25 aprile 2025: la posta in gioco
Senza ripudio della guerra e rifiuto del riarmo, senza solidarietà e accoglienza dei migranti perseguitati nei loro paesi, senza una ferma opposizione alle limitazioni delle libertà di riunione e di manifestazione, senza una difesa intransigente dell’assetto costituzionale non c’è 25 aprile, non c’è festa della Liberazione. C’è, al contrario, una svolta autoritaria. Guai a dimenticarlo o sottovalutarlo. di Livio Pepino da Volere la Luna Sono passati 80 anni dal 25 aprile del 1945. Da quel 25 aprile, in cui il “vento del nord” evocato da Pietro Nenni sull’Avanti! del 27 aprile sembrava destinato a cambiare profondamente il Paese. Quasi tutti i partigiani di allora, anche i più giovani, se ne sono andati. Tra loro c’era Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica a cavallo del nuovo millennio, che, nel 2010, ci ha lasciato in eredità un libro il cui titolo è una sorta di manifesto (doppiamente significativo per il fatto di venire da un ex presidente della Repubblica): Non è il Paese che sognavo. Difficile non condividere quell’affermazione. Basta guardarci intorno: i caratteri della crisi economica, sociale, culturale, etica che stiamo attraversando non sono così diversi da quelli degli anni XX del secolo scorso e al governo del Paese ci sono forze che al fascismo espressamente si richiamano e che addirittura in alcuni casi – senza scandalo e senza reazioni – frequentano Casa Pound e gli avanzi del peggior stragismo fascista. Non è una polemica politica. È un fatto. Certificato dalle esplicite rivendicazioni di quelle forze (e dalla presenza nel loro Pantheon di un fucilatore di partigiani come Giorgio Almirante), dai loro simboli, dalla cultura che esprimono, dal linguaggio che usano e, ancor più, dalle politiche che praticano. Politiche nelle quali il razzismo e una forma di neocolonialismo, con la chiusura delle frontiere e la disumanizzazione delle persone migranti, dilagano; il nazionalismo si intreccia con l’adesione alle logiche della guerra; la scuola viene trasformata in veicolo di omologazione e di disciplina; la repressione e la criminalizzazione del dissenso crescono nella società, nei luoghi di lavoro, nelle Università. E ciò – fatto che rende lo scenario ancor più preoccupante – mentre a livello internazionale crescono nazionalismo e autoritarismo, le guerre occupano sempre più la scena (in Palestina, in Ucraina, in Myanmar, in Kurdistan, nel Sud Sudan, nella Repubblica democratica del Congo e via seguitando) e i morti si sommano ai morti in un crescendo impressionante e scientificamente programmato che non risparmia neppure – è il caso della striscia di Gaza – bambini e neonati, scuole e ospedali. In questo contesto la festa della Liberazione assume una centralità e un’importanza particolari. Ma a una condizione. Che non la si riduca a stanca commemorazione e che la si viva come un giorno, certo, di memoria e di festa, ma soprattutto di riflessione, di mobilitazione e di impegno politico. Lo so bene: non è per tutti così, e a fianco di chi addirittura contesta la centralità del 25 aprile nella storia nazionale o invita a usare “sobrietà” nel celebrarlo (sic!), c’è anche chi lo considera un semplice sbiadito ricordo di quel che è stato. È un grave sbaglio. Come ammoniva Piero Calamandrei in un discorso tenuto al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, «in queste celebrazioni che noi facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi». E a Calamandrei faceva eco Carlo Smuraglia, indimenticato presidente dell’Anpi, che – in un libro intervista di 7 anni fa – ammoniva: il 25 aprile o è calato nella realtà che ci circonda o semplicemente non è. È in questa prospettiva che voglio condividere con voi tre considerazioni a cavallo, appunto, tra passato e presente. 1. Il 25 aprile non arrivò per caso. Fu anzitutto il frutto di una scelta, di tante scelte individuali e di una scelta collettiva. Il 25 aprile del 1945 cominciò – si potrebbe dire – poco meno di due anni prima, l’8 settembre del 1943 quando lo Stato si disfece e tutto crollò. Allora – mentre il re, la sua corte e il governo fuggivano precipitosamente e ingloriosamente verso il sud ‒ i generali, i colonnelli, i comandanti di reparto si strappavano i gradi e si mettevano in borghese. E le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini militari venivano abbandonati. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità pubblica venne meno. L’Italia ufficiale – un’intera classe dirigente, quella che “sta in alto” – crollò. Cominciò lì il 25 aprile. Ognuno in basso – come ha scritto Marco Revelli – restò solo, a scegliere. Se l’esercito si sfasciava, se generali e colonnelli mancavano alla prova, se con i reparti regolari non si poteva concludere nulla, allora gli antifascisti scelsero di fare da sé. E fu quella scelta che determinò un nuovo inizio. Poi ci furono le bande partigiane, le operazioni militari, la resistenza. Ma alla base di tutto ci fu una scelta etica, morale, politica. Sta qui il primo fondamentale insegnamento che ci viene dal 25 aprile: senza scelte radicali non c’è possibilità di cambiamento. L’indifferenza e il conformismo sono veicoli di conservazione, alleati del fascismo di ieri e di oggi. 2. Il secondo punto che voglio sottolineare è il significato del riconoscimento del 25 aprile come festa nazionale. Un fatto che sottolinea l’irrinunciabile e permanente carattere antifascista della Repubblica. Non è inutile ricordarlo perché c’è chi si spinge ad affermare che il passare dei decenni ha attenuato differenze e divisioni e impone una generale e indifferenziata pacificazione. È una posizione pericolosa, ma soprattutto, profondamente sbagliata. Non ha nessun senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. E quale pacificazione poi? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una dittatura nefasta e razzista e chi ha combattuto per la libertà e la democrazia. È una differenza fondamentale che non si può accantonare. Quella lotta si è conclusa con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Scrive Carlo Smuraglia: «Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti della repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che essa, alla fine, ha vinto. Punto e basta». Dimenticare la storia, cancellando, riscrivendo e distorcendo ciò che è avvenuto è quanto di peggio può fare un Paese che si vuole considerare civile. Ricordare è fondamentale per fondare la convivenza su valori e non su convenienze contingenti e occasionali. 3. E arrivo così al terzo punto, che impatta prepotentemente con l’attualità: per contrastare il vecchio e il nuovo fascismo occorre tornare al cuore della Resistenza, dei suoi valori, dei suoi esiti. La Resistenza non fu solo una lotta contro il fascismo. Essa fu anche un lotta per una società diversa. Leggendo le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea una cosa colpisce: tutti credevano nel futuro e in un mondo migliore. I fatti poi – come ha scritto Ciampi – hanno in gran parte deluso le aspettative, ma quell’utopia, quei sogni, quelle speranze, quei valori sono entrati stabilmente (e definitivamente) nel nostro sistema. La Resistenza ci lasciato un’eredità viva e attuale: la Costituzione repubblicana. L’attuazione e la difesa della Costituzione sono, dunque, il primo impegno che emerge dal 25 aprile (un’attuazione e una difesa contro le ricorrenti proposte di chi quella Costituzione vuole cambiare e che fino ad oggi abbiamo respinto: l’ultima volta con il voto nel referendum del 4 dicembre 2016). Ebbene oggi – va detto con franchezza – il pensiero dominante (che vorrebbe diventare unico) è molto lontano dai valori del 25 aprile e della Costituzione. Anche per questo è, di nuovo, tempo di scelte su questioni fondamentali in cui la realtà e la Costituzione si intersecano. Ne elenco quattro. C’è, anzitutto, la questione della pace e della guerra. L’articolo 11 della nostra Costituzione antifascista è netto: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ripudiare, nella lingua italiana, è sinonimo di rifiutare in modo incondizionato, respingere con decisione, opporsi radicalmente. Dunque, la pace è un vincolo stringente e non una parola da ripetere in modo retorico mentre si impugnano le armi. Ciò risulta anche dal dibattito preparatorio in sede di assemblea costituente e si legge in decine di lettere di condannati a morte della resistenza. Cito, per tutti, il partigiano ucraino, Oleks Bokaniuk: «La guerra è la più grande sciagura dell’umanità. Speriamo che dopo questa guerra venga una pace che renda possibile per molto tempo, e forse per sempre, la felicità». Questo è il dettato della Costituzione e il lascito di chi l’ha voluta e preparata. Un dettato e un lascito che non ammettono le letture riduttive e i distinguo a cui assistiamo quotidianamente in un crescendo di militarismo e bellicismo sconosciuti nella storia repubblicana. La guerra – qualunque guerra – è fuori dalla Costituzione e a maggior ragione dobbiamo dirlo e pretenderlo con riferimento alle guerre condotte (direttamente o indirettamente, con appoggi politici, economici e militari) dal nostro Paese o da esso preparate (con la costruzione e il commercio di armi che, per definizione, servono alla guerra). Ed è fuori dalla Costituzione ogni forma di riarmo, tesa, come oggi accade, a “svuotare i granai e riempire gli arsenali”: per la decisiva ragione – ribadita nel suo ultimo messaggio dal Papa di cui a breve celebreremo i funerali – che «nessuna pace è possibile senza il disarmo». Viene, poi, la questione dei migranti. Anche qui la Costituzione non ha dubbi e lo precisa nell’art. 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Eppure c’è chi, in Italia e nel mondo, sostituisce l’accoglienza con muri e fili spinati (reali o metaforici) e respinge i migranti persino con le armi. Questo atteggiamento è fuori dalla Costituzione antifascista. Uso parole del partigiano Gastone Cottino, tratto da un aureo libretto uscito postumo due anni fa con il significstivo titolo “All’armi son fascisti!”: «Durante il fascismo storico (pensiamo alla guerra d’Etiopia) la violenza si esercitava nei confronti dei popoli che volevamo sottomettere; la violenza di oggi si esercita respingendo e facendo morire nel mare centinaia di persone». E ancora: «I migranti non vengono mandati nei campi di concentramento. Ma ci sono i centri per il rimpatrio, e sono dei lager. E quando non abbiamo qui i lager li gestiamo per procura, nei campi libici». A fronte di ciò ritorna la necessità della scelta. E credo di poter affermare con tranquilla certezza che gli interpreti autentici del 25 aprile sono coloro che lottano contro le discriminazioni, per i diritti e per l’accoglienza. C’è, in terzo luogo, la questione delle libertà fondamentali: di pensiero, di espressione, di manifestazione a cui sono dedicate disposizioni fondamentali della Costituzione, a cominciare dagli articoli 17, 18 e 21. Mai come oggi, nella storia repubblicana, quei diritti sono in pericolo, letteralmente travolti, in ultimo, da un decreto legge che, usando strumentalmente la categoria della necessità e dell’urgenza e richiamando in modo improprio la sicurezza dei cittadini, aumenta a dismisura il catalogo dei reati e delle pene nei confronti di chi dissente punendo, tra l’altro, le manifestazioni spontanee e la resistenza passiva e aumentando le sanzioni per i reati commessi nel corso di manifestazioni. Superfluo ricordare che le norme costituzionali ricordate sono dettate a tutela del dissenso, posto che il pensiero dominante e le sue esplicazioni non hanno bisogno di protezione, e che, in questo caso, il legislatore repubblicano ha finanche superato, in chiave repressiva, il legislatore fascista, che mai si era spinto a prevedere il delitto di resistenza passiva e per il quale la commissione nel corso di una manifestazione era considerata, seppur con alcuni limiti, un’attenuante ai sensi dell’articolo 62 n. 3 codice penale e non un’aggravante. E viene infine – non certo ultima per importanza – la questione dell’assetto della Repubblica. Il cuore della democrazia sta, da sempre, nel pluralismo, nella partecipazione, in contrappesi diretti a evitare la concentrazione del potere. In loro assenza la torsione autoritaria del sistema è inevitabile. Per questo la seconda parte della Costituzione ha previsto un parlamentarismo rigoroso, un rapporto dialettico virtuoso tra presidente della Repubblica e capo del governo, una magistratura indipendente e soggetta soltanto alla legge, l’obbligatorietà dell’azione penale, una corte costituzionale eletta con modalità tali da assicurarne una effettiva autonomia e molto altro ancora. Ebbene, questo sistema è da tempo delegittimato e sotto attacco attraverso leggi elettorali che hanno falsato la rappresentanza (e che sono state per questo dichiarate incostituzionali, ma solo dopo avere prodotto effetti distorsivi devastanti), marginalizzazione del Parlamento attraverso il ricorso indiscriminato allo strumento del decreto legge e al voto di fiducia, riduzione di fatto dell’indipendenza della magistratura mediante intimidazioni e leggi ad hoc. Oggi questo processo degenerativo subisce un’ulteriore accelerazione con le riforme costituzionali in cantiere in tema di premierato elettivo, riorganizzazione della magistratura, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è, sullo sfondo, una sorta di “democrazia del capo”, titolare di un potere sostanzialmente illimitato. È questo – come ammonisce ancora Carlo Smuraglia – il fascismo del nuovo millennio. Concludo. Ci sono stati momenti e stagioni nella nostra storia in cui il progetto costituzionale è stato in particolare pericolo: l’estate del 1960, i tentativi golpisti del 1964, del 1970 e del 1974, le stragi di Stato, il 1994. Oggi – come ci ha ricordato ancora Gastone Cottino – è uno di quei momenti. Guai a sottovalutare la situazione. È l’anticipazione, pressoché integrale, dell’intervento dell’autore nella celebrazione della festa della Liberazione organizzata a Bardonecchia il 25 aprile 2025 dalla sezione Anpi Alta Val Susa. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Editoriale
Verso una nuova stagione di resistenza nelle università americane
In questa intervista con una studentessa della New York University proviamo a fare il punto su quella che viene raccontata come l’offensiva di Trump contro le università americane – una offensiva che sembra colpire in modo particolarmente violento i settori più militanti e politicizzati degli studenti, dei docenti e del personale universitario. La strategia neo-con […]
L'informazione di Blackout
Stati Uniti
solidarietà palestina
Trump
Invito alle giornate di mobilitazione e discussione del 26 e 27 aprile per dire NO alla nuova base militare, al riarmo e alla devastazione del territorio
Ripubblichiamo la convocazione del movimento no base Rivolgiamo questo appello alla cittadinanza, alle associazioni, ai comitati, ai sindacati, ai partiti, alle realtà solidali, al mondo ambientalista, pacifista e sociale per la partecipazione ai due giorni di mobilitazione del 26-27 Aprile a San Piero a Grado. Invitiamo all’adesione e alla partecipazione il 26 Aprile a un grande Presidio popolare e territoriale di fronte ai cancelli del CISAM, per puntare i riflettori sul nuovo progetto di base militare e levare una voce molteplice, forte e comune contro questo progetto e contro guerra, riarmo, devastazione ambientale e spese militari. Invitiamo per il 27 Aprile all’Assemblea “Disarmare la Pace!” al Presidio dei “Tre Pini” a San Piero a Grado, per discutere e confrontarci insieme sulle prospettive di Pace per il nostro territorio nello scenario mondiale. Il mondo è in guerra e questa guerra prevede dei costi e dei sacrifici anche sulle nostre vite e sui nostri territori. Mentre le spese sociali continuano a essere compresse e tagliate e il costo della vita minaccia di aumentare spaventosamente, ci troviamo di fronte a cifre miliardarie per il riarmo e la corsa alla guerra in Europa e nel nostro Paese: è il caso degli 800 miliardi di euro previsti per il piano “Rearm Europe” in parte a debito e in parte sottratti dal Fondo di Coesione e Sviluppo, originariamente destinato alle spese sociali; è il caso dei 50 miliardi di euro che l’Italia dovrà investire in spese militari in questo scenario, così come dei 1,2 miliardi di euro per la costruzione e il rifacimento di infrastrutture militari stanziati lo scorso autunno dal Governo. Dentro questo quadro ci troviamo di fronte a un fatto concreto e inaccettabile: un nuovo, ennesimo, progetto di base militare per l’addestramento di forze speciali dell’esercito impegnate quotidianamente in decine di missioni militari all’estero. Un mega-progetto di 140 ettari previsto a Pontedera, all’interno della tenuta Isabella, e a San Piero a Grado, dentro il Parco Naturale di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, area protetta a livello europeo e di enorme valore ambientale, sociale e culturale per il nostro territorio; un Parco già inquinato dalla presenza di un reattore nucleare dismesso, di cui si fa sapere poco o nulla. La spesa stimata è di 520 milioni di euro solo per la realizzazione della base, di cui una parte inopportunamente già stanziata dal Ministero Infrastrutture e Trasporti e dal Fondo di Coesione e Sviluppo. La gestione politica, dal Governo, sino alla Regione, ai Comuni e all’Ente Parco, appare a dir poco opaca e priva di relazione con la cittadinanza e la popolazione dei territori interessati dal progetto. Inoltre, con una proposta di legge a firma Fratelli d’Italia, il Governo vorrebbe deregolamentare i vincoli ambientali previsti per la costruzione di infrastrutture militari all’interno di aree protette in nome della “sicurezza nazionale”, di fatto assecondando questa folle corsa alla guerra e al riarmo a scapito di una effettiva messa in sicurezza dei territori e dell’importanza della rigenerazione e protezione dell’ambiente. Il primo “test” di questa deregolamentazione dovrebbe essere proprio la base pisana: una dichiarazione di guerra al Parco Naturale di San Rossore, all’interno del quale è prevista una porzione di base per un consumo complessivo di 100 ettari di suolo nell’area CISAM, con l’abbattimento di migliaia di alberi, cementificazione ed effetti distruttivi per l’ecosistema e la sicurezza idrogeologica dell’area. Di fronte a questo scenario, il nostro appello è a convergere, confrontarci e manifestare per un orizzonte comune di cambiamento: desideriamo con forza la pace nel mondo e sui nostri territori, non guerre e basi militari; vogliamo che venga rispettato e difeso il Parco Naturale, con le normative che lo tutelano, di fronte all’attacco che sta subendo; vogliamo che Pontedera e la Valdera, già colpite dall’inquinamento di keu, inceneritori e discariche e da rischi idrogeologici costanti, vedano investimenti per bonifiche e messa in sicurezza, non ulteriore cementificazione per un poligono di tiro per testare armi e bombe in mezzo ai campi, con effetti nocivi per la salute di persone, piante e animali; vogliamo manifestare affinché le spese e le politiche del nostro Paese si rivolgano ai bisogni sociali delle persone, non alla guerra, alla devastazione ambientale, al riarmo e alla riconversione dell’industria civile in militare. La popolazione ha diritto di conoscere il progetto di base militare previsto nel nostro territorio, di conoscerne la documentazione e avere voce in capitolo a partire dalle reali esigenze che ogni giorno chi abita la nostra provincia incontra. A Pisa e Pontedera, come in tutta Italia, non servono 520 milioni per la guerra, bensì maggiori spese per case, cura dei quartieri popolari, diritto allo studio scolastico e universitario, sistema sanitario efficace, pensioni e welfare, per mettere in sicurezza i territori di fronte ad alluvioni o eventi estremi, per tutto ciò che riguarda un vivere dignitoso e pacifico. Saremo per due giorni a San Piero a Grado perché vogliamo che le istituzioni che governano il nostro territorio rendano trasparente e pubblica la documentazione relativa alla base militare e che venga fatta tutta la pressione necessaria nelle dovute sedi affinché la popolazione sia informata dei progetti, dei loro tempi e del loro contenuto. Continuare a negare l’esistenza di queste informazioni, o tenerle nascoste, come finora è stato fatto, costituisce un atto di grave mancanza di democrazia e manifesta incuria nei confronti del territorio e di chi lo abita. Tramite manifestazioni, iniziative, informazione, mozioni e monitoraggio attivo del territorio ci stiamo mobilitando in tutta Pisa e provincia, e da anni si sta sempre di più alzando la voce di coloro che aspirano a un futuro di pace e che chiedono di poter decidere sulla propria vita e i propri bisogni. Ora più che mai è il momento per dire insieme NO a queste scelte e prenderci insieme la responsabilità di rendere questo NO una costellazione di SÍ a un destino diverso e democratico, fatto di giustizia ambientale, sociale e di pace per il nostro territorio. Ribadiamo l’invito a chiunque si riconosca in queste motivazioni ed esigenze a unirsi alla due giorni di mobilitazione, portare il proprio contributo, discutere, confrontarsi e agire per dare un segnale politico e sociale di contrarietà e cambiamento. Tavolo “Trasparenza e Istituzioni” – Movimento No Base Sabato 26 Aprile Ore 15.00 Presidio davanti al CISAM (in fondo a Via Bigattiera Lato Monte, San Piero a Grado) Domenica 27 Aprile Ore 15.00 Disarmare la Pace! Assemblea e dialogo sulle prospettive di Pace (Presidio dei “Tre Pini”, San Piero a Grado) Invitiamo alla massima diffusione degli appuntamenti! Per aderire rispondere o scrivere a: movimentonobasepisa@gmail.com
Per liberarsi dalle guerre: resistenza. Da ottant’anni il nostro modello. Il 25 aprile a Quarticciolo
“Per liberarsi dalle guerre: Resistenza. Da ottant’anni il nostro modello”: con queste parole d’ordine è stato lanciato il 25 aprile 2025 del quartiere Quarticciolo, a Roma, nell’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La giornata prevede diversi appuntamenti. Il ritrovo è fissato per le 9.30 del mattino con l’omaggio ai partigiani e alle partigiane. Segue, con concentramento alle ore 10 in Piazza delle Camelie, lo storico corteo antifascista che attraversa i quartieri di Roma est (in particolare Centocelle e Quarticciolo). Nel pomeriggio, invece, l’appuntamento è con il grande concerto al parco Modesto Di Veglia al Quarticciolo. Sul palco sono previsti concerti e reading con, anche quest’anno, diversi nomi importanti del mondo dello spettacolo: da Gemitaiz a Margherita Vicario, da MicheleRiondino a Valentina Lodovini e molti altri. Su Radio Onda d’Urto abbiamo presentato l’iniziativa insieme a Michele, compagno di Quarticciolo ribelle.  Di seguito il comunicato di lancio del 25 aprile 2025 al Quarticciolo, Roma: “E’ il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo […] Per ben due mesi tedeschi e fascisti rinunciarono, addirittura, ad entrare nei quartieri Centocelle e Quarticciolo a causa delle fulminee azioni dei giovani resistenti della zona, guidati da Giuseppe Albano, detto il Gobbo […] Sicuramente fu la sua banda, la prima, a reagire alla rappresaglia delle Ardeatine”. Quarticciolo nasce durante la resistenza e con la resistenza. Un piccolo quartiere abitato da persone molto povere. Agli inizi degli anni ’40 le prime case vennero assegnate a famiglie numerose, vedove di guerra, mutilati, combattenti. Il resto degli appartamenti vennero occupati in seguito ai bombardamenti del ’43. Durante i mesi dell’occupazione tedesca, la borgata fu la zona operativa di alcune note bande partigiane, come quella capeggiata dal Gobbo. Un pezzo di storia della Resistenza romana scritto da persone comuni, lavoratori e banditi, studenti, contadini, persone coraggiose e indisciplinate. E’ impossibile farne una descrizione non contraddittoria. Rispetto alla narrazione ufficiale del partito comunista, fuori dal CLN, rimane una resistenza di confine: quella delle borgate, territori per decenni considerati né campagna né città ed esclusi dalle cartine di Roma. È qua che le illusioni della liberazione dai nazifascisti si infrangono nel perdurare di condizioni di vita durissime per i proletari, è qua che la fine della Resistenza viene vissuta come un tradimento. A 80 anni dal 25 aprile del 1945 al Quarticciolo, come nel resto delle borgate, quel bisogno di resistenza è ancora estremamente attuale, per non essere considerati abitanti di serie B, per veder riconosciuti i diritti più basilari. Un piccolo quartiere che ha dovuto lottare per tutto, che in questi mesi ha avuto il coraggio e la forza di mettersi di traverso a una decisione presa dal governo Meloni sulla propria pelle: il decreto Caivano bis. Quest’anno, il passaggio del corteo del 25 aprile attraverso le vie della borgata e la giornata di festa che vivremo insieme in un parco intitolato a un partigiano dell’VIII zona, Modesto di Veglia, ha un significato particolare. Traccia un filo rosso fra la Resistenza per le vie della borgata di allora e quella di oggi: da 80 anni il nostro unico modello. da Radio Onda d’Urto
[2025-04-23] costruiamo insieme lo spezzone sociale @ Main Hall Campus Luigi Enaudi
COSTRUIAMO INSIEME LO SPEZZONE SOCIALE Main Hall Campus Luigi Enaudi - Lungo Dora Siena 100/a (mercoledì, 23 aprile 18:00) Verso un primo maggio di lotta: costruiamo insieme lo spezzone sociale Abbiamo bisogno di incontrarci, confrontarci e organizzarci: costruiamo un primo maggio di espressione sociale, di lotta e di resistenza. La guerra si scaglia ogni giorno contro le donne, contro i giovani, contro i lavoratori e le lavoratrici a cui non viene concesso nemmeno un contratto nazionale, devasta i territori, ammazza i proletari. Contro il riarmo di un’Unione Europea sinonimo di ipocrisia e vassallaggio, contro la guerra utilizzata come mezzo per garantire un’egemonia statunitense in crisi, per dire basta al genocidio a Gaza, per reagire nella pratica ai tentativi di restringimento di spazi di agibilità. Oggi il governo italiano svela il suo vero volto, barcamenandosi tra propaganda sovranista di facciata e la formale e sostanziale adesione ai diktat del partito della guerra che, trasversalmente, accomuna tutti i governi “democratici” europei. La guerra non arricchisce nessuno, la necessità di solidificare le istanze che vi si oppongono in una prospettiva di lotta e conflitto sociale é la nostra unica possibilità. Iniziamo costruendo la nostra partecipazione allo spezzone sociale il primo maggio: per questo incontriamoci in assemblea pubblica in Main Hall al Campus Luigi Einaudi mercoledì 23 aprile alle ore 18
Black Holes dal 21 al 27 Aprile 2025
Lunedì 21 ore 13,30 – Kfc murder chicks – Radio Blackout set 28 minuti [Kfc murder chicks, Radio Blackout]: KFC Murder Chicks sounds like a dangerous mixture of Death Grips, Boards of Canada, pure white trash flooded out of televisions, crooked beats from worn out tapes and a pinch of digital folklore.   Martedì 22 ore 15,30 […]
Levante: il Giappone oggi ad 80 anni dalle bombe nucleari USA su Hiroshima e Nagasaki
Levante: nuova puntata, ad aprile 2025, dell’approfondimento mensile di Radio Onda d’Urto sull’Asia orientale, all’interno della trasmissione “C’è Crisi”, dedicata agli scenari internazionali. In collegamento con noi Dario Di Conzo, collaboratore di Radio Onda d’Urto e dottorando alla Normale di Pisa in Political economy cinese e Felice Farina, ricercatore all’Orientale di Napoli, docente di Politiche e istituzioni del Giappone contemporaneo sempre all’Ateneo partenopeo e autore, tra i vari lavori, del libro “La via della soia. Una storia politica, economica e diplomatica del Giappone contemporaneo“,  volume dedicato alla strategia “gastronazionalistica” del Giappone, volta a una “riappropriazione culturale della soia e alla sua (ri)trasformazione in un food from somewhere”  Nella puntata odierna andiamo in Giappone, facendo il punto sulla politica domestica del Paese nipponico e sugli scenari internazionali del quadrante asiatico, che riguardano da vicino anche Tokyo, a 80 anni esatti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, con le due bombe nucleari Usa che colpirono Hiroshima e Nagasaki, lasciando un segno profondo sulla coscienza collettiva e sulla politica giapponese, dentro e fuori i propri confini nazionali. La puntata di aprile 2025 di “Levante” con Dario Di Conzo e Felice Farina, dedicata al Giappone. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
Un processo profondamente ingiusto
È iniziata il aprile a L’Aquila la sessione in Corte d’Appello del processo all’attivista cisgiordano Anan Yaeesh, arrestato in Abruzzo con Alì Irar e Mansour Doghmosh (e ancor oggi detenuto) per fatti accaduti a Tulkarem. Un processo iniziato  con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a una “sentenza già scritta” Manteniamo alta l’attenzione sul processo da Osservatorio Repressione “Cara, sapevo che la Corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo. Ma non temere, non siamo finiti, e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo il potere nelle nostre mani” (Da una lettera di Anan Yaeesh del 10 aprile) È iniziato il 2 aprile a L’Aquila il processo in primo grado ad Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, per fatti che sarebbero accaduti a Tulkarem, Cisgiordania occupata. E’ iniziato  con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a una “sentenza già scritta”: * sono state ammesse al dibattimento le “prove” raccolte dalle autorità israeliane e dallo Shin bet sulla base di interrogatori svolti nei Territori occupati, senza la presenza degli avvocati difensori e su cui grava “il sospetto” – per usare un eufemismo – di torture; * la lista dei testimoni della difesa è stata falcidiata (ammessi 3 testimoni su 47 e per un unico imputato); * il Giudice ha fatto sgomberare l’aula dalla presenza dei solidali dopo le proteste contro il palese stravolgimento delle parole di Anan Yaeesh da parte dell’interprete, egiziana. * E’ stato fissato un calendario di udienze fittissimo per logorare la solidarietà e far calare l’attenzione dei media su questo caso (16 aprile – 7 maggio – 21 maggio – 18 giugno – 25 giugno – 9 luglio). Esigua o praticamente nulla era infatti la presenza dei giornalisti in aula nell’udienza del 16 aprile, dove tra l’altro non compariva, negli schermi della videoconferenza con cui era collegato Anan dal carcere, l’inquadratura sulla difesa e sul pubblico, quasi a volergli negare un sostegno, anche solo visivo. E così è proseguito il processo il 16 aprile. Un processo politico di cui si dichiarava in maniera ossessiva la neutralità, evitando con pervicacia che si parlasse del contesto violento e coloniale in cui si sarebbero svolti i fatti. Uno scenario politico che nonostante gli sforzi per ostracizzarlo, è emerso inevitabilmente, con la naturalezza che gli spettava già al primo testimone palestinese dell’accusa: * è bastato per lui fornire le proprie generalità (un palestinese di Sidone), per scoprire che si trattava di uno dei 2 milioni di palestinesi cacciati via dall’occupazione militare israeliana durante la prima nakba, nel ‘48. Una farsa giudiziaria che si è disvelata per quello che è, man mano che gli interrogatori andavano avanti, fino alle affermazioni del perito balistico, chiamato a testimoniare dall’accusa sulla natura dell’arma visibile in una foto dei tre imputati: * si trattava di un’arma giocattolo, di plastica, e per giunta non funzionante * Ma la reale natura di questo processo è emersa con forza dalla dichiarazione spontanea di Anan (quella del 2 aprile è rimasta imprigionata in una traduzione fedele ad Israele, piuttosto che alla sua testimonianza): “Oggi non parlo della causa palestinese, ma parlo di altre cose, perché avete chiesto che non dobbiamo fare entrare la politica nell’aula di tribunale. Però io credo che siamo qua per una decisione politica e non giuridica” [Il giudice interrompe, ripetendo ossessivamente che in aula si prendono solo decisioni giuridiche e costringendo l’avvocato a intervenire. La difesa fa notare che in una dichiarazione spontanea dell’imputato, non c’è la possibilità di un confronto con la Corte. La Corte può non apprezzare quello che intende dire l’imputato, ma lo deve lasciar parlare, poi magari potrà motivare in ordine a quello che dice l’imputato, ma non può contestare quello che pensa l’imputato. Il giudice interrompe ripetutamente anche la difesa, chiedendo se anch’essa la pensi come l’imputato, e l’avvocato risponde giustamente che nel codice di procedura penale non è ancora previsto l’esame del difensore. “Poi lo controlliamo, ma penso di no” è la risposta con cui il giudice finalmente si tace, prima di ridare la parola ad Anan]. “Io sono qua per un motivo politico, perché non ho commesso alcun reato contro la legge italiana in Italia. Però rispetto la decisione di non far entrare la politica dentro l’aula del tribunale. Perché voi usate la politica per giudicarmi, perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana dovete considerare tutti i documenti e tutti gli atti della comunità internazionale che voi riconoscete. E dovete considerare che tutti gli enti internazionali riconoscono che nelle prigioni israeliane si pratica la tortura e le regole dei diritti umani non vengono rispettate. Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete preso invece in considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo israeliano. Signor giudice, voi non mi avete dato il diritto di difendermi. La stessa cosa succede nei tribunali di Israele. Avete preso in considerazione i testimoni dell’accusa e invece non avete preso in considerazione la mia testimonianza. Il procuratore ha usato dei documenti stranieri contro di me, però avete rifiutato i documenti che ho presentato io e avete deciso di non sentire i testimoni che ho proposto io, questo contro la legge in Italia. E mettete fretta quando parlo io, e mettete fretta anche quando parla la mia difesa. Non volete darci il tempo che ci serve per parlare, come se, dopo l’udienza, io tornassi alle isole Maldive e non in carcere. Questo perché avete fretta di finire la causa invece di applicare la giustizia.  Sento di essere tanto oppresso, sento che sto subendo una grande ingiustizia in questo tribunale. Come se fossi in un tribunale finto, come successo in Francia contro gli algerini o come avviene in un tribunale militare in Israele. Se quello che sento è giusto, significa che la mia condanna è già decisa. Allora emettete la vostra condanna! Non è necessario fare tutte queste udienze! Così sconto quello che devo scontare in prigione tutto il tempo! Se invece questo tribunale rispetta la democrazia e rispetta i vostri diritti come umani, e se abbiamo il diritto come gli altri popoli di vivere in libertà, allora dovete darmi i miei diritti come essere umano, perché abbiamo già subito abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani.  Dovete lasciarci in pace! Viva la resistenza palestinese, fino alla libertà!” Al termine dell’udienza del 16 aprile, la Corte si è riservata di deliberare, nell’udienza del 7 maggio, sull’eccezione presentata dalla difesa, che ha presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrare l’inammissibilità dell’acquisizione dei verbali degli interrogatori dei prigionieri palestinesi. Il 21 maggio invece, dopo l’avvenuta traduzione delle chat ad opera di un perito della Corte di Assise sui telefonini degli imputati, verranno ascoltati i testi della Digos https://www.instagram.com/reel/DIg70VSMpNB/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==
Vivere in un mondo nuovo. Il confine immaginario tra Oriente e Occidente in un libro di Renata Pepicelli
(disegno di marco di pietro) Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente. Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche, ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono quasi profetici se si considera la  data di uscita del libro (28 febbraio) e quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto irriducibili semplificazioni? Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità, rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente. Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento, sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali. Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo, doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi, immutabili e neutrali. La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa, dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi. Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura, per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi. Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali, finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta neutralità e omogeneità nazionali. Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
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