la cosiddetta “cetomedizzazione” i cui risultati si vedono oggi –
intendendo con esso non la salita a ceto medio degli strati operai, bensì che il
ceto medio si impoverisce o inizia addirittura a proletarizzarsi, persino negli
stessi Stati Uniti (un elemento che ha non poche prossimità con il problema del
trumpismo oggi). Di pari passo, si sviluppa una proletarizzazione però
periferica in Cina, così come in altri paesi quali il Vietnam o il Messico. Una
proletarizzazione, però, senza fordismo e senza i benefit del welfare che hanno
accompagnato la fase fordista precedente. In termini politici nostri, è una fase
di disgregazione: il capitale si centralizza, mentre la classe operaia e il
proletario internazionale si frammentano, come segnato anche dai flussi di
immigrazione che iniziano a essere consistenti.
Davanti a una vittoria del nuovo imperialismo a guida finanziaria statunitense
che sembrava assoluta, abbiamo il crollo del marxismo. Dall’inizio degli anni
Ottanta, ciò che rimane del marxismo viene ridotto alla stregua di una critica
culturale postmodernista – una declinazione del marxismo che oggi,
fortunatamente, sta mostrando in una maniera sempre più evidente la sua
irrilevanza. Il primo corollario però è che scompare lo stesso concetto di
imperialismo, il che segnala con crudele chiarezza la portata di quella
sconfitta: per decenni si parla solo di “neoliberismo”, di “globalizzazione” e
chi più ne metta, mentre la categoria di imperialismo oggi paradossalmente lo si
usa a proposito di Putin.
Forse l’unica teoria, secondo me, che tenta di coltivare una critica del sistema
capitalistico mondiale (pur non essendo marxista e limitandosi a soltanto a
recuperarne alcuni concetti) è la World System Theory di Wallerstein e Arrighi,
che abbandona il concetto di imperialismo a fine anni Settanta e lo sostituisce
con la «successione di egemonie» richiamandosi a Braudel. I suoi autori si
focalizzano sulla dinamica centro-periferia, con una sorta di terzomondismo, ma
in una fase dove il Sud del mondo è in estrema difficoltà per la sua
frammentazione e, come dicevo prima, per l’assorbimento della Cina.
Giungiamo a un punto di estrema importanza, a cui prestare attenzione poiché
ogni teoria dell’imperialismo deve darci il sistema, articolato e diseguale,
intrecciato e gerarchico. A questo punto infatti inizia quel processo in
parallelo di relativa deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altri paesi
occidentali (un po’ meno in Giappone, Germania e Italia, relativamente parlando)
e di industrializzazione periferica, che proietta la Cina a “officina del
mondo”, collocandosi in un primo momento sui segmenti bassi delle filiere
globali di fornitura, ma con grandi differenze rispetto ad altri paesi.
Intanto, la Cina non è un paese dipendente qualsiasi, ma ha alle spalle una
grande rivoluzione contadina che ha creato un partito-Stato che impedisce
l’internalizzarsi del dominio statunitense in Cina, cioè all’interno della sua
accumulazione e della sua borghesia privata. In altre parole, non troviamo in
Cina quella borghesia interna che Poulantzas aveva teorizzato per l’Europa, ed è
un elemento cardine per spiegare la sua capacità di resistenza. In secondo
luogo, ma non per importanza, la Cina inizia a esportare. È vero che una parte
consistente di questo surplus va alle multinazionali americane e occidentali, ma
comunque il resto va all’interno, e non essendo la moneta convertibile, i flussi
di capitale sono controllabili. I flussi di capitale sono joint venture che
portano anche tecnologia, e non hot money speculativo, che dopo pochi mesi
distrugge il paese come hanno sperimentato gli Stati sviluppisti dell’Estremo
Oriente nella crisi asiatica del ’97-‘98. Mentre realtà come Taiwan e la Corea
del Sud erano stati martoriati dalla capacità del dollaro di giocare a
fisarmonica con i tassi di interesse fissati dalla Fed – per cui il dollaro ora
si apprezza ora si svaluta e a seconda delle convenienze i capitali vengono
attratti o esportati e così attraverso la finanza ti compri quegli apparati
produttivi che gli altri hanno avuto fatto sacrifici per costruire –, in Cina
non accade, sia per motivi sostanzialmente politici, sia in virtù di un enorme
serbatoio di forza lavoro semiproletarizzata. Grazie dunque alla sua capacità di
porre dei limiti alla liberalizzazione dei capitali statunitensi, una parte
sempre maggiore del surplus prodotto dall’export rimane in loco, può essere
investita dai cinesi per rafforzare l’apparato produttivo e per risalire via via
le catene del valore, passando così da essere il fanalino di coda delle filiere
della fornitura globale ad arrivare a livelli tecnologicamente poderosi.
Con l’internazionalizzazione delle catene del valore, i rapporti di
centro-periferia e di dipendenza classici, diciamo terzomondiali, che sulle
prime erano fondamentalmente confinate al cosiddetto commercio ineguale, vengono
internalizzate nella produzione nella misura in cui la produzione non è più
confinata a un solo paese, ma si spalma su tanti paesi collocati gerarchicamente
in una scala mondiale imperialistica. Ma se vediamo in parallelo la relativa
deindustrializzazione degli Stati Uniti e di altre economie occidentali e la
risalita della Cina, sorge spontanea una domanda: la Cina ha una logica
imperialista?
No, strutturalmente non può averla perché il suo recupero, in termini
arrighiani, dalla periferia alla semiperiferia è basato su surplus commerciali,
sull’esportazione di merci, e per giunta i suoi proventi non sono del tutto a
sua disposizione. È ancora dentro pienamente una logica mercantilistica, non una
logica imperialista basata sulle esportazioni di capitali e sul dominio della
moneta, tant’è che lo yuan non deve essere convertibile e i capitali devono
rimanere controllabili perché altrimenti avrebbero sbaraccato la sua economia.
In aggiunta, nel 2014 la Cina è arrivata a quattro trilioni tra riserve in
dollari e titoli del Tesoro americani acquistati, poiché appunto una parte dei
profitti cinesi devono andare a finanziare quel circuito globale del dollaro che
abbiamo descritto prima.
Permettetemi giusto due parole sulla cesura del 2008, la prima grande crisi
della globalizzazione. Passiamo definitivamente dall’unità relativa di un mondo
imperialista a un incremento di rivalità che assumono tratti peculiari. Si
inasprisce la rivalità tra Stati Uniti ed Europa, sebbene sottotraccia. Ad ogni
modo, oggi molti possono concordare su ciò che nel 2010-2012 risultava più
controverso, ossia che l’eurocrisi è stata un tentativo di scarico sul Vecchio
continente della crisi che ha avuto come epicentro gli Stati Uniti di Obama,
finalizzato a indebolire l’euro. Lì iniziano a germogliare i semi di quella
tensione che oggi è di nuovo ritornata agli onori della cronaca.
Il problema è che, a parte una certa resistenza tedesca (che però, dalla
cancelleria Merkel alla guerra in Ucraina, si è manifestata più come una
riottosità ai diktat statunitensi, a cui tra l’altro pian piano hanno ceduto),
rimaniamo nella situazione indicata da Poulantzas: le borghesie europee non
esistono, l’Europa non è uno stato e non esiste un’economia diciamo
“confederata” europea. Rimangono borghesie interne, senza una piena autonomia. E
non l’avranno, perché, a parer mio, con l’offensiva Trump si frammenteranno
ulteriormente. Tranne – ad è un grosso punto di domanda che rimando alla
discussione con Robert Ferro – la Germania.
La Germania avrebbe dei numeri a livello di apparato produttivo forse per
iniziare a fare un discorso autonomo, ma è un’ipotesi molto incerta, e potrebbe
benissimo uscire dall’offensiva trumpista di nuovo, per la terza volta, con le
ossa rotte. Sale poi, e lo vediamo dalla guerra in Ucraina, la rivalità con la
Russia. Ma la Russia la possiamo definire al limite una potenza imperiale, se
vogliamo assumerla sul versante militare, e rimane sostanzialmente
un’esportatrice di materie prime. Dal punto di vista marxista non c’è nessun
criterio, né in cielo né in terra, che possa far definire “imperialista” la
Russia putiniana. Ben più seria è la rivalità con la Cina. Perché?
Perché inizia a incrinarsi, e oggi quasi si è rotto, l’asse Stati Uniti-Cina di
cui ho parlato prima. Con la crisi del 2008 la Cina si rende conto che è troppo
legata al dollaro e ai mercati di esportazione occidentali, ma al tempo stesso
non ne può fare a meno. Cerca allora sempre più di indirizzare questa logica
mercantilista verso una ristrutturazione interna a partire dai mezzi di
produzione (e poi anche dei beni di consumo) per risalire le filiere del valore.
Il progetto funziona, parte un grande sviluppo tecnologico, e nel mentre cerca
di uscire dai confini dell’economia cinese e dalla dipendenza dall’export con le
nuove vie della seta. È un inizio di proiezione e di esportazione di capitali,
ma che ad ora avviene in una forma ancora molto arretrata. A metà anni ‘10,
grazie ai surplus accumulati, la Cina ha lanciato un intervento di tipo
keynesiano per attutire i gli effetti della crisi del 2008-2009 (uno stimolo da
quasi 600 miliardi di dollari), e non esportare soltanto merci.
Ora, se tu cerchi di esportare capitali devi garantire un minimo di
liberalizzazione dei capitali stessi, che devono poter circolare, e la tua
moneta deve iniziare a essere un minimo convertibile. Ma rendere convertibile lo
yuen e rendere liberi i flussi di capitali sbaraccherebbe quella costruzione che
faticosamente ha tenuto su la Cina fino ad oggi rispetto ai marosi dell’economia
mondiale e delle sue crisi. C’è stata un’internazionalizzazione molto cauta, e
quando hanno tentato di venire in Europa ad acquisire delle aziende di un certo
contributo tecnologico, gli Stati Uniti hanno detto no, l’Europa li ha bloccati
e da lì parte il protezionismo americano, in funzione anticinese. Nel frattempo
tra il 2015 e il 2016 la Cina ha avuto un attacco speculativo di hot
money legato alla bolla immobiliare con capitali che entravano e uscivano
velocemente. L’amministrazione Xi Jinping ha detto «regolamentiamo più
duramente», ed ecco tutte le critiche all’“autocrazia” cinese, al “partito
unico”, eccetera.
Detto ciò, nell’intreccio di economia, geopolitica e movimento di classe
l’aspetto importante da sottolineare è ancora nel terzo livello. In Occidente
era emersa quella che da più parti viene definita la lotta di classe di tipo
«populista» per differenziarla da mobilitazioni più classiche. Mi sembra che dal
nostro punto di vista la possiamo definire come una lotta di classe
interclassista tra ceti medi impoveriti, o che hanno paura di proletarizzarsi, e
il proletariato, dove la voce la dà al ceto medio, con i suoi contenuti, i suoi
slogan e le sue prospettive, mache raccoglie l’insoddisfazione e il
peggioramento della condizione proletaria, e poiché in tale quadro le istanze di
nuovo riformismo non hanno più nulla a che vedere col riformismo del movimento
operaio classico si registra la divaricazione (a mio
parere, strutturale e definitiva) tra la sinistra classica e le istanze di
classe.
Sta qui l’origine materiale della «crisi della sinistra» e del “superamento”
dell’antinomia sinistra-destra che ha condotto all’affermazione del discorso
populista prima in una forma cittadinista e poi espressamente sovranista. È un
sommovimento profondissimo che va legato agli altri piani – l’economico e il
geopolitico – altrimenti non lo si capisce o lo si vede come semplice reazione
fascista. Ovviamente queste derive ideologiche hanno dei fattori di fondo
differenti in Europa e negli Stati Uniti, come dimostrato anche dal riemergere
dello scontro tra i due. Ma anche in Cina – è bene ricordarlo – dietro i
movimenti di reazione agli Stati Uniti e di risalita della catena del valore c’è
stata una forte lotta di classe. Se vogliamo, sono state lotte più tradizionali,
condotte da operai di seconda-terza generazione, immigrati nelle città; potremmo
dire un operaio massa fordista senza fordismo. Lì infatti, la lotta di classe
tradizionale spinge verso un «compromesso socialdemocratico» col partito-Stato.
Del tipo: abbiamo fatto i sacrifici, adesso dateci il welfare, dateci l’aumento
dei salari. Sono state lotte più che significative: come ha anche dimostrato
Branko Milanović in via econometrica, senza l’aumento dei salari cinesi la
diminuzione della povertà nei paesi extraoccidentali non si sarebbe data. Il
divario tra Nord e Sud del mondo è assolutamente cresciuto, così è cresciuta la
polarizzazione sociale dentro i paesi occidentali.
Il dibattito a sinistra pian piano si è ripreso, ma all’inizio dell’eurocrisi e
dopo il 2008 rimaneva impastoiato in termini ancora molto, molto confusi e in
altrettanto vaghi ricordi keynesiani: “ah, la finanza è parassitaria e la
produzione reale è buona”. Il problema dell’imperialismo consiste però proprio
nel fatto che è un intreccio di finanza e produzione, dove si tratta di capire
chi dirige questo intreccio e chi lo utilizza pro domo sua. Difficoltà a non
finire. Per esempio, con l’eurocrisi tutti ce l’avevano solo con l’euro o la
Germania, senza vedere che dietro la Germania ci sono gli Stati Uniti. Una
confusione incredibile, perché comunque le nuove generazioni venivano da venti,
trent’anni di euroliberismo che aveva fatto terra bruciata delle categorie
critiche, non solo marxiste. Persino l’analista in Italia più autorevole che in
qualche modo cerca di rimettere in campo categorie marxiste, cioè Brancaccio,
fino a poco tempo fa guardava fondamentalmente al global imbalances, ovvero il
surplus sui deficit di commercio e non di capitali; ma va detto che ultimamente
sta ricentralizzando la sua attenzione sui flussi di capitali.
Dunque, voi vi aspettavate qualcosa su Trump e il trumpismo, no? [Risate] Ho
parlato parecchio, ma a questo punto direi che potremmo avere qualche strumento
in più per inquadrare ciò che sta succedendo, però 1) senza fare previsioni,
perché quando l’economia mondiale inizia a ballare nelle sue variabili, saltano
tutte e 2) senza cadere in un’eccessiva coerentizzazione, perché può esplodere
la disarticolazione di tutto quanto e irrompere il caos generale.
Con questa cautela, permettetemi di dire che forse oggi, nell’era Trump, c’è
un’analogia con la situazione tra il 1970 e il 1973, con lo shock di Nixon e il
passaggio al sistema monetario a tassi flessibili. Nella nuova presidenza Trump
c’è sicuramente una continuità rispetto all’immediato passato. Per esempio,
l’amministrazione Biden ha tenuto tutti i dazi protezionistici del primo mandato
Trump e la Cina è ancora il nemico. Adesso però vediamo confermato quello che
prima anticipavamo timidamente: non era Trump la parentesi estemporanea, era
Biden.
Biden, con i suoi consiglieri ultraliberal e presentabili, insisteva sulla
«foreign policy for the middle class»: tutto quanto viene fatto a livello
internazionale (ossia il lato geopolitico e lato economico) deve portare
benefici al ceto medio americano e a quel proletariato bianco più o
meno pressured, da romanzo postmoderno. In parole povere, hanno capito la crisi
interna del globalismo. Oggi gli economisti europei, e sono tanti, non fanno che
ripetere basiti “sono pazzi questi americani”, “Trump è uno stupido”, “si dà la
zappa sui piedi”. Perché? Perché l’imperialismo, che sembrava vincente,
assoluto, produce comunque contraddizioni. Perché quel meccanismo basato sul
binomio centralità del dollaro-esportazione di capitali ha favorito un’élite
sempre più ristretta. E tutti questi economisti stupiti di quanto sono idioti i
membri dell’amministrazione Trump non capiscono che c’è un’istanza, tra
virgolette, “di classe” dietro Trump.
Dietro Trump, cioè, c’è il trumpismo, ovvero l’insoddisfazione, il rancore, la
voglia di cambiare. Certo, in termini per noi incatalogabili; ma fatto sta che
si tratta di quelle istanze di classe, ripeto, interclassiste formate da un ceto
medio impoverito, dai suburbi della provincia e un proletariato soprattutto
bianco, che ovviamente in quelle condizioni lì, avendo fatto terra bruciata
negli anni Sessanta e Settanta di quel minimo di coscienza di classe, se la
prende innanzitutto con gli immigrati. Lo stesso immigrato penultimo se la
prende con immigrato ultimo. Ma a un certo punto hanno iniziato a prendersela
con “l’élite”. Parliamoci chiaro: Biden ha dato un sacco di soldi, ha fatto un
sacco di sussidi, e nonostante questo ha perso.
Per noi, il dato politico cruciale è questo: l’imperialismo del dollaro è
ricaduto come un boomerang all’interno degli Stati Uniti, ne ha sconvolto la
struttura sociale, impoverendo e polarizzando la popolazione. E adesso iniziano
a risentirne.
La contraddizione è emersa in una maniera confusissima, che dall’Europa è
difficile percepire nella sua interezza, ma ciò non ci esime dal cercare quali
siano le istanze che promuove la base sociale del trumpismo e del movimento
MAGA. Istanze che Trump e compagnia bella devono disperatamente cercare di
connettere quelle frazioni di capitale statunitense che traggono sempre meno
benefici dal circuito della globalizzazione: capitali se vogliamo arretrati, più
piccoli, ma anche porzioni di finanza in lotta intestina. Blackrock, Vanguard e
così via ci guadagnano tantissimo, ma dove investono? Oppure pensiamo alla
Silicon Valley, che dalla globalizzazione ci ha guadagnato tantissimo, e che ora
ha bisogno di investimenti che solo lo Stato può garantire, sia da un punto di
vista economico sia da un punto di vista di difesa geopolitica. I satelliti di
Musk, se la guerra in Ucraina continua, chi li difende da una tattica nucleare
russa? L’economia? No, la difende lo Stato. Quindi meno Stato per alcuni, più
Stato per altri.
La guerra in Ucraina, però, ha dimostrato l’impreparazione degli Stati Uniti a
una guerra con un’altra grande potenza. Quindi bisogna evitare e rimandare il
più possibile lo scontro diretto con la Russia, ma soprattutto con il nemico
dichiarato, la Cina. La parola d’ordine è «prepararsi», certo; ma prepararsi
significa fare un passo indietro tattico per farne poi due avanti strategici.
Fuor di metafora, ciò equivale a riportare l’industria negli Stati Uniti ad ogni
costo. Ma riconfigurare l’industria militare e la componentistica costa grandi
sacrifici all’interno. “La borsa è cresciuta troppo? Vabbè, si sgonfia”.
“Rischiamo una recessione? Rischiamola pure, ma per rendere l’America grande
domani”. “E a chi la facciamo pagare? Innanzitutto all’Europa”.
La rischiosissima scommessa trumpiana è questa a livello geoeconomico e
geopolitico: in qualche modo indebolire il dollaro, ma creare le condizioni per
cui i titoli del Tesoro statunitense continuino a essere acquistati. Il che, da
un punto di vista strettamente economico, è una contraddizione. Vengono allora
incontro i rapporti internazionali. Per esempio: l’Europa vuole iniziare a
riarmare. Dove le compra le armi? Tra il 60 e l’80% dagli Stati Uniti; quindi
via a rinforzare l’industria statunitense delle armi. Altro esempio: hai pochi
titoli del Tesoro americano e devi comprarne di più? Uso i dazi. Oppure ti
minaccio di non difenderti se non spendi e se non compri da noi. Se non
bastasse, ti vendiamo dei titoli del Tesoro a cento anni, che tu sei costretto
ad acquistare, o addirittura a scambiare titoli di tesoro a durata più breve con
titoli irredimibili, in una sorta di consolidamento del debito. E tu comunque li
devi comprare. Ma potremmo continuare.
Dunque un passo indietro rispetto al confronto diretto con la Russia sul piano
militare, ma non con la Cina sul piano economico. Poiché il decoupling selettivo
di Biden non ha avuto successo, si cerca in ogni modo di isolare la Cina, di
costringere l’Europa ad allontanarsene e a creare in Asia sud-orientale
un’alleanza anticinese che dia fastidio, rimanendo sempre al di qua del
confronto diretto; si tenta di costringere a rivalutare le monete del Giappone,
dell’Asia orientale, possibilmente anche della Cina per permettere di svalutare
il dollaro, imponendo però al tempo stesso di continuare ad acquistare i titoli
del Tesoro. Un azzardo dal punto di vista strettamente economicistico, ma
diventa comprensibile se osserviamo il boomerang della configurazione
dell’imperialismo dagli anni Settanta in poi, con le sue conseguenze negative
sul tessuto sociale e politico, e quindi sulla possibilità di mantenere
effettivamente l’egemonia.
Continuando con Biden, con il globalismo e i democratici, il declino degli Usa
era garantito. Ecco perché si è avanzata una svolta forte analoga a quella che
il Nixon repubblicano e anticomunista fece con la Cina di Mao. I dazi dunque non
sono l’obiettivo, ma piuttosto una leva, uno strumento che sarà flessibilmente
utilizzato (per frantumare l’Europa, per riunire gli avversari, per dare un
contentino ad alcuni settori economici interni, eccetera). Non è scritto da
nessuna parte che il tentativo riesca, e ne può uscir fuori un caos inaudito –
anzi, forse per noi sarebbe anche meglio così.
Ma non fissiamoci troppo sulla cronaca, e sforziamoci di tenere gli occhi
puntati sulle dinamiche generali. La cosa più importante è che l’imperialismo,
anche a livelli più alti, aveva eliminato le questioni nazionali. Per converso,
oggi l’imperialismo, nel suo punto di sviluppo più recente, attraverso quel
boomerang che ho malamente spiegato, ripropone questioni di sovranismo e di
difesa della nazione al suo centro, negli Stati Uniti, come difesa dei settori
medio-bassi della popolazione da quel globalismo di cui hanno beneficiato i
grandi capitali finanziari degli Stati Uniti.
Il che a prima vista apparirebbe paradossale. Capiamoci, questa non è la
questione di classe che piacerebbe a noi, pulita e inquadrabile nei termini a
cui siamo abituati; ma comunque è una questione di classe, così come in Europa.
Ovviamente, quando si parla di sovranismo lasciamo perdere tutti quelli che si
definiscono sovranisti, la Meloni piuttosto che Salvini. Già è un po’ più seria
la Le Pen, il più serio è Orban, ma comunque… [Kamo: E Vannacci? È serio?] Ma
l’Italia è il paese che galleggia! E quindi esprime politici che galleggiano. È
così, non contiamo niente. E soprattutto, non c’è neanche la percezione che
stanno succedendo cose grosse, cose che sconvolgeranno le nostre vite. Finché
non c’è questa percezione non ci si muove, quindi non si può che galleggiare e
“sperare che me la cavo”. Però, come dicevamo, già da anni in Europa vediamo in
una maniera un po’ buffonesca, ma vedremo in termini sempre più drammatici,
un antiamericanismo che serpeggia. Il broncio di Scholz, della Von der Leyen o
di Macron è ancora un antiamericanismo da operetta. Però dietro c’è il fatto che
l’antiamericanismo era destinato a risorgere anche in Europa.
Voglio quindi chiudere il mio intervento su questo punto, che deve essere molto
chiaro: non si muoverà niente in Europa in funzione effettivamente antiamericana
se non viene dal basso, ossia facendo pagare a queste élite politiche tutto il
loro servilismo rispetto agli Stati Uniti, il loro gioco sporco nella guerra
antirussa in Ucraina e via discorrendo. È dunque indispensabile una sua rimessa
in moto, che all’inizio non potrà che essere impura, confusissima,
interclassista e si darà molto probabilmente non su contenuti immediatamente di
classe e internazionalisti, ma con una ripresa dal basso di questi contenuti di
difesa nazionale.
Nel cuore dell’imperialismo, ritorna la questione nazionale, in forme veramente
inaudite, sconcertanti.
La scommessa di Trump, secondo me, non può essere vinta, ma gli Stati Uniti la
giocheranno comunque, e il fatto stesso che la giochino avrà degli effetti
sconvolgenti sul sistema internazionale. Un ripiegamento dell’imperialismo su se
stesso che ha del paradossale, poiché significa tentare di reinternalizzare una
logica mercantilistica dentro un quadro imperialista, bloccando al tempo stesso
la potenziale proiezione imperialista della Cina, la quale deve rimanere per gli
Stati Uniti bloccata in una logica mercantilista.
Lo ripeto: questo è materiale esplosivo per il sistema mondiale. Per il resto,
staremo a vedere, sempre però da una prospettiva, in senso stretto,
materialista. Cosa intendo dire? Una cosa non diversa da quella offerta da
Lenin. Nel cercare di differenziare l’oggettivismo dal materialismo, Lenin disse
che l’oggettivismo vede i processi reali, però si ferma a questi; il
materialismo invece vede i processi reali, non interpreta soggettivisticamente,
ma li legge alla luce delle contraddizioni che fanno emergere, e quindi delle
potenzialità della rivoluzione.
La geopolitica della rivoluzione si è rimessa in moto, seppure in forme che non
ci aspettavamo…
Un’indagine rivela che sette sottoscrittori di “obbligazioni di guerra” sono
stati determinanti nel consentire l’assalto di Israele a Gaza.
Dal 7 ottobre 2023 le banche hanno sottoscritto obbligazioni emesse dal governo
israeliano per un valore di 19,4 miliardi di dollari.
di BankTrack, PAX e Profundo (*), da La Bottega del Barbieri
Un’indagine condotta dal gruppo di ricerca finanziaria olandese Profundo e
pubblicata dalle ONG olandesi BankTrack e PAX ha rilevato che un piccolo numero
di banche d’investimento ha svolto un ruolo cruciale nell’aiutare Israele a
soddisfare le “significative esigenze di finanziamento” derivanti dalla sua
guerra a Gaza, fornendo significativi servizi di sottoscrizione allo Stato
israeliano. (1)
La ricerca rileva che Israele ha emesso obbligazioni sovrane tra il 7 ottobre
2023 e il gennaio 2025 per un valore totale di 19,4 miliardi di dollari e rivela
le sette banche che hanno sottoscritto queste obbligazioni per lo Stato
israeliano. (2)
Goldman Sachs è di gran lunga la più grande istituzione quotata, avendo
sottoscritto più di 7 miliardi di dollari in “obbligazioni di guerra” israeliane
dall’inizio della guerra tra Israele e Gaza. Le altre istituzioni finanziarie
individuate dall’indagine sono Bank of America, Deutsche Bank, BNP Paribas,
Citi, Barclays e JPMorgan Chase.
Elenco dei sottoscrittori di obbligazioni israeliane, 7 ottobre 2023 – gennaio
2025. Fonte: Profundo.
Finanziare la guerra a Gaza
Dal 7 ottobre 2023, quando i militanti guidati da Hamas hanno lanciato una serie
di attacchi e massacri nel sud di Israele, uccidendo quasi 1.200 persone e
prendendo in ostaggio 252 cittadini israeliani. Da allora, il bilancio militare
di Israele è aumentato a dismisura mentre perseguiva un assalto su vasta scala
alla Striscia di Gaza, che ha ucciso almeno 46.600 palestinesi e sfollato quasi
l’intera popolazione palestinese nella regione prima dell’accordo di un fragile
cessate il fuoco nel gennaio 2025. (3)
Sebbene il debito sovrano di Israele sia generalmente aggiunto al bilancio
generale dello Stato, i rapporti confermano che obbligazioni più recenti sono
state emesse specificamente per coprire i costi della sua guerra contro Gaza.
(4) Nel febbraio dello scorso anno, i funzionari del Ministero delle Finanze
hanno confermato che il Paese avrebbe dovuto vendere “una quantità quasi record
di obbligazioni” nel 2024 per continuare a finanziare il suo sforzo bellico. (5)
Israel Bonds, l’ente affiliato al governo responsabile della commercializzazione
delle obbligazioni israeliane agli investitori internazionali, pubblicizza
specificamente queste obbligazioni come opportunità per sostenere “Israele in
guerra”. (6) Sottoscrivendo e portando sul mercato le “obbligazioni di guerra”
di Israele, le sette banche identificate nell’indagine di Profundo hanno quindi
facilitato finanziamenti cruciali che hanno permesso a Israele di continuare la
sua guerra contro Gaza.
Screenshot dal sito Israel Bonds.
Acquisto di “war bond”
L’indagine di Profundo identifica anche i gestori patrimoniali che hanno
acquistato titoli di Stato israeliani dal 7 ottobre 2023. Questi gestori
patrimoniali acquistano obbligazioni sia per i propri fondi che per i propri
clienti, tra cui fondi pensione e compagnie assicurative.
I risultati indicano che i 20 maggiori investitori istituzionali – in gran parte
gestori patrimoniali statunitensi e divisioni di gestione patrimoniale di banche
e compagnie assicurative statunitensi – hanno fornito finanziamenti a Israele
per oltre 2,7 miliardi di dollari attraverso l’acquisto di obbligazioni
dall’inizio della guerra.(7)
Il maggiore investitore, PIMCO, la filiale statunitense della società tedesca di
servizi finanziari Allianz, da solo ha acquistato quasi 1 miliardo di dollari in
“war bond” israeliani.
Elenco dei maggiori investitori privati in obbligazioni emesse da Israele dal
7/10/23. Documenti più recenti depositati a gennaio 2025.
Max Hammer, attivista per i diritti umani di BankTrack, ha dichiarato:
“La guerra di Israele contro Gaza ha creato una delle più grandi catastrofi
umanitarie del 21° secolo. Sottoscrivendo obbligazioni che lo Stato israeliano
ha specificamente emesso per continuare il suo sforzo bellico genocida, le
banche hanno rischiato di rendersi complici di queste atrocità. Qualsiasi
istituzione finanziaria o investitore che abbia aiutato Israele a raccogliere
fondi per la sua campagna militare deve intraprendere azioni urgenti per porre
fine e porre rimedio ai suoi contributi alle diffuse violazioni del diritto
umanitario internazionale.
Thomas Van Gool, Project Lead Israel-Palestine di PAX, ha dichiarato:
“Gli investimenti e la sottoscrizione di “obbligazioni di guerra” israeliane da
parte delle banche e dei gestori patrimoniali riflettono una lunga storia di
complicità delle imprese nelle violazioni israeliane del diritto umanitario
internazionale. Ora che è entrato in vigore un fragile cessate il fuoco, le
istituzioni finanziarie e le imprese devono agire immediatamente per rimediare
ai loro legami diretti con queste violazioni. Oltre a porre rimedio alle
atrocità che hanno permesso finanziariamente a Gaza, ciò deve comportare una
revisione urgente di tutte le relazioni finanziarie con lo Stato israeliano, la
sua oppressione militare dei palestinesi a Gaza e i suoi regimi di apartheid e
occupazione in Cisgiordania.
Nota del redattore – Responsabilità in materia di diritti umani e rischi di
complicità
Responsabilità delle banche in materia di diritti umani:
Ai sensi dei principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani e
delle linee guida dell’OCSE sulla condotta responsabile delle imprese, le
istituzioni finanziarie, come tutte le imprese, hanno la responsabilità di
evitare di contribuire a impatti negativi sui diritti umani, ad esempio
facilitando o incentivando una relazione d’affari per causare danni. Le linee
guida dell’OCSE sulla due diligence per il prestito responsabile alle imprese e
la sottoscrizione di titoli chiariscono che le istituzioni finanziarie possono
contribuire a impatti negativi sui diritti umani se, sottoscrivendo
obbligazioni, consentono all’emittente di violare i diritti umani. (8)
Accuse di genocidio contro Israele:
Gli attacchi militari sistematici di Israele contro i civili, il blocco
dell’acqua, dell’elettricità e delle forniture umanitarie e la distruzione delle
infrastrutture nel corso della sua campagna militare hanno dato origine a una
diffusa convinzione che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza. Nel
gennaio 2024, la Corte internazionale di giustizia ha emesso misure provvisorie
contro Israele ai sensi della Convenzione sul genocidio. Da allora, numerosi
gruppi per i diritti umani, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch,
relatori speciali delle Nazioni Unite ed esperti accademici hanno concluso che
l’attacco di Israele a Gaza è stato un atto di genocidio. (10)
Rischio di complicità delle banche e dei gestori patrimoniali:
L’intenzione dichiarata del governo israeliano di utilizzare i proventi delle
sue obbligazioni sovrane per facilitare il suo assalto a Gaza mette i
sottoscrittori e gli investitori in “obbligazioni di guerra” a rischio di non
rispettare le loro responsabilità in materia di diritti umani. Sottoscrivendo e
investendo in obbligazioni sovrane utilizzate per finanziare questi attacchi, le
banche e i gestori patrimoniali rischiano di contribuire a potenziali crimini
atroci, tra cui crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.
Il peso delle ben documentate violazioni del diritto internazionale da parte di
Israele può porre ulteriori rischi legali sui sottoscrittori e sugli investitori
identificati da Profundo che vanno oltre le violazioni delle norme
internazionali sui diritti umani. Sebbene le istituzioni finanziarie, in quanto
società, non siano parte della Convenzione sul genocidio o di altri strumenti di
diritto internazionale, esse o i loro dipendenti rischiano di essere ritenuti
responsabili di complicità in atti di genocidio, nonché di crimini di guerra e
crimini contro l’umanità, ai sensi del diritto penale internazionale o
nazionale, se un tribunale dimostra che le loro azioni hanno costituito un
contributo sostanziale e consapevole a presunti crimini internazionali. (11)
Nel giugno 2024, in una richiesta di un embargo totale sulle armi nei confronti
di Israele, gli esperti delle Nazioni Unite hanno osservato che le aziende e le
istituzioni finanziarie che forniscono sostegno all’offensiva militare
israeliana potrebbero subire “ripercussioni per complicità” in gravi violazioni
dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario internazionale,
compreso il genocidio. (12) Analogamente, come osservato dal dottor Pietropaoli
in un parere giuridico commissionato da SOMO e Al Haq, “le società che investono
o collaborano con il governo israeliano o con le imprese statali israeliane
affrontano un rischio particolarmente saliente di aiutare, favorire, facilitare
o altrimenti contribuire alla commissione di genocidio da parte di Israele o ad
altre violazioni del diritto umanitario internazionale”. (13) Sottoscrivendo e
acquistando “obbligazioni di guerra” israeliane, le banche e i gestori
patrimoniali rischiano quindi di fornire un sostegno materiale diretto, e quindi
di aiutare e favorire il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di
guerra di Israele, e possono rischiare ripercussioni per complicità.
Note
(1) Francesca Young, Israele ritorna sul mercato obbligazionario pubblico,
Global Markets, marzo 2024
(2) Alcune delle emissioni di debito sovrano individuate nella ricerca di
Profundo sono state avviate nell’estate del 2023, ma sono state collocate con
l’accordo dei sottoscrittori solo dopo il 7 ottobre 2023.
(3) Alexander Kozul-Wright, La guerra di Gaza estende il tributo all’economia di
Israele, Al Jazeera, agosto 2024.
Emma Farge e Nidal Al-Mughrabi, Bilancio delle vittime di Gaza: quanti
palestinesi ha ucciso l’offensiva israeliana?, Reuters gennaio 2025.
(4) Mary McDougall, Ellesheva Kissin e Kate Duguid, Israele raccoglie 6 miliardi
di dollari in prestiti per finanziare la guerra contro Hamas, FT, novembre 2023.
(5) Galit Altstein, Israele, appena declassato, si prepara a pagare la guerra
contro Hamas, Bloomberg, febbraio 2024.
(6) Israel Bonds, Israele in guerra, febbraio 2025.
(7) Oltre alle obbligazioni acquistate da investitori istituzionali, anche i
comuni e gli Stati statunitensi hanno acquistato direttamente volumi
significativi di obbligazioni israeliane. Ulteriori dettagli sugli investimenti
dei fondi sovrani e dei fondi pensione in “obbligazioni di guerra” israeliane –
direttamente o tramite gestori patrimoniali – saranno gradualmente disponibili
man mano che i fondi pensione pubblicheranno le loro informative annuali sul
portafoglio 2024.
(8) OCSE, Due diligence for Responsible Corporate Lending and Securities
Underwriting: Key considerations for banks implementing the OECD Guidelines for
Multinational Enterprises, 2019.
(9) Corte internazionale di giustizia, Applicazione della Convenzione per la
prevenzione e la repressione del crimine di genocidio nella Striscia di Gaza
(Sudafrica c. Israele), gennaio 2024.
(10) Amnesty International, “Ti senti come se fossi un subumano”: il genocidio
di Israele contro i palestinesi a Gaza, dicembre 2024.
Human Rights Watch, Sterminio e atti di genocidio: Israele priva deliberatamente
dell’acqua i palestinesi di Gaza, dicembre 2024.
L’esperto per i diritti umani del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite ritiene che a Gaza sia stato commesso un genocidio per “motivi
ragionevoli”.
Arwa Mahdawi, Stiamo assistendo alla fase finale del genocidio a Gaza, Guardian,
novembre 2024.
(11) Lydia De Leeuw & Max Lamb, Fare un omicidio? Legami commerciali statali e
aziendali con il genocidio a Gaza – e cosa devono fare i governi e le aziende
per prevenirlo, SOMO, aprile 2024.
(12) UN-OHCHR, gli Stati e le imprese devono porre immediatamente fine ai
trasferimenti di armi a Israele o rischiare la responsabilità per le violazioni
dei diritti umani: esperti delle Nazioni Unite, giugno 2024.
(13) Dott.ssa Irene Pietrapaoli, Obblighi degli Stati terzi e delle società per
prevenire e punire il genocidio a Gaza, Somo e Al-Haq, giugno 2024.
***
(*) Tratto da BankTrack.
Attivistɜ e volontariɜ della Freedom Flotilla Coalition, della Global March to
Gaza e del convoglio Sumud si sono uniti per lanciare la Global Sumud Flotilla
(GSF) – il più grande sforzo civile via mare dalla nascita dell’assedio illegale
imposto dall’occupazione israeliana a Gaza.
A giugno, migliaia di volontari sono stati mobilitati via terra, via mare e via
aria per la Palestina. Ora, i volontari di quei movimenti si uniscono in una
strategia comune e mirata: un convoglio marittimo coordinato, in partenza da
diversi porti del Mediterraneo.
Questa azione punta rompere l’assedio illegale via mare imposto dall’occupazione
israeliana con una flottiglia nonviolenta; consegnare con urgenza aiuti
umanitari alla popolazione palestinese a Gaza, deliberatamente affamata e
sottoposta a genocidio dall’occupazione e dai suoi alleati; aprire un corridoio
umanitario guidato dai popoli, là dove i governi hanno fallito; denunciare il
silenzio globale, la complicità, la protezione e i profitti costruiti su crimini
di guerra; fermare il genocidio a Gaza.
La GSF continuerà ed espanderà i suoi tentativi di raggiungere Gaza. Con decine
di imbarcazioni già in preparazione, questa sarà più di una flottiglia: sarà un
messaggio al mondo intero, un promemoria che i palestinesi a Gaza e in tutta la
Palestina non sono soli, e che i popoli non resteranno in silenzio.
Nelle prossime settimane la coalizione pubblicherà maggiori dettagli, comprese
le modalità per seguire, sostenere o partecipare all’iniziativa
La presentazione con Maria Elena Delia portavoce italiana GMTG Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
(disegno di rosario vicidomini)
Ogni anno l’Osservatorio di Antigone stila il Rapporto sulle condizioni delle
prigioni e sul funzionamento della macchina penale. Senza respiro è il
ventunesimo ed è stato presentato il 21 maggio di quest’anno a Roma nella sede
dell’associazione.
L’analisi come sempre è rigorosa e si articola in un’area tecnica (Temi) in cui
si definiscono i contorni maggiormente problematici della detenzione intra ed
extra-muraria, due dossier specifici (uno riguardo ai suicidi dal 2024 al 2025,
l’altro sui principali processi per tortura in corso), un’ultima area distinta
di Approfondimenti riguardo agli aspetti di politica criminale ed esperienze di
attivismo all’interno delle galere.
Le prigioni, come da sempre sosteniamo, sono un ingranaggio nevralgico per il
funzionamento dell’economia capitalistica perché rappresentano l’argine
principale per la massa crescente di soggetti espulsi dal sistema produttivo.
Per questo l’immagine che viene fuori dalla lettura del Rapporto è interessante
per capire la fase che stiamo attraversando.
Prima di ogni cosa i numeri. Il 30 aprile i detenuti presenti erano 63.445, il
30 giugno erano 62.728 in spazi che possono contenerne 51.280 (a cui devono
sottrarsi ameno 4.500 posti perché spazi inagibili o in ristrutturazione).
L’aumento è consistente e “se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza
media di circa trecento posti significa che la popolazione detenuta sta
crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi”.
Questi flussi impattano fortemente sull’economia nazionale, tuttavia il bilancio
dell’Amministrazione penitenziaria indica che il costo per sostenere ogni
recluso è in netta diminuzione e questo significa che all’aumento delle persone
detenute non corrispondono maggiori investimenti. A ogni modo, come sempre la
voce di spesa più alta dell’intero budget (61,7%) è destinata al pagamento del
personale di polizia penitenziaria.
A proposito dei costi destinati alla reclusione, l’Osservatorio registra il
progressivo allargamento delle attività del terzo settore anche nella gestione
dell’esecuzione della pena. Tale processo di privatizzazione non riguarda
soltanto l’affidamento di singoli servizi a enti esterni (come la mensa o
l’approvvigionamento idrico per le strutture che non hanno l’allaccio), ovvero
di percorsi trattamentali (il laboratorio di teatro) e lavorativi (la sartoria)
già ampiamente affidati a cooperative, ma della reclusione tout court. Il
decreto legge 92/2024, convertito con legge 112/2024, disciplina le nuove
“strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei
detenuti”. Il ministero di giustizia dispone di un elenco delle strutture
residenziali e per il funzionamento di questi spazi affida un finanziamento di
sette milioni di euro (bacino economico di Cassa delle Ammende). La critica di
Antigone è chiara: “Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità
ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una
forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la
privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena
bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi
pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato
somiglia molto a un carcere privato”.
L’“impresa del bene”, cresciuta nei margini di questo settore, comincia a
recuperare fette di mercato sempre più ampie. È il caso della regione
Emilia-Romagna che sostiene le Comunità Educanti con i Carcerati, che propongono
un programma di rieducazione del condannato gestito privatamente dalla Comunità
Papa Giovanni XXIII. Anche in Campania si trova un’esperienza simile, infatti
l’associazione Terra Dorea, costituita a gennaio 2025, già a maggio ha stretto
un importante protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
per “creare comunità educative alternative alla detenzione e, così, ridurre il
sovraffollamento carcerario”. Di quest’ultima associazione si sa pochissimo,
sembra nata dal nulla, ma appare già molto inserita nel contesto istituzionale
della pena. Dopo un mese dalla costituzione, il 5 febbraio firma una convenzione
con il Tribunale di Napoli Nord per lo svolgimento di percorsi di recupero
destinati agli autori di reati di violenza domestica e di genere. Questo ente
del terzo settore si sta muovendo su ogni campo del reinserimento. Spiega la
giovanissima presidente, avvocata Claudia Majolo, in una delle prime note
apparse sulla stampa locale: “Terra Dorea si propone come un ponte tra il
carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e
il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché
chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su
una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una
reale trasformazione sociale e culturale”.
L’immagine dell’istituzione che viene fuori dalla lettura del rapporto è di un
carcere pronto a implodere di nuovo e che tenta di immaginare possibili
traiettorie di riequilibrio in senso securitario, ma tali soluzioni sono del
tutto inconsistenti rispetto alle contraddizioni interne e alla enorme pressione
degli ingressi.
Rispetto a quest’ultimo punto, è interessante la posizione del ministero
espressa nel corso della presentazione romana. Il consigliere Ernesto Napolillo,
ex magistrato, direttore dell’Ufficio generale detenuti e trattamento, comincia
il proprio intervento senza mezzi termini: gli unici dati giusti sono quelli
forniti dall’istituzione, le associazioni e gli altri enti non operano con
metodo scientifico e devono occuparsi di altro. Entra poi nel merito toccando
alcuni punti oggetto della discussione. L’ufficio che dirige l’ex magistrato
coniuga le due tensioni del carcere: l’esigenza di sicurezza connessa alla
pericolosità penitenziaria e la necessità del trattamento del detenuto. Sulla
rieducazione, il consigliere penitenziario afferma senza remore che
l’istituzione registra un “cronico e gravissimo problema di effettività del
trattamento”. Secondo il ministero l’assenza di lavoro è la causa principale.
L’autorità si dilunga, poi, esponendo il posizionamento politico: “Il modello
tradizionale di carcere come luogo di segregazione votato anche al trattamento è
superato… il carcere non è più il luogo della pena ma è un luogo di conquista
della criminalità organizzata. Ci sono delle organizzazioni criminali che
preparano i propri affiliati e li mandano in carcere per controllare le piazze
di spaccio nelle carceri”. C’è la necessità, quindi, di un nuovo paradigma per
riequilibrare l’istituzione ed è quello della legalità: “Garantire il diritto
alla sicurezza è il miglior modo per garantire la sicurezza dei diritti”. A
ognuno il proprio ruolo: il trattamento è rimesso alla società civile, al
volontariato, alle organizzazioni religiose. L’istituzione, invece, deve
garantire la sicurezza e l’autorità attacca la vuota retorica dei proclami delle
amministrazioni precedenti: “Troppe passarelle ci sono state fino a oggi… ci
sono più protocolli che attività, ci sono più iniziative di lavoro che
lavoratori”.
Il piano politico è coerente con una rappresentazione muscolare
dell’istituzione: rispristinare la sicurezza conducendo una guerra totale. In
tale prospettiva devono essere letti il decreto sicurezza (convertito in legge
80/2025) e la nuova iniziativa legislativa titolata “Operazioni sotto copertura
per la sicurezza degli istituti penitenziari” che estende alla polizia
penitenziaria le possibilità dell’art. 9 della legge 146/2006, ammettendo
operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e lo scudo penale per gli
agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie siano previamente informate.
Queste misure rappresentano gli armamenti giuridici per condurre il conflitto
interno e impedire l’organizzazione collettiva delle lotte. Dal mondo delle
prigioni emerge il coerente rafforzamento dei poteri repressivi dello Stato in
una fase complicata per il capitalismo italiano ed europeo in cui si deve
necessariamente conservare l’ordine sociale mentre occupazione e salari sono in
caduta ripida e gli scenari di guerra esterna si fanno sempre più concreti.
Ci sono tuttavia delle distonie che rendono problematica la realizzazione del
programma politico. Alcune sono emerse sempre nel corso della presentazione del
Rapporto di Antigone. Il sindacalista Gennarino De Fazio, segretario Uil Pa,
rispondendo punto per punto alle affermazioni del dirigente
dell’Amministrazione, ha ricordato che i suicidi tra le fila della polizia
penitenziaria sono in aumento (l’ultimo si è ammazzato il 27 giugno, appena
finito il turno con un colpo di pistola nel parcheggio del carcere di
Secondigliano). La frustrazione al fronte è enorme e senza soluzione. Questa
guerra si combatte senza soldati. “I detenuti sono aumentati di 5.000 unità… al
di là della propaganda la polizia penitenziaria è aumentata di 133 unità che non
sono andate nelle carceri ma a integrare gli uffici dipartimentali dove c’è
anche il consigliere Napolillo. Il personale è sempre più senza respiro”.
Il sindacalista ha criticato fortemente il graduale processo di omologazione
degli agenti penitenziari agli altri corpi di polizia, perché la funzione è
sostanzialmente diversa e ha attaccato duramente il piano formativo dei nuovi
agenti che vengono mandati al macello con qualche giorno di corso da remoto.
Tralasciando il tentativo di rafforzare la propria organizzazione di categoria,
le criticità segnalate e la spaccatura interna tra la polizia che opera in
trincea e i generali che governano la battaglia dalle scrivanie è reale. Lo
registriamo costantemente anche nei corridoi dell’aula bunker durante le lunghe
attese del processo sulla Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Difatti, per quanto gli apparati stiano correndo per prepararsi alla guerra, da
tempo le macerie sociali di questo ordine di cose aumentano. Le prigioni sono
una di queste e sono pronte a esplodere. Non c’è tempo. La realtà dei fatti, al
di là delle lezioni di vita dei dirigenti, è che molti istituti di pena si
autogestiscono. In istituti dove persiste un sovraffollamento del 150% circa,
dove è assente ogni tipo di intervento anche solo riempitivo della giornata, con
le presenze di personale civile e in divisa in sottorganico, l’implosione è
scongiurata solo in virtù di autogestione informale e precaria dei poteri
interni ufficiosi e ufficiali.
“Vengo da laggiù dove tutto è finito… e tutto ricomincia”, sono le parole della
Cassandra di Dimitriadis; stiamo ricominciando daccapo ed è necessario per
evitare di rimanere sepolti dalle rovine di questo mondo, rivitalizzare e
moltiplicare l’organizzazione delle lotte, estendendo l’intervento a ogni ambito
della riproduzione sociale. Trovare nei legami collettivi e nei percorsi di
resistenza la fiducia per “l’assalto al cielo”. A ognuno il suo ruolo, questo è
il nostro. (luigi romano)
MANIFESTAZIONE PALESTINA LIBERA
piazza Carlo Felice - di fronte a Porta Nuova - piazza carlo felice
(sabato, 12 luglio 16:30)
i gravi fatti di ieri mattina a Napoli (cariche, arresti e feriti contro
lavoratori disoccupati e sindacalisti; ancora sotto arresto Mimí, compagna del
coordinamento SI Cobas di Napoli) dimostrano l'urgenza di unire tutte le lotte
per rispondere alla repressione, contro l'economia di guerra e il decreto
"sicurezza" Mattarella-Meloni, per la solidarietà di classe e il rafforzamento
di un'opposizione efficace alle politiche di governo e padroni.
Domani sabato 12 luglio invitiamo alla manifestazione per la Palestina libera a
Torino partecipando allo spezzone contro la repressione per la solidarietà con i
lavoratori e compagni di Napoli insieme con gli attivisti per la Palestina di
Gran Bretagna.
Ritrovo domani ore 16,30 in piazza Carlo Felice di fronte alla stazione di Porta
nuova.
CENA SOCIALE BELLAVITA
piazza Foroni - piazza Foroni
(giovedì, 17 luglio 00:30)
Cena sociale di quartiere in Piazza Foroni
È bellavita: porta quello che vorresti trovare (a partire da
piatto-bicchiere-posata riutilizzabili)
Autogestiamoci!
Appare chiaro che sia l’incarico, che la stessa persona fisica di Francesca
Albanese sono in pericolo e che la società civile, sia italiana, dato che stiamo
parlando di una nostra connazionale, che europea ed internazionale debba
mobilitarsi di Enrico Calamai da il manifesto Sostiene il segretario di Stato
Usa Marc Rubio che quelli di Francesca […]
Non di rado il suicidio è un’implicita affermazione del desiderio di vivere in
un altro mondo più alto e sereno, una via di fuga per chi non riesce a evadere
da qualsivoglia galera di Marco Sommariva* Leggo sul quotidiano il manifesto che
occorreva “leggere la testimonianza del detenuto Gianni Alemanno riguardo al
«momento più difficile» […]
Strage di bambini in fila per il latte a Deir al-Balah, nel centro della
Striscia, stavolta sotto gli occhi della Cnn. Mentre Israele arruola sterratori
per costruire il recinto in cui rinchiudere Gaza di Eliana Riva da il manifesto
Lo strazio delle madri all’ospedale dei Martiri di Al-Aqsa dovrebbe bastare da
solo a risvegliare il […]
La Corte Ue si è espressa sul caso di una madre congolese arrivata a Bologna con
figlia e nipote, tutte con documenti falsi. La sentenza potrebbe influenzare i
processi futuri e la riforma del reato di favoreggiamento in corso in Ue
L'articolo Fare entrare irregolarmente in Ue figli in pericolo non è reato
proviene da IrpiMedia.
Nella giornata del 15 luglio nel Senato Accademico di Unito verrà proposto un
accordo quadro con TELT (Tunnel Euralpin Lyon Turin), il promotore del progetto
TAV. In quanto tale è […]
The post Fermiamo Telt dalla Valsusa fino ad Unito! 15/07 ore 10 Rettorato -
Presidio sotto il Senato Accademico first appeared on notav.info.
✨SABATO 12/07 SERATA BENEFIT A OST BARRIERA✨
Circolo “Ost Barriera” - Via Luigi Pietracqua, 9
(sabato, 12 luglio 19:00)
✨SABATO 12/07 Serata benefit a OST Barriera✨
🔺Dalle H 20.30 scappa dal Caldo estivo in Via Pietracqua 9 (Torino)!
🍸🍉Mojito, anguria, dj set trash fino a chiusura!