Genova: I portuali, la città e il traffico delle armi del genocidio
Da Marsiglia a Genova, i blocchi al traffico di armi verso i paesi in guerra, come Israele, ricordano non solo che la guerra orienta sempre di più qualsiasi scelta dei governi ben oltre la produzione, ma anche che la logistica ha dei punti deboli, intorno a cui possono emergere esperienze d’intelligenza popolare di cui abbiamo molto bisogno in questo tempo di Stefano Rota da Comune-info Sabato 7 giugno, c’è stata a Genova un’importante manifestazione organizzata dal CALP (Collettivo Autonomo dei Lavoratori del Porto), con il blocco del varco di Ponte Etiopia e un breve corteo nell’area portuale, con alcune centinaia di partecipanti. La motivazione è quella di cui il CALP ha fatto una bandiera e persegue con convinzione da anni: il blocco al traffico di armi verso i paesi in guerra, in questo caso Israele. Vale la pena precisarlo, perché nel 2019 la stessa azione ha avuto come obiettivo un’altra guerra. In quel caso il carico era destinato all’Arabia Saudita, impegnata a massacrare la popolazione Huti dello Yemen del Sud. La collaborazione con i portuali organizzati di altre città è un punto di forza di questa lotta. La nave della compagnia israeliana ZIM sarebbe dovuta arrivare a Genova con un carico di quattro containers pieni di materiale bellico da Marsiglia e destinata a Israele, ma i portuali di quella città si sono rifiutati di caricarli. La nave è così arrivata a Genova con un giorno di ritardo rispetto al previsto e senza il famigerato carico di morte. Tutto questo era già a conoscenza del CALP e l’informazione era stata condivisa il giorno precedente in una affollata assemblea a Music For Peace. Nonostante questo, si è deciso di proseguire con la manifestazione in programma per sabato (personalmente, la considero una scelta sacrosanta). Provando a vedere le cose al di là del singolo evento, va ribadito un punto fondamentale che ha a che vedere con la crescente forza strategica della logistica e della finanza nei processi globali di creazione di valore. La logistica ha dei punti deboli nella catena di approvvigionamento su scala mondiale (ne ha anche la finanza, ma sono di altra natura). Sono quelli in cui una forza organizzata riesce a bloccare temporaneamente o rendere problematico il fluire di merci. Questo vale per i porti, per Amazon, per gli Steamers americani. Mettersi con i propri corpi in quegli snodi, con il blocco di un varco o il picchetto all’entrata di un magazzino, significa mettere in evidenza la (parziale) vulnerabilità della supply chain, costringere a cambiamenti di rotta marittima o autostradale le corporations che gestiscono quelle catene. Viene in mente una domanda che ha fatto Foucault nel corso di due interviste nella seconda metà degli anni Settanta: “Quando parliamo di lotta di classe, di che lotta stiamo parlando?” Di queste azioni, non c’è dubbio. Ciò che è accaduto nel porto di Genova ha una strettissima relazione con tutto questo, ma con un valore aggiunto, anzi due. Il primo è quello già ricordato della stretta collaborazione con i lavoratori di altri porti, che crea un effetto moltiplicatore del danno prodotto dalla lotta. Il secondo è la forza d’attrazione che il CALP riesce a emanare, producendo una variegata partecipazione alle proprie iniziative. Rappresenta a Genova un punto di riferimento importante, funziona come elemento attorno a cui si articolano altri soggetti. Questo anche perché il CALP sa porsi non solo come collettivo di lavoratori, ma come collettivo politico, nel senso più preciso del termine. La lotta che conduce il CALP su questo fronte è una lotta che contribuisce a definire, nel suo articolarsi con altre forze, l’essere di un soggetto politico collettivo. Da anni ormai, come ribadiscono con chiarezza sia Sandro Mezzadra, sia Maurizio Lazzarato, la guerra è alla base del modello governamentale, quindi ben oltre quello produttivo, che sta definendo il nuovo assetto globale. Le strategie continentali, oltre che nazionali (il piano Von Der Layer da 800 mld, e il processo di riarmo della Germania, ad esempio) stanno disegnando nuovi rapporti ed equilibri, nuove priorità nella destinazione di risorse e di potere decisionale. La finanza e la logistica (non dimentichiamoci che quest’ultima ha una impostazione organizzativa che deriva dal modello bellico) divengono sempre più strategiche nella costruzione di quel nuovo ordine. I grandi centri d’investimento che muovono migliaia di trilioni di dollari hanno già scelto su cosa puntare, come dimostrano le crescite vertiginose del valore delle grandi multinazionali degli armamenti. Senza sminuire il valore, che non può essere altro che simbolico, delle manifestazioni in cui ci sdraia in piazza nei sudari, dell’esibizione di gigantesche bandiere palestinesi negli stadi (non prendo neanche in considerazione le ipocrite dichiarazioni di politici che, dopo oltre 50.000 morti, affermano che si sta passando il segno!), l’iniziativa del CALP e dei lavoratori di altri porti assume una tonalità diversa. È una manifestazione d’intelligenza operaia, popolare, che dimostra di aver capito bene dove si deve intervenire se si vuole produrre un sia pur parziale ostacolo. Ma è soprattutto un progetto politico che si manifesta in uno spazio pubblico (in questo caso del porto, pubblico-privato), dove al danno materiale si somma la manifestazione della “alleanza dei corpi” attorno a una lettura del mondo, dove si produce senso vero di quale sia oggi l’agire politico. Un caro amico e grande esperto di traffici marittimi-portuali, nonché sostenitore della prima ora del CALP, con cui eravamo insieme alla manifestazione (Riccardo degli Innocenti), mi ha detto indicando una nave che caricava centinaia di container della ZIM: “Chi lo sa cosa può contenere realmente anche solo il 2% di quei container?” Ha ragione, chiaro. Lui più di me sa bene come possa essere facile aggirare i controlli. Oltre a correre il rischio di divenire oggetto d’interesse delle nuove norme del DDL Sicurezza, chi organizza e chi partecipa a queste forme di lotta sa bene quali siano i loro limiti. L’estensione del fronte ad altri soggetti, anche di categorie differenti, può consentire una maggiore efficacia di quelle lotte, aggiungendo informazioni che consentano di mappare con maggior chiarezza i nodi della rete logistica che devono essere presidiati. Informazioni, intelligenze, reti e logistica: del resto, il nemico va affrontato e combattuto sul suo terreno. > Vittoria dei portuali di Marsiglia e Genova. Rimaste a terra le > mitragliatrici, la nave cargo diretta a Israele viaggia vuota     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Milano: la questura blocca il corteo per la Palestina
Questo pomeriggio nel capoluogo lombardo si torna in Piazza in solidarietà alla Palestina: alle 14:30 da Porta Venezia partirà un corteo per chiedere la fine degli accordi militari tra Italia e Israele. La manifestazione si inserisce in un clima di crescente mobilitazione, sia a livello locale che internazionale, a sostegno del popolo palestinese e contro il coinvolgimento italiano nella filiera bellica. La presentazione della manifestazione con Sagia dei Giovani Palestinesi d’Italia. Ascolta o scarica, ORE 15.40: La polizia ha circondato i manifestanti al concentramento in porta Venezia, impedendo alla manifestazione di partire con la scusa di non avere abbastanza agenti per garantire la “sicurezza” del corteo. “Noi, però, siamo circondati da uomini e blindati”, denunciano i Giovani Palestinesi d’Italia, l’Unione Democratica Arabo Palestinese e Udap e la Comunita Palestinese Lombarda, le realtà promotrici. Il collegamento di Radio Onda d’Urto dalla piazza con Sagia dei Giovani Palestinesi d’Italia. Ascolta o scarica. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
Israele arma l’Isis a Gaza. Alcune riflessioni sulle forme storiche della resistenza
Non si è prestata sufficiente attenzione ad una notizia che sta circolando negli ultimi giorni da diverse fonti: Israele starebbe fornendo armi ad una banda criminale legata all’Isis all’interno della Striscia di Gaza. La gang capeggiata da Yasser Abu Shabab avrebbe stabilito una base fortificata in una zona di Rafah controllata dall’esercito israeliano. Abu Shabab è noto per i suoi legami con l’ISIS. La sua banda criminale sarebbe coinvolta nel saccheggio di aiuti sotto la protezione di Israele. L’anno scorso, The New Arab ha riferito che Abu Shabab, tra gli altri, lavorava insieme a centinaia di criminali sotto la protezione delle forze di occupazione israeliane vicino al valico di Kerem Shalom, il principale punto di ingresso per i convogli di aiuti. Proviene dalla tribù beduina dei Tarabin, che si estende dal Sinai al sud di Gaza e al deserto del Negev, ed è stato identificato in una nota delle Nazioni Unite come “la principale figura influente dietro il saccheggio diffuso e organizzato” dei convogli di aiuti a Gaza. Adesso la sua gang si presenterebbe come una forza di sicurezza che afferma di proteggere la limitata assistenza umanitaria che entra nella Striscia con tanto di uniformi e armi da guerra. L’opposizione israeliana ha denunciato alcuni giorni fa che il governo sionista sta fornendo armi e finanziamenti alla gang di Abu Shabab con l’obiettivo di creare una milizia da opporre ad Hamas all’interno della Striscia. Israele non è nuovo ad operazioni di questo genere: già Hamas a suo tempo aveva goduto di finanziamenti israeliani transitati attraverso il Qatar. La logica di Israele era quella di sostenere segretamente il principale competitor dell’OLP e di Fatah all’interno della politica palestinese per sabotare la leadership del tempo. Un’evoluzione di quanto gli USA avevano applicato in Afghanistan durante l’invasione russa, con flussi di denari ed armi verso i talebani, ma con alcuni elementi di novità. Per Israele non si trattava di finanziare una resistenza autoctona (qualunque essa fosse) contro un nemico esterno, ma di impedire che il popolo palestinese fosse rappresentato da un quadro politico unitario e che le lotte interne alla resistenza indebolissero la sua capacità di opporsi alla colonizzazione ed al regime di apartheid. L’operazione ha funzionato per un certo tempo: le lotte intestine alla politica palestinese, il progressivo allontanamento tra la Cisgiordania amministrata da Fatah e la Striscia di Gaza controllata da Hamas, le divisioni sugli accordi di Oslo e la conseguente semplicità con cui Israele ha potuto disattenderli completamente senza una risposta interna ed internazionale, la progressiva mutazione dell’ANP in una burocrazia corrotta e complice dell’occupazione; tutti questi elementi hanno garantito a Israele di portare avanti pressoché nel silenzio la sua lunga campagna di pulizia etnica e disciplinamento biopolitico nei confronti del popolo palestinese. Ma il governo israeliano non aveva considerato due elementi fondamentali: in primo luogo Hamas non era semplicemente un partito islamista, ma come chiarisce Paola Caridi nel suo libro a fianco del revival religioso ad essere centrale era il nazionalismo palestinese, in molti casi più importante della cornice religiosa in cui era collocato. Inoltre molti militanti di Hamas venivano da altre formazioni della resistenza palestinese da cui erano rimasti delusi, portando con sé il proprio bagaglio di esperienze e visioni. In secondo luogo Israele ha sottovalutato un aspetto fondamentale: a prescindere dalle “forme esplicite” che prende un movimento come quello generale della resistenza palestinese, le “forme implicite” si continuano a muovere sotterranee condizionando quelle “esplicite” esistenti o/e generandone di nuove alle date condizioni oggettive e soggettive in cui il movimento si trova a muoversi. Non a caso Hamas si è sempre preoccupata di curare la dialettica tra il ceto politico, l’organizzazione e la popolazione palestinese più in generale consapevole della parabola delle formazioni precedenti. Ancora Paola Caridi sottolinea il cambiamento di lessico nel percorso politico di Hamas, dove da una prevalenza dei temi religiosi si è passato via via a l’utilizzo più frequente di categorie, come quella del colonialismo, dell’occupazione e del sionismo tipiche del nazionalismo palestinese. Hamas è stata in un certo grado un veicolo in cui si è coagulata in forme esplicite differenti a seconda delle diverse fasi una parte consistente del programma palestinese contro l’occupazione. Non è possibile ad oggi capire quale sarà il destino di Hamas, e se ci sarà, ma ciò che pare certo è che la resistenza palestinese troverà nuove forme, nuovi lessici, nuove prospettive che si tradurranno in forme storiche nuove o vecchie, ma sicuramente differenti rispetto alla fase precedente. Il finanziamento alla gang di Abu Shabab, anche se apparentemente può ricordare quanto accaduto con Hamas, è qualcosa di radicalmente differente. Questa formazione appartiene alla tradizione degli accaparratori, quel mefitico fenomeno che durante i periodi di guerra attraverso la violenza e il controllo armato estrae profitto dalla rapina e dall’accumulo di risorse che dovrebbero essere destinate alla popolazione assediata. E’ tra le più vomitevoli forme di accumulazione che per sua natura è immediatamente “contro” il proprio popolo. L’obiettivo di Israele nel sostegno a questa gang è quello di rompere la solidarietà di una popolazione assediata e imporre una rigida gerarchia della fame che conduca i palestinesi di Gaza ad un individualismo armato e ad una lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza. L’altra evidenza che emerge ancora una volta è che l’Isis e le formazioni ad esso associate sono di fatto una pedina degli USA ed Israele in ogni scenario in cui si trovano. Un “partito dell’ordine” che si basa sulla sopraffazione, la rapina e la violenza utilizzato per spargere kaos e divisione nella regione. Che si tratti della Siria, dell’Iraq o della Palestina la loro funzione è quella di rompere ogni vincolo solidale ed impedire ogni itinerario di emancipazione imponendo la legge del più forte con il beneplacito dei propri padrini, che a tempo debito li molleranno per riprendere il controllo. Le forme esplicite del Califfato, della minaccia all’Occidente non sono altro che uno specchietto per le allodole, di cui da tempo sono consapevoli in molti nei territori dove si muovono queste formazioni. La gang di Abu Shabab così come le altre bande associate all’Isis sono delle forze controrivoluzionarie. Per questi motivi è fondamentale osservare i fenomeni non solo nelle loro forme esplicite, ma nei loro contenuti impliciti, nei rapporti materiali che li sostengono. Infine, se ce ne fosse bisogno, la complicità di questa gang con Israele si inserisce nella tradizione dei sistemi coloniali, dove, secondo determinati interessi di classe, una parte della popolazione viene cooptata dall’occupante per porsi a garanzia della continuità delle gerarchie coloniali. Abu Shabab o chi per lui nella visione israeliana si candida ad essere l’interlocutore che una volta ripulito potrà rappresentare a favore di telecamera il volto “dialogante” della politica palestinese.
L’esasperazione della tecno-sorveglianza di massa
A marzo Trump  ha chiesto a tutte le amministrazioni di far confluire i dati in loro possesso in un unico calderone da affidare all’analisi degli specialisti informatici di Palantir, la società di Peter Thiel, compagno di strada di Musk. Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.  Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.  a cura di Salvatore Palidda Mentre cerca limitare i danni degli assalti di Elon Musk, il best buddy diventato toro scatenato che gli imputa di somministrare agli americani un bilancio da bancarotta, Donald Trump finisce sotto accusa anche per sospetti da «grande fratello» orwelliano: l’uso dell’enorme volume di dati sui cittadini in possesso o reperibili dal governo (fiscali, previdenziali, sanitari, scolastici, ma anche creditizi) per costruire profili di ogni individuo. A marzo Trump ha emesso un poco notato ordine esecutivi presidenziale: ha chiesto a tutte le amministrazioni di far confluire i dati in loro possesso in un unico calderone da affidare all’analisi degli specialisti informatici di Palantir, la società di Peter Thiel, compagno di strada di Musk. Questa impresa analizza e classifica dati segretissimi per conto del Pentagono e dei servizi di intelligence di mezzo mondo. La Casa Bianca non ha mai parlato di questo limitandosi a dire che l’ordine impartito da Trump a ministeri e agenzie punta a migliorare le procedure amministrative. Gli esperti considerano, invece, pericolosissima questa concentrazione di informazioni: possibili abusi per creare sistemi di sorveglianza dei cittadini in stile cinese, magari da utilizzare contro gli avversari politici. E si rischia anche una diffusa perdita di fiducia: molti, sospettando il peggio, potrebbero smettere di fornire i loro dati personali (o fornirli alterati). Che i pericoli ci siano lo sostengono anche una dozzina di dipendenti che hanno lasciato Palantir denunciando ordini interni che espongono i risultati del loro lavoro analitico al rischio di abusi dell’autorità politica. Rischi che hanno già spinto le organizzazioni per i diritti civili a chiedere ai giudici di bloccare questa «raccolta a strascico» di dati. Ora cominciano a ribellarsi anche gruppi MAGA con un credo libertario: hanno seguito Trump condividendo la sua lotta contro il deep state, ma ora si chiedono cosa ci sia di più deep, di una schedatura elettronica di massa. Dopo Musk, dunque, anche Thiel lambito dalla bufera. Fin qui ha solo seguito le direttive di Trump, dopo che è stato proprio il Doge di Elon ad aprire la strada a Palantir. Ma ora, con Musk fuori dal governo e il Doge in ritirata, i riflettori si accendono anche su di lui: il vero architetto dell’adesione al trumpismo del mondo tecnologico orientato a destra. Gli Stati Uniti diventano uno stato di tecno-sorveglianza di massa Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.  Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe. “La sorveglianza negli Stati Uniti non è iniziata con Trump, né finirà quando lascerà la Casa Bianca. Le fondamenta dell’attuale stato di tecno-sorveglianza sono state gettate nel corso di decenni, con il sostegno bipartisan a politiche che hanno normalizzato le pratiche invasive nelle forze dell’ordine, nell’esercito e nel controllo delle frontiere” (lo dice un militante per i diritti civili del Bahrein Esra’a Al Shafei, che da anni studia questo problema, in una conversazione con El País). “Questo sistema è alimentato da grandi budget assegnati alle agenzie di intelligence e a fornitori privati, con il pretesto della sicurezza nazionale e della prevenzione del crimine”. Aziende come Palantir, Anduril e GEO Group stanno fornendo a Washington gli strumenti digitali per costruire questa intera infrastruttura di sorveglianza. Trump continua ad aggiungere strati a questo sistema. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale […] ha confermato ad aprile che sta utilizzando uno strumento chiamato Babel X per raccogliere informazioni sui social media dei viaggiatori che potrebbero essere soggetti a una maggiore sorveglianza, secondo quanto dichiarato dalla stessa agenzia. L’Immigration and Customs Enforcement (ICE), da parte sua, ha ammesso di utilizzare un altro programma, SocialNet, che aggrega dati da oltre 200 fonti, tra cui Facebook, Twitter/X, Instagram, LinkedIn e app di incontri. Washington riconosce ufficialmente che la semplice ricerca di “attività antisemite” sui feed, come la protesta per il massacro di Gaza, è sufficiente alle autorità per negare l’asilo o la cittadinanza. I social media sono solo la superficie. Per alimentare questa macchina automatizzata per rintracciare i sospetti, sono necessari dati di qualità sui cittadini. Alcune di queste informazioni vengono ottenute acquistandole da grandi broker di dati, come Thomson Reuters o Lexis Nexis, che creano profili esaustivi di milioni di persone, utilizzando fino a 10.000 tipi di dati su ogni individuo in base alle sue tracce online. Si va dal nome, all’indirizzo, al livello di reddito o al luogo in cui si fa la spesa, alle attività preferite per il tempo libero, all’età in cui gli amici si sono sposati, alla storia sessuale e al profilo emotivo: tutte queste informazioni sono disponibili. Ma l’altra parte di questo vasto archivio di dati viene distillata all’interno del governo federale stesso. Si tratta di uno dei progetti più importanti di Trump e, finora, del suo consigliere di punta, Elon Musk: il Department of Government Efficiency (DOGE), guidato dallo stesso Musk, che per mesi ha raccolto da altre agenzie federali dati ufficiali sensibili su centinaia di milioni di cittadini, dalla situazione fiscale alle cartelle cliniche. Alcuni osservatori avvertono che questi dati potrebbero essere presi da Musk ora che ha deciso di lasciare la Casa Bianca. I dati raccolti dal DOGE vengono utilizzati da Palantir, che ha contratti con l’amministrazione per oltre 2,7 miliardi di dollari, per costruire una nuova piattaforma di deportazione per l’Immigration and Customs Enforcement, ImmigrationOS. Secondo la sintesi del contratto, che specifica che il primo prototipo dovrebbe essere pronto entro settembre, i dati serviranno a “supportare un’analisi completa delle popolazioni target” e a contribuire al sistema di tracciamento individuale. I tentacoli dello Stato di sorveglianza tecnologica sono molto estesi. Elabora dati, ma ha anche occhi ovunque. “L’infrastruttura comprende strumenti come i droni di sorveglianza con riconoscimento facciale, la raccolta di dati biometrici, i lettori di targhe, le torri di guardia dotate di telecamere ad alta risoluzione e sensori, gli strumenti di polizia predittiva e la localizzazione, solo per citarne alcuni”, afferma Al Shafei, fondatore di Surveillance Watch, un archivio di fama internazionale di informazioni sulle aziende coinvolte nel business e sugli obiettivi noti. Negli ultimi mesi, il DHS ha acquistato diverse licenze per software utilizzati per spiare i telefoni cellulari da Cellebrite, Paragon Solutions, Venntel e NSO Group, gli sviluppatori del software spia Pegasus, secondo i dati raccolti da Just Futures Law. Questa tecnologia viene utilizzata per accedere ai dispositivi e vedere tutto ciò che vi accade, ma esistono anche altri strumenti per tracciare la posizione dei cellulari. Un’inchiesta della rivista Time ha mostrato che le donne che attraversano i confini dello Stato e si avvicinano alle cliniche abortive per interrompere le gravidanze sono state identificate in questo modo senza un mandato. Nessuno ignora le implicazioni della macchina che Trump sta lucidando e oliando. Un rapporto preparato da diverse ONG per le Nazioni Unite parla di “evaporazione dei diritti umani” in riferimento a quanto sta accadendo alle frontiere terrestri degli Stati Uniti.  “Un rapporto più stretto tra il governo e le società di sorveglianza, unito a un’intensificazione della sorveglianza negli Stati Uniti, rappresenta una minaccia reale per i diritti e le libertà fondamentali”, afferma Michael De Dora, ricercatore specializzato in politica statunitense presso l’organizzazione per i diritti digitali Access Now. “L’amministrazione Trump attribuisce alla sicurezza nazionale un valore superiore a quello dei diritti umani e della privacy, o addirittura a spese di questi. I membri della sua amministrazione non solo sorvegliano le persone, ma hanno persino discusso la sospensione di principi democratici fondamentali, come l’habeas corpus”. L’Europa non è immune da quanto sta accadendo negli Stati Uniti: “Agenzie come Frontex ed Europol stanno investendo in database biometrici, riconoscimento facciale e strumenti di monitoraggio basati sull’intelligenza artificiale che ricordano da vicino i sistemi già in vigore negli Stati Uniti” (cf. Aljosa Ajanovic, analista dell’European Digital Rights Institute -EDRi). Negli Stati Uniti, molti osservatori ritengono che sia molto difficile limitare l’applicazione di tutti questi controlli tecnologici sugli stranieri. Nemmeno i più convinti trumpisti, ritiene De Dora, dovrebbero sostenere il dispiegamento dello Stato di tecno-sorveglianza. “Una volta che questo macchinario è accettato e operativo, può essere usato contro chiunque”.   (fonti: Massimo Gaggi | 5 giugno 2025 https://www.corriere.it/opinioni/25_giugno_05/trump-e-il-fantasma-del-grande-fratello-49831f2e-b292-4913-aa84-7f2753176xlk.shtml, Manuel G. Pascual per elpais.com/ e Aljosa Ajanovic, analista dell’European Digital Rights Institute -EDRi)   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
Vittoria dei portuali di Marsiglia e Genova. Rimaste a terra le mitragliatrici, la nave cargo diretta ad Haifa viaggia vuota
Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14 tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori israeliani su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa. La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb. Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave. L’aggiornamento con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova e di Usb. Ascolta o scarica. da Radio Onda d’Urto
India: strumentalizzazioni delle popolazioni tribali da parte del bjp?
Mentre generalmente in India le popolazioni originarie (adivasi) subiscono l’oppressione e le deportazioni governative, in Assam – pare – si vorrebbe armarle in una prospettiva settaria (divide et impera) di Gianni Sartori Ancora nel 2010 la Corte suprema dell’India emetteva un ordine di espulsione nei confronti di circa 8 milioni di persone. Mentre il governo di Narendra Modi (Bharatiya Janata Party – Bjp) tentava di far adottare emendamenti e leggi per consentire ai rangers (in pratica, eufemismi a parte) di aprire il fuoco contro gli indigeni (adivasi) nelle aree forestali. Svuotando a livello legislativo il Forest Rights Act. Mentre la creazione di un registro nazionale dei cittadini e una legislazione discriminatoria (sempre in pratica) in campo religioso, rischiava di trasformare gli Adivasi in “apolidi” in casa loro. Qualche anno fa alcune Ong attive in difesa dei popoli indigeni paventavano che dalla vicinanza politico- economica tra India e Brasile (entrambi esponenti di spicco dei Brics) e dalla sostanziale affinità ideologica tra Bolsonaro e Modi (in particolare sulla questione “nativi”) potessero sortire conseguenze disastrose per i popoli indigeni. Ora, grazie a Dio, Bolsonaro non governa più e – anche se non priva di ombre e contraddizioni – la politica di Lula in materia di Indios è perlomeno il “meno peggio” rispetto al suo predecessore. Invece per l’India, con Modi ancora in sella, non sembra essere cambiato niente. Anzi. Perfino la sacrosanta difesa delle ultime tigripuò diventare il pretesto per deportare le popolazione autoctone. Vedi https://rivistaetnie.com/india-salvare-le-tigri-o-gli-adivasi-139370/ Ma – come per l’indipendentismo (v. https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/) anche qui talvolta si applica la “geometria variabile. Sembrerebbe questo il caso dell’Assam (stato nord-orientale dell’India) dove il governo locale (e in particolare il ministro dell’interno Himanta Biswa Sarma, del Bjp) ha ventilato la possibilità di concedere solo ai nativi il porto d’armi (“licenze per armi da fuoco alle popolazioni indigene in aree vulnerabili”). Ufficialmente per autodifesa, per ragioni di sicurezza Per l’opposizione invece si tratterebbe di una misura settaria su base etnicache porterebbe alla formazione di vere e proprie milizie settarie. Esasperando ulteriormente le tensioni già esistenti con la popolazione musulmana. Come sta già avvenendo nello stato confinante di Manipur dove periodicamente esplodono conflitti armati tratra Kuki e Meitei. Anche perché (come denunciava The Wire) Sarma non sarebbe nuovo a queste operazioni. Già quando era un esponente dell’opposizione con il Congress) aveva tentato di utilizzare i conflitti etnici tra autoctoni assamesie coloro che – talvolta impropriamente – vengono definiti “migranti bengalesi” (provenienti dal Bangladesh e in gran parte di religione islamica). Ma pensando alla propria carriera politica, per ottenere i voti delle comunità indigene. Oggi evidentemente ci riprova, utilizzando la medesima retorica, da membro del Bjp. Non tanto – si presume – per rispetto della cultura e identità tribale, ma prosaicamente in vista delle elezioni del 2026. Giustificando tale “concessione selettiva” in quanto “la gente si sente indifesa, e spesso i centri di polizia più vicini sono troppo lontani”. Non casualmente i cinque specifici distretti in cui la misura verrà applicata sono zone a prevalenza musulmana.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp        
Dal mondo
La morte di Riccardo non è una tragedia individuale
Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in cui è stato impiegato un taser. Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze dell’ordine. di Associazione Yairaiha Ets Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in cui è stato impiegato un taser. Secondo l’esito dell’autopsia, la causa del decesso è riconducibile a una “sommersione interna emorragica da trauma toracico chiuso”, una massiccia emorragia compatibile con una compressione toracica particolarmente intensa. Le autorità hanno escluso un nesso diretto tra l’uso del taser e il decesso. Tuttavia, permangono dubbi gravi, legittimi e fondati riguardo alle modalità dell’intervento, alle responsabilità complessive e alla concatenazione degli eventi che hanno condotto alla tragica morte di Riccardo. Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze dell’ordine. Uno strumento che appare tutt’altro che neutro, specie quando impiegato nei confronti di soggetti fragili, in condizioni di alterazione o vulnerabilità fisica o psichica. La morte di Riccardo non si configura solo come una tragedia individuale, ma come uno specchio che riflette una trasformazione lenta ma inesorabile: la repressione che soppianta la mediazione, l’abitudine all’eccezione, una gestione dell’ordine pubblico che scivola sempre più velocemente verso la prevalenza della forza. Non ci troviamo più davanti a un rischio teorico: lo Stato ha di fatto rinunciato alla responsabilità di un intervento equilibrato, sostituendola con l’automatismo della coercizione. Questa deriva trova ulteriore sostegno nel recente decreto sicurezza, che amplia i poteri delle forze dell’ordine e legittima un impiego più esteso del taser, anche in contesti in cui il contatto umano, il discernimento e la competenza dovrebbero restare imprescindibili. Non è più la forza che interviene in casi eccezionali, ma la forza che diventa automatica. L’ambiguità con cui oggi si invocano termini quali “sicurezza”, “legalità”, “difesa” crea una cortina fumogena. Ma i corpi non mentono. Non mentono le vittime di decessi avvenuti “per errore”. Non mentono i corpi di coloro che non rappresentavano una minaccia reale. Non mentono le famiglie a cui, finora, non è stata data una spiegazione piena e trasparente su quanto accaduto e sulle cause che vi hanno condotto. In uno Stato che si definisce democratico, non è sostenibile che pretenda fiducia mentre moltiplica i propri strumenti di violenza e abdica dalla sua prerogativa fondamentale: proteggere, non punire. La questione non riguarda esclusivamente la liceità del taser, bensì il modo in cui è stato progressivamente sdoganato, automatizzato e normalizzato come una scorciatoia operativa. L’arroganza di chi si ritiene sempre nel giusto e la sistematica rimozione delle conseguenze sono elementi che destano profonda preoccupazione. Non è accettabile che un corpo a terra venga trattato come un mero dettaglio operativo. In quel corpo si misura la tenuta di uno Stato di diritto. Ed è proprio lì che, qualora non si presti la dovuta attenzione, rischiamo di perdere silenziosamente qualcosa di molto più grande di quanto siamo disposti ad ammettere.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
malapolizia
[2025-06-10] Summer night @ Murazzi
SUMMER NIGHT Murazzi - Lungo Po murazzi, lato destro (martedì, 10 giugno 17:00) Il ksa presenta la prima Summer night ai murazzi! Il 10 giugno dal pomeriggio sulle rive del po ci sarà una mostra fotografica accompagnata da buona musica e sangria... E dalle 21 iniziano dei magnifici concerti con band emergenti del panorama torinese. Vi aspettiamo con @eden.for.all @_.irossa._ @aabsenthee @vvesprii e @oaks.band dalle 21 per iniziare l'estate nel migliore dei modi! Non fartelo raccontare!
torino
Benefit
benefit
concerto
[2025-06-14] CORTEO POPOLARE PER LA PALESTINA @ Piazza Castello, Torino
CORTEO POPOLARE PER LA PALESTINA Piazza Castello, Torino - Torino, piazza Castello (sabato, 14 giugno 15:00) CORTEO POPOLARE PER LA PALESTINA 14 Giugno - Ore 15:00 - Piazza Castello Da due anni scendiamo nelle piazze in solidarietà alla causa palestinese e alla resistenza popolare che sta fronteggiando il colonialismo sionista. In questo momento il genocidio è un fatto indiscutibile e a tutti i livelli della società viene riconosciuto, per questo bisogna dare vita ad un momento di partecipazione diffusa che dimostri, ancora una volta, da che parte stiamo. Adesso in tantɜ stanno cercando di fare la propria parte per contribuire a non rendersi complici dello sterminio: professori e professoresse, studenti, dottorandɜ, musicistɜ, magistratɜ e consiglierɜ, lavoratori e lavoratrici. Queste sono tutte azioni importanti ma adesso è il momento di unirsi per elevare una voce collettiva davvero forte ed efficace. Vogliamo confluire in una grande manifestazione popolare che richieda due cose essenziali: - Fermare le armi verso Israele per fermare il genocidio - Stop ai rapporti politici e diplomatici con il governo israeliano (come in Puglia e a Bologna) Spintɜ dall'urgenza di fermare la complicità con lo sterminio ci vediamo sabato 14 giugno in Piazza Castello alle 15:00. CON LA PALESTINA FINO ALLA LIBERAZIONE 14 Giugno - Ore 15:00 - Piazza Castello #corteo #corteotorino #torinopergaza #palestinalibera
AGGIORNAMENTI QUESTURA
L’orologio segna le 6.53. La coda che conduce all’ingresso di via Doré è tanto lunga da girare l’angolo e arrivare all’altro ingresso di via Grattoni. Qui, vengono distribuiti, ogni mattina, circa 8 tagliandini che consentono l’accesso alla struttura per formalizzare la domanda di asilo, un passo fondamentale senza cui i propri diritti al lavoro, alla casa, alla salute sono spesso negati. Fortunatamente, oggi non piove: il gazebo blu montato qualche mese fa non è infatti sufficiente a coprire nemmeno un quarto delle persone che già da ore attendono in coda.  A. è arrivato alle 4 e mezza del mattino per essere tra i primi della coda, trovando però già diverse persone davanti a lui. G. ha sedici anni, è in fila già da un paio d’ore. Dice che sta avendo problemi a scuola perché da ormai due settimane è costretto ad entrare alla seconda ora per tentare di presentare domanda di asilo.  Dopo un po’ il portone della questura si socchiude: la fila si ricompone e si forma anche un certo silenzio. Dal portone esce un uomo di mezza età, vestito con un pantalone mimetico, anfibi, un pullover nero e un cappellino verde militare che gli copre lo sguardo. Si accosta al portone e si accende una sigaretta. E’ solo osservando il modo in cui si rivolge ad alcune persone in divisa, uscite dopo di lui, che realizzo che non si tratta di qualcuno che hanno rilasciato dalla questura ma di un ispettore di polizia.  Per quanto alienante risulti per me, un poliziotto travestito da militare rispecchia la fusione tra apparato poliziesco e militare che a Torino caratterizza ormai la gestione dell'”ordine pubblico”. Una realtà familiare per molte delle persone in fila, esposte alla militarizzazione di interi quartieri e pratiche di profilazione razziale. Ad un certo punto, chiedono alla fila di spingersi contro il muro. Iniziano a camminare lungo la fila, ma l’ispettore non sembra degnare di uno sguardo nessuno. Cammina in mezzo ai poliziotti, aspirando di tanto in tanto dalla sua sigaretta. Fanno avanti e indietro un paio di volte, e disinteressandosi all’ordine della fila selezionano alcune persone. Dopo un po’, vado loro incontro, per segnalargli che vicino a me c’è una signora con un minore. “Loro sono sudamericani? Ho già preso una famiglia stamattina… devo dividere un po’ le etnie. Facciamo lunedì. Tanto io me li ricordo”. Alla mia richiesta di come avviene la selezione la risposta è che “cerchiamo di valutare un po’ tutto… le esigenze più grosse… la presenza più costante”.  Gli agenti invitano la fila a disperdersi: per oggi basta, bisogna tornare la prossima settimana. Qualcuno si allontana scuotendo la testa, esausto: “Lunedì, sempre lunedì… e poi la stessa storia“ Ovviamente nessun vero screening di vulnerabilità è stato fatto, nessun nome è stato annotato, nessuna lista è stata creata. L’accesso al diritto di asilo a Torino è lasciato al caso, alle procedure di profilazione razziale del funzionario di turno, alla speranza che la prossima volta non ci sia un ispettore diverso, che si ricordi di te o che non sia già stata fatta entrare una persona che condivide le tue stesse vulnerabilità o la tua stenza apparenza “etnica”.  Dietro all’informalità e regole contraddittorie, continuano a nascondersi discrezionalità e violenza. Di fronte a una persona che tenta da settimane di entrare, i funzionari non hanno problemi a riconoscere di vederlo lì tutte le mattine, ma di non averlo mai fatto entrare perché è “giovane e forte”.  Inoltre, se ad eventuali accompagnatori, spesso avvocati bianchi, è riservato un trattamento a tratti cordiale, chi attende in fila è frequentemente aggredito. A una persona che insisteva a chiedere informazioni sulla distribuzione dei numeri per entrare il questurino dice “abbassa la voce che sono le 7, non ti ho mai visto, la prossima volta impara a svegliarti prima e arrivare per tempo”. 
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Vittoria dei portuali di Marsiglia e Genova. Rimaste a terra le mitragliatrici, la nave cargo diretta a Israele viaggia vuota
Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14 tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori israeliani su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa, Israele. La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb. Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave. L’aggiornamento di Radio Onda d’Urto con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova e di Usb. Ascolta o scarica   > Genova: I portuali pronti a rifiutare di caricare il cargo di armi per Israele   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Il porto di Napoli si espande verso est. Chi ci guadagna e chi ci perde
(foto di enzo morreale) Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est. Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici. Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa, evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno. Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta, costante e fuori dai riflettori. Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza un elicottero della polizia. Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel 2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila movimentati presso il nuovo terminal. Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi, ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’ (SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o sottoutilizzati”. La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.  Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa 217 milioni di euro per l’allestimento operativo. Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni. Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017: “Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione pubblica. In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto dell’industria. Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali. La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo. Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti, l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il comitato si batte ancora oggi. La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città, fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non balneabile. San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive, nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita grippiolo)
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