Senza ripudio della guerra e rifiuto del riarmo, senza solidarietà e accoglienza
dei migranti perseguitati nei loro paesi, senza una ferma opposizione alle
limitazioni delle libertà di riunione e di manifestazione, senza una difesa
intransigente dell’assetto costituzionale non c’è 25 aprile, non c’è festa della
Liberazione. C’è, al contrario, una svolta autoritaria. Guai a dimenticarlo o
sottovalutarlo.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Sono passati 80 anni dal 25 aprile del 1945. Da quel 25 aprile, in cui il “vento
del nord” evocato da Pietro Nenni sull’Avanti! del 27 aprile sembrava destinato
a cambiare profondamente il Paese. Quasi tutti i partigiani di allora, anche i
più giovani, se ne sono andati. Tra loro c’era Carlo Azeglio Ciampi, presidente
della Repubblica a cavallo del nuovo millennio, che, nel 2010, ci ha lasciato in
eredità un libro il cui titolo è una sorta di manifesto (doppiamente
significativo per il fatto di venire da un ex presidente della Repubblica): Non
è il Paese che sognavo.
Difficile non condividere quell’affermazione. Basta guardarci intorno: i
caratteri della crisi economica, sociale, culturale, etica che stiamo
attraversando non sono così diversi da quelli degli anni XX del secolo scorso e
al governo del Paese ci sono forze che al fascismo espressamente si richiamano e
che addirittura in alcuni casi – senza scandalo e senza reazioni – frequentano
Casa Pound e gli avanzi del peggior stragismo fascista. Non è una polemica
politica. È un fatto. Certificato dalle esplicite rivendicazioni di quelle forze
(e dalla presenza nel loro Pantheon di un fucilatore di partigiani come Giorgio
Almirante), dai loro simboli, dalla cultura che esprimono, dal linguaggio che
usano e, ancor più, dalle politiche che praticano. Politiche nelle quali il
razzismo e una forma di neocolonialismo, con la chiusura delle frontiere e la
disumanizzazione delle persone migranti, dilagano; il nazionalismo si intreccia
con l’adesione alle logiche della guerra; la scuola viene trasformata in veicolo
di omologazione e di disciplina; la repressione e la criminalizzazione del
dissenso crescono nella società, nei luoghi di lavoro, nelle Università. E ciò –
fatto che rende lo scenario ancor più preoccupante – mentre a livello
internazionale crescono nazionalismo e autoritarismo, le guerre occupano sempre
più la scena (in Palestina, in Ucraina, in Myanmar, in Kurdistan, nel Sud Sudan,
nella Repubblica democratica del Congo e via seguitando) e i morti si sommano ai
morti in un crescendo impressionante e scientificamente programmato che non
risparmia neppure – è il caso della striscia di Gaza – bambini e neonati, scuole
e ospedali.
In questo contesto la festa della Liberazione assume una centralità e
un’importanza particolari. Ma a una condizione. Che non la si riduca a stanca
commemorazione e che la si viva come un giorno, certo, di memoria e di festa, ma
soprattutto di riflessione, di mobilitazione e di impegno politico. Lo so bene:
non è per tutti così, e a fianco di chi addirittura contesta la centralità del
25 aprile nella storia nazionale o invita a usare “sobrietà” nel celebrarlo
(sic!), c’è anche chi lo considera un semplice sbiadito ricordo di quel che è
stato. È un grave sbaglio. Come ammoniva Piero Calamandrei in un discorso tenuto
al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, «in queste celebrazioni che noi
facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi
ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo
che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale
invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto
per non essere indegni di loro, noi vivi». E a Calamandrei faceva eco Carlo
Smuraglia, indimenticato presidente dell’Anpi, che – in un libro intervista di 7
anni fa – ammoniva: il 25 aprile o è calato nella realtà che ci circonda o
semplicemente non è.
È in questa prospettiva che voglio condividere con voi tre considerazioni a
cavallo, appunto, tra passato e presente.
1. Il 25 aprile non arrivò per caso. Fu anzitutto il frutto di una scelta, di
tante scelte individuali e di una scelta collettiva. Il 25 aprile del 1945
cominciò – si potrebbe dire – poco meno di due anni prima, l’8 settembre del
1943 quando lo Stato si disfece e tutto crollò. Allora – mentre il re, la sua
corte e il governo fuggivano precipitosamente e ingloriosamente verso il sud ‒ i
generali, i colonnelli, i comandanti di reparto si strappavano i gradi e si
mettevano in borghese. E le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini
militari venivano abbandonati. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità
pubblica venne meno. L’Italia ufficiale – un’intera classe dirigente, quella che
“sta in alto” – crollò. Cominciò lì il 25 aprile. Ognuno in basso – come ha
scritto Marco Revelli – restò solo, a scegliere. Se l’esercito si sfasciava, se
generali e colonnelli mancavano alla prova, se con i reparti regolari non si
poteva concludere nulla, allora gli antifascisti scelsero di fare da sé. E fu
quella scelta che determinò un nuovo inizio. Poi ci furono le bande partigiane,
le operazioni militari, la resistenza. Ma alla base di tutto ci fu una scelta
etica, morale, politica. Sta qui il primo fondamentale insegnamento che ci viene
dal 25 aprile: senza scelte radicali non c’è possibilità di cambiamento.
L’indifferenza e il conformismo sono veicoli di conservazione, alleati del
fascismo di ieri e di oggi.
2. Il secondo punto che voglio sottolineare è il significato del riconoscimento
del 25 aprile come festa nazionale. Un fatto che sottolinea l’irrinunciabile e
permanente carattere antifascista della Repubblica. Non è inutile ricordarlo
perché c’è chi si spinge ad affermare che il passare dei decenni ha attenuato
differenze e divisioni e impone una generale e indifferenziata pacificazione. È
una posizione pericolosa, ma soprattutto, profondamente sbagliata. Non ha nessun
senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. E quale
pacificazione poi? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una dittatura
nefasta e razzista e chi ha combattuto per la libertà e la democrazia. È una
differenza fondamentale che non si può accantonare. Quella lotta si è conclusa
con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Scrive Carlo
Smuraglia: «Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la
realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È
un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti
della repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che
essa, alla fine, ha vinto. Punto e basta». Dimenticare la storia, cancellando,
riscrivendo e distorcendo ciò che è avvenuto è quanto di peggio può fare un
Paese che si vuole considerare civile. Ricordare è fondamentale per fondare la
convivenza su valori e non su convenienze contingenti e occasionali.
3. E arrivo così al terzo punto, che impatta prepotentemente con l’attualità:
per contrastare il vecchio e il nuovo fascismo occorre tornare al cuore della
Resistenza, dei suoi valori, dei suoi esiti. La Resistenza non fu solo una lotta
contro il fascismo. Essa fu anche un lotta per una società diversa. Leggendo le
lettere dei condannati a morte della Resistenza europea una cosa colpisce: tutti
credevano nel futuro e in un mondo migliore. I fatti poi – come ha scritto
Ciampi – hanno in gran parte deluso le aspettative, ma quell’utopia, quei sogni,
quelle speranze, quei valori sono entrati stabilmente (e definitivamente) nel
nostro sistema. La Resistenza ci lasciato un’eredità viva e attuale: la
Costituzione repubblicana. L’attuazione e la difesa della Costituzione sono,
dunque, il primo impegno che emerge dal 25 aprile (un’attuazione e una difesa
contro le ricorrenti proposte di chi quella Costituzione vuole cambiare e che
fino ad oggi abbiamo respinto: l’ultima volta con il voto nel referendum del 4
dicembre 2016). Ebbene oggi – va detto con franchezza – il pensiero dominante
(che vorrebbe diventare unico) è molto lontano dai valori del 25 aprile e della
Costituzione. Anche per questo è, di nuovo, tempo di scelte su questioni
fondamentali in cui la realtà e la Costituzione si intersecano. Ne elenco
quattro.
C’è, anzitutto, la questione della pace e della guerra. L’articolo 11 della
nostra Costituzione antifascista è netto: «L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali». Ripudiare, nella lingua italiana, è sinonimo
di rifiutare in modo incondizionato, respingere con decisione, opporsi
radicalmente. Dunque, la pace è un vincolo stringente e non una parola da
ripetere in modo retorico mentre si impugnano le armi. Ciò risulta anche dal
dibattito preparatorio in sede di assemblea costituente e si legge in decine di
lettere di condannati a morte della resistenza. Cito, per tutti, il partigiano
ucraino, Oleks Bokaniuk: «La guerra è la più grande sciagura dell’umanità.
Speriamo che dopo questa guerra venga una pace che renda possibile per molto
tempo, e forse per sempre, la felicità». Questo è il dettato della Costituzione
e il lascito di chi l’ha voluta e preparata. Un dettato e un lascito che non
ammettono le letture riduttive e i distinguo a cui assistiamo quotidianamente in
un crescendo di militarismo e bellicismo sconosciuti nella storia repubblicana.
La guerra – qualunque guerra – è fuori dalla Costituzione e a maggior ragione
dobbiamo dirlo e pretenderlo con riferimento alle guerre condotte (direttamente
o indirettamente, con appoggi politici, economici e militari) dal nostro Paese o
da esso preparate (con la costruzione e il commercio di armi che, per
definizione, servono alla guerra). Ed è fuori dalla Costituzione ogni forma di
riarmo, tesa, come oggi accade, a “svuotare i granai e riempire gli arsenali”:
per la decisiva ragione – ribadita nel suo ultimo messaggio dal Papa di cui a
breve celebreremo i funerali – che «nessuna pace è possibile senza il disarmo».
Viene, poi, la questione dei migranti. Anche qui la Costituzione non ha dubbi e
lo precisa nell’art. 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le
condizioni stabilite dalla legge». Eppure c’è chi, in Italia e nel mondo,
sostituisce l’accoglienza con muri e fili spinati (reali o metaforici) e
respinge i migranti persino con le armi. Questo atteggiamento è fuori dalla
Costituzione antifascista. Uso parole del partigiano Gastone Cottino, tratto da
un aureo libretto uscito postumo due anni fa con il significstivo titolo
“All’armi son fascisti!”: «Durante il fascismo storico (pensiamo alla guerra
d’Etiopia) la violenza si esercitava nei confronti dei popoli che volevamo
sottomettere; la violenza di oggi si esercita respingendo e facendo morire nel
mare centinaia di persone». E ancora: «I migranti non vengono mandati nei campi
di concentramento. Ma ci sono i centri per il rimpatrio, e sono dei lager. E
quando non abbiamo qui i lager li gestiamo per procura, nei campi libici». A
fronte di ciò ritorna la necessità della scelta. E credo di poter affermare con
tranquilla certezza che gli interpreti autentici del 25 aprile sono coloro che
lottano contro le discriminazioni, per i diritti e per l’accoglienza.
C’è, in terzo luogo, la questione delle libertà fondamentali: di pensiero, di
espressione, di manifestazione a cui sono dedicate disposizioni fondamentali
della Costituzione, a cominciare dagli articoli 17, 18 e 21. Mai come oggi,
nella storia repubblicana, quei diritti sono in pericolo, letteralmente
travolti, in ultimo, da un decreto legge che, usando strumentalmente la
categoria della necessità e dell’urgenza e richiamando in modo improprio la
sicurezza dei cittadini, aumenta a dismisura il catalogo dei reati e delle pene
nei confronti di chi dissente punendo, tra l’altro, le manifestazioni spontanee
e la resistenza passiva e aumentando le sanzioni per i reati commessi nel corso
di manifestazioni. Superfluo ricordare che le norme costituzionali ricordate
sono dettate a tutela del dissenso, posto che il pensiero dominante e le sue
esplicazioni non hanno bisogno di protezione, e che, in questo caso, il
legislatore repubblicano ha finanche superato, in chiave repressiva, il
legislatore fascista, che mai si era spinto a prevedere il delitto di resistenza
passiva e per il quale la commissione nel corso di una manifestazione era
considerata, seppur con alcuni limiti, un’attenuante ai sensi dell’articolo 62
n. 3 codice penale e non un’aggravante.
E viene infine – non certo ultima per importanza – la questione dell’assetto
della Repubblica. Il cuore della democrazia sta, da sempre, nel pluralismo,
nella partecipazione, in contrappesi diretti a evitare la concentrazione del
potere. In loro assenza la torsione autoritaria del sistema è inevitabile. Per
questo la seconda parte della Costituzione ha previsto un parlamentarismo
rigoroso, un rapporto dialettico virtuoso tra presidente della Repubblica e capo
del governo, una magistratura indipendente e soggetta soltanto alla legge,
l’obbligatorietà dell’azione penale, una corte costituzionale eletta con
modalità tali da assicurarne una effettiva autonomia e molto altro ancora.
Ebbene, questo sistema è da tempo delegittimato e sotto attacco attraverso leggi
elettorali che hanno falsato la rappresentanza (e che sono state per questo
dichiarate incostituzionali, ma solo dopo avere prodotto effetti distorsivi
devastanti), marginalizzazione del Parlamento attraverso il ricorso
indiscriminato allo strumento del decreto legge e al voto di fiducia, riduzione
di fatto dell’indipendenza della magistratura mediante intimidazioni e leggi ad
hoc. Oggi questo processo degenerativo subisce un’ulteriore accelerazione con le
riforme costituzionali in cantiere in tema di premierato elettivo,
riorganizzazione della magistratura, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione
penale. C’è, sullo sfondo, una sorta di “democrazia del capo”, titolare di un
potere sostanzialmente illimitato. È questo – come ammonisce ancora Carlo
Smuraglia – il fascismo del nuovo millennio.
Concludo. Ci sono stati momenti e stagioni nella nostra storia in cui il
progetto costituzionale è stato in particolare pericolo: l’estate del 1960, i
tentativi golpisti del 1964, del 1970 e del 1974, le stragi di Stato, il 1994.
Oggi – come ci ha ricordato ancora Gastone Cottino – è uno di quei momenti. Guai
a sottovalutare la situazione.
È l’anticipazione, pressoché integrale, dell’intervento dell’autore nella
celebrazione della festa della Liberazione organizzata a Bardonecchia il 25
aprile 2025 dalla sezione Anpi Alta Val Susa.
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Ponte, a 20 minuti dalla città, è interessata da interventi infrastrutturali
finanziati anche con il Pnrr. È lì dove ha sede lo stabilimento della La.b.i.t.
srl, di proprietà di un’importante famiglia di industriali locali
L'articolo Benevento, la lotta di un gruppo di cittadini contro un impianto che
produce asfalto proviene da IrpiMedia.
La sanità in Calabria è in condizioni disastrose. La malaugurata morte di
Serafino Congi, lo scorso gennaio, per colpa della mancanza di personale medico
sull’ambulanza sulla quale era stato ricoverato per un infarto, è l’esito
drammatico di un sistema in cui mancano le strutture ospedaliere e ci vogliono
anni di attesa per visite e controlli. […]
In questa intervista con una studentessa della New York University proviamo a
fare il punto su quella che viene raccontata come l’offensiva di Trump contro le
università americane – una offensiva che sembra colpire in modo particolarmente
violento i settori più militanti e politicizzati degli studenti, dei docenti e
del personale universitario. La strategia neo-con […]
Ripubblichiamo la convocazione del movimento no base
Rivolgiamo questo appello alla cittadinanza, alle associazioni, ai comitati, ai
sindacati, ai partiti, alle realtà solidali, al mondo ambientalista, pacifista e
sociale per la partecipazione ai due giorni di mobilitazione del 26-27 Aprile a
San Piero a Grado. Invitiamo all’adesione e alla partecipazione il 26 Aprile a
un grande Presidio popolare e territoriale di fronte ai cancelli del CISAM, per
puntare i riflettori sul nuovo progetto di base militare e levare una voce
molteplice, forte e comune contro questo progetto e contro guerra, riarmo,
devastazione ambientale e spese militari. Invitiamo per il 27 Aprile
all’Assemblea “Disarmare la Pace!” al Presidio dei “Tre Pini” a San Piero a
Grado, per discutere e confrontarci insieme sulle prospettive di Pace per il
nostro territorio nello scenario mondiale.
Il mondo è in guerra e questa guerra prevede dei costi e dei sacrifici anche
sulle nostre vite e sui nostri territori. Mentre le spese sociali continuano a
essere compresse e tagliate e il costo della vita minaccia di aumentare
spaventosamente, ci troviamo di fronte a cifre miliardarie per il riarmo e la
corsa alla guerra in Europa e nel nostro Paese: è il caso degli 800 miliardi di
euro previsti per il piano “Rearm Europe” in parte a debito e in parte sottratti
dal Fondo di Coesione e Sviluppo, originariamente destinato alle spese sociali;
è il caso dei 50 miliardi di euro che l’Italia dovrà investire in spese militari
in questo scenario, così come dei 1,2 miliardi di euro per la costruzione e il
rifacimento di infrastrutture militari stanziati lo scorso autunno dal Governo.
Dentro questo quadro ci troviamo di fronte a un fatto concreto e inaccettabile:
un nuovo, ennesimo, progetto di base militare per l’addestramento di forze
speciali dell’esercito impegnate quotidianamente in decine di missioni militari
all’estero. Un mega-progetto di 140 ettari previsto a Pontedera, all’interno
della tenuta Isabella, e a San Piero a Grado, dentro il Parco Naturale di
Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, area protetta a livello europeo e di
enorme valore ambientale, sociale e culturale per il nostro territorio; un Parco
già inquinato dalla presenza di un reattore nucleare dismesso, di cui si fa
sapere poco o nulla. La spesa stimata è di 520 milioni di euro solo per la
realizzazione della base, di cui una parte inopportunamente già stanziata dal
Ministero Infrastrutture e Trasporti e dal Fondo di Coesione e Sviluppo. La
gestione politica, dal Governo, sino alla Regione, ai Comuni e all’Ente Parco,
appare a dir poco opaca e priva di relazione con la cittadinanza e la
popolazione dei territori interessati dal progetto.
Inoltre, con una proposta di legge a firma Fratelli d’Italia, il Governo
vorrebbe deregolamentare i vincoli ambientali previsti per la costruzione di
infrastrutture militari all’interno di aree protette in nome della “sicurezza
nazionale”, di fatto assecondando questa folle corsa alla guerra e al riarmo a
scapito di una effettiva messa in sicurezza dei territori e dell’importanza
della
rigenerazione e protezione dell’ambiente. Il primo “test” di questa
deregolamentazione dovrebbe essere proprio la base pisana: una dichiarazione di
guerra al Parco Naturale di San Rossore, all’interno del quale è prevista una
porzione di base per un consumo complessivo di 100 ettari di suolo nell’area
CISAM, con l’abbattimento di migliaia di alberi, cementificazione ed effetti
distruttivi per l’ecosistema e la sicurezza idrogeologica dell’area.
Di fronte a questo scenario, il nostro appello è a convergere, confrontarci e
manifestare per un orizzonte comune di cambiamento: desideriamo con forza la
pace nel mondo e sui nostri territori, non guerre e basi militari; vogliamo che
venga rispettato e difeso il Parco Naturale, con le normative che lo tutelano,
di fronte all’attacco che sta subendo; vogliamo che Pontedera e la Valdera, già
colpite dall’inquinamento di keu, inceneritori e discariche e da rischi
idrogeologici costanti, vedano investimenti per bonifiche e messa in sicurezza,
non ulteriore cementificazione per un poligono di tiro per testare armi e bombe
in mezzo ai campi, con effetti nocivi per la salute di persone, piante e
animali; vogliamo manifestare affinché le spese e le politiche del nostro Paese
si rivolgano ai bisogni sociali delle persone, non alla guerra, alla
devastazione ambientale, al riarmo e alla riconversione dell’industria civile in
militare.
La popolazione ha diritto di conoscere il progetto di base militare previsto nel
nostro territorio, di conoscerne la documentazione e avere voce in capitolo a
partire dalle reali esigenze che ogni giorno chi abita la nostra provincia
incontra. A Pisa e Pontedera, come in tutta Italia, non servono 520 milioni per
la guerra, bensì maggiori spese per case, cura dei quartieri popolari, diritto
allo studio scolastico e universitario, sistema sanitario efficace, pensioni e
welfare, per mettere in sicurezza i territori di fronte ad alluvioni o eventi
estremi, per tutto ciò che riguarda un vivere dignitoso e pacifico.
Saremo per due giorni a San Piero a Grado perché vogliamo che le istituzioni che
governano il nostro territorio rendano trasparente e pubblica la documentazione
relativa alla base militare e che venga fatta tutta la pressione necessaria
nelle dovute sedi affinché la popolazione sia informata dei progetti, dei loro
tempi e del loro contenuto. Continuare a negare l’esistenza di queste
informazioni, o tenerle nascoste, come finora è stato fatto, costituisce un atto
di grave mancanza di democrazia e manifesta incuria nei confronti del territorio
e di chi lo abita.
Tramite manifestazioni, iniziative, informazione, mozioni e monitoraggio attivo
del territorio ci stiamo mobilitando in tutta Pisa e provincia, e da anni si sta
sempre di più alzando la voce di coloro che aspirano a un futuro di pace e che
chiedono di poter decidere sulla propria vita e i propri bisogni. Ora più che
mai è il momento per dire insieme NO a queste scelte e prenderci insieme la
responsabilità di rendere questo NO una costellazione di SÍ a un destino diverso
e democratico, fatto di giustizia ambientale, sociale e di pace per il nostro
territorio.
Ribadiamo l’invito a chiunque si riconosca in queste motivazioni ed esigenze a
unirsi alla due giorni di mobilitazione, portare il proprio contributo,
discutere, confrontarsi e agire per dare un segnale politico e sociale di
contrarietà e cambiamento.
Tavolo “Trasparenza e Istituzioni” – Movimento No Base
Sabato 26 Aprile
Ore 15.00 Presidio davanti al CISAM (in fondo a Via Bigattiera Lato Monte, San
Piero a Grado)
Domenica 27 Aprile
Ore 15.00 Disarmare la Pace! Assemblea e dialogo sulle prospettive di Pace
(Presidio dei “Tre Pini”, San Piero a Grado)
Invitiamo alla massima diffusione degli appuntamenti!
Per aderire rispondere o scrivere a: movimentonobasepisa@gmail.com
“Per liberarsi dalle guerre: Resistenza. Da ottant’anni il nostro modello”: con
queste parole d’ordine è stato lanciato il 25 aprile 2025 del
quartiere Quarticciolo, a Roma, nell’ottantesimo anniversario della Liberazione
dal nazifascismo.
La giornata prevede diversi appuntamenti. Il ritrovo è fissato per le 9.30 del
mattino con l’omaggio ai partigiani e alle partigiane. Segue, con concentramento
alle ore 10 in Piazza delle Camelie, lo storico corteo antifascista che
attraversa i quartieri di Roma est (in particolare Centocelle e Quarticciolo).
Nel pomeriggio, invece, l’appuntamento è con il grande concerto al parco Modesto
Di Veglia al Quarticciolo. Sul palco sono previsti concerti e reading con, anche
quest’anno, diversi nomi importanti del mondo dello spettacolo:
da Gemitaiz a Margherita Vicario, da MicheleRiondino a Valentina Lodovini e
molti altri.
Su Radio Onda d’Urto abbiamo presentato l’iniziativa insieme a Michele, compagno
di Quarticciolo ribelle.
Di seguito il comunicato di lancio del 25 aprile 2025 al Quarticciolo, Roma:
“E’ il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo […] Per ben due
mesi tedeschi e fascisti rinunciarono, addirittura, ad entrare nei quartieri
Centocelle e Quarticciolo a causa delle fulminee azioni dei giovani resistenti
della zona, guidati da Giuseppe Albano, detto il Gobbo […] Sicuramente fu la sua
banda, la prima, a reagire alla rappresaglia delle Ardeatine”.
Quarticciolo nasce durante la resistenza e con la resistenza. Un piccolo
quartiere abitato da persone molto povere. Agli inizi degli anni ’40 le prime
case vennero assegnate a famiglie numerose, vedove di guerra, mutilati,
combattenti. Il resto degli appartamenti vennero occupati in seguito ai
bombardamenti del ’43. Durante i mesi dell’occupazione tedesca, la borgata fu la
zona operativa di alcune note bande partigiane, come quella capeggiata dal
Gobbo.
Un pezzo di storia della Resistenza romana scritto da persone comuni, lavoratori
e banditi, studenti, contadini, persone coraggiose e indisciplinate. E’
impossibile farne una descrizione non contraddittoria.
Rispetto alla narrazione ufficiale del partito comunista, fuori dal CLN, rimane
una resistenza di confine: quella delle borgate, territori per decenni
considerati né campagna né città ed esclusi dalle cartine di Roma.
È qua che le illusioni della liberazione dai nazifascisti si infrangono nel
perdurare di condizioni di vita durissime per i proletari, è qua che la fine
della Resistenza viene vissuta come un tradimento.
A 80 anni dal 25 aprile del 1945 al Quarticciolo, come nel resto delle borgate,
quel bisogno di resistenza è ancora estremamente attuale, per non essere
considerati abitanti di serie B, per veder riconosciuti i diritti più basilari.
Un piccolo quartiere che ha dovuto lottare per tutto, che in questi mesi ha
avuto il coraggio e la forza di mettersi di traverso a una decisione presa dal
governo Meloni sulla propria pelle: il decreto Caivano bis.
Quest’anno, il passaggio del corteo del 25 aprile attraverso le vie della
borgata e la giornata di festa che vivremo insieme in un parco intitolato a un
partigiano dell’VIII zona, Modesto di Veglia, ha un significato particolare.
Traccia un filo rosso fra la Resistenza per le vie della borgata di allora e
quella di oggi: da 80 anni il nostro unico modello.
da Radio Onda d’Urto
Seguendo il filone di approfondimenti sulle estreme destre e i movimenti antifa
in Europa – ad Harraga in onda su Radio Blackout – abbiamo avuto l’occasione di
fare un tuffo…
COSTRUIAMO INSIEME LO SPEZZONE SOCIALE
Main Hall Campus Luigi Enaudi - Lungo Dora Siena 100/a
(mercoledì, 23 aprile 18:00)
Verso un primo maggio di lotta: costruiamo insieme lo spezzone sociale
Abbiamo bisogno di incontrarci, confrontarci e organizzarci: costruiamo un primo
maggio di espressione sociale, di lotta e di resistenza.
La guerra si scaglia ogni giorno contro le donne, contro i giovani, contro i
lavoratori e le lavoratrici a cui non viene concesso nemmeno un contratto
nazionale, devasta i territori, ammazza i proletari. Contro il riarmo di
un’Unione Europea sinonimo di ipocrisia e vassallaggio, contro la guerra
utilizzata come mezzo per garantire un’egemonia statunitense in crisi, per dire
basta al genocidio a Gaza, per reagire nella pratica ai tentativi di
restringimento di spazi di agibilità.
Oggi il governo italiano svela il suo vero volto, barcamenandosi tra propaganda
sovranista di facciata e la formale e sostanziale adesione ai diktat del partito
della guerra che, trasversalmente, accomuna tutti i governi “democratici”
europei.
La guerra non arricchisce nessuno, la necessità di solidificare le istanze che
vi si oppongono in una prospettiva di lotta e conflitto sociale é la nostra
unica possibilità.
Iniziamo costruendo la nostra partecipazione allo spezzone sociale il primo
maggio: per questo incontriamoci in assemblea pubblica in Main Hall al Campus
Luigi Einaudi mercoledì 23 aprile alle ore 18
Lunedì 21 ore 13,30 – Kfc murder chicks – Radio Blackout set 28 minuti [Kfc
murder chicks, Radio Blackout]: KFC Murder Chicks sounds like a dangerous
mixture of Death Grips, Boards of Canada, pure white trash flooded out of
televisions, crooked beats from worn out tapes and a pinch of digital folklore.
Martedì 22 ore 15,30 […]
Levante: nuova puntata, ad aprile 2025, dell’approfondimento mensile di Radio
Onda d’Urto sull’Asia orientale, all’interno della trasmissione “C’è Crisi”,
dedicata agli scenari internazionali.
In collegamento con noi Dario Di Conzo, collaboratore di Radio Onda d’Urto e
dottorando alla Normale di Pisa in Political economy cinese e Felice Farina,
ricercatore all’Orientale di Napoli, docente di Politiche e istituzioni del
Giappone contemporaneo sempre all’Ateneo partenopeo e autore, tra i vari lavori,
del libro “La via della soia. Una storia politica, economica e diplomatica del
Giappone contemporaneo“, volume dedicato alla strategia “gastronazionalistica”
del Giappone, volta a una “riappropriazione culturale della soia e alla sua
(ri)trasformazione in un food from somewhere”
Nella puntata odierna andiamo in Giappone, facendo il punto sulla politica
domestica del Paese nipponico e sugli scenari internazionali del quadrante
asiatico, che riguardano da vicino anche Tokyo, a 80 anni esatti dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale, con le due bombe nucleari Usa che colpirono
Hiroshima e Nagasaki, lasciando un segno profondo sulla coscienza collettiva e
sulla politica giapponese, dentro e fuori i propri confini nazionali.
La puntata di aprile 2025 di “Levante” con Dario Di Conzo e Felice Farina,
dedicata al Giappone. Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
È iniziata il aprile a L’Aquila la sessione in Corte d’Appello del processo
all’attivista cisgiordano Anan Yaeesh, arrestato in Abruzzo con Alì Irar e
Mansour Doghmosh (e ancor oggi detenuto) per fatti accaduti a Tulkarem. Un
processo iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni
evidenza a una “sentenza già scritta” Manteniamo alta l’attenzione sul processo
da Osservatorio Repressione
“Cara, sapevo che la Corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in
Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei
che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo. Ma non
temere, non siamo finiti, e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo
il potere nelle nostre mani” (Da una lettera di Anan Yaeesh del 10 aprile)
È iniziato il 2 aprile a L’Aquila il processo in primo grado ad Anan Yaeesh, Ali
Irar e Mansour Doghmosh, per fatti che sarebbero accaduti a Tulkarem,
Cisgiordania occupata.
E’ iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a
una “sentenza già scritta”:
* sono state ammesse al dibattimento le “prove” raccolte dalle autorità
israeliane e dallo Shin bet sulla base di interrogatori svolti nei Territori
occupati, senza la presenza degli avvocati difensori e su cui grava “il
sospetto” – per usare un eufemismo – di torture;
* la lista dei testimoni della difesa è stata falcidiata (ammessi 3 testimoni
su 47 e per un unico imputato);
* il Giudice ha fatto sgomberare l’aula dalla presenza dei solidali dopo le
proteste contro il palese stravolgimento delle parole di Anan Yaeesh da parte
dell’interprete, egiziana.
* E’ stato fissato un calendario di udienze fittissimo per logorare la
solidarietà e far calare l’attenzione dei media su questo caso (16 aprile – 7
maggio – 21 maggio – 18 giugno – 25 giugno – 9 luglio).
Esigua o praticamente nulla era infatti la presenza dei giornalisti in aula
nell’udienza del 16 aprile, dove tra l’altro non compariva, negli schermi della
videoconferenza con cui era collegato Anan dal carcere, l’inquadratura sulla
difesa e sul pubblico, quasi a volergli negare un sostegno, anche solo visivo.
E così è proseguito il processo il 16 aprile. Un processo politico di cui si
dichiarava in maniera ossessiva la neutralità, evitando con pervicacia che si
parlasse del contesto violento e coloniale in cui si sarebbero svolti i fatti.
Uno scenario politico che nonostante gli sforzi per ostracizzarlo, è emerso
inevitabilmente, con la naturalezza che gli spettava già al primo testimone
palestinese dell’accusa:
* è bastato per lui fornire le proprie generalità (un palestinese di Sidone),
per scoprire che si trattava di uno dei 2 milioni di palestinesi cacciati via
dall’occupazione militare israeliana durante la prima nakba, nel ‘48.
Una farsa giudiziaria che si è disvelata per quello che è, man mano che gli
interrogatori andavano avanti, fino alle affermazioni del perito balistico,
chiamato a testimoniare dall’accusa sulla natura dell’arma visibile in una foto
dei tre imputati:
* si trattava di un’arma giocattolo, di plastica, e per giunta non funzionante
* Ma la reale natura di questo processo è emersa con forza dalla dichiarazione
spontanea di Anan (quella del 2 aprile è rimasta imprigionata in una
traduzione fedele ad Israele, piuttosto che alla sua testimonianza):
“Oggi non parlo della causa palestinese, ma parlo di altre cose, perché avete
chiesto che non dobbiamo fare entrare la politica nell’aula di tribunale. Però
io credo che siamo qua per una decisione politica e non giuridica”
[Il giudice interrompe, ripetendo ossessivamente che in aula si prendono solo
decisioni giuridiche e costringendo l’avvocato a intervenire. La difesa fa
notare che in una dichiarazione spontanea dell’imputato, non c’è la possibilità
di un confronto con la Corte. La Corte può non apprezzare quello che intende
dire l’imputato, ma lo deve lasciar parlare, poi magari potrà motivare in ordine
a quello che dice l’imputato, ma non può contestare quello che pensa l’imputato.
Il giudice interrompe ripetutamente anche la difesa, chiedendo se anch’essa la
pensi come l’imputato, e l’avvocato risponde giustamente che nel codice di
procedura penale non è ancora previsto l’esame del difensore. “Poi lo
controlliamo, ma penso di no” è la risposta con cui il giudice finalmente si
tace, prima di ridare la parola ad Anan].
“Io sono qua per un motivo politico, perché non ho commesso alcun reato contro
la legge italiana in Italia. Però rispetto la decisione di non far entrare la
politica dentro l’aula del tribunale. Perché voi usate la politica per
giudicarmi, perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana dovete
considerare tutti i documenti e tutti gli atti della comunità internazionale che
voi riconoscete. E dovete considerare che tutti gli enti internazionali
riconoscono che nelle prigioni israeliane si pratica la tortura e le regole dei
diritti umani non vengono rispettate.
Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete preso invece in
considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo
israeliano.
Signor giudice, voi non mi avete dato il diritto di difendermi. La stessa cosa
succede nei tribunali di Israele.
Avete preso in considerazione i testimoni dell’accusa e invece non avete preso
in considerazione la mia testimonianza.
Il procuratore ha usato dei documenti stranieri contro di me, però avete
rifiutato i documenti che ho presentato io e avete deciso di non sentire i
testimoni che ho proposto io, questo contro la legge in Italia.
E mettete fretta quando parlo io, e mettete fretta anche quando parla la mia
difesa.
Non volete darci il tempo che ci serve per parlare, come se, dopo l’udienza, io
tornassi alle isole Maldive e non in carcere.
Questo perché avete fretta di finire la causa invece di applicare la giustizia.
Sento di essere tanto oppresso, sento che sto subendo una grande ingiustizia in
questo tribunale. Come se fossi in un tribunale finto, come successo in Francia
contro gli algerini o come avviene in un tribunale militare in Israele.
Se quello che sento è giusto, significa che la mia condanna è già decisa.
Allora emettete la vostra condanna!
Non è necessario fare tutte queste udienze!
Così sconto quello che devo scontare in prigione tutto il tempo!
Se invece questo tribunale rispetta la democrazia e rispetta i vostri diritti
come umani, e se abbiamo il diritto come gli altri popoli di vivere in libertà,
allora dovete darmi i miei diritti come essere umano, perché abbiamo già subito
abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani.
Dovete lasciarci in pace!
Viva la resistenza palestinese, fino alla libertà!”
Al termine dell’udienza del 16 aprile, la Corte si è riservata di deliberare,
nell’udienza del 7 maggio, sull’eccezione presentata dalla difesa, che ha
presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrare
l’inammissibilità dell’acquisizione dei verbali degli interrogatori dei
prigionieri palestinesi.
Il 21 maggio invece, dopo l’avvenuta traduzione delle chat ad opera di un perito
della Corte di Assise sui telefonini degli imputati, verranno ascoltati i testi
della Digos
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(disegno di marco di pietro)
Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume
agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il
quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo
contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di
mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor
di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente
sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i
continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una
dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello
che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo
nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente.
Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere
che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle
rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche,
ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo
dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono
quasi profetici se si considera la data di uscita del libro (28 febbraio) e
quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle
quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci
dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume
di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito
educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è
proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile
complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto
irriducibili semplificazioni?
Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità,
rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia
che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che
più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile
forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi
può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo
subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è
e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una
bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani
studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente.
Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di
conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando
questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe
essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso
vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento,
sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale
durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel
nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un
esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia
spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e
sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali.
Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre
stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle
rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del
mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo,
doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti
culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi,
immutabili e neutrali.
La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e
territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno
assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello
dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente
comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare
di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti
nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema
frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul
quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della
superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali
viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non
ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole
l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa
parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere
a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo
contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale
fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama
immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato
e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo
caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa,
dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera
critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza
dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi.
Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano
presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e
sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura,
per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O
meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e
assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei
banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi.
Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio
alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai
quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per
la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La
scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta
contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e
intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi
farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni
autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle
migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità
presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali,
finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta
neutralità e omogeneità nazionali.
Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in
meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza
incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e
complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in
maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna
l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in
voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)