Free Shahin! Appello alla mobilitazione
Condividiamo di seguito l’appello alla mobilitazione lanciato dalla campagna Free Mohamed Shahin. Apprendiamo con grande preoccupazione del mandato di rimpatrio emanato dal ministro Piantedosi su richiesta della deputata Montaruli nei confronti di Mohamed Shahin, compagno, amico e fratello. Figura centrale delle mobilitazioni per la Palestina di Torino per Gaza e colonna portante per la comunità musulmana e per il quartiere di San Salvario. Mohamed è stato prelevato dalla sua abitazione e portato nel centro di rimpatrio di Torino prima e in quello di Caltanissetta adesso, dopo avergli revocato il permesso di soggiorno di lunga durata e richiesto la sua immediata deportazione per l’Egitto, paese nel quale Mohamed è considerato un dissidente politico del regime. Un’azione che lo espone a un rischio concreto di arresto, tortura e detenzione a vita, se non la morte. Mohamed è conosciuto da tutta la città di Torino per il suo forte impegno a far dialogare le diverse ed eterogenee comunità religiose con l’umiltà e la coerenza che lo contraddistinguono. Un’uomo che ha sempre parlato di pace, di pace tra i popoli che come gli piaceva sempre dire non hanno nazioni, colori, bandiere e religioni. Mohamed vive in Italia da più di vent’anni con la moglie e i suoi figli piccoli che hanno dovuto assistere all’arresto del proprio padre consapevoli del futuro che lo Stato gli vuole riservare: la condanna a morte. Il suo arresto si fonda sulle opinioni, sull’idea di un mondo libero dalla violenza del genocidio e della guerra, sulla partecipazione alle manifestazioni condotte in città in questi ultimi mesi, manifestazioni nelle quali eravamo tutti e tutte presenti. Permettere oggi che Mohamed venga deportato in Egitto, significa colpire ognuno e ognuna di noi, significa permettere che ci venga sottratto l’ennesimo pezzo di libertà, significa far capire al governo che ormai gli è tutto concesso. Vogliono impaurirci, dividerci per fermare l’incredibile sollevazione mondiale per la Palestina. Non ce la faranno. Pretendiamo l’immediata scarcerazione di Mohamed e la cancellazione di ogni richiesta di deportazione politica. L’accanimento nei confronti di Mohamed è il tentativo di tagliare le gambe al movimento ma soprattutto di intimidire coloro che ne fanno parte e sono più ricattabili perché senza cittadinanza o con una cittadinanza che può sempre essere revocata, noi dobbiamo rispondere alla paura con la forza della solidarietà dimostrando che uniti si può vincere. La nostra risposta è uno stato di mobilitazione permanente, quotidiana, fino a quando Mohamed non sarà libero di tornare tra di noi. Facciamo un appello immediato per: * Una mobilitazione sotto le prefetture cittadine diffusa in tutti i territori nella serata di mercoledì 26/11 (domani) * Attivare una campagna che si articoli con forza nel territorio di Caltanissetta Nessuno può essere deportato per aver supportato la liberazione della Palestina. FREE SHAHIN-FREE PALESTINE
Quando il popolo si organizza, il sistema vacilla
L’ultimo periodo di lotte ha mostrato che il potere trema solo quando il popolo smette di obbedire. Questo testo parla di quella rottura e di perché dobbiamo tornare a farla esplodere ovunque. da SAI – Scrivania Autogestita d’Informazione La missione della flottilla è stata uno affronto diretto alla passività imposta dall’alto. Non un gesto simbolico isolato, ma una rottura netta dell’ordine stabilito: la dimostrazione materiale che la “normalità” che ci raccontano serve solo a mascherare complicità e calcolo politico. La flottilla ha fatto quello che i governi non hanno avuto il coraggio e la volontà di fare, andare contro la politica occidentale.   Quando le istituzioni voltano le spalle al loro popolo, non è un incidente: è una scelta. E la mobilitazione dal basso diventa allora non solo legittima, ma necessaria. La flottilla ha strappato la maschera a chi predica solidarietà mentre chiude gli occhi. Ha ricordato che l’autorità non è intoccabile, che il potere non è scontato, che chi sta nei palazzi è forte solo finché nessuno li smaschera apertamente. Vedere persone unite in un movimento internazionale muoversi dove i governi restavano immobili ha frantumato la rassegnazione. Ha dimostrato che la paura è un’arma del potere, e che si combatte solo collettivamente. La flottilla ha fatto ciò che spaventa i governi: ha mostrato che la gente può organizzarsi senza chiedere permesso, può agire senza attendere il benestare di nessuno, può entrare in campo direttamente quando la politica è assente. Questo coraggio non è solo romanticismo: è un privilegio,è una presa di coscienza e un atto di responsabilità collettiva. È capacità di costruire un fronte unito capace di proteggere i vulnerabili, di parlare a tuttə senza finzioni e di imporre scelte  che i governi vorrebbero non prendere. È sentimento insurrezionale non nel senso della violenza, ma in quello della rottura della sudditanza. La flottilla ha gridato quello che i palazzi temono più di tutto: non siamo sudditə, non aspettiamo il loro via libera, non abbiamo bisogno della loro autorizzazione per fare ciò che è giusto. Ha ricordato che quando il governo si ritira dalla responsabilità, la democrazia non crolla: semplicemente torna nelle mani del popolo. E in quelle mani, può tornare a fare pressione, rumore e a far cambiare le cose. Tornare al livello di lotta raggiunto in quel periodo è comunque difficile perché lì avevamo rotto qualcosa. Durante questo periodo avevamo incrinato la facciata di un sistema che ci vuole sempre prevedibili, sempre innocui, sempre al nostro posto. Per qualche settimana quel posto l’abbiamo abbandonato. E lo hanno sentito. Oggi quella forza non è svanita: è stata dispersa scientificamente, schiacciata dentro una quotidianità costruita per sfiancarci. Affitti insostenibili, lavori precari, sanità ridotta a privilegio, scuola abbandonata, salari da fame, patriarcato e politiche di guerra. Non sono “problemi” da risolvere: sono ingranaggi precisi dentro una macchina che macina vite e chiama tutto questo “progresso economico”. Gli affitti vengono lasciati impazzire perché una casa sicura ti dà forza, autonomia, tempo per organizzarti.  Invece interi quartieri vengono trasformati in vetrine per turisti, gentrificati fino all’osso, dove un B&B vale più di una famiglia e un affitto breve vale più di una vita stabile. Le case non sono più case: sono investimenti, scenografie, rendite.Meglio averti schiacciat3, costrett3 a cambiare città o quartiere ogni sei mesi, senza radici e senza respiro. Il lavoro precario non è un effetto collaterale: serve a ricordarti che sei sostituibile, che non devi pretendere, che il ricatto del mese dopo vale più dei tuoi diritti. È precarietà come strumento disciplinare, non come incidente di percorso. Mentre ti ripetono che “così funziona il mercato” continuano a spingere le pensioni sempre più lontane, come se dopo una vita intera di lavoro fosse un lusso da conquistarsi a forza di sacrifici. La sanità ridotta a privilegio è un modo brutale per dire chi merita cura e chi può essere lasciatə indietro. E quando curarsi diventa un lusso, ogni malattia è un debito che ti sottrae dignità e possibilità. E il paradosso è che siamo spintə verso il privato perfino da chi dovrebbe difendere la sanità pubblica: ministri e figure istituzionali che, mentre tagliano ospedali e liste d’attesa, possiedono o dirigono cliniche private in cui casualmente l’unico modo per essere curat3 in tempi umani è pagare. La scuola abbandonata è il modo più efficace per strangolare il futuro: se non hai accesso a un’istruzione libera, critica e di qualità, diventi facilmente controllabile. Un paese che non investe nella scuola lo fa perché teme persone autonome, non perché mancano soldi.E mentre tagliano tutto ciò che rende la conoscenza viva, provano a riempire il vuoto con la militarizzazione degli spazi educativi e con una visione occidentale, aziendalista e disciplinare della formazione: meno pensiero critico, più obbedienza; meno mondo, più propaganda. Così la scuola smette di liberare e ricomincia a servire. I salari da fame non sono un errore economico: sono il meccanismo per tenerci in fila, distrattə, intentə a sopravvivere invece che organizzarsi. Se lavori tutto il giorno per non farcela comunque, non hai energie per alzare la testa, figuriamoci per ribaltare il tavolo dei padroni. Per questo rifiutano perfino un salario minimo dignitoso, è chiaro il messaggio: non devono crescere i nostri diritti, deve crescere solo il loro margine di ricatto Dentro questo sistema, il femminismo non è un accessorio: è un coltello che taglia a fette la verità. Lo sfruttamento non è neutro, opprime in modo diverso corpi diversi, e chi lo nega lo fa perché quel sistema gli conviene. Se la trasformazione non mette in crisi il potere su cui si regge il patriarcato, non è trasformazione: è una toppa. Perché, come ormai è chiaro a tuttə, questo sistema non è “rotto” ma è stato costruito così apposta, per arricchire poch3 e consumare tutt3 gli/le altr3. E in questa architettura di oppressione, il riarmo non è un dettaglio tecnico: è il carburante che tiene in piedi un ordine mondiale basato sulla guerra, sulle gerarchie e sul sacrificio di interi popoli. Il genocidio in Palestina non è un’eccezione lontana: è la prova più feroce di cosa produce un sistema che preferisce finanziare bombe invece che diritti, che chiama “sicurezza” la distruzione di vite, che normalizza l’orrore purché serva agli equilibri del potere. E allora basta aspettare il “momento giusto”. Il momento giusto non arriva: si crea. La lotta va riscritta, con altri codici e altre parole. Va riportata nei luoghi dove ogni giorno ci tolgono dignità: nei porti, negli ospedali, nelle aule, negli uffici, nei quartieri dove sopravvivere è già resistenza. Il conflitto c’è già: basta smettere di ignorarlo. Dobbiamo tornare a essere forza che rompe la narrazione, che fa saltare la normalità, che non si fa addomesticare. Non ci interessa essere tolleratə: vogliamo essere ciò che non riescono più a contenere. Ed è così che, come diceva il “Compagno Orso”, ogni goccia diventerà tempesta. La flottilla ci ha insegnato che quando agiamo senza paura di essere scomodi, gli equilibri cambiano. Adesso serve farlo qui, sulle ingiustizie che ci attraversano ogni giorno, sulla pelle di tuttə. L’alternativa siamo noi quando smettiamo di accettare la stanchezza come destino, la precarietà come inevitabile, la rassegnazione come normalità, la repressione come giustizia e il patriarcato come unica via. E allora eccolo il punto: tocca a noi spingere dove fa male, aprire crepe dove non se lo aspettano, rilanciare il conflitto politico e sociale finché questo modello non regge più. Non per distruggere a caso, ma per costruire ogni possibilità che oggi ci viene negata: uguaglianza, dignità, redistribuzione, cura, diritti veri, vite vivibili, autodeterminazione. Nessun messaggio rassicurante quindi, nessuna promessa vuota e nessuno slogan. Solo una certezza: la trasformazione non arriva se aspettiamo. Arriva quando decidiamo che non ci basta più sopravvivere, ma scegliamo di resistere. Questa non è la battaglia di qualche militante è la battaglia di chiunque abbia capito che questo sistema ci vuole stanchə, piegatə, silenziatə, normalizzatə. Noi non saremo nessuna di queste cose. L’alternativa non è lontana, non è utopia: è nelle nostre mani, nella capacità di organizzarci, di coordinare la rabbia e trasformarla in forza concreta, proprio dove il sistema prova a schiacciarci. Muoviamoci collettivamente, perché solo così possiamo rendere visibile ciò che oggi il potere vuole invisibile. Il momento di agire è adesso, e non possiamo più rimandare. Articolo di Simone D’Aversa del Gruppo Autonomo Portuali di Livorno
Un assaggio di libertà. La storia del Chiosco blu di Ferrara
(disegno di lorenzo la rocca) “Cònia, la cui falsa etimologia deriva dal cono, è una scuola che dalla montagna trae alcuni caratteri: rarefazione dell’aria, altezza panoramica, isolamento, distacco. In queste ideali condizioni si collocano lo studio e l’esercizio intorno al nodo della rappresentazione del mondo operata dall’arte in generale, nelle sue implicazioni storiche e sociali, e dall’arte come tecnica personale”. Così la Socìetas Raffaello Sanzio nata a Cesena nel 1981, presenta la Scuola Cònia diretta da Claudia Castellucci, il corso estivo triennale di Tecnica della Rappresentazione. È qui che ho incontrato Matteo, ventisette anni, che, arrivato alla terza annualità, costruiva la sua performance. «Posso iniziare dall’esperienza a Cònia, nata in concomitanza con l’attività del Chiosco. Ho aperto il chioschetto al Lido di Spina, una frazione di Comacchio, una località balneare in provincia di Ferrara, dove mio padre ha uno stabilimento balneare. La mia estate l’ho vissuta sempre lì, con le hit italiane degli anni Ottanta della Riviera Romagnola. Il Lido di Spina non è la Romagna, però ha un po’ quella vibe, figli che mandano avanti il lavoro dei genitori, o ragazzi che hanno creato gruppo. Lavorando da sempre con mio padre, ho cominciato ad avere i miei primi guadagni, ma non mi sono mai trovato a mio agio, c’è stata una continua sensazione di distanza. Ho studiato al liceo artistico di Ferrara, però abitavo fuori dal centro e non sono mai riuscito a integrarmi, ero un po’ outsider; mentre in estate non avevo un ruolo preciso, ero conosciuto come il figlio del proprietario. FOTOGRAFIA «Dopo il liceo sono andato a Padova a studiare fotografia e lì ho capito che la fotografia commerciale non mi bastava, volevo di più e nel 2019 sono riuscito ad avere un contatto per lavorare a New York nei due mesi estivi. Ho sempre fatto questa altalena, fare esperienze nel mondo e tornare in provincia, uscire e ritornare… Tornato da New York, l’esperienza che mi ha fatto innamorare della fotografia è stata lavorare come assistente nel collettivo Cesura, a Pianello Val Tidone, provincia di Piacenza, fondato dagli assistenti del fotografo della Magnum Alex Majoli. «Dopo i primi tre mesi che ero in studio a spazzare per terra, a fare un po’ lo sgargino, ho avuto la fortuna che Majoli avesse bisogno di un nuovo assistente e tutti gli altri erano già stati presi. Sono diventato il suo assistente, rimanendo con lui per tre anni. Avevo ventidue anni, era l’anno del Covid. «Gli avevano proposto di documentare il Covid per tutta Italia, ed è stato un po’ obbligato ad accettare la mia presenza. Questo ci ha legati molto. Ho passato tre anni duri, che mi hanno aiutato a vedere il mondo in un modo completamente diverso, ad amare l’arte, a non vederla più come un hobby. «Alex Majoli è un fotogiornalista, io gli reggevo le luci. Nelle sue foto c’è un approccio teatrale alla realtà, fa delle foto che sembrano costruite. Siamo andati in ospedali, case private, abbiamo seguito medici che andavano a fare i tamponi. Abbiamo attraversato molte delle dinamiche del Covid, dai cimiteri ai corpi che venivano bruciati nella bergamasca. Tutte le dinamiche possibili di questa pandemia, avendo come soggetto medici e pazienti. «Dopo tre anni col mio maestro, ho deciso di dedicare il mio tempo alla fotografia e sono tornato a vivere a Ferrara dai miei, perché avevo comunque bisogno di denaro, non avevo più soldi. Non venivo pagato per l’assistentato, quindi lavoravo d’estate. «Torno a lavorare per mio padre, torno a farmi l’estate a Lido di Spina, però con una visione diversa dopo la pandemia. Inizio a fare dei ritratti tutte le sere, quando tornavo da lavoro, nel bar sotto casa. Il secondo anno faccio ancora un sacco di foto, le unisco alle altre e iniziano a dirmi qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa. Mi attraevano, ma non riuscivo a dargli un nome: questa espressione è tristezza o felicità? È gioia? Rispecchiavano esattamente la situazione che c’era in provincia d’estate. Volevo farci un libro, ma mi sono detto, perché invece di un libro fotografico inaccessibile, difficile da mostrare alle persone, non provo a cambiare quella realtà lì? La Scuola Cònia mi ha aiutato a viverla come una performance: e così ho pensato al Chiosco. CHIOSCO «A cento metri dal mare mio padre aveva un chiosco per vendere gelati e bottigliette d’acqua, un servizio del suo stabilimento. Gli ho detto “ti ripago i settemila euro che tu fai in una stagione, e noi facciamo quello che vogliamo”. Ero sicuro di quello che stavo facendo, sapevo che poteva funzionare: avevo il problema, avevo la soluzione, e non vedevo nessuna interferenza nel mezzo. «Ho aperto il chioschetto blu. Volevo un pugno nell’occhio, tra questa sabbia pastello e questo cielo, queste piadine. Vado a Parigi e cerco quel colore perché ero andato in fissa, volevo quel colore lì perché non è un blu casuale, un blu che ha fatto anche una certa storia nell’arte. Ho iniziato a sperimentare con tutto quello che ruotava intorno a questo chiosco. I miei clienti non erano clienti, erano ospiti, cercavo di mantenere un rispetto e un concetto di casa, più che di servizio. Il nome Chiosco blu era per essere riconosciuto su Instagram, era semplice. «Poi ogni anno gli davo un nome diverso. Il primo anno si chiamava La cabina di Despina, lì c’era il gioco delle due spine, e anche un racconto delle Città invisibili di Calvino, che parla di una città tra deserto e mare, un porto costantemente influenzato da altre culture. «La tematica portata avanti nel primo anno era concentrata sull’accogliere chiunque fosse perso, perché era un po’ anche la mia storia: mi ero perso in questa provincia e ho voluto ricreare questa casetta, per sentirmi libero di esprimere quello che volevo, per creare collettività, creare gruppo, anche attraverso le feste. «Il primo gesto per convincere i ragazzi a venire è stato fare le feste di lunedì, il giorno della settimana che tutti odiano. Chiamavo i dj, o persone che avevano il sogno di fare il dj, ma la piccola provincia non gli dava la possibilità di fare. Un amico tornato da Londra è caduto in depressione, faceva fatica a ripartire e cercava costantemente delle fughe, tra alcool, droga, eccetera. Un giorno gli ho detto, facciamo una cosa, domani facciamo una festa e te sei il dj, ti do anche cinquanta euro. Ha iniziato a farlo, è diventato il resident… «I primi lunedì sono venute venti persone, poi cinquanta, poi cento, pian piano siamo arrivati a Ferragosto che sono arrivate settecento persone, e lì ho conquistato l’amore e la fiducia, perché rompevo un po’ gli schemi… La festa di Ferragosto l’abbiamo fatta fino alle nove del mattino, era palesemente illegale, però l’abbiamo organizzata bene, non era un rave, non c’era politica, non c’era niente in mezzo, c’erano semplicemente dei giovani che volevano divertirsi, ascoltare della musica buona, bella, ricercata. C’era il dj che veniva lì per fare il dj, e cambia tutto quando quello che fai si slega dal guadagno. «Il Lido di Spina ha una spiaggia lunghissima. C’è lo stabilimento di mio padre che fa ristorante, piadine, eccetera, poi c’è tutta la distesa di ombrelloni che si fermano a duecento metri dal mare; in questi duecento metri lui ha altri cinquanta metri di concessione e qui era collocato il chioschetto, a cento metri dal mare. Ero sotto lo stabilimento balneare, però questa distanza fisica mi creava libertà nella gestione delle cose; non comunicavamo, se facevamo una festa contemporaneamente, non si sentiva neanche. «La prima serata non c’era ancora niente, poi ho costruito tutto io, insieme a dei ragazzi che mi davano una mano. Il dj era stanco, ma volevamo continuare a ballare. Ho chiesto, c’è qualche dj? Uno ha alzato la mano e ha detto, è una chiavetta con la musica, non la porto mai con me, ma stasera… Questo ragazzo ha suonato, e ha spaccato. Adesso è diventato dj art-techno, suona spesso ad Amsterdam, viene da Palermo. Non so perché da Palermo fosse finito qui, ma questo è un po’ il concetto di viandante che intendevo, sono arrivate persone da ovunque. Anche dei dj da Londra. Perché lavoro come fotografo per un collettivo in Inghilterra, e in tre anni di lavoro non mi hanno mai pagato. Quando ho aperto il chiosco gli ho detto, voi non mi avete mai pagato, venite, io non vi pago. Quindi ho fatto suonare gratis dei dj che non sarebbero mai venuti a Ferrara. «Poi facevo delle esposizioni con le mie foto. La cosa bella della spiaggia è che puoi piantare un palo in tre secondi. Creare e modificare lo spazio come vuoi. Avevo fatto tutta una serie di fotografie che delimitavano lo spazio per danzare, c’erano vari allestimenti, sperimentavo anche con le stampe, poi con le tende. Cercavo delle scenografie. Poi ho comprato delle lampade di carta che sono diventate simboliche, richiamando un po’ la casa. Contemporaneamente facevo la Scuola Cònia che mi aiutava a pensarla, la casa. CASA «Quando parlavo con mio padre, mi diceva di smetterla di fare le feste. Succede nei paesi, provano a farti vedere problemi che non esistono; soprattutto se hai una buona idea, non ne sono contenti, provano invidia. Non trovi mai quello che ti dà una pacca sulle spalle e dice, cazzo, fai una cosa fantastica! «Poi pian pianino ho trovato le mie energie, chiamavo un sassofonista e lo facevo suonare col dj. Tutta sperimentazione che poi veniva da Claudia Castellucci. Ho usato molti concetti della Scuola Cònia, come la Teoria dello sfondo, o la Teoria dello spazio e altri approfondimenti sull’arte e la rappresentazione fatti lì, per applicarli nel mio chioschetto. «Il secondo anno, ancora più carichi, siamo arrivati con il budget dell’anno precedente. Avevo preso dei divani in Marocco con un mio amico, e lì abbiamo raccolto un sacco di idee. Questi grandi divani marocchini, come materassi, fatti tappezzare tutti blu, li avevo messi all’unico grande tavolo che c’era, dov’eri obbligato a socializzare con altra gente, e sono successe cose fantastiche: la nonnina col bambino e i due ragazzi magari un po’ burini, una coppia che litiga e tutti a provare a risolvere il problema… Mi piaceva giocare con questa realtà nuova, con queste persone che si sentivano a loro agio. Avevo trovato delle diapositive di vecchi quadri e li ho messi a disposizione; durante le serate si creavano collettivi di gente che suonava, un vero spazio di creazione, di libertà. Abbiamo fatto una festa anche con i collettivi di Bologna e sono venute mille persone. All’alba avevo tutta la spiaggia piena di gente, con ragazzi che ballavano anche in mare, bellissimo! E lì sono iniziati ad arrivare anche problemi legati al Comune, alla legalità… «Non ti ho detto che il primo anno i club e le discoteche che suonano musica commerciale mi avevano già mandato i controlli, chiamando i carabinieri: “c’è un chioschetto blu in riva al mare, andate a vedere”. Una discoteca storica di Ferrara aveva paura di un’attività aperta da un anno. Io e mia sorella di diciannove anni, che mi ha aiutato a ritinteggiare di blu un chioschetto di tre metri per tre, e questi qua ci mandano i carabinieri. «Io me ne fregavo, mi hanno mandato i carabinieri il primo anno alla fine della stagione e ho pagato la multa. Il secondo anno ho cominciato ad avere un po’ di paranoie, poi ho fatto due feste e mi sono detto, ne pago dieci di multe. Però ad agosto c’era davvero tanta gente, e i problemi potevano diventare molto più grossi; non avevo buttafuori, avevo gente che pagavo trenta euro con la maglia della security, trovata magari al mercatino dell’usato. Stavo iniziando a spaventarmi un po’ di quella realtà lì e quando ho provato a rendere questa cosa legale e a cercare un modo per far sì che diventasse un lavoro, ho capito che era una cosa campata in aria, fluttuante, temporanea, non poteva essere nient’altro. È stato un assaggio di speranza, un assaggio di libertà. «A volte i clienti dello stabilimento di mio padre chiamavano i carabinieri. Io non volevo fare il ribelle, volevo che quella cosa funzionasse perché era casa mia, quindi mi adattavo. Avevamo tutte le casse rivolte al mare, e andavo su al bar di mio padre per sentire se effettivamente davo fastidio, perché se do fastidio è giusto che chiudo, però, se non do fastidio c’è un problema, stiamo parlando di repressione. «Il secondo anno, dopo questa grande festa, anche mio padre ha iniziato a mettersi contro questa attività, aumentando l’affitto. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, perché funzionava tutto perfettamente, però man mano che cresceva, sempre più parassiti arrivavano e volevano soldi: un fornitore faceva il furbo e mio padre aumentava l’affitto, poi ci mandavano delle multe… C’è stato un gran litigio. «Ho mollato, perché non capivo più niente. Mi dicevano non puoi fare niente, ma se hai un po’ di coraggio, lo puoi fare. Cosa vuol dire? Si può lavorare così? Ho iniziato ad avere quest’ansia, questa difficoltà anche a organizzarmi, perché se chiamavo un collettivo da Milano e poi non suonavano, che figura ci facevo con i clienti. Non riuscivo a proteggere la mia casa e quindi, citando la mia performance di domani qui a Scuola Cònia, questa casa l’ho indossata e me ne sono andato in Francia con l’idea di potermi vestire ancora di queste pareti e recuperare quello che ho raccolto in questo chiosco. FUOCO «Per rendere questa cosa simbolica ho deciso di dargli fuoco alla fine dell’anno, a settembre. È stato un rituale, ero contento. Non era un addio, gli dava un valore temporaneo, dava un valore al mio rapporto con la città di Ferrara. Ho provato a fare qualcosa per questa città ma ho capito che non era la mia lotta. Se la tengano la palude riqualificata, adesso se la riprenderanno, non lo so. «L’atto più rispettoso che potevo fare era di bruciare questa casa, un atto di purificazione. Volevo liberarla, questo è il primo motivo. Un altro motivo per il quale l’ho bruciata è stato che mio padre voleva darla in gestione, con una leggerezza… senza riconoscere tutto il mio lavoro. Non potevo permettere che il mio chiosco blu fosse gestito da altri, perché è stata casa mia. Questo mi ha dato la rabbia per bruciarlo, ero obbligato, non potevo fare altro, potevo solo bruciarlo. Non potevo farlo abitare a qualcun altro. «Si è bruciato anche il rapporto con mio padre e con tutta la mia famiglia. Sono stato da settembre a novembre a Ferrara, e poi sono fuggito, non riuscivo più a reggere tutto quello che mi stava intorno, lo sentivo soffocante, stavo iniziando a prendere brutte abitudini. Dopo che ho bruciato la casa, tutto intorno a me ha iniziato a bruciare, dalla relazione familiare, alle relazioni con gli amici, alle relazioni amorose, tutto si è fatto terra bruciata e una sera ho preso un volo e sono andato in Francia. «Quest’anno ho ricominciato un’altra vita e sono tornato viandante come quando ho costruito il chiosco. Sto cercando un’altra realtà che mi accolga. È la prima volta che torno in Italia dopo mesi che sono fuori, sono tornato per la Scuola Cònia, perché fa parte di questo percorso, e lo chiuderò con questa performance, che rappresenta un po’ il mio esodo da questa casa». (daniele balzano)
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